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Sintesi di BONOCORE “Diritto commerciale1

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Sintesi diBONOCORE

“Diritto commerciale”

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LE FONTI DEL DIRITTO COMMERCIALE

Il diritto commerciale è, per sua natura, un diritto in continua e percepibile evoluzione. Le sue fonti possono essere divise in tre gruppi: fonti legali, fonti consuetudinarie e fonti diverse da leggi, regolamenti ed usi.Tra le fonti legali, accanto alla Costituzione e al codice civile, vanno menzionate: la legislazione speciale, la legislazione comunitaria ed i regolamenti i quali, per quanto fonte antica, sono (anche per il diritto commerciale) la vera novità degli ultimi dieci anni.Per quanto concerne gli usi, si parla di usi commerciali, normalmente relativi ad aspetti contrattuali non disciplinati da norme scritte, quindi usi interpretativi del contratto concluso senza esplicita previsione delle parti sul punto, senza comunque escludere gli usi legali, frutto di prassi consuetudinarie.Il terzo gruppo di fonti è quello delle fonti diverse da quelle legali, cioè: i codici collettivi e individuali; la lex mercatoria; i Principi Unidroit. I codici possono essere definiti come gruppi di norme ordinate intorno ad una materia determinata e predisposti, di regola, dagli stessi imprenditori. Tra i codici “collettivi” si annoverano: alcuni tipi di regolamento; le condizioni generali di affari; i contratti normativi; i codici di lealtà e di correttezza professionale. Tra i codici “individuali” assumono posizione di spicco i contratti-tipo predisposti da singoli imprenditori e consistenti in uno schema di contratto che sarà sottoposto a tutti i futuri potenziali contraenti dell’imprenditore stesso.Il secondo tipo di fonte extralegale è la lex mercatoria (“legge dei mercati”), nata dal ceto dei mercanti che per tutto il Medioevo la adottò come una vera e propria lex universalis; essa ha conservato la funzione di rendere il più possibile uniforme la regolamentazione del settore dei rapporti commerciali e dei traffici attraverso l’individuazione di quei principi e di quelle regole affermatesi nella pratica del commercio internazionale, con l’obiettivo di creare un vero e proprio ordinamento giuridico soprannazionale a sé stante. È necessario, però, tenere in considerazione che un giudice ordinario è tenuto ad applicare il proprio diritto nazionale senza potersi appellare a questo ordinamento che è la lex mercatoria, a meno che le parti di un contratto non l’abbiano espressamente richiamata.La fonte extralegale più nuova è costituita dai “Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali”, destinati a coprire l’intera area del diritto contrattuale, senza però avere alcuna efficacia vincolante, potendo nella pratica trovare applicazione solo grazie alla loro capacità di persuasione. Le idee portanti sono: la libertà contrattuale, la buona fede, i mezzi di protezione contro i soprusi nella contrattazione, l’apertura verso gli usi; gli scopi sono individuati nell’essere utilizzati per l’interpretazione o l’integrazione degli strumenti di diritto internazionale uniforme.

IL PROFILO SOGGETTIVO DELL’IMPRESA

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L’IMPRENDITORE IN GENERALE

Impresa e imprenditore nel codice civile e nella Costituzione. L’art. 2082 c.c. qualifica imprenditore “chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi”.L’art. 41 Cost. indica i caratteri e le finalità non dell’attività imprenditoriale bensì dell’attività economica, la quale nella maggior parte dei casi è organizzata ad impresa ed è quindi attività d’impresa, e sancisce tre principi fondamentali:

a) la libertà di iniziativa economica, genera a sua volta le quattro libertà: la libertà di intraprendere l’attività d’impresa accedendo al mercato, di svolgerla e di cessarla senza interferenze, nonché la libertà di concorrenza;

b) la finalizzazione dell’attività economica all’utilità sociale e la statuizione di un canone di rispetto della persona, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana;

c) l’esistenza di una riserva di legge: la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali.

Il concetto di imprenditore è, prima ancora che un concetto giuridico, un concetto economico. L’art. 2082 c.c., come visto, definisce l’imprenditore e non l’impresa, ma – come si desume chiaramente dalla lettera della norma – l’imprenditore è individuato in funzione (dell’esercizio) dell’impresa, per cui la definizione generale dell’imprenditore è anche, e innanzitutto, definizione generale dell’impresa.I momenti fondamentali di una impresa sono:

a) la nascita e la morte: la qualità di imprenditore individuale si acquista in conseguenza dell’esercizio di fatto dell’attività attraverso l’utilizzazione del complesso di beni e di uomini e la stessa qualità si perde non solo per effetto di una determinazione volitiva dell’imprenditore ma anche e soprattutto in conseguenza della effettiva dissoluzione del patrimonio aziendale;

b) la vita dell’impresa nel mondo esterno: l’impresa ha un proprio nome – la ditta – e una serie di segni distintivi che identificano la sede – l’insegna – e il risultato dell’attività che è il prodotto – il marchio.

c) La sostituzione del soggetto imprenditore nell’esercizio dell’attività e l’attribuzione coattiva e volontaria del potere ad altri soggetti: l’imprenditore può delegare ad ausiliari l’esercizio dell’attività d’impresa e nella procedura fallimentare lo stesso viene privato dei poteri di gestire l’impresa.

Gli elementi caratterizzanti l’impresa. L’attività economica costituisce la vera novità del codice civile del 1942 rispetto all’abrogato codice del 1882, che aveva al centro l’atto di commercio.L’impresa definita nell’art. 2082 prescinde da ogni qualificazione dell’attività e la “commercialità” è un possibile attributo dell’attività, accanto all’”agrarietà” e, una volta ammessane l’esistenza, all’impresa civile.Attività sta ad indicare una serie di atti finalizzati ad uno scopo, nel senso che ogni atto che l’imprenditore compie serve all’esercizio dell’impresa e, più in particolare, a realizzare la produzione o lo scambio di uno o più beni o servizi determinati.Il passaggio dal sistema degli atti di commercio al sistema dell’attività non è privo di conseguenze pratiche: in primo luogo è necessario che l’attività possa sempre farsi risalire alla volontà del soggetto; non a caso, infatti, la dottrina si è sempre domandata se l’attività dovesse considerarsi un fatto ovvero un atto. La seconda conseguenza mette ancora meglio in evidenza la differenza tra vecchio e nuovo sistema, ove si consideri che nell’ambito di un’attività lecita l’imprenditore può porr in essere atti illeciti

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e che, di converso, nell’ambito di un’attività illecita è plausibile il compimento di atti perfettamente leciti.Qualche cenno sull’impresa illecita va comunque fatto. Nell’ambito della corrente di opinione che ne postula l’ammissibilità, c’è chi distingue l’ipotesi in cui è illecita l’attività come tale – contrabbando – in ordine alla quale, non potendosi invocare la sanzione dell’invalidità riservata agli atti negoziali, postula la non invocabilità della disciplina dell’impresa per chi esercita l’impresa illecita o per chi entrando in contatto con lui è consapevole dell’illiceità; dall’ipotesi in cui l’illiceità riguarda solo le modalità di svolgimento di un’attività lecita, come ad esempio, l’attività svolta in situazione di incompatibilità – l’impiegato dello Stato che, ad onta del divieto legale, esercita un’attività imprenditoriale – o in assenza delle prescritte autorizzazioni.

L’organizzazione. Impresa e lavoro autonomo. L’attività economica deve essere organizzata: per produrre o scambiare beni e servizi occorrono mezzi patrimoniali da impiegare e uomini che lavorino; l’imprenditore organizza e coordina questi che sono i fattori della produzione, e cioè capitale – proprio o altrui – e lavoro.L’organizzazione serve, in primo luogo, ad individuare il confine tra le attività produttive che, in quanto organizzate, assumono il carattere d’impresa e quelle attività le quali, pur essendo dirette a produrre beni e servizi, non assumono carattere d’impresa, proprio perché non organizzate, come ad esempio le attività professionali il cui oggetto è la produzione di un servizio (consulto medico, difesa dell’imputato).L’organizzazione deve rivolgersi al mondo esterno (si parla di eterorganizzazione) e l’attività deve essere rivolta al mercato: non potrà, perciò, considerarsi imprenditore agricolo il coltivatore diretto che produca solo il necessario per sé e per la propria famiglia.È così che le differenze tra imprenditore e lavoratore autonomo si fanno irrilevanti, perché anche il secondo organizza il proprio lavoro e impiega capitali sia pure modesti, con ciò volendo dire che “organizza” anche chi “si organizza”. Detto questo, non è possibile ignorare che la distinzione tra imprenditore e lavoratore autonomo ha innanzitutto un fondamento normativo – basterebbe porre a confronto la norma che definisce il piccolo imprenditore, e cioè l’art. 2083, e la norma che disciplina l’esecuzione dell’opera da parte del professionista intellettuale, e cioè l’art. 2232 – e si può quindi dire che “vi è lavoro autonomo anche e finché l’uso di mezzi e strumenti materiali serve all’esplicazione dell’attività di lavoro del soggetto e non configura una produttività che ecceda quella del lavoro individuale; vi è impresa quando quel livello è superato, appunto come risultato del concorso determinante e qualificante anche di altri fattori quale che sia poi il rapporto fra essi e l’attività di lavoro del soggetto.

Scopo di lucro, economicità, produttività. L’attività, oltre che organizzata, deve essere esercitata professionalmente: “professionalità” sta ad indicare abitualità; a tale stregua, mentre non sono imprese quelle occasionali, lo sono invece quelle stagionali, come ad esempio, gli stabilimenti balneari.La maggiore dottrina, pur considerando lo scopo di lucro come un elemento componente della “professionalità”, no ritiene che esso entri a far parte degli elementi costitutivi dell’impresa individuale; questo, ovviamente, non vuol dire che non vi sia impresa quando manchi lo scopo di lucro. Ma il problema dello scopo di lucro ha finito di essere un problema: l’economicità ha, infatti, recuperato un suo ruolo proprio perché in una definizione come quella dell’art. 2082, formulata in termini soggettivi, tale requisito non può che riferirsi all’azione del soggetto e al risultato economico di tale azione.Accanto alla economicità, altro carattere dell’attività è quello della produttività, ricavabile dall’espressione finale dell’art. 2082: inteso il “prodotto” come “ogni bene mobile anche se incorporato in altro bene mobile o immobile”, e cioè la destinazione di esso alla soddisfazione di un bisogno, la produzione è intesa come l’attività diretta alla produzione del bene o del servizio.

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L’impresa occasionale. Il classico esempio di impresa occasionale potrebbe essere quello di un libero professionista che, avendo del denaro da investire, avesse costruito un edificio per civili abitazioni vendendo alcuni appartamenti in esso ubicati a terzi.Non sarebbe esatto dire, come pure si faceva una volta, che l’impresa occasionale si concreta in un singolo atto o in un singolo affare, e non in un’attività, perché anche l’impresa qualificabile come occasionale esige il più delle volte una reiterazione di atti, e quindi un’attività. Il fatto è che riesce difficile indicare criteri univoci per identificare l’impresa occasionale; perfino la stabilità dell’organizzazione imprenditoriale, che ha costituito finora il dato più significativo, può non essere in taluni casi sufficiente.Si può quindi concludere dicendo che la valutazione relativa all’esistenza della professionalità non può essere mai disgiunta da una coeva valutazione dei dati relativi la organizzazione.

L’impresa come attività di lavoro. Oltre che essere attività organizzata e professionalmente esercitata, l’impresa è anche comunità di lavoratori.Il richiamo al lavoro è fatto non solo dall’art. 4 Cost., secondo il quale ogni attività “deve concorrere al progresso materiale e spirituale della società”, ma anche dall’art. 46 Cost., il quale finalizza alla “elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione” il diritto dei lavoratori “a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende”; ancora: l’attività imprenditoriale “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, secondo quanto stabilito dall’art. 41 Cost.Sul piano operativo, la norma dell’art. 43 Cost. che più da vicino riguarda l’impresa come comunità, non ha avuto, a differenza di quanto è accaduto in Germania, alcuna attuazione: i sindacati hanno sempre rifiutato la cogestione dei lavoratori, preferendo a questa la c.d. contrattazione integrativa aziendale.

L’imputazione dell’attività e il rischio d’impresa. Il problema dell’imprenditore occulto. L’atto giuridico va imputato a colui nel cui nome è stato compiuto e non vi sarebbe, di norma, motivo alcuno per derogare a questo criterio anche per l’imputazione dell’attività d’impresa.L’attività viene imputata, con la conseguente imputazione di (eventuali) responsabilità, secondo il criterio della spendita del nome, che diviene così elemento costitutivo della figura dell’imprenditore.Può però accadere che il vero “padrone dell’impresa”, e cioè colui che ha effettivamente investito i propri capitali nell’attività imprenditoriale, non possa o non voglia apparire all’esterno nelle vesti di imprenditore e si serva, perciò, di un prestanome che appunto “appaia” ai terzi come l’imprenditore e, che non di rado, è un nullatenente, ragion per cui, in caso di insolvenza, i creditori non avrebbero alcun patrimonio sul quale far valere le loro pretese.La maggioranza della dottrina ritiene che, ad onta di tale situazione, non possa derogarsi al criterio della spendita del nome, con la conseguenza che la responsabilità ricadrà sempre sull’imprenditore palese; e questa convinzione fonda sull’art. 1705, per cui anche se si scoprisse l’esistenza di un accordo regolante i rapporti tra imprenditore occulto e imprenditore palese, questo accordo sarebbe considerato alla stregua di un mandato senza rappresentanza, appunto regolato dalla norma appena richiamata. La soluzione sarebbe giustificata anche da un punto di vista giustiziale: i terzi devono imputare solo a s stessi di non aver valutato con la dovuta diligenza la persona con la quale trattavano e la consistenza del di lui patrimonio.Non tutti la pensano allo tesso modo. Altra corrente di opinione non considera la spendita del nome come unico criterio di imputazione dell’attività d’impresa, non essendo richiesto che “il soggetto dell’azione spenda il proprio nome, quanto che non spenda il nome altrui con un meccanismo capace di trasferire su altri l’atto e l’effetto”.

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Occorre distinguere quella parte della dottrina che ha ad oggetto l’esercizio dell’attività d’impresa da quella parte della dottrina che riguarda il tipo di imprenditore.Cinque sono i punti importanti:

1. a tutte le entità che rispondono al paradigma delineato nell’art. 2082 si applica lo “statuto dell’imprenditore in generale”;

2. in aggiunta allo statuto, alle singole entità saranno applicabili le norme indotte dalla natura dell’attività esercitata, e in particolare a chi esercita l’attività agricola, lo statuto dell’imprenditore agricolo, e a chi esercita l’attività commerciale le disposizioni della legge fallimentare e cioè lo statuto dell’imprenditore commerciale; ovvero dalle dimensioni dell’impresa, e cioè lo statuto del piccolo imprenditore;

3. in nessun caso possono applicarsi le norme dettate per il piccolo imprenditore alle società commerciali;

4. alle singole entità saranno poi applicabili le norme che, pur non concernendo o concernendo solo marginalmente l’attività d’impresa, disciplinano il tipo e, di conseguenza, fissano le peculiari regole di organizzazione.

Alla tematica dell’imputazione appartiene la figura dell’impresa senza imprenditore – esistenza dei soli profili oggettivi e conseguente disciplina dell’azienda e della concorrenza – creata, senza fortuna, dalla dottrina per farvi rientrare enti pubblici, fondazioni e associazioni esercenti l’attività d’impresa non come oggetto esclusivo e prevalente; imprese esercitate da incapaci o dal rappresentante legale senza autorizzazione; entità prive della soggettività giuridica piena; e, secondo alcuni, anche la grande impresa là dove esista dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa.Alla tematica dell’imputazione dell’attività d’impresa, appartiene anche il caso dell’imprenditore che eserciti più attività d’impresa o addirittura più imprese.Si può dire che si avranno imprese distinte, sia pure facenti capo al medesimo soggetto, quando potranno riscontrarsi pluralità di attività e pluralità di organizzazioni, desumibili da elementi come la qualità e la durata dei cicli di lavorazione del prodotto o di apprestamento dei servizi ovvero ancora dai risultati produttivi, mentre si avrà impresa unica quando l’unica attività sia organizzata con articolazioni di stampo esclusivamente territoriale, amministrativo, contabile o addirittura aziendale. Si è poi opportunamente precisato che pluralità di imprese facenti capo allo stesso soggetto, pur postulando una diversa disciplina in ordine alla diversa attività, non significa necessariamente autonomia o separazione patrimoniale.Di imputazione dell’attività d’impresa può parlarsi anche nel caso di “gruppo” di imprese; il problema è di stabilire se la “direzione unitaria” del gruppo possa identificare una “impresa di gruppo”.

