a scuola di stile

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| 016 | SETTEMBRE 10 6 | 016 | SETTEMBRE 10 7 | L’INTERVISTA Q uesto lavoro non è un ripiego. Ho sem- pre desiderato farlo”. Sorprende Lucia Castellano. Perché il lavoro di cui parla è dirigere un carcere: Milano-Bollate, 1.050 de- tenuti (solo 50 le donne, “spesso abbandonate dalle famiglie”), noto per lo stile innovativo. “Mi limito ad applicare la legge”, precisa. A cominciare dall’articolo 27 della Costituzio- ne: “Le pene non possono essere contrarie al sen- so di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un buon punto di partenza. Come lo sono la Riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, la legge Gozzini dell’86 e il regolamento degli Istituti di pena del 2000: al centro c’è il detenuto e il suo reinserimen- to nella società attraverso il lavoro, lo studio e le misure alternative. Norme che spesso non vengono applicate. Perché? Occorre fare i conti con la mancanza di perso- nale, il sovraffollamento e il turnover dei dete- nuti in attesa di giudizio. Il mio compito è fa- cile: ho carcerati condannati in via definitiva. Anche se dopo l’indulto del 2006 il numero dei ristretti è tornato a livelli preoccupanti: a fine giugno sono oltre 68mila, a fronte di una capienza complessiva di 44.592. Ci sono leggi che riempiono le nostre galere: il pacchetto sicurezza, la Fini-Giovanardi sulla droga e soprattutto la ex Cirielli che accresce di un terzo le pene ai clandestini. Il sovraffol- lamento è frutto di politiche criminali basate sulle emozioni suscitate ad arte nella gente. Bisognerebbe legiferare su fatti reali, tenere il carcere come estrema ratio e usare le misure alternative. Diminuirebbe così il numero dei detenuti? Chi lavora o sconta la pena all’esterno tor- na a commettere reato solo nel 19 per cento dei casi, contro il 68 di chi resta in cella fino all’ultimo giorno. A Bollate i carcerati sono liberi di muoversi, eppure al suo servizio ha solo 390 agenti di po- lizia penitenziaria. Com’è possibile? Chiediamo ai detenuti di responsabilizzarsi: la prigione dev’essere un luogo che produce e garantisce tutta la libertà consentita dal muro di cinta. Non significa un regime indulgente, al contrario. In un certo senso, sovvertite un codice non scritto dove forza e potere vincono su tutto. Se vogliamo educare al rispetto delle regole, non possiamo proporre un modello basato sul- la violazione dei diritti, l’asservimento, i ricatti e i favoritismi. Dobbiamo tutelare la dignità dei detenuti e offrire loro opportunità di cre- scita. Per questo abbiamo scuole di ogni grado, corsi della Regione e un polo universitario co- ordinato dalla Bicocca con dieci studenti. Ma a fare la differenza è il lavoro. Non è né un privilegio né un premio, ma un diritto e un dovere. Una conquista graduale. Qual è l’iter? Si inizia col lavoro interno: lo spesino, il por- ta-vitto, l’imbianchino, il cuoco, l’addetto alle pulizie. In questo modo siamo in grado di va- lutare la capacità di ognuno di affrontare gli impegni. Si prosegue poi con il lavoro “den- tro”, ma alle dipendenze di ditte esterne: oggi gli impiegati sono 250 tra call center, vetreria e trattamento dati. Il vostro fiore all’occhiello sono comunque le cooperative sociali. Cinque realtà nate in carcere: falegnameria, catering, serra, legatoria e grafica, sartoria. Tra i soci lavoratori ci sono persone libere e una trentina di detenuti: una volta scontata la pena si può continuare a lavorare. E i clienti? Il più grande è ancora l’amministrazione carce- raria. Appaltano loro alcuni servizi prima affidati all’esterno, come la mensa. I risultati si vedono: si mangia meglio, nessuno fa più la “cresta” e gli accordi sono rispettati alla lettera. Ultima tappa: il lavoro esterno. Il passo più complesso: abbiamo un gran bi- sogno di aziende che assumano detenuti. Per ora, trenta lavorano a turno in un’azienda mu- nicipalizzata, otto sono al canile e altri presso privati. Un peccato che siano così pochi. I van- taggi per le imprese non mancano: la paga è sindacale, ma gli oneri sono defiscalizzati. | TESTO | SANDRA CANGEMI | FOTO | ALICE LEANDRO Qualche problema in più l’avrete con i detenu- ti senza permesso di soggiorno... Molti troverebbero datori di lavoro disposti ad assumerli, ma la legge glielo impedisce. Un problema che stiamo affrontando con l’aiuto di una commissione di detenuti immigrati: vorremmo garantire loro un rientro “onore- vole” nel Paese d’origine. Con un po’ di soldi in tasca. I detenuti quindi partecipano alle decisioni? Sì, abbiamo 224 delegati eletti dai carcerati. Gestiscono le strutture dei reparti, le gradua- torie per le celle singole e per il lavoro interno. Ci sono persino una commissione cultura e uno sportello giuridico con detenuti “esperti” coadiuvati da giuristi. Che cosa ha imparato a Bollate? A non giudicare mai e a “separare” la persona da quello che ha fatto. Un esercizio difficile, che siamo chiamati a fare tutti. Specie con i sex offender, condannati per reati sessuali. Qui, a Bollate, vivono accanto ai detenuti “norma- li”. Altrove non sarebbe possibile. Qualcuno torna a trovarvi? C’è chi ci scrive e chi viene a presentarci la moglie o a portarci le bomboniere. E lei, come concilia la vita privata con un la- voro così totalizzante? Sono divorziata e senza figli, ma queste sono scelte personali che non c’entrano con il la- voro. Certo, ho maggior libertà: sto in ufficio dalle 9 alle 18, sono reperibile sempre (anche in vacanza), e cerco di far conoscere il più pos- sibile il “modello Bollate”. Non mi pesa: c’è dentro tanta passione. È vero che dà del lei a tutti i detenuti e li chia- ma “signora” e “signore”? Certamente. Ma a Bollate lo facciamo tutti. Lucia Castellano Napoletana, 46 anni, avvocato: la sua carriera inizia nel 1991, come vicedirettore del Marassi di Genova. Ha poi lavorato a Eboli dove ha sperimentato una forma di carcere-comunità. Ha tenuto corsi alla polizia penitenziaria e seguito i tossicodipendenti di Secondigliano (Na). Da 8 anni dirige la casa di reclusione di Milano-Bollate. Con la giornalista Donatella Stasio ha scritto “Diritti e castighi” (Il saggiatore). a scuola di stile SORRIDENTE E DECISA (NELL’APPLICARE LA LEGGE), LUCIA CASTELLANO HA TRASFORMATO MILANO-BOLLATE IN UN CARCERE INNOVATIVO.

