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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI

PERUGIA

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea in Fisioterapia

Presidente Prof.ssa Maria Bodo Lumare

ASPETTI COGNITIVI E

COMPORTAMENTALI NEL

TRATTAMENTO RIABILITATIVO

DELLA

SINDROME FRONTALE

Relatore Candidata

Dott. Mauro Zampolini Manuela Micanti

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“ La Creazione di Adamo”

Michelangelo Buonarroti, 1511

Osservando la volta della Cappella Sistina l'occhio del medico può cogliere nella

"Creazione di Adamo" insospettate somiglianze tra l'immagine di Dio che infonde lo

spirito in Adamo, e l'immagine di un cervello umano.

Nella "Creazione di Adamo", con enorme sorpresa, è stato infatti constatato che il

gruppo di angeli attornianti la figura di Dio crea una sagoma incredibilmente simile

all'immagine di una sezione sagittale del cervello.

Sono ben visibili il contorno della volta del cervello, e della base; l'arco del braccio

sinistro di Dio delinea il giro del cingolo, il panneggiamento verde alla base descrive

il corso dell'arteria vertebrale; la schiena dell'angelo che sorregge Iddio corrisponde

al ponte di Varolio, mentre le sue gambe si prolungano a costituire il midollo spinale.

Perfino il dettaglio della struttura bilobata dell'ipofisi è riprodotto fedelmente nel

piede apparentemente bifido di un angelo, a differenza degli ordinari piedi di Dio e

degli altri cherubini, dotati delle consuete cinque dita; mentre la coscia dello stesso

angelo si staglia in corrispondenza del chiasma ottico.

Il dito indice di Dio, che punta verso Adamo, e lo rende umano, emerge dalla

corteccia prefrontale.

Nessuno sa se l’allegoria fosse stata cercata da Michelangelo, o se si tratti di una

coincidenza.

D’altra parte, è difficile immaginare un simbolo più potente del profondo effetto

umanizzante dei lobi frontali: essi sono davvero l’ ”organo della civiltà”.

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Premessa

Il movimento e la sua patologia possono essere analizzati facendo ricorso a ottiche

diverse nei vari ambiti scientifici.

In riabilitazione, dove il paradigma di base è quello dell’apprendimento o il

riapprendimento di strategie, è necessario analizzare il comportamento umano nella

sua globalità.

Fino a pochi anni fa la riabilitazione neuromotoria era focalizzata selettivamente sui

pattern motori. Più recentemente, si è sempre più delineata l’importanza delle

strategie comportamentali in relazione al contesto ambientale come base per

facilitare o inibire specifiche attività motorie.

Argomento del presente lavoro è l’interpretazione del comportamento alla luce delle

attuali conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso e la sua ricaduta pratica

nella riabilitazione neuromotoria.

Le neuroscienze sono diventate una chiave di lettura generale dell’interazione

dell’uomo o degli animali con l’ambiente, correlando l’attività neuronale a specifici

comportamenti, in un modo che solo fino a qualche anno fa nessuno avrebbe avuto

l’idea di analizzare mediante uno studio sperimentale; la stessa didattica sta sempre

più assumendo un’ottica fondata sulle neuroscienze, utilizzando programmi e

modalità di valutazione che fanno riferimento diretto alle teorie dell’apprendimento

nei termini della relazione tra processi mentali e strutture cerebrali.

La metodologia di riferimento è fornita dalla neuropsicologia, il settore delle

neuroscienze che è nato come studio dei disturbi cognitivi e del comportamento

conseguenti ad una patologia cerebrale ma che rapidamente, e ancor più ai nostri

giorni grazie al contributo delle più recenti tecnologie, è divenuta studio del

comportamento a tutto campo.

Le conseguenze neuropsicologiche di una lesione cerebrale, coinvolgono sia le

componenti comportamentali che quelle cognitive. I disturbi cognitivi, riflettendo i

deficit organici e quelli funzionali derivanti dalla lesione cerebrale, rappresentano

un grave e costante problema, interferendo con i processi di recupero, con

l’equilibrio psichico e comportamentale e con le possibilità di reinserimento

scolastico e lavorativo. I processi cognitivi che implicano la prontezza di risposta

ad uno stimolo sensoriale, l’attenzione, la capacità di capire le informazioni, l’inizio,

l’inibizione, la pianificazione e l’obiettivo dell’attività mentale, sono tutti esempi

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della funzione cognitiva essenziale che converte il movimento in un’azione diretta e

mirata. Quindi la disfunzione del movimento può essere il risultato sia del deficit

delle capacità cognitive che di quelle motorie.

La scelta di sviluppare un tema complesso come quello della sindrome frontale, così

come l’impostazione generale del lavoro, è stata fortemente influenzata dalla

professionalità e competenza dimostrata da coloro che si occupano di rieducazione

presso quegli Istituti di Riabilitazione in cui ho fatto le mie prime esperienze, dove la

neuropsicologia viene considerata una scienza eminentemente interdisciplinare per

la gestione di queste problematiche.

All’interno di queste strutture ho potuto osservare direttamente gli effetti devastanti

di questa patologia sul comportamento dei soggetti colpiti; da questo ho maturato la

consapevolezza che la rieducazione fisica dei pazienti con lesioni frontali richiede

un’approfondita conoscenza non soltanto delle funzioni motorie, ma anche di tutte le

altre funzioni corticali superiori.

Per queste ragioni, questo lavoro affronta il tema della riabilitazione neuromotoria

da una prospettiva più ampia, che è quella neuropsicologica.

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Ringraziamenti

Questa tesi è il risultato di un percorso di studi ma, soprattutto, di un percorso

interiore che mi ha portato a scegliere questo argomento per due ragioni: la prima,

che è più facile da esprimere, è stato un interesse personale nei confronti di una

patologia che, per la sua complessità, risulta spesso difficile da interpretare ed

altrettanto difficile da trattare in riabilitazione; la seconda ragione, che è più

significativa, è stata la crescente consapevolezza che a volte, per dare un significato

alla riabilitazione, è necessario guardare oltre le conoscenze didattiche che può

fornire un Corso di Laurea in Fisioterapia.

Sono riconoscente a tutte le persone che hanno contribuito a trasmettermi questo

genere d’interesse: a tutti i Coordinatori del Corso di Laurea in Fisioterapia, per

essersi resi sempre disponibili nel venire incontro alle esigenze di tutti noi studenti;

a tutti i tutor e ai docenti, per avermi insegnato, non solo gli aspetti metodologici,

ma soprattutto quelli propriamente umani della professione e grazie ai quali ho

avuto modo di mettere alla prova le mie capacità; a tutti i pazienti, per avermi dato

l’opportunità di apprendere dalle loro condizioni patologiche.

Desidero ringraziare coloro che, operando presso l’Unità Operativa di

Riabilitazione Intensiva Neuromotoria (U.O.R.I.N.) di Trevi, hanno collaborato

all’elaborazione di questo lavoro: il Dott. Mauro Zampolini, per la sua disponibilità

e per aver suscitato in me una profonda inclinazione nei confronti della

riabilitazione neuromotoria; Rita Moretti, logopedista del Servizio di

Neuropsicologia, che ha ispirato il mio lavoro e messo a disposizione la sua

professionalità dedicandomi il suo tempo; ancora, la Dott.ssa Elisabetta Todeschini,

Responsabile dell’U.O.R.I.N., presso il quale ho seguito l’iter riabilitativo del

paziente; infine, ringrazio il paziente e la sua famiglia, per avermi consentito di

descrivere la sua storia.

A tutte queste persone, grazie…

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Indice

Introduzione _________________________________________________________ 1

1. I sistemi di controllo e il lobo frontale___________________________________ 3

1.1 Lobo frontale e sviluppo cognitivo ________________________________________3 1.2 Organizzazione del movimento e pianificazione dell’azione____________________5 1.3 Richiami anatomici_____________________________________________________6

1.3.1 Corteccia motoria _________________________________________________________7 1.3.2 Corteccia premotoria _______________________________________________________8 1.3.3 Corteccia prefrontale _______________________________________________________9 1.3.4 Corteccia prefrontale dorsolaterale____________________________________________11 1.3.5 Area frontale oculocefalogira ________________________________________________12 1.3.6 Corteccia cingolare anteriore ________________________________________________12 1.3.7 Corteccia orbitofrontale ____________________________________________________13

2. La sindrome frontale _______________________________________________ 15

2.1 Patogenesi __________________________________________________________16 2.2 Sindrome frontale e trauma cranico ______________________________________17 2.3 Strategie comportamentali e sindrome disesecutiva _________________________18 2.4 Disturbi del comportamento e della personalità_____________________________22 2.5 Disturbi dell’attenzione ________________________________________________26 2.6 Disturbi di memoria ___________________________________________________28 2.7 Disturbi dell’apprendimento ____________________________________________30 2.8 Disturbi del linguaggio _________________________________________________31 2.9 Anosognosia __________________________________________________________32 2.10 Confabulazione ______________________________________________________32 2.11 Disinibizione / Disforia ________________________________________________33

3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi________________ 35

3.1 Plasticità neuronale ___________________________________________________36 3.2 La riabilitazione come apprendimento____________________________________39

3.2.1 Comportamentismo ________________________________________________________40 3.2.2 Cognitivismo _____________________________________________________________43 3.2.3 Conclusioni ______________________________________________________________46

3.3 La riabilitazione neuropsicologica ________________________________________47

4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale ________________ 49

5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali ________________ 61

5.1 Riabilitazione dei disturbi delle funzioni esecutive __________________________62 5.2 Trattamento dei disturbi comportamentali_________________________________67

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5.2.1 Trattamento dei comportamenti inadeguati “in difetto” ____________________________69 5.2.2 Trattamento dei comportamenti inadeguati “per eccesso” __________________________70 5.2.3 Trattamento dei comportamenti inadeguati per condizioni, tempi e modalità____________72

5.2.3.1 Trattamento dei disturbi della consapevolezza ____________________________ 72 5.2.3.2 Trattamento della disinibizione________________________________________ 73 5.2.3.3 Trattamento della confabulazione______________________________________ 74

5.3 Conclusioni___________________________________________________________74

6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su

un singolo caso_______________________________________________________ 76

6.1 Problem solving _______________________________________________________76 6.1.1 I “passi” del processo di problem solving_______________________________________77

6.2 Descrizione di un caso clinico ____________________________________________79 6.2.1 Materiali e metodi dello studio _______________________________________________82 6.2.2 Risultati _________________________________________________________________86 6.2.3 Discussione dei risultati ____________________________________________________97

Conclusioni ________________________________________________________ 100

Bibliografia ________________________________________________________ 103

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Introduzione

Introduzione

Il comportamento di un individuo con lesione cerebrale è direttamente collegato

all’integrità della funzione cognitiva: i disturbi comportamentali sono le

manifestazioni esterne osservabili quando l’individuo, privato di questa facoltà,

reagisce o risponde all’ambiente circostante.

I test neuropsicologici , le valutazioni del linguaggio e della parola, gli esami visivi e

percettivi e le analisi comportamentali e sociali sono esempi di strumenti clinici

utilizzati per determinare il livello del disturbo cognitivo e comportamentale.

Il terapista deve saper interpretare il deficit sia delle lesioni fisiche e cognitive, sia

del modo in cui queste interagiscono, per disporre di un quadro clinico completo che

rispecchi il vero livello di disabilità del paziente.

Esprimere il livello di capacità fisica di un soggetto, senza far riferimento ai deficit

cognitivi, può portare ad una errata valutazione del livello di indipendenza

funzionale. Questo implica anche il fatto che il terapista deve allargare le proprie

prospettive ed aspettative ai risultati funzionali e al ruolo della sua attività nella

rieducazione funzionale: un individuo che può muoversi da solo in casa, ad esempio,

ma non è capace di chiamare aiuto in caso di emergenza, è tanto dipendente

dall’assistenza, quanto un individuo che sa chiamare aiuto, ma non può muoversi.

Mentre il terapista non è il membro dell’equipe principalmente responsabile della

valutazione delle lesioni cognitive e comportamentali, è invece responsabile della

possibilità di espandere le abilità fisiche nel contesto di un comportamento

determinato, che porti a risultati funzionali, rilevanti e di successo.

Questo approccio, che enfatizza gli aspetti più specificatamente cognitivi del

comportamento, è particolarmente adatto per affrontare i problemi della

riabilitazione dei disordini neuropsicologici, e permette di definire i limiti che la

struttura stessa del sistema cognitivo e l’organizzazione delle aree corticali che

sottendono tali processi impongono sulle possibilità di recupero funzionale.

Per evitare che la riabilitazione si basi su criteri puramente empirici, che

rischierebbero di produrre comportamenti riabilitativi non replicabili o

generalizzabili, è necessario che la diagnosi clinica del danno si accompagni alla

conoscenza dei modelli neurocognitivi delle funzioni interessate, affinché possano

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Introduzione

essere sollecitati e messi in atto i meccanismi risparmiati dalla lesione in modo da

poter sfruttare tutto il potenziale cognitivo del paziente in funzione del recupero.

La complessa sintomatologia neuropsicologica conseguente a lesioni dei lobi frontali

(soprattutto delle loro porzioni anteriori) va conosciuta da coloro che si occupano di

rieducazione per almeno due importanti ragioni:

1) molto spesso questi pazienti sono apatici, hanno scarsa iniziativa, mancano di

senso critico e autocritico, sono indifferenti alla propria malattia: al contrario, talora

possono presentarsi inappropriatamente euforici e quindi essere poco collaboranti

con il rieducatore.

Questo comportamento non va erroneamente interpretato come disturbo psichiatrico

o altro, ma va riconosciuto come sintomo caratteristico della sindrome;

2) i difetti perseveratori (motori e verbali), i deficit attentivi e il disturbo di memoria

possono gravemente ostacolare il compito del rieducatore.

Alla luce di queste considerazioni l’intervento riabilitativo deve tener conto di tutti i

parametri del comportamento ritenuti soggettivi ( intenzionalità, attenzione,

motivazione, spazialità, ecc…) poiché la lesione altera la capacità di elaborare

significativamente le informazioni esterne, che a loro volta influenzano il

movimento, espressione di un gesto motorio evoluto che deve essere significativo,

ossia avere una precisa relazione con il contesto.

In questo lavoro viene presentata una revisione critica sull’argomento, accompagnata

da uno studio su un caso clinico di sindrome frontale.

Il taglio complessivo è neuropsicologico clinico, al fine di fornire gli elementi

semeiotici fondamentali per poter riconoscere una sindrome frontale e per guidare lo

sviluppo di interventi terapeutici che facilitino l’apprendimento di comportamenti

sempre più complessi in condizioni patologiche.

Nella parte finale verrà esposto l’iter riabilitativo di un paziente, focalizzato

sull’apprendimento e l’attuazione del problem-solving.

Questa descrizione intende da un lato favorire la comprensione della patologia

frontale e dall’altro permette di osservare “sul campo” l’impatto di una strategia di

intervento, con uno sguardo particolare al profilo globale del paziente, con le sue

peculiarità e problematiche sia cliniche che umane.

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

Capire il ruolo dei lobi frontali nella cognizione umana rimane una sfida per i

neurologi ed i neuroscenziati. Tuttavia, i dati ottenuti da studi recenti di

neurofisiologia dimostrano che il comportamento finalizzato dipende criticamente

dalla funzione dei lobi frontali e, in modo specifico, dalla corteccia prefrontale.

In questo capitolo viene avanzata l’ipotesi che una conoscenza approfondita dei

meccanismi neuronali che stanno alla base della funzione della corteccia prefrontale,

può aiutarci a capire i deficit derivanti da una sindrome frontale e, cosa più

importante, può potenzialmente guidare lo sviluppo di interventi terapeutici efficaci.

1.1 Lobo frontale e sviluppo cognitivo

I lobi frontali, che nell’uomo costituiscono da soli circa 1/3 della corteccia cerebrale,

sono l’ultima conquista nell’evoluzione del sistema nervoso e raggiungono uno

sviluppo significativo solo negli esseri umani. Un’ipotesi molto seguita, anche se non

universalmente accettata, associa ai lobi frontali, ed in modo particolare alle loro aree

prefrontali, le funzioni intellettive superiori.

Esistono molte ragioni per attribuire alla corteccia prefontale tali funzioni: nell’uomo

è una delle regioni corticali a subire la maggiore espansione sia nel corso

dell’evoluzione che nella maturazione individuale, è una delle strutture cerebrali

filogeneticamente più recenti e tra quelle che maturano più lentamente nel corso

dell’ontogenesi, inoltre essa è molto più sviluppata rispetto alle altre aree corticali,

tanto da farla sembrare la parte della corteccia tipicamente umana.

Il prolungato sviluppo, relativamente ampio, della corteccia prefrontale, è evidente

sia nella morfologia che nella struttura: essa è estremamente ricca di connessioni

efferenti ed afferenti che la collegano a tutti i sistemi funzionali del cervello. Durante

lo sviluppo individuale, la tarda maturazione è associata alla tarda mielinizzazione

delle sue connessioni assonali. Questo ed altri segni di sviluppo morfologico sono

correlati con lo sviluppo delle funzioni cognitive, attribuite a questa corteccia dai più

recenti studi neuropsicologici sugli animali e sull’uomo.

Legati all’intenzionalità, alla determinazione e all’attività decisionale complessa, i

lobi frontali sono coinvolti in tutti gli aspetti del comportamento adattivo

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

all’ambiente e sono fondamentali ai fini di tutti i comportamenti di ordine superiore

diretti ad uno scopo: l’identificazione dell’obbiettivo, la progettazione e l’ideazione

di piani per raggiungerlo, l’organizzazione dei mezzi con i quali tali piani possono

essere eseguiti, il monitoraggio e la valutazione delle conseguenze per la verifica del

risultato.

Essi sono essenziali per la coscienza superiore, il giudizio, l’immaginazione,

l’empatia; guidano l’essere umano nelle novità, nelle innovazioni e nelle avventure

della vita, sono fondamentali per la motivazione, l’attenzione, l’impulso, la capacità

di previsione e la chiara visione dei propri obiettivi, elementi essenziali affinché

qualsiasi processo di apprendimento vada a buon fine e per conseguire il successo in

molte attività.

In altre parole i lobi frontali rappresentano quell’unica parte del cervello che fa di un

individuo ciò che è, definisce la sua identità e ne racchiude pulsioni, ambizioni,

personalità ed essenza.

La cognizione umana guarda avanti, prende attivamente l’iniziativa piuttosto che

limitarsi a reagire, è mossa da obiettivi, piani, aspirazioni, ambizioni e sogni, tutte

cose che hanno a che fare con il futuro e non con il passato. Queste facoltà cognitive

dipendono dai lobi frontali ed evolvono con essi.

In senso lato, i lobi frontali sono il meccanismo per liberarsi dal passato e proiettarsi

nel futuro, conferiscono all’organismo l’abilità di crearsi i modelli neurali delle cose,

quale prerequisito per far si che quelle cose accadano, modelli di ciò che non esiste

ancora ma che noi vogliamo portare in essere. La civiltà non avrebbe mai potuto

sorgere senza il grande sviluppo, nel cervello umano, dei lobi frontali. D’altra parte,

uno scarso sviluppo, o una lesione che li abbia danneggiati, possono produrre un

comportamento privo di vincoli sociali e di senso di responsabilità.

Poiché essi non sono legati ad una singola funzione facilmente definibile, le prime

teorie sull’organizzazione del cervello negarono loro qualsiasi ruolo importante ed

essi furono anzi indicati come “lobi silenti”, zone del cervello cioè la cui lesione non

dava origine a manifestazioni clinicamente evidenti. Questa considerazione aveva

implicazioni cliniche dirette, basta pensare al successo della pratica della lobotomia

frontale; tuttavia il paradosso risultava evidente e costituiva il cosiddetto “enigma dei

lobi frontali”. Sulla scorta dello sviluppo storico delle conoscenze e di quanto è

attualmente noto, le difficoltà incontrate nella comprensione del ruolo dei lobi

frontali appaiono giustificate. Il fatto è che la sintomatologia frontale non si

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

manifesta attraverso deficit specifici di senso o di moto ma con una

disorganizzazione generale del comportamento.

1.2 Organizzazione del movimento e pianificazione dell’azione

Mentre l’esecuzione di un movimento riflesso o automatico richiede un montaggio

relativamente semplice in quanto biologicamente determinato e strettamente

dipendente dalla maturazione neurologica e fisiologica, la realizzazione di un

movimento intenzionale è molto sofisticata.

Atto finale di una serie di tappe computazionali, esso dipende dalla combinazione di

maturazione, motivazione, pratica e possibilità di apprendimento: si parla pertanto di

pianificazione dell’azione.

E’ importante notare che mentre alcune funzioni incluse in questa “concatenazione”

rinviano a strutture primarie sensomotorie (corteccia motoria e somestesica) altre si

basano su processi cognitivo-comportamentali (corteccia premotoria, corteccia

prefrontale, corteccia parietale) ( Figura 1). In più, questo insieme funziona

essenzialmente in modalità ad “anello chiuso”. Le afferenze somestesiche informano

di ritorno sia le aree primarie che quelle associative. La scelta del o dei programmi è

legata intimamente al lavoro centrale compiuto dalle strutture associative (corteccia

prefrontale, corteccia cingolare anteriore, corteccia parietale posteriore) in un

contesto motivazionale. Il programma scelto corrisponde a una classe generale di

risposte motorie adatta allo scopo motivato.

La pianificazione dell’azione è in generale fondata su una concezione gerarchizzata:

Hughlings Jackson l’ha modellata mescolando localizzazionismo e filogenesi. Così,

ogni settore corticale o sottocorticale sottende una funzione. In seguito le

archeostrutture si vedono infeudate nelle paleostrutture e infine le paleostrutture

nelle neostrutture.

Questo modo di pensare domina lo studio del funzionamento neuronale in rapporto

con il movimento fin negli anni 1980. La concezione gerarchizzata o diacronica ha

visto attenuato il suo peso da lavori più recenti in anatomia, elettrofisiologia e

indagini per immagini funzionali. In particolare il lavoro di Godman-Rakic ha

rivelato che diverse aree associative, tra cui la corteccia parietale posteriore, sono

formate da sottoinsiemi che si attivano simultaneamente durante la pianificazione

dell’azione (Godman-Rakic, 1988). Infine gli studi, soprattutto nell’uomo, con

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

immagini funzionali (RMNf, PET, MEG), fanno emergere chiaramente la nozione di

reti attive in modalità parallela in numerosi compiti cognitivo-motori.

In altri termini, il concatenamento in reti distribuite in parallelo tende a instaurare un

funzionamento sincrono delle strutture che partecipano alla pianificazione e

all’esecuzione dell’azione.

1.3 Richiami anatomici

La corteccia frontale, sita anteriormente alla circonvoluzione post-centrale, può

essere suddivisa in tre regioni principali: la circonvoluzione precentrale, la regione

premotoria e la regione prefrontale.

Nei mammiferi inferiori esiste un’unica regione senso-motoria che incorpora sia

l’area motoria che l’area premotoria. Queste due aree si differenziano nei carnivori,

nei quali cominciano a comparire elementi cellulari caratteristici della corteccia

prefrontale, la quale giunge a pieno sviluppo solo nei primati ed in particolare

nell’uomo. Il processo di ontogenesi è parallelo alla filogenesi: prima si differenzia

l’area motoria, poi quella premotoria ed infine quella prefrontale. Quest’ultima

giunge a pieno sviluppo solo tra i 7 e i 12 anni di età: infatti, il processo di

mielinizzazione delle fibre nervose termina nelle aree prefrontali. Questo dato

ontogenetico va di pari passo con l’osservazione di comportamenti perseverativi in

risposta ad ordini verbali complessi (sintomo, questo, presente in pazienti adulti

affetti da lesioni frontali) in bambini di 3-4 anni di età.

Lo sviluppo importante del lobo frontale è dunque caratteristico delle specie più

evolute, in particolare di quella umana. Questo fatto, insieme alla particolare

sintomatologia neuropsicologica osservata a seguito di lesioni dei lobi frontali, ha

indotto molti Autori ad attribuirgli un ruolo cruciale nella regolazione dei

comportamenti più complessi ed “intelligenti”, cioè del comportamento tipicamente

“umano”.

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

Figura 1. Aree corticali primarie e associative implicate nella pianificazione dell’azione. La numerazione

corrisponde alla classificazione di Brodmann. Corteccia motoria area 4; corteccia somestesica aree 3, 1, 2:

corteccia premotoria area 6 (faccia laterale); area motoria supplementare area 6 (faccia mesiale); area frontale

oculocefalogira area 8. Settore prefrontale: corteccia dorsolaterale prefrontale area 46, 45, 9 e 10, corteccia

orbitofrontale 47, 25, 11 e 10. L’area 10, iscritta nei punteggiati, è comune ai due territori. Corteccia cingolare

anteriore area 24 c, 32 (faccia mesiale). Settore parietale posteriore: aree 5 e 7 (7a e 7b) allargate alle aree 39 e

40 (da Gazzaniga et al., modificata).

1.3.1 Corteccia motoria

La corteccia motoria si trova nella regione pre-centrale (area 4 di Brodmann) (figura

1), anteriormente al solco centrale ed occupa all’incirca il terzo posteriore dei lobi

frontali. Dall’area 4 partono i comandi motori per i motoneuroni del tronco

dell’encefalo e del midollo.

Si caratterizza per la presenza di cellule piramidali giganti del Betz nel 4° strato e per

la completa assenza dello strato granulare. La funzione motoria di quest’area e la

rappresentazione corticale con ordinamento somatotopico sono note dalla seconda

metà dell’800: zone diverse del corpo sono rappresentate in zone diverse della

corteccia. I muscoli del volto sono rappresentati nella parte inferiore del giro

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

precentrale, sulla superficie laterale dell’emisfero, mentre braccio, tronco e gamba

sono rappresentati più medialmente. I gruppi muscolari deputati ai movimenti fini

hanno una rappresentazione più ampia rispetto ai gruppi muscolari deputati ai

movimenti grossolani.

Secondo la visione tradizionale, basata sulle interpretazioni di Jackson e di

Sharrington, la corteccia motoria sarebbe organizzata in termini di movimenti, cioè

coordinerebbe e comanderebbe la contrazione di interi gruppi muscolari. Questa

visione si basava sul fatto che stimolazioni elettriche sulla superficie corticale

provocavano la contrazione di molti muscoli contemporaneamente, mantenendo la

relazione attesa tra agonisti e antagonisti. Per stimolare le cellule motrici dell’area 4

della superficie corticale è necessaria una corrente che penetri in profondità fino al 5°

strato dove sono localizzati i motoneuroni. Gli esperimenti di Asanuma e colleghi

invece hanno dimostrato, stimolando la corteccia con microelettrodi profondi,

l’esistenza di zone discrete di neuroni efferenti che controllano la contrazione di

singoli muscoli. Gli sudi di Asanuma hanno anche dimostrato che questi neuroni

ricevono degli impulsi afferenti dagli stessi muscoli a cui proiettano. Inoltre le cellule

che proiettano ad un particolare pool di motoneuroni spinali si raggruppano in

colonne radiali del diametro di circa 1 mm. Altri studi hanno mostrato che i neuroni

corticali, oltre a far contrarre singoli muscoli, codificano la forza con cui il muscolo

si deve contrarre, sia la velocità di variazione della forza che il livello di forza in

condizioni statiche.

