Acido Politico

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Mensile universitario gratuito di politica, cultura e società ANNO III, NUMERO 24 - SETTEMBRE 2008

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2008_settembre

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Mensile universitario gratuito di politica, cultura e società

ANNO III, NUMERO 24 - SETTEMBRE 2008

Speciale Georgia di Matteo Manara e Francesco Russo 

Esteri

MENSILE UNIVERSITARIO GRATUITO

DI POLITICA, CULTURA E SOCIETÀ

DIRETTO DA

FLAVIO BINI LEONARD BERBERI

IN REDAZIONE

ANA VICTORIA ARRUABARRENA DANIELA BALIN

LUCA SILVIO BATTELLO ANTONIO BISIGNANO MICHELE CAPACCIOLI

LUCA CERIANI BENEDETTA DE MARTE

ARMANDO DITO LUCA FONTANA

MARCO FONTANA MATTEO FORCINITI STEFANO GASPARRI

MARZIA LAZZARI DARIO LUCIANO MERLO

GIULIA OLDANI FRANCESCO RUSSO LAURA TAVECCHIO

COLLABORATORI ILARIA ALESSIO

MARCO ANDRIOLA DANILO APRIGLIANO

YASSIN BARADAI FILIPPO BASILE PIETRO BESOZZI GUIDO BETTONI GIULIA BRASCA

ALESSANDRO CAPELLI STEFANIA CARUSI

ROSA ANNA CASALINO ALESSANDRO CASOLI

ALESSANDRO CHIATTO ALESSIA CREMASCHI ANDREA DI STEFANO ANDREA FUMAGALLI

JACOPO GANDIN GABRIELE GIOVANNINI

DANIELE KESHK MATTEO MANARA STEFANIA RIVA

IMPAGINAZIONE & GRAFICA

LEONARD BERBERI

CONTATTI [email protected]

SITO WEB

www.acidopolitico.com

WEBMASTER ALESSANDRO LEOZAPPA

STAMPA

“Mediaprint S.r.l.” Via Mecenate, 76/32 - Milano

Stampato con il contributo

derivante dai fondi previsti dalla Legge n. 429 del 3 Agosto 1985

Registrato al Tribunale di Milano,

n. 713 del 21 novembre 2006

DIRETTORE RESPONSABILE ROBERTO ESCOBAR

Numero chiuso il 19 settembre 2008

Un comitato costituito da docenti della Facoltà di  Scienze  Politiche  si  è  assunto  ‐  su  richiesta della  Direzione  e  della  Redazione  di  “Acido Politico”  ‐  il compito di garantire  la  libertà e la correttezza  sul  piano  legale  del  contenuto  del periodico,  senza  peraltro  interferire  sui  suoi orientamenti  e  contenuti  e  senza  pertanto garantirne in alcun modo la bontà. Il comitato è composto  dai  prof.  Antonella  Besussi, Francesco  Camilletti,  Ada  Gigli  Marchetti, Marco  Leonardi,  Lucia  Musselli,  Michele Salvati  e  Roberto  Escobar,  il  quale  assume,  ai fini  della  legge  sulla  stampa,  la  funzione  di direttore responsabile.  

Comitato di Garanzia

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Reportage 17 L’altra faccia dell’India dall’inviata Daniela Balin 

Intervista 19 “Umiltà e curiosità per raccontare” di Andrea Di Stefano 

Copertina

UNIVERSITA’ IN VENDITA di Dario Luciano Merlo Ana Victoria Arruabarrena Giulia Oldani Armando Dito 

Università 8 Voti ai professori (atto secondo) da lavoce.info 

Inchiesta 10 Ambasciata degli stagisti di Flavio Bini 

Italia 12 La ‘ndrangheta alla conquista dell’Expo di Filippo Basile 

LE RUBRICHE 1 Editoriale 7 Pillole 12 La vignetta 13 Click 23 Pensieri & Parole 24 Musica 28 Sport Cartoline dall’Inferno Controcopertina

Speciale “Milano Film Festival” di Leonard Berberi 

Cinema 24

di Leonard Berberi e Flavio Bini 

La fine di un ciclo

EDITORIALE

T ra due mesi “Acido Politico” spegnerà tre can‐deline. Decine  di  ragazzi  sono  passati  per  le pagine della  rivista e molti di  loro vi  sono  ri‐masti. Eravamo partiti  in “sordina”,  con poco meno di  cento  copie  (ma  sarebbe più  corretto 

scrivere  “fotocopie”),  in  bianco  e  nero  e  con  una  grafica raffazzonata. Non  che,  tre  anni  dopo,  i miglioramenti  ne abbiano fatto la rivista migliore al mondo. Guardando tutti i numeri pubblicati però, possiamo ammetterlo, un miglio‐ramento c’è stato. Ma soprattutto, dietro ogni numero c’è una storia, un retrosce‐na, un errore che abbiamo corretto o cer‐cato di correggere. Forse è questo il vero senso di un prodotto editoriale  fatto dai ragazzi: non le interviste esclusive, non i reportage,  non  le  inchieste.  Nemmeno gli  articoli  di  approfondimento.  Ma  il fatto  che  ogni  edizione ha un  altro  rac‐conto, nascosto dalle foto e dagli articoli direttamente visibili; che ogni uscita cela un  groviglio  di  sentimenti  umani  e  di passioni  giovanili  un  tempo  vivi,  ma adesso  sempre più  in via di dissoluzio‐ne.    Purtroppo però  le esperienze belle  so‐no tali perché hanno una fine. Per coloro che hanno diretto questo mensile per questi 24 numeri l’av‐ventura finisce qui.     Ci  siamo  interrogati  a  lungo  su  che  destino  riservare  a questa  esperienza.  Da  un  lato  prevaleva  la  volontà  di “chiudere in bellezza”; tutto era cominciato da noi e con noi doveva finire. Poi però sono seguite due considerazioni.     La prima è che “Acido Politico” non è soltanto di chi fir‐ma  questo  editoriale, ma  di  tutti  coloro  che  si  sono  spesi attivamente per dare a questa rivista la visibilità, la credibi‐

lità ed  il pubblico  che meritava. Ciascuno nel  suo piccolo. Chi  intercettando gli studenti all’uscita dalle aule, chi scri‐vendo  e  consegnando  puntualmente  i  propri  articoli. Chi ancora  l’ha difeso dal fuoco  incrociato degli stessi studenti che si sono sforzati di insistere sempre e soltanto sui nostri limiti, mai  interrogandosi sul potenziale che una pubblica‐zione  di  così  ampia  diffusione  avrebbe  potuto  avere  con l’apporto di  tutti gli studenti. Chiudere  il giornale alla no‐stra partenza sarebbe stato come derubare tutte queste per‐

sone  di  qualcosa  di  loro  proprietà.  Un furto del tutto illegittimo.    In secondo luogo una riflessione. Il pri‐mo  editoriale  di  questo mensile  si  sca‐gliava contro l’università come “luogo di transito per persone che passano  tutto  il giorno  già  in  viaggio”.  Non  volevamo essere “in  transito” anche noi.  Il miglior regalo  che  si  può  lasciare  alla  propria università  è  donarle  qualcosa,  non  pri‐varla. Qualcosa che testimoni il lavoro di almeno  novanta  studenti,  tanti  sono quelli  che  in  un modo  o  nell’altro  sono passati tra queste pagine.    Lasciamo il testimone di questo proget‐to ai ragazzi che hanno lavorato al nostro fianco  in questi anni. Chi dall’inizio, chi 

subentrando  in corsa. Ne  facciano ciò che meglio credano, liberi di organizzarsi nei modi che preferiscono. È stato un vero privilegio pensare, costruire e realizzare questo mensi‐le.  Ci  ha  consentito  incontri  con  persone  straordinarie. “Acido Politico” ha  fatto da magnete a  tutte  le migliori e‐nergie di questa facoltà, le menti migliori. Sono la vera ric‐chezza di questa università, l’ultima che potrà essere messa in vendita.    Grazie a tutti e buon anno accademico.

«Lasciamo il testimone di questo progetto ai ragazzi che hanno lavorato al nostro fianco in questi anni. Chi dall’inizio, chi subentrando in corsa. Ne facciano ciò che meglio credano, liberi di 

organizzarsi nei modi che preferiscono» 

C O P E RT I N A

Taglio netto dei finanziamenti statali, blocco del turnover, possibilità di trasformarsi in fondazioni. Ecco il volto dell’Università che verrà

C O P E RT I N A

di Dario Luciano Merlo

G li  italiani  erano  in  vacanza, ma  questʹanno  il  governo non  ha  smesso  di  lavorare, 

approvando  in  agosto  una manovra di  bilancio  che  contiene  tagli  consi‐stenti  anche per  lʹintero  sistema uni‐versitario. La  legge 133/2008 permet‐terà un risparmio di circa 36 miliardi, di  cui  almeno  25  saranno  utilizzati per  ridurre  il debito pubblico. Ma  se la  necessità  di  ridurre  il  deficit  può essere condivisa, sono le modalità che lasciano perplessi e sembrano manca‐re  di  prospettive  verso  un  futuro  in cui gli atenei dovranno  sopravvivere con sempre meno finanziamenti pub‐blici. Le maggiori difficoltà saranno dovute al  taglio  del  fondo  di  finanziamento ordinario  (FFO),  ossia  la  principale voce di  entrate per  le università, del 19,7% in tre anni, con tagli progressi‐vi  a  partire  dal  2009.  Un  taglio  che costringerà le università a intervenire in modo strutturale, dal momento che nella maggior  parte  degli  atenei  più dellʹ80% del FFO è destinato a coprire le  spese  per  il  personale  e  in  alcuni atenei, dove la situazione è particolar‐mente  critica,  questa  cifra  arriva  al 90%.    La  paura  che  i  tagli  possano essere  compensati  da  un  aumento delle  tasse  universitarie  non  è  nem‐meno realistica, perché resta  fermo  il tetto del 20% della contribuzione stu‐

dentesca  rispetto  al  FFO. Nelle  uni‐versità  già  vicine  a  questo  limite,  i tagli potrebbero significare addirittu‐ra una  riduzione delle  tasse,  che  ag‐graverebbe ulteriormente  lʹammonta‐re dei tagli. Come ben delineato da Checchi e Jap‐pelli in un articolo de lavoce.info, alle università rimarranno poche soluzio‐ni per  far  fronte  alla  riduzione delle risorse, tra cui una compressione del‐lʹofferta formativa e delle sedi univer‐sitarie, cresciute  in modo vertiginoso negli ultimi anni e non sempre in mo‐do coerente e ordinato. Altri tagli po‐tranno  riguardare  i  laboratori, gli as‐segni di ricerca e  le borse di dottora‐to, oppure le attività dei dipartimenti, versante sul quale sembra sia orienta‐ta  la Statale almeno per  far  fronte  al primo anni, in cui i tagli non raggiun‐gono  cifre  troppo  elevate.  In parte  è invece lo stesso ministero ad indicare con altri articoli come limitare le spe‐se, soprattutto per quanto riguarda il personale. Lʹart. 66 prevede un blocco parziale del turn‐over, ovvero la pos‐sibilità per  le università di  sostituire soltanto  il  20%  dei  dipendenti  che raggiungono  lʹetà  pensionabile  per tutto  il 2009, di cui  il 10% riguarderà le nuove assunzioni e  il restante 10% la stabilizzazioni di contratti a tempo determinato. Soltanto nel 2012 il turn over  tornerà  al  50%  e per  ora  non  è 

C O P E RT I N A

altri paesi europei (65 anni con possi‐bilità  di  proroga  solo  per  i  docenti attivi sul piano della ricerca), per ade‐guare  agli  standard  europei  quelle dei ricercatori, rallentando  la massic‐cia  fuga di cervelli allʹestero e garan‐tendo  la  permanenza  di  giovani  di talento che possano partecipare allʹat‐

tività didattica e con‐tribuire  a  diminuire lʹetà media del corpo docente.  Unʹoccasio‐ne  persa  che  denota mancanza  di  corag‐gio,  o  forse  di  inte‐resse, per  i problemi che  riguardano  uno dei  settori  strategici per  lo  sviluppo  e lʹeconomia  di  una nazione. Lʹunica novità inseri‐ta  nella  manovra estiva è la facoltà per 

gli atenei di trasformarsi in fondazio‐ni private  con una decisione presa  a maggioranza  assoluta  dal  senato  ac‐cademico.  In questo modo  le univer‐sità avrebbero la possibilità di attrarre maggiori  investimenti  privati  per supplire  alle minori  risorse messe  a disposizione dellʹuniversità.  

prevista una data per  il  ritorno al  li‐vello attuale del 100%. Una soluzione che  causerà  un  forte  impoverimento degli organici e  soprattutto  impedirà a molti giovani meritevoli di entrare a far  parte  del  mondo  universitario, costringendoli  ancora  una  volta  ad emigrare allʹestero, con la conseguen‐za  che  non  si  assisterà,  ancora  per parecchi anni, ad un  auspicabile  rin‐giovanimento  del  personale  accade‐mico.  I  professori  vedranno  la  sop‐pressione  di  uno  scatto  di  anzianità (articolo 69), mentre  il personale non docente vedrà ridotto del 10% il sala‐rio  accessorio  e,  a  partire  dal  2009, una parte di questo sarà  legato a cri‐teri  di  produttività.  Anche  gli  uffici dirigenziali e  le risorse per gli assetti organizzativi saranno ridotti del 10%. Da questo punto di vista ciò che col‐pisce è  il continuo  intervento del mi‐nistero non solo sulle forme di finan‐ziamento ma  anche  sulle misure  da adottare  allʹinterno  delle  università per il loro utilizzo. In questo modo si riduce  drasticamente  lʹautonomia, così  come  la  capacità  di  far  fronte  a particolari  situazioni  o  criticità. Una maggiore  indipendenza  riguardo  a retribuzioni e possibilità di assunzio‐ne  e  stabilizzazione avrebbe permes‐

so agli atenei di valutare come  inter‐venire a seconda delle proprie neces‐sità, eventualmente con la richiesta di garantire il pareggio di bilancio o una sostanziale  riduzione  percentuale della  spesa  per  il  personale,  ma  la‐sciando  autonomia  sui  metodi  e  e sulle modalità con cui realizzarle. Una  ulteriore  critica alla manovra  del mi‐nistro  Tremonti  è  la decisione  di  tagliare in modo indiscrimina‐to  i  fondi  a  tutti  gli atenei,  senza  premia‐re  coloro  che  si  sono distinti per  la propria efficienza nella gestio‐ne delle proprie risor‐se o nella ricerca. An‐cora  una  volta  Chec‐chi e  Jappelli propon‐gono  di  utilizzare  i punteggi  assegnati dal  Civr  (Comitato  nazionale  per  la valutazione  della  ricerca)  per  asse‐gnare almeno una parte dei fondi alle università più virtuose. Oppure, pro‐posta ancora più coraggiosa, di bloc‐care  gli  stipendi  dei  professori  ordi‐nari  e uniformare  la  loro  età di pen‐sionamento  (70  anni)  a  quella  degli 

U n  proverbio  keniota  inse‐gna:  noi  non  ereditiamo  la terra  dai  nostri  genitori,  la 

prendiamo  in  prestito  dai  nostri figli. Quale futuro quindi, quale co‐noscenza, quale terra restituiremo a coloro che ci seguiranno se permet‐teremo un’ipoteca sulla vita dell’in‐tera collettività?    Perché  se  lo  sviluppo  e  la vita di un  paese  dipendono  dalla  costante capacità di produzione culturale, di alta formazione e di ricerca in tutti i campi  della  conoscenza,  proprio un’ipoteca  rappresenta  questa  ma‐novra  economica  conosciuta  come L133/2008.  Con  questa  riforma,  lo Stato  lancia un processo di vera di‐smissione  della  gestione  pubblica del  sistema  educativo  e  formativo 

Uno scempio da fermare nazionale. Questa  scelta  viene  giu‐stificata con la necessità di ridurre il debito pubblico, un provvedimento in linea con una visione neoliberista, ormai  neanche  tanto  in  voga,  che interpreta l’istruzione, la ricerca e la sanità nazionale  come un  costo per lo Stato e non come un investimento vitale.    Due sono gli allarmanti panorami che si prospettano: uno con  il quale ci dovremo tutti confrontare a breve termine,  l’altro  in  un  futuro molto vicino.    In un primo momento tagli di tale portata costringeranno gli atenei ad aumentare  le  tasse  (fermo  restando il tetto del 20% del fondo ordinario) e,  come  lo  stesso  Preside  della  no‐stra  Facoltà  di  Scienze  Politiche  ha indicato  recentemente,  a  ridurre 

l’offerta  formativa,  i  fondi  per  la ricerca,  per  i  dipartimenti  e  per  le borse di dottorato. Si darebbe  il via inoltre  ad  una  disperata  ricerca  di finanziamenti  esterni  che  rendereb‐be sempre più concreta la possibilità di  una  perdita  di  autonomia  della ricerca e della didattica.    Le  aspettative di  carriera dei gio‐vani  ricercatori  da  poco  entrati  nel sistema universitario e di coloro che sognano di proseguire i propri studi con un dottorato saranno penalizza‐te.  Oltre  ai  tagli  generali  infatti,  il blocco del turn‐over (un’assunzione a  fronte  di  cinque  pensionamenti) impedirà  alle  nuove  generazioni l’accesso al mondo accademico.    In un  futuro prossimo  lo scenario non  diventerà  più  confortante.  La possibilità  che  le  Università  si  tra‐

di Ana Victoria Arruabarrena

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IL COMMENTO

C O P E RT I N A

Questo  ovviamente potrebbe portare soggetti  privati  a  partecipare  al  go‐verno  dellʹuniversità,  sebbene  con  il mandato  di  concorrere  allo  scopo  e agli obbiettivi di formazione e ricerca tipici delle università.  Anche  in questo caso, tuttavia, non è chiaro il grado di libertà che sarà con‐cesso ai nuovi atenei, i cui regolamen‐ti dovranno essere approvati dal mi‐nistero  dellʹistruzione  e  la  sorte  del personale  docente,  che  diverrebbe dipendente di  una  nuova  istituzione non più pubblica, con  le  relative dif‐ferenze  in  termini  di  contratti  e  di retribuzioni.  Lʹopportunità,  tuttavia,  non  verrà sfruttata  da molti  atenei,  anche  per‐ché  le  incognite di questa  trasforma‐zione  sono  ancora  troppe  e  lʹart.  16 prevede che lʹentità dei finanziamenti pubblici  alle  fondazioni possa  essere modificata,  a  seconda  della  quantità di  investimenti  privati  che  i  nuovi atenei riuscirebbero ad attrarre.  Una misura  che  sembra  colpire  pre‐ventivamente  le università che vedo‐no  in questa  trasformazione  la possi‐bilità di rilanciare  il proprio percorso e la propria autonomia. 

