Acido Politico
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Speciale Georgia di Matteo Manara e Francesco Russo
Esteri
MENSILE UNIVERSITARIO GRATUITO
DI POLITICA, CULTURA E SOCIETÀ
DIRETTO DA
FLAVIO BINI LEONARD BERBERI
IN REDAZIONE
ANA VICTORIA ARRUABARRENA DANIELA BALIN
LUCA SILVIO BATTELLO ANTONIO BISIGNANO MICHELE CAPACCIOLI
LUCA CERIANI BENEDETTA DE MARTE
ARMANDO DITO LUCA FONTANA
MARCO FONTANA MATTEO FORCINITI STEFANO GASPARRI
MARZIA LAZZARI DARIO LUCIANO MERLO
GIULIA OLDANI FRANCESCO RUSSO LAURA TAVECCHIO
COLLABORATORI ILARIA ALESSIO
MARCO ANDRIOLA DANILO APRIGLIANO
YASSIN BARADAI FILIPPO BASILE PIETRO BESOZZI GUIDO BETTONI GIULIA BRASCA
ALESSANDRO CAPELLI STEFANIA CARUSI
ROSA ANNA CASALINO ALESSANDRO CASOLI
ALESSANDRO CHIATTO ALESSIA CREMASCHI ANDREA DI STEFANO ANDREA FUMAGALLI
JACOPO GANDIN GABRIELE GIOVANNINI
DANIELE KESHK MATTEO MANARA STEFANIA RIVA
IMPAGINAZIONE & GRAFICA
LEONARD BERBERI
CONTATTI [email protected]
SITO WEB
www.acidopolitico.com
WEBMASTER ALESSANDRO LEOZAPPA
STAMPA
“Mediaprint S.r.l.” Via Mecenate, 76/32 - Milano
Stampato con il contributo
derivante dai fondi previsti dalla Legge n. 429 del 3 Agosto 1985
Registrato al Tribunale di Milano,
n. 713 del 21 novembre 2006
DIRETTORE RESPONSABILE ROBERTO ESCOBAR
Numero chiuso il 19 settembre 2008
Un comitato costituito da docenti della Facoltà di Scienze Politiche si è assunto ‐ su richiesta della Direzione e della Redazione di “Acido Politico” ‐ il compito di garantire la libertà e la correttezza sul piano legale del contenuto del periodico, senza peraltro interferire sui suoi orientamenti e contenuti e senza pertanto garantirne in alcun modo la bontà. Il comitato è composto dai prof. Antonella Besussi, Francesco Camilletti, Ada Gigli Marchetti, Marco Leonardi, Lucia Musselli, Michele Salvati e Roberto Escobar, il quale assume, ai fini della legge sulla stampa, la funzione di direttore responsabile.
Comitato di Garanzia
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Reportage 17 L’altra faccia dell’India dall’inviata Daniela Balin
Intervista 19 “Umiltà e curiosità per raccontare” di Andrea Di Stefano
Copertina
UNIVERSITA’ IN VENDITA di Dario Luciano Merlo Ana Victoria Arruabarrena Giulia Oldani Armando Dito
Università 8 Voti ai professori (atto secondo) da lavoce.info
Inchiesta 10 Ambasciata degli stagisti di Flavio Bini
Italia 12 La ‘ndrangheta alla conquista dell’Expo di Filippo Basile
LE RUBRICHE 1 Editoriale 7 Pillole 12 La vignetta 13 Click 23 Pensieri & Parole 24 Musica 28 Sport Cartoline dall’Inferno Controcopertina
Speciale “Milano Film Festival” di Leonard Berberi
Cinema 24
di Leonard Berberi e Flavio Bini
La fine di un ciclo
EDITORIALE
T ra due mesi “Acido Politico” spegnerà tre can‐deline. Decine di ragazzi sono passati per le pagine della rivista e molti di loro vi sono ri‐masti. Eravamo partiti in “sordina”, con poco meno di cento copie (ma sarebbe più corretto
scrivere “fotocopie”), in bianco e nero e con una grafica raffazzonata. Non che, tre anni dopo, i miglioramenti ne abbiano fatto la rivista migliore al mondo. Guardando tutti i numeri pubblicati però, possiamo ammetterlo, un miglio‐ramento c’è stato. Ma soprattutto, dietro ogni numero c’è una storia, un retrosce‐na, un errore che abbiamo corretto o cer‐cato di correggere. Forse è questo il vero senso di un prodotto editoriale fatto dai ragazzi: non le interviste esclusive, non i reportage, non le inchieste. Nemmeno gli articoli di approfondimento. Ma il fatto che ogni edizione ha un altro rac‐conto, nascosto dalle foto e dagli articoli direttamente visibili; che ogni uscita cela un groviglio di sentimenti umani e di passioni giovanili un tempo vivi, ma adesso sempre più in via di dissoluzio‐ne. Purtroppo però le esperienze belle so‐no tali perché hanno una fine. Per coloro che hanno diretto questo mensile per questi 24 numeri l’av‐ventura finisce qui. Ci siamo interrogati a lungo su che destino riservare a questa esperienza. Da un lato prevaleva la volontà di “chiudere in bellezza”; tutto era cominciato da noi e con noi doveva finire. Poi però sono seguite due considerazioni. La prima è che “Acido Politico” non è soltanto di chi fir‐ma questo editoriale, ma di tutti coloro che si sono spesi attivamente per dare a questa rivista la visibilità, la credibi‐
lità ed il pubblico che meritava. Ciascuno nel suo piccolo. Chi intercettando gli studenti all’uscita dalle aule, chi scri‐vendo e consegnando puntualmente i propri articoli. Chi ancora l’ha difeso dal fuoco incrociato degli stessi studenti che si sono sforzati di insistere sempre e soltanto sui nostri limiti, mai interrogandosi sul potenziale che una pubblica‐zione di così ampia diffusione avrebbe potuto avere con l’apporto di tutti gli studenti. Chiudere il giornale alla no‐stra partenza sarebbe stato come derubare tutte queste per‐
sone di qualcosa di loro proprietà. Un furto del tutto illegittimo. In secondo luogo una riflessione. Il pri‐mo editoriale di questo mensile si sca‐gliava contro l’università come “luogo di transito per persone che passano tutto il giorno già in viaggio”. Non volevamo essere “in transito” anche noi. Il miglior regalo che si può lasciare alla propria università è donarle qualcosa, non pri‐varla. Qualcosa che testimoni il lavoro di almeno novanta studenti, tanti sono quelli che in un modo o nell’altro sono passati tra queste pagine. Lasciamo il testimone di questo proget‐to ai ragazzi che hanno lavorato al nostro fianco in questi anni. Chi dall’inizio, chi
subentrando in corsa. Ne facciano ciò che meglio credano, liberi di organizzarsi nei modi che preferiscono. È stato un vero privilegio pensare, costruire e realizzare questo mensi‐le. Ci ha consentito incontri con persone straordinarie. “Acido Politico” ha fatto da magnete a tutte le migliori e‐nergie di questa facoltà, le menti migliori. Sono la vera ric‐chezza di questa università, l’ultima che potrà essere messa in vendita. Grazie a tutti e buon anno accademico.
«Lasciamo il testimone di questo progetto ai ragazzi che hanno lavorato al nostro fianco in questi anni. Chi dall’inizio, chi subentrando in corsa. Ne facciano ciò che meglio credano, liberi di
organizzarsi nei modi che preferiscono»
C O P E RT I N A
Taglio netto dei finanziamenti statali, blocco del turnover, possibilità di trasformarsi in fondazioni. Ecco il volto dell’Università che verrà
C O P E RT I N A
di Dario Luciano Merlo
G li italiani erano in vacanza, ma questʹanno il governo non ha smesso di lavorare,
approvando in agosto una manovra di bilancio che contiene tagli consi‐stenti anche per lʹintero sistema uni‐versitario. La legge 133/2008 permet‐terà un risparmio di circa 36 miliardi, di cui almeno 25 saranno utilizzati per ridurre il debito pubblico. Ma se la necessità di ridurre il deficit può essere condivisa, sono le modalità che lasciano perplessi e sembrano manca‐re di prospettive verso un futuro in cui gli atenei dovranno sopravvivere con sempre meno finanziamenti pub‐blici. Le maggiori difficoltà saranno dovute al taglio del fondo di finanziamento ordinario (FFO), ossia la principale voce di entrate per le università, del 19,7% in tre anni, con tagli progressi‐vi a partire dal 2009. Un taglio che costringerà le università a intervenire in modo strutturale, dal momento che nella maggior parte degli atenei più dellʹ80% del FFO è destinato a coprire le spese per il personale e in alcuni atenei, dove la situazione è particolar‐mente critica, questa cifra arriva al 90%. La paura che i tagli possano essere compensati da un aumento delle tasse universitarie non è nem‐meno realistica, perché resta fermo il tetto del 20% della contribuzione stu‐
dentesca rispetto al FFO. Nelle uni‐versità già vicine a questo limite, i tagli potrebbero significare addirittu‐ra una riduzione delle tasse, che ag‐graverebbe ulteriormente lʹammonta‐re dei tagli. Come ben delineato da Checchi e Jap‐pelli in un articolo de lavoce.info, alle università rimarranno poche soluzio‐ni per far fronte alla riduzione delle risorse, tra cui una compressione del‐lʹofferta formativa e delle sedi univer‐sitarie, cresciute in modo vertiginoso negli ultimi anni e non sempre in mo‐do coerente e ordinato. Altri tagli po‐tranno riguardare i laboratori, gli as‐segni di ricerca e le borse di dottora‐to, oppure le attività dei dipartimenti, versante sul quale sembra sia orienta‐ta la Statale almeno per far fronte al primo anni, in cui i tagli non raggiun‐gono cifre troppo elevate. In parte è invece lo stesso ministero ad indicare con altri articoli come limitare le spe‐se, soprattutto per quanto riguarda il personale. Lʹart. 66 prevede un blocco parziale del turn‐over, ovvero la pos‐sibilità per le università di sostituire soltanto il 20% dei dipendenti che raggiungono lʹetà pensionabile per tutto il 2009, di cui il 10% riguarderà le nuove assunzioni e il restante 10% la stabilizzazioni di contratti a tempo determinato. Soltanto nel 2012 il turn over tornerà al 50% e per ora non è
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altri paesi europei (65 anni con possi‐bilità di proroga solo per i docenti attivi sul piano della ricerca), per ade‐guare agli standard europei quelle dei ricercatori, rallentando la massic‐cia fuga di cervelli allʹestero e garan‐tendo la permanenza di giovani di talento che possano partecipare allʹat‐
tività didattica e con‐tribuire a diminuire lʹetà media del corpo docente. Unʹoccasio‐ne persa che denota mancanza di corag‐gio, o forse di inte‐resse, per i problemi che riguardano uno dei settori strategici per lo sviluppo e lʹeconomia di una nazione. Lʹunica novità inseri‐ta nella manovra estiva è la facoltà per
gli atenei di trasformarsi in fondazio‐ni private con una decisione presa a maggioranza assoluta dal senato ac‐cademico. In questo modo le univer‐sità avrebbero la possibilità di attrarre maggiori investimenti privati per supplire alle minori risorse messe a disposizione dellʹuniversità.
prevista una data per il ritorno al li‐vello attuale del 100%. Una soluzione che causerà un forte impoverimento degli organici e soprattutto impedirà a molti giovani meritevoli di entrare a far parte del mondo universitario, costringendoli ancora una volta ad emigrare allʹestero, con la conseguen‐za che non si assisterà, ancora per parecchi anni, ad un auspicabile rin‐giovanimento del personale accade‐mico. I professori vedranno la sop‐pressione di uno scatto di anzianità (articolo 69), mentre il personale non docente vedrà ridotto del 10% il sala‐rio accessorio e, a partire dal 2009, una parte di questo sarà legato a cri‐teri di produttività. Anche gli uffici dirigenziali e le risorse per gli assetti organizzativi saranno ridotti del 10%. Da questo punto di vista ciò che col‐pisce è il continuo intervento del mi‐nistero non solo sulle forme di finan‐ziamento ma anche sulle misure da adottare allʹinterno delle università per il loro utilizzo. In questo modo si riduce drasticamente lʹautonomia, così come la capacità di far fronte a particolari situazioni o criticità. Una maggiore indipendenza riguardo a retribuzioni e possibilità di assunzio‐ne e stabilizzazione avrebbe permes‐
so agli atenei di valutare come inter‐venire a seconda delle proprie neces‐sità, eventualmente con la richiesta di garantire il pareggio di bilancio o una sostanziale riduzione percentuale della spesa per il personale, ma la‐sciando autonomia sui metodi e e sulle modalità con cui realizzarle. Una ulteriore critica alla manovra del mi‐nistro Tremonti è la decisione di tagliare in modo indiscrimina‐to i fondi a tutti gli atenei, senza premia‐re coloro che si sono distinti per la propria efficienza nella gestio‐ne delle proprie risor‐se o nella ricerca. An‐cora una volta Chec‐chi e Jappelli propon‐gono di utilizzare i punteggi assegnati dal Civr (Comitato nazionale per la valutazione della ricerca) per asse‐gnare almeno una parte dei fondi alle università più virtuose. Oppure, pro‐posta ancora più coraggiosa, di bloc‐care gli stipendi dei professori ordi‐nari e uniformare la loro età di pen‐sionamento (70 anni) a quella degli
U n proverbio keniota inse‐gna: noi non ereditiamo la terra dai nostri genitori, la
prendiamo in prestito dai nostri figli. Quale futuro quindi, quale co‐noscenza, quale terra restituiremo a coloro che ci seguiranno se permet‐teremo un’ipoteca sulla vita dell’in‐tera collettività? Perché se lo sviluppo e la vita di un paese dipendono dalla costante capacità di produzione culturale, di alta formazione e di ricerca in tutti i campi della conoscenza, proprio un’ipoteca rappresenta questa ma‐novra economica conosciuta come L133/2008. Con questa riforma, lo Stato lancia un processo di vera di‐smissione della gestione pubblica del sistema educativo e formativo
Uno scempio da fermare nazionale. Questa scelta viene giu‐stificata con la necessità di ridurre il debito pubblico, un provvedimento in linea con una visione neoliberista, ormai neanche tanto in voga, che interpreta l’istruzione, la ricerca e la sanità nazionale come un costo per lo Stato e non come un investimento vitale. Due sono gli allarmanti panorami che si prospettano: uno con il quale ci dovremo tutti confrontare a breve termine, l’altro in un futuro molto vicino. In un primo momento tagli di tale portata costringeranno gli atenei ad aumentare le tasse (fermo restando il tetto del 20% del fondo ordinario) e, come lo stesso Preside della no‐stra Facoltà di Scienze Politiche ha indicato recentemente, a ridurre
l’offerta formativa, i fondi per la ricerca, per i dipartimenti e per le borse di dottorato. Si darebbe il via inoltre ad una disperata ricerca di finanziamenti esterni che rendereb‐be sempre più concreta la possibilità di una perdita di autonomia della ricerca e della didattica. Le aspettative di carriera dei gio‐vani ricercatori da poco entrati nel sistema universitario e di coloro che sognano di proseguire i propri studi con un dottorato saranno penalizza‐te. Oltre ai tagli generali infatti, il blocco del turn‐over (un’assunzione a fronte di cinque pensionamenti) impedirà alle nuove generazioni l’accesso al mondo accademico. In un futuro prossimo lo scenario non diventerà più confortante. La possibilità che le Università si tra‐
di Ana Victoria Arruabarrena
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IL COMMENTO
C O P E RT I N A
Questo ovviamente potrebbe portare soggetti privati a partecipare al go‐verno dellʹuniversità, sebbene con il mandato di concorrere allo scopo e agli obbiettivi di formazione e ricerca tipici delle università. Anche in questo caso, tuttavia, non è chiaro il grado di libertà che sarà con‐cesso ai nuovi atenei, i cui regolamen‐ti dovranno essere approvati dal mi‐nistero dellʹistruzione e la sorte del personale docente, che diverrebbe dipendente di una nuova istituzione non più pubblica, con le relative dif‐ferenze in termini di contratti e di retribuzioni. Lʹopportunità, tuttavia, non verrà sfruttata da molti atenei, anche per‐ché le incognite di questa trasforma‐zione sono ancora troppe e lʹart. 16 prevede che lʹentità dei finanziamenti pubblici alle fondazioni possa essere modificata, a seconda della quantità di investimenti privati che i nuovi atenei riuscirebbero ad attrarre. Una misura che sembra colpire pre‐ventivamente le università che vedo‐no in questa trasformazione la possi‐bilità di rilanciare il proprio percorso e la propria autonomia.