1.3.2 Corteccia premotoria

Le cortecce premotorie comprendono la parte posteriore delle tre circonvoluzioni

frontali.

Situate davanti alla corteccia motoria primaria si differenziano da questa per

l’assenza delle cellule giganti e per la presenza di grosse cellule piramidali nel 3°

strato. Hanno un ruolo importante nella pianificazione dell’azione, integrando delle

informazioni sensoriali necessarie alla realizzazione del gesto e controllando

l’attività dei neuroni della corteccia motoria primaria. La realizzazione di un

movimento armonioso richiede la combinazione di numerosi muscoli la cui

contrazione obbedisce ad una programmazione spazio-temporale precisa.

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

Le cortecce premotorie sono implicate nella coordinazione e nel concatenamento nel

tempo delle contrazioni muscolari sinergiche necessarie per la realizzazione dell’atto

motorio, in funzione del contesto motivazionale e ambientale.

Diverse regioni corticali intervengono in questa funzione; ognuna di esse realizza un

trattamento parallelo dell’informazione. Si distinguono due tipi principali di

corteccia premotoria, situati rispettivamente in regione dorsolaterale (area 6 laterale)

e mediana (area 6 mediana o area motoria supplementare) (figura 1). Sono a loro

volta suddivise in diverse aree che hanno delle specificità funzionali e delle

connessioni anatomiche proprie.

Un elemento importante che determina il funzionamento delle regioni premotorie è la

loro connessione con il lobo parietale. Esistono in effetti delle proiezioni precise tra

ogni regione della corteccia parietale e ogni regione della corteccia premotoria.

Questi circuiti prefrontali rappresentano altrettanti moduli di trattamento

dell’informazione in seno ai quali si elaborano gli schemi motori fondamentali o

rappresentazioni centrali dell’attività gestuale (coordinazione vasomotoria,

prensione, manipolazione, pianificazione sequenziale). D’altra parte, l’attività in

seno a queste cortecce premotorie viene modulata da altre cortecce associative

prefrontali situate più a monte nel processo decisionale. Queste prendono in carico

gli aspetti motivazionali (corteccia orbitofrontale e cingolare) e computazionali

(corteccia prefrontale dorsolaterale) del comportamento.

1.3.3 Corteccia prefrontale

La regione prefrontale comprende la parte anteriore delle tre circonvoluzioni frontali,

il giro frontale mesiale e il giro orbitale,corrispondente alle aree 9, 10, 11, 12, 46, 47

secondo la classificazione di Brodmann (fig. 1). Tali aree si distinguono dalle regioni

attigue (aree 4, 6 e 8) per l’assenza di cellule piramidali giganti, per il considerevole

sviluppo dello strato granulare e per le connessioni talamiche. La regione prefrontale

è collegata con le aree corticali di elaborazione delle informazioni visive, acustiche e

somestesiche (lobi occipitale, temporale e parietale), con le restanti aree frontali

(motorie), con il sistema limbico, principalmente tramite il nucleo dorso mediale del

talamo, e con l’ipotalamo.

9

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

Le aree prefrontali occupano una posizione unica nell’economia cerebrale, perché

non esiste funzione cognitiva cui esse siano estranee, e che quindi non risenta della

loro sofferenza, e non esiste nemmeno funzione che esse assolvano in modo

esclusivo, e quindi venga meno in loro assenza.

La loro peculiarità sembra consistere nel provvedere l’intera attività cognitiva e

comportamentale di regole e modalità che sono indispensabili perché l’orizzonte del

soggetto sia abbastanza ampio da consentirgli scelte coerenti e decisioni proficue,

evitando invece quelle in prospettiva dannose o inutili. Esse appaiono in tal modo al

centro dell’attività nervosa cui sono connesse le qualità intellettive e caratteriali che

connotano la personalità dell’individuo e ne determinano lo stile di vita.

La pianificazione dei comportamenti si basa su un’analisi cognitiva delle

informazioni che porta a delle risposte comportamentali adeguate alle condizioni

dell’ambiente. Qualsiasi attività finalizzata presuppone tuttavia uno stato

motivazionale sufficiente, così come una capacità da parte del soggetto di focalizzare

la sua attenzione su alcuni aspetti del trattamento dell’informazione.

Questi due elementi fondamentali, motivazione e attenzione, sono intimamente legati

e rappresentano la base stessa dell’intenzionalità dell’azione, che sottende qualsiasi

processo decisionale.

Il ruolo della corteccia prefrontale è fondamentale nella formazione di scopi e

obbiettivi e nell’ideazione dei piani d’azione necessari per raggiungerli, selezionando

le abilità cognitive necessarie per realizzare i piani, coordinando quelle abilità e

applicandole nel giusto ordine.

La corteccia prefrontale è responsabile della valutazione delle nostre azioni,

classificandole come successi o fallimenti in base alle nostre intenzioni. Diverse

regioni associative della corteccia prefrontale, organizzate in circuiti funzionali con

le strutture sottocorticali, sono implicate nella regolazione di questi fenomeni. La

loro conoscenza nell’uomo si basa soprattutto sulle tecniche di imaging funzionale

(RMNf, PET, MEG) che danno una visualizzazione globale del funzionamento del

cervello in situazione comportamentale. Hanno permesso di descrivere, in maniera

più o meno esaustiva, le reti implicate nell’una o nell’altra funzione cognitiva, senza

autorizzare, tuttavia, la comprensione dei meccanismi neuronali che sottendono

queste funzioni.

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

1.3.4 Corteccia prefrontale dorsolaterale

La corteccia frontale dorsolaterale, che ingloba le aree 9, 46, 45 e una parte dell’area

10, è sede delle funzioni cognitive più alte nell’uomo. La sua lesione perturba

l’analisi, il trattamento sequenziale, il mantenimento cosciente di informazioni

pertinenti e l’elaborazione di piani d’azione adeguati ai vincoli ambientali. Queste

funzioni sono assicurate grazie alle numerose afferenze che riceve dalle altre

cortecce associative.

Una migliore conoscenza delle proprietà cognitive fondamentali che sottendono le

funzioni della corteccia prefrontale è stata ottenuta grazie agli studi di

elettrofisiologia nel primate non umano.

I primi sono stati centrati soprattutto sulla memoria a breve termine, detta memoria

di lavoro, mostrano che quando si introduce un intervallo tra uno stimolo visivo e

una risposta, numerosi neuroni di questa area presentano un’attività sostenuta.

Goldman-Rakic riferisce come i neuroni dell’area 46 scatenino, in un compito

ritardato, una cascata di eventi che produce delle cascate oculari molto finalizzate

(Goldman-Rakic, 1988 ). Questo tipo di attività è fondamentale per numerose attività

cognitive. Questi dati sono stati in seguito confermati nell’uomo grazie alle tecniche

di imaging funzionale.

I comportamenti complessi non si basano tuttavia solo su una memorizzazione. Le

informazioni debbono essere selezionate e integrate con altri messaggi pertinenti.

Un’altra funzione essenziale è quella di permettere la focalizzazione volontaria

dell’attenzione su certi stimoli, pensieri o atti. Questo processo di selezione è

indispensabile perché le capacità di lavoro delle funzioni cognitive sono limitate. La

possibilità di ignorare dei distrattori e di selezionare una informazione pertinente è

pertanto un processo critico nella pianificazione dell’azione. Per beneficiare delle

esperienze passate, dobbiamo essere capaci di selezionare delle conoscenze acquisite,

anche le azioni più semplici obbediscono a molteplici vincoli, per esempio, quando si

cerca un oggetto ci si ricorda della sua forma, del posto dove potrebbe essere, della

sua ultima utilizzazione. Numerosi neuroni della corteccia prefrontale modificano

così la loro attività quando la scimmia deve ricordarsi nello stesso tempo della forma

e della localizzazione spaziale di un oggetto. Gli studi di neuroimaging mostrano che

la corteccia prefrontale dorsolaterale ha un ruolo importante nell’integrazione di

sorgenti di informazione multiple e nel processo di presa di decisione.

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

La complessità del comportamento nei primati è legata anche al fatto che questi

possono fissarsi su dei nuovi obiettivi e dei nuovi metodi per raggiungerli. Il ruolo

esecutivo risulta all’acquisizione e dalla rappresentazione di regole che guidano i

comportamenti finalizzati.

Stabilire delle regole consiste nel fare l’associazione arbitraria tra informazioni di

natura differente. Si tratta di costruire un «modello interno», per esempio,

apprendiamo che il rosso al semaforo significa «stop».

Gli studi elettrofisiologici effettuati sulla scimmia rivelano che l’attività di neuroni

della corteccia prefrontale dorsolaterale riflette queste associazioni. Alcuni autori

hanno infine suggerito che questi ultimi potrebbero rappresentare il contesto

dell’azione. Si tratta di informazioni a carattere multimodale che debbono inglobare i

differenti aspetti in rapporto con le istruzioni, gli aspetti motivazionali e le

conseguenze prevedibili dell’azione (Miller EK., 1999).

1.3.5 Area frontale oculocefalogira

L’area frontale oculocefalogira è posta al davanti della corteccia premotoria e

corrisponde all’area 8 nella classificazione di Brodmann. A lungo considerata come

una corteccia premotoria implicata nel controllo dei movimenti oculari (frontal eye

field), è sempre più riconnessa, sul piano funzionale, alla corteccia dorsolaterale.

Gli studi di imaging hanno in effetti dimostrato la sua attivazione in numerosi

compiti cognitivi, in particolare quando questi richiedono una mobilizzazione

dell’orientamento dello sguardo e pertanto dell’attenzione visiva.

1.3.6 Corteccia cingolare anteriore

Le connessioni anatomiche della corteccia cingolare anteriore (area 24c) con la

corteccia prefrontale dorsolaterale sono strette e la loro coattivazione nel corso di

numerosi compiti cognitivi suggerisce ad un tempo una dualità funzionale e una

sinergia di azione di queste due regioni. Si ammette di solito che la corteccia

prefrontale dorsolaterale tratti e mantenga on line l’informazione necessaria alla

scelta di una risposta mentre la corteccia cingolare anteriore facilita e controlla la

realizzazione dell’azione. Quest’ultima riceve anche delle afferenze dai nuclei libici,

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

dal talamo e dal tronco encefalico, il che ne fa naturalmente un luogo di integrazione

per gli aspetti emozionali e motivazionali del comportamento. Invia a sua volta delle

proiezioni verso le cortecce premotorie, motorie e il midollo spinale.

È così in grado di avere un ruolo diretto nella attuazione di una posizione strategica

che le consente di integrare delle informazioni di ordine emozionale nel quadro di

processi decisionali e di avere di ritorno una parte importante nella pianificazione

dell’azione. La funzione esatta della corteccia cingolare anteriore e dei meccanismi

cellulari che la sottendono resta tuttavia poco nota. Negli anni novanta gli studi

d’imaging funzionale hanno mostrato che era implicata in numerosi aspetti della

cognizione, in particolare quando si tratta di gestire una situazione di scelta tra le

informazioni di natura contraddittoria.

I dati della sperimentazione nel primate subumano restano molto frammentari.

Hanno soprattutto consentito di dimostrare il legame tra processo di ricompensa, e

quindi di motivazione, e la pianificazione dell’azione. L’annuncio della quantità di

ricompensa attesa modifica l’attività dei neuroni della corteccia cingolare anteriore

nello stesso tempo del comportamento dell’animale.

D’altra parte, i neuroni delle stesse regioni rispondono in modo diverso se le prove

hanno successo o falliscono in un compito sequenziale memorizzato.

1.3.7 Corteccia orbitofrontale

La corteccia orbitofrontale rappresenta la parte anteriore della corteccia prefrontale

(figura 1, 26).

Raggruppa delle aree rostrali localizzate a livello della convessità corticale (aree 10 e

47/12), così come delle aree situate in regione ventromediale (aree 11, 12, 13, 14).

La corteccia orbitofrontale riceve delle afferenze multiple provenienti dalle cortecce

associative temporali ma anche dall’amigdala. Sembra essere implicata in situazioni

nel corso delle quali il soggetto deve adattare il suo comportamento per ottenere un

rinforzo positivo. Questa regione interviene negli aspetti emotivi della presa di

decisione. In effetti, alcuni pazienti che soffrono di lesioni orbitarie presentano delle

grandi difficoltà nel prendere delle decisioni perché diventano incapaci di anticipare

le conseguenze della loro azione. Questi deficit sono particolarmente netti nei

comportamenti sociali.

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1. I sistemi di controllo e il lobo frontale

I risultati elettrofisiologici contenuti nel primate indicano che i neuroni della

corteccia orbitofrontale sono implicati nel trattamento di informazioni quando queste

sono associate con dei processi di rinforzo. Queste cellule diventano particolarmente

attive quando il soggetto è posto in una situazione nella quale si spera di ricevere una

ricompensa.

La corteccia orbitofrontale ha un ruolo importante nel controllo motivazionale del

comportamento. In più, si è potuto dimostrare che quando l’animale non riceve la

ricompensa attesa, l’attività dei neuroni viene modificata. Questo settore corticale

partecipa, con la corteccia cingolare anteriore, al processo di rilevazione degli errori.

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2. La sindrome frontale

2. La sindrome frontale

Le lesioni che interessano il lobo frontale sono da tempo riconosciute responsabili di

gravi conseguenze sullo stato emotivo-comportamentale e, più in generale, sulla

personalità del soggetto, per la funzione egemone di queste strutture sulla

modulazione e regolazione delle condotte sociali e sulla qualità delle reazioni

emotive.

Le relazioni tra danno frontale e disturbi comportamentali sono ormai ampiamente

accertate ed altrettanto ampiamente accertate sono le correlazioni tra le sequele

comportamentali successive a danno frontale e la scarsa integrazione sociale del

paziente.

Nell’insieme comportamento e funzioni neuropsicologiche che sono sotto il controllo

frontale vengono anche definiti rispettivamente come comportamento adattivo e

funzioni esecutive, in quanto portano l’uomo a prendere delle decisioni in modo

motivato, appropriato e modificabile in base alle variabili del contesto sociale in cui

opera, libero da interferenze di imitazioni di comportamenti stereotipati o da risposte

automatiche a impulsi primitivi.

Le cause eziopatogenetiche possono essere numerose: dagli insulti cerebrovascolari

focali sia ischemici che emorragici, alle patologie di tipo degenerativo, ai traumi

cranio-encefalici, alle resezioni chirurgiche in caso di deafferentazione funzionale a

partire dalle strutture sottocorticali con sostanza grigia o gangli della base.

Una patologia come questa risulta particolarmente efficace nell’evidenziare

l’importanza di affrontare questi deficit in una prospettiva come quella

neuropsicologica, che integra diversi livelli di spiegazione.

Nella sindrome frontale abbiamo, infatti, implicate componenti biologiche che

causano la lesione e che possono essere le più svariate. Vi sono deficit cognitivi ma

anche le componenti di personalità e quelle emotive vengono chiamate in causa.

In questo capitolo vengono presi in esame gli aspetti critici fondamentali per poter

diagnosticare una sindrome frontale, confermati dai risultati di recenti studi

sperimentali.

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2. La sindrome frontale

Ovviamente, come presupposto deve esserci la certezza o quantomeno il fondato

sospetto che il paziente abbia avuto un danno nella zona anteriore dell’encefalo,

substrato biologico per questa patologia.

2.1 Patogenesi

Gli studi neurofisiologici e neuropsicologici volti a chiarire la funzione delle aree

prefrontali iniziarono in modo sistematico verso la fine del secolo scorso. I dati

clinici indicarono che le lesioni massicce dei lobi frontali determinano gravi

alterazioni della personalità e costituirono uno stimolo alla ricerca di una verifica

sperimentale negli animali: i primi risultati furono però deludenti, soprattutto se

rapportati alle brillanti acquisizioni parallelamente conseguite sulla corteccia motoria

e sui centri visivi corticali. Ciò condusse all’opinione che le aree prefrontali fossero

prive di funzione specifica; inoltre, poiché la stimolazione e l’ablazione di queste

aree non determinavano alterazioni nella sfera sensoriale né in quella motoria, tali

aree vennero definite “mute”. Successivamente alcuni ricercatori, quali Bianchi

(1895) e Franz (1907), osservarono che negli animali con lesioni prefrontali si

producevano profonde modificazioni comportamentali, confermando, in tal modo,

l’ipotesi formulata in precedenza da Jackson (1869) secondo cui le aree anteriori del

lobo frontale rappresentano “il sistema di centri più complesso dell’encefalo”.

Da allora sono stai raccolti numerosi dati sulle conseguenze comportamentali

derivanti da lesioni dei lobi frontali. Una delle caratteristiche più evidenti, e pertanto

meglio studiata, dell’animale “frontale”, è la perdita della capacità di eseguire

compiti di risposta ritardata (Jacobsen, 1936): l’animale non è in grado di riprodurre

un comportamento appena appreso (ad esempio, scegliere correttamente fra più

contenitori quello con il cibo) se viene distratto dal compito anche solo per pochi

secondi. In altre parole, per effetto della lesione frontale, l’animale diviene più

distraibile, maggiormente sensibile all’interferenza prodotta da stimoli concomitanti

(Malmo, 1942), si dimostra incapace di inibire le risposte comportamentali a stimoli

irrilevanti ed è, in definitiva, dipendente dagli stimoli esterni (Pribram, 1973).

Inoltre, l’animale con lesioni frontali mostra comportamenti perseveratori: una volta

messa in atto una risposta l’animale tende a riprodurla anche se l’azione ha perso la

propria funzione di adattarlo alla situazione ambientale che l’ha provocata (Fulton,

1935). Infine, in conseguenza delle lesioni, gli animali divengono impenetrabili a

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2. La sindrome frontale

qualsiasi effetto frustrante degli errori commessi (Jacobsen, 1936) e non sono in

grado di rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni (Pribram, 1960).

Nell’insieme, il comportamento dell’animale “frontale” appare espressione

dell’impossibilità di formulare un corretto programma d’azione; ciò sembra essere in

relazione alla dipendenza dagli stimoli esterni, all’incapacità di analizzare i risultati

delle proprie risposte motorie e di correggere le reazioni inadeguate. La maggior

parte dei dati sperimentali (e di quelli clinici) oggi disponibili può essere interpretata

alla luce delle connessioni esistenti fra la regione prefrontale e le strutture corticali e

sottocorticali. Le aree prefrontali, infatti, funzionerebbero come un “comparatore”

interposto fra le aree posteriori di elaborazione dei messaggi sensoriali, le aree

precentrali motorie, il sistema limbico (che interviene nella modulazione della vita

emotivo-affettiva) e l’ipotalamo (che regola le funzioni neurovegetative). La regione

prefrontale opererebbe, dunque, la sintesi fra le informazioni relative al mondo

esterno e quelle relative agli stati interni dell’organismo rendendo in tal modo

possibile la formulazione di previsioni (attese) rispetto alle variazioni dell’ambiente,

la regolazione dell’emotività e l’attuazione di un comportamento finalizzato

(intelligente).

2.2 Sindrome frontale e trauma cranico

Risulta piuttosto comune, in letteratura, considerare la sindrome frontale (sindrome

conseguente a lesione del lobo frontale) come conseguenza “naturale” di un trauma

cranico. Ciò è dovuto al fatto che, per motivi anatomici, i traumi cranici (ferite

traumatiche chiuse) tendono a danneggiare soprattutto le aree orbitofrontali del

cervello. I danni a seguito di trauma cranico raramente sono circoscritti. Le lesioni

più grossolane possono essere diagnosticate attraverso l’uso di bioimmagini, ma altri

tipi di lesioni, quali il danno assonale diffuso, edema o danni conseguenti ad ipossia

sono difficilmente visualizzabili.

La sintomatologia frontale non è, di per se, prova di danno frontale, in quanto

potrebbe essere conseguente ad una disconnessione delle proiezioni prefrontali del

nucleo talamico dorsomediale o delle fibre ascendenti del sistema reticolare

mesencefalico.

Nel trauma cranico, indipendentemente dalla sua tipologia, le lesioni coinvolgono

sempre i lobi frontali e temporali. Esse si associano al danno assonale diffuso che

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2. La sindrome frontale

determina l’insorgenza di una sindrome da disconnessione, compromettendo le aree

cerebrali deputate alle attività integrative e le loro vie associative. Tutto ciò comporta

il decadimento dei processi attentivi, elaborativi e mnesici che stanno alla base dello

sviluppo cognitivo, di qualsiasi apprendimento e di ogni azione finalizzata.

Non stupisce, quindi, che i dati disponibili in letteratura abbiano evidenziato che in

età evolutiva il quadro neuropsicologico e l’outcome non sono migliori rispetto

all’adulto, soprattutto se l’età al momento del trauma è inferiore ai quattro anni.

Il gran numero di variabili in gioco rende difficile fornire orientamenti generali

sull’evoluzione dei disturbi cognitivi, poiché ogni quadro clinico è specifico e

dinamicamente mutevole, in rapporto ad una vasta gamma di circostanze interne ed

esterne.

I ricercatori sono concordi nell'affermare che il trauma cranico determina una

disfunzionalità globale, all'interno della quale si inscrivono disturbi cognitivi,

comportamentali, emotivi e motori.

I disturbi cognitivi conseguenti a trauma cranico dipendono in larga misura dalla

gravità del trauma stesso e dalla dinamica della lesione.

Un’altra variabile importante è l’età del soggetto: in età evolutiva, infatti, le

conseguenze neuropsicologiche si manifestano con una loro peculiare tipologia,

poiché il bambino sta sviluppando le diverse funzioni cognitive. A questa età, i

disturbi neuropsicologici si discostano dalle classiche sindromi riportate per l’adulto

tanto minore è l’età del paziente.

La lesione cerebrale conseguente al trauma, essendo multifocale e diffusa,

difficilmente determina deficit isolati, anche se è possibile individuare alcuni disturbi

neuropsicologici derivanti dalla maggiore compromissione di un’area cerebrale.

2.3 Strategie comportamentali e sindrome disesecutiva

L’evidenza della ricerca neuropsicologica, elettrofisiologica e funzionale di

neuroimmagini attribuisce un ruolo critico ai lobi frontali (specialmente la corteccia

prefrontale) nel controllo esecutivo del comportamento finalizzato.

Le estese connessioni dei lobi frontali con tutta la corteccia e con le strutture

sottocorticali, pone i lobi frontali in una posizione neuroanatomica unica nel

monitorare e manipolare vari processi cognitivi: essi sono deputati alle condotte più

elaborate dell’essere umano; non svolgono, come le altre aree, un compito definito,

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2. La sindrome frontale

ma soprassiedono all’organizzazione generale del comportamento finalizzato,

coordinando tutte le modalità operative (sensoriali, motorie, percettive, attentive,

mnesiche, motivazionali e così via).

Finché le funzioni esecutive sono integre un individuo riesce a sopportare perdite

cognitive considerevoli mantenendo un notevole grado di autonomia; quando sono

danneggiate non è più capace di una cura sufficiente di sé e di mantenere normali

relazioni sociali indipendentemente dal grado di anomalia delle restanti funzioni

cognitive. Ne deriva che la disfunzione frontale compromette tutto il comportamento

e che il deficit risulta evidente soprattutto nella vita quotidiana.

“L’essere umano non si limita a reagire in modo passivo all’informazione che

riceve ma ha intenzioni, elabora piani e fa un programma delle proprie azioni di

cui poi valuta la riuscita; egli controlla e dirige in ogni movimento il suo

comportamento affinché sia conforme alla programmazione e alla pianificazione e

verifica la sua attività cosciente comparando gli effetti delle proprie azioni con le

intenzioni originali e correggendo gli errori compiuti” (Lurija) .

Il neuropsicologo sovietico Alexandr Romanovic Lurija utilizzava questi termini per

definire il concetto di strategia comportamentale: il comportamento rappresenta

sempre un atto finalizzato a raggiungere un obbiettivo. Il raggiungimento di uno

scopo implica adottare una strategia, ossia attivare una procedura che prevede di

passare in modo ordinato attraverso una serie di fasi; finalizzare una modalità

comportamentale, indipendentemente dal problema che bisogna affrontare, richiede

la capacità di coordinare almeno quattro stadi funzionali: analisi, pianificazione,

esecuzione e verifica. Una volta identificato il problema, è necessario raccogliere

tutti i dati disponibili per la corretta valutazione della situazione.

Le informazioni provengono sia dall’ambiente esterno, attraverso i canali sensoriali,

che dall’ambiente interno dell’organismo, includendovi anche i dati depositati in

memoria.

In questa fase le informazioni non vengono considerate singolarmente, ma nei loro

reciproci rapporti in modo da giungere ad una “sintesi afferente”: le informazioni

sono vagliate cioè nel loro complesso in relazione alla rilevanza che assumono per la

soluzione del problema. Il risultato della sintesi afferente viene utilizzato per la

pianificazione del comportamento: la formulazione del piano d’azione prevede la

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2. La sindrome frontale

definizione dettagliata dell’obbiettivo da raggiungere e il reclutamento sequenziale

delle abilità e delle strutture corrispondenti necessarie allo svolgimento dell’attività.

Infine, una volta messo in atto il comportamento programmato, è necessario un

confronto tra l’esito e l’obbiettivo. Se il risultato è stato raggiunto, il problema ha

trovato la sua soluzione ed il processo si arresta.

In caso contrario la verifica porta da una parte al riconoscimento dell’errore e

dall’altra al suo aggiustamento; tutte le fasi precedenti vengono riesaminate in modo

ricorsivo: l’errore infatti potrebbe aver avuto luogo sia durante l’esecuzione che nel

corso della pianificazione o nel momento dell’analisi. Il processo inizia di nuovo ma

con una importante differenza: nel frattempo sono state acquisite nuove informazioni

derivanti dal tentativo fallito precedentemente e la strategia viene modificata in

relazione all’analisi del tipo di errore effettuato. Il meccanismo che porta alla

soluzione del problema quindi non riprende dallo stesso punto di partenza iniziale, in

modo circolare, piuttosto procede secondo un percorso a spirale in cui ogni nuovo

tentativo fa tesoro dell’esperienza precedente: così si impara dagli errori effettuati.

Nell’essere umano esiste quindi un meccanismo che consente di adattare il

comportamento allo scopo da raggiungere. Di fatto in ogni momento della vita

l’ambiente pone una richiesta all’organismo, richiesta che l’organismo deve

affrontare e cercare di risolvere.

Il comportamento equivale dunque ad un processo di soluzione dei problemi; quando

l’ambiente cambia, il comportamento viene modificato di conseguenza.

La programmazione di una sequenza comportamentale è accompagnata dalla

anticipazione e dalla previsione del risultato; ogni comportamento è associato quindi

con la conoscenza delle sue possibili conseguenze.