Dario Luciano Merlo

sformino in Fondazioni private pro‐spetta un grave pericolo per il siste‐ma  formativo  nazionale.  Una  gra‐duale  privatizzazione  sfavorirebbe subito  le  facoltà  “meno  redditizie” e,  cosa  ben  grave,  orienterebbe  la ricerca a soddisfare gli  interessi dei finanziatori privati. Così, una Facol‐

tà di Farmacia “in debito” con qual‐che  colosso  farmaceutico  si  trove‐rebbe  obbligata  a  creare  nuovi “prodotti” da lanciare sul mercato o peggio ancora potrebbe essere bloc‐cata nella  ricerca di   nuovi medici‐nali per  la cura di qualche malattia qualora  la malattia  stessa  fosse più 

redditizia per  le grandi multinazio‐nali.    L’urgenza  di  non  permettere  lo smantellamento  dell’Università  do‐vrebbe essere quindi un dovere per tutti  i  componenti  dell’Università: professori,  ricercatori,  personale tecnico‐amministrativo  e  studenti. Al  contrario  però  dei  nostri  cugini d’oltralpe che due anni fa riuscirono a fermare  la  legge sul “Contratto di primo impiego” in Italia gli studenti non esistono come soggetto in quan‐to non dispongono di un’organizza‐zione sindacale che permetta loro di influire e partecipare alla vita politi‐ca  nazionale.  A  tutti  noi  quindi  il dovere di  darci  uno  strumento  per respingere  con  forza  questa  L133, per  ottenere maggiori  risorse  e  un loro miglior  utilizzo.  Per  difendere un’Università  pubblica,  un  reale diritto allo studio e una ricerca libe‐ra, autonoma e non orientata al pro‐fitto bensì all’interesse della  società tutta.  

LO STUDIOSO | DANIELE CHECCHI

MILANO  ‐ Professor Checchi,  con il Dl 112, che opera consistenti tagli alla  spesa  destinata  all’Università, il Ministro Gelmini suggerisce agli Atenei di trasformarsi in fondazio‐ni private per far fronte alle neces‐sità  di  fondi.  Secondo  lei  è  una strada percorribile?     «La  soluzione  di  trasformare  le università in fondazioni private non è  sufficiente,  dal  momento che  il  decreto  non definisce modalità  e  tempistiche. Qualche anno fa, nel centro‐sinistra, Nicola  Rossi  aveva elaborato  una  proposta  più articolata e realizzabile».        Ma  la  proposta  non  può essere  letta nell’ottica della svolta  meritocratica  promossa  dal governo e della  lotta ai fannulloni, tanto a cuore al Ministro Brunetta?     «Il Dl 112 prevede tagli del 30% ai fondi  destinati  all’università.  Il  de‐creto lascia la possibilità alle univer‐sità,  di  trasformarsi  in  fondazioni private per sopperire alla mancanza 

di fondi. I criteri di taglio sono gene‐ralizzati, non fanno alcuna distinzio‐ne  tra  università  virtuose,  e  istituti con  un  bilancio  pesantemente  in passivo  e  che  registrano  sprechi. Tale  generalizzazione  danneggia soprattutto  quegli  atenei  più  effi‐cienti,  che  invece  avrebbero dovuto essere  premiati.  I  rettori  avevano chiesto  un  sistema  di  valutazione 

nazionale che collegasse  i finanziamenti  alle  presta‐zioni  dei  vari  Atenei. Questo  potrebbe  rappre‐sentare  un  passo  avanti verso  la meritocrazia  e  la lotta  ai  fannulloni  tanto sbandierata  dall’attuale esecutivo».     

Armando Dito Giulia Oldani

__________________ Daniele Checchi è professore ordinario in “Economia Politica” presso l’Univer‐sità degli Studi di Milano e Preside del‐la Facoltà di Scienze Politiche. Esperto 

di istruzione, collabora con il sito www.lavoce.info  ©

GRAZIA

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C O P E RT I N A

MILANO  ‐ Professor Regini  (foto  in basso,  ndr),  dai  dati  emerge  che  il sistema universitario  italiano  soffre di  un  cronico  sottofinanziamento  e di un deficit strutturale di  ricambio del personale docente.  Il Dl  112  ta‐glia le spese del 12%, a cui seguiran‐no  altri  tagli  per  arrivare  quasi  al 30%. Quali effetti può avere sul no‐stro sistema?     Dopo  che per anni  si è detto  che è necessario  un  ricambio,  le  misure previste  sono  totalmente  contraddit‐torie  perché  di  fatto  bloccheranno  il turn‐over dei docenti fino al 2011: per ogni 10 docenti che lasceranno il ser‐vizio, ne saranno assunti 2. Semplice‐mente  il governo  ritiene  che  il  siste‐ma universitario debba fare una cura dimagrante. Di conseguenza si ridur‐rà il numero di laureati, allontanando ancor di più  il nostro Paese dal  rag‐giungimento degli obiettivi di Lisbo‐na. Invece di una selezione meritocra‐tica tra coloro che si iscrivono all’uni‐versità,  si parte da una diminuzione dell’organico,  che  produrrà  come effetto  il  numero  chiuso  anche  alle triennali.      L’idea di  trasformare  le università in  fondazioni  private  è  effettiva‐mente realizzabile?     Non si andrà, credo, verso una pri‐vatizzazione. In Europa in tutti i Pae‐si  il sistema universitario è pubblico. È vero  che  in Gran Bretagna,  con  la Thatcher,  si  è  cercato  di  percorrere questa  strada con  le  fondazioni ed  il finanziamento privato dei contratti di ricerca, ma non penso che in Italia sia altrettanto  percorribile.  Ricordo  che al  Festival  dell’Economia  di  Trento l’ex Ministro Mussi rispose alla stessa domanda  con  una  battuta  arguta: “Secondo lei, se io adesso alzo il tele‐fono e chiamo Tronchetti Provera, lui si  compra  l’università?”.  Il  sistema della ricerca non garantisce  il ritorno dell’investimento al privato che cerca 

«Il decreto ci allontana da Lisbona»

di Giulia Oldani e Armando Dito

Intervista al Prorettore Regini sul D.L. 112. «Una riforma contraddittoria, che taglia i fondi, blocca il turn-over dei docenti, costringe ad introdurre il

numero chiuso alle triennali e ridurrà il numero di laureati»

il  profitto;  la  ricerca  di  base,  infatti, non è mai redditizia, tant’è che l’indu‐stria privata cerca di accollarla al pub‐blico.      Allora  le  fondazioni  non  possono avere un ruolo?     L’idea in sé non è sbagliata, ma non è  realisticamente  pensabile  che  i  pri‐vati  comprino  l’università.  Si può  in‐vece pensare ad un forte investimento da  parte  degli  enti  locali.  Non  è  un caso che di tutti i rettori, l’unico entu‐siasta  sia  il  rettore  di  Trento,  questo perché la provincia autonoma finanzia lautamente l’Ateneo.      La  privatizzazione,  ammesso  che possa avvenire, non andrà ad intacca‐re lo stato giuridico unico dei lavora‐tori dell’università?     Qualora davvero si possano costitui‐re  le  fondazioni  –  impossibile  –  non mi trovo totalmente contrario alla pri‐vatizzazione  del  pubblico  impiego. Infatti  la  contrattazione  nel  settore privato può garantire  tutele altrettan‐to valide. E qui si ricade nel problema generale del mercato del lavoro italia‐

no, che non è tanto quello di garantire il posto fisso, quanto piuttosto quello di  istituire  sistemi  di  garanzia  del reddito: flessibilità sì, ma anche sicu‐rezza.     Dal  momento  che  il  governo  ha deciso  di  tagliare,  non  aveva  più senso razionalizzare la distribuzione dei fondi, premiando gli Atenei più meritevoli  con  un’indagine  sulla allocazione  delle  risorse  e  sull’effi‐cienza delle università?    Certo che aveva più senso. Ma mol‐to spesso le università più inefficienti sono anche quelle con  i migliori rap‐porti  clientelari  con  governo  e  enti locali.  Quando,  in  realtà  marginali, un Ateneo può garantire prestigio per la zona e nuovi posti di lavoro, è chia‐ro  che  i  notabili  locali  abbiano  tutto l’interesse  a  finanziare  l’università, sebbene improduttiva.     Per  questo  non  si  possono  toccare interessi politici,  e diventano  impen‐sabili indagini di merito ed efficienza come quella  che voi  suggerite. È più facile  imporre  tagli  generalizzati.  In t e o r i a ,   d o v r e b b e   c r e a r s i “darwinianamente”  un  meccanismo virtuoso  per  il  quale  solo  i migliori resistono. Ma di fatto, chi resiste? Chi è  più  efficiente  o  chi  ha  il  patrono locale?     Ma allora si può davvero parlare di “riforma”?     Forse  nei  prossimi  mesi  si  potrà parlarne,  con  la  riforma della gover‐nance e del reclutamento del persona‐le.  Per  il momento  non  c’è  nessuna riforma, solo un taglio. 

 

_____________________________ Marino Regini è professore  

ordinario nel Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare, Prorettore dell’Uni‐versità degli Studi di Milano ed ex Preside 

della Facoltà di Scienze Politiche 

 

s c i e n z e p o l i t i c h e | P I L L O L E

AVVISI 

I NUMERI DI SCIENZE POLITICHE 

www.acidopolitico.com / [email protected] a cura di  Leonard Berberi 

LA CURIOSITA’ MILANO  ‐  Il  prof.  Luca  Solari (foto  piccola  in  basso),  docente  di “Organizzazione  delle  risorse umane”  presso  l’Università  degli Studi di Milano,  è  famoso  per  la sua passione per la tecnologia.  

Ma  da  Settembre si  è  superato:  gli studenti  potranno andare  a  ricevi‐mento  solo  dopo aver  prenotato l ’appuntamento su  un  apposito 

s i t o   i n t e r n e t   ( h t t p : / /lsolari.acuityscheduling.com).  Una volta aperta  la pagina, ai  ra‐gazzi  vengono  richiesti  la  data  e l’ora del colloquio  (che non potrà superare  i dieci minuti),  i recapiti e, ovviamente, il nome.  Quest’ultima “trovata”  si aggiun‐ge alla particolare tecnica d’esame adottata dal professore: le doman‐de sono proiettate sullo schermo e cambiano  automaticamente  ogni sette minuti. 

SU & GIU’ Pollice  su  per  la  colla‐borazione tra Università Statale di Milano e  l’or‐ganizzazione  Esterni 

nell’ambito  del  “Milano  Film Festival”:  50  accrediti  gratuiti offerti agli studenti più un prez‐zo speciale di 10 euro per tutti gli altri  (previa presentazione  tesse‐rino universitario, ndr). (fonte: http://www.unimi.it/cataloghi/divsi/

MFF2008__Accrediti_agevolazioni.pdf) 

L’esame  è  stato  fatto  il 17  luglio  scorso,  ma  i voti  sono  stati  pubbli‐cati dopo  oltre  un me‐

se, il 3 settembre.  Questa la performance ‐ negativa ‐ dell’appello estivo del corso di “Comunicazione  Politica”  del prof. Giampietro Mazzoleni.  (fonte: http://www.scienzepolitiche.unimi.it/

Avvisi/CAT/420_ITA_HTML.html) 

MILANO  ‐  Confrontando  il  numero  delle immatricolazioni dell’a. a. 2008/2009 rispetto alla stessa data dell’anno precedente, si è regi‐strato un aumento del 33,6% degli iscritti che frequenteranno  i  corsi  di  laurea  triennali presso gli ambienti di via Conservatorio. Un buon  numero,  considerando  che  la  data  di chiusura per registrarsi alla Facoltà di Scien‐ze Politiche deve ancora arrivare. Precisamen‐te: 608 erano state le immatricolazioni l’anno passato; già 812 quelle di quest’anno.    Dall’altra parte,  il documento ufficiale del‐l’Università, scrive che il numero dei laureati 

‐  rispetto  all’anno  precedente  ‐  è  diminuito sensibilmente,  passando  da  1354  a  929  (‐ 31%). Non spiega, tale rapporto, se il numero relativo all’ultimo anno  sia definitivo oppure se si fermi al 22 luglio (quindi non tiene anco‐ra conto della sessione di laurea di dicembre).     In  generale,  negli  ultimi  cinque  anni,  il numero dei  laureati a Scienze Politiche è an‐dato aumentando a partire dal 2004: 875 nel 2002, 874 nel 2003, 942 nel  2004, 1143 nel 2005, 1255 nel 2006, 1354 l’anno successivo e 929 ‐ ma il dato non è ancora definitivo ‐ nel 2008.  

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Cari studenti, molti  di  voi  scrivono  per  chiedere informazioni su corsi che hanno inse‐rito e sono presenti nei piani di stu‐dio, ma  che  sul  sito  appaiono  come non attivati per questo anno accade‐mico. In realtà i corsi sono tuttora attivi e insegnati  regolarmente, ma non  fan‐no  più  parte  del  nuovo  manifesto degli studi della laurea magistrale in comunicazione pubblica e di impresa attivata questo anno accademico con il solo primo anno. Potete  seguire  i  corsi,  attivi  presso altri corsi di laurea e sostenere rego‐larmente gli esami. Non  siete quindi in alcun modo costretti a modificare il vostro piano di studi. Cari  saluti  e buon  inizio d’anno ac‐cademico 

Prof. Luisa Leonini 

Apertura sperimentale esten‐sione Laboratorio Informatico A partire da  lunedì  23  giugno verrà aperto agli studenti  il nuovo Labora‐torio Informatico al piano seminterra‐to  (accesso dalla scala sul retro dell’‐Aula 10), che, dopo un breve periodo di  sperimentazione,  ai  primi  di  Set‐tembre,  diventerà  a  tutti  gli  effetti un’estensione  del  Laboratorio  Infor‐matico. Gli orari di  apertura saranno gli stessi del Laboratorio Informatico. 

*** Totem Info Point 

Da venerdi 27 giugno  sono attivi due To‐tem  dedicati  alle  informazioni  sulla Facoltà,  dislocati  in  prossimità  delle  aule studio  (raggiungibili  dallʹingresso  posto sopra  le  scale  accanto  alla  portineria).La navigazione  è  consentita  solo per  il  sito di Facoltà e per quelli delle strutture afferenti (no portale di Ateneo). 

U N I V E R S I TA ’ | l a p o l e m i c a

N ell’inchiesta  pubblicata sullo scorso numero della rivista,  nella  quale  veni‐vano  rese  note  ‐  per  la 

prima volta  in assoluto  ‐  le valutazio‐ni  che gli  studenti hanno dato  ai do‐centi ed ai  corsi attraverso  il  sondag‐gio di  “Acido Politico”,  erano  emersi alcuni risultati interessanti: il flop del‐le materie sociologiche,  la poca sinto‐nia  con  le  lingue  straniere  e  la prefe‐renza  per  le  materie  politologiche, giuridiche e storiche.    In  seguito  a  quella  pubblicazione, molti professori si sono preoccupati di farci  sapere che  le valutazioni  in  loro possesso  (intendi:  quelle  commissio‐nate  dall’Ateneo  quindi  molto  più attendibili)  mostravano  risultati  di‐versi  e  molto  lusinghieri.  Per  loro, ovviamente. Lo stesso Preside, in mo‐do informale, ha rivelato come i nostri dati  fossero  “leggermente  sballati” rispetto alla realtà.     Peccato  che,  in  un  documento  di qualche  anno  fa  teso  ad  analizzare l’andamento del sistema universitario dal  vecchio  al  nuovo  ordinamento (“Rapporto  sulla  valutazione  della didattica  2002‐03  da  parte  degli  stu‐denti  frequentanti”,  gennaio  2004), insieme  a  Giampietro  Gobo,  il  prof. Daniele  Checchi  (ovvero  il  Preside) scriveva:  «Dal  punto  di  vista  delle discipline  l’interesse  maggiore  viene riscontrato per le materie (nell’ordine) politologiche,  giuridiche  e  storiche, mentre  minore  entusiasmo  viene riservato  alle  discipline  quantitative. Le  materie  sociologiche,  linguistiche ed  economiche  rimangono  nella media  (sia  nell’apprezzamento  che nell’insoddisfazione).  Se  analizziamo diacronicamente  questo  indicatore not iamo   che:   a)   le   materie sociologiche  e  linguistiche  hanno subito  un  calo  di  interesse;  b)  le materie  storiche  continuano  ad ottenere  grande  interesse;  c)  le discipline  giuridiche  e  politologiche sono  diventate  più  interessanti;  d)  le economiche si collocano ad un  livello di  interesse  nella  media;  e)  le quantitative  rimangono  le  meno amate».     Esattamente quello che è emerso dal nostro sondaggio.    Scrivono ancora  i due docenti: «(…) 

Punti di vista

il  giudizio  sui  docenti  rimane molto positivo;  più  precisamente  il  58% individua  una  permormance  del docente  “alta”,  mentre  solamente poco  più  del  6%  rappresenta  una valutazione  negativa  sull’attività  del docente;  la  quota  di  una  moderata soddisfazione  viene  identificata  dal 35%».     Eseguendo  una  media  puramente matematica  sui  risultati  emersi  dalla nostra  inchiesta,  il  campione  di  700 ragazzi intervistati ha valutato con un 25  (25,086  per  l’esattezza)  i  docenti della Facoltà di Scienze Politiche. Un voto più  che  lusinghiero,  se  si  consi‐dera  che  sono  stati  pochissimi  i  pro‐fessori “bocciati”.    Ricordiamo  ancora  una  volta  che stiamo  confrontando  due  rapporti:  il primo  ‐  quello  “ufficiale”  ‐  del  2004 sui  dati  del  2002/2003;  il  secondo  ‐  quello  “non  ufficiale  ‐  ovvero  il  no‐stro,  datato  giugno  2008.  Qualcuno storcerà  il  naso,  ma  ai  più  apparirà chiaro  come,  di  fronte  alle  critiche rivolte a questa rivista, i risultati pub‐blicati non fanno altro che confermare una tendenza in atto da almeno quat‐tro anni.    Di  fianco,  pubblichiamo  alcuni  dei commenti  arrivati  sul  forum  di  di‐scussione aperto dal sito lavoce.info  in seguito alla nostra inchiesta. Sempre a fianco,  dalle  pagine  autorevoli  del “Corriere  della  Sera”,  Paolo  Macry spiega la sua contrarietà alla pubblica‐zione.  Punti  di  vista  differenti.  Punti di  vista  legittimi.  Se  i  toni  di  alcuni nostri docenti fossero stati  in sintonia con  quanto  leggerete,  Scienze  Politi‐che ne avrebbe guadagnato e su que‐sto  argomento  delicato  si  sarebbe  a‐perta una discussione seria tra le par‐ti. Non una sorta di processo per “lesa maestà”. (l.b.) 

