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TESI di LUCIA GIMENEZ CRAGNOLINO A.A. 2008/2009 Fashion Design L.UN.A. (Libera Università delle Arti) a r p z è r a m m e n d a r e RICERCA E RICOSTRUZIONE DELLA STORIA E DEL COSTUME TRADIZIONALE DEL LITORALE ROMAGNOLO

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TESI di LUCIA GIMENEZ CRAGNOLINOA.A. 2008/2009 Fashion Design

L.UN.A. (Libera Università delle Arti)

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RICERCA E RICOSTRUZIONE DELLA STORIA E DEL COSTUME TRADIZIONALE DEL LITORALE ROMAGNOLO

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SOMMARIO

1. INTRODUZIONE1.1. Le Ragioni1.2. Mission

2. IL TERRITORIO del LITORALE ROMAGNOLO2.1. Analisi dei Luogo2.1.1. La Campagna2.1.2. La Pineta2.1.3. Il Mare2.1.4. Le Saline

3. L’ARTIGIANATO nel LITORALE ROMAGNOLO3.1. Rete Artigiani3.2. Antichi Mestieri3.2.1. Produzione del Sale3.2.2. Arte Musiva3.2.3. Lavorazione dell’Argilla3.2.4. Coltura Canapa3.2.4.1. La Tessitura3.2.5. Lavorazione delle Stampe3.2.6. Arte del Ricamo3.2.7. Lavorazione della Paglia

4. ALCUNE FIGURE TRADIZIONALI ROMAGNOLE4.1. L’azdora4.2. Gli “Sciucaren”4.3. Il Cantastorie 4.4. I Danzerini e Canterini

5. PERSONAGGI STORICI ROMAGNOLI5.1. Caterina Sforza5.2. Francesca da Rimini5.3. Giovanni Pascoli5.4. Il Passatore

6. COSTUME TRADIZIONALE ROMAGNOLO6.1. Storia del costume tradizionale

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6.1.1. Abiti Contadino6.1.2. Abiti Contadina6.1.3. Abiti “Sciucaren”6.1.4. Abiti Canterini e Danzerini6.2. Catalogiche maschile e famminile6.2.1 calzatura6.2.2. foulard6.2.3. gilet uomo6.2.4. grembiule6.2.5. copricapo6.2.6. soprabito6.2.7. bustino6.2.8. accessori6.3. La scomparsa del costume tradizionale6.4. Cronaca del costume popolare

7. BIBLIOGRAFIA

8. ICONOGRAFIA

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INTRO

1.1. Le Ragioni“è dai luoghi che nascono i pensieri” (Mente locale, di Franco La Cecla.)

I territorio si distinguono tra di loro per espressioni culturali e folkoristiche che spesso hanno come emblema il costume tradizionale. La Romagna nonostante abbia mantenuto un carat-tere fortemente identitario ha perso nel tempo, la memoria del suo costume tradizionale. La graduale modernizzazione e la indebolita vitalità culturale delle popolazioni in ambiti rurali hanno trasformato gli atteggiamenti etnico-storico-rurali, un tempo naturali e distintivi di gruppi etnici, in momenti quasi rievocativi da ripresentare nella ricorrenza di particolari festività. La parola costume, cioè foggia di vestire caratteristica di una comunità, di un gruppo etnico, di un’epoca, ”indumento che si indossa in particolari occasioni”, non a caso sottolinea il va-lore simbolico dell’abito; l’indossarlo è ormai lontano dalla quotidianità. Il suo unico scopo, perlomeno il prevalente, è quello di affermare l’identità culturale della comunità e per questo può leggermente discostarsi, nei canoni estetici, da agganci reali e coerenti col passato e la tradizione, purchè risulti sufficientemente unificante.

1.2. MissionQuesta ricerca ha come obiettivo quello di indagare tutti gli elementi che formano il costume nel suo duplice significato: sia come “abito tradizionale” sia come insieme di usi e tradizioni popolari, del litorale Romagnolo.La finalità è quindi quella di raccogliere, ordinare e studiare i materiali che si riferiscono al folklore della gente romagnola. La ricerca si concentra soprattutto sul costume tradizionale; la sua storia, i suoi elementi principali e come si manifesta nel contemporaneo. L’abito racconta molto delle persone che lo indossavano e della cultura a cui questi appar-tenevano. Esso svela infatti sentimenti, credenze, gusti, condizione sociale : è il frutto delle conoscenze di tutta una comunità.In questo dossier la storia del costume romagnolo viene “rappezzato”; vengono raccolte an-tiche tradizioni, tecniche di produzioni, materiali, che insieme, rivelano l’identità di un luogo: la Romagna.

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IL TERRITORIO del LITORALE ROMAGNOLO

2.1. Analisi del luogo. In questo capitolo vengono introdotti i luoghi intorno ai quali si svolgeva la vita romagnola. Per capire le necessità ed i comportamenti che genera questo territorio.

2.1.1. CampagnaIl tratto che delineava in modo decisivo e piuttosto omogeneo le aree asciutte della pianu-ra romagnola era tuttavia il paesaggio della coltura promiscua. Nel X secolo, nella pianura cesenate, si coltivavano frumento, fava, orzo, segale, miglio, sorgo, lino e vite. Nella zona settentrionale del territorio bagnacavallese i grani invernali (frumento, farro, segale) si alter-navano ai cereali minori (miglio, sorgo, panico), oltre a legumi. Il lino sembra aver preceduto nelle campagne romagnole il ruolo che poi fu assunto dalla canapa, che è presente alla fine del XI secolo nel Lughese, ma non nel Bagnacavallese. Pini segnala anche la presenza di alberi da frutto (meli, peri, mandorli, melograni, noci e soprattutto fichi), di piante di lino.Anche nel ravennate è documentata la presenza di alberi da frutta, senza alcuna specifica-zione circa la varietà, sebbene si ipotizzi una prevalenza di meli, peri, ciliegi e susini.

2.1.2. PinetaRavenna comprende due pinete, con un’estensione complessiva di circa 2000 ettari, in pros-simità del litorale che fanno parte del Parco del Dalta del Po. Entrambe di origine artificiale e risalenti all’epoca imperiale romana, nella quale veniva usato il legname per le imbarcazioni. L’essenza botanica principale è chiaramente il pino domestico.La Pineta di Classe è un’ampia pineta, vicino alla sua frazione di Classe e alle località di Fosso Ghiaia e Savio. È delimitata a nord dalla Via della Sacca, che conduce alla foce del Fiume Bevano e a sud dal Bevano stesso. Al suo interno vi è la Valle dell’Ortazzo, sito natu-

Campagna

Pineta

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ralistico di primaria importanza per l’avifauna e le specie protette.Chiamata in antichità Pineta di Chiassi e citata da Dante nel Purgatorio al canto XXVIII: “...tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su’l lito di Chiassi, quand’Eolo scilocco fuor discioglie” e da Boccaccio nella celebre novella VIII della Quinta giornata del Decameron. Ha un’estensione di 900 ettari e vede la presenza di diverse varietà botaniche come il leccio, la farnia, il carpino e ovviamente il pino. Interessanti sono le forme vegetali nei pressi delle radure e delle zone allagate. Appartenuta all’omonima abbazzia ravennate quando la sua estensione era di 6000-7000 ettari. È la più grande pineta dell’ Emilia Romagna, con un’estensione di circa 1100 ettari. La pineta è un bosco misto, dove al pino si affiancano diverse latifoglie.

2.1.3. MareTutto, o quasi tutto è cambiato sulla Riviera Romagnola nel corso del secolo appena con-cluso: uno spazio marino naturale e selvaggio, per molti versi inospitale, si è trasformata in un’unica “città lineare”, la più scintillante “megalopoli balneare” d’Europa. Quadro geografico originario: rapido ampliamento dell’arenile.Sviluppi del turismo balneare:Riviera Romagnola, Rimini sua capitale; pratiche legate ai bagni nei mari d’Italia, in quelle temperate acque mediterranee, che dopo aver generato Venere, promettevano a uomini e donne dell’Ottocento salute e bellezza.Rimini, facente parte dello Stato Pontificio, risentiva ancora dell’arretratezza politica e cul-tura delle classi sociali dominanti; i bagni di mare venivano considerati un pericolo per la morale, pericolo per il quale il Governatore Distrettuale della Città notificava pubblicamente: “Siamo chiamati a non omettere opportunità alcuna, onde porre freno agli abusi invalsi sul mondo di bagnarsi nell’estiva stagione al Fiume Marecchia, e alla Marittima Spiaggia, mas-sime nei luoghi che rimangono esposti alla vista di chi viene a passeggiare, in guisa che un insoffribile oltraggio viene apportato al pubblico pudore, e a chi nell’animo ha sensi di purità e candore”.Divertimentificio:Aldo Bonomi sostiene che in questo tratto di costa “il corpo diviene moneta vivente nel cir-cuito produttivo della liberazione fisica e sessuale”, qui “si dispiega la fabbrica libertina che può essere indagata e raccontata come il distretto del piacere”. Il mito della vacanza in Riviera:Nell’immaginario degli italiani la Riviera Romagnola ha assunto forme e colori diversi a se-conda della rappresentazione che ne hanno dato gli artisti o più genericamente coloro che l’hanno descritta. Per la comprensione del luogo, sono indispensabili anche la tracce pubbli-

Mare

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cistiche, letterarie, cinematografiche.Ferruccio Farina: “queste interpretazioni artistiche firmate da grafici più o meno celebri, tra cui non mancano i grandi nomi, dalle pubblicità visiva, sanno trasformarsi in ritratto fedele delle attese e delle aspirazioni, il ritratto di un fenomeno in divenire”.

2.1.4. SalineUn paesaggio del tutto particolare presente su una superficie piuttosto limitata del territorio qui considerato, ibrido tra quello delle coltivazioni (nei termini in cui è evidente l’intervento dell’uomo) e quello delle valli (per l’abbondanza delle acque), è quello delle saline. A parti-re da X secolo è documentata la produzione del sale a Cervia, del cui sistema economico divenne in breve tempo l’elemento primario. A tal fine risultava fondamentale la presenza di una laguna, ovvero di un bacino di acque stagnanti comunicanti con il mare, al fine di permettere il processo di evaporazione: se da una parte il processo naturale di graduale interrimento della laguna favoriva il formarsi di ambienti di acque stagnanti, più adatte alla produzione salifera, dall’altra l’azione dell’uomo supportava e facilitava questo processo.

