A braccia aperte

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di Piersandro Pallavicini.

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Piersandro Pallavicini

A braccia aperte

© 2010, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano

www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277

© 2010, Piersandro Pallavicini

Immagine di copertina: © Gipi

Tutte le edizioni e ristampe di questo libr o sono su carta riciclata al 100%

Finito di stampare nel mese di aprile 2010

presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone r ealmente esistentiè da ritenersi puramente casuale.

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Samuel si era messo il gessato grigio . Lo sapeva bene che conquel completo sembrava una specie di principe africano in tra-sferta in Lombardia, e l’aveva scelto apposta. La camicia era arighine con il doppio polsino, i gemelli d ’oro, la cravatta unaregimental blu e viola. Le scarpe, Oxford, nere, erano inglesi.E alla questura di Abbiategrasso si era fatto por tare in taxi.

Alle otto e un quarto aveva aperto la portiera ed era scesomaestosamente, facendo leva sull’asfalto con il suo ombrellodal manico in legno. La questura apriva alle otto e mezzo, c’erasolo un piccolo gruppo di gente fuori dai cancelli, quindici oventi persone che lo avevano guardato stranite. Erano cinesi,slavi, filippini, arabi, qualcuno con moglie e bimbi in brac-cio, vestiti come si v estivano tutti i giorni, cioè pr onti perandare, dopo, al lavoro. Samuel non solo era l’unico vestito aquel modo, ma era anche l ’unico nero.

Qualche giorno prima, quando finalmente av eva decisoche avrebbe davvero fatto partire il suo piano a favore di Gael-le, cominciare dalla questura gli era sembrata la cosa più ovvia.Si sarebbe fatto spiegare direttamente alla fonte, aveva pensa-to, perché non voleva chiedere consigli a nessuno. Degli altricamerunesi con cui aveva studiato non ne voleva sapere, paren-ti in Italia non ne aveva e in Francia, dove stava Emmanuel,

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le leggi erano un’altra cosa. Poi comunque no, non lo dovevasapere nessuno. Questo il punto: erano affari suoi, priv ati, chedovevano restare insondabili, soprattutto per il girone dellemalelingue africane.

E allora via, forza, alla questura come anni e anni prima,così che a testa bassa e scalpitando adesso era sul mar ciapiededavanti ai cancelli chiusi, pronto ad affrontare una battaglia,ad alzare la voce se necessario, a far valere la sua condizionedi laureato, di medico chirurgo in un ospedale, di cittadinoitaliano da dieci anni. Perché almeno questo gli era rimasto,dal matrimonio con Cristina. Questo, la cittadinanza, e ilricordo angoscioso delle code bibliche di un’altra era, quelladelle sanatorie e delle regole che circolavano con il passaparo-la, quella dove ti toccava andare all’alba proprio lì, davanti allaquestura, sul marciapiede, per riuscire a entrare prima delletorme dei senza speranza e senza permesso per poi, dentro,farti semplicemente ascoltare.

Si era guardato intorno. Gli altri ancora lo stavano sbirciandocon dei sorrisetti. Poi aveva visto l’arabo, un uomo di quaran-t’anni con un bambino per mano e la moglie, con il v elo, chene teneva un altr o in braccio . Gli era sembrato decente ededucato, aveva chiesto a lui.

«Mi sa dire dove si prende il biglietto?»«Che biglietto?»«Il numero. Per la coda. Dove si prende?»L’arabo gli aveva riso in faccia.«Ehhh, ma il biglietto non c’è più, professore. Mi sa che è

da un po’ di anni che non vieni in questura, giusto?»

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Samuel si era irrigidito. Professore? Lo stava prendendo ingiro?

«Ah non c ’è più?» aveva sbottato. «E allora si fa la codacosì, alla cazzo?»

L’arabo aveva fatto una specie di sibilo e gli av eva girato lespalle. Con le mani aveva coperto le orecchie del bambino,con un ordine secco aveva fatto girare anche la moglie. Samuelera allibito. Tutto questo perché aveva detto cazzo?