Sul sito lavoce.info un dibattito aperto e tanti commenti

PUBBLICARE I VOTI Utile e doveroso (altrettanto lo è pubblica‐re i voti degli studenti, stolidamente impe‐dito in nome di una malintesa privacy). Mi dispiace solo che  tutti vedano  la cosa nel‐lʹottica  ʺpunzioneʺ.  Io  ci  vedo  lʹaspetto incentivante per chi viene valutato positi‐vamente. Non mi interessa dar la caccia ai cattivi  ma  aumentare  la  motivazione  a migliorarsi. In molti dipartimenti america‐ni  si  fa  un  titolo  di  ʺmiglior  professore dellʹannoʺ  a  giudizio  degli  studenti.  Chi vince  il  premio  ne  va  giustamente  orgo‐glioso. Non si lavora meglio solo per pau‐ra  del  castigo,  anche  per  ricerca  del  pre‐mio.  

Nicola Ciccoli  

IO, LE MIE VALUTAZIONI, LE PUBBLI‐CO GIA’ Sono  un  ricercatore  di  sociologia  nella facoltà di Scienze della Formazione dellʹU‐niversità di Padova. Ritengo che la manca‐ta valutazione dei docenti universitari,  su ogni  livello  e  per  ogni  aspetto  del  loro lavoro, sia scandalosa. Certo, sarebbe me‐glio  avere  concorsi migliori,  una  agenzia di valutazione seria, dare ai presidi poteri di sanzione etc. etc. etc. Ma come insegna‐vano  i nonni, coi se e coi ma la storia non si fa. Io ho trovato un modo personale per risolvere  la  questione:  pubblico  sul  mio sito  didattico  le  valutazioni  dei miei  stu‐denti,  così  che  chiunque  possa  vederle  e confrontarle.  Ciò  non  cambia  nulla  dal punto  di  vista  pratico  –  i  miei  studenti sarebbero comunque obbligati a seguire  il mio corso anche se decidessero che io sono troppo scarso per loro – ma è un modo per dare un microcontributo al miglioramento del  carrozzone  in  cui  lavoro  365  giorni allʹanno.  

Matteo Bortolini  

E’ INUTILE! Se  le Università potessero scegliersi  i pro‐pri  docenti  e  ricercatori  con  chiamata  di‐retta (senza la farsa del concorso e con più responsabilità),  sarebbe  giusto.  Siccome  a causa del concorso pubblico non si posso‐no scegliere docenti e ricercatori con chia‐mata diretta, dare i voti è inutile!  

Decio  

PUBBLICARE PER PREMIARE Perchè pubblicare? Perchè gli studenti non sanno che  fine  fanno quei questionari che vengono compilati alla  fine di ogni corso, 

«Il sondaggio di Acido Politico non ha 

fatto altro che confermare una tendenza già documentata» 

l a p o l e m i c a | U N I V E R S I TA ’

E’ giusto pubblicare i voti degli studenti ai professori?

formato  interessandomi  di  alcune  situa‐zioni.  Fossi  un  professore  universitario temerei  molto  di  più  la  richiesta  di ʺproduttivitàʺ:  al  di  là  della  difficoltà  di misura della qualità delle idee, queste per svilupparsi hanno spesso bisogno di ampi spazi di vuoto che contrastano con  lʹidea abituale di produttività. La qualità di un servizio,  come  di  fatto  è  lʹinsegnamento (non il giudizio, che può essere altro) è un dato molto più semplice.  

Paolo Zanini 

e così facendo a perderne è la responsabi‐lizzazione degli  stessi  verso  lʹunico  stru‐mento  che  hanno  per  valutare  i  corsi. Pubblicare perchè si  inneschi quel circolo virtuoso  che  garantisce  concorrenza  e incremento  della  qualità  complessiva. Pubblicare e tenere conto che i questionari non sono un voto ai docenti ma  la perce‐zione che hanno gli studenti dei docenti; a questo  proposito  ritengo  sia  importante tenere conto del giudizio che si da al do‐cente anche  successivamente al  corso. La valutazione  è  lʹunico  strumento  che  per‐metterebbe  al  sistema  universitario  di poter estripare alcuni baronati a fronte di una nuova classe docente capace di innal‐zare  il  livello  culturale nelle università  e tra gli studenti. E poi  la  ritengo anche  io una questione di trasparenza nei confron‐ti  degli  studenti  stessi  che  possono  usu‐fruire del giudizio dei propri predecessori per scegliere con maggiore consapevolez‐za i corsi da seguire. Infine credo si possa pensare a legare il giudizio degli studenti sui docenti attraverso i questionari, a for‐me di incentivi economici.  

Vincenzo Spallina  PRIVACY DOCENTI—STUDENTI Le  valutazioni  date  agli  studenti  sono vincolate dalla normativa sulla privacy, e non possono essere pubblicate  con nome e  cognome.  Sui  vari  siti  internet  dei  do‐centi si trovano solo i voti riferiti al nume‐ro di matricola dello studente, che eʹ come dire  che  i  voti  restano  anonimi.  Siamo sicuri  che  le valutazioni  sui docenti deb‐bano invece essere pubbliche, con nome e cognome? Tali valutazioni  sono giaʹ note ai  presidi di  facoltaʹ, direttori di diparti‐mento  e  quantʹaltro:  se  crediamo  nella loro  efficacia  e  nella  loro  veridicitaʹ,  im‐plementiamo dei meccanismi di feedback; dubito  che  la  pubblicazione  dei  risultati sia uno di questi.  

Alessandro Spinelli  DOVEROSO PUBBLICARLI Ritengo  doveroso  rendere  noti  i  risultati delle  opinioni  (e  non  voti!)  sulla  valuta‐zione della didattica per  la  ʺsalvaguardia della dignità umanaʺ degli  studenti  , che dal 1999 (e in alcuni Atenei dal 1993) sono sottoposti ogni  anno  al  tormentone della compilazione del questionario sulla didat‐tica, maturando, a mio avviso, il diritto di conoscere i risultati delle loro valutazioni. Non va  inoltre dimenticato  il  rispetto da parte della istituzione Università, in tema 

di  valutazione,  del  principio  sacrosanto dellʹaccountability, principio etico di una governance  trasparente  e  affidabile,  con‐diviso da tutti i Paesi europei, e non solo. Se il docente universitario è così ʺfragileʺ, che  dire  della  valutazione  della  ricerca fatta  dal  CIVR  che  riportava  il  nome  e cognome  dei  docenti  autori  dei  prodotti di  qualità? Che  dire  dellʹintroduzione  in alcuni atenei di soglie per  lʹindividuazio‐ne dei  ricercatori  attivi per una distribu‐zione mirata  dei  fondi  di  ricerca  che  si assottigliano  sempre  più?  In  entrambi  i casi  per  esclusione  si  individuano  tutti  i docenti che non hanno i requisiti richiesti. Mi auguro non siano tutti in terapia dallo psichiatra!  

Vincenza Capursi  UN APPROCCIO PRAGMATICO La  questione  del  giudizio  degli  studenti meriterebbe anche un approccio pragma‐tico: osservare  le esperienze  fatte ed ana‐lizzarle per valutare se il giudizio espres‐so dagli studenti è effettivamente distorto da  elementi  di  conflitto  (come  sembano temere  molti  detrattori  della  pubblicità dei dati) o se la qualità di questo giudizio è  invece, anche grazie allʹelevato numero di studenti, sostanzialmente buona e cre‐dibile. Questʹultima  è  lʹidea  che mi  sono 

In alto, la copertina del numero di giugno di “Acido Politico” contenente l’inchiesta e la pubblicazione che gli studenti della Fa-coltà di Scienze Politiche di Milano hanno dato ai loro professori ed ai relativi inse-gnamenti. Il documento è scaricabile in versione .pdf dal nostro sito web www.acidopolitico.com

CONTRO

Professori alla gogna

È  opportuno  rendere  pubblici  i voti che gli studenti universitari danno ai loro professori? Discus‐sa alla Statale di Milano e ripresa 

da  lavoce.info,  lʹipotesi  sembrerebbe uno  shock  salutare  per  unʹaccademia notoriamente refrattaria alla meritocra‐zia  e  ‐ malgrado  i  feroci  propositi  di innumerevoli ministri  ‐ mai  sottoposta a controlli seri.    Ma si tratta di demagogia. Oggi come oggi,  riservati  o  pubblici  che  siano,  i giudizi degli studenti non servono a un bel nulla, perché sono raccolti con mo‐dalità  spesso  approssimative  e  perché gli  organi  di  governo  universitari  non hanno  alcuna  possibilità  (ove  mai  lo volessero)  di  utilizzarli  per  program‐mare  la didattica, decidere  le  funzioni dei docenti, differenziarne il trattamen‐to economico. Non a caso dove questo avviene,  come  negli  Stati  Uniti,  quei giudizi sono in genere segreti.     Da noi, esporre  lʹalbo dei buoni e dei cattivi altro non sarebbe che lʹennesima esca data in pasto a unʹopinione pubbli‐ca tendenzialmente avida di gogna più che di efficienza. 

(pubblicato sul Calendario del “Corriere della Sera”, sezione Cultura, 05.07.2008)

di Paolo Macry

Sul  sito  www.lavoce.info  nella  se‐zione  “Scuola  e Università”  trovate il forum di discussione sulla pubbli‐cazione dei voti ai professori. 

I N C H I E S TA

per  tutte  le destinazioni, e non è  legata ad  un  particolare  progetto  di  lavoro. Ciò che è segnalato nel bando, in merito alle mansioni previste per ogni singolo posto di stage, spesso non viene rispet‐tato.  A sentire le testimonianze raccolte, l’im‐pressione generale è che  il  lavoro degli stagisti  il  più  delle  volte  sia  del  tutto accessorio.  «L’idea  che mi  sono  fatta  è che non ci fosse una grande progettuali‐tà  dietro  ai  nostri  compiti. Non  che  ci fosse poco  lavoro,  solo  che questo non aveva uno schema preciso in cui inserir‐si»  ‐  dice  Benedetta  –.  C’erano  delle cose  che  dovevamo  fare  bisettimanal‐mente, come  le sintesi di politica  inter‐nazionale  da  mandare  al  ministero  a Roma, per il resto il lavoro non si svol‐geva  in  maniera  molto  organica.  Un giorno a  seguire un briefing  sul Consi‐glio Europeo degli affari internazionali, 

rienza  da mettere  sul mio  curriculum, ma  anche  un  modo  per  capire  come funzionano queste istituzioni» ci raccon‐ta Benedetta,  22  anni  e  stage  all’ufficio politico  dell’Ambasciata  di  Parigi.  An‐che lei è entrata attraverso il bando MA‐E‐CRUI,  non  sembra  possibile  nessuna altra  via.  «Ho  avuto  modo  di  leggere una corrispondenza  tra  il Ministero de‐gli Esteri e  l’Ambasciata – spiega Bene‐detta – in cui si segnalava espressamen‐te  di  ammettere  solamente  stagisti  che fossero  stati  selezionati  attraverso  il bando MAE‐CRUI». Questo bando rispetta poche ma sempli‐ci  regole. Si  tratta  innanzitutto di  stage non retribuiti, né sotto forma di contrat‐to né attraverso  rimborsi spese o buoni pasto. Un limite non indifferente soprat‐tutto  per  quelle  località  in  cui  il  costo della vita è alto. La durata  inoltre  è  stabilita  in  tre mesi 

MILANO ‐ 705 posti ripartiti tra amba‐sciate,  consolati  e  uffici  di  rappresen‐tanza  permanente  sparsi  sui  cinque continenti, fino ai più remoti angoli del pianeta. Questo  è  ciò  che  offre,  ormai da diversi anni,  la  fondazione CRUI  in collaborazione  con  il  Ministero  Affari Esteri: stage e tirocini di 3 mesi per ave‐re  un  primo  contatto  con  realtà  istitu‐zionali di prestigio. Una possibilità ap‐petibile, che ogni anno attrae decine di studenti  da  tutte  le  università  italiane, affascinati dalla possibilità di mettere in pratica i propri studi internazionali. Per molti però  si  tratta di una  scelta quasi obbligata. Nonostante ciò non è facile trovare por‐te aperte presso Ambasciate e consolati. Non  rivolgendosi direttamente, né  tan‐tomeno pretendendo contratti o rimbor‐si spese. «Pensavo sarebbe stata una valida espe‐

di Flavio Bini

Permettono di osservare da dentro il lavoro di ambasciate e consolati. Sono gli stage organizzati da CRUI e Ministero Affari Esteri, che ogni tre mesi fanno partire centinaia di studenti in tutto il mondo. Abbiamo incontrato quattro di loro

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il giorno dopo ad assistere ad un incon‐tro bilaterale con il tuo consigliere in cui tu non avevi nessun ruolo se non quello di ascoltatore». Ogni esperienza parla per sé. Sara, stage alla  direzione  Mediterraneo  e  Medio‐Oriente del Ministero degli Esteri a Ro‐ma racconta entusiasta: «Abbiamo  lavo‐rato  moltissimo,  eravamo  lì  fino  alla sera, a volte si tornava a casa tardi. Pen‐savo che avrei fatto le fotocopie, ed inve‐ce  sento  di  aver  lavorato  di  più  di  ciò che mi aspettavo». Scherza respingendo le  accuse  che  il  loro  lavoro  non  fosse necessario: «Eccome se avevano bisogno del nostro lavoro, altrimenti il Ministero dovrebbe assumere un sacco di gente!». Non  tutti però  sono  così  fortunati. San‐dra,  25  anni  e  stage  all’ufficio  stampa dell’Ambasciata  di  Stoccolma,  esprime tutto  il  suo  disappunto.  «Non  penso proprio  che  lo  rifarei.  Sono  andata  lì pensando  che  avrei  imparato  qualcosa ed invece non ho imparato proprio nien‐

te».  Forte  anche  la  frustrazione  legata allo  scarso  carico  di  lavoro.  «La  mia giornata lavorativa doveva durare 8 ore, ma dopo un’ora e mezza avevo già fini‐to.  Ho  provato  a  chiedere  dei  compiti aggiuntivi  al mio  tutor ma  senza parti‐colare successo». «A volte ho avuto l’im‐pressione  ‐  le  fa  eco  Benedetta  ‐  che  il nostro  ruolo  fosse  del  tutto  opzionale, non  indispensabile.  Anzi  era  lo  stesso tutor a  farci capire che era  lui che stava facendo un  favore a noi, quando  invece eravamo  noi  a  lavorare  gratuitamente per lui». Prendere o lasciare. Se questi bandi sono l’unica  occasione  per  avere  un  primo contatto  con  le  realtà  istituzionali,  la scelta  è  tra partire  con  il  rischio di  tro‐varsi  a  fare poco o niente  e  rimanere  a casa. Esiste però una terza possibilità: selezio‐nare attentamente la destinazione prima della  partenza.  Ce  la  racconta Daniela, 23  anni  e  stage  all’Ambasciata  di New 

Delhi  in  India.  «Dove  lavoravo  io  ero l’unica stagista, perciò  il mio  lavoro era molto  prezioso.  Certo  ci  vuole  molto spirito  di  iniziativa.  Bisogna  insistere con  il  proprio  tutor.  Una  volta  mi  ha detto:  “tu  devi  rincorrermi,  se  non  ti vedo non  ti vengo a cercare”. Funziona così». Si  tratta quindi di  scegliere non  solo  in funzione  del  prestigio  di  certe  destina‐zioni.  In  genere  anzi  sono  le  sedi disa‐giate,  quelle meno  richieste,  che  invece hanno  più  bisogno  di  personale.  Sono anche i luoghi in cui è possibile lavorare in modo più continuativo e che in alcuni casi  aprono  prospettive  successive  allo stage. «Al termine del  tirocinio – spiega Daniela – mi hanno offerto di continuare a  lavorare con  loro, con un contratto di lavoro  a  tempo  determinato.  Io  però devo ancora finire di studiare, inoltre lo stipendio sarebbe stato in valuta locale e quindi molto  basso. Ho dovuto  rifiuta‐re». Difficile ricostruire un quadro uniforme di queste esperienze, ognuna delle quali sembra avere avuto un percorso diverso. Non  mancano  gli  episodi  curiosi.  «Ad una mia collega stagista – racconta Bene‐detta  –  una  volta  è  stato  chiesto  di  ac‐compagnare  la moglie di un ministro a fare  shopping, non esattamente  il moti‐vo per  il quale era  lì  in ambasciata. Ad un’altra è stato chiesto di fare da tradut‐trice ad un parlamentare per un incontro con altri esponenti politici europei. Non era  un membro  del  governo,  non  c’era ragione  per  cui  beneficiasse  di  questo servizio, per di più gratuitamente». Il  consiglio delle  ex  stagiste  è quello di accordarsi  prima della  partenza  circa  il lavoro da svolgere. Contattare il proprio tutor e verificare che la propria presenza possa tornare utile. Difficile dare una  valutazione  comples‐siva dell’opportunità di queste esperien‐ze,  anche  se  quello  che  racconta  Bene‐detta  appare molto  eloquente:  «Queste istituzioni  sprecano una  risorsa  incredi‐bile,  rappresentata dai giovani, persone motivate che vanno a lavorare gratis. Se lavori gratis si presume che tu sia moti‐vato. Ma il più delle volte non le reputa‐no  all’altezza  dei  compiti  che  vengono loro dati, benché  siano  laureati o  laure‐andi in specialistica». Posti di fronte ad opportunità di questo tipo molti  studenti  decidono  di  partire lo  stesso,  anche  a  costo di  correre  il  ri‐schio  di  rimanere  in  ufficio  sei  ore  al giorno a non fare nulla. Perché questo è l’unico  accesso  per  fare  esperienza  in istituzioni di questo tipo. Prendere o lasciare. 