Dario Luciano Merlo
sformino in Fondazioni private pro‐spetta un grave pericolo per il siste‐ma formativo nazionale. Una gra‐duale privatizzazione sfavorirebbe subito le facoltà “meno redditizie” e, cosa ben grave, orienterebbe la ricerca a soddisfare gli interessi dei finanziatori privati. Così, una Facol‐
tà di Farmacia “in debito” con qual‐che colosso farmaceutico si trove‐rebbe obbligata a creare nuovi “prodotti” da lanciare sul mercato o peggio ancora potrebbe essere bloc‐cata nella ricerca di nuovi medici‐nali per la cura di qualche malattia qualora la malattia stessa fosse più
redditizia per le grandi multinazio‐nali. L’urgenza di non permettere lo smantellamento dell’Università do‐vrebbe essere quindi un dovere per tutti i componenti dell’Università: professori, ricercatori, personale tecnico‐amministrativo e studenti. Al contrario però dei nostri cugini d’oltralpe che due anni fa riuscirono a fermare la legge sul “Contratto di primo impiego” in Italia gli studenti non esistono come soggetto in quan‐to non dispongono di un’organizza‐zione sindacale che permetta loro di influire e partecipare alla vita politi‐ca nazionale. A tutti noi quindi il dovere di darci uno strumento per respingere con forza questa L133, per ottenere maggiori risorse e un loro miglior utilizzo. Per difendere un’Università pubblica, un reale diritto allo studio e una ricerca libe‐ra, autonoma e non orientata al pro‐fitto bensì all’interesse della società tutta.
LO STUDIOSO | DANIELE CHECCHI
MILANO ‐ Professor Checchi, con il Dl 112, che opera consistenti tagli alla spesa destinata all’Università, il Ministro Gelmini suggerisce agli Atenei di trasformarsi in fondazio‐ni private per far fronte alle neces‐sità di fondi. Secondo lei è una strada percorribile? «La soluzione di trasformare le università in fondazioni private non è sufficiente, dal momento che il decreto non definisce modalità e tempistiche. Qualche anno fa, nel centro‐sinistra, Nicola Rossi aveva elaborato una proposta più articolata e realizzabile». Ma la proposta non può essere letta nell’ottica della svolta meritocratica promossa dal governo e della lotta ai fannulloni, tanto a cuore al Ministro Brunetta? «Il Dl 112 prevede tagli del 30% ai fondi destinati all’università. Il de‐creto lascia la possibilità alle univer‐sità, di trasformarsi in fondazioni private per sopperire alla mancanza
di fondi. I criteri di taglio sono gene‐ralizzati, non fanno alcuna distinzio‐ne tra università virtuose, e istituti con un bilancio pesantemente in passivo e che registrano sprechi. Tale generalizzazione danneggia soprattutto quegli atenei più effi‐cienti, che invece avrebbero dovuto essere premiati. I rettori avevano chiesto un sistema di valutazione
nazionale che collegasse i finanziamenti alle presta‐zioni dei vari Atenei. Questo potrebbe rappre‐sentare un passo avanti verso la meritocrazia e la lotta ai fannulloni tanto sbandierata dall’attuale esecutivo».
Armando Dito Giulia Oldani
__________________ Daniele Checchi è professore ordinario in “Economia Politica” presso l’Univer‐sità degli Studi di Milano e Preside del‐la Facoltà di Scienze Politiche. Esperto
di istruzione, collabora con il sito www.lavoce.info ©
GRAZIA
NER
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C O P E RT I N A
MILANO ‐ Professor Regini (foto in basso, ndr), dai dati emerge che il sistema universitario italiano soffre di un cronico sottofinanziamento e di un deficit strutturale di ricambio del personale docente. Il Dl 112 ta‐glia le spese del 12%, a cui seguiran‐no altri tagli per arrivare quasi al 30%. Quali effetti può avere sul no‐stro sistema? Dopo che per anni si è detto che è necessario un ricambio, le misure previste sono totalmente contraddit‐torie perché di fatto bloccheranno il turn‐over dei docenti fino al 2011: per ogni 10 docenti che lasceranno il ser‐vizio, ne saranno assunti 2. Semplice‐mente il governo ritiene che il siste‐ma universitario debba fare una cura dimagrante. Di conseguenza si ridur‐rà il numero di laureati, allontanando ancor di più il nostro Paese dal rag‐giungimento degli obiettivi di Lisbo‐na. Invece di una selezione meritocra‐tica tra coloro che si iscrivono all’uni‐versità, si parte da una diminuzione dell’organico, che produrrà come effetto il numero chiuso anche alle triennali. L’idea di trasformare le università in fondazioni private è effettiva‐mente realizzabile? Non si andrà, credo, verso una pri‐vatizzazione. In Europa in tutti i Pae‐si il sistema universitario è pubblico. È vero che in Gran Bretagna, con la Thatcher, si è cercato di percorrere questa strada con le fondazioni ed il finanziamento privato dei contratti di ricerca, ma non penso che in Italia sia altrettanto percorribile. Ricordo che al Festival dell’Economia di Trento l’ex Ministro Mussi rispose alla stessa domanda con una battuta arguta: “Secondo lei, se io adesso alzo il tele‐fono e chiamo Tronchetti Provera, lui si compra l’università?”. Il sistema della ricerca non garantisce il ritorno dell’investimento al privato che cerca
«Il decreto ci allontana da Lisbona»
di Giulia Oldani e Armando Dito
Intervista al Prorettore Regini sul D.L. 112. «Una riforma contraddittoria, che taglia i fondi, blocca il turn-over dei docenti, costringe ad introdurre il
numero chiuso alle triennali e ridurrà il numero di laureati»
il profitto; la ricerca di base, infatti, non è mai redditizia, tant’è che l’indu‐stria privata cerca di accollarla al pub‐blico. Allora le fondazioni non possono avere un ruolo? L’idea in sé non è sbagliata, ma non è realisticamente pensabile che i pri‐vati comprino l’università. Si può in‐vece pensare ad un forte investimento da parte degli enti locali. Non è un caso che di tutti i rettori, l’unico entu‐siasta sia il rettore di Trento, questo perché la provincia autonoma finanzia lautamente l’Ateneo. La privatizzazione, ammesso che possa avvenire, non andrà ad intacca‐re lo stato giuridico unico dei lavora‐tori dell’università? Qualora davvero si possano costitui‐re le fondazioni – impossibile – non mi trovo totalmente contrario alla pri‐vatizzazione del pubblico impiego. Infatti la contrattazione nel settore privato può garantire tutele altrettan‐to valide. E qui si ricade nel problema generale del mercato del lavoro italia‐
no, che non è tanto quello di garantire il posto fisso, quanto piuttosto quello di istituire sistemi di garanzia del reddito: flessibilità sì, ma anche sicu‐rezza. Dal momento che il governo ha deciso di tagliare, non aveva più senso razionalizzare la distribuzione dei fondi, premiando gli Atenei più meritevoli con un’indagine sulla allocazione delle risorse e sull’effi‐cienza delle università? Certo che aveva più senso. Ma mol‐to spesso le università più inefficienti sono anche quelle con i migliori rap‐porti clientelari con governo e enti locali. Quando, in realtà marginali, un Ateneo può garantire prestigio per la zona e nuovi posti di lavoro, è chia‐ro che i notabili locali abbiano tutto l’interesse a finanziare l’università, sebbene improduttiva. Per questo non si possono toccare interessi politici, e diventano impen‐sabili indagini di merito ed efficienza come quella che voi suggerite. È più facile imporre tagli generalizzati. In t e o r i a , d o v r e b b e c r e a r s i “darwinianamente” un meccanismo virtuoso per il quale solo i migliori resistono. Ma di fatto, chi resiste? Chi è più efficiente o chi ha il patrono locale? Ma allora si può davvero parlare di “riforma”? Forse nei prossimi mesi si potrà parlarne, con la riforma della gover‐nance e del reclutamento del persona‐le. Per il momento non c’è nessuna riforma, solo un taglio.
_____________________________ Marino Regini è professore
ordinario nel Dipartimento di Studi del Lavoro e del Welfare, Prorettore dell’Uni‐versità degli Studi di Milano ed ex Preside
della Facoltà di Scienze Politiche
s c i e n z e p o l i t i c h e | P I L L O L E
AVVISI
I NUMERI DI SCIENZE POLITICHE
www.acidopolitico.com / [email protected] a cura di Leonard Berberi
LA CURIOSITA’ MILANO ‐ Il prof. Luca Solari (foto piccola in basso), docente di “Organizzazione delle risorse umane” presso l’Università degli Studi di Milano, è famoso per la sua passione per la tecnologia.
Ma da Settembre si è superato: gli studenti potranno andare a ricevi‐mento solo dopo aver prenotato l ’appuntamento su un apposito
s i t o i n t e r n e t ( h t t p : / /lsolari.acuityscheduling.com). Una volta aperta la pagina, ai ra‐gazzi vengono richiesti la data e l’ora del colloquio (che non potrà superare i dieci minuti), i recapiti e, ovviamente, il nome. Quest’ultima “trovata” si aggiun‐ge alla particolare tecnica d’esame adottata dal professore: le doman‐de sono proiettate sullo schermo e cambiano automaticamente ogni sette minuti.
SU & GIU’ Pollice su per la colla‐borazione tra Università Statale di Milano e l’or‐ganizzazione Esterni
nell’ambito del “Milano Film Festival”: 50 accrediti gratuiti offerti agli studenti più un prez‐zo speciale di 10 euro per tutti gli altri (previa presentazione tesse‐rino universitario, ndr). (fonte: http://www.unimi.it/cataloghi/divsi/
MFF2008__Accrediti_agevolazioni.pdf)
L’esame è stato fatto il 17 luglio scorso, ma i voti sono stati pubbli‐cati dopo oltre un me‐
se, il 3 settembre. Questa la performance ‐ negativa ‐ dell’appello estivo del corso di “Comunicazione Politica” del prof. Giampietro Mazzoleni. (fonte: http://www.scienzepolitiche.unimi.it/
Avvisi/CAT/420_ITA_HTML.html)
MILANO ‐ Confrontando il numero delle immatricolazioni dell’a. a. 2008/2009 rispetto alla stessa data dell’anno precedente, si è regi‐strato un aumento del 33,6% degli iscritti che frequenteranno i corsi di laurea triennali presso gli ambienti di via Conservatorio. Un buon numero, considerando che la data di chiusura per registrarsi alla Facoltà di Scien‐ze Politiche deve ancora arrivare. Precisamen‐te: 608 erano state le immatricolazioni l’anno passato; già 812 quelle di quest’anno. Dall’altra parte, il documento ufficiale del‐l’Università, scrive che il numero dei laureati
‐ rispetto all’anno precedente ‐ è diminuito sensibilmente, passando da 1354 a 929 (‐ 31%). Non spiega, tale rapporto, se il numero relativo all’ultimo anno sia definitivo oppure se si fermi al 22 luglio (quindi non tiene anco‐ra conto della sessione di laurea di dicembre). In generale, negli ultimi cinque anni, il numero dei laureati a Scienze Politiche è an‐dato aumentando a partire dal 2004: 875 nel 2002, 874 nel 2003, 942 nel 2004, 1143 nel 2005, 1255 nel 2006, 1354 l’anno successivo e 929 ‐ ma il dato non è ancora definitivo ‐ nel 2008.
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Cari studenti, molti di voi scrivono per chiedere informazioni su corsi che hanno inse‐rito e sono presenti nei piani di stu‐dio, ma che sul sito appaiono come non attivati per questo anno accade‐mico. In realtà i corsi sono tuttora attivi e insegnati regolarmente, ma non fan‐no più parte del nuovo manifesto degli studi della laurea magistrale in comunicazione pubblica e di impresa attivata questo anno accademico con il solo primo anno. Potete seguire i corsi, attivi presso altri corsi di laurea e sostenere rego‐larmente gli esami. Non siete quindi in alcun modo costretti a modificare il vostro piano di studi. Cari saluti e buon inizio d’anno ac‐cademico
Prof. Luisa Leonini
Apertura sperimentale esten‐sione Laboratorio Informatico A partire da lunedì 23 giugno verrà aperto agli studenti il nuovo Labora‐torio Informatico al piano seminterra‐to (accesso dalla scala sul retro dell’‐Aula 10), che, dopo un breve periodo di sperimentazione, ai primi di Set‐tembre, diventerà a tutti gli effetti un’estensione del Laboratorio Infor‐matico. Gli orari di apertura saranno gli stessi del Laboratorio Informatico.
*** Totem Info Point
Da venerdi 27 giugno sono attivi due To‐tem dedicati alle informazioni sulla Facoltà, dislocati in prossimità delle aule studio (raggiungibili dallʹingresso posto sopra le scale accanto alla portineria).La navigazione è consentita solo per il sito di Facoltà e per quelli delle strutture afferenti (no portale di Ateneo).
U N I V E R S I TA ’ | l a p o l e m i c a
N ell’inchiesta pubblicata sullo scorso numero della rivista, nella quale veni‐vano rese note ‐ per la
prima volta in assoluto ‐ le valutazio‐ni che gli studenti hanno dato ai do‐centi ed ai corsi attraverso il sondag‐gio di “Acido Politico”, erano emersi alcuni risultati interessanti: il flop del‐le materie sociologiche, la poca sinto‐nia con le lingue straniere e la prefe‐renza per le materie politologiche, giuridiche e storiche. In seguito a quella pubblicazione, molti professori si sono preoccupati di farci sapere che le valutazioni in loro possesso (intendi: quelle commissio‐nate dall’Ateneo quindi molto più attendibili) mostravano risultati di‐versi e molto lusinghieri. Per loro, ovviamente. Lo stesso Preside, in mo‐do informale, ha rivelato come i nostri dati fossero “leggermente sballati” rispetto alla realtà. Peccato che, in un documento di qualche anno fa teso ad analizzare l’andamento del sistema universitario dal vecchio al nuovo ordinamento (“Rapporto sulla valutazione della didattica 2002‐03 da parte degli stu‐denti frequentanti”, gennaio 2004), insieme a Giampietro Gobo, il prof. Daniele Checchi (ovvero il Preside) scriveva: «Dal punto di vista delle discipline l’interesse maggiore viene riscontrato per le materie (nell’ordine) politologiche, giuridiche e storiche, mentre minore entusiasmo viene riservato alle discipline quantitative. Le materie sociologiche, linguistiche ed economiche rimangono nella media (sia nell’apprezzamento che nell’insoddisfazione). Se analizziamo diacronicamente questo indicatore not iamo che: a) le materie sociologiche e linguistiche hanno subito un calo di interesse; b) le materie storiche continuano ad ottenere grande interesse; c) le discipline giuridiche e politologiche sono diventate più interessanti; d) le economiche si collocano ad un livello di interesse nella media; e) le quantitative rimangono le meno amate». Esattamente quello che è emerso dal nostro sondaggio. Scrivono ancora i due docenti: «(…)
Punti di vista
il giudizio sui docenti rimane molto positivo; più precisamente il 58% individua una permormance del docente “alta”, mentre solamente poco più del 6% rappresenta una valutazione negativa sull’attività del docente; la quota di una moderata soddisfazione viene identificata dal 35%». Eseguendo una media puramente matematica sui risultati emersi dalla nostra inchiesta, il campione di 700 ragazzi intervistati ha valutato con un 25 (25,086 per l’esattezza) i docenti della Facoltà di Scienze Politiche. Un voto più che lusinghiero, se si consi‐dera che sono stati pochissimi i pro‐fessori “bocciati”. Ricordiamo ancora una volta che stiamo confrontando due rapporti: il primo ‐ quello “ufficiale” ‐ del 2004 sui dati del 2002/2003; il secondo ‐ quello “non ufficiale ‐ ovvero il no‐stro, datato giugno 2008. Qualcuno storcerà il naso, ma ai più apparirà chiaro come, di fronte alle critiche rivolte a questa rivista, i risultati pub‐blicati non fanno altro che confermare una tendenza in atto da almeno quat‐tro anni. Di fianco, pubblichiamo alcuni dei commenti arrivati sul forum di di‐scussione aperto dal sito lavoce.info in seguito alla nostra inchiesta. Sempre a fianco, dalle pagine autorevoli del “Corriere della Sera”, Paolo Macry spiega la sua contrarietà alla pubblica‐zione. Punti di vista differenti. Punti di vista legittimi. Se i toni di alcuni nostri docenti fossero stati in sintonia con quanto leggerete, Scienze Politi‐che ne avrebbe guadagnato e su que‐sto argomento delicato si sarebbe a‐perta una discussione seria tra le par‐ti. Non una sorta di processo per “lesa maestà”. (l.b.)