«Signore, l’appuntamento.»Qualcuno gli aveva posato una mano sulla spalla. S i era

girato e av eva trovato questa donnina che non gli arriv avanemmeno al petto. Una donnina cinese che sorrideva e chegli sembrava di aver già visto.

«L’appuntamento. Bisogna telefonare e prendere l’appun-tamento» diceva, con tutte le erre girate in elle come dentrouna barzelletta. «Io conosco lei. Ha fatto l’operazione a miofiglio.»

Ecco chi era. A S amuel adesso era tornato in mente: ilragazzino cinese era stato uno dei pochissimi che gli eranopassati davanti in ospedale. Gente che non gli aveva chiestoniente di più di quella che era la normale assistenza. Non comegli altri stranieri, e gli africani più di tutti: che in corsia lo tira-vano per le falde del camice e chiedev ano e pr etendevano,come se tra loro ci fosse una qualche sotterranea alleanza darispettare.

«Sì che mi ricordo di lei» Samuel aveva raddrizzato le spal-le e sorrideva. «Il ragazzo va bene, ora?»

«Il ragazzo sì, ma lei non ha l ’appuntamento, dottore?»Lui aveva scosso la testa. Non sapeva nulla di appuntamenti.

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Poi il cancello aveva iniziato a scorrere con uno scatto cheaveva fatto sobbalzare tutti. E tutti avevano drizzato la testa,e tutti erano diventati impazienti, frementi, come se fosserogrosse macchine elettriche passate impr ovvisamente dallostand by all’acceso. Poi ancora, non appena la luce del cancel-lo era stata larga abbastanza da lasciar passar e una persona,avevano iniziato a correre dentro.

Samuel era sobbalzato di nuovo: la cinese gli aveva presola mano.

«Adesso si viene solo con l’appuntamento. Venga con medottore, subito. Se non ha l’appuntamento chiede allo spor-tello stranieri.»

Samuel aveva sfilato via la mano ma era corso dentro conlei, in coda a quella specie di sprint collettivo. Cosa fosse losportello stranieri l’aveva capito dopo, nel salone di cui rico-nosceva la vecchia struttura e i volumi di un tempo dietro ilcolore delle par eti ritinteggiate e l ’arredamento rinnovato.Sportello stranieri stava scritto su un foglio A4 piegato e spil-lato a prisma come un toblerone, posato sul piano di una scri-vania nuovissima di legno chiaro e plastica verde, sistemata inmezzo al salone. Dietro stava seduta Azzurra Cislaghi.

«Sportello stranieri» ripeteva la cinese, che adesso stava sul-l’attenti di fianco alla scrivania con un sorriso fiducioso. «Senon ha l’appuntamento può chiedere alla signora.»

Lui aveva salutato debolmente la Cislaghi. Lei, A zzurra, erainvecchiata, ingrassata, e dimostrava di più dei cinquantadueche aveva. Portava il solito caftano, i soliti sandali senza calz e,i soliti capelli lunghi, più biondi di prima, anni prima, quan-do Samuel accompagnava sua moglie alle “iniziative” di quella

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sua specie di ONG, Pro-Africa, che convogliava denaro pubbli-co verso il conto in banca della famiglia Cislaghi e uomini infi-nitamente più belli e più giovani di lei nel letto di A zzurra.

«Grazie, mi è stata davvero d’aiuto» aveva detto Samuel allacinese, e le aveva teso la mano. Lei gliel’aveva stretta raggian-te ed era filata via, v erso il lato lungo dello stanz one, dovec’erano due sportelli veri, solidi e blindati, con il vetro anti-proiettile e il microfono per parlare con i poliziotti in divisa.Poliziotti che Samuel sentiva rispondere già scocciati alle istan-ze complicate e mal pronunciate degli stranieri in coda.

«Samuel, come sta Cristina?»Lui av eva guardato A zzurra come si guar da una pazza.

Quella donna sapeva benissimo che erano divorziati. Quelladonna, a differenza di lui, vedeva ancora la sua ex moglie, chesi ostinava a collaborare, gratis, a quella stronzata di ONG. Lostava prendendo in giro o aveva già fumato di prima mattina?