Dottori I livello Laurea  conseguita  da  non  oltre  18 mesi (il tirocinio deve  iniziare entro  i 18 mesi); :: votazione di laurea minima 105/110; :: età massima 25 anni; :: conoscenza delle lingue straniere.  Per i laureandi di specialistica, magistrale  a  ciclo  unico  e  di vecchio ordinamento :: 60  crediti per gli  iscritti alla  laurea specialistica; :: 240 crediti per gli iscritti alla laurea magistrale a ciclo unico; :: 70 % degli esami sostenuti per i lau‐reandi di vecchio ordinamento; :: 27/30 di media; :: conoscenza delle lingue straniere, :: età massima 28 anni 

I REQUISITI

I TA L I A

MILANO ‐ Avevamo già lanciato dalle pagine di Acido  Politico  il rischio che la criminalità organizzata potesse mettere mano  sul  flusso di  soldi  che  investirà Milano con il nome di Expo. Non  avevamo  torto.  Nel  frattempo  è venuta a galla una storia che conferma le nostre preoccupazioni. Una  sceneg‐giatura  degna  della  filmografia  gan‐gster firmata Scorsese. Alla  procura  di  Varese  si  sta  investi‐gando su un traffico di droga. Da que‐sta  inchiesta prende vita un  filone che si  occupa  di  appalti  e  rapporti  tra ‘ndrangheta  e  politica.  Sotto  osserva‐zione  c’è Giovanni Cinque,  55,  legato alla  ‘ndrina  Arena  di  Capo  Rizzuto. Cinque è uno dei sostenitori della cam‐pagna  elettorale  provinciale  di Massi‐miliano Carioni, già  assessore  al  terri‐torio di  Somma Lombardo,  che  lo ve‐drà  ottenere  la  carica  di  capogruppo del Pdl in consiglio provinciale. Questi non  sono  gli  unici  protagonisti  della nostra  storia,  in  gioco  entra  anche un a l t ro   malav i toso   l ega to   a l l a ‘ndrangheta,  Francesco  Franconeri (con precedenti per bancarotta fraudo‐lenta,  ricettazione,  sottrazione  di  beni destinati a misura di prevenzione, resi‐stenza e oltraggio a pubblico ufficiale), amico  e  coscritto  del  già  presentato Cinque. I  personaggi  fino  ad  ora  incontrati  li troviamo  tutti  assieme  alla  cena  orga‐nizzata  per  festeggiare  la  vittoria  di Carioni  alla  provincia.  Qui  la  polizia ha già sotto controllo il telefono di Cin‐que e documenta tutta la cena con foto e  intercettazioni  ambientali.  Fino  a questo  punto  gli  affari  vanno  bene, l’obbiettivo  è  avere  l’uomo  giusto  che può  aiutare  a  ottenere  gli  appalti  in vista  delle  grandi  opere  previste  per l’Expo.  Però  così  non  è  abbastanza, Cinque  vuole  andare  oltre.  La  partita vera, quella che  fa guadagnare di più, si gioca ovviamente a Milano, Cinque e Franconeri  lo  sanno  bene,  non  sono certo dei novelli, così organizzano altri incontri con Carioni. Questa volta non sono soli. Con  loro,  in  un  bar  di  Castronno  ci sono  altre  due  persone:  Paolo  Galli, presidente del consiglio di amministra‐zione dell’Aler di Varese, l’azienda che si  occupa  di  Edilizia  Residenziale; Francesco  Salvatore,  imprenditore campano  che  si  occupa  di  Edilizia  e Informatica. Mafia,  politica  e  imprenditoria  in  un 

La ‘ndrangheta alla conquista dell’Expo

di Filippo Basile

Intercettazioni e pedinamenti hanno rivelato le mosse della criminalità organizzata. Obiettivo: gli appalti. Da 15 miliardi di dollari

no due punti a mio avviso  fondamen‐tali.  In  primo  luogo  la  funzione  di  una commissione  antimafia,  che  non  ha  il compito di combattere o attivare mezzi per  contrastare  la  criminalità  organiz‐zata, ma  si prefigge  l’obiettivo di  stu‐diare  e  osservare  ciò  che  avviene  nel territorio per poi renderlo noto  in una relazione  finale,  quindi  definisce  fatti già  avvenuti  e  non  previene  fatti  che potrebbero succedere.  In  secondo  luogo  bisogna  sottolineare che  è  un  organo  politico  e  come  tale risente  indubbiamente  delle  influenze da  parte  del  partito  di  maggioranza, partito di  cui Giudice e Carioni  fanno parte. Proprio a 30 anni dall’omicidio di  Im‐pastato  sembra  non  essere  cambiato molto,  se  non  la  dinamicità  del  busi‐ness  illegale, che si espande e coinvol‐ge  intere classi politiche e  imprendito‐riali, che si spartiscono fette di mercato come  iene,  inquinando  un’economia che già fatica a decollare. 

bar  di  Castronno.  L’ultimo  tassello  si aggiunge  in  un  successivo  incontro quando  si presenta Vincenzo Giudice, consigliere comunale eletto per  la  lista “Forza Italia Moratti Sindaco”. Tutta questa vicenda viene e scuote  la già accesa discussione su una possibile costituzione di una  commissione  anti‐mafia a Milano che descriva e studi  la situazione della  criminalità organizza‐ta  nel  capoluogo  lombardo  e  paesi  li‐mitrofi,  e  che  controlli  la destinazione dei soldi e degli appalti derivati dall’E‐xpo 2015.  La  proposta  di  una  commissione  di vigilanza sul fenomeno mafioso era già arrivata  in  consiglio  comunale  a  giu‐gno e Forza  Italia  l’aveva bocciata con qualche voto di scarto. Ora si ripresen‐ta  l’ipotesi  e  a  quanto  pare  anche  il partito  azzurro  sarebbe  favorevole. Non voglio   fare facile demagogia, pe‐rò la storia qua sopra parla molto chia‐ro.  Superficialmente  non  vedrei  nulla  di male, però ci terrei a sottolineare alme‐

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LA VIGNETTA 

C L I C K

Il soldato Francisco Diaz abbraccia la sua fidanzata Jacqueline Vazquez di ritorno dal semestre in Iraq  (foto di Joe Raedle per GETTY IMAGES) 

PARIGI ‐ Un signore mangia in una mensa deserta allestita per i fedeli musulmano a digiuno per il Ramadan (foto di Benoit Tessier per REUTERS) 

E S T E R I

richiesto  dal  piano  si  è  realizzato  con estrema  lentezza  e  solo  l’8  settembre  la Russia ha annunciato  l’abbandono entro fine mese del porto di Poti  e della zona cuscinetto,  dichiarata  unilateralmente  e controllata da suoi “soldati di pace”,  tra Ossezia e Georgia. Il 26 agosto il Cremli‐no,  facilitato dal precedente del Kosovo, ha riconosciuto, nonostante la contrarietà della comunità  internazionale,  l’indipen‐denza  di  Abkhazia  e  Ossezia  del  Sud, con cui ha poi firmato trattati di coopera‐zione militare.  Sul  loro  territorio  sorge‐ranno basi russe. La guerra ha lasciato dietro di sé morti e profughi; inoltre ha peggiorato le relazio‐ni  tra Russia  e USA  (il  cui  appoggio  ai georgiani si è  limitato ad aiuti umanitari e  al  travaso  di  truppe  dall’Iraq),  e  ha complicato quelle con l’UE, che sta orga‐nizzando una missione di polizia di circa 200 uomini per monitorare la realizzazio‐ne del piano di pace.  Ora  si  riaprirà  il dibattito  internazionale sullo  status  di  Abkhazia  e  Ossezia  nel Sud, ma  nemmeno  l’UE  è  così  convinta di  poter  difendere  l’integrità  territoriale georgiana. 

anche qui la moneta è il rublo. I destini di Abkhazia  e Ossezia del Sud, fino a poco tempo fa paralleli, ma distan‐ti,  si  sono  incrociati nel  recente  conflitto bellico che ha sconvolto  l’instabile  regio‐ne caucasica, proprio alle porte dell’Euro‐pa. Dopo un  luglio burrascoso, nella pri‐ma settimana d’agosto si sono verificati  i primi incidenti di frontiera in Ossezia del Sud. Poi, nella notte tra il 7 e l’8 ha avuto inizio  l’offensiva militare georgiana sulla capitale  Tskhinvali  e  sui  villaggi  osseti, decisa  dal  presidente  georgiano  Shaaka‐shvili per  riconquistare  il  controllo della provincia. L’aver  sottovalutato  la  reazio‐ne  russa  si  è però  rivelato  fatale. Essa  è stata decisa,  imponente,  e  sproporziona‐ta.  Alimentata  inoltre  dalla  deriva  filo‐occidentale della Georgia, ha di fatto dato luogo a un’invasione. Le  truppe georgia‐ne  hanno  presto  dovuto  abbandonare Ossezia del Sud e Abkhazia, in cui i russi avevano  aperto  un  secondo  fronte  il  9 agosto,  e  indietreggiare  a  difesa  della capitale  di  fronte  all’avanzata  dei  tank nemici,  che  si  sono  spinti  fino  a  poche decine di chilometri da Tbilisi.  La sconfitta per  la Georgia è stata  totale. La mediazione  dell’UE  ha  portato  a  un “cessate  il  fuoco”  il 12 agosto  (violato  in più  occasioni),  e  ad  un  accordo  in  sei punti accettato sia dalla Georgia che dalla Russia, su cui  tutt’ora si  fonda  la  tregua. Il  ritiro  russo  dal  territorio  georgiano 

MILANO ‐ I primi disordini in Abkhazia, oggi  repubblica autonoma,  si ebbero nel 1989.  I  georgiani  appoggiavano  l’indi‐pendenza dall’URSS, mentre gli abcasi e le  altre  minoranze  desideravano  uno stato a se stante. Poi, la reazione repressi‐va della Georgia alla dichiarazione d’in‐dipendenza abcasa del  ‘92 diede  il via a tre anni di guerra, in cui la Russia sosten‐ne  i  separatisti. Le violenze e  i massacri perpetrati dai separatisti e dai loro alleati spinsero  i  georgiani  fuori  dalla  regione, tanto  che  oggi  sono  in  essa  un’esigua minoranza.  Le  lingue  parlate  in Abkha‐zia sono solo il russo e l’abcaso, e la mo‐neta è il rublo. Nel  novembre  ‘89,  il  Soviet  Supremo dell’Ossezia del  Sud, oggi  regione  auto‐noma,  si  espresse per  l’unificazione  con l’Ossezia  del  Nord,  allora  repubblica sovietica  e  ora  parte  della  Federazione Russa,  ma  la  decisione  venne  bloccata dal parlamento georgiano. Poi,  tra  il  ‘91 (anno  della dichiarazione d’indipenden‐za osseta) e il ‘92, la guerra con i separati‐sti  affiancati  dall’Armata  Rossa.  La  fine delle  ostilità portò  alla  spartizione della regione  tra autorità georgiane e ossete e alla  creazione di una  forza di peacekee‐ping monitorata dall’OSCE. Attualmente, la stragrande maggioranza della popola‐zione ha passaporto  russo; due  terzi del budget governativo arrivano da Mosca e 

Georgia, la nuova “cortina di ferro”

di Matteo Manara

Nel bel mezzo delle Olimpiadi di Pechino, Mosca ha deciso di rispolverare l’ideologia bipolaristica

PAVIA ‐ Vi fu un tempo in cui il Cau‐caso era una  terra mitica,  traboccante di  storie,  luoghi  romantici  e  sugge‐stioni  esotiche  ben  note  a  chi  abbia letto  i  romanzi  di  Lev  Tolstoj.  Una terra ricca di usi, costumi e tradizioni ma estremamente complessa dal pun‐to di vista etnico, linguistico e cultura‐le  e  da  tempo  immemore  vittima  di tensioni  internazionali  e  divisioni  in‐terne.  Il conflitto in Georgia di questa estate è solo l’ultimo di una serie di tensioni che  hanno  segnato  questa  terra  di frontiera, mai  come  oggi  crocevia  di 

«All’improvviso un boato. Poi la guerra lampo»

interessi  economici  e  geopolitici  che riguardano potenze vicine e lontane. Ma lasciamo da parte la politica inter‐nazionale per raccontare la guerra con gli occhi di  chi  l’ha vissuta. Questa è la storia di Shavlego (foto  a  fianco, ndr), studente di 17 anni, nato a Kutaisi ma cresciuto  a  Senaki,  poco  più  di  200 chilometri a ovest della capitale Tbili‐si.  Un  ragazzo  pacato  e  intelligente con molte  cose  da  raccontare.  Ci  in‐contriamo  in un bar di Pavia, gestito dalla sorella Dali e dal marito Salvato‐re, e da subito iniziamo a parlare della guerra. 

Shavlego mi racconta che la notte del‐l’8 agosto si trovava a casa di un ami‐co con altre due persone quando, po‐co dopo la mezzanotte, sentì un boato, vide  la casa che  tremava e  in un atti‐mo si ritrovò sotto il tavolo del salotto sotto i colpi degli aerei russi che bom‐bardavano la città. Terminato  l’attacco  uscì  di  casa  con gli  amici  per  cercare  in  ospedale  il fratello  di  uno  di  loro,  soldato  della base militare posta fuori città e bersa‐glio strategico dell’aviazione russa.  Il  fratello  dell’amico  era  fortunata‐mente  salvo ma  lungo  la  strada  Sha‐

dal nostro inviato Francesco Russo

Per saperne di più

Aldo  Ferrari,  “Breve  storia  del  Caucaso”, Roma, Carocci, 2007 • http://www.asiac.net/ • http://www.italiageorgia.it/ • http://www.osservatoriocaucaso.org/ • http://www.visitgeorgia.it/ 

E S T E R I

vlego  vide  i  corpi  delle  vittime  del bombardamento, uomini sanguinanti, lasciati  a  terra,  alcuni  di essi senza testa.  All’ospedale la situazione non  fu  molto  diversa: uomini  martoriati  dalle bombe,  soldati  e  civili sotto  shock,  senza  una gamba o un braccio, nella disperata attesa dell’aiuto dei  medici.  Nei  cinque giorni  successivi  Shavle‐go  rimase  chiuso  in  casa con  la  sua  famiglia,  semi isolato dal resto del mon‐do e in compagnia del suo pc.  In quegli  stessi giorni  i  russi entraro‐no  in  città  e  saccheggiarono  la  base militare  portando  con  sé  computer, 

armi, mezzi di trasporto, divise e stru‐mentazioni militari per poi  ritirarsi  il 

23 agosto. Non  è  difficile  per  Sha‐vlego fare distinzione tra il  bene  e  il male:  i  russi meritano  il  suo  odio mentre  l’Europa  e  gli Stati Uniti hanno tutta la sua ammirazione. Dietro queste parole la paura di un  nuovo  attacco  che forse  non  si  limiterà  al semplice  annullamento delle  forze  militari  ma che potrebbe trasformar‐

si in una nuova guerra di conquista.  Shavlego considera  illegittima  la pro‐clamazione  delle  repubbliche  di  A‐bkhazia e Ossezia del Sud perché so‐

no regioni storicamente legate al terri‐torio georgiano.  In particolare dall’A‐bkhazia, regione  fertile, dal clima mi‐te, sin dalla fine dell’800 meta di turi‐sti russi, ucraini e locali proviene par‐te della sua famiglia.  Alla fine di settembre tornerà in Geor‐gia e si iscriverà alla facoltà di econo‐mia all’università di Tbilisi. Mi spiega che  lo ha fatto perché vuole aiutare  il suo  paese  a  crescere  e  prosperare. Non vede l’ora di trasferirsi con i suoi amici  e  di  vivere  finalmente  senza  i genitori. Per  il  futuro  spera di  realiz‐zarsi e di vivere senza più paure. Ma di  una  cosa  è  certo:  fintanto  che  la politica  russa  non  cambierà  nessuna pace sarà fatta.  