Sul sito lavoce.info un dibattito aperto e tanti commenti
PUBBLICARE I VOTI Utile e doveroso (altrettanto lo è pubblica‐re i voti degli studenti, stolidamente impe‐dito in nome di una malintesa privacy). Mi dispiace solo che tutti vedano la cosa nel‐lʹottica ʺpunzioneʺ. Io ci vedo lʹaspetto incentivante per chi viene valutato positi‐vamente. Non mi interessa dar la caccia ai cattivi ma aumentare la motivazione a migliorarsi. In molti dipartimenti america‐ni si fa un titolo di ʺmiglior professore dellʹannoʺ a giudizio degli studenti. Chi vince il premio ne va giustamente orgo‐glioso. Non si lavora meglio solo per pau‐ra del castigo, anche per ricerca del pre‐mio.
Nicola Ciccoli
IO, LE MIE VALUTAZIONI, LE PUBBLI‐CO GIA’ Sono un ricercatore di sociologia nella facoltà di Scienze della Formazione dellʹU‐niversità di Padova. Ritengo che la manca‐ta valutazione dei docenti universitari, su ogni livello e per ogni aspetto del loro lavoro, sia scandalosa. Certo, sarebbe me‐glio avere concorsi migliori, una agenzia di valutazione seria, dare ai presidi poteri di sanzione etc. etc. etc. Ma come insegna‐vano i nonni, coi se e coi ma la storia non si fa. Io ho trovato un modo personale per risolvere la questione: pubblico sul mio sito didattico le valutazioni dei miei stu‐denti, così che chiunque possa vederle e confrontarle. Ciò non cambia nulla dal punto di vista pratico – i miei studenti sarebbero comunque obbligati a seguire il mio corso anche se decidessero che io sono troppo scarso per loro – ma è un modo per dare un microcontributo al miglioramento del carrozzone in cui lavoro 365 giorni allʹanno.
Matteo Bortolini
E’ INUTILE! Se le Università potessero scegliersi i pro‐pri docenti e ricercatori con chiamata di‐retta (senza la farsa del concorso e con più responsabilità), sarebbe giusto. Siccome a causa del concorso pubblico non si posso‐no scegliere docenti e ricercatori con chia‐mata diretta, dare i voti è inutile!
Decio
PUBBLICARE PER PREMIARE Perchè pubblicare? Perchè gli studenti non sanno che fine fanno quei questionari che vengono compilati alla fine di ogni corso,
«Il sondaggio di Acido Politico non ha
fatto altro che confermare una tendenza già documentata»
l a p o l e m i c a | U N I V E R S I TA ’
E’ giusto pubblicare i voti degli studenti ai professori?
formato interessandomi di alcune situa‐zioni. Fossi un professore universitario temerei molto di più la richiesta di ʺproduttivitàʺ: al di là della difficoltà di misura della qualità delle idee, queste per svilupparsi hanno spesso bisogno di ampi spazi di vuoto che contrastano con lʹidea abituale di produttività. La qualità di un servizio, come di fatto è lʹinsegnamento (non il giudizio, che può essere altro) è un dato molto più semplice.
Paolo Zanini
e così facendo a perderne è la responsabi‐lizzazione degli stessi verso lʹunico stru‐mento che hanno per valutare i corsi. Pubblicare perchè si inneschi quel circolo virtuoso che garantisce concorrenza e incremento della qualità complessiva. Pubblicare e tenere conto che i questionari non sono un voto ai docenti ma la perce‐zione che hanno gli studenti dei docenti; a questo proposito ritengo sia importante tenere conto del giudizio che si da al do‐cente anche successivamente al corso. La valutazione è lʹunico strumento che per‐metterebbe al sistema universitario di poter estripare alcuni baronati a fronte di una nuova classe docente capace di innal‐zare il livello culturale nelle università e tra gli studenti. E poi la ritengo anche io una questione di trasparenza nei confron‐ti degli studenti stessi che possono usu‐fruire del giudizio dei propri predecessori per scegliere con maggiore consapevolez‐za i corsi da seguire. Infine credo si possa pensare a legare il giudizio degli studenti sui docenti attraverso i questionari, a for‐me di incentivi economici.
Vincenzo Spallina PRIVACY DOCENTI—STUDENTI Le valutazioni date agli studenti sono vincolate dalla normativa sulla privacy, e non possono essere pubblicate con nome e cognome. Sui vari siti internet dei do‐centi si trovano solo i voti riferiti al nume‐ro di matricola dello studente, che eʹ come dire che i voti restano anonimi. Siamo sicuri che le valutazioni sui docenti deb‐bano invece essere pubbliche, con nome e cognome? Tali valutazioni sono giaʹ note ai presidi di facoltaʹ, direttori di diparti‐mento e quantʹaltro: se crediamo nella loro efficacia e nella loro veridicitaʹ, im‐plementiamo dei meccanismi di feedback; dubito che la pubblicazione dei risultati sia uno di questi.
Alessandro Spinelli DOVEROSO PUBBLICARLI Ritengo doveroso rendere noti i risultati delle opinioni (e non voti!) sulla valuta‐zione della didattica per la ʺsalvaguardia della dignità umanaʺ degli studenti , che dal 1999 (e in alcuni Atenei dal 1993) sono sottoposti ogni anno al tormentone della compilazione del questionario sulla didat‐tica, maturando, a mio avviso, il diritto di conoscere i risultati delle loro valutazioni. Non va inoltre dimenticato il rispetto da parte della istituzione Università, in tema
di valutazione, del principio sacrosanto dellʹaccountability, principio etico di una governance trasparente e affidabile, con‐diviso da tutti i Paesi europei, e non solo. Se il docente universitario è così ʺfragileʺ, che dire della valutazione della ricerca fatta dal CIVR che riportava il nome e cognome dei docenti autori dei prodotti di qualità? Che dire dellʹintroduzione in alcuni atenei di soglie per lʹindividuazio‐ne dei ricercatori attivi per una distribu‐zione mirata dei fondi di ricerca che si assottigliano sempre più? In entrambi i casi per esclusione si individuano tutti i docenti che non hanno i requisiti richiesti. Mi auguro non siano tutti in terapia dallo psichiatra!
Vincenza Capursi UN APPROCCIO PRAGMATICO La questione del giudizio degli studenti meriterebbe anche un approccio pragma‐tico: osservare le esperienze fatte ed ana‐lizzarle per valutare se il giudizio espres‐so dagli studenti è effettivamente distorto da elementi di conflitto (come sembano temere molti detrattori della pubblicità dei dati) o se la qualità di questo giudizio è invece, anche grazie allʹelevato numero di studenti, sostanzialmente buona e cre‐dibile. Questʹultima è lʹidea che mi sono
In alto, la copertina del numero di giugno di “Acido Politico” contenente l’inchiesta e la pubblicazione che gli studenti della Fa-coltà di Scienze Politiche di Milano hanno dato ai loro professori ed ai relativi inse-gnamenti. Il documento è scaricabile in versione .pdf dal nostro sito web www.acidopolitico.com
CONTRO
Professori alla gogna
È opportuno rendere pubblici i voti che gli studenti universitari danno ai loro professori? Discus‐sa alla Statale di Milano e ripresa
da lavoce.info, lʹipotesi sembrerebbe uno shock salutare per unʹaccademia notoriamente refrattaria alla meritocra‐zia e ‐ malgrado i feroci propositi di innumerevoli ministri ‐ mai sottoposta a controlli seri. Ma si tratta di demagogia. Oggi come oggi, riservati o pubblici che siano, i giudizi degli studenti non servono a un bel nulla, perché sono raccolti con mo‐dalità spesso approssimative e perché gli organi di governo universitari non hanno alcuna possibilità (ove mai lo volessero) di utilizzarli per program‐mare la didattica, decidere le funzioni dei docenti, differenziarne il trattamen‐to economico. Non a caso dove questo avviene, come negli Stati Uniti, quei giudizi sono in genere segreti. Da noi, esporre lʹalbo dei buoni e dei cattivi altro non sarebbe che lʹennesima esca data in pasto a unʹopinione pubbli‐ca tendenzialmente avida di gogna più che di efficienza.
(pubblicato sul Calendario del “Corriere della Sera”, sezione Cultura, 05.07.2008)
di Paolo Macry
Sul sito www.lavoce.info nella se‐zione “Scuola e Università” trovate il forum di discussione sulla pubbli‐cazione dei voti ai professori.
I N C H I E S TA
per tutte le destinazioni, e non è legata ad un particolare progetto di lavoro. Ciò che è segnalato nel bando, in merito alle mansioni previste per ogni singolo posto di stage, spesso non viene rispet‐tato. A sentire le testimonianze raccolte, l’im‐pressione generale è che il lavoro degli stagisti il più delle volte sia del tutto accessorio. «L’idea che mi sono fatta è che non ci fosse una grande progettuali‐tà dietro ai nostri compiti. Non che ci fosse poco lavoro, solo che questo non aveva uno schema preciso in cui inserir‐si» ‐ dice Benedetta –. C’erano delle cose che dovevamo fare bisettimanal‐mente, come le sintesi di politica inter‐nazionale da mandare al ministero a Roma, per il resto il lavoro non si svol‐geva in maniera molto organica. Un giorno a seguire un briefing sul Consi‐glio Europeo degli affari internazionali,
rienza da mettere sul mio curriculum, ma anche un modo per capire come funzionano queste istituzioni» ci raccon‐ta Benedetta, 22 anni e stage all’ufficio politico dell’Ambasciata di Parigi. An‐che lei è entrata attraverso il bando MA‐E‐CRUI, non sembra possibile nessuna altra via. «Ho avuto modo di leggere una corrispondenza tra il Ministero de‐gli Esteri e l’Ambasciata – spiega Bene‐detta – in cui si segnalava espressamen‐te di ammettere solamente stagisti che fossero stati selezionati attraverso il bando MAE‐CRUI». Questo bando rispetta poche ma sempli‐ci regole. Si tratta innanzitutto di stage non retribuiti, né sotto forma di contrat‐to né attraverso rimborsi spese o buoni pasto. Un limite non indifferente soprat‐tutto per quelle località in cui il costo della vita è alto. La durata inoltre è stabilita in tre mesi
MILANO ‐ 705 posti ripartiti tra amba‐sciate, consolati e uffici di rappresen‐tanza permanente sparsi sui cinque continenti, fino ai più remoti angoli del pianeta. Questo è ciò che offre, ormai da diversi anni, la fondazione CRUI in collaborazione con il Ministero Affari Esteri: stage e tirocini di 3 mesi per ave‐re un primo contatto con realtà istitu‐zionali di prestigio. Una possibilità ap‐petibile, che ogni anno attrae decine di studenti da tutte le università italiane, affascinati dalla possibilità di mettere in pratica i propri studi internazionali. Per molti però si tratta di una scelta quasi obbligata. Nonostante ciò non è facile trovare por‐te aperte presso Ambasciate e consolati. Non rivolgendosi direttamente, né tan‐tomeno pretendendo contratti o rimbor‐si spese. «Pensavo sarebbe stata una valida espe‐
di Flavio Bini
Permettono di osservare da dentro il lavoro di ambasciate e consolati. Sono gli stage organizzati da CRUI e Ministero Affari Esteri, che ogni tre mesi fanno partire centinaia di studenti in tutto il mondo. Abbiamo incontrato quattro di loro
I N C H I E S TA
il giorno dopo ad assistere ad un incon‐tro bilaterale con il tuo consigliere in cui tu non avevi nessun ruolo se non quello di ascoltatore». Ogni esperienza parla per sé. Sara, stage alla direzione Mediterraneo e Medio‐Oriente del Ministero degli Esteri a Ro‐ma racconta entusiasta: «Abbiamo lavo‐rato moltissimo, eravamo lì fino alla sera, a volte si tornava a casa tardi. Pen‐savo che avrei fatto le fotocopie, ed inve‐ce sento di aver lavorato di più di ciò che mi aspettavo». Scherza respingendo le accuse che il loro lavoro non fosse necessario: «Eccome se avevano bisogno del nostro lavoro, altrimenti il Ministero dovrebbe assumere un sacco di gente!». Non tutti però sono così fortunati. San‐dra, 25 anni e stage all’ufficio stampa dell’Ambasciata di Stoccolma, esprime tutto il suo disappunto. «Non penso proprio che lo rifarei. Sono andata lì pensando che avrei imparato qualcosa ed invece non ho imparato proprio nien‐
te». Forte anche la frustrazione legata allo scarso carico di lavoro. «La mia giornata lavorativa doveva durare 8 ore, ma dopo un’ora e mezza avevo già fini‐to. Ho provato a chiedere dei compiti aggiuntivi al mio tutor ma senza parti‐colare successo». «A volte ho avuto l’im‐pressione ‐ le fa eco Benedetta ‐ che il nostro ruolo fosse del tutto opzionale, non indispensabile. Anzi era lo stesso tutor a farci capire che era lui che stava facendo un favore a noi, quando invece eravamo noi a lavorare gratuitamente per lui». Prendere o lasciare. Se questi bandi sono l’unica occasione per avere un primo contatto con le realtà istituzionali, la scelta è tra partire con il rischio di tro‐varsi a fare poco o niente e rimanere a casa. Esiste però una terza possibilità: selezio‐nare attentamente la destinazione prima della partenza. Ce la racconta Daniela, 23 anni e stage all’Ambasciata di New
Delhi in India. «Dove lavoravo io ero l’unica stagista, perciò il mio lavoro era molto prezioso. Certo ci vuole molto spirito di iniziativa. Bisogna insistere con il proprio tutor. Una volta mi ha detto: “tu devi rincorrermi, se non ti vedo non ti vengo a cercare”. Funziona così». Si tratta quindi di scegliere non solo in funzione del prestigio di certe destina‐zioni. In genere anzi sono le sedi disa‐giate, quelle meno richieste, che invece hanno più bisogno di personale. Sono anche i luoghi in cui è possibile lavorare in modo più continuativo e che in alcuni casi aprono prospettive successive allo stage. «Al termine del tirocinio – spiega Daniela – mi hanno offerto di continuare a lavorare con loro, con un contratto di lavoro a tempo determinato. Io però devo ancora finire di studiare, inoltre lo stipendio sarebbe stato in valuta locale e quindi molto basso. Ho dovuto rifiuta‐re». Difficile ricostruire un quadro uniforme di queste esperienze, ognuna delle quali sembra avere avuto un percorso diverso. Non mancano gli episodi curiosi. «Ad una mia collega stagista – racconta Bene‐detta – una volta è stato chiesto di ac‐compagnare la moglie di un ministro a fare shopping, non esattamente il moti‐vo per il quale era lì in ambasciata. Ad un’altra è stato chiesto di fare da tradut‐trice ad un parlamentare per un incontro con altri esponenti politici europei. Non era un membro del governo, non c’era ragione per cui beneficiasse di questo servizio, per di più gratuitamente». Il consiglio delle ex stagiste è quello di accordarsi prima della partenza circa il lavoro da svolgere. Contattare il proprio tutor e verificare che la propria presenza possa tornare utile. Difficile dare una valutazione comples‐siva dell’opportunità di queste esperien‐ze, anche se quello che racconta Bene‐detta appare molto eloquente: «Queste istituzioni sprecano una risorsa incredi‐bile, rappresentata dai giovani, persone motivate che vanno a lavorare gratis. Se lavori gratis si presume che tu sia moti‐vato. Ma il più delle volte non le reputa‐no all’altezza dei compiti che vengono loro dati, benché siano laureati o laure‐andi in specialistica». Posti di fronte ad opportunità di questo tipo molti studenti decidono di partire lo stesso, anche a costo di correre il ri‐schio di rimanere in ufficio sei ore al giorno a non fare nulla. Perché questo è l’unico accesso per fare esperienza in istituzioni di questo tipo. Prendere o lasciare.