Un simile sistema di aggiustamento alle condizioni ambientali risulta tanto più

indispensabile per un organismo quanto più possieda ricche e molteplici modalità

comportamentali. Se le risposte ai problemi posti dall’ambiente fossero definite una

volta per sempre, in modo precostituito, come avviene per i comportamenti

geneticamente determinati, un meccanismo preposto alla scelta della strategia

sarebbe poco utile.

Il segreto dell’incredibile flessibilità dell’essere umano è invece proprio

rappresentato dal fatto che l’evoluzione ha barattato la sicurezza di una condotta

predeterminata con l’insicurezza di una condotta che deve essere continuamene

appresa. Il vantaggio è significativo. Il neonato umano è incapace di sopravvivere,

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2. La sindrome frontale

non è pronto ad affrontare le condizioni ambientali ed a questo deve provvedere un

adulto, ma in cambio il contatto con l’ambiente lo rende sempre pronto ad

apprenderne le caratteristiche, per quanto mutevoli. Quando ciò che è stato ormai

fortemente consolidato dall’evoluzione non è più sufficiente e quando anche le

modalità comportamentali apprese con l’esperienza diretta non risultano adeguate, è

necessario avere a disposizione un sistema in grado di trovare soluzioni nuove. A

questo compito sono preposti i lobi frontali.

Probabilmente lo sviluppo dei lobi frontali è stato necessario quando l’aumento dei

gradi di libertà comportamentale, reso possibile dall’organizzazione cerebrale,

impose un ordine volto ad evitare il potenziale caos derivante dall’emergenza casuale

di numerose possibilità di scelta in condizioni di ambiguità. Da una modalità reattiva

di comportamento l’essere umano passa ad una modalità attiva soltanto quando la

soluzione non è univoca ma sono possibili scelte alternative; in un certo senso la

libertà di scegliere è possibile solo in presenza dell’ambiguità; i lobi frontali

intervengono proprio nel momento in cui le soluzioni possibili sono molteplici.

È importante sottolineare che scegliere tra più alternative implica l’esistenza di un

meccanismo di inibizione: è cioè necessario essere capaci di non rispondere in modo

immediato allo stimolo. Maggiore la capacità di ritardare la risposta ed

eventualmente sopprimerla, minore la dipendenza dallo stimolo, migliore la

possibilità di scelta nell’ambito del repertorio comportamentale.

Il livelli gerarchicamente più elevato di inibizione è rappresentato dai lobi frontali:

per questo in caso di lesione i fenomeni di disinibizione riguardano in modo

indiscriminato tutti gli aspetti del comportamento.

Se si osservano pazienti con patologia frontale, la disfunzione esecutiva è quella che

emerge in modo predominante. La lesione comporta una disorganizzazione generale

del comportamento in cui vengono a mancare quelle funzioni di controllo delle

strategie comportamentali: tutte le condotte sono caratterizzate dall’impossibilità di

portare a termine una serie di atti adattati ad un fine; “il paziente è incapace di

svincolarsi dal presente e pianificare il futuro, di far tesoro dell’esperienza e

acquisire nuovi apprendimenti, di adattarsi alle esigenze della vita quotidiana; di

conseguenza perde l’autonomia e la competenza sociale.” (Lurija).

I disturbi delle procedure esecutive possono essere così schematizzati:

• Difficoltà di corretta formulazione dei problemi da affrontare;

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2. La sindrome frontale

• Incapacità di stabilire preliminarmente gli obiettivi da raggiungere;

• Errori di pianificazione e di mantenimento della sequenza dell’azione;

• Errata scelta di strategie con cui condurre la sequenza operativa;

• Incapacità di automonitorarsi e, quindi, ad apportare eventuali e necessarie

modifiche;

• Perseverazione su una precedente strategia divenuta non più idonea.

I disturbi cognitivi sopradescritti vanno spesso di pari passo con la tendenza ad

adottare comportamenti abituali e stereotipati, quali di volta in volta gli aspetti più

superficiali delle situazioni suggeriscono, senza considerare della loro eventuale

inutilità o della loro difformità rispetto allo scopo che in quel momento il paziente si

prefigge.

Questo riflette la scarsa capacità di giudizio, le carenti competenze sociali e il difetto

nell’utilizzo delle proprie capacità intellettive per modulare le risposte secondo gli

schemi più adeguati al contesto.

2.4 Disturbi del comportamento e della personalità

Il risultato di un danno della corteccia frontale consiste sempre in un cambiamento

del comportamento con alterazione della condotta sociale.

Le alterazioni della personalità sono un dato di immediata evidenza clinica e sono

state osservate fin dai primi Autori che hanno descritto questi pazienti; oggi

costituiscono una componente saldamente acquisita della sindrome.

Un caso clinico famoso nella storia della medicina è quello di Phineas P. Gage,

descritto dal dr. John Harlow alla fine del 1800 per la sua eccezionalità e di cui solo

molti anni più tardi è stato compreso il significato.

Nel 1848 a Cavendish, nel Vermont, Gage stava lavorando alla costruzione della

linea ferroviaria e doveva far saltare la parete rocciosa che ostacolava il tracciato; in

conseguenza dell’esplosione di una mina, una barra metallica, penetrando nella

guancia sinistra, gli attraversò la scatola cranica danneggiando le porzioni anteriori

del cervello.

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2. La sindrome frontale

Caso Gage

Vermont, 1848

Accorrendo immediatamente sul luogo dell’incidente, gli altri operai si accorsero

che Gage non solo era sopravvissuto, ma incredibilmente era in grado di parlare

(tanto da raccontare dettagliatamente l’accaduto) così come di muoversi e

camminare. Egli fu dichiarato guarito in meno di due mesi ma dopo l’accaduto la

sua vita cambiò radicalmente. Come dicevano i suoi amici “Gage non era più Gage”,

sembrava cioè non essere più la stessa persona: ben noto per la sua serietà e la sua

efficienza sul lavoro, per la sua disponibilità e cortesia, era divenuto “incostante,

capriccioso, volubile, irriverente, incline alle più pesanti oscenità, intollerante delle

costrizioni o dei consigli, ostinato”; se in precedenza era stato del tutto alieno da

insolenze e imprecazioni, il suo linguaggio era divenuto “talmente osceno che alle

donne si consigliava di non rimanere a lungo in sua presenza per non restarne

turbate”. Nella sua relazione il dr. Harlow riferisce che egli camminava con passo

fermo, usava le mani con destrezza, non mostrava impaccio nel parlare, ma

l’equilibrio, per così dire, tra la sua facoltà intellettiva e le sue disposizioni animali

era venuto a mancare. Inoltre, mentre era sempre stato considerato da quanti lo

conoscevano come un uomo “abile e avveduto”, “energico e tenace nel perseguire i

suoi obiettivi”, ora era “sempre pronto a elaborare molti programmi di attività future

che abbandonava non appena li aveva iniziati”.

Il caso descrive bene la caratteristica principale dei pazienti con lesione frontale: la

perdita delle strategie che consentono di modificare il comportamento in relazione

alle esigenze ambientali.

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2. La sindrome frontale

La mancanza delle strategie comportamentali può manifestarsi in modi variabili e il

paziente può essere incapace di: individuare gli elementi significativi della

situazione, di conseguenza può essere in balia di elementi irrilevanti per lo scopo da

raggiungere e non sa inibire la risposta immediata né le associazioni secondarie,

associazioni che si formano continuamente in modo spontaneo ma che normalmente,

se non sono utili sul momento, vengono soppresse proprio grazie all’attività

inibitoria del sistema frontale; utilizzare le informazioni disponibili per prevedere le

conseguenze del proprio operato; controllare lo svolgimento delle proprie azioni e

impedire il perpetuarsi dello schema d’azione in corso anche quando non è più

opportuno; valutare il risultato ottenuto e apprendere dagli errori.

Ognuno dei meccanismi suddetti può alterare la capacità di organizzare gli eventi nel

tempo; di conseguenza il soggetto non è più in grado di formulare progetti e di

portare a termine una sequenza comportamentale adeguata al raggiungimento dello

scopo prestabilito: gli è impossibile svincolarsi dal presente, pianificare l’avvenire e

apprendere dall’esperienza.

Un carattere distintivo della sintomatologia è l’estrema variabilità, sia da paziente a

paziente che, anche da un giorno all’altro, nello stesso soggetto.

Sono state comunque evidenziate, ferma restando l’estrema mutevolezza del quadro,

due varianti fondamentali della sindrome: la presenza dell’una o dell’altra, spesso

presenti contemporaneamente nello stesso paziente in relazione al cambiamento del

contesto ambientale, può essere correlata alla sede della patologia, rispettivamente

dorsolaterale e orbitomesiale.

1) La sindrome “pseudodepressiva” (o acinetica), indica mancanza di iniziativa,

abulia, apatia, acinesia, perdita della fluenza verbale fino al mutismo, perdita

degli interessi abituali, indifferenza emotiva, tono dell’umore depresso, disturbi

dell’attenzione e della memoria, disorientamento temporo-spaziale, nei casi più

gravi confusione. La sintomatologia è state definita pseudodepressiva da Blumer

e Benson, in quanto il paziente ha l’aspetto di un depresso ma non ne mostra gli

aspetti affettivo-emotivi caratteristici, anzi appare “triste senza tristezza

interiore”.

2) La sindrome “pseudomaniacale”, definita anche sindrome moriatica, è la

conseguenza della perdita dei meccanismi inibitori, caratterizzata da euforia

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2. La sindrome frontale

inappropriata e immotivata, disinibizione verbale e motoria, tendenza alla

giocosità in situazioni inappropriate, iperattività inconcludente fino all’agitazione

psicomotoria. Il quadro clinico può accompagnarsi a bulimia, ipersessualità (o,

per meglio dire, manifestazioni incongrue di sessualità) e comportamenti

socialmente inappropriati. Tali condizioni appaiono in realtà collegate ad una

dipendenza dallo stimolo ambientale che non può essere soppresso; la bulimia è

più spesso una necessità di mangiare ciò che si ha davanti, indipendentemente dal

senso di fame; l’ipersessualità è strettamente dipendente dalla presenza dello

stimolo; l’incontinenza è la risposta non inibita allo stimolo di urinare che va

soddisfatto immediatamente e indipendentemente dall’ambiente in cui il soggetto

si trova.

Un altro tipo di disturbo è rappresentato dalla irritabilità e aggressività (discontrollo

degli impulsi), che ancora trovano la loro giustificazione in una dipendenza dagli

stimoli ambientali cui viene fornita una risposta impulsiva, non sottoposta a critica né

alla valutazione delle possibili conseguenze.

In ogni sua manifestazione la sindrome frontale comporta una trasformazione delle

caratteristiche di personalità del soggetto che induce i familiari a dire che si trovano

davanti una persona diversa che non riconoscono più e che non riesco più a capire; le

conseguenze sono solitamente catastrofiche: perdita del lavoro, degli averi, delle

amicizie, degli affetti.

Apparentemente tutto avviene senza una giustificazione plausibile, dato che gli

aspetti comunemente associati di malattia non sono affatto visibili e non vengono

percepiti. I disturbi sopradescritti compaiono a seguito di lesioni massicce e si

manifestano in pieno quando sono interessati entrambi i lobi frontali.

A questo proposito è importante sottolineare che il quadro clinico della sindrome non

include necessariamente tutte le manifestazioni comportamentali descritte

precedentemente; al contrario solitamente ogni specifico soggetto presenta risposte

patologiche soltanto ad alcune delle prove proposte in laboratorio.

Questi deficit trovano una loro spiegazione nelle numerose connessioni della

corteccia prefrontale, in particolare appunto delle sue parti mediali e orbitarie, con le

strutture sottocorticali (amigdala e ippocampo) responsabili dell’attivazione di una

risposta emotiva. In questo caso il lobo frontale avrebbe una funzione di controllo

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2. La sindrome frontale

rispetto all’attività di queste strutture sottocorticali, ed una sua lesione ne

impedirebbe l’attività di modulazione e di controllo.

2.5 Disturbi dell’attenzione

Fra le caratteristiche più appariscenti, anche se difficilmente quantificabili, del

paziente frontale sono la distraibilità, che costringe il terapista a ricordargli

continuamente il compito, la tendenza a divagare da un argomento all’altro nel corso

della conversazione, l’inconcludenza nel portare a termine qualunque operazione

prima di intraprenderne altre suggeritegli dal minimo richiamo dell’ambiente. La

prima impressione di chi frequenta il malato è che il difetto riguardi la capacità a

fissare l’attenzione. Il termine attenzione, tuttavia, così come è usato nel linguaggio

corrente, è ambiguo e copre realtà che dal punto di vista psicologico,

neurofisiologico, ed anche clinico appaiono distinte.

L’attenzione corrisponde alla facoltà, introspettivamente sperimentale, di avvertire

gli eventi che accadono nell’ambiente esterno e interno a se stessi o i propri bisogni.

Sul piano neurofisiologico è interpretabile come eccitabilità del sistema nervoso di

fronte alle variazioni energetiche, e sul piano comportamentale come capacità di

reagire agli stimoli cui il soggetto è sottoposto. In questo senso l’attenzione è

designata come diffusa (Benson e Geshwind, 1975), per significare che essa è rivolta

a qualunque possibile tipo di evento in qualunque parte dello spazio percepibile e a

qualunque tipo di possibile risposta motoria.

Così intesa l’attenzione è sinonimo di vigilanza, ad ogni diminuzione di attenzione

corrisponde una diminuzione di vigilanza, come si realizza fisiologicamente nel

sonno, o, in condizioni patologiche, nel sopore, stupore e coma.

Nell’uso più comune il termine attenzione si riferisce però ad un fenomeno diverso

dalla vigilanza, consistente nell’avvertire solo alcuni generi di eventi, trascurando,

anzi attivamente ignorando, gli altri.

Il processo di elaborazione delle informazioni è estremamente flessibile, cioè sceglie

di volta in volta quale informazione elaborare e come elaborarla, e questa possibilità

di elaborare il materiale informativo avviene proprio in base a meccanismi di tipo

attentivo. Sul piano comportamentale ciò si traduce nella capacità di reagire

selettivamente solo ad alcuni stimoli. In questo senso, l’attenzione è designata come

selettiva (Benson e Geshwind, 1975), per indicare che essa è rivolta a specifici

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2. La sindrome frontale

eventi, preferenzialmente rispetto ad altri. Diminuzione di attenzione selettiva

corrisponde ad aumentata distraibilità.

Non sono pochi i dati sperimentali che dimostrano un intervento del lobo frontale nei

fenomeni di attenzione selettiva sia motoria che sensoriale soprattutto se in forma

intenzionale. I risultati di alcune ricerche (Ladavas et al. 1991), mettono in luce nei

pazienti frontali una dissociazione tra attenzione selettiva volontaria e automatica.

Questi pazienti, infatti, avrebbero un’attenzione volontaria deficitaria e un’attenzione

automatica patologicamente intensificata. L’attenzione selettiva volontaria è un

meccanismo che entra in gioco quando bisogna affrontare situazioni nuove e richiede

l’impiego volontario di risorse di processamento.

L’attenzione automatica, invece, è guidata dall’ambiente e non dalle intenzioni e

dagli scopi dell’individuo. In presenza o assenza di movimenti oculari, l’attenzione

automatica è orientata senza che il soggetto abbia preso una decisione,

semplicemente perché sono cambiate alcune caratteristiche degli stimoli esterni o

perché se ne sono presentati di nuovi. I pazienti con lesioni frontali presenterebbero

appunto una intensificazione di queste forme automatiche di risposta, che potrebbero

essere la causa della loro forte distraibilità. È possibile ipotizzare che questi pazienti

spesso non possano completare i loro compiti, o non si possano impegnare a fondo

nella loro esecuzione perché l’attenzione viene continuamente distolta da stimoli

irrilevanti, come un rumore, una voce, o altro. Queste osservazioni sul

coinvolgimento del lobo frontale nei processi attentivi hanno trovato recentemente

una conferma sperimentale in studi in cui sono stati applicati dei paradigmi dalla

psicologia sperimentale.

Un esempio di intensificazione delle risposte automatiche lo si può trovare in un

lavoro di Guitton, Buchtel e Douglas (1985). I risultati hanno dimostrato che,

pazienti sottoposti ad uno stimolo visivo, erano incapaci di inibire il riflesso di

orientamento degli occhi e di attivare movimento oculari volontari in direzione

contraria alla stimolazione periferica.

In altre parole il paziente frontale non sembra in grado di utilizzare l’attenzione come

filtro per selezionare le informazioni rilevanti a scapito di quelle irrilevanti.

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2. La sindrome frontale

2.6 Disturbi di memoria

Contrariamente ad una opinione diffusa, il contenuto della memoria esplicita a lungo

termine non è compromesso nel paziente frontale. Non vi sono prove che la corteccia

frontale intervenga nemmeno nei processi di memoria a breve o medio termine. Al

pari di quella esplicita, la memoria implicita appare conservata. Sono le modalità con

cui il paziente frontale gestisce i ricordi, e non il contenuto della memoria, che lo

differenziano dal normale.

Un aspetto del difetto mnesico frontale riguarda l’esperienza temporale: questi

pazienti confondono l’ordine e la frequenza con cui gli avvenimenti sono accaduti in

passato, mentre per il tempo futuro mancano la previsione di ciò che verosimilmente

accadrà e la consapevolezza delle operazioni ancora da compiere.

La difficoltà a collocare gli avvenimenti in ordine cronologico emerge dai risultati di

uno studio di Schimamura (1990), che evidenziò il fallimento dei pazienti frontali nel

riprodurre la successione con cui avevano appena letto 15 parole e la successione in

cui erano accaduti 15 avvenimenti famosi a loro sicuramente noti, anche se in

entrambi i casi riuscirono a rievocare e a riconoscere come i soggetti normali il

materiale usato.

In sostanza, in tutte le prove, sia verbali che figurative o spaziali, la corteccia frontale

si è dimostrata necessaria per rammentare la collocazione temporale degli eventi

sperimentati, con specificità relativa del lobo frontale sinistro per il materiale verbale

e del lobo frontale destro per il materiale figurativo o spaziale. L’organizzazione

categoriale richiede, infatti, la capacità di astrarre l’informazione necessaria che vada

oltre la costellazione delle proprietà fisiche degli stimoli e di analizzare i rapporti tra

le proprietà specifiche di stimoli diversi. La possibilità di cogliere questo tipo di

relazioni dipende dalla capacità di formulare dei concetti astratti. In questi pazienti

verrebbe a mancare la capacità di cogliere nei multiformi elementi che compongono

la realtà le caratteristiche essenziali che di volta in volta li accomunano fra loro e li

differenziano dagli altri.

In mancanza di concetti astratti i pazienti rimarrebbero legati alla concretezza e

immediatezza della situazione, in balia di reazioni automatiche e abitudinarie.

Lo studio precedentemente citato dimostra chiaramente come questi pazienti non

abbiano un disturbo di memoria vero e proprio, dal momento che le tracce mnesiche

sono conservate e recuperabili, bensì una difficoltà ad utilizzare strategie di accesso a

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2. La sindrome frontale

tale materiale. Il paziente frontale, non solo confonde l’ordine degli eventi accaduti,

ma non riesce nemmeno a valutare la frequenza con cui li ha sperimentati. Le

conseguenze di questo difetto sono ben più gravi di quanto a prima vista possa

sembrare. Se, infatti, si ignorano le probabilità (frequenze relative) con cui gli eventi

sono soliti accadere, non si possono nemmeno costruire previsioni realistiche su

quale sarà il futuro e ci si presenterà sprovveduti di fronte ad esso.

Ancora più sconcertante appare l’incapacità del paziente frontale nel distinguere il

proprio tempo passato da quello futuro. Pur essendo in grado di realizzare le singole

operazioni necessarie nell’espletazione di un compito complesso, è incapace di

organizzarle in una sequenza produttiva, come se durante l’azione dimenticasse quali

stadi sono già stati superati e quali sono ancora da affrontare.

Prove ripetute effettuate su soggetti con ablazione prefrontale latero-mediale

(Petrides e Milner, 1982) hanno dimostrato l’incapacità di questi pazienti di

affrontare compiti con un piano generale secondo cui organizzare l’ordine delle

risposte, e di riconoscere ad ogni fase della sua attuazione quali risposte sono già

state date e quali devono ancora esserlo. La mancanza di un programma o

l’incapacità di rispettarlo può da sola compromettere il rendimento e l’esecuzione di

qualsiasi attività. La carenza di un progetto operativo, che tenga presenti, nella giusta

collocazione temporale, tutti gli elementi di giudizio e le possibili risposte,

sceverandoli di volta in volta durante l’esecuzione, costituisce probabilmente la

ragione delle difficoltà mostrate dai pazienti frontali: il sintomo, nelle forme più

gravi, risulta estremamente invalidante, in quanto il paziente può divenire incapace di

organizzare la propria vita e la propria quotidianità.

In questo senso la “memoria” di cui manca il paziente frontale è di tipo “operativo”.

In assenza di questo ruolo critico dei lobi frontali diventa impossibile organizzare il

comportamento rispetto alla dimensione temporale e controllare la sequenza

appropriata in cui le varie operazioni mentali vengono messe in atto per realizzare

l’obiettivo; ciò può avere conseguenze devastanti anche nella interazione sociale; il

paziente non sa attenersi ad una condotta guidata da motivazioni interne: il ricordo

del futuro non lo riconduce più al punto in cui era prima di essere distratto da un

evento intercorrente e lo lascia in balia di un presente continuo in cui non esiste una

priorità di intervento (ad esempio il paziente può iniziare tante attività senza mai

portarne a termine alcuna).

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2. La sindrome frontale

Nelle condizioni più gravi vengono alterate anche le procedure necessarie per

eseguire piani motori e cognitivi acquisiti; il danno non riguarda la memoria ma

l’utilizzazione delle informazioni memorizzate. Ne risulta che qualsiasi attività che

richieda il coordinamento di molte capacità cognitive in un processo coerente

orientato ad un fine è gravemente compromessa.

2.7 Disturbi dell’apprendimento

Come gli altri processi cognitivi, l’apprendimento è un processo cognitivo non

direttamente osservabile, poiché è la conseguenza di funzioni e processi che

avvengono all’interno del sistema nervoso. Il paziente frontale ha un disturbo

dell’apprendimento che può essere riferito ad incapacità di costruirsi, di

automatizzare, o di usare spontaneamente una strategia con cui operare.

I dati ottenuti da uno studio su pazienti sottoposti a corticectomia (Milner, 1965)

impegnati in un compito di apprendimento, dimostrano che i pazienti frontali non

apprenderebbero perché incapaci di scegliere il comportamento consono alle

informazioni che ricevono dall’esterno, quali sono le regole imposte dall’esaminatore

e i segnali che indicano un errore.

Uno dei motivi che impedisce un normale apprendimento e che in parte giustifica

l’insuccesso dei pazienti frontali in prove di apprendimento consiste nelle cosiddette

“perseverazioni”, che rappresentano un aspetto centrale della sindrome. Essi, cioè,

mettono in atto un comportamento rigido, non flessibile, che li porta ad insistere in

strategie palesemente inadeguate, a volte riconosciute come tali dai pazienti stessi.

Va comunque sottolineato che le perseverazioni possono comparire anche dopo

lesioni che non interessano la corteccia prefrontale, ma in questo caso si manifestano

limitatamente ad una modalità sensoriale o ad un tipo di compito, mentre quando la

lesione interessa la corteccia prefrontale le perseverazioni riguardano

contemporaneamente tutti i processi cognitivi, indipendentemente dalla modalità o

dal sistema di risposta, ad esempio la strategia cognitiva, il recupero

dell’informazione dalla memoria semantica ed anche le operazioni motorie

elementari. I pazienti frontali incontrano difficoltà non solo a guidare il

comportamento secondo informazioni provenienti in successione temporale

discontinua dall’ambiente, ma anche ad interiorizzare le regole di comportamento,

così da poter poi operare pur in assenza di suggerimenti esterni.

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2. La sindrome frontale

Se l’apprendimento di abilità motorie consiste nel passaggio da una prima fase in cui

il movimento è guidato da informazioni sensoriali, visive e cinestesiche, ad una

seconda in cui la successione e i ritmi del movimento sono regolati da un programma

interiore, le difficoltà in prove di apprendimento sequenziale sono indicative del fatto

che i pazienti frontali sono compromessi proprio nella capacità di interiorizzare ed

automatizzare il programma motorio: essi non impiegano spontaneamente strategie

di apprendimento, anche quando ne sarebbero capaci.

2.8 Disturbi del linguaggio

Le funzioni linguistiche, in seguito al coinvolgimento dei lobi frontali, possono

manifestare due ordini di problemi: un disturbo del comportamento comunicativo e

un disturbo nella ideazione e formulazione del discorso.

I disturbi del comportamento comunicativo sono sostanzialmente da ricondursi a

disturbi della competenza cosiddetta “pragmatica”: e cioè della competenza che

modula il linguaggio come strumento di formazione del pensiero, di organizzazione

del discorso, di efficacia e di interazione interpersonale e sociale. I disturbi di questo

ordine sono così caratterizzati da carente rispetto del sistema di convenzioni, regole e

consuetudini linguistiche che, seppur non formalmente codificate, consentono di

variare e flettere il significato dell’espressione verbale a seconda della situazione e

del contesto (concettuale, emotivo e sociale) in cui la comunicazione avviene.

I disturbi dell’ideazione e formulazione del discorso invece, sono rappresentati

prevalentemente da riduzione della flessibilità sintattico-grammaticale e lessicale con

difficoltà nel reperire espressioni di efficace qualificazione, sintesi o astrazione,

nonché da incapacità di mantenere l’organizzazione tematica del discorso, la

“coerenza globale” al di sopra del livello delle singole frasi. Ad esempio, il paziente

frontale, se inerte, si esprime con frasi brevi, molto concrete, ripetitive nei contenuti,

circoscritte alla realtà quotidiana oppure scarsamente informative. Se disinibito, è

logorroico, inopportuno, sia nel prendere l’iniziativa verbale che nell’interazione

comunicativa, fatuo negli argomenti espressi, scarsamente aderente al contesto.

Per quanto riguarda la pianificazione ed elaborazione del messaggio verbale invece,

questo appare dispersivo o ridondante nella articolazione delle argomentazioni,

spesso limitato agli aspetti più superficiali o incentrato su particolari scarsamente

rilevanti.

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2. La sindrome frontale

2.9 Anosognosia

Il nostro successo nella vita dipende in modo critico da due capacità: quelle di intuire

e comprendere il mondo mentale nostro e altrui. Queste abilità sono strettamente

legate e si trovano entrambe sotto il controllo dei lobi frontali.

Uno degli aspetti più sconcertanti del comportamento del paziente frontale è la

pressoché completa mancanza di consapevolezza del disturbo. Il non riconoscere

esplicitamente le proprie difficoltà rappresenta un disordine dei meccanismi preposti

al monitoraggio e alla consapevolezza delle condizioni del nostro corpo e del nostro

stato cognitivo.

L’anosognosia è una condizione devastante che priva il paziente della capacità di

comprendere la propria malattia: essa può assumere diverse forme, ma nessuna

forma risulta più completa e impermeabile di quella causata da un grave danno

frontale.