Distinzioni normative nella categoria “imprenditori”. È opportuno ribadire che l’art. 2082 si riferisce all’impresa senza ulteriori attribuzioni e che gli elementi in tale norma contenuti devono essere presenti in ogni tipo di impresa. Fermi restando per tutti gli imprenditori i caratteri costitutivi della figura indicata nell’art. 2082, esiste una disciplina che si applica a tutti indistintamente gli imprenditori ed una normazione che si applica solo a particolari categorie di imprenditori:

a) con riferimento alla natura dell’attività, distingueremo gli imprenditori agricoli (art. 2135) dagli imprenditori commerciali (art. 2195);

b) con riferimento alle dimensioni dell’impresa, distingueremo il piccolo imprenditore (art. 2083) dall’imprenditore tout court;

c) con riguardo al soggetto esercente potremo avere una distinzione basata sulla natura di esso e distingueremo perciò l’imprenditore pubblico dall’imprenditore privato, individuale e collettivo (società);

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d) potremmo infine avere imprese a statuto ordinario e imprese a statuto speciale, regolate cioè da leggi speciali (imprese bancarie, assicurative, editoriali).

Dopo le innovazioni legislative introdotte dalla l. n. 580 del 1993 e dal d.p.r. n. 581 del 1995, non ha più ragione di essere la distinzione, peraltro sempre discussa, tra imprese soggette a registrazione e imprese non soggette a registrazione.

L’impresa agricola e la sua identificazione. All’impresa agricola è intitolato l’intero Capo II del Titolo II, ma in realtà le norme che direttamente interessano tale istituto sono solo quelle che vanno dagli artt. 2135 a 2140; all’imprenditore agricolo si applicherà, accanto al suo peculiare statuto, lo statuto generale dell’imprenditore.Il complesso normativo è stato di recente modificato dal d. lgs. n. 228 del 2001.La novellazione non è di poco conto, dato che del vecchio impianto è rimasta solo la definizione di imprenditore agricolo principale, che viene ancora indicato come colui che esercita le attività di “coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento di animali e attività connesse” (art. 2135, comma 1)per il resto, la norma dell’art. 2135, che consta ora di tre commi anziché di due, non ha più niente che ricordi l’originario testo, soprattutto perché sono stati eliminati quei caratteri che per sessanta anni hanno contraddistinto l’impresa agricola:

a) il comma 2 chiarisce – è questa una novità assoluta – che per coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento di animali, devono intendersi “le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”;

b) il comma 3 stabilisce che “si intendono connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata.

Vediamo ora che cosa rimane del vecchio e quali sono le novità introdotte.Del vecchio restano l’individuazione delle categorie di imprenditori agricoli principali e la distinzione tra attività agricole principali e attività connesse; tale ultima distinzione ha influenza sulla qualificazione dell’imprenditore e dell’impresa, perché mentre le prime hanno intrinseca natura agraria e perciò sono di per se stesse idonee ad imprimere il carattere dell’agrarietà all’impresa e all’imprenditore qualunque siano l’importanza e le dimensioni assunte dall’attività, l’esercizio delle attività connesse rileva al solo fine di creare una zona di rispetto che consenta all’agricoltore, pur entro certi limiti e a talune condizioni, di svolgere attività diverse ed ulteriori rispetto a quelle tipicamente agrarie senza, per questa ragione, assumere la qualifica di imprenditore commerciale con la conseguente soggezione allo statuto di questo.Per quanto riguarda il nuovo che è stato introdotto:

1. nel comma 1, a parte il peggioramento formale, c’è una sola novità: la locuzione “allevamento del bestiame” è sostituita dalla locuzione “allevamento di animali”. La parola “bestiame” ha sempre contraddistinto le sole specie animali legate al fondo per essere adibite alla sua lavorazione o essere alimentate con i prodotti della terra. Orbene, si è sempre discusso se di tale locuzione dovesse darsi un’interpretazione restrittiva nel senso di ricomprendervi esclusivamente il bestiame da carne, da lavoro, da latte e da lana, ovvero un’interpretazione più larga tesa a includervi anche gli animali da pelliccia o da mero allevamento (cani e cavalli di razza).

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Non v’è dubbio che l’aver adottato il termine “animali” sta ad indicare la chiara volontà del legislatore di troncare ogni polemica dottrinale e giurisprudenziale adottando il termine più lato che potesse ricomprendere ogni specie di bestia senza alcun’altra specificazione.

2. accanto al verbo “utilizzano” il fondo si aggiunge l’espressione “o possono utilizzare”: il che equivale ad abbattere quello che sembrava essere uno dei capisaldi della vecchio costruzione dell’imprenditore agricolo e cioè l’indispensabilità che le tre attività di svolgessero sul fondo:

a) con riguardo alla coltivazione del fondo si è sempre richiesto, oltre alla condizione che l’attività di coltivazione non consistesse nella mera raccolta dei frutti naturali del suolo, che il fondo assumesse il ruolo di fattore produttivo e non di mero strumento per la conservazione delle piante, indifferenti essendo le modalità tecnico-organizzative.

b) Più o meno lo stesso discorso può farsi per la silvicoltura, che costituisce sostanzialmente una species della coltivazione del fondo, dovendosi solo aggiungere che, anche alla stregua della nuova legge, non dovrebbe rientrare nell’attività silvo-culturale l’attività meramente estrattiva del legname se disgiunta dalla coltivazione del bosco.

c) Per quanto concerne l’allevamento degli animali, si è già sottolineato il profondo significato che il mutamento legislativo riveste, apportate al comma 1 – “animali” al posto di “bestiame” – e al comma 2 – “utilizzano o possono utilizzare” il fondo: sarà impresa agricola anche l’allevamento di animali esotici. Per una delle specie animali intorno al cui inquadramento si discuteva – l’itticultura – è stato il legislatore a risolvere il problema: creando, con un altro decreto legislativo, la figura dell’imprenditore ittico.

Le attività agricole per connessione. Tutto da riscrivere è il capitolo delle attività connesse. Al di là della definizione in forza della quale le attività agricole per connessione sono quelle connesse ad un’attività agricola principale o da questa dipendenti, niente è più come prima.La connessione deve sussistere da un duplice punto di vista: soggettivo, nel senso che deve esservi identità tra la persona che esercita l’attività agricola principale e la persona che esercita l’attività agricola connessa, per cui, alla stregua di questo criterio, non è mai stato considerato imprenditore agricolo, almeno di norma, chi trasforma le olive prodotte da altri; oggettivo, di guisa che anche le attività connesse devono avere come punto di riferimento il fondo nel senso dell’accessorietà e della strumentalità e, ancor più esattamente, della necessarietà di questo per l’esercizio della attività. Sogliono distinguersi le “attività naturalmente connesse”, denominate anche attività connesse atipiche o attività genericamente connesse, dalle “attività connesse cc.dd. atipiche”.Le prime sono state definite come dipendenti economicamente da una delle attività agricole principali, caratterizzate da una significativa prevalenza dell’elemento dell’”accessorietà”.In merito alle attività connesse tipiche, sono state apportate le seguenti modifiche:

a) vengono create due categorie di attività connesse: la prima, parzialmente nuova, consistente nella “manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione” aventi ad oggetto “prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento del bestiame”; la seconda, totalmente nuova, comprendente le attività dirette alla “fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.

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Successivamente, il legislatore è intervento istituendo, col d. lgs. n. 99 del 2004, la figura dell’imprenditore agricolo professionale, andando a centrare così tre obiettivi, commissariando la “professionalità”, continuando nell’opera di “commercializzazione” del residuo agricolo della normazione in tema di imprenditore agricolo ed accrescendo ancora lo statuto di privilegi ed incentivi. È imprenditore agricolo professionale colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali dedichi alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro.

Attività agricole per connessione e società. Molte sono le novità in questo settoreLa prima riguarda le attività agricole per connessione, risolvendo l’annoso problema di stabilire se l’attività di trasformazione e di alienazione dei prodotti del suolo conferiti dai soci di una società potesse essere considerata attività agricola per connessione e, di conseguenza, se la società potesse essere qualificata come impresa agricola.Il legislatore ha voluto tagliare col passato, dettando per le società una norma in forza della quale le società, ad esclusione delle mutue assicuratrici e comprese le società consortili, sono considerate imprenditori agricoli professionali quando abbiano come oggetto esclusivo l’esercizio delle attività agricole di cui all’art. 2135 e siano in possesso dei seguenti requisiti:

1. nel caso di società di persone, se almeno un socio – accomandatario nella società in accomandita – sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale;

2. nel caso di società cooperative, ivi comprese quelle di conduzione di aziende agricole, se almeno un quinto dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale;

3. nel caso di società di capitali, se almeno un amministratore sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale.

Lo statuto dell’imprenditore agricolo. Queste le novità apportate:

1. delle norme contenute nel codice civile, l’art. 2136 che disponeva l’esonero dell’imprenditore agricolo dall’iscrizione nel registro delle imprese, è norma oggettivamente non più applicabile, mentre l’art. 2137 fissa un principio tanto ovvio da poter fare a meno della consacrazione normativa; gli artt. 2138 e 2139 prevedono l’applicazione degli usi agli ausiliari dell’imprenditore, mentre l’art. 2140 è stato abrogato dalla l. n. 151 del 1975 che ha istituito l’impresa familiare;

2. nessun impresa agricola è soggetta alle procedure concorsuali;3. dopo l’entrata in vigore della l. n. 580 del 1993 non si può più scrivere che

l’impresa agricola non è obbligata all’iscrizione nel registro delle imprese perché l’art. 8 della legge impone questo adempimento, sia pure in sezioni speciali e per fini diversi da quelli per cui è disposta l’iscrizione delle imprese commerciali. Oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, ha l’efficacia di cui all’art. 2193 c.c., e cioè quella efficacia dichiarativa che si riteneva riservata all’imprenditore commerciale;

4. un particolare regime vige per le imprese agricole costituite in forma commerciale, e cioè per le società commerciali aventi ad oggetto un’attività agricola, non solo perché già prima dell’entrata in vigore della legge del 1993 tali imprese erano tenute alla iscrizione nel registro delle imprese, a anche perché si sono sempre ritenute estensibili alle imprese d’azienda, sia le norme sul divieto di concorrenza, sia la norma sulla differenziazione delle ditte confondibili.

L’imprenditore ittico. Parlando dell’imprenditore agricolo, si è accennato al dibattito che si è svolto in passato circa la possibilità di inquadrare nell’attività di allevamento del

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bestiame la piscicoltura o itticoltura. Il mutamento del comma 1 dell’art. 2135 – la parola bestiame è stata sostituita dalla parola animale – consente oggi di risolvere affermativamente il problema.Si pone legittimamente un quesito: se, cioè, accanto all’imprenditore agricolo e a quello commerciale non si sia in presenza di una nuova categoria di imprenditore.Orbene, è imprenditore ittico “chi esercita una attività diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri e dolci nonché le attività a queste connesse, ivi compresa l’attuazione degli interventi di gestione attiva, finalizzati alla valorizzazione produttiva ed all’uso sostenibile degli ecosistemi acquatici”.A norma dell’art. 3 del decreto n. 226 del 2001, sono attività connesse a quelle di pesca, purché non siano prevalenti rispetto a queste ultime: l’attività di pescaturismo consiste nell’imbarco di persone non facenti parte dell’equipaggio su navi da pesca a scopo turistico-ricreativo; le attività di ittiturismo consistenti in ospitalità, ristorazione, ricreazione, fornitura di servizi, attività culturali finalizzate alla corretta fruizione degli ecosistemi acquatici; prima lavorazione, conservazione, trasformazione, distribuzione e commercializzazione al dettaglio e all’ingrosso dei prodotti del mare, nonché l’attività di valorizzazione e promozione che abbiano ad oggetto prevalentemente i prodotti della propria attività.

L’impresa commerciale e la sua identificazione. Sempre in relazione alla natura dell’attività, accanto all’imprenditore agricolo si pone l’imprenditore commerciale, pur on essendo, a differenza del primo, definito da alcuna norma.Secondo un’opinione assolutamente prevalente, la nozione di imprenditore commerciale si ricava applicando un criterio negativo, nel senso che è commerciale ogni imprenditore che non eserciti attività agricola, ovvero, le attività commerciali coprirebbero tutto l’ambito delle attività d’impresa riconducibili all’art. 2082, con la sola espressa esclusione delle attività qualificate come agricole dall’art. 2135.In realtà, la norma dalla quale si fa “discendere” l’impresa commerciale è l’art. 2195 che è rubricato “imprese soggette a registrazione”, che prevede l’obbligo della iscrizione a carico di categorie di imprenditori che svolgono determinate attività. Tali attività sono: le attività industriali, cioè dirette alla produzione di beni e ser4vizi; le attività commerciali propriamente dette; le attività che si concretano nella raccolta del risparmio tra il pubblico e nell’esercizio del credito; le attività assicurative; le attività ausiliarie alle precedenti, e cioè quelle attività non determinabili a priori che agevolano l’esercizio delle attività specificamente indicato o che, comunque, sono legate a queste da un rapporto di complementarietà.

Lo statuto dell’imprenditore commerciale. È costituito:

1. dall’intero Capo III del Titolo II del Libro V;2. dalla legge fallimentare (r.d. n. 267/1942);3. dalla legislazione speciale relativa ai singoli settori di attività, che integra e

modifica lo statuto civilistica specialmente sotto il profilo pubblicistico.

Si può perciò dire che l’imprenditore commerciale: è obbligato ad iscriversi nel registro delle imprese; è obbligato a tenere le scritture contabili; è soggetto alle procedure concorsuali, salvo le norme speciali per gli enti pubblici esercenti attività commerciali; può servirsi di ausiliari specificamente individuati e disciplinati dagli artt. 2203 ss.

La rilevazione della situazione patrimoniale: scritture contabili e bilancio. La tenuta della contabilità e la rilevazione periodica della situazione patrimoniale, prima che un obbligo giuridico dell’imprenditore commerciale, rappresentano una indefettibile regola di buona amministrazione, perché: consentono all’imprenditore di seguire costantemente l’andamento della gestione e di capire se l’impresa va bene o va male; assolvono ad una funzione informativa nei confronti dei terzi che hanno rapporti con

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l’imprenditore; in caso di assoggettamento alle procedure concorsuali, permettono la ricostruzione della situazione patrimoniale dell’imprenditore.Giova mettere in luce che tra la tenuta delle scritture contabili e la redazione del rendiconto o del bilancio, intercorre un rapporto di consequenzialità, nel senso che è solo sulla base delle risultanze delle prime che l’imprenditore può compilare il secondo.Soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili, oltre l’imprenditore commerciale individuale, sono le società, qualunque sia l’attività esercitata, e gli enti pubblici che svolgono attività commerciale non in via principale. È, però, da sottolineare che anche gli imprenditori agricoli, specie se di certe dimensioni, e i piccoli imprenditori tengono, di norma, le scritture contabili e redigono quanto meno un rendiconto.

Le scritture contabili. Il legislatore italiano ha adottato un sistema misto, nel senso che accanto a scritture contabili ben individuate – libro giornale e libro degli inventari – ha stabilito che l’imprenditore debba necessariamente tenere “le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa” (art. 2214).Di conseguenza:

1. nel libro giornale, l’imprenditore deve annotare le operazioni relative all’esercizio dell’impresa secondo l’ordine cronologico, con l’osservanza del c.d. criterio dell’immediatezza;

2. nel libro degli inventari devono essere indicate e valutate le attività e le passività relative all’impresa, nonché quelle estranee alla stessa. L’inventario, che deve essere redatto al momento dell’inizio dell’attività e poi con cadenza annuale, ha la funzione di consentire la ricostruzione della storia dell’impresa, si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite, che devono dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti;

3. l’imprenditore deve poi conservare per ciascun affare gli originali delle lettere e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite;

4. tra i libri includibili nella categoria generale ex art. 2214, possono essere segnalati il libro mastro nel quale le operazioni vengono annotate secondo un criterio sistematico e il libro magazzino, che ha la funzione di registrare l’entrata e l’uscita delle merci.