Saline

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L’ARTIGIANATO nel LITORALE ROMAGNOLO

3.1. Rete ArtigianiOltre ad essere una delle principali regioni turistiche italiane, grazie alle località balneari della riviera adriatica, la Romagna vanta una grande tradizione agricola che ha favorito lo sviluppo di tutte le espressioni legate a questa cultura, artiginato compreso.L’artigianato, oggi, ha un grande peso nell’economia delle maggiori province emiliane, in-centrate sull’industria e sul commercio, sebbene nel borghi, in Romagna sia ancora possibi-le imbattersi in laboratori che producono oggetti con mezzi antichi e metodi tradizionali. In Romagna troviamo botteghe di alta qualità artigianale i cui giovani e creativi propongono un artigianato artistico moderno ed innovativo, pur mantenendo i riferimenti dei modelli ori-ginali. L’artigianato è valorizzato inoltre da numerosi mercatini.

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3.2. Antichi Mestieri

3.2.1. Produzione del Sale.Lungo le coste del Mediterraneo, a partire dal mese di giugno, durante tutta l’estate si ripro-pone un antico rito lavorativo: la raccolta del sale.Come ogni sostanza aurea è stato oggetto di accordi e contese, ricchezze e sventure. Il commercio del sale ha imposto una rete commerciale fittissima che si stendeva dall’Adriati-co per tutte le valli e le pianure. Carichi di sale percorrevano continuamente le strade di terra e di mare scortate dall’esercito che li vigilava.Fu per secoli quindi una delle mercanzie privilegiate dai contrabbandieri, che garantivano alle popolazioni più povere dell’entroterra un approvvigionamento minimo esente dai balzelli del monopolio. Tasse in qualsiasi stato estremamente gravose.Negli eserciti il sale era importantissimo sia perché era parte esplosiva della polvere da spa-ro, sia come disinfettante per le ferite di guerra ed oltre essere moneta di scambio con l’oro (oro bianco) veniva distribuito insieme al cibo per poterlo conservare.Per ottenere questo sale marino bisognava coltivare un terreno.Le saline, i campi che accoglievano acqua di mare, andavano sapientemente preparati dal salinaio, alla benevolenza del cielo invece dipendevano poi qualità e quantità del raccolto.Il sole attraverso il calore faceva (ma lo stesso procedimento avviene ancora oggi) evapora-re l’acqua facendo affiorare la base salina contenuta.A differenza dell’agricoltore quindi il salinaio temeva le piogge perché diluiva l’acqua già presente nelle vasche e dilavava il sale raccolto e accumulato.“L’energia viene presa dal sole, la materia prima è data dal mare, il lavoratore viene aiutato dal vento: i lavoratori delle saline vengono paragonati sia ai marinai che ai contadini” Pedrag Matvejevic.

3.2.2. Arte MusivaNato probabilmente presso i Sumeri circa 2.500 anni avanti Cristo, il mosaico conobbe gran-de fortuna in Grecia, nei regni ellenistici e durante l’impero romano, prima come decorazione

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Sale

Mosaici

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dei pavimenti e poi delle pareti. Fu però l’arte paleocristiana e, soprattutto, quella bizantina, a sfruttare appieno la specificità del linguaggio musivo. Assai diversi da quelli di Venezia e di Roma, lisci e piatti per effetto delle tessere usate, qua-si uniformi e molto regolari, i mosaici di Ravenna presentano tessere a forma diversa l’una dall’altra, collocate con inclinazioni e profondità variabili. La superficie risulta così scabrosa e ruvida, tale da trattenere o riflettere la luce secondo la posizione dell’osservatore.Nella città, che vanta otto monumenti Unesco, di cui sette decorati con bellissimi mosaici ancora nel loro splendore, quest’arte è tuttora perpetuata nelle scuole e nelle botteghe degli artigiani-artisti. A partire dalla metà del Novecento, un flusso quasi ininterrotto di relazioni fra docenti ed al-lievi ha dato vita a scambi e collaborazioni attraverso le scuole che hanno assolto il compito di trasmettere i fondamenti della conoscenza del giacimento musivo.

3.2.3. Lavorazione dell’ArgillaLa tradizionale ceramica faentina nasce come in ogni altro luogo, dalla necessità di realizza-re contenitori per l’acqua e prosegue con il bisogno di creare ciotole, brocche, vasi.Oltre ai semplici oggetti d’uso, dai forni dei vasi uscivano oggetti creati appositamente per omaggiare i signori del tempo e per ornare le loro case, per questo venivano decorati con le araldiche della famiglia. La città romagnola, per la natura del terreno ricco di argille rosse ricavate dal letto del fiume Lamone, fece sì che si sviluppasse naturalmente questa tecnica.Giunta a maturazione alla fine del ‘400, va toccare in questo secolo il massimo splendore. Proprio in questa epoca, infatti, la ceramica romagnola assume dignità artistica, anche per-ché il livello tecnico è ormai così elevato e i decori talmente complessi da richiedere l’inter-vento di veri e propri maestri.Con una scoperta innovativa che fu l’aggiunta di stagno alla composizione dello smalto, i faentini ottennero delle superfici molto bianche e compatte sulle quali i decori risaltavano ancor più. Nella prima metà del ‘500 si afferma dalla Romagna lo stile bello, che comprendevano un’estrema varietà di motivi rinascimentali: grottesche, festoni, trofei, strumenti musicali, fiori e frutta, ghirlande...In questo periodo usava regalare alla propria amata il suo ritratto su un piatto di ceramica come pegno d’amore ma anche regalo di nozze.Dopo il grande successo delle illustrazioni anche le ceramiche furono decorate con gli stessi temi istoriati; una ricca gamma di colori abbelliva le storie di cavalieri, amate e scene bibli-che.

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Ceramica

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Dopo il 1550 il decorativismo giunge al massimo del suo splendore nello stile fiorito, ma già si avverte il bisogno di un superamento di questa esuberanza figurativa in nome di una ritrovata essenzialità. L’istoriato si trasforma perciò in “compendiario”: lo smalto bianco che ricopre le suppellet-tili in ceramica si fa più denso e pastoso, mentre le scene sulle superfici sono schizzate in modo lieve e con l’impiego di pochissimi colori (turchino, giallo chiaro e scuro). Il passo successivo sarà la realizzazione degli splendidi “bianchi faentini”, che tanta fortuna avranno nell’Europa del secolo XVII.Ormai la ceramica ha un ruolo preponderante nella vita artigianale della Romagna ed arti-stica faentina. Dai primi decenni del secolo, infatti, la produzione di stoviglieria si è evoluta e raffinata tra gli artigiani della Romagna assumendo anche funzioni ornamentali (i cosiddetti “piatti da pompa”). Abbandonata la ceramica graffita, gli artigiani della Romagna si specializzano in quella smal-tata, ovvero nella maiolica, mentre ai colori tradizionali si aggiungono il giallo e il turchino. Alcuni artigiani poi migrarono per andare a lavorare in altre zone d’Italia e d’Europa; un esempio è dato dai maiolicari che si spostarono al nord dove con la loro arte abbellirono le stufe da riscaldamento del Tirolo, in Svizzera, ecc…

3.2.4. La Coltura della CanapaUno dei più antichi e caratterizzanti elementi della civiltà contadina romagnola è la coltura della canapa.Per secoli l’economia e la popolazione locali trassero benefici dalla coltivazione di questo vegetale, imponendosi anche come elemento ricorrente nei corredi delle spose: la canapa era, infatti, una valida alternativa al più raffinato e pregiato lino, un lusso concesso solo alle classi più abbienti. In tutte le case, ove vi fosse un minimo di benessere, si possedeva un telaio e le donne trascorrevano i lunghi periodi invernali tessendo e confezionando i loro corredi. Questa tradizione si è tramandata per secoli, di generazione in generazione fino a quando l’avvento dell’industrializzazione e le radicali modificazioni dell’economia hanno trasformato il ruolo sociale della donna e della famiglia, inducendo alla perdita di queste antiche conoscenze.Nella campagna fino alla metà del Novecento si lavorava la canapa. Pianta tessile di pri-maria importanza per l’economia agraria italiana. Ancora negli anni ’60, i maceri da canapa costituivano un caratteristico elemento del paesaggio, anche se la produzione era drastica-mente diminuita.

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Canapa

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Di canapa erano le vesti di contadini, artigiani e marinai, ma anche le preziose camicie dei corredi signorili. La fibra poi, oltre ai svariati utilizzi vestiari, era un importante materiale con cui si realizzavano corde, funi e gomene, e reti da pesca.La canapa sativa venne introdotta in Europa dall’Oriente verso la fine del Medioevo, benché fosse già conosciuta da Greci e Romani, probabilmente grazie ai traffici marini e alla cre-scente necessità di materiale d’armamento per le flotte delle repubbliche marinare.Solo nel Seicento la coltivazione si potenziò nel romagnolo.Benché si adattasse bene alle caratteristiche del suolo la canapa richiedeva un accurata la-vorazione ovviamente a carico della famiglia contadina che doveva provvedere alla raccolta e alle lavorazioni necessarie ad estrarre la fibra: l’essiccazione, la macerazione, la seconda essiccazione, la scavezzatura, la gramolatura.Spesso a questo punto interveniva un professionista della conciatura, il canapaio (figura epica, che mescolava il fascino del viandante e quello del custode del sapere), che allog-giava in casa per ungere, ammorbidire e pettinare, fascio per fascio la canapa raccolta e selezionata.Attorno alla coltura della canapa si andò costruendo anche una vera e propria cultura folklo-ristica fino all’inurbamento del dopoguerra.Buona parte della fibra raccolta veniva poi imbarcata per raggiungere la Tana del Canevo a Venezia dove si realizzavano cavi, cime e gomene.Un tempo la canapa, il lino e il cotone, erano anche utilizzati per la fabbricazione delle reti e delle vele.Le mogli dei pescatori filavano con il morello, un pezzetto di canna dal diametro pari alla ma-glia che si voleva ottenere, e un ago da rete (lengueta) normalmente di legno di bosso, delle pezze, mentre i maestri retai anziani ed esperti pescatori, le assemblavano per ottenere le corde da pesca.Poiché marcivano in fretta a contatto con l’acquea e l’umidità tutte le reti venivano tinte e rese mimetiche. Venivano bollite con una soluzione contenente una polvere ottenuta dalla corteccia del pino, che rilasciando tannini colorava le reti di bruno.