I meccanismi dell’anosognosia frontale sono scarsamente compresi. In senso lato,

essi probabilmente hanno a che fare con la compromissione della funzione

“editoriale” dei lobi frontali, ossia quella funzione che opera il confronto fra l’esito

delle proprie azioni da una parte, e quelle che erano le intenzioni, dall’altra. Oppure,

può darsi che riflettano un aspetto ancor più profondo della patologia frontale, ossia

la fondamentale mancanza di intenzionalità che le è intrinseca.

Un organismo senza desideri, senza scopi, senza obiettivi, per definizione non

sperimenterà alcun senso di fallimento. E tuttavia, la consapevolezza del deficit è il

prerequisito fondamentale di qualsiasi sforzo, da parte del paziente, per migliorare la

propria condizione.

Un paziente con anosognosia non sperimenta alcun senso di perdita o carenza, e

pertanto non sente alcun bisogno di impegnarsi a correggerlo. Poiché la cooperazione

del paziente è essenziale per il successo di qualsiasi sforzo terapeutico, l’anosognosia

trasforma il processo terapeutico in una battaglia da combattere, rendendo perciò

particolarmente devastanti le conseguenze delle patologie frontali.

2.10 Confabulazione

Questo tipo di comportamento è uno degli aspetti che caratterizzano il quadro di

disfunzione mnesica associata alla patologia frontale.

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2. La sindrome frontale

Alcuni Autori hanno definito questa alterazione cognitivo-comportamentale come

“falsificazione della memoria”, facilmente riscontrabile in soggetti cerebrolesi con

gravi deficit delle funzioni mnesiche e dell’autocontrollo. Gli stessi Autori, riferendo

le diverse ipotesi formulate circa i meccanismi neuropsicologici che sottendono ai

comportamenti confabulanti, osservano il fatto che il termine “confabulazione” è

stato attribuito a fenomeni di vario genere e di diversa natura (psicogena e organica),

quali, elevata suggestionabilità, alterazioni della capacità di sequenzializzazione

cronologica, modalità di meccanismo di difesa, tentativo di “riempimento” di un

“vuoto” mnesico e difetto di auto-monitoraggio.

Nonostante sia tuttora aperta la discussione circa le possibili connessioni tra queste

condizioni cliniche e i comportamenti confabulanti, i pazienti che ne sono affetti in

generale presentano un’amnesia globale o una sindrome frontale.

Il paziente “confabulante”, nel caso sia amnesico, tende a “costruire” ricordi

mescolando elementi ricavati da fatti autobiografici diversi, mentre nel caso presenti

una compromissione di tipo “frontale”, produce spontaneamente informazioni aventi

manifesta non aderenza alla realtà, in assenza di intenzionalità ad ingannare. La

presenza di due diversi meccanismi patogenetici, spesso concomitanti (amnesia

globale e patologia dei lobi frontali), a cui corrispondono i suddetti due “livelli” di

confabulazioni, è stata da tempo dimostrata anche in ambito sperimentale.

2.11 Disinibizione / Disforia

Tanto la confabulazione quanto la disinibizione appartengono a quella classe di

comportamenti che sono inadeguati per le condizioni e i tempi in cui vengono

manifestati: comportamenti che, da un lato, rendono il soggetto socialmente

inaccettabile e, dall’altro, invalidano qualsiasi tentativo di riabilitazione.

La maggiore frequenza e le forme più gravi di disinibizione si osservano in seguito a

lesioni diffuse ma coinvolgenti prevalentemente i lobi frontali e le connessioni

temporo-limbiche, come nei traumi cranici, nei processi infettivi o degenerativi e nei

casi di ipossia cerebrale.

La presenza di condotte disinibite può essere indicativa di deficit a vari livelli e più

precisamente:

a) Deficit dell’autoconsapevolezza (come nel caso in cui un paziente con gravi

limitazioni motorie o cognitive, sembra euforico);

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2. La sindrome frontale

b) Deficit dell’autocontrollo (per esempio, atteggiamenti di esibizionismo e

richieste sessuali imbarazzanti, manifestate in pubblico e con persone

incontrate occasionalmente);

c) Insufficienti capacità di critica e difficoltà nel discriminare o recepire i

segnali di “feedback” ambientali (per esempio, apprezzamenti o domande

eccessivamente personali, rivolti ad interlocutori con cui non sussistono

rapporti di confidenza, oppure “battute di spirito” prodotte in un contesto non

idoneo.

Un fenomeno spesso associato alla disinibizione è rappresentato dalla sindrome d'uso

(Shallice, 1982), nota anche come sindrome da dipendenza ambientale: è la tendenza

ad utilizzare oggetti o strumenti presenti nell'ambiente, anche nelle circostanze in cui

tale comportamento è inopportuno od inadeguato, o ad imitare in modo compulsivo

le azioni dell'interlocutore. Questo comportamento sottolinea la difficoltà a tenere in

considerazione i feedback ambientali, e particolarmente gli indizi a disconferma delle

proprie ipotesi (perseverazione nell'errore).

È interessante notare come questi comportamenti sono normali ed adattativi in età

evolutiva, e costituiscano le modalità di apprendimento più importanti in età pre-

verbale, per poi scomparire in età adulta.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

I disturbi cognitivi compromettono gravemente la capacità dell’individuo di

interagire con i propri simili e con l’ambiente; il paziente non è più in grado di far

fronte in modo adeguato alle richieste poste dal contesto sociale in cui vive; egli

soffre di una limitazione grave delle possibilità di scelta comportamentale e, in

ultima analisi, è costretto a reagire in modo stereotipato agli stimoli complessi e

variegati che la vita quotidiana presenta.

Quando la patologia è diffusa, si assiste al decadimento progressivo delle funzioni

corticali secondo una modalità spesso uniforme, che inizia con disfunzioni attentive e

dei processi mnesici, per giungere a difficoltà di linguaggio, della gestualità

finalizzata e del riconoscimento percettivo fino alla perdita della capacità di analisi

della situazione contestuale e di programmazione del comportamento, che risulta

limitato ad atti afinalistici e strettamente dipendenti dalla natura dello stimolo.

In definitiva l’insorgenza di una sofferenza cerebrale, imponendo una drastica

interruzione delle usuali modalità di interazione individuo-ambiente, comporta non

solo un cambiamento radicale del vissuto personale, dell’autonomia nella vita

quotidiana e della sua qualità, ma anche una alterazione profonda del ruolo che

l’individuo svolge nell’ambito familiare e nel contesto sociale.

Una serie di variabili socio-demografiche ed economiche stanno trasformando la

neuroriabilitazione in una disciplina centrale della medicina, soprattutto nei paesi

industrializzati. L’allungamento della vita media, ad esempio, comporta che l’attesa

di vita dei pazienti colpiti da patologie neurologiche sia assai più lunga che in

passato. I notevoli miglioramenti delle tecniche riabilitative e l’aumento della

scolarizzazione media comportano che pazienti con sequele di patologie

neurologiche possano attingere a potenziali residui più elevati che in passato. La

crescente domanda di interventi riabilitativi è inoltre legata al forte impatto sociale

dei traumi cranici, patologie invalidanti che riguardano, spesso, soggetti giovani.

Il pensiero neurobiologico ha considerato estremamente limitato il potenziale

plastico del sistema nervoso adulto e quindi velleitario ogni tentativo di

riabilitazione.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

Le indagini epidemiologiche hanno sottolineato l’attuale preponderanza delle

disabilità croniche rispetto alle patologie acute e ciò ha indotto ad integrare la

classificazione internazionale delle malattie (ICD) con la classificazione

internazionale delle menomazioni, disabilità ed handicap (ICIDH), più recentemente

sostituita dall’ICF. Non è più sufficiente che l’intervento sanitario riesca ad

affrontare la fase acuta della malattia; è necessario rivolgere l’attenzione verso le

conseguenze croniche della malattia.

Sebbene il numero di persone che presentano una grave disabilità cognitiva sia

estremamente elevato, raramente a questi pazienti viene offerta la possibilità di

migliorare la qualità della loro vita. Al contrario fino ad anni recenti si è registrato un

atteggiamento terapeutico fortemente rinunciatario alla cui origine può essere

verosimilmente individuato il riferimento culturale a modelli di funzionamento del

sistema nervoso centrale ormai superati ma profondamente radicati e difficili da

sostituire.

Un ostacolo rilevante è cioè rappresentato dallo stereotipo culturale secondo cui non

esisterebbero trattamenti efficaci. Non è ancora divenuta patrimonio conoscitivo

comune la vera rivoluzione copernicana che le nuove acquisizioni delle neuroscienze

hanno determinato anche nel settore riabilitativo.

3.1 Plasticità neuronale

Il concetto di riabilitazione cognitiva riposa sull’accettazione di un assunto

fondamentale: il cervello umano è dotato di un certo grado di adattamento che, in

caso di lesione, permette la riorganizzazione di quei circuiti neuronali responsabili

dei processi cognitivi.

Le recenti acquisizioni delle neuroscienze hanno apportato innovazioni straordinarie

a livello diagnostico e terapeutico, ma la diffusione delle nuove conoscenze sembra

incontrare una serie di ostacoli, tra cui l’indifferenza, timore ed ostilità che colpisce

ogni operatore sanitario di fronte alla complessità dei problemi posti dalle patologie

neuropsicologiche.

La consapevolezza di questo iato crescente tra le conoscenze di base e la loro

applicazione pratica ai problemi di salute della comunità ha rappresentato uno dei

motivi principali che ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a sollecitare

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

come interesse primario le indagini volte a documentare la reale efficacia della

riabilitazione neuropsicologica.

I dati disponibili hanno determinato una revisione critica di nozioni che sembravano

costituire dogmi immutabili:

• le cellule nervose sono perenni;

• il tessuto nervoso è “nobile” e non riproducibile;

• ognuno nasce con un patrimonio fisso e non sostituibile di neuroni;

• l’organizzazione anatomofunzionale del sistema nervoso è statica; superato il

periodo evolutivo le possibilità di riorganizzazione subiscono una limitazione

progressiva fino alla stabilizzazione delle configurazioni strutturali in aree

con funzioni specifiche definite.

Una visione così rigida del sistema nervoso precludeva ogni plausibile approccio

teorico alla riabilitazione. Di necessità i primi tentativi di riabilitare i disturbi delle

funzioni cognitive sono stati empirici, privi di un supporto scientifico convalidato: è

impressionante oggi pensare che, soltanto qualche decennio fa, quando non era

pratica di routine la fisioterapia, la grande maggioranza dei pazienti emiplegici

perdeva qualunque autonomia nella deambulazione e restava confinata a letto per

tutto il resto della vita.

L’efficacia della riabilitazione ha quindi fatto da traino per lo sviluppo di ricerche

finalizzate alla comprensione dei meccanismi alla base del recupero da una lesione

cerebrale, ricerche che hanno reso indispensabile introdurre il concetto di plasticità

come proprietà fondamentale del sistema nervoso.

Il concetto di neuroplasticità ha numerose implicazioni teoriche e pratiche:

• in netto contrasto con le opinioni precedenti, le più recenti indagini sulle

cellule staminali suggeriscono che il cervello è in grado di produrre neuroni

durante tutta la sua esistenza; in ogni caso, la capacità dell’individuo di

modificare il comportamento in rapporto alle mutevoli condizioni ambientali

e di far fronte alle novità ha un correlato fisiologico nella continua

adattabilità della sinapsi, cioè nella capacità della cellula nervosa di stabilire

connessioni funzionali;

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

• le connessioni fra neuroni non sono fissate una volta per tutte ma sono

dinamiche e sempre modificabili tanto da poter affermare che non solo non

possono esistere due cervelli identici, ma che il cervello di un individuo non è

mai esattamente lo stesso da un istante all’altro; le connessioni sinaptiche

danno origine a circuiti di complessità variabile che non sono precostituiti ma

vengono selezionati sotto la spinta delle caratteristiche ambientali di cui il

soggetto fa esperienza diretta;

• l’unità funzionale del sistema nervoso può essere concepita meglio come una

rete neuronale piuttosto che come singolo neurone; la rete neuronale

corrisponde ad un sistema funzionale costituito da componenti multiple, di

tipo modulare; le singole componenti sono situate in sedi cerebrali distinte ma

interconnesse e possono essere condivise da più sistemi funzionali,

appartenere cioè a più reti che in parte si sovrappongono; maggiore la

complessità del sistema nervoso, maggiore la capacità di riorganizzazione;

naturalmente esistono limiti ben definiti al processo di recupero, ad esempio

la ridotta possibilità di sostituzione di componenti ad alta specializzazione

funzionale.

Brillanti documentazioni sulla neuroplasticità derivano dagli studi sulla

modificabilità delle mappe cerebrali: la topografia cerebrale può andare incontro a

variazioni sia in seguito ad una defferentazione, da lesione periferica o centrale, che

in seguito all’esercizio, all’apprendimento e alla iperattività funzionale. Le indagini

di imaging funzionale mostrano come la rete neuronale attivata da una determinata

prestazione cognitiva cambia con l’esperienza che il soggetto ha del compito.

Il sistema nervoso è quindi caratterizzato da un meccanismo intrinseco in grado di

consentire un continuo rimodellamento funzionale.

In un sistema così organizzato, il singolo componente perde la sua funzione

strategica e in caso di danno può essere rimpiazzato.

Grazie a questo meccanismo l’ambiente, fisico e sociale, plasma la materia cerebrale

e il sistema nervoso assorbe le caratteristiche dell’ambiente in cui vive.

Le acquisizioni sulla plasticità cerebrale hanno modificato profondamente

l’atteggiamento culturale nei confronti di una serie di condizioni che, in base alle

precedenti teorie sul funzionamento del sistema nervoso, venivano considerate

l’effetto inevitabile di un danno delle strutture cerebrali.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

I due esempi più significativi sono rappresentati dalla possibilità di limitare le

conseguenze negative dell’invecchiamento cerebrale e di recuperare l’efficienza

delle funzioni cognitive danneggiate da una lesione: di fatto né l’età né la patologia

modificano l’attitudine del sistema nervoso di organizzarsi in relazione agli stimoli

che riceve.

3.2 La riabilitazione come apprendimento

Il recupero dopo lesione cerebrale può essere visto come un processo di

apprendimento in condizioni patologiche.

Di conseguenza l’intervento riabilitativo, inteso come l’attuazione di mezzi per

rendere più completo il recupero, deve assumere i caratteri di una condotta di

insegnamento volta a far acquisire al paziente comportamenti che gli permettano di

interagire col mondo in maniera sempre più complessa in rapporto sia alle

caratteristiche di questo sia ai propri scopi.

È nozione comune che l’apprendimento implica cambiamenti funzionali e/o

strutturali nel sistema nervoso. Una rigida applicazione della regola della fissità delle

connessioni nervose in età adulta contrasta con il fatto che l’apprendimento, in

assenza di specifiche patologie, può avere luogo praticamente a qualunque età.

Studi primatologici hanno fornito dimostrazione diretta dei mutamenti nervosi indotti

dall’apprendimento documentando un ampliamento delle aree di rappresentazione

nervosa riguardanti elettivamente strutture coinvolte nell’apprendimento di un

determinato compito.

Se da un lato è chiaro che l’allenamento e la corretta esecuzione di un determinato

compito modificano il sistema nervoso al fine di ottimizzare il compito stesso,

dall’altro comincia ad essere compreso che l’esercizio strenuo ed improprio induce

cambiamenti neurali in senso disorganizzativo e quindi dannoso.

Molti interventi terapeutici in neuropsicologia riabilitativa trovano il loro

fondamento in alcune teorie dell’apprendimento sviluppate nel corso del tempo.

La storia e lo sviluppo della ricerca sul cambiamento cognitivo dell’uomo possono

essere descritti considerando l’importanza e l’influenza reciproca che i diversi

studiosi hanno attribuito ai fattori interni e a quelli esterni di tale evoluzione: cioè se

l’acquisizione di conoscenze, idee e abilità sia frutto dell’influenza dell’ambiente in

cui l’individuo vive oppure se sia determinata esclusivamente da meccanismi interni.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

È possibile condensare questo tema nel rapporto tra apprendimento e recupero, che

ha delle implicazioni importanti nel campo della riabilitazione: porre l’accento sulle

influenze esterne o sui meccanismi interni significa formulare diversi obiettivi di

trattamento e adottare metodiche distinte.

Mentre il comportamentismo rifiuta di considerare rilevanti ai fini della conoscenza i

meccanismi interni all’individuo, e quindi concentra la propria attenzione solamente

sull’apprendimento, il cognitivismo non tiene presenti i fattori esterni e spiega il

cambiamento cognitivo in termini di modificazione di strutture possedute

dall’individuo ( Boscolo, 1997).

Posizioni completamente opposte, quindi, che con l’approfondirsi degli studi in

questo campo trovano una loro collocazione logica e conciliante nella posizione del

costruttivismo, ma soprattutto di Vygotskij, che rifiuta la pretesa del

comportamentismo di identificare l’apprendimento con lo sviluppo, ma allo stesso

tempo respinge il concetto piagetiano dello sviluppo indipendente

dall’apprendimento: in realtà, apprendimento e sviluppo sono due aspetti

complementari che dialogano continuamente tra loro.

La riflessione sullo stretto rapporto tra esperienza e cognizione ha portato ad

allontanarsi dalle tesi universalistiche di Piaget , per attribuire invece un’importanza

maggiore, e quindi una considerazione più attenta, al ruolo dell’esperienza nello

sviluppo cognitivo, e passare quindi da un’attenzione particolare puntata sul contesto

o sul soggetto, allo studio delle profonde interazioni tra i due fattori.

3.2.1 Comportamentismo

La corrente del comportamentismo prende spunto dagli studi del fisiologo russo

Pavlov (1849 / 1936), anche se elementi di questa teoria possono essere rinvenuti in

Darwin.

Nell’esperimento più famoso condotto dal fisiologo russo, Pavlov suonava un

campanello ogni volta che porgeva del cibo ad un cane. Ogni volta che il cane

sentiva il campanello sapeva che da lì a poco il cibo sarebbe arrivato, e per tale

motivo iniziava a salivare. Successivamente Pavlov iniziò a suonare il campanello,

ma senza porgere il cibo al cane: nonostante la mancanza di quest’ultimo, il cane

salivava comunque. Questo perché l’animale era stato “condizionato” a salivare al

suono del campanello.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

Pavlov sosteneva che anche l’uomo reagisse agli stimoli secondo lo stesso schema,

definito “condizionamento classico”, e questa idea venne sostenuta e rafforzata da

Watson ( 1878 / 1958 ). Egli fu il primo ad applicare le teorie di Pavlov nel campo

dell’apprendimento umano, affermando che tutti i comportamenti umani, tranne

alcuni riflessi e reazioni emotive innate, fossero fissati attraverso il condizionamento

per mezzo delle associazioni stimolo-reazione.

Fu proprio Watson a coniare il termine “comportamentismo”, perché sosteneva che

la psicologia non era collegata con la mente o la coscienza umana, ma solamente

con il comportamento: in tal modo, l’uomo poteva essere studiato in modo oggettivo,

tanto quanto i ratti e le scimmie.

Le teorie elaborate da Pavlov hanno trovato un forte riscontro nei metodi di

trattamento dei disturbi comportamentali: sono stati sviluppati, seguendo il principio

del “condizionamento classico”, alcuni approcci di intervento basati sul controllo

degli stimoli ambientali, mirati all’apprendimento di nuove abilità e a favorire

l’emissione di comportamenti adeguati con lo scopo di aumentarne la stabilità .

Skinner ( 1904 / 1990 ) riprese gli studi di Watson, affermando a sua volta che i

processi di apprendimento erano osservabili grazie a dei cambiamenti nel

comportamento, senza tenere conto di eventuali cambiamenti avvenuti nella mente.

Egli studiò il “condizionamento operante” nell’apprendimento: secondo questa

teoria, le contingenze ambientali o le reazioni dell’ambiente al comportamento di un

individuo determinano il comportamento dell’individuo stesso. Se la reazione

dell’ambiente è positiva, l’azione che l’ha causata viene rinforzata e quindi è più

probabile che venga ripetuta. Per Skinner chi apprende agisce sull’ambiente che lo

circonda e le reazioni che ne conseguono, positive o negative che siano, sono le fonti

dell’apprendimento: è l’ambiente che seleziona i comportamenti più o meno

funzionali, e le reazioni dell’ambiente alle azioni umane sono un segnale che rinforza

o scoraggia i diversi modi di agire.

Fu proprio Skinner ad introdurre nello studio dell’apprendimento umano i concetti

elaborati dai primi comportamentisti: secondo lui, “l’apprendimento umano, inteso

come induzione di comportameni desiderati, può essere favorito attraverso il

rinforzo positivo” (Skinner, 1954).

Da questa sua affermazione, tratta dall’articolo “the science of teaching and the art

of learning” del 1954, che da l’avvio agli studi behaviouristi nell’apprendimento

umano, si può evincere come l’acquisizione di concetti sia un processo passivo

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

controllato dall’esterno (si parla infatti di “induzione”), misurato in base alla

comparsa di comportamenti esteriori ( e non quindi in base a modificazioni a livello

intellettivo e psicologico), che prende il via da un rapporto “positivo” con

l’ambiente: la dinamica che prevale in tale rapporto è quella del trial and error,

denominata da Thorndike come “legge dell’effetto” (1931).

I comportamentisti hanno cercato di spiegare le dinamiche dell’apprendimento senza

indagare i processi mentali sottesi. Nonostante gli esperimenti sull’apprendimento

fossero stati condotti in modo semplificato e incentrati principalmente sui

comportamenti riflessi dell’individuo sottoposto a precisi stimoli, le teorie

comportamentiste si sono diffuse ed hanno portato a forti generalizzazioni

riguardanti le funzioni di livello superiore.

Skinner, infatti, ha avuto un forte impatto sia sulla psicologia che sulla medicina

riabilitativa: secondo i comportamentisti ogni comportamento è seguito da una

risposta ambientale le cui caratterisiche, gradevoli o sgradevoli, dipendono dal tipo di

comportamento prodotto, è essenziale dunque che l’apprendimento sia un’esperienza

positiva, dato che qualsiasi associazione emotiva spiacevole può interferire con il

processo.

La mente di chi apprende è considerata una sorta di “scatola nera” all’interno della

quale è impossibile vedere i processi che vi avvengono: quindi risulta inutile evocare

i meccanismi interni per spiegare il comportamento, quando è più facile e dimostrato

come quest’ultimo possa essere determinato dall’esterno in modo lineare.

In base alle ipotesi di Skinner, l’obiettivo della riabilitazione neuropsicologica è di

cambiare o comunque plasmare il comportamento di un individuo con lesione

cerebrale servendosi di “rinforzi” o “punizioni”: in altre parole le metodologie

comportamentistiche intervengono applicando tecniche in grado di modificare

comportamenti inadeguati nell’interazione ambientale e sociale, dove ogni intervento

è finalizzato a modificare la frequenza, la durata o la locazione di determinati

comportamenti attraverso il variare sistematico delle condizioni ambientali.

Tale approccio è caratterizzato da un esiguo, se non assente, numero di gradi di

libertà del paziente, fattore che ha dei risvolti positivi e negativi. La debolezza del

metodo risiede nel fatto che il paziente può trovarsi in una situazione in cui lo

“stimolo” che dovrebbe portare all’adozione di comportamenti desiderati, di cui parla

Skinner, viene a mancare e di conseguenza l’apprendimento non avviene.

D’altra parte è anche vero che un approccio di questo tipo può essere utile durante

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

la seduta terapeutica, in quanto richiede un basso grado di processamento delle

informazioni.

Una delle leggerezze compiute dal comportamentismo è stata quella di generalizzare

le teorie ricavate dall’osservazione di esperimenti di basso livello di apprendimento,

basati principalmente sui riflessi, applicandole a funzioni di più alto livello, nelle

quali vengono chiamati in causa altri processi più complessi. L’influenza delle teorie

darwiniane emerge dal fatto che il processo di apprendimento altro non è che un

adattamento all’ambiente circostante, che tramite le risposte alle nostre azioni su di

esso ci fornisce degli stimoli che ci inducono a ripetere o ad abbandonare il

comportamento fonte dello stimolo.

Inoltre, nell’approccio comportamentista sono assenti due aspetti importanti:

1) un interesse verso il meccanismo utilizzato dall’individuo per apprendere il

processo completo: studi successivi, infatti, hanno dimostrato che un

processo complesso non può essere appreso semplicemente scomponendolo

in elementi e insegnando i sottoprocessi senza considerare il conteso

all’interno del quale il processo avviene.

2) un interesse verso la significatività della tematica appresa per l’individuo:

se il processo appreso è in conflitto con la conoscenza già posseduta

dall’individuo, quest’ultimo può risolvere tale discrepanza o non riuscendo

ad accomodare1 la nuova conoscenza in modo significativo alle proprie

strutture mentali, oppure costruendo strutture conoscitive parallele a quelle

possedute o in conflitto con esse.

Il comportamentismo si presenta quindi come una sorta di “addestramento” piuttosto

che come processo di apprendimento.

3.2.2 Cognitivismo

Attorno agli anni Settanta, nell’ambito delle teorie del condizionamento operante, ha

assunto molta importanza lo studio dell’apprendimento e si è così cercato di

1 Per accomodamento si intende, secondo Piaget, il momento in cui i dati provenienti dall’esperienza modificano la struttura mentale dell’individuo adattandola alle loro caratteristiche (Vygotskij, Piaget, Bruner, “concezioni dello sviluppo” a cura di Liverta Sempio O., 1998)

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

stabilirne le principali regole, come, ad esempio, se è più utile un apprendimento

massivo o distribuito o il rapporto ideale tra il numero di stimoli e rinforzi.

L’affermarsi della psicologia cognitivista, che veniva ad affiancarsi e a superare le

impostazioni comportamentiste, è valso ad attirare l’attenzione degli studiosi dei

prodotti del sistema nervoso centrale dell’uomo, sulla necessità di tener presente

come oggetto di studio, oltre agli input e agli output del sistema, anche i processi che

avvengono all’interno di esso, processi che fino ad allora non erano ritenuti possibili

come oggetto di studio.

La psicologia cognitivista ha sottolineato alcune nozioni che rivestono la massima

importanza nell’analisi dell’organizzazione del comportamento, quali i processi

cognitivi, il concetto di schema, la definizione di attenzione e di memoria a lungo e a

breve termine, vista quest’ultima come sede delle operazioni di organizzazione del

comportamento.

Questa impostazione nello studio dell’attività umana è stata significativa, almeno in

parte, per far riflettere anche il riabilitatore sulla reale correttezza di proposte

operative che rimandavano ad un secondo tempo in riferimento ai processi di

elaborazione che nella realtà erano contemporanei al movimento.

Fino al 1970 la maggior parte dei neurofisiologi studiava prevalentemente il

funzionamento del singolo elemento (neurone, sinapsi) o più gruppi di elementi

indipendentemente dall’attività dell’animale. Infatti, la maggior parte delle ricerche

era condotta nell’animale inferiore e per lo più decerebrato, cioè posto in condizioni

di non programmare il suo movimento e di elaborarlo sulla base di finalità presenti al

suo sistema nervoso centrale. Gli studi di questo tipo hanno condotto a notevoli

acquisizioni per quanto riguarda la conoscenza dei circuiti riflessi a partenza

muscolare e dei meccanismi di integrazione nel senso sherringtoniano del termine,

non sono però riusciti, se non in maniera assai ridotta, ad evidenziare e specificare i

rapporti con i livelli superiori.