Il sistema normativo è completato dalle disposizioni sulle modalità di tenuta delle scritture, affinché esse possano essere giudicate regolari, in quanto la regolarità è presupposto indefettibile perché l’imprenditore possa invocare come prova a suo favore le registrazioni e per evitare, in caso di fallimento, l’imputazione di bancarotta. Di particolare rilievo è la disposizione che obbliga l’imprenditore a conservare la contabilità per dieci anni, anche su supporti di immagini, sempre che le registrazioni corrispondano ai documenti e possano in ogni momento essere rese leggibili.Le scritture contabili possono far prova sia contro l’imprenditore, ma chi vuole utilizzarle in tal senso non può scinderne il contenuto (art. 2709), sia a favore dell’imprenditore, solo, però, per i rapporti inerenti all’impresa e sempre che siano state regolarmente tenute (art. 2710). I mezzi processuali di acquisizione delle scritture sono l’esibizione, che può essere disposta dal giudice e può avere ad oggetto solo determinate registrazioni; e la comunicazione, che concerne l’integrale contabilità dell’imprenditore, viene fatta alla controparte ed è ammessa, sempre su ordine del giudice, solo per le controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di morte.

Il problema dell’impresa civile. Una parte minoritaria della dottrina ritiene che accanto alle imprese agricole e alle imprese commerciali esista anche la categoria delle imprese civili. Come esempi si riportano quello del professionista intellettuale che abbia

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organizzato ad impresa la sua attività, e quello delle società di revisione che possono assumere la veste di società semplici.Prevalente è la tesi secondo la quale le attività imprenditoriali identificate dall’art. 2195 coprono tutto l’ambito delle attività d’impresa riconducibili all’art. 2082, con la sola esclusione delle attività qualificate come agricole di cui all’art. 2135.In ogni caso, anche ammessa la categoria dell’impresa civile, resterebbe pur sempre da risolvere il non facile problema dello statuto da applicare.

Il piccolo imprenditore. L’art. 2083 definisce “piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani e i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.La differenza tra piccolo imprenditore e imprenditore tout court, oltre al profilo dimensionale, coinvolge anche il profilo organizzativo, ove si consideri che la piccola impresa si identifica nella persona del soggetto che la esercita, al punto che, a differenza di quanto accade per l’imprenditore non piccolo, la morte del piccolo imprenditore provoca la caducazione dell’attività negoziale e prenegoziale da lui posta in essere.Passando ad esaminare le singole categorie di piccoli imprenditori, si potrà dire:

a) il coltivatore diretto – indirettamente definito dall’art. 1467, come colui che coltiva il fondo “col lavoro prevalentemente proprio e di persone della sua famiglia sempre che il fondo non superi i limiti di estensione che, per singole zone o colture, possono essere determinati…” – è la figura tipica di piccolo imprenditore;b) per il piccolo commerciante, definibile come chi, rispondendo ai caratteri indicati nell’art. 2083, svolge un’attività di intermediazione nella circolazione di beni o di servizi, non c’è l’obbligo di tenere le scritture contabili, non è soggetto alle procedure concorsuali e solo recentemente è stato obbligato all’iscrizione in una sezione speciale del registro delle imprese a fini di certificazione e di pubblicità notizia.

Si può concludere dicendo che la nozione di piccolo imprenditore, di cui all’art. 2083, conserva una sua validità soprattutto ai fini dell’applicazione di uno statuto differenziato, anche se la linea tendenziale è quella di accorpare piccola e media impresa, allo scopo di distinguerle dalla grande impresa, che è l’unica per la quale è esigibile uno statuto particolare.

L’impresa artigiana. È la figura di piccolo imprenditore che, più di ogni altra, ha subito le trasformazioni più profonde, soprattutto perché si è giunti ad incidere profondamente sulla nozione stessa di artigiano.L’artigianato è direttamente contemplato negli artt. 45 e 117 Cost.: il primo per assicurare al settore “tutela e sviluppo” e il secondo per sancire sul settore stesso la competenza delle Regioni.La legge n. 860 del 1956, definendo artigiana l’impresa che avesse per scopo la produzione di beni e la prestazione di servizi di natura artistica o usuale, sposta il criterio di qualificazione delle dimensioni dell’impresa alla natura dell’attività esercitata, ma è la legge n. 443/1985 ad apportare le più profonde innovazioni:

1. l’impresa artigiana, nei limiti dimensionali dalla legge stessa indicati, ha ad oggetto prevalente “lo svolgimento di un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di produzione di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di somministrazione al pubblico di cibi e bevande…”;

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2. è imprenditore artigiano “colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione, e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”.

Classificazione di imprenditore con riguardo al soggetto esercente. Le classificazioni sin qui esposte, oltre ad avere una solida base normativa, hanno riguardato l’istituto prevalentemente sotto il profilo oggettivo.Ove, invece, si guardi al “soggetto imprenditore”, si possono operare altre classificazioni, che non riguardano il diverso atteggiarsi degli elementi costitutivi, come la natura dell’attività, il fattore organizzativo, la prevalenza o no del lavoro familiare sul lavoro svolto da estranei alla famiglia. Ci si riferisce, in particolare, alle distinzioni tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo, e tra imprenditore privato e imprenditore pubblico.

Imprenditore privato e imprenditore pubblico. Apparendo superfluo definire l’imprenditore privato, può invece dirsi che impresa pubblica è quella esercitata dallo Stato o da altro ente pubblico (comuni, province) e retta da uno statuto approvato con provvedimento ad hoc, nel quale sono indicati gli scopi che essa si prefigge di raggiungere.Se è vero che l’impresa pubblica non può perseguire il mero profitto e deve quindi farsi carico dei costi sociali che l’esercizio di una attività può comportare, è anche vero che le riflessioni della dottrina più recente sono servite a sgombrare il campo da quello che veniva ritenuto un tempo l’elemento di maggiore differenziazione, e cioè il fine che l’impresa pubblica avrebbe dovuto perseguire.Tre le considerazioni finali:

1. il fine dell’attività imprenditoriale è sempre quello della produzione e dello scambio di beni o di servizi, per cui la finalità di interesse generale perseguite dall’impresa pubblica ha la medesima collocazione della finalità di profitto dell’imprenditore privato rispetto all’impresa e al fine dell’impressa;

2. l’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese è richiesto solo per quegli enti pubblici per i quali l’esercizio dell’impresa rientri tra gli scopi istituzionali dell’ente, costituendone l’oggetto principale ed esclusivo;

3. a tenore dell’art. 2221, l’impresa pubblica non è soggetta al fallimento e al concordato preventivo, bensì, di norma, alla liquidazione coatta amministrativa.

L’IMPRENDITORE INDIVIDUALE

L’imprenditore individuale è, per definizione, la persona fisica. In merito, possono essere fatte le seguenti distinzioni:

1. inizio dell’impresa. Per la persona fisica l’acquisto della qualità di imprenditore è indipendente da ogni adempimento di carattere formale e si produce in conseguenza dell’inizio effettivo dell’attività economica. Si tratta di stabilire da quale momento l’impresa possa dirsi nata, con tutte le conseguenze che la nascita comporta. L’orientamento della dottrina s bipartisce in una tesi oggettiva ed una soggettiva:

a) secondo i fautori della tesi oggettiva, all’interrogativo si risponde sostenendo che l’impresa nasce quando sono realizzate, da un lato, un’organizzazione stabile, e dall’altro, l’esercizio di una attività produttiva.

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Alla stregua di tale tesi, non sono da ricomprendervi nell’attività i cc.dd. atti di organizzazione, per tali intendendosi quelli preparatori al vero e proprio inizio dell’attività – locazione dell’immobile sede dell’impresa, acquisto delle attrezzature necessarie – che vanno distinti dagli atti dell’organizzazione, i quali concreterebbero la vera e propria attività d’impresa.

b) I fautori della tesi soggettiva postulano la ricomprensione anche degli atti preparatori nell’attività d’impresa, e dunque anche gli atti diretti al procacciamento dei lavoratori o all’ottenimento di licenze ed autorizzazioni senza che occorra indefettibilmente il compimento dell’attività di produzione o vendita di beni e servizi.

L’accettazione di una piuttosto che di un’altra delle due tesi produce conseguenze concrete, perché è proprio l’individuazione del momento della nascita che fa nascere l’obbligo di iscrizione e per l’imprenditore commerciale della tenuta della contabilità, nonché l’applicazione della tutela dei segni distintivi e contro la concorrenza sleale e soprattutto l’assoggettabilità alle procedure concorsuali.

2. fine dell’impresa. In perfetta simmetria con l’inizio dell’impresa, la cessazione dell’impresa non è legata a momenti formali, come ad esempio la cancellazione dal registro delle imprese o la chiusura della liquidazione, ma si produce in conseguenza della cessazione (di fatto) dell’attività d’impresa.Per l’impresa individuale, il criterio da adottare è quello della qualità delle operazioni compiute dall’imprenditore, non importa se prima o dopo la determinazione volitiva di cessazione dell’attività. In conclusione, potrà dirsi avvenuta la disgregazione del complesso aziendale allorché l’imprenditore avrà esaurito la c.d. liquidazione dell’attivo: avrà alienato, cioè, non solo le giacenze e le scorte di magazzino, ma anche l’attrezzatura necessaria allo svolgimento dell’attività. La determinazione del momento di cessazione è concretamente importante, poiché l’art. 10 l. fall. Stabilisce che l’imprenditore cessato può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo.

La capacità all’esercizio dell’impresa. Chi h la capacità di agire ha anche la capacità di esercitare l’impresa.La trattazione del tema è importante perché esiste una disciplina in tema di esercizio dell’impresa da parte dell’incapace, o meglio, regolante la legittimazione al compimento degli atti giuridici del rappresentante dell’incapace, dal cui complesso possono ricavarsi i seguenti principi:

a) le deroghe alla disciplina comune riguardano esclusivamente le imprese commerciali e non pure l’imprenditore agricolo per il quale valgono le norme generali;

b) sia gli incapaci (minori, interdetti) che gli inabilitati o i minori emancipati possono essere solo autorizzati a continuare, ma non ad iniziare, l’impresa commerciale;

c) in ogni caso, l’esercizio – continuazione o inizio – di un’impresa commerciale, sia nel caso di incapacità assoluta, sia nel caso di inabilitati o minori emancipati, deve essere sempre autorizzato dal tribunale su parere del giudice delegato;

d) tutti i provvedimenti di autorizzazione i di revoca di questa devono essere iscritti nel registro delle imprese a norma dell’art. 2198 c.c.;

e) per potersi parlare di “continuazione”, l’impresa deve essere esercitata o con un’azienda che era già nel patrimonio dell’incapace quando egli è divenuto tale, ovvero quando l’azienda sia pervenuta all’incapace a titolo gratuito, e cioè per testamento o per donazione.

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La pubblicità dell’imprenditore individuale: nuova disciplina del registro delle imprese. Anche per l’impresa la legge appresta lo strumento della trascrizione per rendere opponibili ai terzi gli atti giuridici. Per raggiungere tale obiettivo, il legislatore del ’42 istituì il registro delle imprese, nel quale dispose che si iscrivessero, entro trenta giorni dall’acquisto della qualità di imprenditore, tutti gli imprenditori commerciali, e che in tale registro fossero annotate anche le vicende della vita dell’impresa, e cioè sede, oggetto, ditta, cessazione.Era anche prescritto – e la regola vige tuttora – che le iscrizioni nel registro avessero efficacia dichiarativa, salvo quanto si dirà per le società di capitali e per le società cooperative: ciò comportando, in primo luogo, la non opponibilità ai terzi dei fatti non iscritti a meno che l’obbligo all’iscrizione non provasse che i terzi erano a conoscenza dei fatti stessi; e in secondo luogo, la impossibilità per i terzi di eccepire l’ignoranza dei fatti iscritti.Il registro non entrò mai in funzione.Qualche anno fa, nella legge di riforma delle Camere di Commercio (l. n. 580/1993) è stata introdotta una norma – l’art. 8 – il cui comma 1 stabilisce che “è istituito presso la Camera di Commercio l’ufficio del registro delle imprese di cui all’art. 2188c.c."Ribadito che la disciplina è sostanzialmente quella del codice civile del ’42, ecco le innovazioni introdotte:

1. viene individuato nella Camera di Commercio l’ente sede del registro, nonché deputato a curarne la tenuta, sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale del capoluogo di provincia e sotto la direzione di un conservatore nominato dalla Giunta camerale;

2. il registro delle imprese è unico e comprende le sezioni speciali;3. nel registro sono iscritti: i soggetti previsti dalla legge, e cioè gli imprenditori di

cui all’art. 2195, le società di cui all’art. 2200, i consorzi di cui all’art. 2612 e le società consortili di cui al’art. 2615ter, gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale di cui all’art. 2201, le società soggette alla legge italiana e gli atti previsti dalla legge;

4. la nuova legge ha istituito le “sezioni speciali” del registro, nelle quali sono iscritte, con funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, quelle categorie di imprenditori per le quali nel regime previdente non era prevista alcuna forma di pubblicità, come gli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135, i piccoli imprenditori di cui all’art. 2083, le società semplici di cui all’art. 2251 e le imprese artigiane iscritte agli albi di cui alla l. n. 443/1985.

L’IMPRENDITORE COLLETTIVO

Il problema dell’impresa collettiva. Per impresa collettiva può intendersi, in via di prima approssimazione, l’impresa esercitata in comune da più oggetti, ovvero, l’impresa che è nella titolarità sostanziale di più soggetti o, adottando una definizione più ampia, quella esercitata nell’interesse di più persone.La qualificazione di impresa collettiva prescinde dalla circostanza che la pluralità di soggetti-persone fisiche si sia unificata oppure no in un soggetto distinto avente personalità giuridica: il problema consiste nel domandarsi se la società, definita come “il contratto con cui due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica” sia stata concepita dal legislatore come unica forma di esercizio collettivo dell’impresa o se essa costituisca solo una delle possibili forme di esercizio collettivo dell’impresa.Mentre a parere di alcuni autori l’impresa collettiva comprende tutte le forme di esercizio ad opera di più soggetti, unificate o no che siano in un soggetto formalmente distinto, e quindi le società (personificate o no, lucrative e mutualistiche), l’impresa delle

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associazioni e delle fondazioni, l’impresa dei consorzi ed anche l’impresa dei coniugi in regime di comunione legale; per altri, l’impresa collettiva si pone accanto a quella societaria e comprende quelle attività economiche che si inseriscono accidentalmente in fenomeni estranei all’economia, e cioè nell’ambito della famiglia, delle associazioni e delle fondazioni.Per entrambi gli orientamenti, sorgono tre interrogativi: se sia ammissibile una forma di esercizio collettivo dell’impresa diverso dalle società e, in ipotesi di risposta affermativa, quali forme essa possa assumere: in pratica, se sia ammissibile la comunione d’impresa; se sia ammissibile che altri soggetti espressamente disciplinati nel nostro ordinamento – associazioni, fondazioni, associazione in partecipazione – possano esercitare un’attività d’impresa.

Impresa esercitata in comune da più soggetti e modello legislativo: comunione di impresa, associazione in partecipazione, cointeressenza e società. È bene dire subito che il codice civile disciplina espressamente una sola forma di esercizio collettivo d’impresa: la società.Vediamo le altre diverse figure probabili:

1. comunione d’impresa. È una figura creata dalla dottrina e quand’anche la si ammettesse, non si saprebbe quale normazione ad essa applicare. Il problema ha perduto molto della sua importanza, a mano a mano che si allargava, per effetto della interpretazione dottrinale e delle applicazioni giurisprudenziali, la gamma delle entità non societarie – associazioni, fondazioni – giudicate possibili esercenti di attività imprenditoriali.

2. associazione in partecipazione e cointeressenza. Deve escludersi che possano essere inquadrabili nel novero delle imprese collettive, sia l’associazione in partecipazione (art. 2549-2552) che la cointeressenza (art. 2553), le quali restano forme di esercizio individuale dell’impresa, caratterizzate, la prima da un contratto che vede nella prestazione di un apporto determinato da parte dell’associato il corrispettivo della prestazione consistente nella partecipazione agli utili dell’impresa dell’associante, e la seconda da una doppia tipologia, e cioè quella del contratto con il quale si attribuisce una partecipazione agli utili di un’impresa senza partecipazione alle perdite, e del contratto con il quale una parte attribuisce ad altra parte la partecipazione agli utili e alle perdite della sua impresa senza il corrispettivo di un determinato apporto.in altri termini: mancano nell’associazione in partecipazione la gestione comune e il patrimonio comune, che sono caratteri distintivi ed esclusivi della società, anche se può riuscire difficile a volte individuare e qualificare in concreto le varie fattispecie soprattutto quando l’associato assolva, a titolo di apporto, anche compiti gestori.