3.2.4.1. La TesituraOgni tessuto prodotto è come una mappa nella quale sono confluite fibre naturali, saperi tradizionali e invisibilmente segnati i simboli e le pratiche simbolico-rituali della femminilità. La “camera del telaio” era in ogni dimora rurale. Le tele di lino e canapa assunsero un’im-portanza fondamentale nell’economia locale, in quanto vennero utilizzate per la stampa a ruggine nella confezione di tovaglie disegnate, ma ancora di più, seguendo un’antica tradi-zione, nella preparazione delle coperte da buoi sulle quali venivano stampate quadrettature geometriche con simboli di Santi protettori. Si filava in ogni casa, inizialmente con le rocca e il fuso, soppiantati poi dall’arcolaio (ruota a pedale). La tecnica di filatura consisteva nell’operare con la rocca (supporto della fibra) e il fuso (con funzione di volano e peso) per la riduzione, tramite assottigliamento e torcitura, di una massa fibrosa in filo. Nell’incontro di trama e ordito il telaio sviluppa la propria funzione principale. Attraverso pe-dali, licci, pettini, subbi si operava l’incontro dei fili di ordito con i fili di trama ( il filo di trama

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scaturiva da una navetta, contenente un cannello di filo).

3.2.5. Lavorazione delle StampeLa stampa xilografica (dal greco Ks~ion, legno); le matrici in legno di pero intagliate a mano, una per una, impregnate della pasta colorante anch’essa assolutamente unica - dal ruggine, al blu, al verde - vanno a decorare i tessuti di lino, canapa e cotone con figure geometriche, floreali o animali del ricco patrimonio iconografico popolare. Dalla fine del Settecento, la tela di canapa stampata copriva le tavole e i letti delle famiglie romagnole meno abbienti, a imitazione dei tessuti ricamati o stampati con metodi più pre-ziosi.In questo modo i ceti più popolari potevano possedere almeno la memoria, l’idea di elegan-za, e tentare in questo modo di istituire un rapporto con un mondo di cui molto difficilmente avrebbero potuto entrare a far parte.Anche le decorazioni degli stampi erano quindi ispirati a quelli dei tessuti preziosi: si imita non solo il disegno, ma la natura stessa della fonte d’ispirazione. Disegni tratti ad evidenza da ricami, tappeti, broccati e poi da repertori di galloni, nastri, bordure, fiocchi. Ricorrente, ad esempio, è il motivo del cardo, che si ritrova ampiamente in tessuti preziosi del Quattrocento, come il mantello in broccato d’oro di Sigismondo Pandolfo Malatesta, cui i decoratori romagnoli avevano forse più agio ad ispirarsi. Il cardo è poi sim-bolo della prosperità.

3.2.6. Arte del RicamoLa tradizione del ricamo resta sempre legata all’antica presenza bizantina: fiori, grappoli d’uva, melograno, vengono riprodotti su tovaglie e oggetti per la casa, con una impressio-nante ricchezza di colori. “Quanto ai ricami, è fama che essi costituirono una delle particolarità della donna romagno-la. Ma la loro vita ebbe un campo ristretto ed individuale, una espansione troppo limitata, per poter assurgere ad una vera e propria industria artistica regionale. Una gentildonna, la signora Anita Sangiorgi Bianchi, a ricordo dei ricami che andavano scomparendo,raccolse

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Stampe

Ricamo

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antichi modelli di stoffa ricamata, ed istituì quella scuola di arazzi, che fino a pochi anni ad-dietro, visse fiorente e rinomata, sotto il suo nome e la sua guida.” Famosi, perfetti e particolari, i suoi arazzi a piccolo punto o punto di Francia, a mezzopunto, a punto di Marsiglia, a punto di Romagna, a punto fiamma, richiesti in Italia e all’estero. Il laboratorio Sangiorgi sviluppò un’attività floridissima, che, dopo alterne vicende, ancora oggi è preso d’esempio da persone appassionate a questa arte, come la professoressa Bianca Rosa Bellomo, che ha compiuto un’approfondita ricerca storica sui laboratori riminesi, e le stesse ricamatrici di oggi che si riuniscono ancora in gruppi di lavoro ed associazioni per tramandare di generazione in generazione questa preziosa attività artigianale.

3.2.7. Lavorazione della PagliaAnticamente la Bassa Romagna era territorio acquitrinoso, da qui la denominazione “Padu-sa”. La regione, prima delle grandi bonifiche dell’ultimo secolo, era disseminata di zone umi-de facenti parte di un ricco complesso idrografico: stagni e zone acquitrinose dell’entroterra, aree deltizie, piallasse e basse retrodunali. Tale realtà territoriale offriva una vegetazione spontanea pregiata, adatta a utilizzi vari.Villanova è il “Paese delle cinque erbe”. In questa realtà, nel XIII secolo, sorge il paese di “Villanova delle Capanne” vicino ad una via alzaia o su di un terrapieno. Il paese nel 1400 si sviluppa verso l’argine sinistro del fiume Lamone, “Re di tutte le bonifiche della zona”. Le abitazioni sono disposte in borgate a pet-tine, lungo una strada che collega i territori di Bagnacavallo e Mezzano, un tempo non solo dimore, ma laboratori dove una popolazione laboriosa e geniale ha svolto per lungo tempo un’attività di tipo artigianale, che l’ha resa nota anche oltre confine.L’attività locale, svolta in ogni cortile e sulla soglia delle case, si poteva ammirare la qualità e la grande varietà della produzione. Stuoie di diverse misure e qualità, graticci, legacci, funicella, impagliatura delle sedie, scope di vario tipo, panciotti, sporte, ciabatte, pantofole, cappelli, uscivano dalle mani capaci e svelte delle nostre artigiane che intrecciavano abil-mente le erbe palustri arricchendo ogni manufatto con trame diverse dettate dalla creatività individuale che lasciava sempre spazio a nuove variazioni.Tale attività, oggi in estinzione, ebbe inizio parallelamente al sorgere di Villanova,raggiungendo i livelli più importanti per qualità e quantità alla fine del 1800. Seguendo i dettami dell’indu-strializzazione, negli anni ‘50 la produzione venne a perdere in parte la finissima qualità dei manufatti a favore della quantità e della moderna tendenza della moda, per concludersi de-finitivamente negli anni ‘70 con l’avvento delle materie plastiche.Le materie prime utilizzate, reperibili nell’ambiente circostante, erano primariamente cinque varietà di erbe palustri (canna, stiancia, carice, giunco, giunco pungente). Complementari

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Paglia

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alle erbe erano i legnami nostrani come il pioppo e il salice. Le opere di sramatura e di sfal-cio, eseguite da vecchi e competenti vallaroli, timorati da un rispetto quasi sacrale nei con-fronti dell’ambiente vallivo, fonte del loro sostentamento, erano fondamentali per mantenere un equilibrio ambientale, oggi completamente a rischio per la mancanza di detti interventi.Al termine del ciclo del grano gli steli e le foglie danno corpo alla paglia.Raccolta in pagliai, grandi cumuli di forma conica posti sull’aia presso la casa colonica, in parte veniva usata nelle stalle come foraggio e lettiera per gli animali, e in parte veniva tra-sformata dalle sapienti mani del contadino, col metodo dell’intreccio, in diversi oggetti utiliz-zati sia all’interno della casa che fuori, come i contenitori per l’asciugatura e per il trasporto della biancheria, vestiti per i fiaschi, borse per la spesa, cappelli.

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ALCUNE FIGURE TRADIZIONALI ROMAGNOLE

4.1. L’azdoraLa immaginiamo così: rubiconda in viso e un poco sporca di farina con un fazzoletto in testa od un cappellino a raccogliere i capelli. L’azdora moderna discende da colei che era la re-gina del focolare romagnolo, il simbolo positivo di una operosità instancabile e il cardine del tradizionale nucleo famigliare in Romagna. L’Azdora o Arzdora era una vera colonna portante della famiglia e, non a caso, sfogliando il dizionario di dialetto romagnolo scopriamo che in italiano Azdora significa: Reggitrice, mas-saia, colei che presiede al governo della casa. La parola “reggitrice” richiama proprio questa funzione di sostegno.L’uso comune voleva che l’Arzdor e l’Arzdora prendessero il nome dal loro impiego in fami-glia. In casa, infatti, i contadini si ripartivano l’azienda domestica con i loro rispettivi titoli:L’arzdor, ossia il reggitore, era il capofamiglia, il vertice della scala gerarchica, colui che si occupava degli affari di casa e teneva il danaro.L’arzdora, o la reggitrice per le cose di casa, era di solito la moglie del capofamiglia e doveva “accudire alla casa, preparare il vitto, attendere a tutti i lavori domestici necessari”. Era suo compito “provvedere al mantenimento del pollame e dei maiali”. L’arzdora andava al merca-to con pollame, uova, formaggio, ed altro; e col ricavato di questi commerci comprava olio, sale, e quanto poteva servire alla famiglia.Nel poemetto “La Cerere della Romagna” di Mengozzi Giuseppe si legge: “… all’azienda in-terna qual regina presiede, ed al pollaio, cui nutrimento da’, vige, governa; l’ova raccoglie, e al fin di febbraio porle a covar; cucina e rigoverna, cura la biancheria, spazza il solaio, tesse, fila e cuce abiti, rammenda, tosa, munge, fa il cacio e la polenta…”Per i romagnoli l’azdora era, è e sempre sarà più che un mito un’amata istituzione.

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4.2. Gli SciucarenGli inconfondibili schioccatori di fruste dalle antiche tradizioni romagnole che producono schiocchi a tempo di musica e portano gioia e buonumore nelle feste della Romagna conta-dina?. Perché si chiamano sciucaren? Da cosa deriva questo nome? La storia racconta che la tribù gallica che nel quarto secolo a.C. stanziò in Romagna, già faceva “schioccare” la frusta. Luogo d’origine di questa tribù francese era Perpignan ebbe-ne, “parpignan” è anche il nome in dialetto romagnolo del manico della frusta. Ma coloro che fanno “schioccare” la frusta vengono definiti “s’ciucaren” anche perché con la loro abilità e con loro forza arrivano a far superare alla loro frusta, un’altissima velocità che il punto terminale sorpassa e “sfonda” il muro del suono (oltre 1.200 Km orari). Il punto terminale è chiamato, in dialetto romagnolo, “s’ciocchino”. Bisogna dire inoltre che gli Sciucaren di oggi sono i “figli” di quei personaggi che durante i lunghi tragitti a bordo dei carri trainanti i buoi, si tenevano tra di loro compagnia, fischiettando allegre canzoni guidandole con lo schiocco della frusta. Questa usanza si è mantenuta nel corso degli anni ed è stata notevolmente per-fezionata infatti si utilizza la frusta per accompagnare musiche di liscio e folk. Lo schioccare della frusta è diventato un simbolo di una Romagna bizzarra e divertente.