 

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La prima  sfida per  la nuova giunta  sarà superare  l’isolamento  internazionale.  La promessa di  indire rapidamente elezioni democratiche sembra un modo per pren‐dere  tempo  con  la  comunità  internazio‐nale che condanna fortemente l’accaduto, Unione Africana, Unione europea e Stati Uniti in primis. L’Unione  Europea  ha  annunciato  la  so‐spensione degli aiuti economici  (156 mi‐lioni di  euro per  il periodo 2008‐2013)  e ordinato il ripristino del mandato di Ab‐dallahi,  destituito  illegittimamente,  e Parigi ha annunciato di essere pronta ad imporre  sanzioni  individuali  contro  i leader del golpe. L’Unione Africana ha  sospeso  la Mauri‐tania  dal  blocco  e  questa  sanzione “durerà fino a quando il Paese non ritor‐nerà  al  governo  costituzionale”,  ha  di‐chiarato  il  presidente  dell’UA,  Bernard Membe.  Non meno  difficile  sarà  conquistarsi  la fiducia della popolazione: se  il golpe del 2005  fu  salutato  come  una  liberazione, quello  attuale  è  solo  il  prodotto  di  una lotta di potere ai vertici statali. Una moti‐vazione che non giustifica  il sacrificio di alcuna democrazia. 

tari hanno così trovato la strada spianata. Non  che  Abdallahi  non  avesse  colpe:  è stato  accusato  di  aver  utilizzato  fondi pubblici  per  scopi  personali,  di  essersi avvicinato  troppo  agli  uomini  dell’ex dittatore  Taya,  di  essersi  alleato  con  gli islamisti  (scelta  che  ha  provocato  una frattura  interna  al Pndd‐Adil). Accortosi troppo tardi del vuoto che gli si era crea‐to attorno, Abdallahi ha rimosso il primo generale  della  Basep,  Mohamed  Ould Abdel Aziz, ed altri generali dai  loro  in‐carichi, accusandoli della crisi. Una mos‐sa troppo tardiva ed inutile. A  capo  del  nuovo  consiglio  militare  è stato  posto Aziz  ed  il  31  agosto  è  stato formato un nuovo governo. 

MILANO  ‐ Il presente democratico della Mauritania  non  è  destinato  ad  esserne anche  il  futuro, almeno per  il momento. Il 6 agosto scorso un centinaio di soldati della  guardia  presidenziale  (Basep)  è sceso  nelle  strade  della  capitale  Noua‐kchott  per  destituire  il  presidente  Sidi Ould  Cheikh Abdallahi,  sequestrato  as‐sieme  al  Primo Ministro Yahya Oulf A‐hmed Waghf . La debole democrazia africana, liberatasi dal dominio  coloniale  francese nel  1960, si  trova  ad  affrontare  la  più  grave  crisi dopo  il golpe  incruento del 2005, grazie al quale il Paese si sbarazzò del dittatore Maaouiya Ould Taya, al potere dal 1984. Da quel momento la Mauritania intrapre‐se un nuovo corso grazie ad un governo militare  transitorio  che  si  impegnò  di fronte  al  popolo  a  creare  le  condizioni favorevoli alla nascita di una democrazia aperta  e  trasparente.  E  così  è  stato:  l’11 marzo 2007 Abdallahi fu eletto presiden‐te  col  53%  dei  consensi  a  fronte  di  una affluenza del 67%. I soldati hanno perciò rovesciato  un  presidente  democratica‐mente  scelto,  cancellando  l’illusione  che la  democrazia  si  fosse  instaurata  real‐mente. La crisi ha avuto  inizio  il maggio scorso: dopo le critiche sulle misure del governo per  fronteggiare  lʹaumento  dei  prezzi alimentari e gli attacchi subiti da Al Qae‐da  (la Mauritania  ha  riconosciuto  Israe‐le),  tra maggio  e  luglio Abdallahi ha  ri‐formato per ben due volte  il governo;  la settimana precedente al golpe la maggior parte  dei  parlamentari  appartenenti  al partito  di  Abdallahi  (Pndd‐Adil)  ha  la‐sciato la compagine governativa con lʹap‐poggio degli ufficiali dellʹesercito. I mili‐

Mauritania, il golpe che cancella la democrazia

di Debora Pignotti

Diventata repubblica grazie ad un colpo di stato pacifico nel 2005, torna ad essere una dittatura “grazie” allo stesso strumento

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2008

E U R O PA

zprom,  la  compagnia  energetica  “di bandiera” del Cremlino. La Gazprom ha  sia proposto  la  costru‐zione di gasdotti  alternativi,  come  l’al‐largamento del Blue Stream sotto il Mar Nero o la costruzione del South Stream, che partirebbe dalla Russia e attraverso Bulgaria, Ungheria e Austria arrivereb‐be  in  Italia, sia si è offerta di comprare tutto il gas da esportazione prodotto da Turkmenistan  e  Azerbaijan,  privando così Nabucco delle sue principali forni‐ture. Il secondo problema è la divisione all’interno delle griglie energetiche Eu‐ropee,  fortemente  appoggiato  dai  gi‐ganti  energetici nazionali, quali Electri‐cité  de  France, perché permette il mono‐polio  di  mercato  all’interno  dei  vari paesi.  La  liberalizzazione del mercato energe‐tico  europeo  renderebbe  sia  più  facile presentare un  fronte  comune  alla Rus‐sia, perché  non  esisterebbero più  cam‐pioni  nazionali  abbastanza  grandi  da preferire gli accordi bilaterali alla politi‐ca comunitaria, sia permetterebbe mag‐giori  scambi  di  risorse  energetiche  fra paesi, neutralizzando  in parte  il potere di  ricatto  del Cremlino. Da  entrambi  i punti di vista, la situazione è tetra: l’at‐tacco Russo alla Georgia ha dimostrato l’instabilità della  regione  e  il  rischio di interruzione  del  servizio  cui  sarebbero sottoposti  Nabucco  e  altri  oleodotti  e gasdotti che l’attraversassero. Non è da escludere  che  questo  fosse  uno  degli obiettivi del Cremlino. E  la volontà po‐litica  europea,  nonostante  il  recente impegno  di  Sarkozy  di  giungere  a  un fronte energetico comune entro sei me‐si, pare scarsa. La Germania,  tramite  la E.ON, principale compagnia energetica Tedesca,  sta  costruendo  un  oleodotto sotto  il Baltico  in  copartecipazione  con la  Gazprom.  L’oleodotto  rifornirebbe direttamente la Germania evitando Bie‐lorussia e Ucraina, e ha suscitato timori che possa venir utilizzato dal Cremlino per ricattare  i suddetti due paesi senza mettere a rischio le forniture ai  privile‐gati clienti dell’Europa Occidentale. Il capo del progetto, dal 30 Marzo 2006, è  l’ex‐cancelliere  Tedesco  Gerhardt Schroeder. 

impedito  il  formarsi  di un  fronte  unito  per  la negoziazione  con  la  Fe‐derazione Russa. I paesi Europei non pos‐sono  avvantaggiarsi  del‐la  loro  posizione  di  ac‐quirenti  maggioritari delle  risorse  russe,  dalla vendita  delle  quali  la Russia dipende per conti‐nuare  a  crescere  econo‐micamente.  La  Russia può  invece  fare  la  voce grossa  con un paese  alla volta – come nel 2006 con l’Ucraina,  o  più  recente‐mente  con  la  Bielorussia  ‐ e ottenere ciò che vuole. La dipendenza Europea è 

attribuibile a due  fattori:  il primo è che tutti gli oleodotti e gasdotti che  riforni‐scono  l’Europa  transitano per  il  territo‐rio  russo.  Il  progetto Nabucco,  un  ga‐sdotto che avrebbe dovuto trasportare il gas  dall’Asia  Centrale,  specificamente dal  Turkmenistan,  attraverso  il  Mar Caspio  e  la  Turchia  sino  all’Austria,  è stato naturalmente osteggiato dalla Ga‐

MILANO  ‐  Con  la  crisi nel Caucaso di  agosto  si è  riproposto ai paesi eu‐ropei  il  dilemma  della dipendenza dalle  impor‐tazioni di gas russo. Una questione  che  tocca  tra‐sversalmente molti  temi, dalla  politica  energetica Europea,  al  bisogno  di una politica estera comu‐ne,  all’integrazione  dei paesi   Europei   ex‐Sovietici. Il  problema  può  essere descritto,  semplificando‐lo, come un problema di unità  e  frammentazione. Mentre  gli  attacchi  di Putin agli oligarchi, nello specifico a Khodorkovsky e alla Yukos, hanno  permesso  il  consolidamento  in mano  statale  della  quasi  totalità  del patrimonio  energetico  Russo,  e  hanno quindi  dato  al  Cremlino  un  immenso potere di ricatto verso  i paesi che abbi‐sognano del gas e del petrolio,  la divi‐sione  fra  i  clienti  suddetti,  e  quindi  all’interno  dell’Unione  Europea,  ha 

Energia, l’UE con le mani legate

di Alessandro Casoli

Tutti gli oleodotti ed i gasdotti che riforniscono l’Europa transitano sul territorio russo. Così l’UE ha finito col dipendere ogni giorno da Mosca

VERSO LE PRESIDENZIALI USA ‘08

MILANO ‐ I sondaggi dell’istituto statunitense “Gallup” ‐ all’ora di chiu‐sura  di  questa  rivista  (19  settembre,  ndr)  ‐  registrano  un  vantaggio “significativo” del candidato democratico Barack Obama nei confronti del senatore repubblicano John McCain, altro grande pretendente per la Casa Bianca. Se si votasse oggi,  il democratico Obama vincerebbe col 50% dei voti, staccando di 6 punti il candidato repubblicano (44%). Da considera‐re, però, che le presidenziali Usa adottano il sistema dei grandi elettori.  

(l.b.) 

R E P O RTA G E

NUOVA DELHI ‐ Un mare di corpi stesi sullo  spartitraffico,  in  mezzo  alle  due corsie della superstrada che attraversa la città.  Una  serie  infinita  di  corpi  addor‐mentati, seminudi per il caldo che emana l’asfalto,  raccolti  su  se  stessi  e  sui  loro pochi stracci, illuminati dai fari delle rare macchine  che  passano.  Stanno  distesi sullo spartitraffico per poter godere dell’‐aria  delle  automobili  che  sfrecciano  a pochi centimetri dalle loro teste. Questo è il paesaggio notturno di New Delhi. Un popolo  notturno  che  dorme  e  si muove nella desolazione della notte urbana. Un popolo  che  non  ha  niente,  e  che  non  è nessuno, un popolo  che  lotta  con  i  cani randagi e che condivide  il proprio giaci‐glio con ratti e mucche.  Immagini  india‐ne. Una bambina è seduta in mezzo alla stra‐da. Lei è piccolissima, nuda, e tranquilla. La  strada  è  enorme,  trafficata  e  caotica. Automobili,  motorini,  riksò,  biciclette: tutti si  limitano a schivarla, così come si evita una pozzanghera. Nessuno sembra accorgersi di lei. 

dalla nostra inviata Daniela Balin

Al di là dell’apparente fiducia del mercato emergente, al di là del mito della terra della tolleranza universale, la vera faccia dell’India è quella di un paese crudele e tormentato

La  più  grande  democrazia  del  mondo: ma di democrazia, per le strade di Delhi, se ne vede ben poca, e lo sviluppo econo‐mico  si  traduce  in  cumuli di  spazzatura che spesso diventano rifugio e abitazione per chi non possiede nient’altro. Il modo in cui l’India viene percepita in Occiden‐te spesso è fuorviante ed ingannevole. Verso la fine di agosto si è sentito parlare molto dell’India in relazione alle violenze contro  i  missionari  cristiani.  Anche  il presidente  del  Senato,  Renato  Schifani, ha espresso la sua condanna ai fatti acca‐duti nella regione dell’Orissa: «La  feroce aggressione avvenuta in India rappresen‐ta una pagina buia di intolleranza religio‐sa e integralista». Si è parlato di queste violenze con stupo‐re,  come  uno  scandalo  nel  paese multi‐culturale e multi‐religioso per eccellenza. Ma di pagine buie di questo genere  l’In‐dia ne ha molte: la stampa italiana, e l’o‐pinione pubblica occidentale in generale, tanto mobilitata e scandalizzata per que‐ste violenze  che hanno  coinvolto  cristia‐ni, sembrano  ignorare  il  fatto che  l’India 

India  regina  dell’economia  emergente, India promessa di enormi mercati,  India che eccelle nei  settori più moderni della biotecnologia e dei  software  informatici. 

LA FRASE

“Io mi  sto  battendo  per  un’India  in cui  i più poveri possano  sentire  che questo è  il  loro paese,  in cui abbiano una  voce  effettiva;  un’India  in  cui non  ci  sia una  classe  più  alta  e  una più bassa; un’India in cui tutte le co‐munità  possano  vivere  in  perfetta armonia;  non  dovrebbe  esserci  spa‐zio  in questa  India per  la piaga del‐l’intoccabilità  o  per  la  maledizione delle  droghe  e  dell’alcool;  le  donne dovrebbero godere degli stessi diritti degli  uomini;  dovremmo  essere  in pace  con  tutto  il  resto  del  mondo. Questa è l’India dei miei sogni”      

Mahatma Gandhi, 1947 

R E P O RTA G E

sia costantemente teatro di rivolte, atten‐tati, scontri tra caste, tribù ed etnie diver‐se. Se  si  riportasse  ciò  che  accade quotidia‐namente,  allora  l’idea dell’India non  sa‐rebbe  più  associata  alla  tolleranza,  alla convivenza  pacifica  che  sa  appianare differenze religiose ed etniche. A maggio  l’intera regione del Rajastan e gran parte dell’India  settentrionale  sono stati  paralizzati  per  settimane  da  una violenta  rivolta  della  tribù  dei Gujjarat. Ferrovie bloccate, strade sbarrate, comu‐nicazioni interrotte, la capitale presidiata dall’esercito:  una  ventina  di morti  e  un gran numero di feriti. Nonostante l’entità 

orientali;  se  non  si  considera  il  sistema delle caste, ancora funzionante ed attuale anche nella mentalità delle nuove  gene‐razioni; se non si considerano  la pena di morte  continuamente  esercitata,  gli  atti di tortura commessi dalle forze dell’ordi‐ne e la dilagante corruzione tra i politici; se  non  si  considera  la  piaga  dell’alcoli‐smo  e del  traffico  internazionale di  stu‐pefacenti, allora si può parlare dell’India come di un paese sulla via della moder‐nizzazione e dello sviluppo. Ma  la realtà è molto più confusa e caoti‐ca, e il sogno di Gandhi rischia di essere, ancora  per  molto  tempo,  un’ingenua, bellissima ed emozionante utopia. 

della rivolta sia stata di gran lunga supe‐riore a quella dei fatti dell’Orissa contro i missionari,  l’intero  avvenimento  non  è stato  ritenuto  degno  di  nota  dai media occidentali. Al di là dell’apparente fiducia del merca‐to emergente, al di là del mito della terra della tolleranza universale, la vera faccia dell’India è quella di un paese crudele e tormentato,  percorso  da  dinamiche  vio‐lente,  che  legano  questo  immenso  su‐bcontinente alla millenaria lotta tra pove‐ri. Se non si considera la perenne guerriglia condotta  dai  guerriglieri  maoisti  nelle foreste  e  nelle  campagne  delle  regioni 

LA SCHEDA

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Con una popolazione di 1.095.351.995 abitanti, l’India è il secondo paese più abitato del mondo (dopo la Ci-na) ed ha una superficie di 3.287.594 km quadrati. Il paese si regge su una repubblica parlamentare federa-le ed ha per capitale Nuova Delhi (292.300 abitanti). Il suo Pil nazionale (anno 2006) è di 4.231.583 milioni di $, al terzo posto nel ranking economico mondiale.

(fonte: Wikipedia)

Giornale”  di  Montanelli  che  mi  ha richiamato. Più tardi sono passato al Corriere grazie anche ad un mio for‐tunato scoop sul gruppo paramilitare Gladio». Una notizia con cui brucia sul tempo tutti i concorrenti e che gli apre defi‐nitivamente le porte del grande gior‐nalismo. Fabrizio non si tira indietro quando chiediamo di cosa si  trattas‐se. «Ci  fu  a Milano  una  esposizione  di oggetti militari, roba da ultima pagi‐na.  Chiesi  ad  un  organizzatore  se sapesse  qualcosa  relativamente  al caso Gladio, in quel momento negato da  tutte  le  autorità  italiane.  Inizial‐mente rispose picche, dopo mi seguì fuori dalla mostra e mi raccontò che un  suo  amico,  produttore  di meda‐glie e gagliardetti, era stato contatta‐to  da  alcune  persone.  Gli  avevano ordinato parecchie medaglie con una scritta  latina,  la  stessa  riconosciuta da  alcuni  giudici  che  investigavano sulla  faccenda come  il motto di Gla‐dio.  In  pratica mi  capitarono  tra  le mani le prove della sua esistenza». Forse  fortuna,  ma  anche  parecchia determinazione,  come  consiglia  a tutti gli aspiranti giornalisti. «All’inizio  le  storie  che  raccontavo avevano  spazio  solo  in ultima pagi‐na. Ma i sogni vanno seguiti. La diffi‐coltà  per  i  giovani  di  oggi  è  avere spazi e responsabilità,  invece  la  tipi‐ca carriera giornalistica sta diventan‐do  purtroppo  sempre  più  istituzio‐nalizzata  e  schematica.  Università, specializzazione,  stage…  Bisogna muoversi dalla redazione ed essere il più possibile umili e curiosi. Ma so‐prattutto  specializzati  in  qualche questione  particolare,  infatti  –  con‐clude  ironico – ho cominciato ad oc‐cuparmi per primo di immigrati per‐ché non gliene  fregava niente a nes‐suno». 