Associazioni e fondazioni. Ci chiediamo se possono soggetti diversi da persone fisiche e da società, disciplinati dal codice civile e perseguenti istituzionalmente scopi diversi dall’esercizio di attività economica e più ancora imprenditoriale, esercitare un’attività d’impresa.Con riguardo alle associazioni, queste sono state tradizionalmente distinte dalle società in base agli scopi istituzionali: esercizio di attività non economica nelle associazioni ed esercizio di attività economica nelle società. In realtà, sono esistite anche società che non si proponevano il perseguimento di un lucro ed associazioni che, al contrario, esercitavano sempre più spesso attività d’impresa. Si è puntato, perciò, sullo scopo di lucro soggettivamente inteso che è scopo fondamentale – addirittura causa del contratto – nelle società lucrative, e si è affermato che le associazioni, pur potendo in astratto realizzare un utile, non possono distribuirlo fra gli associati. Di conseguenza, vi sarà associazione en on società quando il gruppo

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eserciti per scopi ideali un’attività economica solo però a condizione che manchi lo scopo di lucro oggettivamente inteso.Con riguardo alle fondazioni, una costante del dibattito è stata quella della strumentalità. Conclusione della dottrina è che l’attività economica svolta dalla fondazione dovrà sempre costituire lo strumento ideale per il miglior conseguimento degli scopi istituzionali (ideali) che la fondazione stessa si propone di raggiungere.

Azienda coniugale e impresa familiare. L’art. 230bis definisce impresa familiare come “l’impresa cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”.In realtà, questa figura non concreta un tipo di impresa, dal momento che la norma citata prende in considerazione la collaborazione familiare in una (qualunque) impresa o comunque in collegamento con una (qualunque) impresa: i diritti e i poteri dei familiari non toccano mai la titolarità dell’esercizio e questo è sufficiente ad escludere che l’impresa familiare sia istituzionalmente impresa collettiva.L’impresa dei coniugi in regime di comunione non trasforma la comunione in società, come dimostrano le disposizioni degli artt. 181 e 182, che inquadrano l’esercizio comune n nell’ambito della comunione.

L’IMPRENDITORE SOCIETÀ

Identificazione della società da diversi punti di vista. Abbiamo visto come la società rappresenta la forma principale, se non esclusiva, di esercizio comune dell’impresa da parte di più soggetti, distinguendosi quindi non solo dall’impresa individuale ma anche dalle altre forme di impresa collettiva.Quando si tratta delle società, si possono fare riferimento a due concetti ben distinti: al negozio attraverso il quale la società viene costituita, e all’ente – soggetto di diritto – che da tale fonte trae vita.Si può, così, cominciare col definire la società come una dorma di esercizio collettivo, di norma in forma d’impresa, di un’attività economica posta in movimento di regola attraverso un contratto con il quale due o più persone conferiscono beni e servizi per il perseguimento di uno scopo lucrativo, mutualistico o consortile.Se unitaria è la nozione di società(art. 2247), diversi possono essere i “tipi” di società cui il contratto o l’atto unilaterale o, comunque, fonti di tipo diverso – legge, provvedimento amministrativo – danno luogo: il problema è risolto dall’art. 2249, il cui tenore sembra sancire il principio della tipicità delle società con la conseguente impossibilità di costituire società atipiche.

L’identificazione dell’impresa società. Si pone la domanda: se il contratto definito nell’art. 2247, come del resto le altre fonti, oltre a far nascere la società come soggetto, faccia sorgere anche l’impresa società. Si tratta di stabilire, in sostanza, se esista un’equazione società-impresa, al duplice scopo di accertare il momento in cui la società acquista la qualità di imprenditore e se le società siano o no sempre imprenditori.

Confrontando la nozione di imprenditore di cui all’art. 2082 con quella del contratto di società di cui all’art. 2247, si notano alcune differenze: in primo luogo, l’art. 2247 non riproduce il concetto d’impresa né allude ad attività d’impresa e, in secondo luogo, mentre nell’art. 2247 manca ogni accenno alla professionalità, nell’art. 2082 manca ogni riferimento ad uno scopo specifico ed in particolare allo scopo di lucro.Sul momento dell’acquisto della qualità di imprenditore da parte della società, esistono due contrapposte tesi: una parte della dottrina e della giurisprudenza postula un’equazione impresa-società, perché l’elemento della professionalità, espressamente

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richiesto per l’acquisto della qualità di imprenditore, è insito nel fatto stesso della costituzione della società “per l’esercizio di un’attività economica”, con la conseguenza che la società è imprenditore anche quando non abbia iniziato effettivamente l’attività d’impresa.A principio opposto si ispirano quanti, contestando in primo luogo la parificazione concettuale tra attività economica e attività imprenditoriale, negano che il requisito della professionalità sia “compreso” e “presente” nella definizione stessa di società. Conseguenza di questa impostazione è la parificazione dell’imprenditore individuale all’imprenditore società con particolare riguardo all’acquisto e alla perdita di tale qualità e la soggezione della società alle sole norme sulle società e non pure allo statuto dell’imprenditore.Può, in conclusione, registrarsi un primo punto fermo: il criterio principale per l’identificazione della fattispecie impresa-società non differisce da quello che identifica la fattispecie dell’impresa individuale: il dna di ogni tipo di impresa è l’esercizio effettivo di un’attività che risponda al paradigma dell’art. 2082.L’impresa-società si caratterizza per i quattro elementi che seguono:

1. esercizio in comune dell’attività economica, che è lo scopo-mezzo per raggiungere la finalità ultima di carattere lucrativo, mutualistico, consortile;

2. comunanza dei mezzi patrimoniali;3. comunanza di poteri;4. conseguimento di un risultato coerente con lo scopo istituzionale scelto –

lucrativo, mutualistico, consortile – e ricaduta dei risultati della gestione sociale (buoni o cattivi) su tutti i partecipanti alla società.

L’identificazione del tipo. Il grosso della disciplina societaria riguarda la società come contratto e come organizzazione.Se unitaria è la nozione di società, vari sono i tipi che con il contratto stesso possono crearsi o, se si vuole, vari sono i modelli organizzativi attraverso i quali la funzione sociale può essere svolta e lo scopo sociale attenuato.I tipi di società disciplinati dal codice sono i seguenti: società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperativa, società di mutua assicurazione.Non costituisce un tipo a sé la società consortile, dal momento che quello consortile è scopo che può essere assunto da tutti i tipi di società elencati.La norma regolatrice è l’art. 2249, dal quale possono ricavarsi i seguenti principi:

a) le società aventi ad oggetto un’attività commerciale devono costituirsi necessariamente secondo uno dei seguenti tipi società in nome collettivo, in accomandita semplice e per azioni, per azioni, a responsabilità limitata). Da questa prescrizione si ricava il principio della tipicità delle società, per cui non è possibile ai privati creare società atipiche proprio per la funzione che la società esplica e per la tutela dell’affidamento dei terzi;

b) all’elemento comune a tutti i tipi – esercizio in comune di un’attività economica – si aggiungono, per la individuazione degli altri tipi di società, una serie di elementi peculiari quali lo scopo istituzionale (lucrativo, mutualistico, consortile), il regime di responsabilità personale dei soci (di norma illimitato nelle società personali e limitato nelle società di capitali, misto nelle cooperative) e la natura dell’attività esercitata (agricola, commerciale);

c) In relazione all’attività, mentre la società semplice è strumento idoneo esclusivamente per l’esercizio di attività non commerciali, la scelta di uno degli altri tipi di società permette l’esercizio di ogni specie di attività, commerciale o non che sia;

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d) Ogni qualvolta i privati facciano ricorso ad uno dei tipi previsti dalla legge, si instaura, come conseguenza automatica, la disciplina del tipi prescelto.

Profili funzionali della società. Scopo istituzionale e causa del contratto sociale: società lucrative, mutualistiche, consortili. Dopo l’impresa ed il tipo, il terzo punto di vista dal quale la società può essere identificata è quello funzionale, dato dallo scopo istituzionale assunto come causa del contratto.Le società si distinguono, perciò, in lucrative, mutualistiche e consortili, per cui la società:

1. perseguendo uno scopo lucrativo, si propone di conseguire un utile – lucro oggettivo – e di distribuirlo ai soci – lucro soggettivo – senza la possibilità di escludere, pena la nullità del relativo patto, alcuno dei soci dalla partecipazione agli utili e alle perdite (divieto del c.d. patto leonino sancito dall’art. 2265). Sono società lucrative le società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice, per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata;

2. perseguendo uno scopo mutualistico, si propone di offrire ai soci, attraverso l’eliminazione degli intermediari, beni, servizi, occasioni di lavoro – il c.d. vantaggio mutualistico – a condizioni migliori di quelle che i soci stessi incontrerebbero sul mercato. Sono società mutualistiche: le società cooperative e le mutue assicuratrici);

3. perseguendo uno scopo consortile, si propone di creare, secondo quanto dispone l’art. 2602, un’organizzazione comune per la disciplina e per lo svolgimento di determinate fasi delle imprese dei soci.

L’identificazione negoziale. L società nasce di norma da un contratto, m può avere la sua fonte anche in un negozio unilaterale e nella legge.

Il contratto di società. Caratteri comuni e caratteri distintivi. La società si costituisce per l’esercizio di un’attività imprenditoriale in comune fra più persone secondo uno dei tipi che il legislatore ha stimato più idonei al raggiungimento di uno scopo lucrativo, mutualistico o consortile. Dall’art. 2247 si ricava l’esistenza di un nucleo di elementi negoziali comuni a tutti i tipi di società:

• i soggetti; • il conferimento e quindi la costituzione del fondo sociale; • l’oggetto sociale come specificazione dell’esercizio in comune dell’attività

economica;• la causa come specificazione dello scopo istituzionale.

Accanto a questo nucleo “fondamentale” e “indispensabile”, esistono elementi peculiari che servono a identificare i vari tipi di società – è opportuno far notare che per tutti i tipi di società, ad eccezione della semplice – il contratto assume il nome di atto costitutivo – che rappresentano o specificazioni variabili di elementi costanti (si pensi al diverso grado di autonomia patrimoniale o di responsabilità dei soci), o novità indotte dal tipo prescelto (si pensi alla disciplina del bilancio nella società per azioni).

A) I soggetti. Quando la società si costituisce per scrittura privata o per atto pubblico occorre sempre che i componenti siano individuati col nome e cognome, luogo e data di nascita, domicilio e cittadinanza. Possono sottoscrivere il contratto di società sia le persone fisiche che le persone giuridiche e, secondo la maggioranza delle opinioni, anche gli enti non riconosciuti.Proprio per la partecipazione alle varie società di soggetti diversi dalle persone fisiche, sono stati sollevati problemi di non poco conto, in merito alla partecipazione:

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a) di società di capitali a società di persone: il problema consiste nel domandarsi se le società di capitali possano divenire soci di società di persone. È di parere positivo la parte maggioritaria della dottrina e minoritaria della giurisprudenza, mentre è di posizioni opposte la giurisprudenza di Cassazione per via della assenza dell’intuitus personae e del diverso regime di responsabilità tra le società di persone e di capitali. Coloro che rispondono negativamente, si dividono sulla sanzione da irrogare: se la nullità dell’intera società o la nullità della singola adesione.

b) Di società di persone a società di persone, cui si da una quasi unanime riposta positiva.

c) Di società di persone a società di capitali, che non soleva alcun problema.d) Di società cooperative a società lucrative, che la legge ha posto l’ammissibilità;e) Di società di capitali a società cooperative, quesito risolto quasi sempre

negativamente in forza dell’antitesi degli scopi istituzionali;f) Di società alla comunione legale dei coniugi, risolto positivamente, a condizione

della preventiva sottrazione delle quote al regime del patrimonio coniugale, secondo le modalità fissate dall’art. 210 c.c.

B) I conferimenti e l’inadempimento. Il carattere forse più importante fissato dall’art. 2247 è l’obbligo del conferimento a carico del socio, tant’è che è scritto che non esiste società senza conferimenti, né socio senza l’obbligo del conferimento.In altri termini, con la stipulazione del contratto di società, ciascun socio si obbliga a contribuire alla formazione di un fondo sociale mediante una prestazione di dare o di fare. Se da un punto di vista funzionale il conferimento serve a costituire il fondo sociale, da un punto di vista tecnico-contrattuale esso è l’unico obbligo gravante sul socio e costituisce, come vedremo, uno dei poli del sinallagma.Oggetto della prestazione può essere un dare o un fare.Alcuni autori distinguono i conferimenti tra: conferimenti di capitale, consistenti in entità iscrivibili in bilancio e suscettibili di esecuzione forzata da parte dei creditori (denaro e beni) e conferimenti non di capitale che, pur essendo idonei l raggiungimento dello scopo, non hanno le caratteristiche indicate per l’altra specie ed attribuiscono solo il diritto agli utili (conferimenti d’opera e di beni in godimento).Se si applicassero le norme generali in tema di inadempimento contrattuale, l’inadempimento del socio all’obbligo di conferire potrebbe portare alla risoluzione del contratto. Così non è perché la legge predispone strumenti appositi , comminando al socio inadempiente di società di persone e di società cooperativa la sanzione dell’esclusione (facoltativa) dalla società e prevedendo per il socio di società di capitali la decadenza (art. 2344).

Il regime dei beni sociali. Comunione di godimento e società. I conferimenti dei soci, comportando il trasferimento delle entità conferite dal patrimonio dei soci al patrimonio della società, formano pur sempre nel loro complesso, e soprattutto per le società di persone, una comunione di beni sia pure funzionalizzata all’esercizio in comune dell’attività, che è il primo carattere della società .Il legislatore ha voluto dettare una norma – l’art. 2248 – a tenore della quale “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme sulla comunione dei beni”.C’è comunione, e quindi comproprietà dei beni, quando i soggetti costituiscono il rapporto e lo mantengono solo per godere dei beni stessi e dei frutti che essi producono, mentre si ha società quando i beni sociali vengono impiegati, per effetto della volontà stessa dei soci che imprime loro uno specifico vincolo di destinazione che ne consente l’utilizzazione, solo per l’esercizio in comune fra i soci medesimi dell’attività d’impresa, essendone esclusa ogni diversa destinazione.

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Dalla lettura degli artt. 2247 e 2248, si esclude l’ammissibilità di una società di solo godimento; e non possono, di conseguenza, considerarsi contratti di società quei contratti che danno luogo alla nascita di soggetti che in realtà non esercitano alcuna attività economica.Fondo sociale, capitale sociale e patrimonio sociale. L’autonomia patrimoniale delle società. Come sappiamo, i conferimenti confluiscono nel fondo sociale, che in tutte le società, fatta eccezione per la società semplice, assume la denominazione di capitale sociale, definibile come il valore in denaro dei conferimenti dei soci, quale risulta dalle valutazioni compiute nel contratto sociale. Ciò significa che i conferimenti diversi dal denaro devono essere valutati all’atto del conferimento e “convertiti” in un’espressione numerica.Dal capitale sociale va tenuto distinto il patrimonio sociale, che rappresenta il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alla società o, se si preferisce una definizione più tecnica, il complesso dei beni effettivamente esistenti, calcolati al netto o al lordo a seconda che siano state o no dedotte le passività. Il capitale sociale f parte, insieme ad altri beni, al patrimonio sociale e il confronto cotante fra le due entità durante la vita della società serve a stabilire se la situazione patrimoniale della società si evolve positivamente o negativamente.Per quanto riguarda l’autonomia patrimoniale della società, con essa si intende, con riferimento ai soggetti diversi dalle persone fisiche, la condizione dei rapporti giuridici facenti capo a tali soggetti. Si potrà, perciò, parlare di autonomia patrimoniale perfetta quando esiste una reciproca insensibilità fra il patrimonio dell’ente e i patrimoni dei singoli associati, nel senso che le vicende dell’uno non potranno mai incidere sulle vicende degli altri e viceversa. L’autonomi patrimoniale perfetta si ha, di regola, nelle sole persone giuridiche e quindi nelle sole società di capitali; mentre nelle società di persone si potrà parlare di autonomia patrimoniale imperfetta.

C) L’esercizio comune dell’attività economica. L’oggetto sociale. Altro elemento desumibile dall’art. 2247 è l’esercizio in comune dell’attività economica che, quale scopo-mezzo comune a tutti i soci, consente di parlare delle società come contratto con comunione di scopo.Per ciò che riguarda l’oggetto sociale, è l’elemento la cui espressa indicazione nel contratto il legislatore impone in tutti i tipi di società che, oltre a dover consistere necessariamente in un’attività economica – obbligatoriamente non commerciale per la società semplice – deve possedere i requisiti richiesti dall’art. 1346, e cioè liceità, possibilità, determinatezza e determinabilità.La concreta individuazione dell’oggetto sociale: consente di distinguere la società dalla comunione di godimento; consente di affermare che quella della società, se effettivamente esercitata, è sempre un’attività d’impresa; infine, permette, soprattutto ai terzi, di individuare i limiti ai poteri degli amministratori.È importante sottolineare che in alcuni casi la legge esige in modo espresso e tassativo l’esclusività dell’oggetto sociale, nel senso che vieta che la società possa volgere altra attività.