«E cosa vuoi che ne sappia, io?» av eva detto con un sorrisoacido, piantandola in asso senza nemmeno salutare. Non vole-va avere niente a che fare con quella suonata in per enne ricer-ca di soldi pubblici e cazzi neri. Aveva programmato di faredi testa sua, così sarebbe stato.

Era andato deciso a uno spor tello, aveva tenuto lo sguardoben fisso sul poliziotto dietro il vetro blindato, si era impostodi ignorare i commenti irritati della gente in fila.

«Scusi...» aveva detto, gentile. Il poliziotto l’aveva ignorato. In quella coda non c’era la

cinese ma l’arabo di prima. Che gli av eva sibilato qualcosa.«Senta...» aveva insistito Samuel, bussando con due dita

sul vetro.

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E il poliziotto era esploso.«Ma che vuoi tu?» gli aveva urlato, sbattendo giù la penna.

«Appena arrivato e già rompi i coglioni? Stai in coda e aspettal’ora dell’appuntamento, no?»

A Samuel si era stretto lo stomaco. Gli sembrava di esseretornato indietro di vent’anni, ai permessi di soggiorno elemo-sinati in quegli uffici dove pensavano sempre, a priori, che tuli volessi fregare.

«Ci conosciamo?» aveva mormorato, gelido.«Cosa vuol dire ci conosciamo? Perché dovrei conoscere

proprio te?»«Lei mi sta dando del tu» aveva continuato Samuel, senza

scomporsi «ma non mi sembra di av er mai avuto il piacere.»

Venti minuti dopo era tutto finito. Venti minuti dopo l’arabocon famiglia aveva smesso di spintonarlo, la cinese di provare atrascinarlo via mentre lui rispondeva agli spintoni, il poliziottodi urlargli addosso parole mute attraverso la sordina del vetro.Venti minuti dopo lui non sventolava più la sua carta d’inden-tità di cittadino italiano in faccia al manipolo di questurini usci-ti rabbiosi dagli uffici, venti minuti dopo non aveva più la cami-cia fuori dai pantaloni e non era più chinato per terra a cercareil gemello sfuggito dal polsino, dopo che i questurini l’avevanopreso, sbattuto sul pavimento, fermato con un ginocchio sulpetto e ricondotto alla calma con parole di certo non cordiali.Venti minuti dopo beveva malvolentieri un caffè al baretto difronte alla questura, con le mani che tremavano e non riusci-vano a tener ferma la tazzina, mentre Azzurra Cislaghi si pro-strava in scuse come se di quella scena la responsabile fosse lei.

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Samuel voleva fare un contratto a Gaelle per un lavoro dicollaboratrice domestica. Perché lei era qui con il suo permes-so di studentessa scaduto ed era div entata una clandestina.Voleva farla lavorare per lui, vero o falso che fosse quel lavo-ro. Voleva passarle uno stipendio, che avesse lavorato o meno.Voleva farle continuare la sua vita con ser enità, soprattuttoora che con il suo fidanzato era finita com’era finita e lei stavacome stava.

«Credete di prenderci per il culo, voi africani?»Questo gli aveva urlato in faccia il poliziotto da dietro lo

sportello, prima, dopo avergli ricacciato in gola le scherma-glie del tu e del lei, del ci conosciamo oppur e no. Questo gliaveva urlato in faccia il poliziotto quando S amuel aveva fattoun gestaccio per zittire gli altri in fila che protestavano e avevadetto che desiderava solo sapere se quello fosse il posto giustoper chiedere cosa dovesse fare per accendere quel tipo di con-tratto, e permettere a una persona di lavorare per lui.

«Credete di prenderci per il culo, voi africani?» aveva gor-gogliato il poliziotto, il dito premuto istericamente sull’in-terfono, in preda a una specie di euforia. «Una collaboratricedomestica per te? La moglie di tuo fratello, giusto? O magarila cugina di tuo cugino? E ti sei pur e vestito bene, ma chetrovata!»