Intorno agli anni Settanta un numero maggiore di fisiologi prende a studiare l’attività

motoria in un modo più globale ricorrendo con maggiore frequenza ad animali

superiori, conducendo gli studi su animali integri, senza sezioni a carico del sistema

nervoso centrale, non anestetizzati e addestrati a determinati compiti, cioè ad attivare

comportamenti finalizzati che potessero essere oggetto di studio.00000000I vecchi

concetti dell’attività motoria riflessa come mattone del comportamento, vengono

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

superati quando il fisiologo riesce a dimostrare che l’attivazione del circuito riflesso

è in relazione con l’intenzionalità di chi si muove e con la finalità del movimento.

Altri parametri del movimento prima trascurati perché ritenuti soggettivi e quindi

non sufficientemente quantificabili, vengono ritenuti fondamentali per spiegare

l’intervento del sistema nervoso centrale nell’organizzazione del comportamento.

Sulla spinta delle osservazioni critiche derivate dalla psicologia cognitivista, il

comportamento viene ora proposto come lo studio dei processi messi in atto da un

sistema che interagisce con l’ambiente secondo le proprie necessità, dove l’attività

umana viene a rappresentare l’oggetto dell’intervento riabilitativo. Il recupero è

considerato come la conseguenza dell’attivazione di una serie di processi cognitivi e

quindi di funzioni nervose superiori: migliore la loro integrazione, migliore il

recupero. Fondamentale è la conoscenza dei processi che strutturano le contrazioni in

sequenze significative all’interno di un contesto relazionale.

Dal momento che si parla di apprendimento, bisogna considerare ovviamente le

funzioni cognitive di base o di servizio, come ad esempio le funzioni esecutive,

l’attenzione, la memoria, la percezione e sensazione, il linguaggio, le associazioni,

nonché la plasticità del sistema nervoso centrale e i meccanismi di riparazione.

Un’analisi del movimento di tipo pragmatico che tenga conto non solo delle

caratteristiche fenomeniche del movimento e delle alterazioni in loro indotte dalla

patologia, ma soprattutto delle necessità del paziente oltre che delle caratteristiche

dell’ambiente col quale deve interagire, conduce alla definizione che l’oggetto

dell’intervento riabilitativo può essere ritenuto il recupero dell’adattabilità, intesa

come capacità di interagire e possibilità di adeguare alle necessità informative la

relazione con il mondo esterno. Inoltre, se si ritiene che il movimento debba essere

analizzato come elemento in grado di permettere la conoscenza del mondo, è

indispensabile perfezionare la comprensione del suo ruolo: interagire con l’oggetto

non è equivalente a ricostruire meccanicamente l’oggetto nella mente, operazione

peraltro impossibile, ma significa in ogni caso interpretare l’oggetto in funzione delle

proprie necessità.

Esiste un’importante differenza di impostazione tra un programma di trattamento dal

punto di vista del comportamento, e quello relativo all’apprendimento. Una strategia

comportamentale è essenziale nelle prime fasi della riabilitazione, quando la lesione

cerebrale evolve nel corso del processo di recupero; in ogni caso, se gli approcci

terapeutici vengono diretti soltanto alla sintomatologia della lesione (per esempio

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

occupandosi della memoria o dell’attenzione, controllando le risposte agli stimoli

ambientali), allora non vengono proposte quelle attività indispensabili al

raggiungimento delle abilità necessarie per consentire risultati funzionali ottimali e

permanenti. La determinazione delle abilità richieste, si svilupperà dall’interazione

dei deficit organici e cognitivi, e dal modo in cui questi limitano la capacità

dell’individuo di occuparsi della cura di se sesso, il grado di dipendenza fisica dagli

altri e l’adattabilità psicosociale nell’occuparsi di attività produttive, importanti dal

punto di vista sociale.

Inerente alle abilità richieste vi è quella di acquisire un comportamento pratico ed

esperto.

Come per tutti, per un individuo con lesione cerebrale il comportamento pratico ed

esperto consiste nell’esperienza e nella capacità di eseguire i compiti della vita

quotidiana. L’esperienza è l’abilità di raggiungere in modo costante un obiettivo, in

un’ampia varietà di condizioni. La capacità di risolvere i problemi e di generalizzare

le nuove situazioni si basa sulla capacità di apprendimento dell’individuo, che indica

l’efficienza nell’organizzare le risorse interiori disponibili, per creare e controllare

soluzioni che portano ad interazioni significative tra lui e l’ambiente.

3.2.3 Conclusioni

Sono stati fatti molti tentativi per descrivere i processi dell’apprendimento umano,

teorie affascinanti, tanto più interessanti perché possiamo verificarle

quotidianamente, anche riflettendo sulle esperienze di apprendimento che abbiamo

vissuto nella nostra vita.

Ma la domanda che ora è necessario porsi è se esiste una teoria dell’apprendimento

migliore e più efficace delle altre, e quindi quali possono essere i metodi migliori per

applicare tale teoria nell’ambito riabilitativo.

Il fatto è che la lesione cerebrale può dare origine ad un’ampia varietà di disturbi

comportamentali, che vanno però indagati sulla base delle caratteristiche individuali,

tenendo in considerazione una serie di fattori soggettivi che possono favorire od

ostacolare il processo di recupero. Non è quindi possibile generalizzare gli interventi

e non è altrettanto auspicabile ottenere gli stessi risultati funzionali se si considera

l’individuo nella sua globalità.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

3.3 La riabilitazione neuropsicologica

La lesione cerebrale può dare origine a comportamenti “bizzarri” che vengono

solitamente interpretati come reazioni psicologiche, anziché come una conseguenza

inevitabile della lesione, creando un circolo vizioso che conduce spesso alla

esclusione del paziente dal contesto in cui vive. In generale i deficit cognitivi

possono avere conseguenze molto più devastanti sul comportamento quotidiano

rispetto ai deficit di moto o di senso; tuttavia il problema comportamentale non è

immediatamente rilevabile e compare solo al momento dell’interazione sociale.

La maggior parte delle difficoltà incontrate dai soggetti che hanno subito un trauma

cranico vengono attribuite dai familiari ad un cambiamento generale del carattere,

ma sono in effetti la conseguenza di alterazione dei processi attentivi e della perdita

delle strategie di analisi e programmazione che richiedono l’integrità funzionale dei

lobi frontali. In questo senso bisogna considerare che vittima della lesione cerebrale

non è solo il paziente ma anche la sua famiglia.

Non poco aiuto deriva ai conviventi da una migliore comprensione del

comportamento del paziente e della influenza che su di esso possono esercitare le

modificazioni del contesto, di cui fanno parte in prima istanza proprio i conviventi;

informare che le prestazioni cognitive e gli aspetti emotivo-affettivi seguono

determinate regole, che la lesione ha provocato una riduzione di vario grado delle

possibilità di scelta comportamentale (fino al limite di una sola possibilità) e che

generalmente il paziente fornisce la migliore risposta che ha a disposizione in quella

determinata situazione può abbattere alcune barriere che ostacolano la

comunicazione con il paziente; suggerire la inopportunità di atteggiamenti derivanti

dal continuo confronto con le abilità e le caratteristiche comportamentali che si

conoscevano prima della lesione o dall’applicazione degli stessi criteri di giudizio

usati in precedenza, quando si dava per scontato che il comportamento fosse la

conseguenza di una scelta volontaria e spontaneamente modificabile, può aiutare a

limitare il manifestarsi di condotte problematiche.

Un corollario di grande rilievo è rappresentato dalla riabilitazione nella cronicità;

sono sempre più numerose le documentazioni di miglioramenti funzionali

significativi in soggetti con lesione insorta da molti anni grazie alla utilizzazione di

piani riabilitativi individualizzati. Per il recupero sembra cioè più importante il tipo

di strategia riabilitativa che il tipo di lesione.

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3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi

Se il comportamento può essere considerato un imperativo neurologico, nella

relazione cervello-ambiente la variabile dipendente è il cervello; la plasticità, che

caratterizza l’individuo nella sua singolarità ha la sua massima espressione in età

evolutiva, ma si mantiene per tutta la vita, anche in età geriatrica, e non viene persa

nemmeno in caso di patologia.

La perenne modificabilità delle mappe cerebrali è la migliore garanzia delle

possibilità di successo della riabilitazione neuropsicologica, un settore delle

neuroscienze che appare ormai affrancato dall’empirismo, pur solido, su cui aveva

fondato le sue origini ed ha acquisito un suo corpus dottrinario che ne giustifica la

prassi, permettendo di superare lo scetticismo che effettivamente appariva

giustificato sulla base delle conoscenze teoriche antecedenti.

Allo stato attuale delle conoscenze, la riabilitazione neuropsicologica assume un

ruolo decisivo nel progetto di salute di ogni soggetto che soffra di una disabilità

cognitiva.

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

In questo capitolo sarà descritta la metodologia dell’intervento riabilitativo nei

pazienti con sindrome frontale, degenti durante la fase postacuta in un ospedale di

riabilitazione.

Il progetto proposto è inserito all’interno di un più ampio protocollo di riabilitazione

neurologica che vede l’intervento interdisciplinare di numerose figure professionali:

medici neurologi e fisiatri, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, psicologi e assistenti

sociali.

L’obiettivo generale dell’intervento, in accordo con la nuova concettualizzazione

delle disabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2003), che tiene conto per

la prima volta anche di fattori ambientali, è quello di fare regredire le menomazioni

psichiche, le limitazioni delle attività e le riduzioni della partecipazione attraverso

interventi diagnostici, prognostici e riabilitativi.

L’ESAME NEUROPSICOLOGICO

L’esame neuropsicologico fornisce informazioni sul comportamento, le capacità

cognitive, la personalità, le abilità apprese e il potenziale riabilitativo delle persone

che hanno subito una lesione cerebrale.

Il suo obiettivo è quello di rilevare le manifestazioni comportamentali delle funzioni

cerebrali, siano esse compromesse o preservate.

La sua metodologia richiede l’utilizzo di tecniche specializzate nella relazione

comportamento-cervello.

L’esame neuropsicologico tiene conto di tre dimensioni del comportamento:

• le funzioni cognitive;

• le funzioni esecutive;

• l’emozione e la motivazione;

e di una attività mentale:

• la consapevolezza o coscienza.

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

La valutazione neuropsicologica si basa su un’osservazione clinica

multiprofessionale.

Essa contribuisce:

• a determinare la diagnosi neuropsicologica;

• a completare la diagnosi neurologica, supportandone la diagnosi

differenziale;

• a individuare la prognosi clinica generale;

• a strutturare il progetto riabilitativo integrato;

• a sviluppare il programma di riabilitazione neuropsicologica;

• a fornire al paziente e alla famiglia indicazioni sulle abilità compromesse e su

quelle residue, per poter riadattare in modo congruente le aspettative e gli

obiettivi per il futuro, nonché le strategie di compenso;

• a fini assicurativi e legali.

Nella sindrome frontale è opportuna una valutazione di minima di tutte le funzioni

corticali superiori ed una valutazione specifica delle funzioni esecutive.

L’esame neuropsicologico si avvale dei seguenti strumenti:

• l’intervista;

• l’osservazione;

• i test neuropsicologici standardizzati.

L’esame neuropsicologico sarà preceduto da una preliminare consultazione di: referti

neuroradiologici; anamnesi medica generale e neurologica in particolare; relazioni

cliniche e scolastiche.

L’INTERVISTA NEUROPSICOLOGICA

L’intervista neuropsicologica ha lo scopo di rilevare:

• la storia personale: educativa, familiare, occupazionale, cognitiva, sociale,

medica, psicologica;

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

• la descrizione soggettiva dei disturbi cognitivi;

• la motivazione e la presenza di apatia;

• l’emozione e la presenza di disturbi emotivi;

• l’autocontrollo e la presenza di disinibizione, aggressività e altri disturbi da

discontrollo comportamentale;

• l’esame di realtà e la presenza di disturbi tipo psicotico (deliri e

allucinazioni) o pseudopsicotico (paramnesie reduplicative, confabulazioni,

allucinosi);

• la personalità premorbosa e la presenza di modificazione della personalità;

• i livelli di consapevolezza dei disturbi e la presenza di anosognosia,

meccanismi di negazione o altre alterazioni della consapevolezza;

• l’impatto della menomazione, le limitazioni dell’attività, la riduzione della

partecipazione, il grado di disadattamento;

• le relazioni familiari.

Infine, il primo colloquio neuropsicologico ha una funzione fondamentale: quella di

porre le basi per iniziare a costruire una collaborazione e una relazione terapeutica

con il paziente.

L’intervista neuropsicologica è uno strumento essenziale della valutazione

neuropsicologica; sebbene sia strutturata per aree di approfondimento, viene condotta

in modo flessibile, non ha una forma rigida e fissa e segue il tema proposto dal

paziente .L’intervista neuropsicologica deve essere trascritta su un modulo specifico,

per poter essere conservata e facilmente consultata.

L’OSSERVAZIONE

L’osservazione del comportamento è il fondamento della valutazione psicologica.

Viene effettuata secondo quattro modalità:

1. indiretta: comportamenti riferiti da familiari, medici, terapisti; interviste; liste

comportamentali;

2. indiretta strutturata: questionari di self report o di eterovalutazione;

3. diretta informale: comportamenti emersi durante l’intervista e i test;

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

4. diretta strutturata: monitoraggio e scheda di osservazione di un comportamento

specifico; test neuropsicologici non standardizzati.

I TEST NEUROPSICOLOGICI

I test neuropsicologici rilevano le funzioni e i deficit cognitivi:

• la memoria e l’amnesia;

• l’attenzione e disturbi dell’attenzione

• la percezione e le agnosie;

• la cognizione spaziale e i disturbi spaziali;

• il linguaggio e le afasie, dislessie, disortografie;

• il sistema dei numeri e del calcolo e le discalculie;

• le funzioni esecutive o di controllo e le sindromi disesecutive;

• il pensiero, le funzioni intellettive superiori e il loro deterioramento;

Nessun test neuropsicologico è una misura pura di una specifica funzione o processo

cognitivo, poiché ciascuno di essi attiva molteplici abilità cognitive. I test di

memoria ed esecutivi operano sempre anche su una funzione neuropsicologica

strumentale.

Non è possibile misurare una funzione cognitiva somministrando uno o due test;

l’individuazione di un deficit cognitivo avviene attraverso l’analisi

multidimensionale delle prestazioni a un gruppo di test selezionati man mano, in base

alle prestazioni individuali.

Criteri di selezione dei test neuropsicologici

Attualmente sono disponibili numerosi test neuropsicologici per le differenti funzioni

cognitive, molti dei quali, nel nostro Paese, standardizzati.

I test neuropsicologici iniziali o di screening vanno scelti in base alle seguenti

variabili:

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

• dati anagrafici: età, scolarità, professione e caratteristiche socioculturali del

paziente;

• natura o eziologia della malattia: vascolare, traumatica, degenerativa,

tumorale, dismetabolica;

• tempo intercorso dall’esordio, fase della malattia (acuta, postacuta), esiti

oppure stato evolutivo (iniziale, intermedio, terminale); tipo di decorso della

malattia: progressivo, cronico, regressivo;

• motivo dell’esame: diagnostico, prognostico, riabilitativo, legale.

I test di approfondimento vengono selezionati in base ai risultati dei test iniziali o di

screening.

Per ciascun test devono essere registrati, nell’apposita scheda di notazione:

• la risposta;

• il tempo impiegato;

• gli errori autocorretti;

• le risposte perseverative;

• l’inchiesta dell’esaminatore;

• le facilitazioni;

• le risposte successive;

• l’attenzione;

• La motivazione e la collaborazione allo svolgimento del test;

• la presenza di risposta catastrofica o di ansia da prestazione.

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

TEST NEUROPSICOLOGICI NELLA SINDROME FRONTALE

Inibizione di imitazione e perseverazione AMI

Flessibilità di risposta automatica STROOP TEST

Flessibilità di risposta WCST TRAIL MAKING TEST

Giudizio GIUDIZI VERBALI MPR 38

STIME COGNITIVE

Classificazione WEIGL’S SORTING TEST

Pianificazione e strategie TEST DI FLUENZA

TORRE DI LONDRA

Pianificazione e apprendimento FIGURA DI REY

Working memory RIP. INVERSA DI CIFRE

Consapevolezza SCALA DI OSSERVAZIONE

DEL COMPORTAMENTO

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

PROTOCOLLO DI RIABILITAZIONE La plasticità cerebrale in seguito a lesione corticale è ampiamente documentata anche

in individui adulti. Affinché i processi di riorganizzazione corticale abbiano luogo,

l’ambiente deve fornire una specifica stimolazione volta a compensare i deficit.

Oggetto della riabilitazione è creare questa stimolazione ambientale con un

approccio olistico e individualizzato, che risponda ai bisogni cognitivi, emotivi e

motivazionali del paziente.

Lo scopo dell’intervento riabilitativo è migliorare l’adattamento funzionale del

paziente nonostante il danno cerebrale subito.

I disturbi neuropsicologici trattati sono:

1. di tipo cognitivo, quali agnosia, aprassia, amnesia, discalculia, deficit di

attenzione;

2. di tipo emotivo-motivazionale (detti anche affettivi o neuropsichiatrici), quali

inerzia, apatia, labilità, irritabilità, depressione, ansia;

3. di tipo esecutivo (detti comportamentali o frontali), quali disinibizione, riduzione

del controllo, incapacità di critica, rigidità, disorganizzazione, difficoltà a

risolvere i problemi;

4. la mancanza di consapevolezza, l’anosognosia.

In questa prima fase dell’intervento si integra la diagnosi neuropsicologica e le

associazioni e dissociazioni con la menomazione, disabilità e le limitazioni.

Si effettua un’analisi cognitiva e comportamentale del/i disturbo/i

neuropsicologico/i:

• per i disturbi cognitivi si inizia individuando i processi alterati e preservati

sottostanti la funzione cognitiva da riabilitare, con l’utilizzo di test cognitivi

tratti o modificati da studi sperimentali pubblicati in riviste scientifiche del

settore ;

• per le alterazioni esecutive e della motivazione vengono eseguite delle

osservazioni dirette e indirette sui livelli di motivazione, iniziativa e

partecipazione del paziente al programma riabilitativo, sull’adeguatezza della

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

condotta sociale, sulla capacità di inibizione e controllo, sulla fluidità/rigidità

del pensiero e del problem-solving. Queste osservazioni durano per tutto il

periodo del trattamento.

• per il funzionamento emotivo si individuano, per mezzo del colloquio

psicologico individuale, l’organizzazione di personalità del paziente,

l’adattamento psicologico alla nuova realtà, la presenza e l’entità di disturbi

emotivi (labilità, irritabilità, ansia, depressione, mania), l’eventuale

modificazione di personalità intercorsa, la qualità delle relazioni familiari.

La consapevolezza del disturbo neuropsicologico, la relativa reazione e

partecipazione emotiva vengono costantemente monitorate con l’osservazione e il

colloquio.

Successivamente si integrano i dati raccolti, si individuano le disabilità, le limitazioni

dell’attività e le riduzioni della partecipazione, conseguenti ai disturbi e alle

menomazioni neuropsicologiche oggetto di riabilitazione.

I dati vengono quindi codificati con il sistema di Classificazione Internazionale del

Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) dell’OMS (2003).

L’integrazione tra disturbo neuropsicologico, menomazione, disabilità e limitazioni

viene riassunta in una scheda predefinita.

OBIETTIVI

L’obiettivo generale della riabilitazione è quello di favorire una maggiore autonomia

(ridurre le limitazioni) e integrazione psicosociale dell’individuo (aumentare la

partecipazione).

Si tenta di raggiungere l’obiettivo generale prefiggendo dei sottobiettivi specifici, che

abbiano una valenza “ecologica” nella vita della persona.

Gli obiettivi sono formulati per stadi di riabilitazione:

1. l’obiettivo iniziale prevede di rendere il paziente consapevole delle proprie

limitazioni, e di stimolarne un ruolo attivo;

2. la seconda fase prevede un intervento di rieducazione e di compenso per i disturbi

cognitivi e comportamentali, e un intervento psicoterapeutico sui disturbi

emotivi;

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

3. la terza fase prevede la generalizzazione delle strategie di compenso

nell’ambiente.

Necessariamente queste tre fasi si sovrappongono nel percorso riabilitativo.

METODI TERAPEUTICI

La riabilitazione nei disturbi frontali prevede un trattamento riabilitativo olistico, che

consenta cioè di gestire in maniera sistematica ed integrata le problematiche di tipo

cognitivo, emotivo e comportamentale e le difficoltà di inserimento sociale.

La metodologia terapeutica è il mezzo con il quale raggiungere l’obiettivo, ha le sue

radici nelle scienze cognitive e nel comportamentismo e può essere schematizzata nei

seguenti interventi.

• Metodi cognitivi: stimolazione specifica di un processo cognitivo leso

Viene facilitato l’accesso a un’informazione che è relativamente intatta, ma

inaccessibile.

Stimolazione e riadattamento funzionale di moduli cognitivi preservati, o

abilità residue, e superamento degli effetti inibitori.

Vengono sviluppate nuove abilità, coinvolgendo differenti processi cognitivi,

per svolgere una determinata funzione.

• Tecniche comportamentiste: costituiscono lo strumento con il quale

implementare i metodi cognitivi e affrontare i disturbi comportamentali da

disfunzione esecutiva e dell’autocontrollo; tramite esse, vengono riaddestrate

le procedure per eseguire un determinato compito (condizionamento

operante, task analisi, fading, shaping, chaining, modeling, condizionamento

classico e apprendimento senza errori).

• Psicoterapia cognitiva individuale adattata al paziente cerebroleso (detta

neuropsicoterapia): prevede prevalentemente l’uso del problem solving,

l’automonitoraggio, la ristrutturazione cognitiva, i colloqui guidati per il

recupero della consapevolezza.

• Modificazione ambientale e intervento protesico: viene strutturata una

modificazione dell’ambiente, fornendo un aiuto dall’esterno.

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

La scelta degli obiettivi e della metodologia dipende dall’integrazione di diversi

fattori:

• il tipo di disturbo cognitivo-comportamentale e il relativo impatto sul

funzionamento quotidiano;

• il tipo di lesione cerebrale: sede e natura;

• le risorse cognitive risparmiate dalla lesione e le abilità residue;

• l’abilità di apprendere nuove strategie;

• la funzionalità esecutiva per generalizzare le strategie e per risolvere

problemi quotidiani in situazioni reali;

• l’analisi delle funzioni cognitive necessarie allo svolgimento di un’abilità;

• le differenze individuali che possono contraddire le previsioni formulate in

base a studi di gruppi o alle analisi statistiche;

• il contesto socioculturale ed educativo;

• le competenze cognitive premorbose;

• la personalità e l’adattamento psicologico premorboso;

• la consapevolezza del disturbo, dell’impatto e della disabilità;

• la reazione emotiva manifestata in seguito alla lesione cerebrale;

• la motivazione essenziale e al trattamento;

• la modificazione della personalità intercorsa;

• la disabilità globale e le conseguenze psicosociali individuali;

• la qualità del supporto familiare.

DURATA DELL’INTERVENTO

La durata del trattamento viene necessariamente condizionata, più che dal

raggiungimento dell’obiettivo, dalla durata della degenza, che raramente supera i due

mesi. Quando l’obiettivo proposto non è stato raggiunto a fine degenza, si propone

una riabilitazione in day-hospital o si demanda ad altra struttura.

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

VERIFICA DEI RISULTATI

La modificazione delle menomazioni e delle limitazioni del paziente viene

monitorata costantemente dal responsabile del programma di riabilitazione

neuropsicologica, che valuta se i cambiamenti sono quelli attesi o se è necessario

modificare tecniche di intervento od obiettivi.

Alla fine del trattamento riabilitativo viene effettuata una valutazione di controllo

utilizzando gli stessi strumenti impiegati nella fase di analisi del disturbo (che

possono essere test cognitivi, questionari o sessioni strutturate e graduate di

osservazione), e vengono analizzati i risultati.

I dati vengono quindi codificati con il sistema di Classificazione Internazionale del

Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) (OMS, 2003).

I risultati del trattamento vengono poi trasformati in indicatori di efficacia.

OPERATORI COINVOLTI

L’esecuzione della riabilitazione richiede l’intervento di numerosi operatori

professionali, in particolare quando deve essere aumentata l’autonomia nelle attività

di vita quotidiana o devono essere modificati comportamenti disfunzionali: il

neuropsicologo, il fisioterapista, il logopedista e il personale di reparto.

Le ricerche e le osservazioni cliniche dimostrano che la famiglia gioca un ruolo

essenziale e insostituibile all’interno del processo riabilitativo, e che esiste una

relazione tra l’efficacia dell’intervento riabilitativo e la capacità della famiglia di

adattarsi all’evento cerebrale.

Lo scopo dell’intervento con la famiglia è sia quello, iniziale, di acquisire

informazioni anamnesiche e osservazioni indirette, che quello di informare/formare e

assistere la famiglia sulle problematiche neuropsicologiche del congiunto.

L’intervento è rivolto ai caregiver ed eventualmente allargato ad altre persone che

hanno una relazione costante con il paziente.

Il familiare, se disponibile, viene direttamente coinvolto nel programma di

riabilitazione, messo a conoscenza degli obiettivi, addestrato alla gestione dei

disturbi cognitivi comportamentali del paziente e sulle modalità di interazione da

tenere per favorire il recupero nelle varie fasi del processo riabilitativo.

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4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale

Se necessario, prima della dimissione, viene effettuata una consulenza a operatori

sociali, insegnanti o chiunque venga coinvolto nel percorso di programmazione del

reinserimento sociale, lavorativo o scolastico.

Il progetto illustra come il terapista, avvalendosi di metodi e strumenti che spaziano

dalle neuroscienze alla psicologia generale, dal cognitivismo alla psicoterapia

cognitiva e comportamentale, dalla neuropsicologia alla psicologia clinica, possa

contribuire a costruire un intervento integrato e olistico, mirato a ridurre non solo le

menomazioni conseguenti la lesione cerebrale, ma anche le limitazioni dell’attività e

le riduzioni della partecipazione, come è indicato dall’Organizzazione Mondiale

della Sanità (OMS, 2003).

I protocolli presentati sono frutto di un’esperienza decennale di presa in carico delle

problematiche cognitive, emotive e comportamentali del paziente cerebroleso

inserito all’interno di un’unità di riabilitazione

Vorrei soffermarmi sulla valenza interdisciplinare del progetto; il programma

neuropsicologico non è un’isola a sé stante, ma acquista valore nel momento in cui è

integrato dal contributo di altri diversi programmi riabilitativi, aventi tutti il

medesimo scopo di far raggiungere al paziente cerebroleso la migliore indipendenza

funzionale possibile.