4.3. Il CantastorieIl cantastorie è una figura tradizionale della letteratura orale e della cultura popolare, che si spostava nelle piazze e raccontava con il canto una storia, sia antica, spesso in una nuova rielaborazione, sia riferita a fatti e avvenimenti contemporanei che entravano a far parte del bagaglio culturale collettivo di una comunità locale.I cantastorie spesso si aiutavano con la raffigurazione delle principali scene descritte. La loro opera veniva remunerata con le offerte degli spettatori oppure con la vendita di copie delle storie.Nella tradizione romagnola il cantastorie è il fulesta.Il fulesta era un raccontatore romagnolo di fole, cioè di favole della tradizione orale o di sto-rie, sia tratte dal repertorio epico-popolare o di ambientazione contemporanea. Il fulesta era spesso un girovago e, in tempi recenti, un rappresentante di commercio. Assieme all’arte di raccontare (nei trebbi, nelle piazze dei mercati, nelle cucine contadine) esercitava spesso i mestieri tipici delle fiere.

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Cantastorie c’era una volta....

Sciucaren

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Uno degli ultimi fulesta è stato Augusto Baioni, figura ripresa negli anni ‘90 da Sergio Diotti nello spettacolo “Il tempo delle fiabe”. Diotti ha mischiato la tradizione del fulesta con quella dei burattini.

4.4. I Danzerini e CanteriniLa nascita dei canerini romagnoli fu la logica conseguenza di una felice intuizione di Aldo Spallici, che puntigliosamente voleva tramandare gli aspetti salienti di una civilltà agreste e le tradizioni romagnole usando la parlata dialettale.Lo spirito che anima i Canterini Romagnoli: umiltà al servizio della propria terra, desiderio di migliorarsi attraverso le quotidiane esperienze, sacrificio secondo il motto “tutti per uno, uno per tutti”.I canterini più che parlare di Romagna, loro cantano la Romagna e l’interpretano nello spirito generoso, nel dialetto, nei costumi, nella gioia di vivere.

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Canterinie Danzerini

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PERSONAGGI STORICI ROMAGNOLI

5.1. Caterina SforzaAnche se la Romagna non le diede i natali (nacque infatti a Milano nel 1463), Caterina Sfor-za è storicamente considerata una delle figure femminili più importanti della Romagna, tanto da essere stata definita “la grande signora della Romagna”. Di forza d’animo non comune (specialmente per una donna dell’epoca), astuta e scaltra, seppe condurre le sue battaglie con determinazione e spirito vendicativo. Bella, intelligente, energica, fu una delle donne più note e ammirate del suo tempo.Caterina Sforza fu una figura di grande rilievo nella società del suo tempo, valorosa com-battente, dalla personalità eclettica e sanguigna, virago e demonio femminile, esperta in alchimie erboristiche, (scrisse anche un trattato su questo argomento contenente oltre 500 procedimenti vari, dai cosmetici ai veleni mortali), violenta e risoluta con i nemici. Memora-bile è rimasta la distruzione di Palazzo Orsi a seguito dell’uccisione del suo amato, o l’aned-doto che la ricorda sulla cortina di Schiavonia, assediata dai faentini che minacciavano di ucciderne il figlio, proseguire incurante il suo tentativo di riconquista del potere, alzando la gonna e indicando la sua vulva quale “strumento per fare altri figli”.

5.2. Francesca da RiminiFrancesca da Polenta, o da Rimini nata a Ravenna nel 1255, era figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna.Il padre, detto Guido da Polenta o Guido III, nel 1275, quand’ella aveva 15-16 anni, la diede in sposa a Gianciotto Malatesta di Rimini; questo matrimonio probabilmente fu concordato non per amore, ma per sancire un’alleanza tra le due signorie romagnole. Di Francesca si sa solo che diede al marito una figlia (Concordia) e forse anche un figlio (Francesco).Secondo il celebre racconto di Dante Aleghieri (Inferno, Canto V) e dei vari chiosatori che ne hanno arricchita la storia, ella s’innamorò di Paolo Maltesta, suo cognato, durante il suo matrimonio per procura. Tra i due nacque un amore segreto, che quando fu scoperto, venne punito con l’ uccisione dei due amanti.

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Caterina Sforza

Francesca da Rimini

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La morte di Paolo e Francesca, secondo gli studi più recenti, avvenne tra il 1283 e il 1285, quando Gianciotto aveva poco più di quarant’anni, Paolo tra i trentasette e i trentanove, Francesca tra i ventitré e i venticinque, e Dante vent’anni o poco meno.

5.3. Giovanni PascoliGiovanni Pascoli era estremamente legato alla sua terra di Romagna, ne ha cantato la bel-lezza, la gioia e i dolori con affetto e malinconica dolcezza consegnando all’immortalità dei suoi versi quei cari paesaggi del cuore e quei personaggi che abitavano la sua memoria. La terra di Romagna è legata al suo Poeta, al punto di aver chiamato il paese in cui egli nacque, nel 1855, con il suo nome: San Mauro Pascoli. Giovanni Pascoli ebbe un’esistenza segnata da tragiche vicende: dall’agguato che portò alla morte del padre (amministratore della tenuta agricola dei principi Torlonia) ed alla perdita della tranquillità economica, alla prematura scomparsa della madre fino a successivi lutti familiari. Vicende che incisero profondamente sulla vita e sulla sua produzione artistica. No-nostante le difficoltà economiche, Pascoli riuscì a frequentare l’università a Bologna, dove diventò allievo del Carducci ed in seguito intraprese la carriera dell’insegnamento, fino a subentrare al Maestro nella cattedra di Letteratura Italiana nel 1906. Nel frattempo Pascoli si era già affermato come poeta, con la pubblicazione della prima edizione di Myricae nel 1891, dei Poemetti nel 1897 e dei Canti di Castelvecchio nel 1903. La produzione di Pascoli, fino alla sua scomparsa nel 1912, è varia e comprende poesie latine, saggi danteschi, an-tologie scolastiche, discorsi e pensieri politici, ma ciò che più lo ha reso noto furono la sua poetica e la sua poesia. La poesia del Pascoli si esprimeva con un linguaggio lirico nuovo, apparentemente semplice ed essenziale ma ricco di scelte espressive e di analogie simboli-che in grado di regalare emozioni e farci “vedere tutto con meraviglia […] scoprire la poesia nelle cose, […] nei particolari che svelano la loro essenza, il loro sorriso e le loro lacrime”. Il poeta, secondo Pascoli, grazie alla sua anima di “fanciullino”, riesce a intravedere il signifi-cato della vita ed il mistero del suo destino. La poesia di Pascoli canta le piccole cose e ne rivela il significato profondo e le profonde verità. Scriveva Pascoli: “Il poeta è colui che espri-me la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta”. E così Pascoli ha espresso l’affetto nostalgico per la sua Romagna in modo semplice e mirabile, quando il poeta scrive: “sempre mi torna al cuore il mio paese”e ci guida attraverso le care immagini della sua Terra, come è possibile non desiderar di condividere la bellezza, la cordiale ospi-talità, i colori ed i sapori di quella “Romagna solatia, dolce paese”?

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Giovanni Pascoli

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5.4. Il Passatore“Sempre un villaggio, sempre una campagnami ride al cuore (o piange), Severino:il paese ove, andando, ci accompagnal’azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paesecui regnarono Guidi e Malatesta,cui tenne pure il Passator cortese,re della strada, re della foresta.”[Romagna]

Nella coscienza della Romagna contemporanea, i versi del Pascoli hanno contribuito, forse più che ogni altro elemento, a costruire la leggenda del Passatore. Il suo vero nome era Stefano Pelloni.. La sua storia si è sviluppata nel contesto di una Ro-magna di metà del XIX secolo spesso attraversata da briganti e uomini di malaffare, che agi-vano in un contesto sociale di miseria e di malcontento, ma una contingenza a lui favorevole ha fatto sì che il nome del Passatore restasse legato all’immagine idealizzata del bandito gentiluomo che rubava ai ricchi per dare ai poveri.La leggenda popolare, nata in seno and un paese oppresso che nutriva desiderio di libertà e di riscatto, legittimò la figura del Passatore facendo sì che il dibattito sulle vicende della vita di Stefano Pelloni sia tuttora alquanto vivo.

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Il Passatore

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COSTUME TRADIZIONALE ROMAGNOLO

6.1. Storia del costume tradizionaleL’abito costituisce un’espressione del codice di abbigliamento. Ogni forma ha in se` una doppia valenza di cosa e segno. Gli abiti, austeri o sgargianti, signorili o popolari, da festa o da lavoro, quanto pure non differenziati da un mestiere o dall’altro, dimostrano come nella tradizione popolare il senso estetico non vada disgiunto dal senso pratico, ma ne tragga spesso felici ispirazioni. L’abbigliamento popolare era funzionale ad un modo di vivere pove-ro, a precise esigenze di lavoro, di comodita`, di durevolezza e pertanto presentava alcune costanti che rimarranno pressoche` inalterate nel tempo.Metà del XIX secolo fino alle fine degli anni ‘40. L’abbigliamento è indicatore prezioso per valutare i cambiamenti sia nella qualità della vita che nelle relazioni interpersonali. L’abbigliamento rappresenta l’espressione di una realtà di appartenenza. Distinzione fra abito e costume: Abito: per il quotidiano: urbano e rurale. mercati. lavoro: campi e artigiani. Festivo: feste e fiere. Costume: tradizionale; cantastorie; canterini. Si è data prevalenza all’abito. Sappiamo che fino alla fine del XVIII secolo, in Italia, aristo-cratici e borghesia, nei borghi e nelle città piccole , indossavano abiti specificamente legati al territorio, vero e propri COSTUMI.1870: con l’emigrazione tendeva automaticamente ad essere eliminato. In Romagna il costume è scomparso alla fine del ‘700 e nella prima metà del ‘800 con la futura messa a riposo dei vecchi telai casalinghi. Tutta quanta la Romagna agricola svela, nei costumi delle sue popolazioni, la semplicita` della vita agreste: per gli uomini in estate bastavano una camicia e un paio di pantaloni sdruciti, e d’inverno si lottava contro il freddo con la capparella; le donne nei loro modestis-simi vestiti rifuggivano da colori vistosi e da tagli impegnativi. Il telaio era in ogni casa. Le donne tessevano tanto la mezzalana quanto il rigatino: l’una per l’inverno, l’altro per l’estate. Abbondava nella prima il color ruggine, detto cosacco, e nel secondo il turchino. L’abito ri-vela o nasconde sentimenti, ruoli sociali o professionali. Nella cultura popolare e` possibile individuare alcuni gruppi che indossano abiti specifici correlati alla propria attivita` lavorativa; ci si riferisce, ad esempio, agli artigiani o ai gruppi mobili che hanno una condizione strut-turalmente diversa da quella contadina (mugnai, panettieri, fabbri, minatori, ecc.). E` inoltre necessario distinguere fra l’abito indossato dai contadini per lavorare e l’abito indossato per occasioni come la fiera e il mercato, quest’ultimo probabilmente diverso dal primo e piu` vicino all’abito festivo, il quale non era molto diverso dall’abito quotidiano, ma costituiva una versione piu` presentabile e decorosa.Nelle terre di Romagna dove si può ritrovare le origini di un artigianato molto speciale; tele stampate romagnole. La decorazione è eseguita a mano su stampi di legno spalmati di pa-sta colorante. I motivi ornamentali si ispirano all’arte bizantina e ai fregi di ricami rinascimen-tali. (uccelli che beccano l’uva, cervi che si abbeverano, intrichi di fogliame, galli e fiori nelle colorazioni ruggine, blu o verde.) Molto tempo indietro, nel Medioevo, la stampa su canapa