«Credete di prenderci per il culo, voi africani?» Questa erastata la frase ripetuta anche dall’arabo, faccia da schiaffi e sor-risino sarcastico, i figli con gli occhi vitrei tenuti indietro dallamoglie, terrorizzata, che lo supplicava sottovoce.

«Mi dispiace, non era mai successo» stava dicendo la Cisla-ghi, ora, al tavolino del bar, mentre girava il suo caffè.

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«Forse è per ché non ho pr eso il famoso appuntamento»aveva provato a scherzare Samuel e lei aveva fatto una risatina.

«Adesso si telefona. Così non ci sono più quelle filemostruose di una volta. C’è un centralino, tu chiami, è uncasino prendere la linea ma quando ce la fai loro ti dicono ungiorno e una fascia oraria. I n certe questure si può già far eanche via internet. Le cose funzionano meglio .»

«Ma sono stronzi come prima» aveva detto Samuel, ama-ramente, buttando giù quel che r estava del caffè.

«Non lo so, francamente a me non par e. E te l ’ho dettoche non mi era mai capitato di v edere una scena così. Eppureabbiamo lo sportello da due anni» aveva mormorato Azzurra,chinandosi verso Samuel. Nel baretto erano gli unici clienti,la musica della radio andava a tutto volume.

«È per come sei vestito, Samuel. Forse è un po’ troppo. Epoi quella battuta, “ci conosciamo”. Ma dai, sembravi ClintEastwood.»

La Cislaghi rideva. Lui l’aveva fulminata con lo sguardo. Leiera tornata seria ma gli aveva posato una mano sul braccio.

«Per i contratti di lavoro adesso è competente la prefettura,non la questura. Anzi, c’è da fare la domanda online. C’è unapagina apposta sul sito del Ministero dell’Interno, tu la apri,la cerchi, la compili, poi la invii alla data pr estabilita. È unaspecie di gara telematica, sono cir ca 150.000 l ’anno quelleaccettate in tutta Italia. Lo sai, no, che ci sono i flussi? Almenoquesto? E poi però devi v edere com’è con la tua provincia, equi siamo a Milano, quindi figurati i numeri, la concorrenza...»Samuel non la stava più ascoltando. Samuel guardava via, fuoridalla vetrina del bar etto. Guardava la gente che passav a, le

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facce bianche e tirate degli uomini in giacca scesi dall ’ufficioper una commissione, le faccie bianche e meste delle pensio-nate in giro per la spesa, i ragazzini bianchi con i capelli impos-sibili che avevano bigiato scuola, le madri bianche che torna-vano a casa dopo aver lasciato i figli all ’asilo. Azzurra Cislaghiparlava e parlava, e lui fuori dalla vetrina non aveva visto unasola faccia nera. Sì, parlava e parlava, quella, e lui che con ilsuo passaporto e la cittadinanza, e il lavoro, e la macchina, ela casa, si sentiva da anni italiano, quella mattina av eva capitoche invece ancora non lo era. E che mai, forse, lo sarebbe statodavvero. Gli si era stretto lo stomaco, come prima davanti alpoliziotto che gli urlava in faccia.

Poi in un istante era tornato lì, al tavolino, alla musica alta,al caffè mediocre. Azzurra gli stava scuotendo il braccio.

«Samuel, mi ascolti o no? Vuoi che andiamo via? C’è lamusica troppo alta, qui è un casino: vuoi che andiamo a casamia?»

Lui l’aveva guardata incredulo.«Chi se ne frega dello sportello, questa mattina c’è calma,

al massimo arriva qualche stronzo arabo e può anche tornare.»«A casa tua...» aveva ripetuto Samuel.«A casa mia. Ma sì, oppure in centro» si era messa a dire

Azzurra cambiando tono. «Ho un monolocale annesso all’uf-ficio. Si sta più comodi. Non c’è il divano, ma il letto...»

Lui si era alzato e se n ’era andato. Senza pagare, senzasalutare. Senza una parola.

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