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a scuola di stile: Lucia Castellano | foto di Alice Alijay Leandro | Terre di mezzo 16 2010

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| 016 | settembre 106 | 016 | settembre 10 7| L’intervista

“Q uesto lavoro non è un ripiego. Ho sem-pre desiderato farlo”. Sorprende Lucia Castellano. Perché il lavoro di cui parla

è dirigere un carcere: Milano-Bollate, 1.050 de-tenuti (solo 50 le donne, “spesso abbandonate dalle famiglie”), noto per lo stile innovativo. “Mi limito ad applicare la legge”, precisa.

a cominciare dall’articolo 27 della Costituzio-ne: “Le pene non possono essere contrarie al sen-so di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un buon punto di partenza. Come lo sono la Riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, la legge Gozzini dell’86 e il regolamento degli Istituti di pena del 2000: al centro c’è il detenuto e il suo reinserimen-to nella società attraverso il lavoro, lo studio e le misure alternative. Norme che spesso non vengono applicate.

Perché?Occorre fare i conti con la mancanza di perso-nale, il sovraffollamento e il turnover dei dete-nuti in attesa di giudizio. Il mio compito è fa-cile: ho carcerati condannati in via definitiva.

anche se dopo l’indulto del 2006 il numero dei ristretti è tornato a livelli preoccupanti: a fine giugno sono oltre 68mila, a fronte di una capienza complessiva di 44.592.Ci sono leggi che riempiono le nostre galere: il pacchetto sicurezza, la Fini-Giovanardi sulla droga e soprattutto la ex Cirielli che accresce di un terzo le pene ai clandestini. Il sovraffol-lamento è frutto di politiche criminali basate sulle emozioni suscitate ad arte nella gente. Bisognerebbe legiferare su fatti reali, tenere il carcere come estrema ratio e usare le misure alternative.