Africa mi ha  fatto capire che  forse  il modo migliore di conoscere il mondo non  fosse sorvolandolo. Così ho  rac‐colto i miei migliori articoli scritti per il Cittadino lasciandoli poi nelle reda‐zioni  di  grandi  testate,  tra  cui  “Il 

MILANO  ‐  Riusciamo  a  contattarlo telefonicamente con un po’ di  fortu‐na  al  ritorno  da Milano.  E’  appena salito in macchina per mantenere un minimo di privacy e da lì chiacchiera con noi per una buona mezz’ora. Un cuore ramingo quello di Fabrizio Gatti. Il giorno dopo sarà già in par‐tenza  per  un  servizio,  ma  sarebbe inutile chiedergli di che si tratti. Si è concesso qualche giorno di pausa per ritirare a Udine il Premio internazio‐nale Terzani che gli è stato assegnato da  una  giuria  di  grandi  nomi  del giornalismo.  Tra  questi  alcuni  dei suoi punti di  riferimento durante  la giovinezza. «Valerio Pellizzari ed Ettore Mo sono sempre stati un esempio professiona‐le da seguire, assieme allo stesso Ter‐zani. E’ stato un onore vedere ricono‐sciuto il mio lavoro da una comunità che  considera  Tiziano  Terzani  la grande penna del giornalismo  italia‐no.  Anche  presentare  il  mio  libro davanti a quasi mille persone, tra cui molti  stranieri  immigrati,  è  stato  di grande impatto». Proprio  “Bilal”,  ultimo  suo  lavoro, gli  è  valso  un  riconoscimento  asse‐gnato  per  la  prima  volta  in  quattro edizioni ad un italiano. Un reportage sul suo viaggio da infiltrato nel mer‐cato  dei  clandestini  dall’Africa  alle nostre  coste, mai  così  autentico per‐ché  vissuto  sulla  propria  pelle  da Gatti. «Il mio  libro –  ci  tiene a precisare  il cronista – non è un saggio. Ho preso in  prestito  lo  stile  narrativo  del  ro‐manzo  per  dare  forma  reale  alle  e‐mozioni. Sono uno di quelli che cre‐dono ancora nella  forza della parola scritta. Per questo ho sempre preferi‐to  i  giornali  alla  televisione, ma  se proprio  dovessi  lavorarci mi  piace‐rebbe  stare  dietro  alla  telecamera, perché  in quel settore  il vero  regista è il cameraman». Fabrizio  parla  con  calma,  senza  na‐scondere  una  punta  di  entusiasmo. Vallo a capire il suo spirito di avven‐tura  tipico dell’apprendista.  Proprio lui che ne ha già passate di cotte e di crude. «Sono stato per un po’  in aeronauti‐ca,  una  delle mie  fisse  da  ragazzo. Ma un reportage di Luca Goldoni  in 

di Andrea Di Stefano

«Umiltà e curiosità per raccontare il mondo»

Colloquio con Frabrizio Gatti. Dall’aeronautica alla carta stampata, la storia di un giornalista “scomodo” che dalle pagine dell’Espresso firma inchieste scomode e di grande impatto

IL LIBRO

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FOCUS

MILANO ‐ Un percorso lineare: non più api,  non  più  impollinazione,  non  più piante, non più animali, non più uomo. “Se  l’ape  scomparirà  dalla  superficie della  terra, allora agli uomini  rimarran‐no  solo quattro  anni di vita”, parola di Einstein.   La profezia del  celebre  scien‐ziato  agli  inizi  del  ‘900  sembra  abbia anticipato la situazione attuale. Negli  Stati Uniti  gli  alveari  sono  dimi‐nuiti fra il 20 e il 50%, in base alle zone e al  loro  livello di  inquinamento. Già, sia‐mo ancora noi ad essere i responsabili.  Secondo gli studi dell’Associazione Api‐coltori Tedeschi,  il problema ha diverse ragioni, una di queste è l’acaro Varroa di origine asiatica.  La Varroa  esiste da  sempre ma  solo da pochi anni  le api soccombono così  facil‐mente  ai  suoi  attacchi.  Perché?  Sembra che l’uso, o meglio, l’abuso di pesticidi e prodotti chimici nelle coltivazioni aggre‐discano il sistema immunitario di questi insetti  impollinatori così da renderli più vulnerabili ai virus di acari e altri paras‐siti.  Oltre al trattamento chimico delle coltu‐re, c’è da considerare anche il trattamen‐to genetico. Gli OGM occupano ormai il 40% dei campi seminati negli USA. Tra i più  pericolosi  c’è  il  “Mais  Bt”  a  cui  è stato  inserito  il  gene di un  batterio  che rende  la pianta  capace di produrre una sostanza  tossica per gli  insetti parassiti, colpendo però anche le api. In Europa  la situazione non è grave co‐me negli Stati Uniti, ma molti apicoltori segnalano  che  la  situazione  sta  peggio‐rando  velocemente.  In  Italia,  per  esem‐pio, si assiste a morìe di api durante tut‐to l’anno e non solo più durante l’inver‐no,  costringendo  gli  allevatori  a  rico‐struire circa il 40‐50% delle colonie. Nelle  librerie  è  da  poco  uscito  l’ultimo saggio di Sylvie Coyaud, “La scomparsa delle api” che approfondisce  i  tratti che fin qui sono stati solo accennati. Coyaud, oltre alla citazione di Einstein,  inserisce, tra  le pagine del  suo  libro, un altro  ipse dixit,  di  ben  più  basso  spessore:  “Sono l’ape operaia del presidente operaio” ha affermato  Michela  Vittoria  Brambilla. Certe tipologie di insetti non vanno mai in estinzione. 

Niente api, niente uomo

di Francesca Casiraghi della Suprema Corte degli Stati Uniti, fu nominato  dal  Presidente  Bush,  la  sua futura  collega  giudice  Sandra  Day  O’‐Connor  commentò  ʺHeʹs  good  in  every way, except he’s not a woman.ʺ (“È otti‐mo sotto tutti gli aspetti eccetto che non è una donna”).  Questa dichiarazione non è esattamente uguale  a  quella  del  dirigente  belga,  in particolare perchè esprime un rimpianto invece che un piano per il futuro. Nondi‐meno, essa ha un effetto simile. L’inten‐zione, lodevole, è di incoraggiare gruppi che appaiono insufficientemente rappre‐sentati  in  qualche  ambito.  Il  risultato, però,  è  quello  di  suggerire  (nemmeno tanto  velatamente)  che  il  dichiarante userà il suo potere a vantaggio del parti‐colare gruppo in questione, e quindi che l’appartenenza a un gruppo conta.  

QUOTE ROSA SÌ O NO? Purtroppo  dichiarazioni  di  questo  tipo non sono  inusuali nella società america‐na,  che  infatti  è  percorsa  da  faglie  che separano gruppi di  influenza  e di pres‐sione.  Queste  faglie  sono  rinforzate  da dichiarazioni  come  quella  del  giudice O’Connor.  Cosa  dire  della  situazione italiana? In  Italia  questa  retorica  soft‐militante  è meno  diffusa,  per  fortuna.  Un  buon  e‐sempio  è  fornito  dal  dibattito  sulle “quote rosa.” Trovo  lodevole  la posizio‐ne  di  Emma  Bonino,  che  in merito  alle quote rosa dichiarò: “Guardi, sono accet‐tabili in Afghanistan, in Marocco. Non in Italia  […] A me  sembra  che  noi  donne dovremmo  ritenere  e  cercare  di  valere ben oltre  la semplice appartenenza a un genere”.  L’attuale ministro delle pari opportunità, Mara Carfagna, è sulla stessa linea.  Bra‐ve Bonino e Carfagna, per avere difeso il criterio del merito contro quello dell’ap‐partenenza a un gruppo. Essendo già un paese  generalmente meno meritocratico degli  Stati Uniti,  e  patria della  lottizza‐zione, l’ultima cosa di cui abbiamo biso‐gno è di ulteriori quote. Fa piacere  che, almeno  in questo ambito verbale,  la no‐stra società e il nostro sistema politico si dimostrino più sensibili al merito rispet‐to ad altri paesi. 

*Tratto dal sito www.lavoce.info 

L’11  luglio  scorso  la  Corte  di Giustizia delle  Comunità  Europee  ha  dichiarato discriminatorie le politiche di assunzione di una ditta belga. Un dirigente dell’im‐presa,  che  installa  saracinesche,  ha  di‐chiarato  che  la  sua ditta  non  assume  e‐xtra‐comunitari perchè  i suoi clienti non vorrebbero dar loro accesso ad abitazioni e locali. La  sentenza  è  stata  controversa  perchè un  tribunale belga aveva originariamen‐te  dato  ragione  all’impresa,  e  i  governi inglese e  irlandese avevano sostenuto  la posizione  del  tribunale  belga.  L’argo‐mento della difesa era che non vi è parte lesa  perchè  non  c’era  alcun  extra‐comunitario che avesse chiesto un lavoro alla ditta e non lo avesse ricevuto. Senza parte lesa, non c’è danno. Le dichiarazio‐ni  del  direttore  sarebbero  dunque  un legittimo esercizio della libertà di parola. Superficialmente, l’argomento della dife‐sa appare sensato.  Ma, come correttamente osserva la Corte di Giustizia,  la parte  lesa c’è. Sono parti lese tutti i lavoratori extracomunitari che non hanno  fatto domanda di  lavoro alla ditta. Una volta individuata la parte lesa, le  dichiarazioni  del  direttore  della  ditta provano  un  intento  discriminatorio.  A quel punto, secondo il principio legislati‐vo,  l’onere di provare  che non  ci  fu di‐scriminazione viene traslato sulla ditta. Il  principio  generale  sancito  in  questa sentenza è ammirevole: chi è in posizioni di  autorità non deve  rilasciare dichiara‐zioni  che pregiudichino  l’esercizio dell’‐autorità a favore di una classe di  indivi‐dui.  Tali  dichiarazioni  scoraggiano  chi, per  quanto  meritevole,  appartiene  alla classe “sbagliata” di  individui. Questo è iniquo.  Inoltre,  è  potenzialmente  ineffi‐ciente, poichè  una  cultura  in  cui  queste attitudini  sono  diffuse  può  ridurre  gli incentivi di tale classe a investire in capi‐tale umano. In terzo luogo, dichiarazioni di  questo  tipo  contribuiscono  a  erodere la fede nel principio meritocratico in tutti gli ambiti, non solo nel settore delle sara‐cinesche.  

NESSUNO È PERFETTO Questa  sentenza  suggerisce  delle  rifles‐sioni  di  più  ampio  respiro,  ricordando una dichiarazione un po’ diversa. Quan‐do  John  Roberts,  l’attuale  presidente 

Discriminazione e cultura del merito

di Nicola Persico*

ANNUNCIO

I quartieri di case popolari Molise – Calvairate ‐ Ponti della zona  sud  est di Milano  sono  ca‐ratterizzati da gravi condizioni di disagio e di esclusione.  Il  Comitato  Inquilini  fondato  nel 1979  dagli  abitanti  del  quartiere,  si  fa  carico dell’analisi  dei  problemi,  dell’elaborazione  e dell’attuazione  di  un  progetto  di  intervento integrato e partecipato di riqualificazione delle periferie,  lavora  affinché  siano  garantiti  e  ri‐spettati  diritti  elementari  come  il  diritto  alla salute,  alla  casa,  all’istruzione. Grazie  all’im‐pegno  quotidiano  di  volontari  e  operatori,  il Comitato  Inquilini  organizza  servizi  e  stru‐menti di relazioni di mutuo aiuto, prevenzione, proposta culturale.  CERCHIAMO VOLONTARI PER LE 

NOSTRE ATTIVITÀ • consulenza e assistenza agli inquilini • doposcuola  per  i  ragazzi  delle  scuole  ele‐mentari, medie e superiori 

• corsi di italiano per stranieri: diurni per sole donne e serali per tutti 

• corso di inglese per adulti se vuoi darci una mano contattaci: via degli Etruschi, 1 ‐ 20137 Milano tel/fax 02/55011187 [email protected]    http://www.bastaesclusione.it  

H I N T E R L A N D

si  è  pure  riuscito  a  comprendere  il perché  di  quell’assurdo  ritardo  per fare  un  semplice  allacciamento  elet‐trico,  lavoro  che  di  norma  richiede non  più  di  una  settimana:  inizial‐mente  il  compito  dell’attivazione dell’elettricità era stato affidato all’E‐nel, ma si era poi optato per la socie‐tà privata Edison, la quale a sua vol‐ta però non  aveva  ricevuto  comuni‐cazione dall’Enel, che si deve comun‐que  occupare  di  dare  il  proprio  as‐senso  sulla  sicurezza  degli  impianti costruiti. Questa mancanza di comu‐nicazione  reciproca  e  un  discreto lavoro telefonico di scarica barile tra Aler,  Enel  e  Edison  hanno  fatto  il resto. Solo a Settembre  inoltrato si è finalmente  provveduto  alla  costru‐zione  degli  impianti  elettrici  e  dei contatori,  e mentre  a Corsico  le pri‐me  famiglie  cominciano  a  entrare nelle loro tanto sofferte nuove case, a Buccinasco  la  palla  è  passata  al  co‐mune che deve dare il suo benestare sulla  sicurezza  delle  nuove  costru‐zioni,  e  gli  inquilini  di  Buccinasco dovrebbero  riuscire  a  entrare  nelle loro case per i primi di Ottobre. Tutto questo mentre  il presidente di Aler, Loris Zaffra, annuncia trionfan‐te che l’azienda venderà alcune delle case in proprietà nel comune di Mila‐no per intascare fondi sufficienti alla costruzione  di  nuove  abitazioni  in periferia, secondo una nuova visione di sviluppo completamente differen‐t e   d a i   v e c c h i   c a s e rmo n i “dormitorio”, di cui  le case costruite a  Buccinasco  e  Corsico  sembrano essere  i primi  esperimenti  in  questa direzione.  C’è da augurarsi che  il nuovo piano non  comporti  imbarazzanti  e  poco chiari  ritardi.  Infatti,  i  primi  benefi‐ciari di questa nuova visione si sono trasformati,  loro malgrado,  in  vitti‐me. 

Buccinasco  la  possibilità  di  portare nelle  loro  future abitazioni mobilia e oggetti  personali,  considerando  che di  lì  a  breve,  finalmente  sarebbero potuti entrare. Sono dovuti passare altri quattro me‐si, l’intera estate, prima che il proble‐ma fosse risolto.  Col  risultato  che  un  centinaio di  fa‐miglie  hanno  passato  la  stagione  in condizioni  precarie,  non  solo  senza una  soluzione  abitativa  stabile  ma anche buona parte delle proprie cose e l’Aler che giorno per giorno garan‐tiva di avere preso a cuore  il proble‐ma  e  che  a breve  (da maggio)  si  sa‐rebbe risolto tutto. Tra le tantissime chiamate e proteste, 

MILANO‐ Buccinasco e Corsico sono due grossi centri abitati della perife‐ria a Sud‐Ovest di Milano che  insie‐me  fanno  quasi  60.000  abitanti,  il corrispettivo di un piccolo capoluogo di  provincia. Dopo  il  boom  edilizio dei primi decenni del dopoguerra,  i due  comuni  si  sono mossi  verso  la riqualificazione  del  territorio  e  ai primi grossi palazzi  residenziali  si è fatto via via posto a soluzioni abitati‐ve  esteticamente  e  abitativamente migliori. Anche  l’Azienda  Lombarda  Edilizia Residenziale  (meglio  conosciuta  co‐me  “Aler”),  che  si  occupa  della  co‐struzione  e  gestione  degli  alloggi popolari di Milano e di tutta la regio‐ne Lombardia,  si  è  accorta di  realtà quando,  nel  2005,  diede  inizio  alla costruzione di alloggi nei due comu‐ni  destinati  a  un  totale  complessivo di 100 famiglie. Secondo i progetti dell’azienda infat‐ti, le nuove case non avrebbero avuto nulla  da  invidiare  con  gli  standard dei  loro corrispettivi privati e  il pro‐getto viene  inserito nell’ottica  regio‐nale degli  alloggi  a  “Canone Mode‐rato”,  ossia  l’Aler  si  sarebbe  posta nei  confronti  dei  futuri  inquilini  al pari  di  un  soggetto  privato,  la  cui unica  eccezione  sarebbe  stata  una riduzione del canone d’affitto rispet‐to  al  prezzo  di mercato  nell’ordine dei  100‐200  circa. A  lavoro ultimato bisogna  dare  atto  che  dal  punto  di vista costruttivo la promessa da par‐te dell’Aler è stata mantenuta, se non fosse che  la maggior parte di queste case,  pronte dall’anno  scorso  e  uffi‐cialmente  assegnate  nei  primi  mesi di quest’anno, ancora non sono state date ai  legittimi  (e ancora  futuri)  in‐quilini. L’Aler aveva garantito  che  la  conse‐gna degli alloggi sarebbe stata effet‐tuata  nei mesi  di  Aprile  e Maggio, invitando  le  famiglie  a  cui  è  stata concessa  l’assegnazione  delle  case  a risolvere le proprie situazioni abitati‐ve  preesistenti.  Moltissime  persone quindi hanno venduto casa o conclu‐so il vecchio rapporto d’affitto. A Maggio però non succede nulla, e a Giugno, con la garanzia che il pro‐blema era in fase di soluzione, l’Aler concede  addirittura  agli  inquilini  di 

di Mirko Annunziata

Il “Far west” delle case Aler A Buccinasco decine di famiglie attendono da mesi di poter entrare nelle case che l’Aler ha costruito per loro. E mentre molti hanno lasciato le vecchie case, per il momento le porte rimangono ancora sigillate.

lenamento da monossido di carbonio o da  stricnina,  alla  rottura del  collo, dallo sgozzamento alla bastonatura o per soffocamento.  Metodi  in  poche  parole  barbari,  che nella maggior parte dei casi mettono semplicemente  fine  ad  una  vita  di reclusione  e  sfruttamento  in  alleva‐menti intensivi, dove l’animale non è visto come un essere senziente capa‐ce  di  provare  emozioni,  ma  come mera materia di produzione  o  come un ingombro di cui liberarsi nel caso dei rifugi sovraffollati.  Tuttavia,  è  da  questa  constatazione dei  fatti  che  si  è  andato  delineando nel    tempo  il  movimento  culturale oggi noto come l’Antispecismo.  Tale movimento    è  avverso  ad  una concezione  antropocentrica  dell’uni‐verso  basata  cioè  sull’ideologia  del dominio da parte dell’uomo su  tutto ciò che lo circonda, cercando  di can‐cellarne le caratteristiche liberticide e violente nei confronti dei più deboli.  Come l’antirazzismo e l’antisessismo, infatti, non soltanto si batte per  l’eli‐minazione    delle  discriminazioni  di razza e  sesso, ma in più spinge l’uo‐mo  a  confrontarsi  con  il  peso  delle sue  azioni  che  compie  nei  confronti della natura e delle altre specie.  Facendo  suoi  i  principi  della “Dichiarazione”, arriva a sottolineare l’importanza  del  rispetto  per  la  vita in tutte le sue forme e del dovere che ha  la persona verso  la comunità bio‐logica  alla  quale  appartiene  e  dalla quale dipende, affinché   non arrivi a danneggiarla  irrimediabilmente; pro‐muovendo  in definitiva   una visione bio‐centrica e più empatica della stes‐sa esistenza. 