D) Il conseguimento dello scopo istituzionale. La causa del contratto sociale. Il quarto elemento rilevante per l’analisi dell’art. 2247 è quello causale. Si è già detto che gli scopi possono essere lucrativo, mutualistico o consortile: il conseguimento dell’utile per distribuirlo ai soci ovvero la pratica della gestione di servizio e il conseguimento del vantaggio mutualistico ovvero ancora la istituzione di un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di fasi delle imprese dei consorziati, possono caratterizzare, ovviamente in via alternativa, il contratto di società del quale costituiscono la causa, e quindi l’elemento individuante e marcante.

E) gli altri caratteri del contratto di società. Il contratto di società, così come risulta dall’art. 2247, è inoltre: oneroso, consensuale, sinallagmatico (secondo

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alcuni autori, il sinallagma intercorre tra conferimento e diritto agli utili; secondo altri, tra conferimento e acquisto della qualità di socio e da altri ancora, infine, tra le prestazioni di ciascun contraente e la realizzazione dello scopo comune mediante l’associazione delle singole prestazioni); plurilaterale, o meglio, “potenzialmente plurilaterale”, nel senso che anche se bilaterale, esso resta aperto all’adesione di altre parti. Ovviamente, se il contratto resta bilaterale, si avrà come conseguenza l’impossibilità dei applicazione delle norme dettate per il contratto plurilaterale, e cioè degli artt. 1420, 1446, 1459, 1466; con comunione di scopo.Altro problema è quello della “esteriorizzazione del rapporto sociale”, dal momento che una parte della dottrina ritiene l’esteriorizzazione essenziale per l’esistenza della società.

La forma di società. La società di fatto. Il discorso della forma del contratto sociale va distinto tra società di persone, da un lato, e società di capitale e mutualistiche, dall’altro.Per le società di capitale e cooperative, la forma richiesta è quella dell’atto pubblico.Per le società di persone vige il principio della libertà di forma, come si desume dall’art. 2251, “…il contratto non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti”. La forma scritta è richiesta quando vengono conferiti beni immobili in proprietà o in godimento ultranovennale, divergendo le opinioni sulle conseguenze derivanti dall’inosservanza di tale prescrizione, tra chi ritiene che la nullità riguardi solo il singolo conferimento e chi ritiene che essa si estenda all’intero contratto.Di conseguenza, nelle società personali non solo la volontà di far nascere la società può concretarsi in un accordo verbale, ma può desumersi anche da un comportamento concludente delle parti: si avrà, in tal caso, la società di fatto, definibile come quella società in cui due o più persone esercitano in comune una attività economica, senza aver stipulato alcun accordo espresso, scritto od orale che sia.Per l’esistenza della società di fatto devono essere presenti i requisiti minimi richiesti: due soggetti e l’accordo di essi, un oggetto, e la causa desumibile dall’art. 2247 per le società lucrative, e cioè l’alea comune dei guadagni e delle perdite.La disciplina delle società di fatto è, in sostanza, quella della società semplice, con l’avvertenza che ove la società di fatto eserciti una attività commerciale – sia cioè una collettiva di fatto – resta ferma la responsabilità illimitata e solidale dei soci nei confronti dei terzi e si applicano, altresì, le altre norme connesse alla particolare natura dell’attività esercitata.

La società di fatto, società irregolare, società occulta. La società di fatto viene usata spesso come sinonimo di società irregolare o di società apparente, ed invece esiste tra queste figure una distinzione concettule abbastanza netta.Orbene:

a) è irregolare quella società – necessariamente commerciale personale (società in nome collettivo e in accomandita semplice) – che non abbia provveduto alla propria iscrizione nel registro delle imprese. Data l’efficacia dichiarativa di essa, la mancata iscrizione non impedisce che la società venga ad esistenza.

b) È occulta quella società nel cui contratto vi è l’espressa e concordata volontà dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto ma non in nome della società, e nel nome di chi appare all’esterno, quale l’imprenditore individuale, i cui soci restano occulti.

c) È apparente quella società in cui più persone operano nel mondo esterno in modo tale da ingenerare nei terzi la convinzione dell’esistenza fra loro di un vincolo sociale, ancorché inesistente nei rapporti interni.

Società di fatto, dunque, non è sinonimo di società irregolare, con la conseguenza che mentre la situazione “di fatto” può riguardare tutti i tipi di società personale, la

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situazione di “irregolarità” è peculiare delle sole società commerciali personali soggette ad iscrizione nel registro delle imprese.Nessuna possibilità di confusione esiste poi tra società di fatto e società occulta; discussioni notevoli ha suscitato la figura della società apparente, per una sorta di incongruenza logica insita nella circostanza di considerare una società esistente solo nei rapporti esterni o non pure in quelli interni.

Le società di fonte non contrattuale. Fino a qualche anno fa, il contratto costituiva l’unico modo di costituzione della società. Oggi la società può nascere anche da atto unilaterale o in via diretta da un provvedimento di legge.

Le società costituite con atto unilaterale. Possono essere: la società a responsabilità limitata con unico socio, la società per azioni.L’innovazione legislativa comporta le inevitabili conseguenze di ordine normativo: prima fra tutte, la inapplicabilità delle norme sui contratti plurilaterali, che già, peraltro, non sono invocabili per i contratti con sole due parti.

Le società “legali” e società “legificate”. Lo Stato è intervenuto qualche volta per costituire direttamente una società assoggettandola ad uno stato ad hoc.Le società che non hanno fonte in un contratto ma direttamente nella legge, vengono denominate “società legali”; la legge ne predetermina gli elementi essenziali (capitale sociale ed oggetto).In merito alle cc.dd. “società legali coattive”, le si è distinte da quelle autorizzate, per le quali la legge non costituisce direttamente ma autorizza la costituzione, e da quelle promosse, in cui obbliga ad intavolare trattative per la costituzione.Si è proposto di denominare società legificate, quelle società di fonte non contrattuale per le quali sia stato predisposto, successivamente alla loro costituzione, uno statuto legale ad hoc più o meno completo o difforme da quello comune, e società speciali quelle fattispecie societarie che presentano tutti i requisiti indicati nella fattispecie generale, con in più alcuni requisiti specifici che non escludono ma qualificano i requisiti della fattispecie generale.

La prova della società. La prova della società di fatto, della società apparente e della società occulta può essere data, secondo dottrina e giurisprudenza unanimi, con qualsiasi mezzo, ed in particolare per giuramento decisorio, per testimoni, per presunzioni o, infine, per altri fatti concludenti.Sorgono una serie di problemi: il primo di essi nasce per le società di fatto in cui sia conferito un bene immobile. La soluzione muta a seconda che si accolga la tesi che richiede, in questo caso, la forma scritta per l’intero contratto, o quella che postula, invece, la forma scritta solo per l’atto di conferimento: nel primo caso, i limiti di ammissibilità di prove diverse da quella scritta riguarderanno l’intero contratto, mentre nel secondo, il solo atto di conferimento, poiché per le restanti pattuizioni troverà applicazione il regime probatorio generalmente valido per il contratto di società semplice.

Contratto di società e disciplina generale dei contratti. L’invalidità e la simulazione. Un problema assai delicato di carattere generale è quello del rapporto tra disciplina generale dei contratti e il contratto di società, soprattutto in alcuni momenti, come quello della invalidità al fine di stabilire la sorte degli atti compiuti medio tempore dalla società o, meglio, degli effetti prodotti da tali atti, dal momento che la declaratorio di nullità di un normale contratto di compravendita potrà al massimo ledere gli interessi di colui o coloro che abbiano a loro volta acquistato il bene dalla parte acquirente, mentre la declaratoria di nullità di un contratto di società, se si applicasse la disciplina generale, travolgerebbe tutti i contratti e gli atti che la società ha posto in essere tra il momento della costituzione ed il momento della dichiarazione di nullità.

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Retroattività o irretroattività degli effetti? La prima è regola nella disciplina dei contratti in generale, la seconda è regola nella disciplina dell’invalidità della società per azioni, art. 2332: “la dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese”.Nessuna regola precisa e nessuna norma vigono per le società di persone, né in ordine alle cause di invalidità, né in ordine agli effetti conseguenti alla declaratoria di nullità o all’annullamento del contratto.

Le modificazioni del contratto di società. Si ha modificazione del contratto (o dell’atto costitutivo) di società quando si pone in essere un regolamento difforme sia da quello pattuito all’atto della costituzione, sia da quello legale che ha integrato l’originaria volontà dei soci.Occorre considerare il problema con riguardo alla società di persone, da un lato, e alle società di capitali e mutualistiche, dall’altro.La disciplina delle prime è conformata su quella generale dei contratti, nel senso che, a norma dell’art. 2252, la modifica deve avvenire con il consenso di tutti i soci, tranne che non sia stabilita la possibilità di modifica a maggioranza e la relativa clausola sia stata a sua volta introdotta con il consenso di tutti i soci.Il contenuto delle modificazioni può riguardare l’elemento soggettivo come, ad esempio, l’immissione di nuovi soci in aggiunta o in sostituzione di altri soci; ed elementi oggettivi, come oggetto sociale, ragione sociale, sede, modi di amministrazione, durata.Per le società di capitali vige il principio maggioritario e le modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto devono essere adottate dall’assemblea.

La società ed i rapporti con i terzi. Responsabilità verso i creditori sociali e verso di creditori particolari dei soci. Vale per le società il principio sancito dall’art. 2740, in forza del quale ogni soggetto dell’attività giuridica, e quindi anche la società, risponde con il proprio patrimonio per le obbligazioni assunte nei confronti dei terzi, e cioè perle obbligazioni sociali.Le modalità di attuazione di tale principio non possono non tenere conto di una serie di fattori:

1. in tutti i tipi di società, per le obbligazioni sociali risponde in prima battuta il patrimonio della società;

2. nelle società cui per legge è conferita la personalità giuridica – le cc.dd. società di capitali – il patrimonio sociale costituisce l’unica forma di garanzia e quindi l’unica fonte di soddisfacimento delle pretese dei creditori sociali, per cui il limite di rischio del singolo socio è costituito nelle ipotesi peggiori dal valore della partecipazione;

3. nelle società che la legge non considera persone giuridiche – le cc.dd. società di persone – la regola sta in ciò che alla garanzia costituita dal patrimonio sociale si aggiunge quella del patrimonio dei singoli soci: questo significa che i creditori sociali potranno aggredire il patrimonio dei singoli soci solo se il patrimonio sociale, preventivamente escusso, si riveli insufficiente a soddisfare le obbligazioni sociali.

4. per le società cooperative, la legge di riforma del 2003 ha sostituito il previdente sistema che prevedeva la coesistenza di tre diversi tipi di responsabilità dei soci – limitata, illimitata, limitata ad un multiplo della quota – mantenendo in vita le sole cooperative a responsabilità limitata.

La pubblicità dell’impresa sociale. Occorre ora esporre brevemente il sistema di pubblicità vigente per l’impresa sociale. La norma regolatrice è l’art. 2200:

1. tutte le società hanno l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, anche se con modalità ed efficacia diverse per i singoli tipi di società;

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2. l’obbligo dell’iscrizione per le società che possono svolgere attività commerciale non è legato all’esercizio dell’attività commerciale stessa;

3. l’efficacia dell’iscrizione è diversa a seconda del tipo di società, cioè: per la società semplice, l’iscrizione nelle speciali sezioni ha funzione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti da leggi speciali; per la società in nome collettivo e per la società in accomandita semplice, l’iscrizione dell’atto costitutivo ha efficacia dichiarativa, nel senso che la mancata iscrizione non influisce sulla nascita e sulla validità della società, ma determina una situazione di irregolarità con parziale modificazione della disciplina; per le società di capitali e mutualistiche, l’iscrizione ha efficacia costitutiva: con l’iscrizione la società acquista la personalità giuridica.

Dal punto di vita procedurale, obbligati a curare l’iscrizione sono, in primo luogo, gli amministratori, e per le società costituite mediante atto pubblico il notaio; presupposto indefettibile per l’iscrizione è il deposito della scrittura privata autenticata o della copia autentica dell’atto pubblico; l’iscrizione va eseguita presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione ha sede la società.

Le società on e senza personalità giuridica. La capacità delle società. Dal complesso della disciplina emerge la distinzione tra società con personalità giuridica e società senza personalità giuridica. Per la verità, dalle norme emerge con evidenza solo un dato: le società di capitali e le società cooperative sono dotate di personalità giuridica e quindi di soggettività piena, atteso il fatto che l’art. 2331 stabilisce che con l’iscrizione nel registro la società acquista la personalità giuridica, laddove quella che le società di persone non siano persone giuridiche è solo una tesi.A questo discorso sono legati il discorso sulla imputazione dell’attività alle società di persone, che la dottrina risolve considerando anche le società di persone soggetti cui possono imputarsi rapporti giuridici, facendo rilevare non solo che vi è distinzione di patrimonio della società e dei soci, ma anche che tali società non si risolvono nella pluralità dei soci.Dunque: la capacità delle società non incontra altri limiti se non quelli derivanti dalla natura di quei rapporti che presuppongono necessariamente la esistenza di una persona fisica.

Società di persone e società di capitali. Una distinzione che riguarda solo i sei tipi di società lucrative è quella tra società di persone e società di capitali.Vanno ricompresse nelle società di persone le società semplice, in nome collettivo e in accomandita semplice, mentre nelle società di capitali vanno annoverate le società per azioni, in accomandita per azioni, e a responsabilità limitata.Premesso che in linea generale si può dire che le società di persone sono organizzate in funzione dell’uomo-socio, preso in considerazione oltre che per la sua situazione patrimoniale, anche per le sue qualità umane e professionali e che le società di capitali sono organizzate in funzione dei capitali conferiti dal socio.Le più importanti distinzioni riguardano:

a) il diverso regime di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali, che è illimitato nelle società di persone con vincolo di solidarietà fra i soci e limitato alla quota conferita nelle società di capitali;b) immediata conseguenza è la diversa misura del potere del socio di incidere con la propria opera sulla gestione della società, nel senso che mentre nelle società di persone il socio è il naturale amministratore, nelle società di capitali il potere di amministrazione è svincolato dalla qualità di socio e questo potrà solo contribuire a scegliere con il suo voto gli amministratori;c) conseguenza ulteriore è che mentre nelle società di capitali l’organizzazione interna è fondata sulla ripartizione delle competenze fra

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l’assemblea dei soci, gli amministratori e il collegio sindacale, nelle società di persone non esiste una vera e propria organizzazione interna e i poteri di gestione e di deliberazione risiedono negli amministratori; ancora, nelle società di capitali vige il principio maggioritario per le modificazioni dell’atto costitutivo, mentre per le società di persone il contratto può essere modificato solo col consenso di tutti i soci.d) Quarto carattere distintivo è il diverso regime di circolazione delle partecipazioni sociali, che nelle società di capitali non si discosta dall’ordinario regime di circolazione di beni, mortis causa e inter vivos che sia, mentre nelle società di persone riprende vigore la regola generale sulla cessione dei contratti per la circolazione inter vivos, e vi è una deroga all’ordinario regime successorio per il trasferimento mortis causa.

Patti parasociali. Per “patti parasociali” o “patti intorno alla società”, si intendono quei contratti attraverso i quali alcuno soci – e talune volte anche tutti i soci – per tutelare loro legittimi interessi o tutelarli meglio o per sopperire a lacune e deficienze della legislazione ovvero ancora per adeguarsi a sopravvenute ed effettive esigenze della pratica societaria e non potendo o volendo far ciò attraverso l’atto costitutivo e lo statuto, pongono in essere un regolamento integrativo di tali documenti ma al di fuori di essi.Le forme più diffuse sono: i sindacati finanziari, i sindacati azionari e i sindacati di blocco.Proprio perché parasociali, e quindi non contenuti nell’atto costitutivo, tali patti non sono opponibili alla società, nel senso che l’eventuale inadempimento al patto rileva solo nei rapporti interni tra i contraenti e non può essere fatto valere nei confronti della società.