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

I deficit cognitivi rappresentano, molto spesso, la più grave causa di disabilità nei

pazienti che hanno subito un danno cerebrale. Quando l’obiettivo ottimale di

ripristino della funzione lesa non può essere raggiunto, lo scopo di una riduzione

della disabilità o dell’handicap deve comunque essere perseguito.

Un problema spesso presente in ambito riabilitativo è quello della valutazione della

sua efficacia.

In effetti, al di là di un “sapere” riabilitativo basato su più o meno validi presupposti

teorici ed esperienza personale, si fa sempre più pressante la richiesta di una

valutazione di efficacia che risponda ai principi della medicina basata sull’evidenza.

Diversi sono i problemi che nascono quando si voglia esprimere un giudizio

obiettivo sui contributi che la letteratura scientifica produce a tale riguardo. Ci sono,

infatti, tutta una serie di variabili da prendere in considerazione nella valutazione

dell’efficacia del trattamento riabilitativo.

Una di esse è il tipo di intervento riabilitativo a cui i pazienti sono sottoposti. Oltre

allo specifico tipo di trattamento (che può variare in funzione non solo dello

specifico problema presentato dal paziente ma anche in base alla diversa “scuola”

riabilitativa), altri fattori potenzialmente in grado di incidere in maniera significativa

sull’outcome del deficit cognitivo sono il diverso grado di esperienza / competenza

dei singoli team riabilitativi e/o operatori, così come la durata e frequenza delle

sessioni riabilitative.

Un’altra variabile da prendere in considerazione è la tipologia del paziente sottoposto

al trattamento. Proprio perché il deficit cognitivo non può essere concepito secondo

una dicotomia tutto/nulla ma può variare nei suoi aspetti sia qualitativi che

quantitativi, la valutazione di efficacia di un trattamento, così come il confronto tra

singole metodiche riabilitative, dovrebbe tener conto della variabilità interindividuale

dei pazienti afferenti ai vari studi.

C’è da rilevare, peraltro, che la variabilità nella tipologia dei pazienti è anche da

ricercare sia nelle caratteristiche socio-anagrafiche dei pazienti (con un relativo

maggior beneficio dal trattamento riabilitativo nei pazienti più giovani) sia nel

diverso stadio evolutivo del deficit (acuto, subacuto, cronico), con una suscettibilità a

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

trarre giovamento dal trattamento riabilitativo che si va via via riducendo man mano

che ci si allontana dal momento di insorgenza del deficit stesso.

Un ultimo elemento da tenere in considerazione quando si vogliano trarre, dalla

letteratura scientifica disponibile, elementi di giudizio circa l’efficacia della

riabilitazione cognitiva riguarda il tipo di disegno sperimentale.

La variabilità tra i vari studi riguarda, in questo caso, i target di outcome considerati,

il tipo di randomizzazione dei pazienti afferenti al trattamento sperimentale e,

soprattutto, la tipologia della condizione di controllo. Questa potrà essere

rappresentata da nessun tipo di trattamento (nel qual caso l’eventuale beneficio della

condizione sperimentale potrebbe essere la mera espressione di un’aspecifica

attivazione cognitiva), un trattamento aspecifico (che evita il problema sopradetto ma

che non ci dà alcuna informazione circa l’efficacia di una metodica riabilitativa

rispetto ad un’altra) o, infine, un altro trattamento riabilitativo (rappresentando, in

questo caso, un reale confronto di metodiche riabilitative).

In questo capitolo sono riassunti i risultati di una serie di meta-analisi condotte sugli

studi sperimentali relativi alla riabilitazione dei più frequenti disturbi

neuropsicologici conseguenti a lesione dei lobi frontali.

I risultati sono relativamente incoraggianti riguardo l’efficacia della riabilitazione

cognitiva.

Ulteriori dati sperimentali si rendono, tuttavia, necessari soprattutto per documentare

l’efficacia di tali metodiche nel migliorare l’autonomia dei pazienti nella vita di tutti i

giorni

5.1 Riabilitazione dei disturbi delle funzioni esecutive

La letteratura neuropsicologica clinica attribuisce alle funzioni esecutive il più alto

livello delle abilità cognitive come l’attenzione, la fluidità e flessibilità di pensiero

nella generazione di soluzioni a nuovi problemi, la pianificazione e regolazione

adattiva e il comportamento finalizzato.

Le alterazioni delle procedure esecutive, come è noto, producono disfunzioni nei

compiti di governo, di elaborazione, di coordinazione di tutte le funzioni cerebrali,

sia basiche che strumentali, nonché disturbi del comportamento, delle capacità

logiche, di giudizio astratto e di problem-solving.

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

Nell’ambito della patologia tali disturbi possono manifestarsi con varie modalità e in

varie combinazioni. Contestualmente si osservano anche disturbi della capacità di

elaborazione logico-astratta e di generalizzazione, che si riflettono anche nella

qualità del rendimento in ogni altra funzione neuropsicologica . Lo svolgimento delle

varie attività prassico-procedurali è affrettato o eccessivamente lento,

qualitativamente approssimativo, inaccurato nei dettagli, con frequenti errori della

sequenza procedurale. La perdita di creatività e originalità è una costante in tutte le

attività, anche nelle più comuni e quotidiane, con tendenza a perseverare in soluzioni

già adottate per incapacità ad adattarsi ai mutamenti. Nel condurre un ragionamento

logico verbale o logico-matematico si manifestano difficoltà nell’analisi degli aspetti

del problema, nella pianificazione e realizzazione della sequenza di ragionamento,

come pure incapacità a trarre conclusioni.

L’integrità delle funzioni esecutive è essenziale per la maggior parte delle abilità

pratiche e la sua disfunzione risulta estremamente debilitante sia per i pazienti che

per le loro famiglie.

Queste abilità risultano a volte non solo difficili da definire, ma anche da valutare,

motivo che ha condotto allo sviluppo di un grande numero di test neuropsicologici

clinici e sperimentali.

Sebbene gran parte del progresso sia rivolto alla risoluzione dei deficit sensitivo-

motori conseguenti al trauma, la terapia cognitiva rimane una sfida: nonostante lo

sforzo considerevole di medici e ricercatori nello sviluppare strategie riabilitative per

migliorare i disturbi delle funzioni esecutive, la strada verso un trattamento efficace è

stata piena di difficoltà ed ha spesso prodotto risultati deludenti: sono poche le

strategie che attualmente possono esser ritenute efficaci, tuttavia, oltre all’intervento

farmacologico, la terapia cognitiva rimane l’approccio elettivo di intervento e gioca

un ruolo essenziale per l’outcome funzionale e la reintegrazione sociale.

È difficile sviluppare un approccio terapeutico cognitivo standard per i disturbi delle

funzioni esecutive per diverse ragioni:

1) come è stato precedentemente discusso, ci sono un’ampia varietà di deficit che

possono derivare da una lesione del lobo frontale che rientrano nell’ambito delle

funzioni esecutive (pianificazione, inibizione, iniziativa, consapevolezza di sé,

ecc…) ;

2) le condizioni neurologiche che possono provocare una lesione del lobo frontale

sono molteplici (trauma cranico, ictus, encefaliti, ecc…) ;

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

3) molti pazienti con lesione del lobo frontale manifestano deficit comportamentali

come la mancanza di consapevolezza di sé, scarsa motivazione o disturbi della

personalità e dell’umore che costituiscono un serio impedimento al processo

riabilitativo.

Pertanto, è difficile generalizzare gli interventi riabilitativi per deficit cognitivi e

comportamentali così differenti fra loro.

L’estrema variabilità dei disturbi e, soprattutto, l’estrema mutevolezza del quadro

clinico dei pazienti anche da un giorno all’altro, sottolinea la necessità di sviluppare

programmi di intervento individualizzati e specifici, adattati al livello di disabilità e

adeguati in rapporto alle fasi di recupero cognitivo-comportamentale e funzionale.

Questi limiti, così come i diversi livelli cognitivi delle funzioni esecutive, hanno

condotto ad una divergenza nell’approccio generale adottato dagli specialisti della

riabilitazione.

Negli ultimi anni, sono apparse in letteratura un certo numero di meta-analisi volte a

valutare, con il metro della medicina basata sull’evidenza, il peso delle evidenze

sperimentali riportate in letteratura relative all’efficacia del trattamento riabilitativo

di specifici deficit cognitivi.

La letteratura scientifica propone varie tecniche di intervento, la cui validità è stata

testata attraverso studi di ricerca che descrivono gli interventi individuali su singoli

pazienti o su piccoli gruppi. Questi diversi interventi hanno in comune la possibilità

di essere generalizzati ed estesi ad altri contesti e ad altre abilità.

Gli studi attuali suggeriscono che la strategia specifica di riabilitazione impiegata,

nonostante l’approccio generale, rientra all’interno di tre diverse ma sovrapponibili

categorie:

• Manipolazione e modificazione ambientale;

• Controllo del comportamento;

• Interventi diretti mirati a migliorare il deficit specifico.

L’eterogeneità di queste forme di terapia rende necessari diversi tipi di valutazione.

Gli studi valutativi hanno permesso di raggiungere diversi livelli di evidenza: mentre

le forme di terapia cognitiva hanno raggiunto livelli di evidenza elevati, gli studi

basati sulla manipolazione ambientale e sul controllo del comportamento, presentati

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

soprattutto come studi su singolo caso con parametri di outcome individuali, hanno

raggiunto solo bassi livelli di evidenza.

La manipolazione ambientale sottolinea i fattori esterni al paziente. L’ambiente non

è caratterizzato solo da determinate caratteristiche fisiche, ma anche e soprattutto dal

fatto di contenere in maniera più o meno esplicita, in rapporto alle intenzioni di chi si

muove, informazioni che devono / possono essere raccolte, per dare senso in

rapporto agli scopi. L’adattabilità che caratterizza il comportamento, non deve essere

intesa solo nei confronti degli oggetti, ma anche dalle intenzioni del soggetto, si tratta

cioè di una caratteristica appartenente al processo dell’interazione piuttosto che

all’uno o all’altro degli elementi che entrano in rapporto. Il contesto viene a

rappresentare un elemento dinamico in continua evoluzione sulla base delle

acquisizioni compiute all’interno della stessa azione in grado di determinare gli

sviluppi e di guidarne lo svolgimento in ogni istante.

La componente motoria dell’azione deve essere quindi in grado di adeguarsi alle

necessità del contesto in ogni fase evolutiva.

Questo approccio mira a ricercare l’adattabilità del comportamento relativo al

contesto, riducendo gli elementi di distrazione, semplificando le richieste e

rispettando i tempi del paziente.

Sebbene potrebbe essere una strategia efficace per migliorare determinate funzioni,

utilizzando fattori esterni al paziente essa pone una grande quantità di richieste ed è

inflessibile.

Una recente revisione sottolinea validi meccanismi esterni che possono dare il via

all’azione per pazienti con problemi di iniziativa e deficit della memoria prospettica

e offre raccomandazioni per il loro utilizzo, identifica i fattori importanti per

selezionare un particolare piano d’azione e suggerisce le modalità per monitorare la

loro efficacia.

Il controllo del comportamento è una strategia che focalizza l’attenzione sui

meccanismi compensatori concepiti per permettere al paziente di portare a termine

un compito in un modo nuovo che minimizza le abilità compromesse dalla lesione.

Un esempio di tecnica compensatoria è il “costo della risposta”, sviluppato da

Alderman e colleghi (1991), consiste in penalizzazioni come immediata conseguenza

di comportamenti indesiderati (condizionamento operante). Viene impiegata per

trattare problemi di disinibizione, come il linguaggio ripetitivo e il comportamento

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

aggressivo. Questa tecnica si è dimostrata efficace dove altre tecniche come il “time

out” e i rinforzi positivi non lo sono stati.

Gli approcci compensatori per i disturbi delle sequenze di azione, includono un

sistema codificato di azioni che assiste gli individui nel riconoscimento di errori,

nell’omissione o nell’ordine e sono applicate per migliorare le abilità della vita

quotidiana. Le strategie compensatorie come queste fanno spesso affidamento a

fattori esterni al paziente, come avviene nella manipolazione ambientale, ma sono

mirate a cambiare il comportamento preso in esame, spesso provando a migliorare la

consapevolezza.

Le strategie che impiegano interventi diretti, occupano probabilmente la più ampia

vastità degli interventi di riabilitazione delle funzioni esecutive in letteratura.

Sono approcci metodologici rivolti alla stimolazione di singole funzioni cognitive

quali l’attenzione, la memoria, l’apprendimento, la pianificazione e l’organizzazione

dell’attività mentale.

Un esempio di intervento che ha mostrato di possedere un certo grado di efficacia per

la riabilitazione dei disturbi attentivi è l’“ Attention Process Training” ( APT )

(Solberg, 1992), sebbene esistano altri validi programmi di intervento.

È un programma di riabilitazione dell’attenzione costruito secondo un approccio

funzione-specifico. Questo comporta un trattamento modulare delle principali

funzioni in cui può essere suddivisa l’attenzione, quali: attenzione sostenuta,

selettiva, alternata e divisa. Il training è altresì strutturato gerarchicamente, in modo

che le funzioni con minori richieste di elaborazione vengano trattate prima di quelle

con esigenze maggiori. Sulla base di questa logica, il trattamento dell’attenzione

sostenuta precederà quello dell’attenzione selettiva , perché si presuppone che fino a

quando il paziente non sarà in grado di mantenere dei livelli sufficienti di vigilanza

in compiti semplici, tantomeno lo sarà in presenza di informazioni distraenti. Allo

stesso modo, se il soggetto non è capace di sopprimere delle risposte inadeguate o di

ignorare delle informazioni irrilevanti, difficilmente riuscirà a gestire compiti che

richiedono una forte dose di attività controllata, come accade nei compiti di

attenzione alternata o di attenzione divisa. Oltre che tra le diverse sezioni (o cicli)

esiste una gerarchia anche entro ognuna di esse: gli esercizi più semplici devono

essere infatti somministrati prima di quelli più complessi.

Questo approccio è basato sul principio che l’esercizio su compiti selezionati di

attenzione favorisce il recupero delle vie nervose danneggiate e, di conseguenza,

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

delle abilità attentive che possono essere estese in vari contesti. Per valutare

l’efficacia di questa tecnica è stato effettuato uno studio controllato su 23 soggetti

con trauma cranico ed è emerso che, sebbene ci sia stato un miglioramento

significativo del livello di attenzione nel gruppo sperimentale, non è stata evidenziata

alcuna differenza con il gruppo di controllo.

Una recente meta analisi ha valutato tutti gli studi in cui sono state implementate

tecniche di intervento diretto come questa, ( non solo APT ), paragonando in modo

specifico i risultati degli studi che prevedevano la sola valutazione dei gruppi

sperimentali con gli studi controllati. L’analisi ha rivelato che, mentre nei primi si

producevano una grande quantità di effetti, gli studi con il gruppo di controllo non

hanno dato risultati significativi.

Questi dati sono utili a mettere in evidenza il significato metodologico dei gruppi di

controllo, importanti per valutare l’efficacia di ciascun intervento.

È importante notare, comunque, che i risultati degli studi sul singolo caso hanno

rivelato che i pazienti con lesione dei lobi frontali, attraverso l’esercizio e la pratica

possono apprendere una varietà di compiti specifici, nonostante ci siano tuttora

minime evidenze sulla capacità di riaddestramento diretto dei processi attentivi.

Questo dato è stato supportato anche dai risultati incoraggianti ottenuti da studi

focalizzati su un approccio funzione-specifico, come ad esempio il training per

l’apprendimento delle attività della vita quotidiana ( ADL ), ed hanno suggerito che

la riabilitazione mirata sull’acquisizione di funzioni importanti e specifiche potrebbe

essere un potente approccio riabilitativo.

Sono molti gli interventi che attualmente vengono sperimentati, ed è chiaro che, per

il recupero delle funzioni esecutive, indipendentemente dal tipo di strategia

impiegata, anche combinando i due approcci (training funzione-specifico e training

per i processi di riaddestramento) e i tre tipi di strategie (modificazione ambientale,

controllo del comportamento e intervento diretto) , l’esercizio e la pratica sono

fondamentali per promuovere i processi di apprendimento.

5.2 Trattamento dei disturbi comportamentali

La vasta terra incognita nella dottrina non ha certo portato a nichilismo terapeutico

nella pratica. Al contrario, l’urgere delle istanze poste dalla drammaticità dei

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

problemi ha stimolato i riabilitatori a saggiare ogni indirizzo metodologico suggerito

dalla ricerca neuroscientifica.

Nella maggior parte dei casi, e segnatamente nelle prime fasi del decorso, i disturbi

del comportamento conseguenti a lesioni cerebrali (e quindi di natura

eziopatogenetica non “psichiatrica” in senso stretto) non consentono trattamenti

basati su colloqui psicoterapici o su farmaci, anche se interventi di questo tipo

possono sempre dimostrarsi utili in singoli casi, o in via sussidiaria, o nel prosieguo

del decorso. Il che ben si comprende se si considera la patogenesi lesionale e la

conseguente presenza nel quadro clinico di componenti quali deterioramento

cognitivo, amnesia, anosognosia, ed altre, che non consentono elaborazioni quali la

memorizzazione stessa di un colloquio clinico, la disamina cognitiva delle

argomentazioni, nonché la capacità di insight (introspezione), che generalmente non

consentono pure, per le stesse ragioni, l’uso di farmaci anche se, come si è detto, la

complessità delle componenti e delle possibili evoluzioni possono giustificare ogni

tipo di intervento quando sembrino esservi le indicazioni.

Tutto questo spiega la ragione per cui i riabilitatori, dopo molti tentativi ed errori,

abbiano ampiamente adottato la linea metodologica che, nel quadro delle

neuroscienze terapeutiche, viene comunemente denominata “cognitivo-

comportamentista”.

Nei termini più generali, i metodi cognitivo-comportamentisti tendono a modificare i

comportamenti patologici in via “indiretta” e quindi mirano ad indurre un

apprendimento “implicito” dei suggerimenti forniti. Tale apprendimento dei

comportamenti corretti in via indiretta e implicita si ottiene mediante vari metodi di

condizionamento (classico e operante), ampiamente applicati in situazioni

sperimentali. Tuttavia, il trattamento non si esaurisce certo con la semplice

applicazione di questi metodi. Nella pratica clinica altre condizioni sono necessarie

per ottenere risultati. Innanzitutto, è importante la predisposizione di un “ambiente”

di per sé “terapeutico”, in cui tanto le caratteristiche ambientali (luoghi e

attrezzature) quanto gli atteggiamenti, la capacità empatica, le metodiche applicate,

le competenze tecniche delle varie figure professionali e l’abilità di operare in

equipe, siano i cardini dell’intero processo riabilitativo, fino al raggiungimento

dell’obbiettivo, comune a qualsiasi tipo di intervento, rappresentato dal miglior

reinserimento e adattamento sociale possibile. Un’altra decisiva condizione è che,

una volta definiti i metodi e le tecniche , si deve stabilire a cosa andranno applicati,

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

poiché si potrebbe facilmente commettere l’errore di applicarli ai deficit in sé: in

realtà vanno applicati ai problemi e alle loro implicazioni “ecologiche”.

È questa la ragione per cui il primo passo per l’avvio di un efficace programma di

intervento riabilitativo è nella predisposizione di strumenti di rilevamento che

consentono una visione ecologica del problema: una visione, cioè, del paziente nella

sua realtà e nelle sue istanze esistenziali. Scale, questionari e check-list compilati per

osservazione diretta dagli operatori sanitari, o sulla base di resoconti dei pazienti

medesimi e dei familiari, possono esser variamente “costruiti”, o adattati alle

caratteristiche di ciascuna patologia prendendo spunto dai numerosi già esistenti.

5.2.1 Trattamento dei comportamenti inadeguati “in difetto”

In generale, il trattamento dei comportamenti considerati inadeguati “in difetto”

(cioè, insufficienti in frequenza, intensità e durata) dovrebbe prevedere

l’applicazione di metodologie ispirate ai principi del condizionamento, in cui alla

“passività” del paziente non viene assegnata alcuna ricompensa, mentre la

manifestazione di qualsiasi intenzione viene prontamente ricompensata.

Come è stato descritto nei precedenti capitoli, i pazienti sembrano in uno stato di

indifferenza verso l’ambiente circostante che si manifesta con atteggiamenti di

demotivazione fino ad una totale inerzia. Secondo i principi del condizionamento, è

quindi necessario mantenere il paziente costantemente impegnato in qualche attività

secondo “piani” quotidiani “personalizzati” nei quali vengono indicati i tempi, le

modalità di esecuzione, le conseguenze positive (vantaggi) che le prestazioni

potranno avere e le conseguenze negative (penalizzazioni) derivanti dalle

inadempienze, sulla base di vere e proprie “contrattazioni”. Benché nella stesura di

questi “contratti” dovrebbero essere previsti momenti dedicati ad attività di svago

(guardare la TV, leggere, giocare a carte, fare una passeggiata, ecc.), non dovrebbe

essere consentito al paziente di rimanere a riposo più a lungo del necessario o di

dipendere dagli altri nell’esecuzione di compiti per i quali sussistono potenziali

abilità residue.

Affinché il paziente demotivato/inerte possa essere stimolato ad assumersi la totale

responsabilità nelle attività quotidiane di routine (cura ed igiene personale,

preparazione di semplici merende, svolgimento di piccoli lavori domestici, uso del

denaro per le piccole spese quotidiane, ecc.), può essere utile l’uso di “rinforzi

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

negativi”. Ad esempio, per sollecitare il paziente all’agire, può dimostrarsi più utile

prevedere la possibilità di mangiare una merenda gradita se preparata

spontaneamente, anziché un altro alimento, meno gradito, preparato da altri; oppure,

può essere una sollecitazione più efficace a migliorare l’igiene personale, poter

ottenere la riduzione della durata o della frequenza delle sedute nel caso in cui si

presenti curato ed ordinato, anziché continuare a “subire” le sedute ad intervalli di

tempo relativamente brevi; e ancora, si può concedere al paziente la possibilità di

seguire un programma televisivo di proprio gradimento, qualora venga scelto

spontaneamente, piuttosto che continuare a “subire” la sgradevole sintonizzazione su

programmi scelti da altri ecc.

5.2.2 Trattamento dei comportamenti inadeguati “per eccesso”

I comportamenti che denotano la carenza di autocontrollo (impulsività, irritabilità,

atteggiamenti oppositori e aggressivi) sono conseguenze molto frequenti dopo eventi

lesivi che coinvolgono la corteccia prefrontale e le sue connessioni ai complessi

circuiti sotto-corticali. Questi disturbi pongono seri problemi nell’interazione col

paziente poiché viene messa a dura prova la capacità “empatica” delle persone

addette all’assistenza, siano esse operatori sanitari o familiari. Inoltre, le turbe

comportamentali di questo tipo, come gran parte dei comportamenti inadeguati “per

eccesso”, rappresentano condizioni assai sfavorevoli per la riabilitazione, limitando o

annullando la necessaria collaborazione del paziente ai vari trattamenti, tanto che, nei

casi in cui le reazioni assumano le caratteristiche di vere e proprie aggressioni

fisiche, può avvenire che siano proponibili solamente terapie farmacologiche e di

contenimento. In ogni caso, è opportuno che tutti gli operatori sanitari e i familiari

addetti all’assistenza siano in grado di condurre attente osservazioni e monitoraggi

utili ad individuare le condizioni ambientali scatenanti (dove, quando, con chi si

verificano gli episodi di discontrollo verbale o comportamentale). La rilevazione di

tali coordinate ambientali può apparire un compito relativamente semplice: in realtà

richiede un certo addestramento poiché numerose sono le condizioni e le variabili da

considerare. Occorre sottolineare che, in molti casi, è possibile prevenire o contenere

le reazioni oppositorie e le esplosioni aggressive adottando semplici “strategie”

nell’interazione col paziente. Così, è opportuno che gli operatori sanitari evitino

espressioni di disapprovazione, di ansia o di eccessivo allarme; al contrario,

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

avvicinare il paziente con rassicurazioni, mantenendo un tono di voce costante,

sollecitare la collaborazione proponendo attività e argomenti diversificati, prevedere

frequenti pause soprattutto nelle prime fasi del recupero, sottolineare i progressi

ottenuti, ecc., sono modalità di approccio valide per evitare le frustrazioni e le paure

che possono suscitare le reazioni aggressive. In molti casi, tuttavia, l’atteggiamento

empatico, che comunque è una componente essenziale per una valida interazione

operatore/paziente, non è una condizione sufficiente a prevenire o contenere gli

atteggiamenti oppositori ed i comportamenti aggressivi, mentre l’inserimento anche

di metodiche mutuate dal modello comportamentista può incrementare l’efficacia

dell’intervento riabilitativo.

Le osservazioni sperimentali suggeriscono che nella pratica clinica l’uso sistematico

delle cosiddette procedure di “time out” è specificatamente indicato nei casi in cui è

necessario aumentare il grado di collaborazione del paziente. Il time-out, sulla base

del paradigma del condizionamento operante, consiste nella sospensione di qualsiasi

stimolo (rinforzo), gradevole o sgradevole, alla comparsa di una comportamento

bersaglio che si intende modificare (in questo caso, gli atteggiamenti oppositori e le

reazioni aggressive). Tale sospensione di rinforzi si ottiene “ignorando” il soggetto

immediatamente dopo il comportamento indesiderato, allo scopo di offrire

l’opportunità di apprendere “per via condizionata” che i propri atteggiamenti non

producono alcun effetto sull’ambiente circostante. Nei casi in cui i comportamenti

aggressivi siano riferibili a deficit della funzione di autocontrollo secondari a danno

dei lobi frontali, sembrano essere efficaci anche le procedure di “costo della

risposta” basate sul metodo della “contrattazione delle contingenze”(stesura di un

vero e proprio contratto tra operatore e terapista in cui vengono stabilite delle regole

di condotta e le conseguenze positive in caso di adempienza o negative in caso di

inadempienza). Queste procedure prevedono delle penalizzazioni (ad esempio,

attività non gradite,perdita di piccoli “privilegi”, ecc.) come immediata conseguenza

di comportamenti indesiderati, ed hanno, per così dire, la stessa funzione deterrente

delle comuni “contravvenzioni”, in quanto l’esistenza di una “regola” punitiva

acuisce la consapevolezza del “costo” qualora non venga rispettata.

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

5.2.3 Trattamento dei comportamenti inadeguati per condizioni, tempi e modalità

Come è già stato precedentemente affermato, sarebbe in particolare questo tipo di

alterazioni comportamentali a rendere il soggetto socialmente inaccettabile e

difficilmente gestibile in ambito riabilitativo. Per questo motivo, il trattamento dei

disturbi quali l’anosognosia, la disinibizione e la confabulazione, spesso, si impone

come prioritario rispetto alla rieducazione cognitiva di deficit neuropsicologici

concomitanti.