Dottori I livello Laurea conseguita da non oltre 18 mesi (il tirocinio deve iniziare entro i 18 mesi); :: votazione di laurea minima 105/110; :: età massima 25 anni; :: conoscenza delle lingue straniere. Per i laureandi di specialistica, magistrale a ciclo unico e di vecchio ordinamento :: 60 crediti per gli iscritti alla laurea specialistica; :: 240 crediti per gli iscritti alla laurea magistrale a ciclo unico; :: 70 % degli esami sostenuti per i lau‐reandi di vecchio ordinamento; :: 27/30 di media; :: conoscenza delle lingue straniere, :: età massima 28 anni
I REQUISITI
I TA L I A
MILANO ‐ Avevamo già lanciato dalle pagine di Acido Politico il rischio che la criminalità organizzata potesse mettere mano sul flusso di soldi che investirà Milano con il nome di Expo. Non avevamo torto. Nel frattempo è venuta a galla una storia che conferma le nostre preoccupazioni. Una sceneg‐giatura degna della filmografia gan‐gster firmata Scorsese. Alla procura di Varese si sta investi‐gando su un traffico di droga. Da que‐sta inchiesta prende vita un filone che si occupa di appalti e rapporti tra ‘ndrangheta e politica. Sotto osserva‐zione c’è Giovanni Cinque, 55, legato alla ‘ndrina Arena di Capo Rizzuto. Cinque è uno dei sostenitori della cam‐pagna elettorale provinciale di Massi‐miliano Carioni, già assessore al terri‐torio di Somma Lombardo, che lo ve‐drà ottenere la carica di capogruppo del Pdl in consiglio provinciale. Questi non sono gli unici protagonisti della nostra storia, in gioco entra anche un a l t ro malav i toso l ega to a l l a ‘ndrangheta, Francesco Franconeri (con precedenti per bancarotta fraudo‐lenta, ricettazione, sottrazione di beni destinati a misura di prevenzione, resi‐stenza e oltraggio a pubblico ufficiale), amico e coscritto del già presentato Cinque. I personaggi fino ad ora incontrati li troviamo tutti assieme alla cena orga‐nizzata per festeggiare la vittoria di Carioni alla provincia. Qui la polizia ha già sotto controllo il telefono di Cin‐que e documenta tutta la cena con foto e intercettazioni ambientali. Fino a questo punto gli affari vanno bene, l’obbiettivo è avere l’uomo giusto che può aiutare a ottenere gli appalti in vista delle grandi opere previste per l’Expo. Però così non è abbastanza, Cinque vuole andare oltre. La partita vera, quella che fa guadagnare di più, si gioca ovviamente a Milano, Cinque e Franconeri lo sanno bene, non sono certo dei novelli, così organizzano altri incontri con Carioni. Questa volta non sono soli. Con loro, in un bar di Castronno ci sono altre due persone: Paolo Galli, presidente del consiglio di amministra‐zione dell’Aler di Varese, l’azienda che si occupa di Edilizia Residenziale; Francesco Salvatore, imprenditore campano che si occupa di Edilizia e Informatica. Mafia, politica e imprenditoria in un
La ‘ndrangheta alla conquista dell’Expo
di Filippo Basile
Intercettazioni e pedinamenti hanno rivelato le mosse della criminalità organizzata. Obiettivo: gli appalti. Da 15 miliardi di dollari
no due punti a mio avviso fondamen‐tali. In primo luogo la funzione di una commissione antimafia, che non ha il compito di combattere o attivare mezzi per contrastare la criminalità organiz‐zata, ma si prefigge l’obiettivo di stu‐diare e osservare ciò che avviene nel territorio per poi renderlo noto in una relazione finale, quindi definisce fatti già avvenuti e non previene fatti che potrebbero succedere. In secondo luogo bisogna sottolineare che è un organo politico e come tale risente indubbiamente delle influenze da parte del partito di maggioranza, partito di cui Giudice e Carioni fanno parte. Proprio a 30 anni dall’omicidio di Im‐pastato sembra non essere cambiato molto, se non la dinamicità del busi‐ness illegale, che si espande e coinvol‐ge intere classi politiche e imprendito‐riali, che si spartiscono fette di mercato come iene, inquinando un’economia che già fatica a decollare.
bar di Castronno. L’ultimo tassello si aggiunge in un successivo incontro quando si presenta Vincenzo Giudice, consigliere comunale eletto per la lista “Forza Italia Moratti Sindaco”. Tutta questa vicenda viene e scuote la già accesa discussione su una possibile costituzione di una commissione anti‐mafia a Milano che descriva e studi la situazione della criminalità organizza‐ta nel capoluogo lombardo e paesi li‐mitrofi, e che controlli la destinazione dei soldi e degli appalti derivati dall’E‐xpo 2015. La proposta di una commissione di vigilanza sul fenomeno mafioso era già arrivata in consiglio comunale a giu‐gno e Forza Italia l’aveva bocciata con qualche voto di scarto. Ora si ripresen‐ta l’ipotesi e a quanto pare anche il partito azzurro sarebbe favorevole. Non voglio fare facile demagogia, pe‐rò la storia qua sopra parla molto chia‐ro. Superficialmente non vedrei nulla di male, però ci terrei a sottolineare alme‐
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LA VIGNETTA
C L I C K
Il soldato Francisco Diaz abbraccia la sua fidanzata Jacqueline Vazquez di ritorno dal semestre in Iraq (foto di Joe Raedle per GETTY IMAGES)
PARIGI ‐ Un signore mangia in una mensa deserta allestita per i fedeli musulmano a digiuno per il Ramadan (foto di Benoit Tessier per REUTERS)
E S T E R I
richiesto dal piano si è realizzato con estrema lentezza e solo l’8 settembre la Russia ha annunciato l’abbandono entro fine mese del porto di Poti e della zona cuscinetto, dichiarata unilateralmente e controllata da suoi “soldati di pace”, tra Ossezia e Georgia. Il 26 agosto il Cremli‐no, facilitato dal precedente del Kosovo, ha riconosciuto, nonostante la contrarietà della comunità internazionale, l’indipen‐denza di Abkhazia e Ossezia del Sud, con cui ha poi firmato trattati di coopera‐zione militare. Sul loro territorio sorge‐ranno basi russe. La guerra ha lasciato dietro di sé morti e profughi; inoltre ha peggiorato le relazio‐ni tra Russia e USA (il cui appoggio ai georgiani si è limitato ad aiuti umanitari e al travaso di truppe dall’Iraq), e ha complicato quelle con l’UE, che sta orga‐nizzando una missione di polizia di circa 200 uomini per monitorare la realizzazio‐ne del piano di pace. Ora si riaprirà il dibattito internazionale sullo status di Abkhazia e Ossezia nel Sud, ma nemmeno l’UE è così convinta di poter difendere l’integrità territoriale georgiana.
anche qui la moneta è il rublo. I destini di Abkhazia e Ossezia del Sud, fino a poco tempo fa paralleli, ma distan‐ti, si sono incrociati nel recente conflitto bellico che ha sconvolto l’instabile regio‐ne caucasica, proprio alle porte dell’Euro‐pa. Dopo un luglio burrascoso, nella pri‐ma settimana d’agosto si sono verificati i primi incidenti di frontiera in Ossezia del Sud. Poi, nella notte tra il 7 e l’8 ha avuto inizio l’offensiva militare georgiana sulla capitale Tskhinvali e sui villaggi osseti, decisa dal presidente georgiano Shaaka‐shvili per riconquistare il controllo della provincia. L’aver sottovalutato la reazio‐ne russa si è però rivelato fatale. Essa è stata decisa, imponente, e sproporziona‐ta. Alimentata inoltre dalla deriva filo‐occidentale della Georgia, ha di fatto dato luogo a un’invasione. Le truppe georgia‐ne hanno presto dovuto abbandonare Ossezia del Sud e Abkhazia, in cui i russi avevano aperto un secondo fronte il 9 agosto, e indietreggiare a difesa della capitale di fronte all’avanzata dei tank nemici, che si sono spinti fino a poche decine di chilometri da Tbilisi. La sconfitta per la Georgia è stata totale. La mediazione dell’UE ha portato a un “cessate il fuoco” il 12 agosto (violato in più occasioni), e ad un accordo in sei punti accettato sia dalla Georgia che dalla Russia, su cui tutt’ora si fonda la tregua. Il ritiro russo dal territorio georgiano
MILANO ‐ I primi disordini in Abkhazia, oggi repubblica autonoma, si ebbero nel 1989. I georgiani appoggiavano l’indi‐pendenza dall’URSS, mentre gli abcasi e le altre minoranze desideravano uno stato a se stante. Poi, la reazione repressi‐va della Georgia alla dichiarazione d’in‐dipendenza abcasa del ‘92 diede il via a tre anni di guerra, in cui la Russia sosten‐ne i separatisti. Le violenze e i massacri perpetrati dai separatisti e dai loro alleati spinsero i georgiani fuori dalla regione, tanto che oggi sono in essa un’esigua minoranza. Le lingue parlate in Abkha‐zia sono solo il russo e l’abcaso, e la mo‐neta è il rublo. Nel novembre ‘89, il Soviet Supremo dell’Ossezia del Sud, oggi regione auto‐noma, si espresse per l’unificazione con l’Ossezia del Nord, allora repubblica sovietica e ora parte della Federazione Russa, ma la decisione venne bloccata dal parlamento georgiano. Poi, tra il ‘91 (anno della dichiarazione d’indipenden‐za osseta) e il ‘92, la guerra con i separati‐sti affiancati dall’Armata Rossa. La fine delle ostilità portò alla spartizione della regione tra autorità georgiane e ossete e alla creazione di una forza di peacekee‐ping monitorata dall’OSCE. Attualmente, la stragrande maggioranza della popola‐zione ha passaporto russo; due terzi del budget governativo arrivano da Mosca e
Georgia, la nuova “cortina di ferro”
di Matteo Manara
Nel bel mezzo delle Olimpiadi di Pechino, Mosca ha deciso di rispolverare l’ideologia bipolaristica
PAVIA ‐ Vi fu un tempo in cui il Cau‐caso era una terra mitica, traboccante di storie, luoghi romantici e sugge‐stioni esotiche ben note a chi abbia letto i romanzi di Lev Tolstoj. Una terra ricca di usi, costumi e tradizioni ma estremamente complessa dal pun‐to di vista etnico, linguistico e cultura‐le e da tempo immemore vittima di tensioni internazionali e divisioni in‐terne. Il conflitto in Georgia di questa estate è solo l’ultimo di una serie di tensioni che hanno segnato questa terra di frontiera, mai come oggi crocevia di
«All’improvviso un boato. Poi la guerra lampo»
interessi economici e geopolitici che riguardano potenze vicine e lontane. Ma lasciamo da parte la politica inter‐nazionale per raccontare la guerra con gli occhi di chi l’ha vissuta. Questa è la storia di Shavlego (foto a fianco, ndr), studente di 17 anni, nato a Kutaisi ma cresciuto a Senaki, poco più di 200 chilometri a ovest della capitale Tbili‐si. Un ragazzo pacato e intelligente con molte cose da raccontare. Ci in‐contriamo in un bar di Pavia, gestito dalla sorella Dali e dal marito Salvato‐re, e da subito iniziamo a parlare della guerra.
Shavlego mi racconta che la notte del‐l’8 agosto si trovava a casa di un ami‐co con altre due persone quando, po‐co dopo la mezzanotte, sentì un boato, vide la casa che tremava e in un atti‐mo si ritrovò sotto il tavolo del salotto sotto i colpi degli aerei russi che bom‐bardavano la città. Terminato l’attacco uscì di casa con gli amici per cercare in ospedale il fratello di uno di loro, soldato della base militare posta fuori città e bersa‐glio strategico dell’aviazione russa. Il fratello dell’amico era fortunata‐mente salvo ma lungo la strada Sha‐
dal nostro inviato Francesco Russo
Per saperne di più
Aldo Ferrari, “Breve storia del Caucaso”, Roma, Carocci, 2007 • http://www.asiac.net/ • http://www.italiageorgia.it/ • http://www.osservatoriocaucaso.org/ • http://www.visitgeorgia.it/
E S T E R I
vlego vide i corpi delle vittime del bombardamento, uomini sanguinanti, lasciati a terra, alcuni di essi senza testa. All’ospedale la situazione non fu molto diversa: uomini martoriati dalle bombe, soldati e civili sotto shock, senza una gamba o un braccio, nella disperata attesa dell’aiuto dei medici. Nei cinque giorni successivi Shavle‐go rimase chiuso in casa con la sua famiglia, semi isolato dal resto del mon‐do e in compagnia del suo pc. In quegli stessi giorni i russi entraro‐no in città e saccheggiarono la base militare portando con sé computer,
armi, mezzi di trasporto, divise e stru‐mentazioni militari per poi ritirarsi il
23 agosto. Non è difficile per Sha‐vlego fare distinzione tra il bene e il male: i russi meritano il suo odio mentre l’Europa e gli Stati Uniti hanno tutta la sua ammirazione. Dietro queste parole la paura di un nuovo attacco che forse non si limiterà al semplice annullamento delle forze militari ma che potrebbe trasformar‐
si in una nuova guerra di conquista. Shavlego considera illegittima la pro‐clamazione delle repubbliche di A‐bkhazia e Ossezia del Sud perché so‐
no regioni storicamente legate al terri‐torio georgiano. In particolare dall’A‐bkhazia, regione fertile, dal clima mi‐te, sin dalla fine dell’800 meta di turi‐sti russi, ucraini e locali proviene par‐te della sua famiglia. Alla fine di settembre tornerà in Geor‐gia e si iscriverà alla facoltà di econo‐mia all’università di Tbilisi. Mi spiega che lo ha fatto perché vuole aiutare il suo paese a crescere e prosperare. Non vede l’ora di trasferirsi con i suoi amici e di vivere finalmente senza i genitori. Per il futuro spera di realiz‐zarsi e di vivere senza più paure. Ma di una cosa è certo: fintanto che la politica russa non cambierà nessuna pace sarà fatta.