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nasceva come arte “povera” tipica della civiltà contadina. In origine si producevano soltanto coperte da buoi che portavano ai quattro lati l’immagine propiziatoria di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici. Descrizione del costume Romagnolo ai tempi del Passatore (metà del XIX secolo).Uomo del contado: calzoni che scendevano quattro dita sotto il ginocchio, fermati da un ab-bottonatura che era, a volte, solo decorativa; calze di grossa lana cruda bianca con cerchi equidistanti di colore vario, scarponi di vacchetta fin sopra il malleolo; giacchetta corta, cor-petto con lunghe tasche a mezza luna con risvolto e con un lembo che si abbottonava sulla spalla sinistra che lasciava scoperto un breve sparato di camicia di tela di canapa, adorno di un rozzo disegno di un fiore. Al posto della cravatta, un cordoncino di lana rossa, terminante ai due capi con una pallottolina rossa o blu, che si annodavano a nastro. Giacca: due ampie aperture dalle ascelle ai fianchi per una grande sacca fra il panno e la fodera; “Saccona” usata dai cacciatori. In testa “Galozza” di feltro grigio o marrone a forma d’imbuto. Panno di mezzalana “biset”. bigello ordito di filo di canapa e battuto di cotone misto e lana bianca attorta con la nera. Tessuto di color bigio. Costume femminile: gonna di percalle a fiorami che giungeva sin sotto alla caviglia. Calze di lana bianche con rigature ad anella, concentriche color grigio, camicetta o blusa con ricami ai polsi e da una bustina di velluto verde o rosso che assottigliava la vita ai fianchi. Sulle spalle ampio fazzoletto di seta stampato a fiori o col corno dell’abbondanza “è’cupet”. Diver-so da quello che si mette in testa a riparo del freddo o per devozione, entrando in chiesa. Diverse stagioni: i contadini, da marzo fino ad ottobre vanno scalzi. Quando vanno alla città si vestono pomposi (più di quanto se lo possano permettere). Abbigliamento del dopoguerra a Rimini.Il dopoguerra indirizza la moda verso un abbigliamento più libero e disinvoltoIl desiderio di movimento e d’allegria, che si manifesta con gli entusiasmi per il jazz e per il charleston, e i nuovi mezzi di comunicazione, la bicicletta, l’automobile, i tram, richiedono un vestiario pratico e sportivo....La donna è più audace, vuole divertirsi e... scandalizzare: fuma, guida l’auto e si scatena nel ballo. Sull’onda della moda americana indossa abiti dalla linea scivolata e sbarazzina, con-fezionati con stoffe leggerissime. I vestiti hanno la cintura molto bassa, disegnano i fianchi e mettono a nude braccia e spalle le gonne corte, poi, fanno uscire allo scoperto le ginocchia e le scollature larghe e profonde sì fanno avventurose. Scompare il reggipetto, sostituito dalla brassière, che fascia ed appiattisce: il fisico è snello e sotto l’abito il seno deve essere appe-na accennato. I capelli hanno il taglio corto “à la garçonne” e ostentano invitanti tirabaci, che sfiorano appena gli zigomi. I gioielli lasciano il posto alla bigiotteria e due o tre giri di collane di finte perle scendono sul davanti fin oltre la vita.Per strada e nei pubblici ritrovi, dicono i cronisti riminesi, “farfalline” incipriate e dipinte osten-tano “nudità ardite” da Cafè-Chantant, indossano vesti frivole, trasparenti e calze fatte quasi di nulla, talmente sottili ed evanescenti, che addirittura prendono il colore della pelle cui aderisce.Nei confronti di un esagerato esibizionismo di certe “smorfiosette ridicole” che dimenticano le “leggi della verecondia e dell’onestà” si scaglia, con una violenta campagna giornalistica, il settimanale riminese L’Ausa. Il 4 luglio 1925, per l’ennesima volta, il periodico cittadino si

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domanda: “Che cosa si propongono queste signorine, che girano in pubblico mezzo denuda-te e sempre più denudate? Corrompere, destare fiamme di sensualità e d’impurità nel cuore degli adolescenti e trascinare la gioventù maschile sulla via della rovina fisica e morale?”.Ai rigidi criteri moralistici di una certa stampa, che fa pensare a donne disinibite, senza ver-gogna e senso del pudore, si aggiungono anche le considerazioni di chi, con molta pacatez-za, tenta di avvertire nell’abbigliamento femminile i sintomi del cambiamento dei tempi. La Guida del Bagnante, al di fuori di eccessive preoccupazioni etico morali, il 19 luglio 1925, cerca simpaticamente di risolvere il dilemma: “Le donne si spogliano per vestirsi o si vestono per spogliarsi?”.Sulla spiaggia la moda registra un terremoto! Rotto ogni vincolo con la tradizione, le donne si spogliano con la massima disinvoltura. Il costume da bagno diventa sempre più mascolino e succinto. Le aderenti magliette modellano ed evidenziano le forme del corpo.“E’ una vergogna e uno schifo”, continua a mugugnare L’Ausa, a proposito della “moda sfacciata e scandalosa”. Sembra, insomma, che non esistano più quelle norme sul buon costume che un tempo regolavano certe consuetudini.In seguito, nei due paragrafi successivi, viene illustrato uno schema compositivo dell’abbi-gliamento tradizionale della Romagna meridionale, distinguendo gli indumenti tipici dell’ab-bigliamento femminile e maschile.

6.1.1. Abito ContadinoABBIGLIAMENTO MASCHILE: una semplice camicia ed un paio di pantaloni sdruciti.

Galozza: tradizionale e tipica berretta da inverno, che fu sostituita dal borsalino.

Camicia: di tela bianca o colorata, di cotonata quasi sempre a colori o a disegni, con o senza colletto. Sopra si poteva portare il corpetto o gilè.

Giacca: semplice, abbondante, in mezzalana come i pantaloni. Era detta zbon o sbòn.

Pantaloni: lunghi, rimboccabili, di bisan (mezzalana).

Capparella: diffusissima fino ai primi del ‘900, era un mantello a due facce, con l’interno prevalentemente scozzese.

Calzature: calze bianche e lunghe con scarponi di vacchetta.

I bambini in genere riproducevano il vestito dei genitori e dei nonni.

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6.1.2. Abito ContadinaABBITO FEMMINILE: corpetto e gonna con sottana, busto e camicia visibile o no.

Fazzoletto: la testa scoperta, senza fazzoletto, denotava la cittadina dalla campagnola. Il fazzoletto da testa, detto “vletta”, si portava in vari modi; in Romagna si riscontra la foggia alle segatora, cioè doppiato a triangolo e legato sotto il mento. Fino al primi del nostro seco-lo, elemento caratteristico era anche la pettinatura.

Corpetto: generalmente abbottonato e attillato davanti, a maniche piuttosto aderenti e lun-ghe, stava dentro o fuori la sottana; era aperto o chiuso alla gola. Si poteva, in estate e nei giorni di lavoro, lasciarlo nell’armadio, e comparire col bustino rigido sopra la camicia incre-spata. Sulle spalle si utilizzava lo scialle o fazzolettone detto cupett, piegato diagonalmente e rannodato o no sul petto.

Gonna: era di colore scuro, a righe o a disegni, ampia di taglio, lunga fino o quasi a radere la terra; spesso increspata a scannellature alla vita; veniva rimboccata ai fianchi, mostrando la sottana stretta, corta a mezzagamba, per assicurare l’agilità sul lavoro.

Grembiule: alla cintola veniva legato il grembiule di rigatino con due tasche sovrapposte; pendeva dalla vista fino a pochi centimetri dall’orlo della veste: poteva essere utilizzato come recipiente per oggetti, panni, commestibili, col vantaggio di raccogliere molta roba.

Calzatura: elemento importantissimo nelle sfumature del vestire rustico, si componeva di calze di grosso filo bianco o colorato (rosso, ruggine, blu, talora a righe bianche o di colore), con peduli bianchi, e di scarpe o meglio di scarponcelli di cuoio scuro per la festa, di vac-chetta per tutti i giorni e di zoccoli per il lavoro.

��Il Contadino- abiti da lavoro La Contadina- abiti da lavoro

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6.1.3. Abito SciucarenNel 1975 si decide di adottare un costume nostrano che rappresentasse le origini della terra romagnola, si scieglie così di vestire da romagnolo del ‘700 vestito a festa, ma come si presentava quando di domenica faceva sfoggio “dell’ abito della festa” mentre andava a Messa col cavallo di San Francesco? Per scoprirlo bisogna ricercare pazientemente antiche stampe nelle biblioteche di Imola, Faenza, Forlì ed in quella universitaria di Bologna. Risul-ta che i popolani vestivano in rigatino e portavano una “galantina” in testa, ma questo non era il massimo dell’ eleganza per una divisa folcloristica. Le quadrerie d’ epoca, visionate unitamente al maggiore ente turistico provinciale, offrirono spunti preziosi tutti recepiti con l’ aggiunta di qualche civetteria in più che non guasta mai.

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I Contadini- abiti da festa I Contadini- abiti da festa

S’ciucaren-che una volta erano semplici braccianti- S’ciucaren nel contemporaneo.