Diminuirebbe così il numero dei detenuti?Chi lavora o sconta la pena all’esterno tor-na a commettere reato solo nel 19 per cento dei casi, contro il 68 di chi resta in cella fino all’ultimo giorno.

a Bollate i carcerati sono liberi di muoversi, eppure al suo servizio ha solo 390 agenti di po-lizia penitenziaria. Com’è possibile?Chiediamo ai detenuti di responsabilizzarsi: la prigione dev’essere un luogo che produce e garantisce tutta la libertà consentita dal muro di cinta. Non significa un regime indulgente, al contrario.

in un certo senso, sovvertite un codice non scritto dove forza e potere vincono su tutto.Se vogliamo educare al rispetto delle regole, non possiamo proporre un modello basato sul-la violazione dei diritti, l’asservimento, i ricatti e i favoritismi. Dobbiamo tutelare la dignità dei detenuti e offrire loro opportunità di cre-scita. Per questo abbiamo scuole di ogni grado, corsi della Regione e un polo universitario co-ordinato dalla Bicocca con dieci studenti.

Ma a fare la differenza è il lavoro.Non è né un privilegio né un premio, ma un diritto e un dovere. Una conquista graduale.

Qual è l’iter?Si inizia col lavoro interno: lo spesino, il por-ta-vitto, l’imbianchino, il cuoco, l’addetto alle pulizie. In questo modo siamo in grado di va-lutare la capacità di ognuno di affrontare gli impegni. Si prosegue poi con il lavoro “den-tro”, ma alle dipendenze di ditte esterne: oggi gli impiegati sono 250 tra call center, vetreria e trattamento dati.

il vostro fiore all’occhiello sono comunque le cooperative sociali.Cinque realtà nate in carcere: falegnameria, catering, serra, legatoria e grafica, sartoria. Tra i soci lavoratori ci sono persone libere e una trentina di detenuti: una volta scontata la pena si può continuare a lavorare.

e i clienti?Il più grande è ancora l’amministrazione carce-raria. Appaltano loro alcuni servizi prima affidati all’esterno, come la mensa. I risultati si vedono: si mangia meglio, nessuno fa più la “cresta” e gli accordi sono rispettati alla lettera.

Ultima tappa: il lavoro esterno.Il passo più complesso: abbiamo un gran bi-sogno di aziende che assumano detenuti. Per ora, trenta lavorano a turno in un’azienda mu-nicipalizzata, otto sono al canile e altri presso privati. Un peccato che siano così pochi. I van-taggi per le imprese non mancano: la paga è sindacale, ma gli oneri sono defiscalizzati.

| testo | sanDra CangeMi | foto | aLiCe LeanDro

Qualche problema in più l’avrete con i detenu-ti senza permesso di soggiorno...Molti troverebbero datori di lavoro disposti ad assumerli, ma la legge glielo impedisce. Un problema che stiamo affrontando con l’aiuto di una commissione di detenuti immigrati: vorremmo garantire loro un rientro “onore-vole” nel Paese d’origine. Con un po’ di soldi in tasca.

i detenuti quindi partecipano alle decisioni?Sì, abbiamo 224 delegati eletti dai carcerati.

Gestiscono le strutture dei reparti, le gradua-torie per le celle singole e per il lavoro interno. Ci sono persino una commissione cultura e uno sportello giuridico con detenuti “esperti” coadiuvati da giuristi.

Che cosa ha imparato a Bollate?A non giudicare mai e a “separare” la persona da quello che ha fatto. Un esercizio difficile, che siamo chiamati a fare tutti. Specie con i sex offender, condannati per reati sessuali. Qui, a Bollate, vivono accanto ai detenuti “norma-li”. Altrove non sarebbe possibile.

Qualcuno torna a trovarvi?C’è chi ci scrive e chi viene a presentarci la moglie o a portarci le bomboniere.

e lei, come concilia la vita privata con un la-voro così totalizzante?Sono divorziata e senza figli, ma queste sono scelte personali che non c’entrano con il la-voro. Certo, ho maggior libertà: sto in ufficio dalle 9 alle 18, sono reperibile sempre (anche in vacanza), e cerco di far conoscere il più pos-sibile il “modello Bollate”. Non mi pesa: c’è dentro tanta passione.

È vero che dà del lei a tutti i detenuti e li chia-ma “signora” e “signore”?Certamente. Ma a Bollate lo facciamo tutti.

Lucia CastellanoNapoletana, 46 anni, avvocato: la sua carriera inizia nel 1991, come vicedirettore del Marassi di Genova. Ha poi lavorato a Eboli dove ha sperimentato una forma di carcere-comunità.

Ha tenuto corsi alla polizia penitenziaria e seguito

i tossicodipendenti di Secondigliano (Na). Da 8 anni dirige la casa di reclusione di Milano-Bollate.

Con la giornalista Donatella Stasio

ha scritto “Diritti e castighi” (Il saggiatore).

a scuoladi stile

sorridente e decisa (nell’applicare la legge), lucia castellano ha trasformato milano-bollate in un carcere innovativo.