La prima sfida per la nuova giunta sarà superare l’isolamento internazionale. La promessa di indire rapidamente elezioni democratiche sembra un modo per pren‐dere tempo con la comunità internazio‐nale che condanna fortemente l’accaduto, Unione Africana, Unione europea e Stati Uniti in primis. L’Unione Europea ha annunciato la so‐spensione degli aiuti economici (156 mi‐lioni di euro per il periodo 2008‐2013) e ordinato il ripristino del mandato di Ab‐dallahi, destituito illegittimamente, e Parigi ha annunciato di essere pronta ad imporre sanzioni individuali contro i leader del golpe. L’Unione Africana ha sospeso la Mauri‐tania dal blocco e questa sanzione “durerà fino a quando il Paese non ritor‐nerà al governo costituzionale”, ha di‐chiarato il presidente dell’UA, Bernard Membe. Non meno difficile sarà conquistarsi la fiducia della popolazione: se il golpe del 2005 fu salutato come una liberazione, quello attuale è solo il prodotto di una lotta di potere ai vertici statali. Una moti‐vazione che non giustifica il sacrificio di alcuna democrazia.
tari hanno così trovato la strada spianata. Non che Abdallahi non avesse colpe: è stato accusato di aver utilizzato fondi pubblici per scopi personali, di essersi avvicinato troppo agli uomini dell’ex dittatore Taya, di essersi alleato con gli islamisti (scelta che ha provocato una frattura interna al Pndd‐Adil). Accortosi troppo tardi del vuoto che gli si era crea‐to attorno, Abdallahi ha rimosso il primo generale della Basep, Mohamed Ould Abdel Aziz, ed altri generali dai loro in‐carichi, accusandoli della crisi. Una mos‐sa troppo tardiva ed inutile. A capo del nuovo consiglio militare è stato posto Aziz ed il 31 agosto è stato formato un nuovo governo.
MILANO ‐ Il presente democratico della Mauritania non è destinato ad esserne anche il futuro, almeno per il momento. Il 6 agosto scorso un centinaio di soldati della guardia presidenziale (Basep) è sceso nelle strade della capitale Noua‐kchott per destituire il presidente Sidi Ould Cheikh Abdallahi, sequestrato as‐sieme al Primo Ministro Yahya Oulf A‐hmed Waghf . La debole democrazia africana, liberatasi dal dominio coloniale francese nel 1960, si trova ad affrontare la più grave crisi dopo il golpe incruento del 2005, grazie al quale il Paese si sbarazzò del dittatore Maaouiya Ould Taya, al potere dal 1984. Da quel momento la Mauritania intrapre‐se un nuovo corso grazie ad un governo militare transitorio che si impegnò di fronte al popolo a creare le condizioni favorevoli alla nascita di una democrazia aperta e trasparente. E così è stato: l’11 marzo 2007 Abdallahi fu eletto presiden‐te col 53% dei consensi a fronte di una affluenza del 67%. I soldati hanno perciò rovesciato un presidente democratica‐mente scelto, cancellando l’illusione che la democrazia si fosse instaurata real‐mente. La crisi ha avuto inizio il maggio scorso: dopo le critiche sulle misure del governo per fronteggiare lʹaumento dei prezzi alimentari e gli attacchi subiti da Al Qae‐da (la Mauritania ha riconosciuto Israe‐le), tra maggio e luglio Abdallahi ha ri‐formato per ben due volte il governo; la settimana precedente al golpe la maggior parte dei parlamentari appartenenti al partito di Abdallahi (Pndd‐Adil) ha la‐sciato la compagine governativa con lʹap‐poggio degli ufficiali dellʹesercito. I mili‐
Mauritania, il golpe che cancella la democrazia
di Debora Pignotti
Diventata repubblica grazie ad un colpo di stato pacifico nel 2005, torna ad essere una dittatura “grazie” allo stesso strumento
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zprom, la compagnia energetica “di bandiera” del Cremlino. La Gazprom ha sia proposto la costru‐zione di gasdotti alternativi, come l’al‐largamento del Blue Stream sotto il Mar Nero o la costruzione del South Stream, che partirebbe dalla Russia e attraverso Bulgaria, Ungheria e Austria arrivereb‐be in Italia, sia si è offerta di comprare tutto il gas da esportazione prodotto da Turkmenistan e Azerbaijan, privando così Nabucco delle sue principali forni‐ture. Il secondo problema è la divisione all’interno delle griglie energetiche Eu‐ropee, fortemente appoggiato dai gi‐ganti energetici nazionali, quali Electri‐cité de France, perché permette il mono‐polio di mercato all’interno dei vari paesi. La liberalizzazione del mercato energe‐tico europeo renderebbe sia più facile presentare un fronte comune alla Rus‐sia, perché non esisterebbero più cam‐pioni nazionali abbastanza grandi da preferire gli accordi bilaterali alla politi‐ca comunitaria, sia permetterebbe mag‐giori scambi di risorse energetiche fra paesi, neutralizzando in parte il potere di ricatto del Cremlino. Da entrambi i punti di vista, la situazione è tetra: l’at‐tacco Russo alla Georgia ha dimostrato l’instabilità della regione e il rischio di interruzione del servizio cui sarebbero sottoposti Nabucco e altri oleodotti e gasdotti che l’attraversassero. Non è da escludere che questo fosse uno degli obiettivi del Cremlino. E la volontà po‐litica europea, nonostante il recente impegno di Sarkozy di giungere a un fronte energetico comune entro sei me‐si, pare scarsa. La Germania, tramite la E.ON, principale compagnia energetica Tedesca, sta costruendo un oleodotto sotto il Baltico in copartecipazione con la Gazprom. L’oleodotto rifornirebbe direttamente la Germania evitando Bie‐lorussia e Ucraina, e ha suscitato timori che possa venir utilizzato dal Cremlino per ricattare i suddetti due paesi senza mettere a rischio le forniture ai privile‐gati clienti dell’Europa Occidentale. Il capo del progetto, dal 30 Marzo 2006, è l’ex‐cancelliere Tedesco Gerhardt Schroeder.
impedito il formarsi di un fronte unito per la negoziazione con la Fe‐derazione Russa. I paesi Europei non pos‐sono avvantaggiarsi del‐la loro posizione di ac‐quirenti maggioritari delle risorse russe, dalla vendita delle quali la Russia dipende per conti‐nuare a crescere econo‐micamente. La Russia può invece fare la voce grossa con un paese alla volta – come nel 2006 con l’Ucraina, o più recente‐mente con la Bielorussia ‐ e ottenere ciò che vuole. La dipendenza Europea è
attribuibile a due fattori: il primo è che tutti gli oleodotti e gasdotti che riforni‐scono l’Europa transitano per il territo‐rio russo. Il progetto Nabucco, un ga‐sdotto che avrebbe dovuto trasportare il gas dall’Asia Centrale, specificamente dal Turkmenistan, attraverso il Mar Caspio e la Turchia sino all’Austria, è stato naturalmente osteggiato dalla Ga‐
MILANO ‐ Con la crisi nel Caucaso di agosto si è riproposto ai paesi eu‐ropei il dilemma della dipendenza dalle impor‐tazioni di gas russo. Una questione che tocca tra‐sversalmente molti temi, dalla politica energetica Europea, al bisogno di una politica estera comu‐ne, all’integrazione dei paesi Europei ex‐Sovietici. Il problema può essere descritto, semplificando‐lo, come un problema di unità e frammentazione. Mentre gli attacchi di Putin agli oligarchi, nello specifico a Khodorkovsky e alla Yukos, hanno permesso il consolidamento in mano statale della quasi totalità del patrimonio energetico Russo, e hanno quindi dato al Cremlino un immenso potere di ricatto verso i paesi che abbi‐sognano del gas e del petrolio, la divi‐sione fra i clienti suddetti, e quindi all’interno dell’Unione Europea, ha
Energia, l’UE con le mani legate
di Alessandro Casoli
Tutti gli oleodotti ed i gasdotti che riforniscono l’Europa transitano sul territorio russo. Così l’UE ha finito col dipendere ogni giorno da Mosca
VERSO LE PRESIDENZIALI USA ‘08
MILANO ‐ I sondaggi dell’istituto statunitense “Gallup” ‐ all’ora di chiu‐sura di questa rivista (19 settembre, ndr) ‐ registrano un vantaggio “significativo” del candidato democratico Barack Obama nei confronti del senatore repubblicano John McCain, altro grande pretendente per la Casa Bianca. Se si votasse oggi, il democratico Obama vincerebbe col 50% dei voti, staccando di 6 punti il candidato repubblicano (44%). Da considera‐re, però, che le presidenziali Usa adottano il sistema dei grandi elettori.
(l.b.)
R E P O RTA G E
NUOVA DELHI ‐ Un mare di corpi stesi sullo spartitraffico, in mezzo alle due corsie della superstrada che attraversa la città. Una serie infinita di corpi addor‐mentati, seminudi per il caldo che emana l’asfalto, raccolti su se stessi e sui loro pochi stracci, illuminati dai fari delle rare macchine che passano. Stanno distesi sullo spartitraffico per poter godere dell’‐aria delle automobili che sfrecciano a pochi centimetri dalle loro teste. Questo è il paesaggio notturno di New Delhi. Un popolo notturno che dorme e si muove nella desolazione della notte urbana. Un popolo che non ha niente, e che non è nessuno, un popolo che lotta con i cani randagi e che condivide il proprio giaci‐glio con ratti e mucche. Immagini india‐ne. Una bambina è seduta in mezzo alla stra‐da. Lei è piccolissima, nuda, e tranquilla. La strada è enorme, trafficata e caotica. Automobili, motorini, riksò, biciclette: tutti si limitano a schivarla, così come si evita una pozzanghera. Nessuno sembra accorgersi di lei.
dalla nostra inviata Daniela Balin
Al di là dell’apparente fiducia del mercato emergente, al di là del mito della terra della tolleranza universale, la vera faccia dell’India è quella di un paese crudele e tormentato
La più grande democrazia del mondo: ma di democrazia, per le strade di Delhi, se ne vede ben poca, e lo sviluppo econo‐mico si traduce in cumuli di spazzatura che spesso diventano rifugio e abitazione per chi non possiede nient’altro. Il modo in cui l’India viene percepita in Occiden‐te spesso è fuorviante ed ingannevole. Verso la fine di agosto si è sentito parlare molto dell’India in relazione alle violenze contro i missionari cristiani. Anche il presidente del Senato, Renato Schifani, ha espresso la sua condanna ai fatti acca‐duti nella regione dell’Orissa: «La feroce aggressione avvenuta in India rappresen‐ta una pagina buia di intolleranza religio‐sa e integralista». Si è parlato di queste violenze con stupo‐re, come uno scandalo nel paese multi‐culturale e multi‐religioso per eccellenza. Ma di pagine buie di questo genere l’In‐dia ne ha molte: la stampa italiana, e l’o‐pinione pubblica occidentale in generale, tanto mobilitata e scandalizzata per que‐ste violenze che hanno coinvolto cristia‐ni, sembrano ignorare il fatto che l’India
India regina dell’economia emergente, India promessa di enormi mercati, India che eccelle nei settori più moderni della biotecnologia e dei software informatici.
LA FRASE
“Io mi sto battendo per un’India in cui i più poveri possano sentire che questo è il loro paese, in cui abbiano una voce effettiva; un’India in cui non ci sia una classe più alta e una più bassa; un’India in cui tutte le co‐munità possano vivere in perfetta armonia; non dovrebbe esserci spa‐zio in questa India per la piaga del‐l’intoccabilità o per la maledizione delle droghe e dell’alcool; le donne dovrebbero godere degli stessi diritti degli uomini; dovremmo essere in pace con tutto il resto del mondo. Questa è l’India dei miei sogni”
Mahatma Gandhi, 1947
R E P O RTA G E
sia costantemente teatro di rivolte, atten‐tati, scontri tra caste, tribù ed etnie diver‐se. Se si riportasse ciò che accade quotidia‐namente, allora l’idea dell’India non sa‐rebbe più associata alla tolleranza, alla convivenza pacifica che sa appianare differenze religiose ed etniche. A maggio l’intera regione del Rajastan e gran parte dell’India settentrionale sono stati paralizzati per settimane da una violenta rivolta della tribù dei Gujjarat. Ferrovie bloccate, strade sbarrate, comu‐nicazioni interrotte, la capitale presidiata dall’esercito: una ventina di morti e un gran numero di feriti. Nonostante l’entità
orientali; se non si considera il sistema delle caste, ancora funzionante ed attuale anche nella mentalità delle nuove gene‐razioni; se non si considerano la pena di morte continuamente esercitata, gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordi‐ne e la dilagante corruzione tra i politici; se non si considera la piaga dell’alcoli‐smo e del traffico internazionale di stu‐pefacenti, allora si può parlare dell’India come di un paese sulla via della moder‐nizzazione e dello sviluppo. Ma la realtà è molto più confusa e caoti‐ca, e il sogno di Gandhi rischia di essere, ancora per molto tempo, un’ingenua, bellissima ed emozionante utopia.
della rivolta sia stata di gran lunga supe‐riore a quella dei fatti dell’Orissa contro i missionari, l’intero avvenimento non è stato ritenuto degno di nota dai media occidentali. Al di là dell’apparente fiducia del merca‐to emergente, al di là del mito della terra della tolleranza universale, la vera faccia dell’India è quella di un paese crudele e tormentato, percorso da dinamiche vio‐lente, che legano questo immenso su‐bcontinente alla millenaria lotta tra pove‐ri. Se non si considera la perenne guerriglia condotta dai guerriglieri maoisti nelle foreste e nelle campagne delle regioni
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Con una popolazione di 1.095.351.995 abitanti, l’India è il secondo paese più abitato del mondo (dopo la Ci-na) ed ha una superficie di 3.287.594 km quadrati. Il paese si regge su una repubblica parlamentare federa-le ed ha per capitale Nuova Delhi (292.300 abitanti). Il suo Pil nazionale (anno 2006) è di 4.231.583 milioni di $, al terzo posto nel ranking economico mondiale.
(fonte: Wikipedia)
Giornale” di Montanelli che mi ha richiamato. Più tardi sono passato al Corriere grazie anche ad un mio for‐tunato scoop sul gruppo paramilitare Gladio». Una notizia con cui brucia sul tempo tutti i concorrenti e che gli apre defi‐nitivamente le porte del grande gior‐nalismo. Fabrizio non si tira indietro quando chiediamo di cosa si trattas‐se. «Ci fu a Milano una esposizione di oggetti militari, roba da ultima pagi‐na. Chiesi ad un organizzatore se sapesse qualcosa relativamente al caso Gladio, in quel momento negato da tutte le autorità italiane. Inizial‐mente rispose picche, dopo mi seguì fuori dalla mostra e mi raccontò che un suo amico, produttore di meda‐glie e gagliardetti, era stato contatta‐to da alcune persone. Gli avevano ordinato parecchie medaglie con una scritta latina, la stessa riconosciuta da alcuni giudici che investigavano sulla faccenda come il motto di Gla‐dio. In pratica mi capitarono tra le mani le prove della sua esistenza». Forse fortuna, ma anche parecchia determinazione, come consiglia a tutti gli aspiranti giornalisti. «All’inizio le storie che raccontavo avevano spazio solo in ultima pagi‐na. Ma i sogni vanno seguiti. La diffi‐coltà per i giovani di oggi è avere spazi e responsabilità, invece la tipi‐ca carriera giornalistica sta diventan‐do purtroppo sempre più istituzio‐nalizzata e schematica. Università, specializzazione, stage… Bisogna muoversi dalla redazione ed essere il più possibile umili e curiosi. Ma so‐prattutto specializzati in qualche questione particolare, infatti – con‐clude ironico – ho cominciato ad oc‐cuparmi per primo di immigrati per‐ché non gliene fregava niente a nes‐suno».