MILANO ‐ Il 15 Ottobre 1978 a Pari‐gi, presso  la sede  internazionale del‐l’UNESCO, fu sancita la Dichiarazio‐ne  Universale  dei  Diritti  sugli  Ani‐mali. Una presa di posizione filosofi‐ca  riguardo  ai  futuri  rapporti  tra  la l’uomo e le altre specie viventi.  Alcuni  suoi  articoli  in  particolare stabiliscono  che  “ogni  animale  ha  il diritto  al  rispetto  e  l’uomo non può attribuirsi  la  facoltà  di  sterminarli, sfruttarli a suo piacimento, anzi ogni essere vivente ha il diritto alla consi‐derazione, alla cura, alla protezione” ‐  (Art.  2);  “La  loro  soppressione  se necessaria  deve  essere  istantanea  e senza dolore” ‐ (Art. 3). A trent’anni dalla sua sottoscrizione, i dati in possesso di molte associazio‐ni  animaliste descrivono, però,  tutta un’altra realtà.  Ecco alcune cifre: ogni anno nel mon‐do  vengono  uccisi    per  l’industria alimentare 170 miliardi di animali tra polli, maiali, conigli, mucche, pecore, capre,  cavalli  (ad  esclusione  della caccia  che  da  sola  produce  ben  200 milioni di vittime); per quella del ve‐stiario sono circa 30 milioni gli esseri uccisi  tra  visoni,  ermellini,  volpi, scoiattoli, castori, foche, procioni; per la  ricerca medico‐scientifica,  invece, perdono  la  vita  almeno  300 milioni tra topi, lepri, primati, cani e gatti.  A  questi  numeri,  inoltre,  vanno  ag‐giunti pure tutti quei decessi a segui‐to  di  abbandono  o  maltrattamento che si aggirano, sempre a livello glo‐bale,  sui  25  milioni  all’anno.  Per quanto riguarda i metodi di soppres‐sione  praticati  si  va  dal  più miseri‐cordioso  come  l’eutanasia,  praticata solo nei canili di un certo livello, alla camera gas per quelli più poveri.  Per  le  industrie  di  risorse  animali, invece,  dall’elettrocuzione,  all’avve‐

Trent’anni di diritti negati. Agli animali All’Unesco è stata sancita la “Dichiarazione Universale dei Diritti sugli animali”. Ma i numeri sugli animali uccisi sono spaventosi. Così è nato il movimento noto col nome di Antispecismo

di Rosa Anna Casalino

THE INSIDER

N on capita a tutti di entra‐re in una redazione gior‐nalistica,  qualunque  es‐

sa sia. Anzi, è notoriamente facile starne  al  di  fuori.  Chi  riesce  ad oltrepassare la soglia lo fa in cam‐bio di uno  stage,  sfruttato  e non pagato, tanto, si dice, bisogna im‐parare. Se è più fortunato è lì per‐ché conosce qualcuno ed è  in un qualche  modo  sotto  la  sua  ala protettiva. Ci vuole sempre e co‐munque culo. La telefonata diret‐ta di chi vi raccomanda (nel bene e male)  è  lo  strumento migliore. Verificata  quanto  la  possibilità che  il  tuo curriculum arrivi a de‐stinazione.  Chissà  mai  che  non venga  letto. Non  cʹè da preoccu‐parsi poi che la ʺgiustizia socialeʺ faccia  il  suo corso: bisogna  saper scrivere,  sapersi  relazionare,  sa‐per  vendere  il  proprio  prodotto (dove  non  è  così?).  Altrimenti fuori.    Sedere alla poltrona, davanti ad un pc e con un telefono a fianco è simbolo di potere. In un solo col‐po, però, ci si può ritrovare dalla redazione al  tavolo della propria camera  da  letto.  Anche  da  casa vale la gavetta, ma è tutta unʹaltra storia. Cʹè chi riesce ad entrare in una  scuola  di  giornalismo  (un master come quello dei nostri due direttori), permettersi rette altissi‐me, dopo due  anni  sostenere  lʹe‐same di stato e magari diventare professionista  senza  un  lavoro. Oppure  fare  lo  stesso  percorso (18 mesi) assunto da un quotidia‐no o una  televisione. Ma qui sia‐mo  tornati  al  punto di  partenza. Ti  prendono  se  sei  pubblicista  e allora  puoi  sfruttare  sostituzioni estive  o di maternità per  entrare nel  giro. Ma  fino  ad  allora  sono due  anni  e  sessanta  articoli  da sudare con pochi soldi. Fuori dal‐la redazione. 

(fi.fa.) 

C U LT U R A

Destrabica di Luca Fontana

PENSIERI & PAROLE Commenti sui fatti d’attualità

aiuto accorrono dibattiti e libri varie‐gati,  con  cui  giornalisti  e  scrittori supportano questa confusa revisione storica  dimostrando  al  popolo  di‐stratto  e  sempre  più  lontano  dagli avvenimenti che, in fondo, il bene ed il male erano ovunque e la storia vie‐ne scritta solo dai vincitori.     Queste  operazioni  saranno  anche legittime  in democrazia ma hanno  il torto  di  nascondere  agli  occhi  delle giovani generazioni ciò che è ben più elevato dei pur reali e esecrabili epi‐sodi circostanziati accaduti nellʹovvia drammaticità  di  una  guerra  civile. Tendono a sminuire le lotte ed il san‐gue versato da chi ci regalò la demo‐crazia, mettendo  le  basi  per  la  rico‐struzione di un mondo libero dei cui benefici oggi ancora, e speriamo an‐cora a lungo, godiamo. Questo è gra‐ve, perché se è vero che  la pietà e  il 

A cquisire  come  patrimonio comune  quelli  che  sono  i valori  fondamentali  della 

propria  storia Repubblicana,  a mag‐gior  ragione  se  relativamente giova‐ne e nata dopo un  travagliato e san‐guinoso  percorso,  dovrebbe  essere un’imprescindibile  certezza  sottratta alla sterile polemica politica e al revi‐sionismo  storico  e  culturale.  Così almeno  accadrebbe  in  democrazie più compiute e mature della nostra.    In  Italia  non  è  così,  quantomeno non sempre. Non nel Paese di oggi in cui predomina una parte politica che opera sotto l’ombrello rassicurante di una sola persona cui tutto si ricondu‐ce ma che dovrà, prima o poi,  fare  i conti  con  se  stessa  e  capire  quale strada imboccare quando dovrà cam‐minare definitivamente sulle proprie gambe.  Uno  dei mezzi  per  farlo  in modo  limpido è  rappresentato dallo schiarire definitivamente alcune om‐bre  che  ancora  avvolgono  la Destra quando  si  parla  del  Fascismo,  della Resistenza, della lotta di Liberazione.    Gli  smarcamenti  ideologici  della Destra italiana sono iniziati da anni e sono da considerarsi positivi e dove‐rosi.  Il  Presidente  della  Camera  è stato  recentemente  chiarissimo,  stig‐matizzando  le  dichiarazioni  di  chi ancora deraglia dai binari tracciati da un percorso che la Destra sta cercan‐do di compiere.    Percorso  che  non  pare  impedire  a qualche  esponente  politico  di  alto livello di soddisfare il proprio passa‐to e, tramite l’abilità dialettica e l’uti‐lizzo della parziale smentita, confor‐tare  la  propria  base  e  forse  anche  i propri ricordi di una gioventù dura e pura,  senza  ostacolare  l’intrapreso cammino  di  sdoganamento.  In  loro 

rispetto devono andare ad ogni vitti‐ma e che molti sbagliarono in buona fede, è anche vero che queste sempli‐cistiche  ovvietà  non  possono  essere usate per ribaltare la storia.     Non  si  può  negare  che  ci  fu  una parte giusta ed una sbagliata.    Non  si  può  mettere  sullo  stesso piano  chi  lottò,  sacrificandosi,  per liberarci da una dittatura con chi per questa  dittatura,  magari  giovane  e poco consapevole, prestò servizio.    E’  sbagliato e  sfuggente contestua‐lizzare alle leggi razziali e agli orrori di una guerra mondiale il “male” del fascismo, protagonista ben prima del ’38 di quella che fu invece una trage‐dia  quotidiana  lunga  un  ventennio, una  tragedia  trapunta di  terrore  illi‐berale  esercitato  da  un  regime  anti‐democratico e antiparlamentare.    Fino  a  quando  a  destra  non  con‐danneranno  completamente  tutto questo,  senza  inciampi,  incertezze  o equilibrismi, accettando il ruolo della Resistenza  come  mattone  fondante della  democrazia,  sarà  complicato voltare  pagina  e  condividere  final‐mente  i  valori  fondamentali  della nostra  storia  Repubblicana  e  della Costituzione.     Forse,  a molti  decenni di  distanza dai  fatti,  questa  pagina  è  giunto  il momento  di  voltarla  riconoscendo una  storia  nazionale  condivisa,  ma senza  stravolgere  la  storia  e  senza sostituire la confusione in luogo del‐la verità, al solo scopo di far soprav‐vivere,  forse  per  scopi  elettorali, brandelli  di  ideologia  che  sarebbe meglio seppellire definitivamente. 

«Queste operazioni saranno anche legittime in democrazia ma hanno il torto di nascondere agli 

occhi delle giovani generazioni ciò che è ben più elevato dei pur reali e 

esecrabili episodi circostanziati accaduti nellʹovvia drammaticità di una guerra civile» 

M U S I C A

«Col Sonar anticipiamo i suoni del futuro»

Intervista a Georgia Taglietti, tra le pioniere del festival catalano della musica moderna. Un anno di lavoro, di viaggi e contatti generano il Sonar

L’EVENTO

Sonar 2008

BARCELLONA  ‐  È come  trattenere  il  fiato per un anno  intero, pazientare per  la scaletta del  Sonar  che  in  genere  spunta  sul  sito (sonar.es) verso Aprile e che continua ad ag‐giungere ospiti gonfiandosi ulteriormente fino alla fine del mese successivo.  Oramai  è  cosa  nota  che  gli  artisti  invitati nella  tre giorni catalana rappresentino  il me‐glio, la crema e i “the best” della scena inter‐nazionale di musica elettronica. Un  festival  che non  rimane “cool”  solo  sulla carta ma che ogni anno porta, per  tre giorni,     ottantamila persone a ballare, ascoltare e capi‐re il meglio della future music nella cosmopo‐lita e anticonformista Barcellona.   Per l’edizione “08” lo staff del Sonar ha tenta‐to di presentare al meglio  le sfaccettature nel panorama  musicale  europeo  e  non  solo,  un panorama musicale eterogeneo senza punti di riferimento,  con  poca  possibilità  di  ancorag‐gio.  Sperimentale  o meno  l’ultimo  periodo  è sottolineato  da  una  confusione  musicale  di portata  inaudita;  non  per  nulla  sono  stati invitati producers come Justice, Theo Parrish, A‐Trak, Villalobos, Daedelus e Diplo che, pur venendo  da  scuole  completamente  diverse, hanno  fatto  del  non  genere  la  loro  forza,  la chimera del suono, musica miscelata e rimon‐tata  che  sfiora  tante  influenze,  delle  quali nessuna  sembra  primeggiare.  È  da  questa cerchia di artisti che il suono del futuro pros‐simo  giungerà  poi  ad  orecchie  più mainstre‐am,  un  esempio  plausibile  è  l’album  uscito alla  fine  di  Giugno  di  Santagold,  costruito sugli  arrangiamenti del produttore Diplo,  in cui  ogni  traccia  richiama  generi  definiti ma lontani anni luce l’uno dall’altro. Le giornate del Sonar sono divise in due parti, durante  il  pomeriggio  l’innovativo  Museo d’arte  contemporanea  di  Barcellona(www.macba.es)  accoglie  gli  artisti  più  con‐centrati  sulla  sperimentazione  del  suono;  la notte  invece,  tre  enormi  padiglioni  con  im‐pianti audio e luci immensi invitano a ballare la musica di Djs e producers fino alla mattina(chiusura 8am). 

Lu. Cer.

dal nostro inviato

In alto, il manifesto dell’ultima edizione

dente  che  credere  in un  artista prima di altri ci offra un certo vantaggio per quan‐to  riguarda  la  relazione  che  si  stabilisce con quell’artista.    Di  fatto  il Sonar ha un grande appeal sul mondo anglosassone, come mi spie‐ghi la passione inglese per il festival?    Noi  siamo  sempre  stati molto  vicini  al mercato  inglese  sin dall’inizio. La  rivista “The Wire” è stata una delle prime a ve‐nire al festival. La nostra presenza media‐tica  è  stata  ogni  anno maggiore.  Il  vero artefice del boom è stato John Peel (r.i.p). Peel s’innamorò del festival nel 2002, e da allora BBC1 è sempre stata un forte allea‐to  nel mercato  britannico.  Il  primo  con‐certo di Goldfrapp, per  esempio,  è  stato proprio da noi.      Il vostro  festival è  cosi  famoso  che vi potete permettere anche un “ANTI SO‐NAR”!    L’“Anti Sonar” non dovrebbe esistere. È una  dimostrazione  di  come  certa  gente usa  il  nostro  nome  contro  di  noi  e  non capisce  il  lavoro  che  facciamo.  Almeno non dovrebbe esistere il nome. Pensa solo un  momento  se  ci  fosse  un  Anti‐Glastonbury? È ridicolo!    Quali sono gli artisti che più  ti stimo‐lano? Dovessi  andare  a  ballare  in  club chi  sceglieresti  tra Villalobos,  Justice  e Audion?    Non sto ascoltando niente in particolare ultimamente.  L’album  2008  per me  sarà di Leila Arab mentre per il clubbing scel‐go sempre Villalobos. 

(L’intervista integrale è disponibile sul sito www.acidopolitico.com)

BARCELLONA  ‐ Georgia Taglietti è all’in‐terno  dell’organizzazione  Sonar  sin  dalla prima edizione, è nel DNA del festival.    Come  organizzate di  anno  in  anno  il festival?    Il  festival  nel  mio  caso  occupa  quasi tutto  l’anno,  dato  che  sono  assistente personale  di  uno  dei  tre  capi  e  con  lui viaggio  ai  festival,  a  Londra  e  un  po’ ovunque per  le  nostre  riunioni  con ma‐nagers, labels ed artisti. Poi come “capa” stampa  internazionale e pr bisogna stare sempre  molto  attenti  alle  novità,  fare molto  “networking”  per  non  perdere nuovi contatti interessanti, ed ingrandire il circolo.    Quello che ci stupisce è  la  ricerca de‐gli  artisti,  la  scelta  oculata,  riuscite  a scovare i migliori del periodo o comun‐que quelli che  incarnano novità  in am‐bito  musicale  senza  però  dimenticare chi  lo stile Sonar  lo porta avanti da an‐ni.    Si  cerca  sempre  la  mossa  perfetta;  il timing è  importantissimo per un  festival come  il  Sonar  che  si  chiama  così  per  la sua  ambizione  originale  di  anticipare  i suoni del futuro. In questa scelta artistica giocano  molti  fattori  positivi  a  nostro favore, come  l’esperienza e  la possibilità di accedere  facilmente a contatti partico‐larmente  d’avanguardia.  Ci  suggerisco‐no, ricercano con noi, ci aiutano ad arri‐vare prima  all’obiettivo  finale:  quello di trovare  e  poter  presentare  proposte  cu‐riose, sorprendenti, nuovissime e fresche o almeno con  forti possibilità di un suc‐cesso  futuro. Nel  caso dei  Justice  è  evi‐

dal nostro inviato Luca Ceriani

m f f | S P E C I A L E

È tornata la rassegna cinematografica milanese di Settembre realizzata da un’associazione di giovani. Tanti i film in concorso ed una città che si risveglia

Info

www.milanofilmfestival.it www.esterni.org 

   MILANO ‐ Proprio quando il capo‐luogo  lombardo riprende a vivere  le sue giornate stressanti, l’associazione “Esterni” organizza la dieci giorni di proiez ioni   c inematograf iche .            La  tredicesima  edizione  del  festival (dal  12  al  21  settembre)  ha  visto  in concorso  dieci  lungometraggi  sele‐zionati tra gli 891 pervenuti alla giu‐ria, 48 corti (su 2206) divisi in gruppi, proiezioni dalla mattina fino a notte, sei  sedi  d’incontro  (Strehler,  Teatro Studio,  Acquario  Civico,  piazza Grande, piazza del Cannone, Teatro dal Verme), 113 paesi che hanno can‐didato almeno un’opera, dibattiti e dj set notturni. E soprattutto, una rasse‐gna sul genio Terry Gilliam (il fonda‐tore dei Monty Python, per intender‐ci) ospite della rassegna.    Non  sono  mancate  le  tematiche 

obiettivo non dovrebbe risultare dif‐ficile.    Finalmente ‐ è il caso di sottolinear‐lo  ‐  anche  il  Comune  di Milano  ha dato  una mano,  grazie  all’assessore Giovanni  Terzi,  contribuendo  con 200 mila euro  (850 mila, circa,  il bu‐dget  totale,  ndr)  alla  realizzazione dell’intera  rassegna.  Quello  stesso Comune che in passato si era mostra‐to  parecchio  scettico  nei  confronti della rassegna. Meglio tardi che mai. 