5.2.3.1 Trattamento dei disturbi della consapevolezza

La sussistenza di “anosognosia” (intesa, nella più ampia accezione del termine, come

difficoltà più o meno evidente sia nel riconoscimento di specifici deficit percettivi,

motori o cognitivi, sia nell’accettazione dello stato di disabilià conseguente a tali

deficit) rappresenta una delle condizioni più sfavorevoli al processo riabilitativo e

una delle maggiori difficoltà per il riabilitatore, quando debba affrontare deficit sui

quali non è possibile alcun intervento “diretto”. In questi casi si rende necessaria

l’attivazione delle strategie d’intervento definite “indirette”, cioè, incentrate

essenzialmente sulle modificazioni delle caratteristiche ambientali.

L’applicazione di interventi di tipo cognitivo-comprtamentale è particolarmente

indicata sia nelle fasi immediatamente successive all’insorgenza del danno cerebrale

e, quindi, nella fase in cui i deficit sono di natura direttamente “lesionale” e connessi

a difetti strumentali di comprensione delle informazioni, sia nelle fasi successive, in

cui possono emergere difficoltà emotive connesse all’accettazione della condizione

di “malato” e delle implicazioni sociali che ne derivano. Pertanto, il trattamento dei

deficit della consapevolezza, come qualsiasi altro intervento neuro-comportamentale,

deve essere strutturato secondo uno schema che procede per “livelli”. Questo

significa che, individuando la diversa natura della “non conoscenza” a seconda del

livello di insorgenza del deficit (neurologico, neuropsicologico, emotivo), in fase

acuta il terapista debba aiutare il paziente a riconoscere i propri deficit,

sottolineandone l’evidenza in modo sistematico, fornendo spiegazioni semplici e

comprensibili, ma realistiche. Ad esempio, nei pazienti che presentano difficoltà a

riconoscere i propri deficit mnesici, può essere utile monitorare gli “insuccessi” che

si verificano quotidianamente e discuterli col paziente al fine di motivarli all’uso

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

degli ausili esterni (agenda, calendario, appunti, ecc.) e all’attivazione di adeguate

strategie di compenso.

Via via che si consolida il processo di riacquisizione della consapevolezza, il deficit

assume connotazioni neuropsicologiche o più francamente emotive che potrebbero

risultare ulteriormente aggravate da caratteristiche premorbose negative (ad

esempio, tratti “narcisistici” con scarsa flessibilità, difficoltà a tollerare le

imperfezioni e le frustrazioni, ecc.). in questa fase possono essere indicate sessioni di

“neuropsicoterapia”, che devono offrire al paziente l’opportunità di esprimere i

sentimenti di depressione, per la perdita della normale funzionalità, gli eventuali

timori e frustrazioni che possono derivare dalla condizione di “malato”, i sentimenti

di diffidenza e sospettosità nei confronti degli operatori sanitari, per prevenire

l’insorgenza di reazioni catastrofiche e facilitare l’aumento di autostima e

l’accettazione dei propri limiti, pre-condizioni indispensabili per un soddisfacente

reinserimento sociale.

5.2.3.2 Trattamento della disinibizione

Nei casi in cui i comportamenti disinibiti costituiscano un serio ostacolo per l’avvio

di programmi riabilitativi, si rendono necessari interventi preliminari di

modificazione comportamentale secondo il principio del condizionamento operante

e, cioè, mettendo in primo piano le diverse conseguenze che accompagnano le varie

condotte a seconda che siano adeguate o inaccettabili. Con alcuni pazienti può

essere utile valorizzare altri comportamenti adeguati osservabili nel loro repertorio e

incompatibili con il comportamento inaccettabile, attraverso la somministrazione

sistematica di “rinforzi positivi”(ricompense) o di “rinforzi negativi”(interruzione di

situazioni o attività non gradite alla comparsa di un comportamento desiderato e

socialmente adeguato) che inducono il soggetto a ripetere l’azione in situazioni

analoghe. In altri casi, può essere efficace un’azione più diretta sulle condotte

disinibite, utilizzando tecniche basate sul “principio dell’estinzione” (assenza di

qualsiasi effetto positivo o negativo), oppure applicando procedure di costo della

risposta (penalizzazioni o abolizione di premi) che inducono il soggetto ad

abbandonare il comportamento inadeguato.

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

5.2.3.3 Trattamento della confabulazione

Nella maggior parte dei casi, si osserva la presenza di due diversi meccanismi

patogenetici, spesso concomitanti (amnesia globale e patologia dei lobi frontali), a

cui corrispondono due livelli di confabulazioni. Sul piano operativo, ne consegue che

le condotte del riabilitatore e di tutte le persone che interagiscono col paziente

dovranno diversificarsi a seconda delle caratteristiche che assumono di volta in volta

i comportamenticonfabulanti. Uno dei metodi cognitivo-comportamentali che si sono

rivelati particolarmente efficaci, è quello che potremmo definire “confutazione

sistematica”, una tecnica avversiva attuata con modalità differenti a seconda della

natura della confabulazione.

Nei pazienti prevalentemente “frontali”, risultano efficaci esercizi di scambio

dialettico e di confutazione, “frustranti” per il paziente (ad esempio, vere e proprie

“provocazioni” quali: “Lei non dice la verità”, “Non credo ad una parola di quanto

racconta”, ecc.) e finalizzate ad attivare un “moto” attentivo ed un impulso alla

concentrazione.

5.3 Conclusioni

È opinione oggi largamente condivisa che per un numero rilevante di pazienti con

lesione cerebrale il deficit cognitivo è il maggior determinante di disabilità

funzionale.

Per questi pazienti, non sempre l’obiettivo del trattamento cognitivo potrà essere il

ripristino della funzione lesa. In questi casi, una riduzione della disabilità o anche

solo dell’handicap andranno comunque perseguiti.

Una riabilitazione cognitiva razionale, cioè fondata su validi presupposti teorici,

necessita di interazioni efficaci con ambiti scientifici che si occupano del

funzionamento cognitivo normale (ad esempio, la psicologia cognitiva) e patologico

(ad esempio, la neuropsicologia).

Allo stato attuale, la dimostrazione della reale efficacia delle metodiche riabilitative

nel migliorare i deficit cognitivi dei pazienti cerebrolesi fa riferimento, in larga

misura, a studi clinici e sperimentali non controllati.

La sfida per il prossimo futuro è quella di fondare su basi più solide le dimostrazioni

di efficacia della riabilitazione cognitiva. Obiettivo, più a lunga scadenza, è quello di

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5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali

mettere a confronto diversi approcci riabilitativi per giungere alla realizzazione di

linee guida di intervento, almeno per i disordini cognitivi di più elevata incidenza.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Il processo di recupero nella sindrome frontale implica due fasi: il trattamento

neuropsicologico, mirato principalmente alla singola funzione cognitiva lesa, e la

reintegrazione dell’individuo nella famiglia e nella società.

Per facilitare il reinserimento sociale, il trattamento deve passare dagli interventi

mirati alle singole funzioni, agli interventi che promuovono l’acquisizione delle

abilità comportamentali.

Uno degli ambiti maggiormente soggetti a compromissione funzionale nella

sindrome frontale è quello delle “funzioni esecutive”, ovvero di quelle capacità che

implicano la volontà, la pianificazione, l’attuazione di strategie organizzative per la

risoluzione dei problemi, l’autocontrollo e l’autoconsapevolezza. Naturalmente, tali

deficit sono gravemente inabilitanti, soprattutto da un punto di vista psicosociale;

basti pensare alle conseguenze della mancanza di motivazione o di volontà

nell’intraprendere un qualsiasi comportamento, o alle difficoltà che possono scaturire

dal non sapere pianificare adeguatamente le strategie necessarie per risolvere anche i

più banali problemi della vita quotidiana.

6.1 Problem solving

Il problem solving è forse l’area delle funzioni esecutive più facili da capire, in

quanto è direttamente collegata alla vita quotidiana: ognuno di noi affronta ogni

giorno molte situazioni di problem solving, è quindi facile immaginare come un

disturbo nella capacità di risolvere i problemi possa compromettere profondamente

ogni aspetto della nostra vita.

Il problem solving è un’abilità cognitiva che interviene quando una persona si trova

di fronte ad una situazione da risolvere senza che sia immediatamente disponibile

una soluzione.

Risolvere un problema vuol dire attuare dei comportamenti secondo un percorso che

porta da una situazione presente in direzione di una meta da raggiungere. Si può

quindi parlare di una situazione iniziale, di una condizione desiderata che

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

rappresenta l’obiettivo prefigurato, di un processo teleologico di soluzione, inteso

come quella serie di operazioni da eseguire per poter raggiungere l’obiettivo.

In tutti i casi in cui vi sono problemi da risolvere, si crea uno stato di squilibrio nella

persona, che cerca di farvi fronte applicando le conoscenze e le strategie

precedentemente utilizzate in situazioni simili.

Impegnandosi nella soluzione si ha un’alterazione di stati non solo cognitivi, ma

emozionali e motivazionali: si percepisce di aver intrapreso un itinerario corretto o

sbagliato e tale percezione avrà influenza sulla motivazione successiva, sull’impegno

e in definitiva sulla corretta soluzione del problema.

6.1.1 I “passi” del processo di problem solving

Il processo di risoluzione dei problemi è un processo complesso che richiede la

modulazione ed il controllo di diverse funzioni cognitive fondamentali che devono

essere utilizzate nel momento giusto e con flessibilità; esso si snoda attraverso le

seguenti tappe:

• Identificazione del problema;

• Definizione e rappresentazione del problema;

• Formulazione di una strategia per la soluzione;

• Organizzazione delle informazioni;

• Allocazione delle risorse;

• Controllo del processo di soluzione;

• Valutazione dell’efficacia della soluzione stessa.

Innanzi tutto è necessario rendersi conto che esiste un problema, dirigere

volontariamente l’attenzione per controllare l’ambiente circostante (attenzione

sostenuta) e distribuire le risorse in modo appropriato (attenzione divisa)

sopprimendo le informazioni e le risposte irrilevanti (attenzione selettiva); bisogna

saper individuare quali sono le informazioni significative (astrazione e inferenza);

formulare un piano di azione; anticipare i risultati delle varie fasi di esecuzione;

essere sensibili al feedback proveniente dal risultato dell’esecuzione e capaci di

cambiare l’approccio al problema quando necessario. Inoltre un comportamento

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

adatto richiede spesso che le scelte siano limitate dalla necessità di osservare regole

prestabilite.

Tra queste tappe particolare importanza assume quella iniziale, cioè l’approccio

generale al problema e la motivazione a risolverlo. Si tratta di una fase di

“orientamento” che comprende elementi quali la percezione del problema, la sua

accettazione, il tipo di valutazione che si fa del problema, il grado di controllo che

ognuno di noi pensa di esercitare (aspettative di successo/insuccesso nella solvibilità

stessa del problema e circa la concreta possibilità che la persona si autoattribuisce di

giungere ad una corretta soluzione), la valutazione dei tempi e dello sforzo richiesti

nella soluzione del problema .

L’identificazione di una situazione come problematica è un momento delicato:

infatti, una volta identificata l’esistenza di un problema, occorre definirlo e

rappresentarlo in maniera tale da capire come risolverlo. Tale momento è cruciale,

perché, se il problema si definisce e si rappresenta in modo inesatto, si è molto meno

abili nel risolverlo. Si può inoltre sbagliare a riconoscere quale sia l’obiettivo da

raggiungere e quali siano gli ostacoli che ostruiscono il percorso di soluzione, così

come pure sbagliare a riconoscere che la soluzione che abbiamo in mente non

funziona.

Un ulteriore passaggio consiste nel progettare una strategia per risolvere il problema.

La strategia può richiedere l’analisi/scomposizione di tutto il complesso problema in

elementi più semplici, oppure in aggiunta, un processo complementare di sintesi da

effettuare mettendo insieme i vari elementi per risistemarli in qualcosa di utile. Nella

soluzione dei problemi della via reale si può aver bisogno di entrambe le strategie,

analisi e sintesi: la strategia ottimale dipende sia dal tipo di problema sia dalle

preferenze personali che ha il solutore in relazione ai metodi di risoluzione.

Una volta che la strategia, o almeno un tentativo di strategia, è stata formulata, si è

pronti per organizzare le informazioni disponibili, trovando una rappresentazione di

tali informazioni che permetta di implementare la strategia. Si parla in tal senso di

organizzazione strategica delle informazioni. Naturalmente, durante il ciclo del

problem solving, le informazioni disponibili vengono organizzate e riorganizzate

costantemente.

La capacità di monitorare il risultato delle proprie azioni è un elemento fondamentale

nel processo di problem solving. Un solutore efficace, infatti, non aspetta la fine del

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

percorso di soluzione per controllare dov’è arrivato; piuttosto, controlla se stesso

lungo tutto il percorso. A mano a mano che va avanti nella soluzione deve tener

conto sia di quanto ha già fatto, sia di ciò che sta facendo, sia di ciò che resta ancora

da fare.

Oltre a controllare il problema lungo il percorso di soluzione, è necessario valutare la

soluzione dopo la fine di tale processo. Spesso è attraverso questa valutazione che si

trova il modo di andare oltre, ridefinendo il problema, producendo nuove utili

strategie, riconoscendo nuovi problemi, nuove risorse possono diventare disponibili o

risorse già esistenti possono essere usate più efficacemente. Dunque il ciclo può dirsi

completato quando porta a nuove intuizioni e di nuovo si ricomincia.

È anche importante sottolineare l’importanza della flessibilità nella successione dei

vari passi del ciclo. Il successo del problem solving può richiedere, infatti,

occasionalmente la presenza di alcuni “aggiustamenti” in relazione a come meglio

procedere. Raramente possono risolversi problemi con una sequenza ottimale nella

successione dei vari passaggi del problem solving. Spesso si deve tornare indietro e/o

andare avanti attraverso le varie fasi cambiando il loro ordine secondo il bisogno, o

saltare o aggiungere passaggi, quando ciò si renda necessario.

È sufficiente l’alterazione di una sola delle tappe dell’intero processo a far sì che il

disturbo si rifletta su tutte le situazioni della vita quotidiana in cui bisogna effettuare

scelte non precostituite ma dipendenti dalle caratteristiche dell’esperienza in corso.

6.2 Descrizione di un caso clinico

In questo paragrafo vengono presentati i risultati di uno studio su singolo caso che,

da un lato, ci aiutano a comprendere meglio le difficoltà che incontrano i pazienti

frontali di fronte a situazioni da risolvere, dall’altro, ci permettono di valutare

l’impatto di una strategia di intervento sull’apprendimento di procedure

comportamentali.

Questa descrizione mette in evidenza come i deficit derivanti da una lesione

frontale coinvolgono non solo le singole abilità cognitive, ma soprattutto il modo con

cui tali abilità sono sfruttate dal soggetto per mantenere un comportamento

appropriato ai diversi contesti personali e sociali.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

La scelta di condurre uno studio su un singolo caso è stata dettata da esigenze

pratiche e logistiche, legate alla difficoltà di selezionare campioni rappresentativi

della popolazione da studiare e alla necessità di considerare come campione dello

studio le “misurazioni ripetute” di un certo comportamento, abilità e caratteristiche

manifestate dal soggetto.

Questo metodo ha permesso di osservare il comportamento in maniera molto precisa

ed ha facilitato l’evidenziazione, con un’analisi “momento dopo momento”, di lievi

modificazioni avvenute ad un certo punto dell’intervento. La possibilità di effettuare

un monitoraggio continuo ha permesso in tal modo di apportare delle modificazioni

anche “in itinere”, introducendo delle variabili in funzione dei miglioramenti

osservati.

Prima di descrivere lo studio, vengono presentati i dati salienti che caratterizzano il

quadro clinico del paziente.

Dati anamnestici

Paziente: R.M.

Data di nascita: 23/02/1967

Scolarità: III° media

Stato civile: coniugato, due figli

Attività lavorativa: autotrasportatore dipendente

Il paziente viene ricoverato presso l’Unità Operativa di Riabilitazione Intensiva

Neuromotoria ( UORIN ), di Trevi , il 24/02/2006 per esiti di arresto cardiaco con

ipossia cerebrale durante un intervento di tenorrafia del tendine d’Achille destro

(9/02/2006).

Dopo l’evento ha avuto un periodo di coma durato una settimana e PTA di durata

superiore alle 25 settimane.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Esami diagnostici

• TAC encefalo (fase acuta, febbraio 2006): negativa;

• RMN encefalo (fase acuta, febbraio 2006): negativa;

• EEG (febbraio 2006): modiche alterazioni dell’organizzazione dell’attività

bioelettrica cerebrale, assenti aspetti di sicuro specifico significato

patologico;

• RMN encefalo (dicembre 2006): note di atrofia corticale cerebellare; lieve

ampliamento del sistema ventricolare sovratentoriale e dei solchi delle

convessità; i fasci cortico-spinali presentano un segnale superiore alla media

a livello dei bracci posteriori delle capsule interne; minima asimmetria di

calibro delle arterie vertebrali per destra < sinistra, si segnala inoltre che

l’arteria basilare è un po’ sottile ma con normale segnale di flusso; caduta di

segnale lievemente superiore alla media a livello dei nuclei pallidi nelle

immagini in doppio echo;

• EEG ( febbraio 2006): nella norma.

Valutazione clinico-riabilitativa all’ingresso

Al momento della presa in carico il paziente era vigile, manifestava uno stato di

agitazione subcontinua, marcato disorientamento temporo-spaziale, grave deficit

delle funzioni attentive di base, era scarsamente collaborante e anosognosico.

Erano presenti perseverazioni verbali e confabulazioni, GOS 3, LCF 4, DRS 17 .

Il paziente necessitava di assistenza continua, se lasciato solo si metteva in situazioni

di pericolo.

Il primo obiettivo del progetto riabilitativo è stato quello del controllo farmacologico

dell’agitazione psicomotoria e il potenziamento delle componenti intensive della

funzione attentiva mediante strutturazione di un programma giornaliero con attività

fortemente contestualizzate alternate a momenti di riposo.

Ad una prima valutazione strutturata delle funzioni corticali superiori ( aprile ’06) si

è delineato un quadro di sindrome disesecutiva con associata ridotta iniziativa

caratterizzato da disordini attentivi multipli, soprattutto nelle componenti selettive,

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

disordini delle funzioni mnesiche con deficit di apprendimento nel lungo termine sia

in modalità verbale che visuo-spaziale, confabulazioni, disordini di pianificazione e

categorizzazione, perseverazioni nella ricerca di nuove strategie.

Il paziente ha effettuato giornalmente trattamento riabilitativo neuropsicologico

caratterizzato da: training per l’attenzione sostenuta e shifting attentivo, esercizi

finalizzati a stimolare la consapevolezza con utilizzo di feedback da parte del

paziente e addestramento all’uso di ausili esterni (calendario e agenda semplificata)

per migliorare la memoria prospettica per eventi routinari e addestramento dei care-

giver.

6.2.1 Materiali e metodi dello studio

Sulla base del quadro clinico del paziente sono state scelte due prove che rispondono

alle seguenti caratteristiche:

• Adatte al profilo cognitivo e al livello di disabilità del paziente;

• Utilizzabili in modo standardizzato anche al di fuori del contesto clinico;

• Consentono l’esame, oltre che dell’efficienza globale della prestazione,

anche delle strategie usate dal paziente.

Nella prima prova abbiamo chiesto di risolvere un compito di vita quotidiana che

veniva usualmente svolto e gestito dal paziente prima dell’evento morboso.

Nella seconda il paziente si trova ad affrontare un compito “astratto” di

pianificazione.

Si tratta di prove pur sempre cognitive, ma è bene precisare che, mentre il primo è un

compito strettamente legato al contesto che il paziente può verificare attraverso la

pratica, nel secondo non c’è il rinforzo dell’esecuzione e quindi il paziente non ha

nessun riscontro con l’esperienza.

Inoltre, il secondo compito richiede un’analisi molto più dettagliata dei dati, una

maggiore capacità di giudizio astratto e una maggiore flessibilità cognitiva nella

ricerca di strategie operative.

Le prove hanno lo scopo di valutare le capacità di risoluzione attiva e creativa dei

problemi.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Strumenti per la valutazione

Per questo studio non abbiamo fatto riferimento a scale di valutazione standardizzate

per due motivi:

1. L’obiettivo dello studio è stato quello di analizzare, non solo come le singole

abilità cognitive intervengono nel processo di soluzione di un problema, ma

soprattutto il modo in cui la loro integrazione influenza le possibilità di

successo.

1. I test di valutazione neurocomportamentale comunemente in uso in letteratura

sono francamente inadeguati per la misura di queste abilità;

Per queste ragioni è stato creato un Modello di valutazione comportamentale,

strutturato in 9 items, che ha come modello teorico di riferimento l’integrazione di

tutte le componenti esecutive responsabili del processo di soluzione di un problema.

La valutazione è stata condotta attraverso l’osservazione diretta di ciascuna abilità

cognitiva, i tipi di risposte per ciascuna delle abilità sono state codificate in tre livelli,

dalla risposta meno idonea a quella migliore.

I rispettivi punteggi sono stati attribuiti in base al grado di compromissione di ogni

funzione cognitiva indagata, secondo il seguente criterio:

• Livello 0 (abilità totalmente compromessa)

• Livello 1 (abilità parzialmente compromessa)

• Livello 2 (abilità preservata)

Questo modello ci ha permesso di analizzare gli aspetti oggettivi e osservabili del

comportamento in ogni sua fase evolutiva e di descrivere graficamente l’andamento

generale, i miglioramenti, e di mettere a confronto i risultati ottenuti nelle due prove.

Le misurazioni ripetute del comportamento del paziente, registrate su un’apposita

scheda di osservazione, ci hanno permesso di dare un’interpretazione dei risultati,

altrimenti difficilmente comprensibili.

I grafici descrivono l’evoluzione del comportamento nel corso delle varie fasi di

osservazione; sull’asse delle ascisse viene riportato il numero delle misurazioni

effettuate durante la sperimentazione; sull’asse delle ordinate vengono rappresentati i

punteggi ottenuti in ogni prestazione, in base al modello di valutazione

comportamentale che è stato messo a punto per questo studio.

83

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

MODELLO DI VALUTAZIONE COMPORTAMENTALE NELL’APPROCCIO

AL PROBLEM SOLVING

COMPONENTI

ESECUTIVE

Tipi di risposte P Note per la valutazione

Fa riferimento alla presa di

coscienza del problema

Scarsa, non capisce il problema

Moderata, prova a risolverlo

0

1 CONSAPEVOLEZZA

Piena, sa come risolverlo 2

Comportamento spontaneo

per 2 minuti, se necessario

dare facilitazioni

Assente 0

1 INIZIATIVA

Moderata, necessita di facilitazioni

Spontanea 2

Capacità di focalizzare,

mantenere e dirigere

volontariamente l’attenzione

sul compito

Perde subito il compito 0

1

ATTENZIONE Mantiene l’attenzione solo per una parte

del compito

Mantiene l’attenzione per tutta la durata

del compito

2

Capacità di individuare le

informazioni significative e di

sopprimere quelle irrilevanti

0

1

Assente ANALISI DEI DATI Parziale

Totale 2

Capacità di interpretare

adeguatamente la situazione

in base a ragionamenti

adeguati

0

1

Non formula ipotesi

Formula ipotesi non adeguate ASTRAZIONE

Formula ipotesi adeguate 2

Formulazione di un piano di

azione e mantenimento della

sequenza operativa

Non porta a termine il compito 0

1 PIANIFICAZIONE /

ESECUZIONE Porta a termine il compito con facilitazioni

Porta a termine il compito da solo 2

Flessibilità nella scelta di

strategie con cui condurre la

sequenza operativa

Assenza di strategie

Procede per tentativi ed errori

0

1 FORMULAZIONE / USO

DI STRATEGIE Utilizza strategie adeguate 2

AUTOMONITORAGGIO/

Sensibilità al feedback

proveniente dal risultato

dell’esecuzione

Persevera nello stesso errore

Riconosce l’errore ma non lo corregge

0

1 AUTOCORREZIONE Cambia l’approccio al problema 2

Non verifica il risultato 0

1

VERIFICA DEI

RISULTATI Verifica il risultato senza esercitare

autocritica

Verifica il risultato ed esercita autocritica 2

Confronto fra l’esito e

l’obiettivo

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Trattamento Riabilitativo

Per questo studio è stato sviluppato un training di apprendimento procedurale che

focalizza l’attenzione su ogni singola fase del processo di problem solving: partendo

quindi dall’ ANALISI DEI DATI, il paziente viene facilitato a percorrere tutte le

tappe necessarie a concludere il compito con successo: l’individuazione

dell’obiettivo, la selezione delle informazioni significative, la pianificazione del

piano di azione, l’esecuzione e infine la verifica del risultato.

Il training è stato sviluppato anche attraverso la somministrazione giornaliera di un

questionario strutturato, creato in base alle maggiori difficoltà incontrate dal paziente

nelle prime osservazioni e modificato in funzione dei miglioramenti osservati.

Le domande sono state formulate in maniera semplice e comprensibile, adattate al

suo grado di scolarità e al suo livello di disabilità.

L’intervento è inteso a promuovere la riacquisizione delle varie strategie attraverso le

quali si devono criticamente analizzare, definire, riordinare, classificare le

informazioni o i compiti proposti e, più in generale, è mirato all’apprendimento di

strategie e regole che, se acquisite, gli permettano di identificare e risolvere diversi

problemi della vita in una vasta gamma di situazioni e in vari contesti (processo di

generalizzazione).

Disegno sperimentale

Per questo studio abbiamo adottato un disegno sperimentale che prevede:

• Una prima fase di baseline, durante la quale abbiamo osservato il

comportamento spontaneo e le strategie autonome del soggetto di fronte alla

richiesta di eseguire i compiti previsti. Il comportamento è stato sottoposto ad

un’attenta analisi, in modo da definire una linea di base che, fornendo dei dati

quantificabili, ha descritto l’evoluzione del comportamento da modificare

prima dell’attuazione dell’intervento. Il comportamento è stato misurato

durante un periodo di tempo sufficientemente lungo, in modo da ottenere una

linea di base stabile con la quale confrontare il comportamento successivo.

• Una seconda fase di apprendimento, in cui abbiamo osservato il

comportamento in concomitanza con l’introduzione del trattamento.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

• Una terza fase di verifica, nella quale abbiamo sospeso il trattamento e

continuato a monitorare il comportamento del soggetto di fronte ad un

compito simile (prima prova), e di fronte allo stesso compito (seconda prova).

6.2.2 Risultati

PROVA N° 1

Compito: “Deve spedire questa raccomandata con ricevuta di ritorno, la deve

spedire ora” (forniti busta e i relativi indirizzi).

La sperimentazione si è protratta per un mese.

Abbiamo chiesto al paziente di eseguire il compito con due diverse modalità di

approccio:

1. Pianificazione scritta della procedura

2. Esecuzione (in un luogo non conosciuto dal paziente)

L’importanza della pianificazione scritta sta, per prima cosa, nel verificare se le

difficoltà del paziente aumentano quando si trova a dover ripercorrere la procedura

“mentalmente”; in secondo luogo, il mezzo scritto può essere utilizzato come uno

strumento di facilitazione per fissare i dati.

Tra la fase di apprendimento e quella di verifica abbiamo introdotto una fase di

sospensione del compito, sia in apprendimento che in esecuzione.