Africa mi ha fatto capire che forse il modo migliore di conoscere il mondo non fosse sorvolandolo. Così ho rac‐colto i miei migliori articoli scritti per il Cittadino lasciandoli poi nelle reda‐zioni di grandi testate, tra cui “Il
MILANO ‐ Riusciamo a contattarlo telefonicamente con un po’ di fortu‐na al ritorno da Milano. E’ appena salito in macchina per mantenere un minimo di privacy e da lì chiacchiera con noi per una buona mezz’ora. Un cuore ramingo quello di Fabrizio Gatti. Il giorno dopo sarà già in par‐tenza per un servizio, ma sarebbe inutile chiedergli di che si tratti. Si è concesso qualche giorno di pausa per ritirare a Udine il Premio internazio‐nale Terzani che gli è stato assegnato da una giuria di grandi nomi del giornalismo. Tra questi alcuni dei suoi punti di riferimento durante la giovinezza. «Valerio Pellizzari ed Ettore Mo sono sempre stati un esempio professiona‐le da seguire, assieme allo stesso Ter‐zani. E’ stato un onore vedere ricono‐sciuto il mio lavoro da una comunità che considera Tiziano Terzani la grande penna del giornalismo italia‐no. Anche presentare il mio libro davanti a quasi mille persone, tra cui molti stranieri immigrati, è stato di grande impatto». Proprio “Bilal”, ultimo suo lavoro, gli è valso un riconoscimento asse‐gnato per la prima volta in quattro edizioni ad un italiano. Un reportage sul suo viaggio da infiltrato nel mer‐cato dei clandestini dall’Africa alle nostre coste, mai così autentico per‐ché vissuto sulla propria pelle da Gatti. «Il mio libro – ci tiene a precisare il cronista – non è un saggio. Ho preso in prestito lo stile narrativo del ro‐manzo per dare forma reale alle e‐mozioni. Sono uno di quelli che cre‐dono ancora nella forza della parola scritta. Per questo ho sempre preferi‐to i giornali alla televisione, ma se proprio dovessi lavorarci mi piace‐rebbe stare dietro alla telecamera, perché in quel settore il vero regista è il cameraman». Fabrizio parla con calma, senza na‐scondere una punta di entusiasmo. Vallo a capire il suo spirito di avven‐tura tipico dell’apprendista. Proprio lui che ne ha già passate di cotte e di crude. «Sono stato per un po’ in aeronauti‐ca, una delle mie fisse da ragazzo. Ma un reportage di Luca Goldoni in
di Andrea Di Stefano
«Umiltà e curiosità per raccontare il mondo»
Colloquio con Frabrizio Gatti. Dall’aeronautica alla carta stampata, la storia di un giornalista “scomodo” che dalle pagine dell’Espresso firma inchieste scomode e di grande impatto
IL LIBRO
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FOCUS
MILANO ‐ Un percorso lineare: non più api, non più impollinazione, non più piante, non più animali, non più uomo. “Se l’ape scomparirà dalla superficie della terra, allora agli uomini rimarran‐no solo quattro anni di vita”, parola di Einstein. La profezia del celebre scien‐ziato agli inizi del ‘900 sembra abbia anticipato la situazione attuale. Negli Stati Uniti gli alveari sono dimi‐nuiti fra il 20 e il 50%, in base alle zone e al loro livello di inquinamento. Già, sia‐mo ancora noi ad essere i responsabili. Secondo gli studi dell’Associazione Api‐coltori Tedeschi, il problema ha diverse ragioni, una di queste è l’acaro Varroa di origine asiatica. La Varroa esiste da sempre ma solo da pochi anni le api soccombono così facil‐mente ai suoi attacchi. Perché? Sembra che l’uso, o meglio, l’abuso di pesticidi e prodotti chimici nelle coltivazioni aggre‐discano il sistema immunitario di questi insetti impollinatori così da renderli più vulnerabili ai virus di acari e altri paras‐siti. Oltre al trattamento chimico delle coltu‐re, c’è da considerare anche il trattamen‐to genetico. Gli OGM occupano ormai il 40% dei campi seminati negli USA. Tra i più pericolosi c’è il “Mais Bt” a cui è stato inserito il gene di un batterio che rende la pianta capace di produrre una sostanza tossica per gli insetti parassiti, colpendo però anche le api. In Europa la situazione non è grave co‐me negli Stati Uniti, ma molti apicoltori segnalano che la situazione sta peggio‐rando velocemente. In Italia, per esem‐pio, si assiste a morìe di api durante tut‐to l’anno e non solo più durante l’inver‐no, costringendo gli allevatori a rico‐struire circa il 40‐50% delle colonie. Nelle librerie è da poco uscito l’ultimo saggio di Sylvie Coyaud, “La scomparsa delle api” che approfondisce i tratti che fin qui sono stati solo accennati. Coyaud, oltre alla citazione di Einstein, inserisce, tra le pagine del suo libro, un altro ipse dixit, di ben più basso spessore: “Sono l’ape operaia del presidente operaio” ha affermato Michela Vittoria Brambilla. Certe tipologie di insetti non vanno mai in estinzione.
Niente api, niente uomo
di Francesca Casiraghi della Suprema Corte degli Stati Uniti, fu nominato dal Presidente Bush, la sua futura collega giudice Sandra Day O’‐Connor commentò ʺHeʹs good in every way, except he’s not a woman.ʺ (“È otti‐mo sotto tutti gli aspetti eccetto che non è una donna”). Questa dichiarazione non è esattamente uguale a quella del dirigente belga, in particolare perchè esprime un rimpianto invece che un piano per il futuro. Nondi‐meno, essa ha un effetto simile. L’inten‐zione, lodevole, è di incoraggiare gruppi che appaiono insufficientemente rappre‐sentati in qualche ambito. Il risultato, però, è quello di suggerire (nemmeno tanto velatamente) che il dichiarante userà il suo potere a vantaggio del parti‐colare gruppo in questione, e quindi che l’appartenenza a un gruppo conta.
QUOTE ROSA SÌ O NO? Purtroppo dichiarazioni di questo tipo non sono inusuali nella società america‐na, che infatti è percorsa da faglie che separano gruppi di influenza e di pres‐sione. Queste faglie sono rinforzate da dichiarazioni come quella del giudice O’Connor. Cosa dire della situazione italiana? In Italia questa retorica soft‐militante è meno diffusa, per fortuna. Un buon e‐sempio è fornito dal dibattito sulle “quote rosa.” Trovo lodevole la posizio‐ne di Emma Bonino, che in merito alle quote rosa dichiarò: “Guardi, sono accet‐tabili in Afghanistan, in Marocco. Non in Italia […] A me sembra che noi donne dovremmo ritenere e cercare di valere ben oltre la semplice appartenenza a un genere”. L’attuale ministro delle pari opportunità, Mara Carfagna, è sulla stessa linea. Bra‐ve Bonino e Carfagna, per avere difeso il criterio del merito contro quello dell’ap‐partenenza a un gruppo. Essendo già un paese generalmente meno meritocratico degli Stati Uniti, e patria della lottizza‐zione, l’ultima cosa di cui abbiamo biso‐gno è di ulteriori quote. Fa piacere che, almeno in questo ambito verbale, la no‐stra società e il nostro sistema politico si dimostrino più sensibili al merito rispet‐to ad altri paesi.
*Tratto dal sito www.lavoce.info
L’11 luglio scorso la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha dichiarato discriminatorie le politiche di assunzione di una ditta belga. Un dirigente dell’im‐presa, che installa saracinesche, ha di‐chiarato che la sua ditta non assume e‐xtra‐comunitari perchè i suoi clienti non vorrebbero dar loro accesso ad abitazioni e locali. La sentenza è stata controversa perchè un tribunale belga aveva originariamen‐te dato ragione all’impresa, e i governi inglese e irlandese avevano sostenuto la posizione del tribunale belga. L’argo‐mento della difesa era che non vi è parte lesa perchè non c’era alcun extra‐comunitario che avesse chiesto un lavoro alla ditta e non lo avesse ricevuto. Senza parte lesa, non c’è danno. Le dichiarazio‐ni del direttore sarebbero dunque un legittimo esercizio della libertà di parola. Superficialmente, l’argomento della dife‐sa appare sensato. Ma, come correttamente osserva la Corte di Giustizia, la parte lesa c’è. Sono parti lese tutti i lavoratori extracomunitari che non hanno fatto domanda di lavoro alla ditta. Una volta individuata la parte lesa, le dichiarazioni del direttore della ditta provano un intento discriminatorio. A quel punto, secondo il principio legislati‐vo, l’onere di provare che non ci fu di‐scriminazione viene traslato sulla ditta. Il principio generale sancito in questa sentenza è ammirevole: chi è in posizioni di autorità non deve rilasciare dichiara‐zioni che pregiudichino l’esercizio dell’‐autorità a favore di una classe di indivi‐dui. Tali dichiarazioni scoraggiano chi, per quanto meritevole, appartiene alla classe “sbagliata” di individui. Questo è iniquo. Inoltre, è potenzialmente ineffi‐ciente, poichè una cultura in cui queste attitudini sono diffuse può ridurre gli incentivi di tale classe a investire in capi‐tale umano. In terzo luogo, dichiarazioni di questo tipo contribuiscono a erodere la fede nel principio meritocratico in tutti gli ambiti, non solo nel settore delle sara‐cinesche.
NESSUNO È PERFETTO Questa sentenza suggerisce delle rifles‐sioni di più ampio respiro, ricordando una dichiarazione un po’ diversa. Quan‐do John Roberts, l’attuale presidente
Discriminazione e cultura del merito
di Nicola Persico*
ANNUNCIO
I quartieri di case popolari Molise – Calvairate ‐ Ponti della zona sud est di Milano sono ca‐ratterizzati da gravi condizioni di disagio e di esclusione. Il Comitato Inquilini fondato nel 1979 dagli abitanti del quartiere, si fa carico dell’analisi dei problemi, dell’elaborazione e dell’attuazione di un progetto di intervento integrato e partecipato di riqualificazione delle periferie, lavora affinché siano garantiti e ri‐spettati diritti elementari come il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Grazie all’im‐pegno quotidiano di volontari e operatori, il Comitato Inquilini organizza servizi e stru‐menti di relazioni di mutuo aiuto, prevenzione, proposta culturale. CERCHIAMO VOLONTARI PER LE
NOSTRE ATTIVITÀ • consulenza e assistenza agli inquilini • doposcuola per i ragazzi delle scuole ele‐mentari, medie e superiori
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• corso di inglese per adulti se vuoi darci una mano contattaci: via degli Etruschi, 1 ‐ 20137 Milano tel/fax 02/55011187 [email protected] http://www.bastaesclusione.it
H I N T E R L A N D
si è pure riuscito a comprendere il perché di quell’assurdo ritardo per fare un semplice allacciamento elet‐trico, lavoro che di norma richiede non più di una settimana: inizial‐mente il compito dell’attivazione dell’elettricità era stato affidato all’E‐nel, ma si era poi optato per la socie‐tà privata Edison, la quale a sua vol‐ta però non aveva ricevuto comuni‐cazione dall’Enel, che si deve comun‐que occupare di dare il proprio as‐senso sulla sicurezza degli impianti costruiti. Questa mancanza di comu‐nicazione reciproca e un discreto lavoro telefonico di scarica barile tra Aler, Enel e Edison hanno fatto il resto. Solo a Settembre inoltrato si è finalmente provveduto alla costru‐zione degli impianti elettrici e dei contatori, e mentre a Corsico le pri‐me famiglie cominciano a entrare nelle loro tanto sofferte nuove case, a Buccinasco la palla è passata al co‐mune che deve dare il suo benestare sulla sicurezza delle nuove costru‐zioni, e gli inquilini di Buccinasco dovrebbero riuscire a entrare nelle loro case per i primi di Ottobre. Tutto questo mentre il presidente di Aler, Loris Zaffra, annuncia trionfan‐te che l’azienda venderà alcune delle case in proprietà nel comune di Mila‐no per intascare fondi sufficienti alla costruzione di nuove abitazioni in periferia, secondo una nuova visione di sviluppo completamente differen‐t e d a i v e c c h i c a s e rmo n i “dormitorio”, di cui le case costruite a Buccinasco e Corsico sembrano essere i primi esperimenti in questa direzione. C’è da augurarsi che il nuovo piano non comporti imbarazzanti e poco chiari ritardi. Infatti, i primi benefi‐ciari di questa nuova visione si sono trasformati, loro malgrado, in vitti‐me.
Buccinasco la possibilità di portare nelle loro future abitazioni mobilia e oggetti personali, considerando che di lì a breve, finalmente sarebbero potuti entrare. Sono dovuti passare altri quattro me‐si, l’intera estate, prima che il proble‐ma fosse risolto. Col risultato che un centinaio di fa‐miglie hanno passato la stagione in condizioni precarie, non solo senza una soluzione abitativa stabile ma anche buona parte delle proprie cose e l’Aler che giorno per giorno garan‐tiva di avere preso a cuore il proble‐ma e che a breve (da maggio) si sa‐rebbe risolto tutto. Tra le tantissime chiamate e proteste,
MILANO‐ Buccinasco e Corsico sono due grossi centri abitati della perife‐ria a Sud‐Ovest di Milano che insie‐me fanno quasi 60.000 abitanti, il corrispettivo di un piccolo capoluogo di provincia. Dopo il boom edilizio dei primi decenni del dopoguerra, i due comuni si sono mossi verso la riqualificazione del territorio e ai primi grossi palazzi residenziali si è fatto via via posto a soluzioni abitati‐ve esteticamente e abitativamente migliori. Anche l’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale (meglio conosciuta co‐me “Aler”), che si occupa della co‐struzione e gestione degli alloggi popolari di Milano e di tutta la regio‐ne Lombardia, si è accorta di realtà quando, nel 2005, diede inizio alla costruzione di alloggi nei due comu‐ni destinati a un totale complessivo di 100 famiglie. Secondo i progetti dell’azienda infat‐ti, le nuove case non avrebbero avuto nulla da invidiare con gli standard dei loro corrispettivi privati e il pro‐getto viene inserito nell’ottica regio‐nale degli alloggi a “Canone Mode‐rato”, ossia l’Aler si sarebbe posta nei confronti dei futuri inquilini al pari di un soggetto privato, la cui unica eccezione sarebbe stata una riduzione del canone d’affitto rispet‐to al prezzo di mercato nell’ordine dei 100‐200 circa. A lavoro ultimato bisogna dare atto che dal punto di vista costruttivo la promessa da par‐te dell’Aler è stata mantenuta, se non fosse che la maggior parte di queste case, pronte dall’anno scorso e uffi‐cialmente assegnate nei primi mesi di quest’anno, ancora non sono state date ai legittimi (e ancora futuri) in‐quilini. L’Aler aveva garantito che la conse‐gna degli alloggi sarebbe stata effet‐tuata nei mesi di Aprile e Maggio, invitando le famiglie a cui è stata concessa l’assegnazione delle case a risolvere le proprie situazioni abitati‐ve preesistenti. Moltissime persone quindi hanno venduto casa o conclu‐so il vecchio rapporto d’affitto. A Maggio però non succede nulla, e a Giugno, con la garanzia che il pro‐blema era in fase di soluzione, l’Aler concede addirittura agli inquilini di
di Mirko Annunziata
Il “Far west” delle case Aler A Buccinasco decine di famiglie attendono da mesi di poter entrare nelle case che l’Aler ha costruito per loro. E mentre molti hanno lasciato le vecchie case, per il momento le porte rimangono ancora sigillate.
lenamento da monossido di carbonio o da stricnina, alla rottura del collo, dallo sgozzamento alla bastonatura o per soffocamento. Metodi in poche parole barbari, che nella maggior parte dei casi mettono semplicemente fine ad una vita di reclusione e sfruttamento in alleva‐menti intensivi, dove l’animale non è visto come un essere senziente capa‐ce di provare emozioni, ma come mera materia di produzione o come un ingombro di cui liberarsi nel caso dei rifugi sovraffollati. Tuttavia, è da questa constatazione dei fatti che si è andato delineando nel tempo il movimento culturale oggi noto come l’Antispecismo. Tale movimento è avverso ad una concezione antropocentrica dell’uni‐verso basata cioè sull’ideologia del dominio da parte dell’uomo su tutto ciò che lo circonda, cercando di can‐cellarne le caratteristiche liberticide e violente nei confronti dei più deboli. Come l’antirazzismo e l’antisessismo, infatti, non soltanto si batte per l’eli‐minazione delle discriminazioni di razza e sesso, ma in più spinge l’uo‐mo a confrontarsi con il peso delle sue azioni che compie nei confronti della natura e delle altre specie. Facendo suoi i principi della “Dichiarazione”, arriva a sottolineare l’importanza del rispetto per la vita in tutte le sue forme e del dovere che ha la persona verso la comunità bio‐logica alla quale appartiene e dalla quale dipende, affinché non arrivi a danneggiarla irrimediabilmente; pro‐muovendo in definitiva una visione bio‐centrica e più empatica della stes‐sa esistenza.