(speciale nelle pagine seguenti) 

sociali: “Colpe di Stato” ha presenta‐to una serie di documentari militanti, no  global  e  soprattutto  ecologisti; “Godless  America”  ha  mostrato  da un punto di vista  critico pezzi degli Stati Uniti a noi spesso  ignoti;  infine la  rassegna  di  film  gitani  e l’“Immigration Day”,  il giorno dedi‐cato agli immigrati della città.    Il tutto senza dimenticare che alcu‐ni dei film scartati sono stati proietta‐ti al “Salon des refusés”.    L’anno  scorso  sono  stati  circa  93 mila  gli  spettatori  del  festival. Que‐st’anno, dato il «prestigio degli ospiti ‐ affermano nella conferenza stampa i due direttori, Castellini e Saibene  ‐ contiamo  di  fare  di  più».  I  numeri ufficiali  non  sono  ancora  usciti, ma visto  il  pubblico  presente  in  quasi tutte  le proiezioni e gli  incontri,  tale 

Sul  sito  ufficiale  potete  trovare  le  schede  dei film, dei cortometraggi,  foto e video di questa edizione e di quelle passate. 

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vecchio perseguitato da un grassone per‐ché pubblichi il libro «su tutte le razze di scimmie  esistenti».  Infine,  un  ragazzo elegante  ‐  in  compagnia  dell’anziano  di cui  sopra,  svegliato  mentre  dormiva  in una panchina  ‐  irrompe  in una festa, mi‐naccia i presenti con una bomba a mano e rapisce  ‐ perché  innamorato  ‐  la ragazzi‐na di bianco vestita. La quale… Almeno il  finale  ve  lo  risparmiamo.  Insomma, otto storie divertenti, surreali. Ma quello che  resta è  l’amarezza per delle vite che scorrono  in una  grande  città  così,  senza un senso apparente, perse nei meandri di un  grande  agglomerato,  mischiate  in mezzo  a  migliaia  di  altre  vite,  di  altre esistenze. Per questo  senza voce. Se non grazie al regista.    Una pellicola con uno stile raro  (in po‐chi si sono cimentati nel piano sequenza). «Per girarlo ‐ ci ha spiegato Polidoro ‐ ho dovuto  girare  il  film  per  intero  ben  sei volte.  Alla  fine  ho  scelto  la  seconda perché  è  stata  quella  che  mi  ha soddisfatto di più». Chiediamo al regista come  ha  fatto  a  gestire  le  comparse  in‐consapevoli: «Sembra facile, ma non  lo è stato.  Dietro  alla  cinepresa  c’era  uno della  produzione  con  un  cartello  grosso con  su  scritto  “Guardate  qui”.  Così abbiamo  evitato  gli  sguardi  in  camera che avrebbero rovinato le scene, anche se più di qualcuno è passato a disturbare le riprese».     Alla fine di ognuna delle due proiezio‐ni un  lungo applauso ha salutato  il  film. Per questo,  la vittoria di “Ainda orango‐tangos” non è stata più di tanto una sor‐presa.

MILANO  ‐ E’  la pellicola che ha vinto  il concorso  al Milano  Film  Festival.  Il pri‐mo lungometraggio di Gustavo Polidoro, regista brasiliano «ma di origini italiane» ci  tiene  a  precisare.  Otto  storie  diverse che si snodano in ottanta minuti di pelli‐cola.  Il  tutto  girato  in  piano  sequenza (una  tecnica  cinematografica  che  consiste  in una  inquadratura  lunga,  senza  interruzione temporale e senza montaggio),  in  un  intero giorno a Porto Alegre.    “Ainda  orangotangos”  (trad:  Ancora orangotanghi)  prende  spunto  da  alcuni racconti  pubblicati  nel  romanzo  omoni‐mo  di  Paulo  Scott.  Dalla  prima  storia all’ultima, la cinepresa segue i protagoni‐sti mentre  vivono  alcune  ore  nella  città brasiliana.  Nel  passare  da  una  vicenda all’altra,  il  regista  sfrutta  gli  incroci  per strada, gli  incontri occasionali. Così, dal‐la metropolitana  dove  una  turista  giap‐ponese  (morta?)  viene  abbandonata  dal fidanzato  che vaga per  la  città  ‐ mentre una band  suona  il  samba  ‐, si passa alle fatiche di un  ragazzino,  ad una  ragazza disinibita  con  l’amica  lesbica  la  quale litiga  con  un  Babbo Natale  ubriaco,  ad una madre  con  seri disturbi mentali  che vive di  fianco ad un appartamento dove una  coppia  (con  lui  decisamente  avanti negli anni) sfoga le sue passioni bevendo profumo  non  trovando  di meglio  nella casa di un’amica. Lei si sente male. Lui la lascia  in  pessime  condizioni  sul  letto. Scende  le  scale ed aspetta gli amici. Nel frattempo, nel negozio vicino, il vendito‐re deve fare fronte al ragazzino di prima che,  adirato,  tornerà minacciandolo  con tre  pallottole.  Quindi  è  la  volta  di  un 

Otto storie in un unico piano sequenza Quattordici ore nella città di Porto Alegre. Tra coppie di lesbiche in rissa con Babbo Natale e impossibili fughe d’amore con una ragazzina

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NUOVO MONDO

   Deve essere  successo qualcosa a Pari‐gi. Qualcosa di così importante da spin‐gere  una  giovane  regista  (Lola  Frede‐rich)  a  realizzare  un  “Taxi Wala”,  un cortometraggio  sul  rapporto  tra  immi‐grati e urbanistica francese.    La storia: un tassista si imbatte in una donna  che  ha  tre  indirizzi  scritti  in un foglio; nessuno dei quali è quello giusto. L’unico indizio è il ponte della ferrovia. Considerando  la  capitale  francese  è  u‐n’impresa  niente  affatto  facile.  Inizia così  l’avventura  in  auto  verso  il  non‐luogo, ovvero un insieme di vie e palaz‐zi sconosciuti alla donna, quindi ostili e pericolosi.  Letto  altrimenti,  è  il  senti‐mento che l’uomo prova nei confronti di tutto ciò che ritiene diverso.     Il  corto  (16 minuti) è  leggero, ma è  il tema trattato a risultare serio perché tale è  l’immigrazione  nelle  società  occiden‐tali. Alla  fine se ne esce con una sensa‐zione  di  spaesamento,  di  disorienta‐mento  assoluto,  di  solitudine.  Forse perché si sente esattamente così un indi‐viduo in terra straniera. (l.b.) 

Il nuovo mondo con gli occhi di uno straniero

di Leonard Berberi

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prove  del  tradimento  ai  consorti. Nella seconda  (“At  home  at  sea”),  si  segue  la storia  di  uno  del  gruppo,  Dragon,  che torna nel  suo villaggio natale dopo aver compiuto un delitto. Ma  il mondo attor‐no è  in piena decadenza. Così  il ragazzo tenterà  la  via  dell’Occidente  ricco  e  de‐mocratico.    «Gli abitanti del Fujian da sempre pon‐gono  l’accento  sui  legami  familiari  di clan, di parentela e di amicizia ‐ spiega il regista ‐. In tempi più recenti la provincia del Fujian è stata  teatro di una moderna diaspora cinese:  i suoi emigranti  si sono recati oltreoceano alla ricerca di una sorte migliore e molti di loro non sono tornati. Questa  emigrazione  oltremare  è  stata bilanciata da una migrazione interna, che porta i cinesi delle province dellʹentroter‐ra  a  spostarsi  nel  Fujian  per  ragioni  di studio  o  lavoro.  È  un  ciclo di  immigra‐zione,  emigrazione  e  spostamenti  che  a turno arricchisce o impoverisce lʹarea».     Da vedere. Ci  spiega  ‐  con equilibrio  ‐ cosa  siamo  diventati.  Cosa  abbiamo  sa‐crificato per il progresso. (l.b.) 

MILANO  ‐  La  prima  sensazione  che  si prova  quando  finisce  la  proiezione  di “Jin Bi Hui Huang”  (Il blu di Fujian), del ventiseienne Weng‐Shou Ming,  è  lo  stu‐pore.  Possibile  che  un  paese  che  sta  fa‐cendo ‐ apparentemente ‐ progressi note‐voli  in  campo  economico  e  con un  con‐trollo (politico e militare) oppressivo non sia in grado di porre rimedio al repentino indebolimento del tessuto sociale?     Possibile.  Perché  in  questa  pellicola  si ha  la netta sensazione che sia  finita  l’era delle  lanterne  rosse  e  che  sia  iniziata quella  dei  neon multicolori,  soprattutto blu. Ma il neon, soprattutto se blu, è fred‐do.  Rimanda  a  quegli  aspetti  negativi dell’animo  umano  che  le  pseudo‐democrazie cercano sempre di eliminare. Ma  che,  come  ci  suggerisce  il  film,  non solo  non  vengono  cancellati. Anzi,  fini‐scono per esplodere.    Il film è diviso in due parti: nella prima (“Amerika”), un gruppo di ragazzi segue le donne  infedeli  (i mariti sono lontani per motivi  di  lavoro,  nda)  pedinandole,  foto‐grafandole e minacciando di mostrare  le 

Un paese che cambia. In peggio In “Fujian Blue” le storie di un gruppo di ragazzi. Sullo sfondo, una Cina decadente

Per riflettere    Cos’è la vita?   Una continua sedimentazio‐ne di  ricordi,  luoghi,  situazioni  e personaggi che  incontriamo  durante  la  nostra  esistenza. E di case.     Questo cortometraggio è un piccolo capola‐voro ed è stato una delle opere più acclamate al festival dell’animazione di Annecy. Il giap‐ponese Kato ci racconta nella “Casa di piccoli cubi”  la  storia di questo anziano  signore  che aggiunge  costantemente piani alla  sua dimo‐ra, per evitare di rimanere sommerso. Finchè 

Un orologio, due amici e la paura della verità    “El reloj” (L’orologio, ndr) è un’opera coraggiosa. Descrivere i turbamenti del corpo adolescenziale richiede tempo. E talento.  Il  trentunenne  Marco  Berger, invece,  fa  di  più:  non  solo  ne  coglie l’essenza, ma  riesce  anche  raffigurarla in soli quindici minuti.    Girato  in  16mm,  il  cortometraggio argentino  in  concorso  al  “Milano Film Festival”  ci  presenta  la  storia  di  due ragazzi:  al  ritorno  dagli  allenamenti uno  dei  due  resta  a  piedi  e  l’altro  lo invita a casa sua prima a stare un po’, poi  a  dormire.  Qui  scatta  una  sottile rete di allusioni  ‐ evidenziate da parti‐colari  inquadrature  e  movimenti  di occhi  dei  protagonisti  ‐  che  mette  in crisi l’identità (sessuale) di uno dei pro‐tagonisti. E  l’orologio del  titolo? Verrà rotto  alla  fine.  Pestato  con  un  piede. Come  a  fermare  quel  tempo,  quell’i‐stante  che  separa  la  scoperta  di  una realtà  ed  il  suo  impatto nel mondo  in cui si vive. Così il flusso vitale si ferma e  la paura su quello che potrebbe  suc‐cedere  dopo  potrà  rimanere  solo  tale. Almeno per una notte. (l.b.) 

non perde l’unica compagna rimasta (la pipa) e dovrà compiere un gesto a ritroso, tuffandosi sempre più  in profondità. Un tuffo anche nel passato, nei ricordi, nelle scene di vita vissu‐ta.     Un  corto  nostalgico,  melodrammatico,  che sembra configurare anche un monito per tutto noi:  il  livello  dell’acqua  cresce  ogni  giorno non per  cause naturali, ma per una  reazione inusuale ad un ambiente malato. Che serva a qualcosa? (l.b.) 

S P O RT

rugby  come  strumento  per  portare  i  ra‐gazzi  detenuti  a  scoprire  nuove  realtà attraverso  contesti  relazionali  diversi  da quelli abituali, come opportunità di socia‐lità e di allentamento delle tensioni provo‐cate dalla  condizione detentiva. LʹASR  si prefigge  inoltre  lʹobiettivo  di  dare  una sorta di “seconda casa” a dei ragazzi che, quando  saranno  rilasciati,  si  ritroveranno spesso a vivere situazioni molto difficili.     Perchè  proprio  il  rugby  può  aiutare bambini  con difficoltà di  integrazione e giovani detenuti?     Da noi il rugby è vissuto come disciplina sportiva dotata di unʹetica utile nella vita di  ciascuno;  unʹimportante  esperienza formativa caratterizzata da crescita indivi‐duale  e  senso  di  appartenenza  ad  un gruppo.  Il  rugby  con  le  sue  tradizioni  e regole  trasmette  valori  essenziali  e  rari. Giocare  significa  migliorare  il  proprio carattere,  sviluppare  lealtà,  spirito  di  sa‐crificio, lavoro di squadra.     Il progetto con le scuole elementari non è nuovo. Che riscontri avete avuto?     I riscontri sono buoni e, a testimonianza di  ciò,  questʹanno  si  è  allargato  a  sei  il numero  di  scuole  coinvolte  nel  progetto. Inoltre,  sempre da questʹanno,  ci  sarà  lʹe‐stensione alle elementari di un nuovo mo‐dello di allenamento che abbiamo avviato nel 2006  in collaborazione con un gruppo di  psicomotricisti  del  gruppo  Ariel.  Si  è deciso di porre più attenzione allo svilup‐po motorio dei bambini, aspettando chi ha maggiori difficoltà e privilegiando quindi un  percorso  di  crescita  comune  rispetto alla mera prestazione sportiva.     I rivali della Amatori, grazie alla fusio‐ne  con  la  Leonessa  Brescia,  questʹanno giocheranno in serie A. Non sarebbe più redditizio puntare  a grandi  risultati  con la prima squadra?     Chi  fa parte del nostro  club,  è qui  solo per passione e per senso di appartenenza. LʹASR  si  autofinanzia  e  nessuno  prende un  soldo.  La  nostra  ambizione  è  dare  la possibilità  ad  un  numero  maggiore  di ragazzi  di  avvicinarsi  a  questo  sport,  di giocare e crescere nelle migliori condizio‐ni,  di  coinvolgere  genitori  e  famiglie.  Il lavoro  fatto  con minirugby  e  giovanili  ci dà  comunque  molte  soddisfazioni  ed  è proprio grazie alla qualità del nostro  set‐tore  giovanile  che  lʹASR  si  colloca  tra  le prime dieci società italiane. 

su veri campi da rugby. *** 

   La collaborazione con il Beccaria, inve‐ce, cosa prevede?     Anche  in  questo  caso  abbiamo  in  pro‐getto di  iniziare allenamenti, partite ami‐chevoli  e  tornei  sia  allʹinterno  che  allʹe‐sterno dellʹistituto  e  inoltre  i  ragazzi po‐tranno  seguire  corsi  di  formazione  per diventare  istruttori  o  arbitri  di  rugby.  Il concetto  di  base  è  quello  di  utilizzare  il 

MILANO ‐ LʹAssociazione Sportiva Dilet‐tantistica  Rugby  Milano,  nata  nel  1945, vanta circa quattrocento atleti tesserati tra squadre di minirugby, giovanili, seniores (due  squadre:  una  in  Serie  B,  lʹaltra  in Serie C) e old ed ha più di cinquanta tes‐serati  tra  educatori,  allenatori,  accompa‐gnatori e medici. Oltre a giocare sui cam‐pi  di  tutta  la  Lombardia  e  dintorni,  da alcuni  anni  lʹA.S.R.  è  impegnata  in  pro‐getti di valenza sociale ed educativa. Enzo Dornetti, general manager, e Giorgio Ter‐ruzzi, addetto stampa ci spiegano di cosa si tratta: lʹattività in alcune scuole elemen‐tari di Milano è  iniziata qualche anno  fa; da questʹanno partirà anche una  collabo‐razione con lʹIstituto penale minorile Bec‐caria. Le  scuole  elementari  ormai  rispec‐chiano  la  molteplicità  etnica  e  culturale del nostro paese e in molti casi si riscontra una mancanza di socializzazione sia  tra  i bambini che tra le famiglie. In questo con‐testo noi e i nostri istruttori organizziamo allenamenti e amichevoli presso la scuola e  tornei  con  altre  squadre  pari  categoria 

Quando il rugby diventa scuola di vita Oltre allo sport, l’Associazione Sportiva Rugby Milano si occupa anche dei giovani, dalle scuole elementari al carcere Beccaria

di Marco Andriola

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CASA DOLCE CASA Due sorelle si abbracciano da-vanti a quello che rimane della loro casa dopo il bombarda-mento russo su Gori

(OLIVIER LABAN-MATTEI / AFP / GETTY)

HOMO HOMINI LUPUS Un abitante di Gori piange la morte di un parente causata dal massiccio

bombardamento russo di agosto. (GLEB GARANICH / REUTERS)

SILENZIO STAMPA Il corpo di un giornalista giace senza vita in una farmacia di Gori (Georgia). Il corrispondente è stato ucciso dai russi mentre era alla guida della sua auto.

(URIEL SINAI / GETTY IMAGES)

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