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6.1.4. Abito Canterini e DanzeriniLa Romagna, per le sue stesse vicende storiche, non ha una tradizione del modo di vestire come invece altre regioni.La foggia degli abiti dei contadini romagnoli è sempre stata molto semplice, in quanto so-prattutto si trattava di abiti da lavoro.Gli orientamenti più attendibili in proposito, con tutta probabilità son quelli indicati da Emma Calderini nella sua opera grafica “Il costume popolare in Italia” ed ai quali, generalmente, ogni camerata dei canterini romagnoli ha fatto riferimento.Anche il gruppo di canterini di Imola ha usato molte di tali indicazioni per i propri costumi, indossati durante l’attività svolta dalla fondazione fino alla pausa della guerra del 1940. Con la ripresa dell’attività dopo il conflitto, i nuovi tempo portarono profondi cambiamenti in ogni settore ed il vecchio costume cominciò ad apparire ai Canterini imolesi sempre meno spettacolare e poco idoneo alle nuove esigenze coreografiche.In varie successive fasi esso subì modificazioni e rimaneggiamenti, fino a giungere alla fog-gia di quello attualmente indossato che, dei riferimenti della Calderini, ha conservato solo alcuni elementi distintivi fondamentali.Altrettanto si può dire per i costumi usati dai Danzerini ed in particolare per quelli femminili.A questi ultimi recentemente è stata portata una variante e, con l’adozione della sottana lunga, sono ritornati a somigliare ai disegni della Calderini.

6.2. Catalogiche maschile e famminile

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6.3. La scomparsa del costume popolareAlimentazione, abbigliamento, sistema simbolico e rituale, famiglia, lingua parlata, sono al-cune delle forme di identità collettiva. Il modo di vestire proprio di un luogo, di un ambiente, di un’epoca, è indicato con il termine “costume popolare”. Nell’analizzare le tipologie e gli usi del vestire tradizionale e popolare è utile introdurre una riflessione sul significato di termini “abbigliamento popolare” e “costume popolare”.Se infatti si attribuisce a “costume” il significato di un insieme più o meno rigido di norme che regolano materiali, fogge e colori del vestire di una data comunità, si può considerare “l’abito” come la concreta ed effettiva attuazione di tali norme, con l’aggiunta delle varianti dovute all’individualità della persona (conformazione del corpo, disponibilità o meno dei tes-suti, reinterpretazione delle norme).L’abito è dunque l’insieme degli indumenti realmente indossati, mentre il costume è invece un complesso di regole, una convenzione; se l’abito documenta la materia, le fogge, la fun-zione degli indumenti, anche il costume riveste grande importanza culturale, sia all’interno della cultura popolare, come segno di identità e appartenenza ad una comunità, sia al di fuo-ri di essa, nell’immaginario collettivo, nelle rappresentazioni “di genere” di pittori e incisori.L’abito costituisce un’espressione del codice di abbigliamento.Nel passato ogni piccolo e sperduto paese aveva un costume tradizionale, nel quale la comunità si riconosceva e con il quale sanciva le differenze sociali al suo interno; era attra-verso l’abbigliamento «che il galantuomo si distingueva dal cafone, non solo; ma era proprio il tipo di abbigliamento che dava al singolo individuo, cafone o galantuomo che fosse, l’im-mediata percezione, a lui come agli altri, di non essere un isolato ma di appartenere a un gruppo più vasto e ben determinato della scala sociale: l’abbigliamento quindi era un vero e proprio linguaggio».

Una volta u s cnusseva beni sgneur da i cuntadein;i sgneur ch’i era zanteili purteva e’ vsti` ‘d casimir;un cuntadein par ben ch’e’ stasesse’ purteva e’ su vsti`’d mest;par quant ben ch’e’ stasess un cuntadeine’ purteva un vsti` ‘d rigadein.Ades la cameisa ad mossla e e’ vsti` ‘d casimir i i porta enca quei ch’i e me badeil;e’ mond u s’e` tent rafine`,i purett cume` i sgneur i vu ande`;i purett cume` i sgneur i po` enca ande`mo tla bascoza i n’ha mai quatrein.(Da “Trama e Ordito”.)

Una volta si conoscevano bene i signori dai contadini; i signori che erano gentili portavano il vestito di chachemir; un contadino per quanto bene stesse portava il suo vestito di misto; per

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quanto stesse bene il contadino portava un vestito di rigatino. Adesso la camicia di mussola ed il vestito di chachemir lo portano anche quelli che sono addetti al badile; il mondo si e` intanto raffinato, i poveri vogliono comparire come i ricchi, i poveri vanno come i ricchi, ma in tasca non hanno quattrini.

Cosa che valeva sopratutto per il gli uomini, «viceversa, l’abbigliamento femminile non s’iden-tificava così direttamente con simboli socio-economici o politici. Non a caso la differenza tra cafone e galantuomo si rifletteva nel campo muliebre con una distinzione meno drastica tra pacchiana, ossia la donna appartenente alla media borghesia e al ceto artigianale, e con-tadina, cioè la donna di campagna e la bracciante. A questa minore “compromissione” del-l’abbigliamento con le rigide distinzioni di classe vigenti faceva però riscontro una estrema varietà del costume, cioè del tipico vestito femminile, diverso da luogo a luogo e quindi meno riconducibile ad una foggia-tipo. Sicchè il costume, preziosa testimonianza per l’indagine folclorica che il costume delle pacchiane e delle contadine era più o meno simile “variando solo nella finezza e nella qualità della robba, nel gusto di adornarsi meglio, e nell’incipiente voglia di novità”».Ma se le donne del ceto medio, dell’aristocrazia rurale e le mogli degli artigiani, condivi-devano una foggia del vestire detta da “pacchiana”, l’abito della contadina, era chiamato “bracciala”. Anche tra i contadini era diffusa ovunque l’abitudine di arricchire il semplice abito quotidiano con capi o accessori più raffinati, ma poiché essi vivevano in condizioni di grave miseria gli abiti venivano indossati fino a quando non cadevano a brandelli. Un particolare curioso è che, fino al Settecento, non venivano indossati indumenti intimi, che erano accessori usati solo da donne ed uomini di alto bordo. In compenso le gonne e le sottane erano assai numerose al fine di ricoprire le zone intime. Era in uso indossare, a seconda delle possibilità, più gonne sovrapposte che davano in tal modo volume ai fianchi, secondo un canone estetico che privilegiava l’opulenza e le forme procaci. Anche il seno veniva generosamente mostrato dalla scollatura ed era sostenuto da un car-tone triangolare leggermente incurvato e fissato, nella parte anteriore, dai lacci incrociati del corpetto. Un altro elemento costante del costume femminile era il ricamo. I corpetti, resi preziosi da sofisticati ricami, secondo l’influenza della moda francese che valorizzava il seno, erano scollati e coprivano quasi solamente il dorso ed erano allacciati da stringhe. In un’epoca che non conosceva l’uso dei bottoni, i lacci erano indispensabili per tenere insieme certe parti dell’abito.Le donne del ceto basso, anche nel giorno del loro matrimonio, indossavano il costume da pacchiana oppure prendevano l’abito da sposa in prestito da parenti o amici benestanti. La caratteristica più notevole dell’abbigliamento tradizionale era la cura prestata nella lavora-zione dell’abito femminile caratterizzato da ampie gonne.Ma all’inizio del ‘900 iniziò la rapida scomparsa del costume tradizionale, come scrive Anna-maria Restaino in Mode & Modi, «tra la seconda metà del secolo scorso ed i primi decenni del nostro, vari fenomeni come la rivoluzione industriale, l’unificazione del regno, l’emigra-zione interna ed esterna, contribuirono a modificare, radicalmente, il sistema di vita e le abitudini della popolazione. L’abito certamente subì cambiamenti e modificazioni dettati dalla necessità di adeguarsi alle

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nuove e più complesse esigenze quotidiane.La sorte del costume, fu segnata dal desiderio di novità che avanzava incontrastato tra gli esponenti del ceto medio, e, poiché, non si rinunciava all’usanza di farsi seppellire con l’abito delle nozze, le borghesi in questo modo, seppellirono definitivamente il costume vestendosi secondo i dettami della moda delle capitali . Rimasero solo popolani e contadini ad indossa-re gli abiti la cui foggia era rimasta pressoché invariata per molte generazioni, perché immu-tate erano le condizioni e le abitudini di vita della classe operaia. Ben presto quindi, quel che era l’abito di tutti divenne il vestito dei cafoni oggetto spesso di curiosità e dileggio. La questione fu definitivamente risolta dai cugini d’America che subito dopo la seconda guerra mondiale cominciarono a mandare in dono abiti e capi di biancheria usati che, acqui-stati da rigattieri, dopo essere stati lavati, venivano rivenduti per poche lire in tutti i mercati. La “robba” americana aveva liquidato la tradizione. Da quel momento il nuovissimo, la modernità ebbero il sopravvento ed ai nostri giorni è ra-rissimo incontrare singoli che conservino gli abiti dei padri o centri di studio pubblici e privati che dimostrino sensibilità ed interesse verso la ricerca e la conservazione dei costumi.Tuttavia, se è vero come si afferma che la moda costituisce una parte della cultura ed in essa si rispecchia la vita di tutti i giorni, dovremmo ricominciare dal passato e di rivalorizzare le tracce di un percorso non del tutto cancellato utile alla ricostruzione di una identità collet-tiva».Vorrei analizzare l’importanza del costume tradizionale, il quale ormai è scomparso in Italia ed in Europa. Per questo prima però bisogna capire come e dove il costume appare nella storia; Il costume popolare nasce attorno al 1600, nel periodo della dominazione spagnola, quando per contrapposizione alla moda pomposa dei signori, ogni regione, ogni vallata ed ogni paese adottarono un costume proprio. I costumi caratteristici si sono andati perdendo nelle zone maggiormente aperte alle vie di comunicazione, mentre nelle zone più isolate sono rimasti per lo più invariati nel tempo. In questo periodo si svilupparono i cosiddetti costumi tradizionali delle valli, fuori dalle valli quelli della regione e qualche volta i costumi locali. Contemporaneamente però restava valida una legge non scritta, la quale diceva che le singole valli dovevano severamente fare attenzione, affinchè le proprie caratteristiche non passassero ad altre regioni. Il costume tradizionale divenne dimostrazione dell’identità, aveva la funzione di una tessera di appartenenza e vale ancor oggi come segno esterno d’ identità. Sappiamo quindi che che fino alla fine del XVIII secolo, in Italia aristocratici e borghesia, nei borghi e nelle città piccole, indossavano abiti specificamente legati al territorio, veri e propri costumi.Secondi alcuni documenti tratti dal libro “Usi e costumi di Romagna” a cura di Mario Turci, nel 1870, con l’emigrazione, questi costumi, tendevano automaticamente ad essere eliminati. E’ forse questa la vera motivazione della scomparsa del costume popolare? Per analizzare questo fenomeno, è necessario però indagare anche in altri campi.Esisteva in ogni parte d’Europa, fino a qualche decennio fa, un ricchissimo patrimonio di canti e danze popolari; di fiabe, leggende, proverbi; di edilizia e architettura rustica; di tova-glie, coperte, tappeti e, in genere, tessuti a mano; di artigianato in legno e in altri materiali «poveri»; di costumi popolari. Per limitarci a questi ultimi, possiamo senz’altro affermare che