MILANO ‐ Il 15 Ottobre 1978 a Pari‐gi, presso la sede internazionale del‐l’UNESCO, fu sancita la Dichiarazio‐ne Universale dei Diritti sugli Ani‐mali. Una presa di posizione filosofi‐ca riguardo ai futuri rapporti tra la l’uomo e le altre specie viventi. Alcuni suoi articoli in particolare stabiliscono che “ogni animale ha il diritto al rispetto e l’uomo non può attribuirsi la facoltà di sterminarli, sfruttarli a suo piacimento, anzi ogni essere vivente ha il diritto alla consi‐derazione, alla cura, alla protezione” ‐ (Art. 2); “La loro soppressione se necessaria deve essere istantanea e senza dolore” ‐ (Art. 3). A trent’anni dalla sua sottoscrizione, i dati in possesso di molte associazio‐ni animaliste descrivono, però, tutta un’altra realtà. Ecco alcune cifre: ogni anno nel mon‐do vengono uccisi per l’industria alimentare 170 miliardi di animali tra polli, maiali, conigli, mucche, pecore, capre, cavalli (ad esclusione della caccia che da sola produce ben 200 milioni di vittime); per quella del ve‐stiario sono circa 30 milioni gli esseri uccisi tra visoni, ermellini, volpi, scoiattoli, castori, foche, procioni; per la ricerca medico‐scientifica, invece, perdono la vita almeno 300 milioni tra topi, lepri, primati, cani e gatti. A questi numeri, inoltre, vanno ag‐giunti pure tutti quei decessi a segui‐to di abbandono o maltrattamento che si aggirano, sempre a livello glo‐bale, sui 25 milioni all’anno. Per quanto riguarda i metodi di soppres‐sione praticati si va dal più miseri‐cordioso come l’eutanasia, praticata solo nei canili di un certo livello, alla camera gas per quelli più poveri. Per le industrie di risorse animali, invece, dall’elettrocuzione, all’avve‐
Trent’anni di diritti negati. Agli animali All’Unesco è stata sancita la “Dichiarazione Universale dei Diritti sugli animali”. Ma i numeri sugli animali uccisi sono spaventosi. Così è nato il movimento noto col nome di Antispecismo
di Rosa Anna Casalino
THE INSIDER
N on capita a tutti di entra‐re in una redazione gior‐nalistica, qualunque es‐
sa sia. Anzi, è notoriamente facile starne al di fuori. Chi riesce ad oltrepassare la soglia lo fa in cam‐bio di uno stage, sfruttato e non pagato, tanto, si dice, bisogna im‐parare. Se è più fortunato è lì per‐ché conosce qualcuno ed è in un qualche modo sotto la sua ala protettiva. Ci vuole sempre e co‐munque culo. La telefonata diret‐ta di chi vi raccomanda (nel bene e male) è lo strumento migliore. Verificata quanto la possibilità che il tuo curriculum arrivi a de‐stinazione. Chissà mai che non venga letto. Non cʹè da preoccu‐parsi poi che la ʺgiustizia socialeʺ faccia il suo corso: bisogna saper scrivere, sapersi relazionare, sa‐per vendere il proprio prodotto (dove non è così?). Altrimenti fuori. Sedere alla poltrona, davanti ad un pc e con un telefono a fianco è simbolo di potere. In un solo col‐po, però, ci si può ritrovare dalla redazione al tavolo della propria camera da letto. Anche da casa vale la gavetta, ma è tutta unʹaltra storia. Cʹè chi riesce ad entrare in una scuola di giornalismo (un master come quello dei nostri due direttori), permettersi rette altissi‐me, dopo due anni sostenere lʹe‐same di stato e magari diventare professionista senza un lavoro. Oppure fare lo stesso percorso (18 mesi) assunto da un quotidia‐no o una televisione. Ma qui sia‐mo tornati al punto di partenza. Ti prendono se sei pubblicista e allora puoi sfruttare sostituzioni estive o di maternità per entrare nel giro. Ma fino ad allora sono due anni e sessanta articoli da sudare con pochi soldi. Fuori dal‐la redazione.
(fi.fa.)
C U LT U R A
Destrabica di Luca Fontana
PENSIERI & PAROLE Commenti sui fatti d’attualità
aiuto accorrono dibattiti e libri varie‐gati, con cui giornalisti e scrittori supportano questa confusa revisione storica dimostrando al popolo di‐stratto e sempre più lontano dagli avvenimenti che, in fondo, il bene ed il male erano ovunque e la storia vie‐ne scritta solo dai vincitori. Queste operazioni saranno anche legittime in democrazia ma hanno il torto di nascondere agli occhi delle giovani generazioni ciò che è ben più elevato dei pur reali e esecrabili epi‐sodi circostanziati accaduti nellʹovvia drammaticità di una guerra civile. Tendono a sminuire le lotte ed il san‐gue versato da chi ci regalò la demo‐crazia, mettendo le basi per la rico‐struzione di un mondo libero dei cui benefici oggi ancora, e speriamo an‐cora a lungo, godiamo. Questo è gra‐ve, perché se è vero che la pietà e il
A cquisire come patrimonio comune quelli che sono i valori fondamentali della
propria storia Repubblicana, a mag‐gior ragione se relativamente giova‐ne e nata dopo un travagliato e san‐guinoso percorso, dovrebbe essere un’imprescindibile certezza sottratta alla sterile polemica politica e al revi‐sionismo storico e culturale. Così almeno accadrebbe in democrazie più compiute e mature della nostra. In Italia non è così, quantomeno non sempre. Non nel Paese di oggi in cui predomina una parte politica che opera sotto l’ombrello rassicurante di una sola persona cui tutto si ricondu‐ce ma che dovrà, prima o poi, fare i conti con se stessa e capire quale strada imboccare quando dovrà cam‐minare definitivamente sulle proprie gambe. Uno dei mezzi per farlo in modo limpido è rappresentato dallo schiarire definitivamente alcune om‐bre che ancora avvolgono la Destra quando si parla del Fascismo, della Resistenza, della lotta di Liberazione. Gli smarcamenti ideologici della Destra italiana sono iniziati da anni e sono da considerarsi positivi e dove‐rosi. Il Presidente della Camera è stato recentemente chiarissimo, stig‐matizzando le dichiarazioni di chi ancora deraglia dai binari tracciati da un percorso che la Destra sta cercan‐do di compiere. Percorso che non pare impedire a qualche esponente politico di alto livello di soddisfare il proprio passa‐to e, tramite l’abilità dialettica e l’uti‐lizzo della parziale smentita, confor‐tare la propria base e forse anche i propri ricordi di una gioventù dura e pura, senza ostacolare l’intrapreso cammino di sdoganamento. In loro
rispetto devono andare ad ogni vitti‐ma e che molti sbagliarono in buona fede, è anche vero che queste sempli‐cistiche ovvietà non possono essere usate per ribaltare la storia. Non si può negare che ci fu una parte giusta ed una sbagliata. Non si può mettere sullo stesso piano chi lottò, sacrificandosi, per liberarci da una dittatura con chi per questa dittatura, magari giovane e poco consapevole, prestò servizio. E’ sbagliato e sfuggente contestua‐lizzare alle leggi razziali e agli orrori di una guerra mondiale il “male” del fascismo, protagonista ben prima del ’38 di quella che fu invece una trage‐dia quotidiana lunga un ventennio, una tragedia trapunta di terrore illi‐berale esercitato da un regime anti‐democratico e antiparlamentare. Fino a quando a destra non con‐danneranno completamente tutto questo, senza inciampi, incertezze o equilibrismi, accettando il ruolo della Resistenza come mattone fondante della democrazia, sarà complicato voltare pagina e condividere final‐mente i valori fondamentali della nostra storia Repubblicana e della Costituzione. Forse, a molti decenni di distanza dai fatti, questa pagina è giunto il momento di voltarla riconoscendo una storia nazionale condivisa, ma senza stravolgere la storia e senza sostituire la confusione in luogo del‐la verità, al solo scopo di far soprav‐vivere, forse per scopi elettorali, brandelli di ideologia che sarebbe meglio seppellire definitivamente.
«Queste operazioni saranno anche legittime in democrazia ma hanno il torto di nascondere agli
occhi delle giovani generazioni ciò che è ben più elevato dei pur reali e
esecrabili episodi circostanziati accaduti nellʹovvia drammaticità di una guerra civile»
M U S I C A
«Col Sonar anticipiamo i suoni del futuro»
Intervista a Georgia Taglietti, tra le pioniere del festival catalano della musica moderna. Un anno di lavoro, di viaggi e contatti generano il Sonar
L’EVENTO
Sonar 2008
BARCELLONA ‐ È come trattenere il fiato per un anno intero, pazientare per la scaletta del Sonar che in genere spunta sul sito (sonar.es) verso Aprile e che continua ad ag‐giungere ospiti gonfiandosi ulteriormente fino alla fine del mese successivo. Oramai è cosa nota che gli artisti invitati nella tre giorni catalana rappresentino il me‐glio, la crema e i “the best” della scena inter‐nazionale di musica elettronica. Un festival che non rimane “cool” solo sulla carta ma che ogni anno porta, per tre giorni, ottantamila persone a ballare, ascoltare e capi‐re il meglio della future music nella cosmopo‐lita e anticonformista Barcellona. Per l’edizione “08” lo staff del Sonar ha tenta‐to di presentare al meglio le sfaccettature nel panorama musicale europeo e non solo, un panorama musicale eterogeneo senza punti di riferimento, con poca possibilità di ancorag‐gio. Sperimentale o meno l’ultimo periodo è sottolineato da una confusione musicale di portata inaudita; non per nulla sono stati invitati producers come Justice, Theo Parrish, A‐Trak, Villalobos, Daedelus e Diplo che, pur venendo da scuole completamente diverse, hanno fatto del non genere la loro forza, la chimera del suono, musica miscelata e rimon‐tata che sfiora tante influenze, delle quali nessuna sembra primeggiare. È da questa cerchia di artisti che il suono del futuro pros‐simo giungerà poi ad orecchie più mainstre‐am, un esempio plausibile è l’album uscito alla fine di Giugno di Santagold, costruito sugli arrangiamenti del produttore Diplo, in cui ogni traccia richiama generi definiti ma lontani anni luce l’uno dall’altro. Le giornate del Sonar sono divise in due parti, durante il pomeriggio l’innovativo Museo d’arte contemporanea di Barcellona(www.macba.es) accoglie gli artisti più con‐centrati sulla sperimentazione del suono; la notte invece, tre enormi padiglioni con im‐pianti audio e luci immensi invitano a ballare la musica di Djs e producers fino alla mattina(chiusura 8am).
Lu. Cer.
dal nostro inviato
In alto, il manifesto dell’ultima edizione
dente che credere in un artista prima di altri ci offra un certo vantaggio per quan‐to riguarda la relazione che si stabilisce con quell’artista. Di fatto il Sonar ha un grande appeal sul mondo anglosassone, come mi spie‐ghi la passione inglese per il festival? Noi siamo sempre stati molto vicini al mercato inglese sin dall’inizio. La rivista “The Wire” è stata una delle prime a ve‐nire al festival. La nostra presenza media‐tica è stata ogni anno maggiore. Il vero artefice del boom è stato John Peel (r.i.p). Peel s’innamorò del festival nel 2002, e da allora BBC1 è sempre stata un forte allea‐to nel mercato britannico. Il primo con‐certo di Goldfrapp, per esempio, è stato proprio da noi. Il vostro festival è cosi famoso che vi potete permettere anche un “ANTI SO‐NAR”! L’“Anti Sonar” non dovrebbe esistere. È una dimostrazione di come certa gente usa il nostro nome contro di noi e non capisce il lavoro che facciamo. Almeno non dovrebbe esistere il nome. Pensa solo un momento se ci fosse un Anti‐Glastonbury? È ridicolo! Quali sono gli artisti che più ti stimo‐lano? Dovessi andare a ballare in club chi sceglieresti tra Villalobos, Justice e Audion? Non sto ascoltando niente in particolare ultimamente. L’album 2008 per me sarà di Leila Arab mentre per il clubbing scel‐go sempre Villalobos.
(L’intervista integrale è disponibile sul sito www.acidopolitico.com)
BARCELLONA ‐ Georgia Taglietti è all’in‐terno dell’organizzazione Sonar sin dalla prima edizione, è nel DNA del festival. Come organizzate di anno in anno il festival? Il festival nel mio caso occupa quasi tutto l’anno, dato che sono assistente personale di uno dei tre capi e con lui viaggio ai festival, a Londra e un po’ ovunque per le nostre riunioni con ma‐nagers, labels ed artisti. Poi come “capa” stampa internazionale e pr bisogna stare sempre molto attenti alle novità, fare molto “networking” per non perdere nuovi contatti interessanti, ed ingrandire il circolo. Quello che ci stupisce è la ricerca de‐gli artisti, la scelta oculata, riuscite a scovare i migliori del periodo o comun‐que quelli che incarnano novità in am‐bito musicale senza però dimenticare chi lo stile Sonar lo porta avanti da an‐ni. Si cerca sempre la mossa perfetta; il timing è importantissimo per un festival come il Sonar che si chiama così per la sua ambizione originale di anticipare i suoni del futuro. In questa scelta artistica giocano molti fattori positivi a nostro favore, come l’esperienza e la possibilità di accedere facilmente a contatti partico‐larmente d’avanguardia. Ci suggerisco‐no, ricercano con noi, ci aiutano ad arri‐vare prima all’obiettivo finale: quello di trovare e poter presentare proposte cu‐riose, sorprendenti, nuovissime e fresche o almeno con forti possibilità di un suc‐cesso futuro. Nel caso dei Justice è evi‐
dal nostro inviato Luca Ceriani
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È tornata la rassegna cinematografica milanese di Settembre realizzata da un’associazione di giovani. Tanti i film in concorso ed una città che si risveglia
Info
www.milanofilmfestival.it www.esterni.org
MILANO ‐ Proprio quando il capo‐luogo lombardo riprende a vivere le sue giornate stressanti, l’associazione “Esterni” organizza la dieci giorni di proiez ioni c inematograf iche . La tredicesima edizione del festival (dal 12 al 21 settembre) ha visto in concorso dieci lungometraggi sele‐zionati tra gli 891 pervenuti alla giu‐ria, 48 corti (su 2206) divisi in gruppi, proiezioni dalla mattina fino a notte, sei sedi d’incontro (Strehler, Teatro Studio, Acquario Civico, piazza Grande, piazza del Cannone, Teatro dal Verme), 113 paesi che hanno can‐didato almeno un’opera, dibattiti e dj set notturni. E soprattutto, una rasse‐gna sul genio Terry Gilliam (il fonda‐tore dei Monty Python, per intender‐ci) ospite della rassegna. Non sono mancate le tematiche
obiettivo non dovrebbe risultare dif‐ficile. Finalmente ‐ è il caso di sottolinear‐lo ‐ anche il Comune di Milano ha dato una mano, grazie all’assessore Giovanni Terzi, contribuendo con 200 mila euro (850 mila, circa, il bu‐dget totale, ndr) alla realizzazione dell’intera rassegna. Quello stesso Comune che in passato si era mostra‐to parecchio scettico nei confronti della rassegna. Meglio tardi che mai.