La presenza di una fase di sospensione è fondamentale ai fini della verifica, poiché,

tendenzialmente, le attività distraenti inducono questi pazienti a riprendere il

comportamento abituale.

In questa settimana abbiamo quindi lavorato su altre attività, mirate al potenziamento

delle funzioni attentive e mnesiche, e delle componenti di pianificazione.

Lo scopo è stato quello di verificare, in seguito, se il miglioramento osservato è stato

in funzione dell’intervento implementato o se invece sia stato la conseguenza di un

processo di apprendimento.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

In altri termini, per poter parlare di apprendimento è necessario, da un lato, che le

abilità mostrate durante l’addestramento si mantengano nel tempo, e dall’altro, che

egli sia in grado di trasferirle in altre situazioni e in contesti diversi.

Rappresentazione grafica dei risultati

0123456789

101112131415161718

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28

Baseline Apprendimento Sospensione Verifica

P

Numero delle misurazioni

Esecuzione Pianificazione

Osservando i dati riportati nel grafico è possibile evidenziare alcuni aspetti

interessanti: innanzitutto la differenza tra i due tipi di prestazione, che si mantiene

costante per tutta la durata della sperimentazione, poi, la relativa stabilità del

comportamento del paziente durante le ultime 7 misurazioni, che si è mantenuto ai

livelli raggiunti durante la fase di apprendimento, in entrambe le modalità di

risoluzione del compito, infine, il diverso comportamento nelle prime due fasi, in

relazione al training di apprendimento cui è stato sottoposto.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Fase 1 : baseline (7 gg)

Questa prima fase corrisponde all’osservazione degli aspetti comportamentali sui

quali siamo poi intervenuti.

Le prime misurazioni hanno fatto emergere una serie di difficoltà, legate, in primo

luogo, alla scarsa consapevolezza del compito, ad un’analisi pressoché assente dei

dati e ad un’incapacità di formulare ipotesi e verificarle.

I primi giorni il comportamento del paziente si è mantenuto su un livello

relativamente basso, poiché non ha preso in considerazione la richiesta di risolvere

subito il compito (come specificato dalla consegna), rimandandolo ad un secondo

momento.

Nei giorni successivi abbiamo fornito alcuni suggerimenti, abbiamo focalizzato

l’attenzione sul fatto che il compito richiedesse la spedizione a “mezzo di

raccomandata” e non di una semplice lettera, ma questo non è bastato a migliorare la

sua prestazione, poiché il paziente ha continuato a cercare il bar per acquistare il

francobollo e la cassetta della posta per imbucarla.

Un dato d’estrema rilevanza è che, sebbene il paziente abbia eseguito lo stesso

compito per più giorni consecutivi e, nonostante i suggerimenti, egli ha continuato a

perseverare sugli stessi errori, e, dato ancor più sconcertante, ha abbandonato il

compito alle prime difficoltà senza mai curarsi del risultato dell’esecuzione.

Le maggiori problematiche emerse da queste prime osservazioni sono state la

mancanza d’iniziativa, il deficit attentivo, che ci ha spinto a ricordargli

continuamente il compito, il disturbo mnesico, inteso come difficoltà a trovare

strategie di accesso ad informazioni presenti in memoria, una forte tendenza alla

perseverazione e una scarsa flessibilità cognitiva: questi disturbi non gli hanno

permesso di seguire nessuna delle fasi del processo di problem solving.

La carenza di un piano strategico è emersa soprattutto quando si è chiesto al paziente

di scrivere le tappe che secondo lui erano necessarie per risolvere il compito: le

difficoltà si sono intensificate e il paziente non è stato in grado di formulare ipotesi.

In questo caso, come è facile notare dal grafico, le prestazioni sono risultate

maggiormente deficitarie rispetto all’esecuzione.

In conclusione, il compito non è stato portato a termine.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

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Fase 2: apprendimento dei dati e impiego di facilitazioni esterne (7 gg)

Questa fase descrive l’evoluzione dell’intervento, che è stato articolato in 7 giorni di

trattamento.

L’addestramento giornaliero è stato sviluppato secondo questo programma:

1. Analisi dei dati (categorizzazioni, comparazioni, differenze e facilitazioni) e

somministrazione di un questionario strutturato

2. Pianificazione scritta della procedura

3. Esecuzione “a secco” della procedura

Osservando il grafico si può notare come, complessivamente, l’effetto del training sia

stato estremamente positivo.

Dopo un processo di analisi dei dati, il paziente ha individuato il luogo esatto in cui

effettuare la spedizione (alla posta e non al bar).

Le prestazioni si sono rivelate sensibilmente migliori sin dall’inizio: il paziente ha

mostrato un incremento dell’attenzione volontaria (da imputare probabilmente ad una

maggiore consapevolezza del compito), riduzione degli errori di procedura e delle

perseverazioni, e, dopo qualche giorno d’addestramento e reiterazione di

facilitazioni, è riuscito a concludere il compito con successo.

Il paziente ha impiegato strategie adeguate per cercare il luogo della spedizione,

chiedendo informazioni che poi ha utilizzato senza difficoltà; una volta entrato alla

posta ha atteso il suo turno, ha specificato in modo chiaro la richiesta all’operatore,

ha scritto correttamente gli indirizzi sulla cedola della raccomandata, ha effettuato il

pagamento e atteso la ricevuta.

È importante sottolineare come, durante le ultime prove, il paziente abbia dimostrato

una certa “familiarità” con il compito, cosa che non era emersa nella prima

settimana.

Questo fatto ci fa pensare che il programma di addestramento abbia favorito la messa

in atto di schemi procedurali già depositati in memoria, e che quindi il successo

debba essere inteso come il risultato dell’attuazione di una procedura divenuta

automatica.

Eseguita la procedura è stato chiesto al paziente di trascrivere tutte le tappe appena

effettuate.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

In questo caso sono emerse ancora alcune difficoltà: è stato in grado di esplicitare

correttamente solo alcuni passaggi, lasciando spazio a produzioni confabulanti e

quindi non rispondenti alla realtà.

Ciò ha evidenziato un’alterata capacità strategico-organizzativa , una persistente

compromissione della funzione attentiva e mnesica, nonché una difficoltà di

pianificazione linguistica (frasi brevi, poco esplicative e strettamente legate alla

guida che gli veniva data).

Un altro dato da sottolineare è che, anche in questa fase, nonostante i miglioramenti

nell’esecuzione, il paziente non ha mai esercitato alcuna verifica sul risultato.

Come illustra il grafico, possiamo concludere che l’apprendimento procedurale abbia

determinato un miglioramento significativo delle performance, con un andamento

crescente sia nell’esecuzione che nella pianificazione

Sospensione (7 gg)

Fase 3: verifica (7 gg)

Abbiamo proposto al paziente lo stesso compito ma in un luogo diverso.

Complessivamente le sue prestazioni sono risultate soddisfacenti.

I risultati dell’esecuzione sono stati incoraggianti: nonostante ci sia stato un periodo

di sospensione il paziente ha eseguito subito il compito senza difficoltà, utilizzando

le stesse strategie precedenti: non conoscendo il luogo, ha chiesto informazioni e si è

diretto presso l’ufficio postale, dove ha effettuato correttamente tutti i passaggi della

procedura.

Complessivamente, rispetto alle osservazioni iniziali il paziente è andato meglio

anche nella pianificazione scritta, soprattutto quando questa era guidata da domande.

Al momento di descrivere di nuovo le fasi della procedura, il paziente ha tenuto in

considerazione che il luogo era cambiato e quindi ha fornito delle risposte congrue

con la situazione appena sperimentata, anche se non è stato in grado di riportare

correttamente tutti i passaggi della procedura, e non ha esercitato alcun tipo di

verifica su quello che aveva scritto; tuttavia si sono notevolmente ridotte le

produzioni confabulanti.

90

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Durante la pianificazione sono quindi emersi ancora una serie di problemi:

atteggiamento confabulante, difficoltà nella ricerca di strategie, scarsa iniziativa,

disturbi mnesici e di attenzione, difficoltà nell’organizzazione del linguaggio.

Questi risultati sono significativi del fatto che il trattamento abbia avuto effetto, in

primo luogo sull’esecuzione, e quindi su uno schema procedurale divenuto

automatico, ma, per certi aspetti anche sulla pianificazione, poiché ha sollecitato,

anche se non in maniera eccellente, un meccanismo strategico flessibile, ovvero

applicabile anche al mutare di alcune variabili ambientali.

Il fatto che, come mostra il grafico, il comportamento si sia mantenuto sullo stesso

livello anche quando l’intervento è stato sospeso, è estremamente significativo dal

punto di vista terapeutico, perché dimostra la stabilizzazione degli effetti del

trattamento, il loro mantenimento e la loro possibilità di generalizzazione.

In conclusione, si può dire che l’intervento ha determinato delle modificazioni

stabili, ovvero l’acquisizione di determinati contenuti e abilità che hanno permesso al

soggetto di affrontare una situazione diversa da quella sperimentale.

91

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

PROVA N° 2

Compito:

“ HA UNA MATTINATA MOLTO IMPEGNATA, DEVE COMPIERE

QUESTE ATTIVITA’”

• Rinnovare carta d’identità

• Ore 12,30: Riprendere i bimbi a scuola

• Ore 11,30: Appuntamento dal medico

• Fare spesa

• Ore 8,00: Accompagnare i bimbi a scuola

• Fare un bonifico in banca

“ DESCRIVA L’ORDINE CON CUI SVOLGE LE VARIE ATTIVITA’ , IMPIEGANDO IL

MINOR TEMPO POSSIBILE ”

AMBULATORIO

COMUNE

BANCA

CASA

SUPERMERCATO 700 mt

600 mt 700 mt

300 mt

500 mt

400 mt

SCUOLA

ORARIO APERTURA

Banca: 9.00 – 12.30

Comune: 8.30 – 12.30

Supermercato: 8.30 – 13.00

92

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

La sperimentazione si è protratta per un mese.

Per questa prova non abbiamo introdotto una fase di sospensione, ma si è ritenuto

necessario prolungare il periodo dell’apprendimento, poiché il problema conteneva

un maggior numero di dati da analizzare e imponeva delle regole strutturate e

vincolanti per la corretta risoluzione.

Inoltre, il problema implicava la deduzione di dati non espliciti: ( es.“ Ha una

mattinata molto impegnata”, indica che tutte le attività devono essere svolte

nell’arco della mattinata; “Impiegando il minor tempo possibile”, indica che deve

tenere in considerazione il dato delle distanze; “Rinnovare carta d’identità”, indica

che deve recarsi in comune).

Altri elementi di complessità erano che le commissioni sono state elencate secondo

un ordine casuale e che il compito richiedesse una risoluzione “a tavolino”, non

rinforzata da un’esecuzione nel contesto.

Rappresentazione grafica dei risultati

0123456789

101112131415161718

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28

Baseline Apprendimento Verifica

P

Numero delle misurazioni

Pianificazione “astratta”

93

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Anche in questa seconda prova, la prima impressione che si ha osservando il grafico

è che ci sia una notevole differenza tra le prime due fasi della sperimentazione:

tuttavia, poiché il compito era più impegnativo del precedente, le prestazioni non

hanno raggiunto i livelli ottenuti nella prima prova.

Si può affermare comunque che il trattamento abbia avuto anche qui un effetto

positivo sulle performance del paziente, e che il miglioramento si sia parzialmente

mantenuto anche nella fase della successiva verifica.

Fase 1: baseline (7 gg)

Il rendimento complessivo del paziente in questa prima fase è stato gravemente

deficitario ed ha fatto emergere un quadro di compromissione di tutte le componenti

esecutive ed una situazione di generale carenza su tutto il repertorio delle abilità

cognitive: l’attenzione, l’iniziativa, la memoria, l’astrazione, la pianificazione e la

consapevolezza.

Come si nota dal grafico, i risultati di questa prima fase di osservazione si collocano

intorno ad un livello basso e tendenzialmente costante, che oscilla tra i valori 1 e 2

(range 0-18).

Il primo giorno il paziente non ha compreso il compito: ha effettuato una lettura

parziale dei dati focalizzando l’attenzione solo sulla mappa ed escludendo tutte le

altre informazioni contenute nella consegna, è rimasto in silenzio senza neanche

tentare di risolvere il problema.

Inoltre, non è stato in grado di accedere autonomamente alle informazioni utili

contenute implicitamente nelle consegne del compito.

A questo punto si è reso necessario fornire delle facilitazioni per aiutarlo nella

comprensione (esclusione visiva della mappa e richiami verbali).

Proseguendo nell’osservazione si è evidenziata una marcata alterazione di tutti i

processi attentivi, che gli hanno impedito di focalizzarsi sulle informazioni rilevanti

(componenti selettive) e di portare a termine il compito abbandonandolo

ripetutamente senza curarsi del risulto (componenti intensive).

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Fase 2: apprendimento (14 gg)

L’ obiettivo dell’intervento, articolato in 14 giorni di apprendimento, è stato quello

di promuovere la comprensione del compito.

Abbiamo quindi lavorato su ogni singolo elemento del problema, scomponendolo in

sottofasi ed effettuando un apprendimento fase per fase: compito, elenco delle

attività, condizioni vincolanti, analisi della mappa.

Il processo di analisi dei dati è stato condotto, in primo luogo, sollecitando il

paziente a focalizzarsi sulle varie attività e chiedendogli di elencarle immediatamente

dopo aver visto la consegna. I primi tentativi hanno evidenziato una difficoltà nella

fissazione di questi dati, mentre se veniva chiesto di disegnare la mappa egli riusciva

a ricostruire tutto il percorso e quindi anche le varie attività da svolgere.

Il training di apprendimento è stato continuativo, ed ha visto coinvolti i familiari che

hanno proseguito il training anche a domicilio.

Tuttavia il paziente spesso riferiva di non ricordare quello che aveva fatto il giorno

prima e quello che il compito richiedesse, mentre alla visione della consegna

rammentava di averlo già visto ed era in grado di dedurre delle informazioni non

esplicitate dal compito (es. “ ha una mattinata molto impegnata” , il paziente

deduceva che tutte le attività dovevano essere svolte nell’arco della mattinata;

oppure, “ deve impiegare il minor tempo possibile”, capiva che doveva scegliere il

percorso più corto; “rinnovare carta d’identità”, sapeva che doveva andare in

comune).

I primi tentativi di risoluzione hanno reso necessario l’impiego di molte facilitazioni

esterne, e l’attenzione è stata mantenuta solo per una parte del compito con tendenza

ad abbandonarlo alle prime difficoltà.

Le risposte sono state spesso impulsive ed hanno portato quindi a soluzioni non

sempre adeguate: il paziente non è stato in grado di confrontare i dati utilizzati con

quelli ancora da utilizzare, perseverando nelle risposte.

Tuttavia, insieme al difetto di memoria, che può da solo giustificare le sue difficoltà,

è da riconoscere anche una carenza di strategie organizzative.

Nella seconda parte di questa fase il paziente è stato autonomo nel ricordare le

attività specificate dal compito, utilizzando come strategia di autofacilitazione la

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

ricostruzione della mappa: le perseverazioni sono diminuite e alcuni degli errori di

procedura sono stati riconosciuti dal paziente stesso e quindi corretti.

Complessivamente, il paziente è stato più propositivo rispetto alla fase iniziale e,

come si nota dal grafico, le osservazioni hanno fatto registrare un immediato e

consistente miglioramento delle performance mostrando un andamento crescente

fino a stabilizzarsi nelle ultime cinque misurazioni.

Fase 3: verifica (7 gg)

In questa fase della sperimentazione abbiamo sospeso l’intervento e ci siamo limitati

ad osservare il comportamento spontaneo del paziente sullo stesso compito.

L’obiettivo è stato quello di verificare, tramite l’osservazione dell’approccio globale

del paziente al problema, se i miglioramenti osservati durante l’applicazione del

training si sono mantenuti, e quindi se il trattamento abbia influito in maniera

positiva sulle abilità cognitive del paziente.

Complessivamente, abbiamo notato un miglioramento nell’analisi dei dati del

problema, che non si è limitata esclusivamente alla mappa, ma anche alle altre

informazioni riportate nella prima parte della consegna.

Alla visione del compito, il paziente è riuscito ad entrare autonomamente nelle

informazioni, a dedurre quelle non esplicitate dalla consegna, a tenerle

operativamente in memoria e ad utilizzarle per la formulazione di ipotesi.

Tuttavia, non è stato in grado di stabilire le priorità secondo cui collocare

temporalmente le varie attività, ordinandone solo due su sei, consultando sempre le

distanze tra un posto e l’altro ma non integrando la parte del compito relativa agli

orari.

Per tutti questi motivi, e ancora, per la difficoltà a pianificare, il compito non è stato

mai portato a termine e il paziente non ha mai verificato il risultato.

Queste osservazioni hanno comunque evidenziato un generale miglioramento

rispetto alla fase iniziale della sperimentazione, soprattutto per quanto riguarda la

frequenza degli errori di procedura e delle perseverazioni, il mantenimento

dell’attenzione sostenuta, la memoria e l’iniziativa.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Sulla base di questi aspetti, ed osservando il grafico, si può concludere che gli effetti

del trattamento non si siano del tutto stabilizzati, poiché, al momento della

sospensione del training il comportamento è tornato a raggiungere un livello più

basso, anche se non è sceso fino ai livelli della fase iniziale.

6.2.3 Discussione dei risultati

Le prove e le osservazioni di cui si è riferito sono forse insufficienti a giustificare una

teoria interpretativa globale delle funzioni esecutive.

Ciò nonostante essi evidenziano nel paziente modalità di pensiero e di

comportamento che ricorrono con insistenza significativa, indipendentemente dal

tipo di compito.

I risultati ottenuti da queste sperimentazioni sottolineano come la maggiore difficoltà

del paziente, e dei pazienti frontali in generale, sia nel costruirsi strategie con cui

operare, e quindi di far fronte ai problemi che la vita quotidiana pone, in contesti

diversi e mutabili.

Esso può essere in grado di risolvere problemi quando viene testato in situazioni ben

strutturate, con facilitazioni contestuali e con il rinforzo della pratica, e avere invece

prestazioni fallimentari in situazioni che richiedano abilità organizzative e di

programmazione di cui il paziente non è più capace.

Solitamente le maggiori difficoltà non si osservano nelle situazioni di routine in cui il

paziente può fare affidamento su conoscenze e procedure consolidate, ma soprattutto

quando deve affrontare situazioni non routinarie, di cui non ha fatto sufficientemente

esperienza prima dell’inizio della patologia, quando si tratta cioè di utilizzare le

proprie conoscenze in modo inusuale: il paziente ha a disposizione tutti gli strumenti

cognitivi ma non sa utilizzarli in modo appropriato.

La differenza fra i risultati ottenuti nelle due prove dimostra infatti che le maggiori

difficoltà dei pazienti frontali emergono nei compiti che richiedono l’utilizzo del

pensiero astratto, quando cioè devono ripercorrere “mentalmente” una procedura e

accedere ad informazioni già sperimentate e quindi consolidate, mentre durante

l’esecuzione, nella giusta situazione contestuale, questi schemi vengono fuori in

maniera automatica.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

È possibile, infatti, che nel secondo compito si sia trovato più in difficoltà, dal

momento che è stato costretto ad utilizzare una strategia di ricerca insolita, mentre

nel primo caso ha potuto effettuare una ricerca del tutto compatibile a quella in atto

nella vita di tutti i giorni, quando si compie un compito di routine.

La difficoltà a selezionare, organizzare e sintetizzare secondo un principio direttivo

le informazioni ricevute in modo discontinuo nel tempo, o che devono essere

rievocate e ordinate traendole dalla memoria, rende le esperienze trascorse

inutilizzabili al momento in cui le circostanze impongono forme nuove di pensiero e

di comportamento.

La “flessibilità cognitiva” è una funzione indispensabile per poter essere in grado di

mutare le strategie di pensiero e di azione per fronteggiare le richieste del contesto,

quindi, qualsiasi tipo di intervento riabilitativo diventa efficace nel momento in cui

crea le condizioni affinché il paziente sia in grado di confrontarsi con le situazioni

che la vita quotidiana gli presenta; non si tratta solo di mantenere efficienti le abilità

già possedute ma soprattutto di sviluppare la capacità di affrontare situazioni nuove

come se fossero familiari, utilizzando cioè i modelli di riferimento acquisiti

precedentemente con l’esperienza.

La proposta di trattamento riportata in questo studio non è il risultato di uno studio

clinico controllato, ma piuttosto un’applicazione esplorativa di conoscenze acquisite

recentemente in questo campo.

In altri termini, se da un lato esistono singole osservazioni sulla generica validità

della riabilitazione delle funzioni esecutive, disegni sperimentali volti a determinare

se il disturbo esecutivo possa giovarsi di un trattamento riabilitativo mirato sono

estremamente limitati. Conseguentemente, risulta difficile trarre conclusioni

sull’efficacia del trattamento.

Dai pochi studi condotti fino ad oggi sembrerebbe che i disturbi delle funzioni

esecutive siano suscettibili di trattamento ma che, tuttavia, gli effetti raggiunti siano

strettamente compito-specifici.

Per questo motivo è importante che la selezione delle componenti esecutive da

rieducare debba essere basata sulla loro rilevanza funzionale e che il trattamento

riabilitativo debba essere condotto il più possibile all’interno del contesto ecologico

del paziente.

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6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving:

studio sperimentale su un singolo caso

Per concludere, si può affermare che nel campo della riabilitazione delle funzioni

esecutive molto resti ancora da fare, sia in termini di definizione delle scale di

valutazione funzionale, che fanno da premessa alla elaborazione del programma

riabilitativo, sia in termini di progettazione e applicazione delle metodiche.

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Conclusioni

Conclusioni

La patologia frontale va assumendo sempre maggiore importanza in ambito

riabilitativo, non solo in quanto può essere grave in sé stessa e nelle conseguenti

implicazioni personologiche e sociali, ma anche per essere spesso causa di

insufficiente collaborazione da parte del paziente, quindi, di impedimento al

trattamento dei deficit presenti nel quadro complessivo e potenzialmente suscettibili

di miglioramento.

In questo lavoro si è cercato di illustrare a titolo esemplificativo i principali disturbi

che insorgono quando la patologia aggredisce i lobi frontali e si è visto come questi

problemi incidono pesantemente sulla capacità di adattamento personale e sociale e,

soprattutto, come essi rappresentino la causa delle maggiori difficoltà per i parenti e

per il team di riabilitazione.

I disturbi di cui si è riferito sono peculiari della patologia frontale ma possono

manifestarsi dopo una qualsiasi lesione cerebrale; ho scelto di descrivere questa

patologia perché è quella che meglio rappresenta tali disturbi e, soprattutto, perché le

considerazioni fatte finora possono e devono essere calate all’interno di un contesto

più ampio, che è quello della riabilitazione neuromotoria.

Certamente i deficit cognitivi e le loro manifestazioni sono i problemi più difficili da

trattare in riabilitazione perché il paziente è come se avesse perso la sua mente e la

sua personalità; egli resta tuttavia la stessa persona, con le stesse esperienze e con lo

stesso carattere, solo che egli ora cerca disperatamente di affrontare un “mondo

inesplicabile”, senza però poter disporre dei processi necessari per esplorarlo,

adattarsi ed organizzarsi.

L’incapacità del paziente di svolgere attività della vita quotidiana, che egli dal punto

di vista fisico sarebbe in grado di effettuare, è difficile da accettare se non si

comprendono i disturbi cognitivi che sono alla base del suo comportamento.

Il trattamento delle patologie neurologiche deve essere mirato al recupero delle

competenze motorie, ma spesso l’impatto che hanno i disturbi cognitivi sul recupero

funzionale tende ad essere sottostimato, o comunque non si considera che essi sono

alla radice di tutte le difficoltà del paziente, compresa la perdita di capacità motorie.

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Conclusioni

Un approccio di trattamento sensibile all’interazione della lesione cognitiva e

comportamentale, ed il modo in cui queste influenzano l’acquisizione delle abilità,

può essere più efficace per definire e sviluppare le abilità e le capacità che,

accrescendo il livello di indipendenza e di autonomia, riducono il carico assistenziale

gravante sui membri della famiglia.

I fattori che influenzano il livello di assistenza necessaria includono la capacità

fisica, ma, cosa altrettanto importante, la capacità di eseguire le attività della vita

quotidiana ed i compiti professionali, in modo costante ed in contesti ambientali

diversi.

Non si può dimenticare che la riabilitazione assume il suo pieno significato quando si

occupa della relazione individuo-ambiente senza privilegiare nessuno dei due poli a

scapito dell’altro, ma lo scopo può essere raggiunto solo prendendo in

considerazione il paziente nella sua singolarità di individuo con un deficit specifico

inserito in un determinato contesto.

Sfortunatamente viene spesso dimenticato il ruolo che l’ambiente svolge, mentre si

usano programmi per modificare il comportamento del paziente e la sua disponibilità

a collaborare, con il risultato che egli impara soltanto ciò che piace o dispiace al team

di riabilitazione, ma non viene scoperta o eliminata la reale causa del suo

comportamento indesiderato.

Se non vengono riconosciuti e trattati i problemi alla base del suo comportamento,

egli non sarà in grado di far fronte alle sempre nuove e complesse esigenze della vita

fuori dai confini protetti dell’ospedale o del centro di riabilitazione.

Il terapista dovrebbe guardare oltre questi confini, e sviluppare un programma di

trattamento che massimizzi i risultati funzionali e migliori la qualità della vita del

paziente, riduca il peso dell’assistenza per i membri del nucleo familiare e soddisfi le

aspettative della società.

Una riabilitazione che tenga conto delle particolari esigenze di ogni paziente e delle

circostanze in cui viene a trovarsi, che miri a risolvere i reali problemi quotidiani,

sottolinea l’importanza del lavoro in team: un’equipe che può valutare accuratamente

le lesioni fisiche, cognitive e comportamentali, stabilire le risorse sociali e finanziarie

disponibili, ed identificare i risultati funzionali e professionali più realistici, sarà

molto più efficiente nel soddisfare le esigenze del paziente e della sua famiglia.

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Conclusioni

In questo senso, le aree frontali del nostro cervello, regolando l’espressione

comportamentale e quindi l’interazione dei nostri movimenti con l’ambiente,

costituiscono un “ponte” tra l’esecuzione motoria e il suo risultato sociale.

Il fisioterapista, dovendo contribuire al “risultato sociale”, non può prescindere dalla

conoscenza di questi meccanismi, sia per ottimizzare l’intervento durante l’esercizio

terapeutico che nel definire gli obbiettivi del programma riabilitativo.

Obiettivo prioritario della riabilitazione è l’abbattimento delle “barriere cognitive”,

che ostacolano l’intervento riabilitativo tanto quanto le più note barriere

architettoniche.

Il paziente deve essere messo nelle condizioni di collaborare e partecipare

attivamente al programma di trattamento, anche nelle condizioni più sfavorevoli,

ottimizzando le risorse disponibili.

Il reinserimento lavorativo e sociale è un obiettivo perseguibile anche quando ad

essere colpita è la mente e non il corpo.

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