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camicie, casacche, pantaloni, gonne e scialli da festa costituivano uno splendido corredo, di cui tutte le famiglie contadine, anche le più povere, erano - in varia misura - dotate; e, soven-te, si trattava di capi realizzati con una perizia tecnica e con un senso estetico così spiccati, da farne delle vere e proprie opere d’arte.La scomparsa dei costumi popolari - come quella dell’edilizia rurale, dell’artigianato con-tadino e come la progressiva erosione degli stessi dialetti e delle lingue minoritarie - è la conseguenza della morte della civiltà patriarcale: un crimine silenzioso che si è svolto lette-ralmente sotto i nostri occhi, e senza che nessuno - intellettuali in testa - muovesse un dito o levasse un gemito per richiamare su di esso l’attenzione del mondo della cultura.Basta visitare un museo etnografico - come, ad esempio, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Udine - per rendersi conto di quale immensa perdita la nostra società abbia su-bito con l’avvento degli abiti fabbricati in serie e con la perdita definitiva e irreparabile delle abilità, tramandate da innumerevoli generazioni, che presiedevano alla confezione degli indumenti propri della civiltà contadina.Anche al museo degli usi e dei costumi della gente di Romagna, il MET a Santarcangelo, ci sono abiti appesi e piegati, quasi fossero degli strascichi che non valgono più niente, e che invece, sono stati identità di un popolo, per diverse decenni. Ora sono rinchiusi in vetrine, pronti ad essere visti, ma non indossati. Sono passato, sono memoria, sono solo un ricor-do.Per me hanno un grande valore; sono oggetto di studio. Guardo ed osservo attentamen-te ogni parte, ogni pezzo, ogni cucitura. Di questi abiti, mi ha colpito molto la povertà dei materiali. Povertà di materiali che però, grazie a diverse tecniche di stampe e di tessitura, diventano straordinari. è anche molto importante la modelleria; osservando il modo in cui sono assemblati i pezzi, possiamo capire se questo si tratta di un abito da cittadino o da contadino (così com’è anche importante il materiale). Spesso, il costume del contadino ha una modelleria semplice, non complessa e confortevole; questo permette l’artigiano o con-tadino, di lavorare in modo migliore, ed essere più comodo nei suoi movimenti. L’abito così, diventa identità del luogo. Si può quindi dire che il costume portato dalla popolazione di una certa zona si comporta come un organismo vivente, aderente all’ambiente in cui si trova. Esso si fonde col paesag-gio della località, scopre quali sono le attività economiche del luogo, racconta quali sono le condizioni climatiche, esprime la prosperità della comunità della grande famiglia, senza riguardo alle condizioni economiche dei singoli. Il costume popolare porta con sé anche i segni degli avvenimenti storici che abbiano avuto importanza e abbiano contribuito a confe-rirgli la forma che ha. Il costume popolare è infine lo specchio dell’abilità, del livello raggiunto dal popolo nel campo dell’arte, perché esso ha trovato in questo requisito indispensabile alla vita il mezzo attraverso il quale ha espresso le sue aspirazioni profonde per dare corpo alla sua aspirazione verso la bellezza. Tre fattori, e cioè l’ambiente naturale, l’influsso storico culturale e l’inclinazione originale sono sempre presenti nella forma del costume popolare e perciò esso rappresenta uno dei momenti più completi dell’attività popolare.Ma il vestiario creato nel corso dei secoli dal popolo non ha valore soltanto pratico e non esprime soltanto le aspirazioni verso la creazione di qualcosa puramente estetico, ma con-tiene in se stesso un senso ancora più profondo, un senso di irrealtà e di magia, a cui si

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sottomette spesso anche la componente pratica e quella figurativa. Oltre a tutto, il modo di vestire di un ambiente paesano chiuso contiene anche determinate norme formatesi nella tradizione secolari, le regole alle quali il popolo si attiene scrupolosamente, con rarissime eccezioni. Per queste norme consacrate dalla tradizione popolare, il costume acquista an-che un valore sociale: esso indica infatti anche lo stato sociale del singolo all’interno della comunità del paese, anzi il segno esterno, visibile, di questa posizione, quasi fosse una carta d’identità di ogni membro della comunità, e specialmente delle donne. Ogni fase vitale, ogni avvenimento e ogni mutamento importante nella vita, a cominciare dalla fanciullezza, alla giovinezza, al fidanzamento e alle nozze, ai primi anni dopo il matrimonio, la maternità, l’età matura e la vedovanza, tutto questo si può leggere spesso nel modo come la donna si veste.Se poi, oltre a quanto si è detto del costume popolare, si tiene conto delle differenze esistenti fra il costume di ogni giorno, per il lavoro, e quello festivo e se si considerano le numerose varianti previste e prescritte per le varie occasioni e abitudini, solo allora si comprende quale è la ricchezza dei vari tipi e sottotipi che si incontrano fra il popolo, quale sia la abbondanza di questo tesoro popolare, tesoro che aspetta ancora di essere scoperto e studiato per giu-dicare di tutti i valori che contiene nel suo seno.Il costume popolare - come, del resto, ogni altra manifestazione della cultura popolare - na-sce, certamente, dalla necessità di soddisfare determinate esigenze di ordine pratico, ma non si esaurisce in esse.Il mondo contadino è sempre stato essenzialmente religioso, dunque intimamente consape-vole del limite umano e aperto al mistero della trascendenza; inoltre, esso era veicolo di una tradizione che, da un punto di vista cittadino e industriale, poteva anche apparire «statica», ma che, in realtà, evolveva anch’essa, sia pure più lentamente, e quindi si arricchiva costan-temente dell’apporto di creatività del singolo individuo.Nel modo di produzione industriale, l’elemento innovativo è affidato agli stilisti, i quali sono «costretti», dalle esigenze del mercato, a rivoluzionare continuamente le mode, in modo che il consumatore non possa mai servirsi troppo a lungo dello stesso capo di vestiario o dello stesso paio di scarpe. La filosofia di fondo dell’industria dell’abbigliamento è - come per ogni altro ramo dell’industria in economia capitalista - massimizzare il consumo del prodotto, ri-ducendo quest’ultimo alla dimensione unica di «merce».Al contrario, la filosofia di fondo che ispirava il modo di produzione artigianale, proprio della civiltà contadina, era quella di massimizzare la durata del prodotto, che non era propriamen-te una merce, sia perché veniva, generalmente, fabbricato in casa, sia perché svolgeva altre funzioni oltre a quella dell’uso immediato: ad esempio, come abbiamo visto, di fornire una serie di informazioni assai precise circa la condizione sociale e personale di colui, o colei, che indossava un determinato vestito.Si obietterà che questa funzione è svolta anche dalla moda odierna, ad esempio con i panta-loni strappati «ad arte», con le borchie sui giubbotti di pelle, con i tacchi a spillo delle scarpe femminili: ma con la sostanziale differenza che, in questi casi, si tratta di informazioni «ideo-logiche», afferenti la sfera dei desideri di colui che si abbiglia in un certo modo; mentre, nella civiltà contadina, si trattava di informazioni oggettive, illustranti la realtà fattuale.Ora, lo scopo della produzione degli oggetti nell’ambito della civiltà contadina - che si trat-

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tasse di edificare una casa, di confezionare un vestito o di intagliare una cassapanca - era, sì, quello di renderli atti a svolgere la loro funzione specifica e, inoltre, di durare nel tempo quanto più possibile; ma anche quello di allietare la vita mediante la fantasia, la creatività, il senso estetico di colui, o colei, che li fabbricava.Ecco perché, quando si parla di costumi popolari - o di abitazioni rustiche, o di tessuti a mano, riesce tanto difficile (e imbarazzante) decidere se inquadrarli nell’ambito dell’artigia-nato o in quello dell’arte.Rientrerebbero nell’ambito dell’artigianato quanto alla destinazione specifica (che è sempre di tipo pratico); ma in quello dell’arte se si considerano l’inventiva, la fantasia e il vivissimo senso estetico con cui, spesso, venivano realizzati.Chi potrebbe tracciare una netta linea di demarcazione fra i due ambiti, nel caso dei prodotti della civiltà contadina?La separazione categorica fra «arte» (nobile, perché disinteressata) e «artigianato» (plebeo, perché «interessato») è interamente frutto del mondo cittadino, borghese, commerciale, abituato a quantificare tutto e a dare un prezzo - ma non un valore - a ogni cosa. Essa è stata avallata, se non addirittura codificata, da quegli specialisti del sapere teorico che sono i professori universitari: persone imbevute di pregiudizi materialisti e scientisti, le quali non sapevano niente della civiltà contadina, e niente volevano saperne, perché la guardavano - oltretutto, con occhio distratto - dall’alto in basso.La verità è che, quando si prendono in esame moltissimi prodotti della civiltà contadina, e non solo materiali (si pensi alle canzoni, alle danze, ai racconti orali), bisogna aver chiaro nella mente che la sfera dell’uso pratico era inglobata in quella spirituale, che informava di sé ogni dimensione dell’esistenza. Non vi era, quindi, una distinzione rigida fra l’ambito della vita materiale e la dimensione trascendente; non più di quanto sia possibile stabilire una rigida distinzione fra il concetto di lingua e quello di dialetto (cosa che perfino i linguisti di formazione accademica si guardano bene dal tentare).E questo perché la vita, nella civiltà contadina, pur con tutti i suoi aspetti negativi, che certo non mancavano (non vogliamo farne, infatti, una esaltazione acritica e passatista, né cadere nella velleitaria contrapposizione roussoiana di «natura» e «cultura»), era pur sempre una vita organica, che investiva ogni aspetto della persona e che collegava strettamente l’indivi-duo alla comunità.Cosa che non si può certo dire della tanto decantata civiltà moderna, con tutte le sue luci scintillanti, il suo preteso benessere e le smisurate aspettative delle quali si autoalimenta, ma che - nonostante il suo frenetico dinamismo - non è mai in grado di soddisfare, generan-do così frustrazione, nevrosi e un alto livello di conflittualità permanente.Vorrei approfondire l’argomento, parlando del modo in cui il costume popolare si manifesta in diversi modi; ovvero, quando, dove e come, questi costumi li vediamo, e ci si ripropongo-no in alcune occasioni. Chi ha percorso l’Italia in questi mesi sarà stato colpito dalle tante feste e sagre che costellano la provincia e non soltanto la provincia. Qualche decennio fa sembravano destinate alla progressiva scomparsa poiché si sosteneva che il progresso tecnico e sociale con i suoi benefici, le avrebbe cancellate. Vi erano anche studiosi, come il marxista Ernesto De Martino, che erroneamente giudicavano quei riti sopravvivenze di un passato di ignoranza, di povertà e di stenti, prove di una disperazione e sintomi di una