(speciale nelle pagine seguenti)
sociali: “Colpe di Stato” ha presenta‐to una serie di documentari militanti, no global e soprattutto ecologisti; “Godless America” ha mostrato da un punto di vista critico pezzi degli Stati Uniti a noi spesso ignoti; infine la rassegna di film gitani e l’“Immigration Day”, il giorno dedi‐cato agli immigrati della città. Il tutto senza dimenticare che alcu‐ni dei film scartati sono stati proietta‐ti al “Salon des refusés”. L’anno scorso sono stati circa 93 mila gli spettatori del festival. Que‐st’anno, dato il «prestigio degli ospiti ‐ affermano nella conferenza stampa i due direttori, Castellini e Saibene ‐ contiamo di fare di più». I numeri ufficiali non sono ancora usciti, ma visto il pubblico presente in quasi tutte le proiezioni e gli incontri, tale
Sul sito ufficiale potete trovare le schede dei film, dei cortometraggi, foto e video di questa edizione e di quelle passate.
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vecchio perseguitato da un grassone per‐ché pubblichi il libro «su tutte le razze di scimmie esistenti». Infine, un ragazzo elegante ‐ in compagnia dell’anziano di cui sopra, svegliato mentre dormiva in una panchina ‐ irrompe in una festa, mi‐naccia i presenti con una bomba a mano e rapisce ‐ perché innamorato ‐ la ragazzi‐na di bianco vestita. La quale… Almeno il finale ve lo risparmiamo. Insomma, otto storie divertenti, surreali. Ma quello che resta è l’amarezza per delle vite che scorrono in una grande città così, senza un senso apparente, perse nei meandri di un grande agglomerato, mischiate in mezzo a migliaia di altre vite, di altre esistenze. Per questo senza voce. Se non grazie al regista. Una pellicola con uno stile raro (in po‐chi si sono cimentati nel piano sequenza). «Per girarlo ‐ ci ha spiegato Polidoro ‐ ho dovuto girare il film per intero ben sei volte. Alla fine ho scelto la seconda perché è stata quella che mi ha soddisfatto di più». Chiediamo al regista come ha fatto a gestire le comparse in‐consapevoli: «Sembra facile, ma non lo è stato. Dietro alla cinepresa c’era uno della produzione con un cartello grosso con su scritto “Guardate qui”. Così abbiamo evitato gli sguardi in camera che avrebbero rovinato le scene, anche se più di qualcuno è passato a disturbare le riprese». Alla fine di ognuna delle due proiezio‐ni un lungo applauso ha salutato il film. Per questo, la vittoria di “Ainda orango‐tangos” non è stata più di tanto una sor‐presa.
MILANO ‐ E’ la pellicola che ha vinto il concorso al Milano Film Festival. Il pri‐mo lungometraggio di Gustavo Polidoro, regista brasiliano «ma di origini italiane» ci tiene a precisare. Otto storie diverse che si snodano in ottanta minuti di pelli‐cola. Il tutto girato in piano sequenza (una tecnica cinematografica che consiste in una inquadratura lunga, senza interruzione temporale e senza montaggio), in un intero giorno a Porto Alegre. “Ainda orangotangos” (trad: Ancora orangotanghi) prende spunto da alcuni racconti pubblicati nel romanzo omoni‐mo di Paulo Scott. Dalla prima storia all’ultima, la cinepresa segue i protagoni‐sti mentre vivono alcune ore nella città brasiliana. Nel passare da una vicenda all’altra, il regista sfrutta gli incroci per strada, gli incontri occasionali. Così, dal‐la metropolitana dove una turista giap‐ponese (morta?) viene abbandonata dal fidanzato che vaga per la città ‐ mentre una band suona il samba ‐, si passa alle fatiche di un ragazzino, ad una ragazza disinibita con l’amica lesbica la quale litiga con un Babbo Natale ubriaco, ad una madre con seri disturbi mentali che vive di fianco ad un appartamento dove una coppia (con lui decisamente avanti negli anni) sfoga le sue passioni bevendo profumo non trovando di meglio nella casa di un’amica. Lei si sente male. Lui la lascia in pessime condizioni sul letto. Scende le scale ed aspetta gli amici. Nel frattempo, nel negozio vicino, il vendito‐re deve fare fronte al ragazzino di prima che, adirato, tornerà minacciandolo con tre pallottole. Quindi è la volta di un
Otto storie in un unico piano sequenza Quattordici ore nella città di Porto Alegre. Tra coppie di lesbiche in rissa con Babbo Natale e impossibili fughe d’amore con una ragazzina
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NUOVO MONDO
Deve essere successo qualcosa a Pari‐gi. Qualcosa di così importante da spin‐gere una giovane regista (Lola Frede‐rich) a realizzare un “Taxi Wala”, un cortometraggio sul rapporto tra immi‐grati e urbanistica francese. La storia: un tassista si imbatte in una donna che ha tre indirizzi scritti in un foglio; nessuno dei quali è quello giusto. L’unico indizio è il ponte della ferrovia. Considerando la capitale francese è u‐n’impresa niente affatto facile. Inizia così l’avventura in auto verso il non‐luogo, ovvero un insieme di vie e palaz‐zi sconosciuti alla donna, quindi ostili e pericolosi. Letto altrimenti, è il senti‐mento che l’uomo prova nei confronti di tutto ciò che ritiene diverso. Il corto (16 minuti) è leggero, ma è il tema trattato a risultare serio perché tale è l’immigrazione nelle società occiden‐tali. Alla fine se ne esce con una sensa‐zione di spaesamento, di disorienta‐mento assoluto, di solitudine. Forse perché si sente esattamente così un indi‐viduo in terra straniera. (l.b.)
Il nuovo mondo con gli occhi di uno straniero
di Leonard Berberi
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prove del tradimento ai consorti. Nella seconda (“At home at sea”), si segue la storia di uno del gruppo, Dragon, che torna nel suo villaggio natale dopo aver compiuto un delitto. Ma il mondo attor‐no è in piena decadenza. Così il ragazzo tenterà la via dell’Occidente ricco e de‐mocratico. «Gli abitanti del Fujian da sempre pon‐gono l’accento sui legami familiari di clan, di parentela e di amicizia ‐ spiega il regista ‐. In tempi più recenti la provincia del Fujian è stata teatro di una moderna diaspora cinese: i suoi emigranti si sono recati oltreoceano alla ricerca di una sorte migliore e molti di loro non sono tornati. Questa emigrazione oltremare è stata bilanciata da una migrazione interna, che porta i cinesi delle province dellʹentroter‐ra a spostarsi nel Fujian per ragioni di studio o lavoro. È un ciclo di immigra‐zione, emigrazione e spostamenti che a turno arricchisce o impoverisce lʹarea». Da vedere. Ci spiega ‐ con equilibrio ‐ cosa siamo diventati. Cosa abbiamo sa‐crificato per il progresso. (l.b.)
MILANO ‐ La prima sensazione che si prova quando finisce la proiezione di “Jin Bi Hui Huang” (Il blu di Fujian), del ventiseienne Weng‐Shou Ming, è lo stu‐pore. Possibile che un paese che sta fa‐cendo ‐ apparentemente ‐ progressi note‐voli in campo economico e con un con‐trollo (politico e militare) oppressivo non sia in grado di porre rimedio al repentino indebolimento del tessuto sociale? Possibile. Perché in questa pellicola si ha la netta sensazione che sia finita l’era delle lanterne rosse e che sia iniziata quella dei neon multicolori, soprattutto blu. Ma il neon, soprattutto se blu, è fred‐do. Rimanda a quegli aspetti negativi dell’animo umano che le pseudo‐democrazie cercano sempre di eliminare. Ma che, come ci suggerisce il film, non solo non vengono cancellati. Anzi, fini‐scono per esplodere. Il film è diviso in due parti: nella prima (“Amerika”), un gruppo di ragazzi segue le donne infedeli (i mariti sono lontani per motivi di lavoro, nda) pedinandole, foto‐grafandole e minacciando di mostrare le
Un paese che cambia. In peggio In “Fujian Blue” le storie di un gruppo di ragazzi. Sullo sfondo, una Cina decadente
Per riflettere Cos’è la vita? Una continua sedimentazio‐ne di ricordi, luoghi, situazioni e personaggi che incontriamo durante la nostra esistenza. E di case. Questo cortometraggio è un piccolo capola‐voro ed è stato una delle opere più acclamate al festival dell’animazione di Annecy. Il giap‐ponese Kato ci racconta nella “Casa di piccoli cubi” la storia di questo anziano signore che aggiunge costantemente piani alla sua dimo‐ra, per evitare di rimanere sommerso. Finchè
Un orologio, due amici e la paura della verità “El reloj” (L’orologio, ndr) è un’opera coraggiosa. Descrivere i turbamenti del corpo adolescenziale richiede tempo. E talento. Il trentunenne Marco Berger, invece, fa di più: non solo ne coglie l’essenza, ma riesce anche raffigurarla in soli quindici minuti. Girato in 16mm, il cortometraggio argentino in concorso al “Milano Film Festival” ci presenta la storia di due ragazzi: al ritorno dagli allenamenti uno dei due resta a piedi e l’altro lo invita a casa sua prima a stare un po’, poi a dormire. Qui scatta una sottile rete di allusioni ‐ evidenziate da parti‐colari inquadrature e movimenti di occhi dei protagonisti ‐ che mette in crisi l’identità (sessuale) di uno dei pro‐tagonisti. E l’orologio del titolo? Verrà rotto alla fine. Pestato con un piede. Come a fermare quel tempo, quell’i‐stante che separa la scoperta di una realtà ed il suo impatto nel mondo in cui si vive. Così il flusso vitale si ferma e la paura su quello che potrebbe suc‐cedere dopo potrà rimanere solo tale. Almeno per una notte. (l.b.)
non perde l’unica compagna rimasta (la pipa) e dovrà compiere un gesto a ritroso, tuffandosi sempre più in profondità. Un tuffo anche nel passato, nei ricordi, nelle scene di vita vissu‐ta. Un corto nostalgico, melodrammatico, che sembra configurare anche un monito per tutto noi: il livello dell’acqua cresce ogni giorno non per cause naturali, ma per una reazione inusuale ad un ambiente malato. Che serva a qualcosa? (l.b.)
S P O RT
rugby come strumento per portare i ra‐gazzi detenuti a scoprire nuove realtà attraverso contesti relazionali diversi da quelli abituali, come opportunità di socia‐lità e di allentamento delle tensioni provo‐cate dalla condizione detentiva. LʹASR si prefigge inoltre lʹobiettivo di dare una sorta di “seconda casa” a dei ragazzi che, quando saranno rilasciati, si ritroveranno spesso a vivere situazioni molto difficili. Perchè proprio il rugby può aiutare bambini con difficoltà di integrazione e giovani detenuti? Da noi il rugby è vissuto come disciplina sportiva dotata di unʹetica utile nella vita di ciascuno; unʹimportante esperienza formativa caratterizzata da crescita indivi‐duale e senso di appartenenza ad un gruppo. Il rugby con le sue tradizioni e regole trasmette valori essenziali e rari. Giocare significa migliorare il proprio carattere, sviluppare lealtà, spirito di sa‐crificio, lavoro di squadra. Il progetto con le scuole elementari non è nuovo. Che riscontri avete avuto? I riscontri sono buoni e, a testimonianza di ciò, questʹanno si è allargato a sei il numero di scuole coinvolte nel progetto. Inoltre, sempre da questʹanno, ci sarà lʹe‐stensione alle elementari di un nuovo mo‐dello di allenamento che abbiamo avviato nel 2006 in collaborazione con un gruppo di psicomotricisti del gruppo Ariel. Si è deciso di porre più attenzione allo svilup‐po motorio dei bambini, aspettando chi ha maggiori difficoltà e privilegiando quindi un percorso di crescita comune rispetto alla mera prestazione sportiva. I rivali della Amatori, grazie alla fusio‐ne con la Leonessa Brescia, questʹanno giocheranno in serie A. Non sarebbe più redditizio puntare a grandi risultati con la prima squadra? Chi fa parte del nostro club, è qui solo per passione e per senso di appartenenza. LʹASR si autofinanzia e nessuno prende un soldo. La nostra ambizione è dare la possibilità ad un numero maggiore di ragazzi di avvicinarsi a questo sport, di giocare e crescere nelle migliori condizio‐ni, di coinvolgere genitori e famiglie. Il lavoro fatto con minirugby e giovanili ci dà comunque molte soddisfazioni ed è proprio grazie alla qualità del nostro set‐tore giovanile che lʹASR si colloca tra le prime dieci società italiane.
su veri campi da rugby. ***
La collaborazione con il Beccaria, inve‐ce, cosa prevede? Anche in questo caso abbiamo in pro‐getto di iniziare allenamenti, partite ami‐chevoli e tornei sia allʹinterno che allʹe‐sterno dellʹistituto e inoltre i ragazzi po‐tranno seguire corsi di formazione per diventare istruttori o arbitri di rugby. Il concetto di base è quello di utilizzare il
MILANO ‐ LʹAssociazione Sportiva Dilet‐tantistica Rugby Milano, nata nel 1945, vanta circa quattrocento atleti tesserati tra squadre di minirugby, giovanili, seniores (due squadre: una in Serie B, lʹaltra in Serie C) e old ed ha più di cinquanta tes‐serati tra educatori, allenatori, accompa‐gnatori e medici. Oltre a giocare sui cam‐pi di tutta la Lombardia e dintorni, da alcuni anni lʹA.S.R. è impegnata in pro‐getti di valenza sociale ed educativa. Enzo Dornetti, general manager, e Giorgio Ter‐ruzzi, addetto stampa ci spiegano di cosa si tratta: lʹattività in alcune scuole elemen‐tari di Milano è iniziata qualche anno fa; da questʹanno partirà anche una collabo‐razione con lʹIstituto penale minorile Bec‐caria. Le scuole elementari ormai rispec‐chiano la molteplicità etnica e culturale del nostro paese e in molti casi si riscontra una mancanza di socializzazione sia tra i bambini che tra le famiglie. In questo con‐testo noi e i nostri istruttori organizziamo allenamenti e amichevoli presso la scuola e tornei con altre squadre pari categoria
Quando il rugby diventa scuola di vita Oltre allo sport, l’Associazione Sportiva Rugby Milano si occupa anche dei giovani, dalle scuole elementari al carcere Beccaria
di Marco Andriola
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CASA DOLCE CASA Due sorelle si abbracciano da-vanti a quello che rimane della loro casa dopo il bombarda-mento russo su Gori
(OLIVIER LABAN-MATTEI / AFP / GETTY)
HOMO HOMINI LUPUS Un abitante di Gori piange la morte di un parente causata dal massiccio
bombardamento russo di agosto. (GLEB GARANICH / REUTERS)
SILENZIO STAMPA Il corpo di un giornalista giace senza vita in una farmacia di Gori (Georgia). Il corrispondente è stato ucciso dai russi mentre era alla guida della sua auto.
(URIEL SINAI / GETTY IMAGES)
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