L’IMPRESA SOCIETARIA A BASE PERSONALE

Nelle società a base personale vanno annoverate la società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice.Occorre precisare che le società di persone sono disciplinate con una normazione in gran parte comune: per la precisazione, il legislatore ha dettato una serie di disposizioni per la società semplice (artt. 2251-2290), rendendole applicabili con una norma di rinvio – l’art. 2293 – alla società in nome collettivo, mentre tutte le norme disciplinanti

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quest’ultimo tipo (artt. 2291-2312) sono dichiarate applicabili alla società in accomandita semplice, in quanto compatibili con le norme specifiche dettate per disciplinare tale tipo di società.

LA SOCIETÀ SEMPLICE

È semplice la società che non presenta elementi di identificazione ulteriori rispetto a quelli contenuti nella norma che definisce la società come contratto, e cioè l’art. 2247.Ai sensi del comma 2 dell’art. 2249, la società semplice non può vere ad oggetto l’esercizio di attività commerciali e, di conseguenza, le categorie di attività ipotizzabili quale suo oggetto sono: l’attività agricola, l’attività professionale, le attività civili (es. quelle di riscossione delle imposte, di vigilanza notturna).La loro costituzione è improntata alla massima semplicità formale: l’art. 2251 stabilisce che “il contratto non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti”. La forma scritta è richiesta solo quando vengano conferiti beni immobili o altri diritti reali immobiliari o per l’ipotesi di locazione ultranovennale, discutendosi se a rivestire tale forma debba essere solo il singolo atto di conferimento o l’intero contratto di società.Va ribadito che i beni conferiti dai soci entrano a far parte del patrimonio della società.La semplicità formale richiede, però, la presenza dei requisiti stabiliti per ogni tipo di contratto, con le seguenti specificazioni:

a) i soggetti devono essere almeno due;b) l’oggetto sociale deve consistere in un’attività non commerciale e deve

possedere i requisiti di cui all’art. 1346;c) altrettanto per la causa;d) per il fondo sociale, se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci

siano obbligati a conferire, in parti uguali fra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale.

La pubblicità. L’art. 8 della l. n. 580/1993 stabilisce che “sono iscritti in sezioni speciali del registro delle imprese…le società semplici” e d aggiunge che tale iscrizione ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti dalle leggi speciali.Questa pubblicità non incide sulla validità del contratto e sull’esistenza della società.Uno dei problemi maggiori della società semplice è stato sempre quello di trovare gli opportuni e più efficaci canali per consentire la veicolazione delle informazioni: la legge parla di “mezzi idonei”, tra i quali può essere utilmente inclusa anche l’iscrizione nel registro di tutte quelle notizie che devono essere portate a conoscenza dei terzi.In altri termini, il problema della pubblicità della società semplice è proprio quello relativo alla esatta e non equivoca individuazione di chi possa esprimere la volontà sociale: problema che concerne la pubblicità di tutti quegli atti ed eventi che possono interessare i terzi proprio perché limitano od escludono la responsabilità del gruppo sociale nei confronti di essi.Ha importanza essenziale non tanto l’uno o l’atro mezzo di pubblicità, quanto l’idoneità in concreto del mezzo a raggiungere lo scopo notificativi e se vi è tale idoneità obiettiva, l’atto pubblicato si ritiene opponibile a qualunque terzo, anche se ignaro.

L’organizzazione interna e la gestione. Il legislatore ha privilegiato nelle società personali il momento della gestione rispetto a quello della formazione della volontà collettiva: in altre parole, non esistono organi cui sia attribuita una sfera autonoma di competenze, come accade nelle società di capitali, ma solo i soci.

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In realtà, il legislatore ha fatto dei soci naturali amministratori della società per bilanciare la loro responsabilità illimitata nei confronti dei terzi.Quando si parla di amministrazione e gestione, bisogna far riferimento a due profili: quello dei sistemi di amministrazione e quello delle persone investite dell’amministrazione.

I sistemi di amministrazione disgiuntiva e congiuntiva. I due modi di amministrare le società personali sono:

1. l’amministrazione disgiuntiva, regolata dall’art. 2257, che costituisce il sistema prescelto dal legislatore per fare dei soci i naturali amministratori della società, attraverso l’instaurazione di un collegamento tra potere di direzione e rischio d’impresa, attesa la responsabilità illimitata dei soci stessi per le obbligazioni sociali. Il sistema si instaura sia in presenza di pattuizioni scritte sia nelle società di fatto .ciascun socio è legittimato ad intraprendere da solo le operazioni che ritenga utili all’interesse della società, senza necessità di informarne preventivamente gli altri soci e di portarle a termine, a meno che il compimento dell’operazione stessa non venga paralizzato dal tempestivo esercizio del diritto di opposizione che ogni altro socio può esercitare prima che l’operazione intrapresa sia conclusa, demandando alla maggioranza dei soci il potere di decidere sull’opposizione.

2. l’amministrazione congiuntiva, regolata dall’art. 2258, che prevede l’amministrazione congiunta a più soci, salvo che vi sia l’urgenza di evitare un danno, previo il consenso di tutti i soci o della maggioranza di esso computata per quote di interessi.

Bisogna distingue due ipotesi: quella dell’amministrazione affidata disgiuntamente o congiuntamente a tutti i soci e quella affidata solo ad alcuni soci, avendovi gli altri espressamente rinunciato.L prima ipotesi si ha quando il contratto sociale nulla disponga in ordine alle indicazioni nominative, per cui è d’obbligo il sistema legale di amministrazione disgiuntiva affidata a tutti i soci; nel secondo caso, occorrerà indicare, in ipotesi di amministrazione disgiuntiva, solo i nomi dei soci incaricati dell’amministrazione e, in ipotesi di amministrazione congiuntiva, i nomi dei soci amministratori.

Amministratori estranei. Una parte della dottrina ritiene che, accanto ai due sistemi legali di amministrazione, sia postulabile un sistema di amministrazione della società affidata anche ai non soci, in forza dell’art. 2295 n. 3, dettato in sede di società in nome collettivo, che prescrive che tra gli elementi dell’atto costitutivo debbano essere indicati i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società.L’affidamento dell’amministrazione ad estranei non va venir meno la responsabilità illimitata e solidale dei soci per le obbligazioni sociali; una volta ammessi gli amministratori estranei, questi sono investiti del potere di compiere, entro limiti stabiliti, ogni operazione per la società e i soci non potrebbero interferire né opporsi alle operazioni, se non nella forma estrema della revoca del mandato ad amministrare.

Fonte del rapporto di amministrazione. Poteri, diritti ed obblighi degli amministratori. La funzione amministrativa va distinta da quella rappresentativa: l’amministrazione ha ad oggetto la direzione degli affari sociali nell’ambito della competenza risultante dalla legge o dal contratto, mentre la rappresentanza attiene alla legittimazione sostanziale e processuale a spendere il nome della società nei confronti dei terzi con il conseguente radicamento dei rapporti giuridici in capo alla società stessa.

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Le fonti del rapporto di amministrazione possono essere la legge (art. 2257) e, quando a questa si deroghi, il contratto di società o un atto separato. In ambedue i casi, la nomina deve avvenire con il consenso di tutti i soci.Prima di individuare diritti, obblighi e poteri degli amministratori, va premesso questi sono regolati dalle norme sul mandato.

1. Diritti. Fatto salvo quello ad amministrare, l’unica questione aperta resta quella relativa al diritto al compenso: la giurisprudenza e parte della dottrina lo sostengono argomentando dalla presunzione di onerosità del mandato ex art. 1709; la restante dottrina è di parere negativo in quanto considera il socio un amministratore naturale della società.

2. Obblighi. L’art. 2260 stabilisce che gli amministratori sono solidalmente responsabili per l’adempimento degli obblighi loro imposti dalla legge e dal contratto sociale. Altri obblighi sono: quelli di fornire ai soci non amministratori il rendiconto annuale e tutte le informazioni relative allo svolgimento degli affari sociali; quello di ottemperare agli obblighi di iscrizione della società nell’Albo speciale del registro delle imprese; quello di tenere le scritture contabili fiscali eventualmente prescritte dalla legge.

3. Poteri. L’art. 2266 dispone che la società acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi. Da qui la necessità di indicare quali tra i soci amministratori abbiano la rappresentanza, se non si vuole che questa spetti indistintamente a tutti i soci.Per quanto riguarda il contenuto dei poteri amministrativi, per vincolare la società l’amministratore-rappresentante deve spendere necessariamente il nome della società e deve aver compiuto un atto – lecito o illecito che sia – che rientri nell’oggetto sociale, vero e proprio limite. Occorre aggiungere che se il contratto sociale o la procura contiene limitazioni ai poteri rappresentativi, tali limitazioni non sono opponibili se non sono portate a conoscenza dei terzi “con mezzi idonei”.In linea di massima, i principi esposti per la rappresentanza sostanziale valgono anche per la rappresentanza processuale.

La responsabilità degli amministratori. L’art. 2260 dispone che “gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge o dal contratto sociale. Tuttavia, la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa”.Da questa norma si ricavano i seguenti principi:

a) la responsabilità degli amministratori si atteggia nei confronti della società e non dei singoli soci;

b) la solidarietà fra gli amministratori opera sia in regime di amministrazione congiuntiva che disgiuntiva;

c) ciascun amministratore può esimersi da responsabilità dimostrando di essere immune da colpa (assenza alla riunione, dissenso dall’operazione compiuta e via discorrendo). La responsabilità, secondo l’opinione maggioritaria, si estende anche agli amministratori di fatto che, sebbene non investiti formalmente dell’incarico, hanno in realtà svolto le relative funzioni.

Nessuna norma dice, però, come la responsabilità debba essere fatta valere.

L’estinzione del rapporto di amministrazione. Al pari di quanto avviene per la nomina, anche per l’estinzione del rapporto di amministrazione non esiste una disciplina organica, essendo regolata la sola revoca (art. 2259).

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Non essendovi, come nelle società di capitali, ipotesi di decadenza, la cessazione del rapporto di amministrazione può avvenire o per esclusione del socio amministratore dalla società o per revoca.La cessazione per esclusione è soluzione obbligata per chi ritiene la qualità di socio presupposto naturale e indefettibile per l’esercizio delle funzioni amministrative; mentre chi distingue rapporto sociale da rapporto di amministrazione potrebbe plausibilmente sostenere che l’esclusione del socio amministratore potrebbe, sempre che si ammettano gli amministratori estranei, consentire al socio escluso di mantenere la carica di amministratore.La cessazione per revoca è l’unica ipotesi legislativamente prevista dall’art. 2259, il quale stabilisce che a revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una giusta causa. L’amministratore nominato con atto separato è revocabile secondo le norme sul mandato. La revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio.L’apprezzamento dell’idoneità dell’evento a costituire giusta causa è rimesso alla discrezionalità del giudice: ovviamente, non esiste mai giusta causa ove risulti rispettato l’obbligo di diligenza.

I poteri di controllo attribuiti ai soci non amministratori. L’art. 2261 attribuisce ai soci non amministratori una serie di poteri di controllo, e precisamente: il diritto di ottenere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali; il diritto di consultare i documenti relativi all’amministrazione; il diritto ad ottenere il rendiconto quando gli affari per cui la società fu costituita sono stati compiuti ovvero, se la durata della società è ultrannale, al termine di ogni anno. La concessione di così penetranti poteri di controllo è motivata dall’assenza di un organo di controllo come può essere il collegio sindacale che esiste nelle sole società di capitali e dalla circostanza che nelle società di persone non esiste la possibilità di invocare l’intervento dell’autorità giudiziaria.

La qualità di socio. La qualità di socio indica quella posizione di membro della società, produttiva di una serie di interessi, variamente tutelati dall’ordinamento giuridico nei confronti della società stessa.L’acquisto della qualità di socio può avvenire:

a) per effetto della sottoscrizione del contratto sociale e, nelle società di fatto, per effetto dell’esercizio effettivo dell’attività in comune con altri soggetti;

b) per effetto dell’acquisto inter vivos di una quota di partecipazione o per effetto della successione mortis causa, sempre che esista una clausola di continuazione della società con gli eredi del socio defunto, ovvero l’accoglimento da parte degli eredi della proposta dei soci superstiti di subentrare in società al posto del defunto.

Vicende della quota: usufrutto, pegno, misure cautelari, contitolarità. L’ammissibilità della costituzione di usufrutto e pegno sulle quote sociali è una conseguenza del mutato atteggiamento in ordine al problema della trasferibilità della quota sociale: ammesso il trasferimento, è stata ritenuta possibile anche la costituzione di diritti reali sulla quota, subordinatamente al consenso di tutti i soci.Resta pur sempre da stabilire su chi gravino gli obblighi e a chi spetti l’esercizio dei diritti connessi alla partecipazione.Per quanto riguarda gli obblighi, ed in particolare quello del conferimento, si adottano soluzioni differenti per il pegno e per l’usufrutto: nel primo caso gravano sul socio e nel secondo sull’usufruttario.Per la soluzione dei problemi relativi alle misure cautelari, ci si riporta all’art. 2270: il creditore particolare del socio, finché dura la società, può compiere atti conservativi sulla quota spettante a quest’ultimo nella liquidazione; e l’opinione comune tende a far

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rientrare negli atti conservativi sia il sequestro conservativo, sia l’espropriazione e il pignoramento nelle forme del pignoramento presso terzi.

Gli obblighi connessi alla partecipazione sociale. La distinzione preliminare è quella fra obblighi sanciti con sicurezza da una norma di legge o di contratto e obblighi creati dalla dottrina.Tra gli obblighi di legge va annoverato solo l’obbligo del conferimento sancito dall’art. 2253, in forza del quale ogni socio è obbligato ad eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale e, in mancanza di determinazione, è obbligato a conferire quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale.Per quanto riguarda gli obblighi non sanciti da legge o da statuto, vige il c.d. obbligo di collaborazione, per il perseguimento dello scopo comune e all’esercizio dell’attività.

I diritti del socio. Accanto al diritto di amministrare, il socio è titolare di altre situazioni giuridiche attive:

a) situazioni amministrative: diritto di esprimere il proprio parere nelle ipotesi legalmente previste; il diritto di opporsi, nell’amministrazione disgiuntiva, all’operazione che altro socio voglia compiere; il diritto di chiedere giudizialmente la revoca del socio amministratore quando ricorra una giusta causa; il diritto di recesso; il diritto di opporsi alla propria esclusione; i diritti di controllo spettante ai soci non amministratori;

b) situazioni patrimoniali, che spettano indistintamente a tutti i soci, amministratori o non che siano: il diritto agli utili; alla liquidazione della quota. Ai soli soci che hanno conferito beni in godimento, spetta il diritto alla restituzione secondo il disposto dell’art. 2281.

Gli utili. Per utile può intendersi il frutto derivante dall’attività economica (oggetto sociale) esercitata dalla società: solo i guadagni effettivamente così realizzati possono essere destinati alla ripartizione periodica tra i soci.Sono nulli i cc.dd. patti leonini, diretti o indiretti, con i quali uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili e/o alle perdite (art. 2265); per gli stessi motivi non sono ammissibili rinunce preventive agli utili da parte dei soci: il socio potrà solo rinunciare ad esigere il dividendo che gli spetta dopo l’approvazione del rendiconto, ma in tal caso egli rinuncerà ad un diritto di credito, che gli spetta come terzo e non come socio, e del quale potrebbe disporre anche a titolo oneroso.Se il valore dei conferimenti è determinato nel contratto, vige il principio della proporzionalità, nel senso che le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti; se manca la determinazione dei conferimenti, scatta la presunzione di uguaglianza nel senso che in tal caso la partecipazione ad utili e perdite si presume uguale per tutti i soci.In mancanza di determinazione contrattuale delle parti, la determinazione della parte di utili al socio che ha conferito la propria opera è rimessa alla decisione del giudice secondo equità.

I rapporti della società con i terzi. Il discorso può essere svolto considerando il tema da due punti di vista: quello della rappresentanza e quello della responsabilità per le obbligazioni sociali.

La rappresentanza della società. Ribadito che rappresentante è colui che ha il potere di manifestare legittimamente ai terzi la volontà della società essendo investito espressamente di tale potere, e amministratore è colui che nei limiti delle competenze legali e statutarie gestisce gli affari della società, l’art. 2266 fissa alcuni principi:

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a) la società acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza, dai quali è rappresentata anche in giudizio;

b) quanto alle persone investite, se il contratto sociale nulla dispone in ordine alla rappresentanza, questa spetta a ciascun socio amministratore. Ciò significa che in questo caso non occorre alcun espresso conferimento di poteri e che l’esercizio del potere rappresentativo avverrà disgiuntamente o congiuntamente a seconda che il sistema di amministrazione scelto sia quello disgiuntivo o congiuntivo.

c) Quanto ai contenuti del potere rappresentativo, se il contratto nulla dispone, la rappresentanza si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale;

d) Le modificazioni e la revoca della procura devono essere portate a conoscenza dei terzi con “mezzi idonei” – tra i quali anche il registro delle imprese – pena l’inopponibilità di esse ai terzi ignari; le altre cause di estinzione del potere di rappresentanza non sono opponibili ai terzi che le hanno senza colpa ignorate.