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lotta fra classi subalterne e la Chiesa. Si è constatato invece che moltissime tradizioni sono rimaste vive; o sono state addirittura riproposte, dopo un periodo di eclissi, grazie all’interes-samento di giovani studiosi, musicisti e cantanti locali. Non a caso si moltiplicano anche le guide a feste e devozioni popolari. In pochi mesi si sono pubblicate la Guida alle sagre e alle feste patronali. Oltre 1000 luoghi e tradizioni di Umberto Cordier (Piemme), che offre una sintetica descrizione della festa insieme con varie notizie pratiche; la Guida insolita ai miste-ri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità delle feste popolari in Italia di Mauro Limiti, che ne propone una lettura più approfondita spiegandone l’origine storica o addirittura le radici precristiane, anche se talvolta il collegamento fra antico e moderno non è convincente. Per esempio collega la festa romagnola della Segavecchia, che Fellini sceneggiò in Amarcord, a un crudele eccidio di etruschi compiuto dai Romani nel 396, dopo la conquista di Veio. Ma la cerimonia romagnola simboleggia in realtà il rinnovamento annuale impersonato da una “vecchia” Madre Natura che, giunta alla fine dell’anno o dell’inverno decrepita, viene tagliata a pezzi e poi bruciata; e dal dal suo grembo escono frutta e dolci che simboleggiano i semi da cui rinascerà il nuovo anno nelle sembianze della giovinetta madre Natura. Alla deca-denza delle tradizioni popolari contribuirono nei decenni scorsi anche certi parroci e vescovi che, male interpretando il Concilio Vaticano II, avevano cercato di dissuadere i fedeli dal celebrarle perché privilegiavano e volevano imporre una religiosità astratta e interiore, molto più accettabile dalla dominante cultura neoilluministica. Ma la religiosità popolare contiene valori, come ad esempio l’espressione spontanea di gioia, che tradizionalmente non hanno trovato spazio nella liturgia, e permette soprattutto un contatto con il sacro più facile. Al mantenimento e alla rifioritura delle devozioni e tradizioni popolari ha contribuito infine un’istintiva reazione al processo di globalizzazione culturale che tende a uniformare usi e costumi e a vanificare l’identità dei popoli. Per questo motivo molte feste vedono da qualche tempo come organizzatori e protagonisti proprio i giovani. Ma non tutto è oro quel che risplende sulle piazze italiane. Spesso alcune tradizioni si sono trasformate in puro spettacolo perché sono state stravolte o riproposte soltanto allo scopo di attirare turisti domenicali in cerca di evasioni “esotiche”, come ad esempio le ormai stan-canti esibizioni in costume medievale che rievocano un episodietto storico avvenuto nel più sperduto paesini, o i palii che cercano di imitare pateticamente quelli più popolari. Vi sono poi feste e sagre che non hanno più senso perché si è sfaldata la civiltà contadina di una volta; sicché queste tradizioni si sono trasformate in reperti archeologici che divertono chi vuole evadere almeno per un giorno da quel grigiore metropolitano dove il tempo lineare tende a cancellare le feste. Sono invece ancora “popolari” e vitali quelle che, radicate in un tessuto sociale ancora tradizionale, vengono preparate e interpretate dalla popolazione con una partecipazione corale: così numerose che non è possibile citarle tutte.

6.4. Cronaca del costume popolareAlcune osservazioni su riproposta e studio del costume popolare. Di Gian Paolo Gri.

è lecito che danzerini e suonatori portino al polso orologio al quarzo o si mostrino con gli oc-��

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chiali da sole? è tollerabile che le ragazze in costume tradizionale usino il collant? Questioni del genere continuano ad essere dibattute con serietà nelle rassegne e nei concorsi folklori-stici e restano occasioni di deleteri travasi di bile per alcuni giurati. Ma sarebbe superficiale riderci su e dimenticare che queste discussioni intorno a forme di abbigliamento fattesi ormai esclusivamente “costumi di scena” si verificano all’interno di un giro dalle dimensioni poco note quanto ampie per interessi economici e politici, per il numero e la qualità dei grandi e piccoli centri di potere che ne sono coinvolti, per l’entità di un fenomeno che si mostra tutt’altro che effimero e capace di affratellare situazioni indipendentemente dalle frontiere politiche, ideologiche e di gusto.Molti folkloristi stanno al gioco e accettano di fornire il paravento culturale richiesto dai finan-ziatori delle manifestazioni; ad altri queste manifestazioni sono indigeste: ce n’è abbastanza per interrogarsi ancora una volta sulla colpa originale del folklore che sembra non lasciare alternative fra purezza e meretricio quando si abbia a che fare con la questione della ripro-posta dei costumi tradizionali e popolari.Il peccato è manifesto fin dall’inizio. Penso alle motivazioni così diverse che reggevano le due contemporanee inchieste del 1811 impegnando i professori di disegno sui costumi e sulle abitazioni rurali: questa seconda (come altre allora) dichiaratamente volta a conoscere per cambiare e migliorare, la prima per documentare ed ammirare. Del resto, la circolare Scopoli del 17 aprile 1811 da cui si fa tradizionalmente iniziare il periodo delle indagini sul costume popolare (anche se poi ogni volta che ricerche locali scavavano più a fondo emerge documentazione precedente che fa apparire quell’inchiesta piuttosto effetto di un atteggia-mento già diffuso nei confronti dell’abbigliamento popolare che sua causa) orientava espli-citamente la ricerca lungo tre direttrici:- “le fogge che si usano ancora”: sollecitando l’occhio dei rilevatori a guardare a forme di ab-bigliamento vistosamente fuori linea rispetto alla media corrente e interpretabili come forme di sopravvivenza. Non a caso si ritroveranno ancora in vita un po’ dovunque anche in Italia balze di legionari, copricapi fenici, pellicce di età romana, accessori bizantini, veste minoi-che, ricami saraceni e via dicendo, fantasia accanto a fantasia;-”gli abitanti delle campagne”: preferendo già alle altre l’opposizione città/campagna e ca-ratterizzando in questa direzione il nuovo interesse per il costume, rispetto all’interesse pre-cedente, già cinquecentesco, per altre forme particolari di abbigliamento come le fogge dei mestieri, gli abiti cerimoniali dei funzionari pubblici, le livree, le uniformi, il mondo dei margi-nali, ecc.;-”particolari a dati paesi”: privilegiando fra le tante funzioni dell’abbigliamento quella di iden-tificazione della collettività di appartenenza e fra le tante opposizioni quella che opponeva villaggio a villaggio, area ad area.Tre direttrici tutte attente, come si vede, esclusivamente al punto di vista di chi il costume non lo indossa, ma lo guarda indossare. Inizia da qui la vicenda che vede alcuni cercare e ammirare costumi pittoreschi in senso letterale), e altri abbandonare -appena avvertono su di sé l’odore del pittoresco- il proprio abbigliamento tradizionale.Ho tenuto l’elenco delle occasioni nelle quali quest’ultimo anno mi è capitato di vedere in-dossati costumi tradizionali (forme di abbigliamento definite come “costume”: non distinguo qui fra costumi reali e costumi rifatti e fra livelli diversi di riproposta) nell’Italia settentrionale:

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musei etnografici, rassegne ed esibizioni folkloristiche e di folkrevival, hostess negli stands di mostre e fiere (in particolare in quelle di artigianato regionale e di agricoltura), cameriere, serate conclusive di premi letterari ( un’occasione che vede le ragazze in costume in concor-renza con le bambine in tutù), processioni, sagre, feste politiche, cinema, teatro dialettale. Non c’è dubbio: i costumi tradizionali (questi “costumi tradizionali”) sono perfettamente inse-riti nel mondo d’oggi a coprire esigenze di diversità che dentro il mondo d’oggi si manifesta-no. Esiste l’aumentato di tasso di artificiosità.

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Frustatori Frustatori

Danzerini Canterini

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BIBLIOGRAFIA

Cinquant’anni di vita dei canterini e danzerini romagnoli di Imola. Di Giuseppe Pelliconi, Gio-vanni Vinci. Ed. Grafiche Galeati, Imola, 1977.

Lo scorrere del paesaggio. Il trasformarsi della pianura romagnola dalla presitoria al ‘900. A cura di Angelo Varni. Pieri Luigi Dall’aAglio, Carlotta Franceschelli, Alberto Malfitano, Omar Mazzotti, Roberto Parisini. Ed. Faenza 2007. Trama e ordito (mamme che tessono la vita), Maria Cristina Muccioli. Ed. ilPonte, 1999.

La mia Rimini- Federico Fellini.

Usi e Costumi di Romagna. A cura di Mario Turci.

Il Passatore; le imprese brigantesche di Stefano Pelloni nella Romagna ottocentesca. Di Remo Ragazzini Marzio e Roberto Casalini.Moda e società -Scopri l’Emilia Romagna. Giovanna Franci, Rosella Mangaroni, Filippo Raf-faelli.

Catalogo del Museo MET: museo usi e costumi della gente di romagna.

Costume in Cartolina: alcune osservazioni su riproposta e studio del costume popolare. Di Gian Paolo Gri.

Adriatico mare d’Europa: L’economia e la storia. Fabio Fiori.

Mente locale: Per un’antropologia dell’abitare, Franco La Cecla.

Riccione: Storie di vita notturna, Bepi Savioli.

Romagnoli: Il popolo del liscio, Alfredo Antonàros

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ICONOGRAFIA

Catalogo del museo MET: museo usi e costumi della gente di romagna.

Museo Etnografico di Forlì.

Biblioteca Comunale Forlì, Raccolta Piancastelli, Cartoline Romagnole.

EcoMuseo della cività Palustre, di Bagnacavallo.

Museo della Marineria di Cesena.

Poalo e Francesca, William Dyce, 1837.

Basilica di San Vitale, Ravenna.

Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna.

Sant’ Apollinare in Classe, Ravenna.

I magné d’una volta. Antichi mangiari romagnoli. A cura di rino zoffoli. Ed.il ponte vecchio.

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