Il problema della responsabilità e l’autonomia patrimoniale della società. Bisogna ricordare che di autonomia patrimoniale perfetta – insensibilità reciproca tra i patrimoni della società e dei singoli soci – può parlarsi solo con riferimento alle società di capitali e alle società cooperative, mentre per le società di persone il grado di autonomia varia a seconda dei tipi di società.Il livello più embrionale è proprio quello della società semplice e non solo perché esiste la responsabilità sussidiaria dei soci per le obbligazioni sociali, ma anche perché lo stesso patrimonio sociale è esposto agli attacchi dei creditori particolari dei soci.La norma che regola la responsabilità per le obbligazioni sociali è l’art. 2267: i creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono, inoltre, personalmente ed illimitatamente, i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci.È bene precisare che per obbligazioni sociali devono intendersi quelle assunte per mezzo dei soci che hanno la rappresentanza; per responsabilità illimitata dei soci si intende che questi rispondono oltre i limiti di valore della quota conferita e quindi con tutti i propri beni; la solidarietà (art. 1292) si pone tra i soci e non tra i soci e la società.

a) i creditori sociali possono far valere le loro pretese innanzitutto sul patrimonio sociale che è destinato alla soddisfazione di tali pretese;

b) ove il patrimonio sociale non sia sufficiente a soddisfare le obbligazioni assunte dalla società, i creditori sociali possono aggredire anche il patrimonio dei singoli soci, ma a differenza di quanto avviene per la società in nome collettivo, la preventiva escussione del patrimonio sociale non è condicio sine qua non per l’azione contro il patrimonio dei singoli soci e questi ultimi, previamente aggrediti, possono opporre un’eccezione, cioè possono indicare i beni sociali sui quali i creditori possono agevolmente soddisfarsi;

c) se è vero che tutti i soci rispondono, sia pure in via sussidiaria, illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali, è anche vero che, per patto, tale responsabilità può essere limitata.

La responsabilità dei soci nei confronti dei propri creditori particolari è, invece, regolata dall’art. 2270, dando al creditore particolare tre diverse possibilità:

1. far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore, che significa compiere atti conservativi (sequestro conservativo) ed esecutivi (espropriazione), ma non equivale a dire che il creditore possa influire sulla quantificazione degli utili da distribuire;2. compiere atti conservativi sulla quota spettante al socio-debitore nella liquidazione: ammesso da tutti il sequestro conservativo, si discute se la quota sia suscettibile di espropriazione o pignoramento;

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3. ottenere la liquidazione della quota del socio suo debitore se gli altri beni di questi sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti.

Sono necessarie due precisazioni: il creditore particolare quando chiede la liquidazione della quota deve provare che gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, poiché finché il patrimonio personale è capiente, la liquidazione non può essere chiesta; il creditore personale non potrà pretendere beni sociali né agire direttamente su questi, ma potrà ottenere solo una somma di danaro.

Le modificazioni soggettive del contratto. Sono le modificazioni che riguardano le persone dei soci. La manifestazione più significativa di tali modificazioni è lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. A tale proposito, deve precisarsi che il socio può conservare tale qualità fino all’estinzione della società, ma può parimenti cessare di essere tale anche prima di tale momento, oltre che per la morte, anche per cause dipendenti dalla sua volontà e avremo il recesso, o dipendenti dalla volontà della società ed avremo l’esclusione, ovvero indipendenti e dall’una e dall’altra, e avremo l’esclusione di diritto.

La morte del socio. La regola prevista dall’art. 2284 è quella della intrasmissibilità della quota agli eredi del socio defunto, i quali hanno solo diritto a ricevere la liquidazione della quoto del loro dante causa.In alternativa:

a) se nulla prevede il contratto sociale, le altre due strade percorribili sono: sciogliere la società con il consenso di tutti i soci; invitare gli eredi ad entrare in società subentrando nella stessa posizione del socio defunto, non iure successionis, ma per effetto dell’accettazione di una proposta loro rivolta dai soci superstiti;

b) il contratto può prevedere patti in deroga al regime ordinario, attraverso le cc.dd. clausole di continuazione della società, quali: le clausole di continuazione facoltativa, che obbligano i soci superstiti a continuare la società con gli eredi i quali, a loro volta, non hanno l’obbligo di aderire al contratto di società; le clausole di continuazione obbligatoria che obbligano i soci superstiti ed eredi ad entrare in società; le clausole di continuazione automatica, per effetto delle quali il chiamato all’eredità consegue, per il solo fatto di aver accettato l’eredità, la qualità di socio.

Il recesso del socio. Il recesso è l’atto unilaterale per mezzo del quale il socio dichiara di voler sciogliere il rapporto contrattuale che lo lega alla società.L’art. 2285 prevede che il recesso possa essere esercitato:

1. quando la società è stata contratta a tempo indeterminato;2. quando sussiste una giusta causa, cioè quando il recesso costituisca reazione ad

un illegittimo comportamento degli altri soci ovvero sia provocato da vicende che riguardano la persona del socio come gravi malattie, età avanzata;

3. nei casi previsti dal contratto sociale.

I primi due casi si parla di recesso legale; nell’ultimo caso di recesso convenzionale.La dichiarazione di recesso può essere espressa – scritta o verbale – e tacita, e cioè consistente in un comportamento incompatibile con la volontà di rimanere in società. L’efficacia del recesso è subordinata alla conoscenza che il destinatario della dichiarazione ne abbia avuto (preavviso)

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L’esclusione del socio. Gli artt. 2286, 2287 e 2288 trattano rispettivamente l’”esclusione”, il “procedimento di esclusione” e l’”esclusione di diritto”.Dal complesso normativo si ricavano alcune regole:

a) la fonte dei casi di esclusione è la legge, essendo circondata da molte perplessità l’ammissibilità dell’esclusione convenzionale;

b) l’esclusione può essere facoltativa e di diritto: l’esclusione facoltativa, che avviene o per deliberazione della maggioranza dei soci o, nelle società di due soci, in seguito a pronuncia del tribunale, è così denominata proprio perché l’adozione del provvedimento è in facoltà e non in obbligo dei soci. L’art. 2286 la prevede: per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano al socio dalla legge o dal contratto sociale; per motivi che riguardano la persona del socio, come interdizione e inabilitazione; per cause che si riconnettono all’impossibilità della prestazione come l’inidoneità del socio d’opera a svolgere la prestazione.Per quanto riguarda il socio amministratore, questo può essere escluso anche per violazione dei doveri di amministrazione senza che si necessario passare attraverso la revoca.L’esclusione di diritto si caratterizza rispetto all’esclusione facoltativa perché consegue quasi automaticamente al verificarsi del fatto che la legge indica come generatore, indipendentemente da ogni valutazione discrezionale degli altri soci ragion per cui non occorre alcuna decisione di questi ultimi. È escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito e il socio nei cui confronti il creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota.

Il procedimento di esclusione. Riguarda la sola esclusione facoltativa e si snoda attraverso le tappe seguenti:

1. deliberazione della maggioranza dei soci – calcolata per teste e non per quote – non computandosi il socio da escludere; non occorre una deliberazione in senso tecnico essendo solo necessaria una precisa motivazione con l’individuazione del motivo di esclusione;

2. comunicazione al socio escluso con mezzi idonei della decisione di esclusione, che avrà effetto salvo sospensioni giudiziali, decorsi che siano trenta giorni dalla comunicazione;

3. eventuale opposizione giudiziale contro l’esclusione entro trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento e possibilità di sospensione dell’efficacia della delibera da parte del tribunale adito fino al momento della pronuncia esecutiva che rigetta l’opposizione.

La liquidazione della quota al socio cessato. Dall’art. 2289 si ricavano due regole: la prima è che il socio uscente e gli eredi del socio defunto hanno diritto alla liquidazione di una somma di denaro e non alla restituzione dei beni in natura eventualmente conferiti in proprietà all’atto della costituzione; la seconda è che la liquidazione della quota deve avvenire in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento e ciò significa che: nelle società di persone non si deve far riferimento al bilancio o al rendiconto ma alla effettiva consistenza patrimoniale della società nel momento del verificarsi della cessazione del vincolo; il socio ha diritto ad ottenere una quota proporzionata all’attività sociale e a sopportare (o sfruttare) le conseguenze (perdite o profitti) delle operazioni in corso al momento dello scioglimento del vincolo.È la società, e non i soci, obbligata a liquidare la quota entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.

La responsabilità del socio cessato. L’art. 2290 stabilisce che nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questo o i suoi eredi sono

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responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, che deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, pena l’inopponibilità.Il mancato adempimento degli oneri pubblicitari comporta come conseguenza che il socio cessato verrà dai terzi ritenuto responsabile anche per le obbligazioni sociali sorte dopo lo scioglimento del vincolo sociale, a meno che non provi che i terzi conoscevano l’avvenuto scioglimento del vincolo particolare o, comunque, avrebbero dovuto o potuto conoscerlo usando l’ordinaria diligenza.

L’estinzione e la proroga della società. L’estinzione della società avviene in seguito al compiersi di una fattispecie a formazione successiva composta di due fasi distinte:

1. il verificarsi di una causa di scioglimento: decorso del termine, conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità i conseguirlo, volontà dei soci, il venir meno della pluralità dei soci, per altre cause eventualmente previste nel contratto sociale.Tutte le cause di scioglimento operano di diritto; il verificarsi di una causa non produce la morte della società, ma solo una serie di effetti preliminari e funzionali al momento estintivo: implica in primo luogo, il mutamento dello scopo della società, perchè allo scopo di esercizio dell’attività d’impresa si sostituisce quello di liquidare il patrimonio e comporta, in secondo luogo, il divieto per gli amministratori di intraprendere nuovi affari, pena la responsabilità verso la società.Al verificarsi di una causa di scioglimento, la società entra in stato di liquidazione.

2. L’esaurirsi del procedimento di liquidazione: tale procedimento comporta innanzitutto la nomina dei liquidatori, che sostituiscono gli amministratori nella gestione liquidativa del patrimonio sociale e si compone di quattro fasi: la redazione dell’inventario, la monetizzazione dell’attivo, il pagamento delle passività sociali e la redazione del bilancio finale di liquidazione e del pano di riparto.Compito dei liquidatori è certamente un facere teso a realizzare la funzione stessa del procedimento. Essi possono vendere in blocco i beni sociali e fare transazioni e compromessi, tranne che i soci non abbiano diversamente disposto. A questi poteri si affiancano sia il potere di rappresentanza sostanziale e processuale della società, sia i doveri e gli obblighi come quelli di prendere in consegna i beni sociali redigendo l’inventario, di non intraprendere nuove operazioni, di non ripartire tra i soci i beni sociali finché non siano stati pagati i creditori sociali, di restituire ai soci i beni conferiti in godimento.Estinti i debiti sociali, occorre ripartire l’attivo residuo fra i soci.Nei limiti in cui la si ammetta, la liquidazione è revocabile con la eliminazione della causa di scioglimento da adottarsi con il consenso di tutti i soci.

La fissazione di un termine di durata della società non è, nella società semplice, indispensabile. Nel caso in cui il contratto sociale contenga tale elemento, nulla esclude che prima della scadenza i soci possano fissare un altro termine di durata, prorogando espressamente la società.La disciplina positiva prevede anche la proroga tacita, che si ha quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali.

LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO

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La disciplina della società in nome collettivo – il tipo più diffuso di società personale perché suscettibile di essere utilizzato per l’esercizio di ogni specie di attività – è contenuta negli artt. 2291-2312.È la responsabilità illimitata e solidale dei soci a costituire il tratto che più di ogni altro caratterizza tale tipo di società. Le principali differenze con la società semplice riguardano:

1. la presenza, nella disciplina della società in nome collettivo, di una norma – l’art. 2295 – che indica il contenuto dell’atto costitutivo;

2. l’inesistenza di limiti relativi alla scelta dell’oggetto sociale (attività commerciale, agricola, professionale);

3. l’inefficacia esterna degli eventuali patti limitativi della responsabilità dei soci;4. un più accentuato livello di autonomia patrimoniale, e quindi una

regolamentazione parzialmente diversa dei rapporti della società con i terzi;5. l’esistenza di un regime di pubblicità degli atti sociali abbastanza articolato, il cui

inadempimento, pur non incidendo sulla validità e sull’esistenza della società, incide sulla regolarità di questa;

6. l’esistenza di una serie di norme in tema di capitale sociale che mancano nella società semplice.

L’atto costitutivo. Forma e contenuto. La circostanza che la legge disciplini in modo compiuto l’atto costitutivo e il contenuto di questo, non muta affatto la regola della libertà di forma (atto pubblico o scrittura privata) anche per la costituzione della società in nome collettivo.Non tutti gli elementi che l’art. 2295 prescrive come contenuto dell’atto costitutivo devono essere inseriti ai fini della validità dell’atto stesso, sol discutendosi se l’ufficio del registro possa rifiutare l’iscrizione ove manchi uno di tali elementi e segnatamente ove la lacuna possa essere colmata da una norma di legge integrativa.

I soggetti partecipanti. Il n. 1 dell’art. 2295 prescrive che l’atto costitutivo deve indicare il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza dei soci.Due sono i problemi principali che la norma pone: la partecipazione degli incapaci e la partecipazione di soggetti diversi dalle persone fisiche.Circa la partecipazione degli incapaci, il minore, l’interdetto e l’inabilitato possono solo continuare, previa autorizzazione del tribunale, l’esercizio di un’impresa commerciale, mentre il minore emancipato può esercitare un’impresa commerciale senza l’assistenza del curatore, sempre se autorizzato dal tribunale. La norma, che non si applica se l’attività esercitata non è commerciale, si applica anche se l’incapacità colpisce chi è già socio e provoca l’annullabilità del contratto concluso da un incapace non autorizzato, che ovviamente faccia valere la causa di annullabilità.

La ragione sociale. Il n. 2 dell’art. 2295 prescrive l’indicazione della ragione sociale per rimarcare che anche la società in nome collettivo deve esercitare la sua attività adottando un nome.Definibile come la ditta sotto la quale agiscono la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice, la ragione sociale assolve in primo luogo ad una funzione di identificazione del soggetto, e deve essere formata con il nome di almeno uno dei soci illimitatamente responsabili e l’indicazione del rapporto sociale, anche se è possibile conservare il nome del socio receduto o defunto (c.d. ditta sociale derivata). L’inosservanza di tali disposizioni dà luogo all’irregolarità della ragione sociale, che può causare il rifiuto dio iscrizione nel registro delle imprese.

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L’amministrazione della società. Il n. 3 dell’art. 2295 prescrive che nell’atto costitutivo siano indicati i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società.Gli amministratori di società in nome collettivo, oltre ai diritti e agli obblighi già visti per la società semplice, hanno l’ulteriore obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili.

La sede della società. Per sede della società, n. 4 dell’art. 2295, deve intendersi sul piano formale quella risultante dall’atto costitutivo e dallo statuto e nella quale si trovano stabilmente gli organi che hanno la rappresentanza dell’ente e la capacità di obbligarlo.La sede è importante: per la determinazione del foro competente nelle cause che interessano la società; per la individuazione dell’ufficio del registro delle imprese in cui la società dev’essere iscritta; ai fini dell’applicazione della disciplina fallimentare.Può darsi il caso che la sede legale con coincida con la sede reale, che è quella dove c’è il centro effettivo di direzione e di svolgimento dell’attività sociale, dove risiedono gli amministratori e coloro che hanno il potere di rappresentare la società, e dove è convocata l’assemblea sociale.Orbene, nel il contrasto tra sede reale e sede legale, la giurisprudenza sembra orientata a far prevalere la prima.

I conferimenti dei soci. Il capitale sociale. Il n. 6 dell’art. 2295 prescrive che l’atto costitutivo indichi i conferimenti dei soci, il valore ad essi attribuito ed il modo di valutazione.Dei conferimenti se n’è già parlato. Necessita riprendere il discorso sul capitale sociale, dal momento che, a differenza di quanto avviene per la società semplice, si allude al capitale in due norme: gli artt. 2303 e 2306.Il capitale sociale rappresenta il valore in denaro dei conferimenti dei soci, quale risulta dalle valutazioni compiute nel contratto sociale: questo è il concetto di capitale nominale, che resta fisso nel corso della vita sociale fino a quando non venga variato con apposita modificazione dell’atto costitutivo.Patrimonio sociale è, invece, il complesso dei rapporti giuridici facenti capo alla società e comprende perciò il capitale sociale; è di proprietà della società ed è per sua natura variabile. Dalla comparazione delle due entità viene determinato lo “stato di salute della società”. Quattro sono le funzioni attribuite al capitale sociale: strumento di attivazione dell’oggetto sociale; strumento di rilevazione della situazione patrimoniale della società; strumento di misura della partecipazione del socio alla vita della società; strumento di granzia per i creditori sociali.

La distribuzione degli utili. Il n. 8 dell’art. 2295 stabilisce che nell’atto costitutivo devono essere indicate le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite.

La durata e la proroga della società. Il n. 9 dell’art. 2295 include tra gli elementi dell’atto costitutivo la durata della società, e ciò sembra avvicinare la società in nome collettivo più alle società di capitali che alla società semplice dove invece manca.La proroga della durata della società può essere espressa se i soci di comune accordo decidono di fissare prima della scadenza del termine originariamente stabilito un nuovo termine di scadenza, e tacita allorquando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali.

La pubblicità della società in nome collettivo. Fa obbligo agli amministratori, e al notaio se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico, di depositare, nel termine di trenta giorni presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione ha sede la società, l’atto costitutivo.

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Presupposto indefettibile per l’iscrizione è il deposito della scrittura privata autenticata, ovvero della copia autenticata dell’atto pubblico.Giova precisare, in primo luogo, che la società è soggetta all’onere dell’iscrizione indipendentemente dal fatto che l’attività esercitata sia o no commerciale e, in secondo luogo, che l’iscrizione non è adempimento cui la legge subordina la nascita dell’ente sociale e tanto meno la validità del contratto, con la conseguenza che la mancata iscrizione determina una situazione di irregolarità della società stessa.Mentre il deposito è compito dei soggetti indicati nell’art. 2296, l’iscrizione è attività dell’ufficio del registro delle imprese che, perciò, non può rifiutare il primo ma può negare la seconda quando della reiezione sussistano, però, i presupposti, e cioè l’assenza dei presupposti formali e sostanziali richiesti dalla legge.

La società in nome collettivo irregolare. È irregolare quella società in nome collettivo per la quale non siano state osservate le prescrizioni relative agli adempimenti pubblicitari contenute nell’art. 2296 o, detta in altri, termini, la società che non sia stata iscritta nel registro delle imprese (società irregolare di fatto).Dall’art. 2297 sono ricavabili le seguenti regole:

a) la disciplina dei rapporti interni è quella della società collettiva regolare, della quale si applicheranno tutte le norme ad eccezione di quelle che presuppongano adempimenti pubblicitari;

b) ai rapporti tra società e terzi si attaglia la disciplina della società semplice, la quale prescinde da un sistema di pubblicità legale.

Le modificazioni dell’atto costitutivo di una società irregolare non devono essere iscritte perché presupposto di ciò è l’iscrizione dell’atto costitutivo.Una società irregolare può sempre sanare la sua posizione attraverso la “regolarizzazione”, che si attua con l’iscrizione nel registro delle imprese ex art. 2296 ed ha, anche sul piano normativo, effetto ex nunc.La rappresentanza della società. Nei rapporti esterni, pur non essendole concessa la personalità giuridica, la società in nome collettivo si presenta come gruppo unitario, portatore di una propria volontà e titolare di un proprio patrimonio e capace, come tale, di acquistare diritti, assumere obbligazioni e stare in giudizio.Il limite ai poteri degli amministratori è costituito dall’oggetto sociale. È possibile determinare pattiziamente il “contenuto” dei poteri rappresentativi, e tali limitazioni sono opponibili ai terzi solo se iscritte nel registro delle imprese o se si prova che i terzi le conoscevano. Gli amministratori rappresentanti devono depositare la loro firma autografa presso l’ufficio del registro delle imprese.

La responsabilità per le obbligazioni sociali. Se è vero che la responsabilità illimitata e solidale dei soci di collettiva è assai incisivamente affermata, è anche vero che i creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale.La norma non si applica alle società irregolari.

I creditori particolari del socio. La materia è regolata dall’art. 2305: mentre il creditore particolare del socio di società semplice può chiedere la liquidazione della quota del socio suo debitore se gli altri beni di questo sono insufficienti, tale potere è negato al creditore particolare del socio di collettiva, tranne che nelle ipotesi di accoglimento dell’opposizione giudiziale alla proroga espressa e di proroga tacita.

L’estinzione della società. Alle considerazioni espresse a proposito della società semplice, occorre aggiungere qualche considerazione ulteriore motivata dalla

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circostanza che la società in nome collettivo è un società che, di norma, ha ad oggetto un0ttività commerciale ed è soggetta alla iscrizione nel registro delle imprese. Innanzitutto, alle cause di scioglimento previste per tutte le società personali dall’art. 2272, si aggiungono, per la società in nome collettivo, il provvedimento dell’autorità governativa nei casi stabiliti dalla legge e la dichiarazione di fallimento della società:

1. i liquidatori devono redigere il bilancio finale di liquidazione e proporre ai soci un piano di riparto: ambedue devono essere comunicati ai soci mediate lettera raccomandata e si intendono tacitamente approvati se non impugnati entro due mesi dalla comunicazione, con l’effetto che l’approvazione libera i liquidatori di fronte ai soci;

2. alle due fasi della fattispecie illustrate per la società semplice se ne aggiunge una terza: la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Compiuta la liquidazione, a cura dei liquidatori i libri e le scritture contabili della società devono essere depositati presso la persona designata dalla maggioranza e quivi devono essere conservati per dieci anni.

LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE

È caratterizzata dalla coesistenza di due distinte categorie di soci: i soci accomandatari, i quali sono responsabili illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali ed hanno correlativamente il potere di amministrare la società, e i soci accomandanti, i quali sono responsabili nei limiti della quota conferita e sono correlativamente esclusi dall’amministrazione, pur avendo poteri di controllo sulla gestione.Anche per la società in accomandita semplice, la forma scritta è richiesta non per la validità del contratto ma solo per l’iscrizione nel registro delle imprese; il contenuto dell’atto costitutivo è il medesimo stabilito per la collettiva dall’art. 2295 con due aggiunte: la ripartizione delle due categorie di soci e la distinta indicazione dei conferimenti degli uni e degli altri.Appare opportuno distinguere la società in accomandita da figure codificate affini: in primo luogo, dall’associazione in partecipazione e qui il discrimine sta nel fatto che mentre nelle società in accomandita il conferimento dell’accomandante confluisce in un fondo sociale comune e autonomo rispetto ai patrimoni personali, nell’associazione in partecipazione l’apporto passa in proprietà dell’associante che, perciò, diventa debitore del primo.Molto meno netta è la differenza con la società semplice, dal momento che anche in questa è possibile limitare la responsabilità di alcuni soci.Molto più agevole è la distinzione tra società in accomandita semplice e società in accomandita per azioni: nella prima, a differenza della seconda, le quote non possono essere rappresentate da azioni.

La nomina e la revoca degli amministratori. L’amministrazione della società spetta solo ai soci accomandatari e non pure agli accomandanti, cui è interdetto anche di

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trattare o concludere affari in nome della società se non in forza di procura speciale per singoli affari.Se nulla dispone il contratto, il potere di amministrare spetta disgiuntamente a ciascun socio accomandatario secondo le regole fissate dall’art. 2257: sia nell’ambito del sistema di amministrazione disgiuntivo che congiuntivo è possibile affidare l’amministrazione non tutti ma solo ad alcuni dei soci accomandatari.Se l’amministratore viene nominato con atto separato, la nomina, oltre al consenso di tutti i soci accomandatari, deve ricevere anche quello della maggioranza degli accomandanti; analogamente deve avvenire per la revoca dell’amministratore così nominato.

I divieti ed i poteri degli accomandanti. A carico degli accomandanti, la legge pone due divieti:

1. quello di amministrare, la cui violazione comporta on solo la perdita della responsabilità illimitata, ma anche la possibilità dell’esclusione dalla società;

2. quello di far comparire il proprio nome nella ragione sociale, la cui violazione comporterà la perdita della responsabilità limitata nei confronti e solidale con gli accomandatari.

I poteri legali riconosciuti sono:

1. quello di prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori; 2. di nominare un amministratore provvisorio per gli atti di ordinaria

amministrazione quando vengano a mancare tutti di accomandatari.I poteri pattizi riguardano prevalentemente l’allargamento dei poteri di immistione, ovvero il potere di dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e di compiere atti di ispezione e sorveglianza.Gli accomandanti hanno inoltre il diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e di controllarne l’esattezza consultando libri ed altri documenti della società.Come contropartita alla esclusione dalla gestione, agli accomandanti è consentito di non restituire gli utili accertati successivamente come inesistenti, ma riscossi in buona fede secondo il bilancio regolarmente approvato.

Trasferimento della quota. Le quote degli accomandanti, salvo patto contrario, sono liberamente trasferibili sia inter vivos – l’efficacia della cessione verso la società è subordinata all’approvazione di questa da parte della maggioranza dei soci – che mortis causa.

La società in accomandita semplice non registrata. Anche per la società in accomandita semplice la forma scritta è richiesta solo per l’iscrizione nel registro delle imprese, che ha carattere dichiarativo e non costitutivo: la mancata iscrizione determina solo una situazione di irregolarità.Alla società non registrata si applica la residua disciplina della società in accomandita semplice regolare, con la sola esclusione delle norme che presuppongono adempimenti pubblicitari.

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L’IMPRESA SOCIETARIA A BASE CAPITALISTICA

Il perfezionamento del contratto (art. 2247) non comporta l’immediata costituzione delle società a base capitalistica (per azioni, in accomandita per azioni, e a responsabilità limitata).La personalità giuridica è riconosciuta al momento dell’iscrizione dell’atto costitutivo: le società a base capitalistica sono fornite di propria soggettività ed autonomia rispetto ai soci; rispondono delle obbligazioni che assumono soltanto con il proprio patrimonio. Tale fondamentale caratteristica subisce, tuttavia, un primo correttivo nell’accomandita per azioni la cui responsabilità patrimoniale è integrata da quella dei soci accomandatari, amministratori di diritto; un secondo nella società per azioni con socio unico la cui responsabilità, in caso d’insolvenza, si cumula con quella della società.Queste società, a fronte i risultati negativi, abbandonano il mercato, soluzione incompatibile con il sistema delle società personali caratterizzate dalla responsabilità personale, illimitata e solidale dei soci che amministrano.

La codificazione del 1942. è stata sancito il principio di legalità, realizzato, in primo luogo, con la prescritta conformità delle deliberazioni assembleari alla legge e all’atto costitutivo pena l’invalidità, e con la disciplina del conflitto di interessi tra socio e società.In quella capitalistica vige la regola maggioritaria che interessa, indistintamente, tutti gli organi: la società, fornita del proprio apparto organizzativo, non identificandosi con i soci deve poter decidere a fronte delle necessità dell’attività.

La riforma del d. lgs. 17 gennaio 2003 n. 6. numerose sono le novità che interessano le società a base capitalistica, in particolare quelle per azioni e a responsabilità limitata.La nuova normativa riguarda le società per azioni:

a) che non ricorrano al mercato per acquistare capitale di rischio e che, pertanto, confidano sulle risorse di un azionariato circoscritto;

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b) che, pur ricorrendo a tale mercato non vi quotano i propri titoli;c) i cui titoli sono, invece, quotati in mercati regolamentati.

Accertare le difficoltà dell’acquisizione di risorse finanziarie con il ricorso al capitale di rischio ed a quello di credito, il d. lgs intende favorire la diffusione delle azioni meno esposte al rischio delle perdite, fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività in un determinato settore.Col decreto si scolora anche la rilevanza della regola sulla quale poggiava il regime capitalistico proprio della società per azioni (e dell’accomandita per azioni) che affermava l’assoluta proporzionalità tra il conferimento e l partecipazione..Ulteriori, decisive novità investono l’amministrazione ed il controllo della società. Ai soci è permessa, con una precisa previsione statutaria, la scelta tra più sistemi di amministrazione: da quello tradizionale, articolato sul consiglio di amministrazione e sul collegio sindacale, a quello, tratto dal modello tedesco, imperniato su un consiglio di gestione e su un consiglio di sorveglianza (sistema dualistico); a quello di matrice anglosassone, caratterizzato da un consiglio di amministrazione e da un comitato di controllo costituito al suo interno (sistema monistico).Il rapporto tra la maggioranza e la minoranza è ispirato dall’esigenza dell’equilibrio: è stata riconosciuta, a beneficio della minoranza, la prerogativa di avvalersi dell’azione di responsabilità nei confronti degli organi di amministrazione prescindendo dal filtro della deliberazione assembleare. Sono stati, poi, elevati i quorum delle assemblee straordinari con l’obiettivo del maggior coinvolgimento dell’azionariato.Ulteriore novità è la possibilità di costituzione della società per azioni per atto unilaterale e, nel caso non ne sia fissata la durata, all’azionista è concessa la facoltà di recedere (con congruo preavviso).

Capitale e patrimonio. I soci, stipulando l’atto costitutivo, si obbligano ad apportare in società ciò che viene destinato all’esercizio della comune attività; l’oggetto dei conferimenti forma il patrimonio sociale che al momento della costituzione non è gravato da passività.Il valore in moneta dei conferimenti è espresso in una cifra, in un numero, ed è denominato capitale sociale nominale. Inizialmente, capitale nominale e patrimonio sociale coincidono: tale coincidenza viene meno con l’esercizio dell’attività poiché il patrimonio si incrementa o si riduce in funzione dei risultati, mentre il capitale sociale nominale tende a rimanere immutato; a fronte di specifiche riduzioni del primo è obbligatoria la riduzione del secondo.Non è, viceversa, obbligatoria la modifica in aumento del capitale sociale nominale: l’aumento è rimesso all’autonoma e libera decisione dei soci che l’adottano al servizio delle necessità dell’attività, apportando beni ulteriori (c.d. aumento a pagamento) ovvero convertendo patrimonio a capitale (c.d. aumento gratuito).Il capitale sociale nominale è, allora, l’indice dell’iniziale consistenza del patrimonio e della sua successiva evoluzione; ma è, altresì, l’indice attraverso il quale si determina l’incidenza che il socio esercita in società.Il capitale sociale deve essere, quindi, suddiviso in parti (quote) per consentirne la sottoscrizione (con essa il socio assume l’obbligo del conferimento).Il complesso dei diritti e degli obblighi di cui il socio è titolare è espresso nella c.d. partecipazione sociale.Il mercato nel quale operano le società capitalistiche è passato da una dimensione circoscritta ad una globalizzata; si è così consolidata la categoria dei c.d. soci risparmiatori con simmetrico ampliamento del ruolo dei c.d. soci imprenditori, i quali, pur destinando consistenti capitali all’impresa, ne assumono il governo: ciò è reso possibile proprio dal disinteresse degli azionisti risparmiatori che permettono di deliberare anche con l’approvazione di una parte ridotta del capitale sociale. E questa è una innegabile anomalia: la minoranza (interessata) controlla la società imponendo la propria scelta alla maggioranza (disinteressata).

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LA COSTITUZIONE DELLA SOCIETÀ PER AZIONI

Si è affermato che la società per azioni fornita di propri soggettività ed autonomia risponde delle obbligazioni che assume soltanto con il proprio patrimonio (art. 2325). Tale fondamentale caratteristica subisce un correttivo poiché in caso di insolvenza risponde illimitatamente il socio al quale sino appartenute tutte le azioni; ovviamente con riguardo alle obbligazioni sorte nel periodo di tale monopolistica appartenenza.La società per azioni si costituisce per atto pubblico (contrattuale o unilaterale) che può essere stipulato simultaneamente, cioè immediatamente, ovvero in più fasi con il procedimento di pubblica sottoscrizione.

L’atto costitutivo deve indicare:

1. il cognome ed il nome, il luogo e la data di nascita, lo Stato, il domicilio e la cittadinanza dei soci e degli eventuali promotori, nonché il numero delle azioni sottoscritte da ognuno di essi;

2. la denominazione e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie;

3. l’attività che costituisce l’oggetto sociale;4. l’ammontare del capitale sottoscritto e versato (il minimo 120mila euro);5. il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le

modalità di emissione e circolazione;6. il valore dei crediti e dei beni conferiti in natura. Si tratta di entità, cespiti, la cui

valutazione esige uno specifico procedimenti di stima;7. le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti.8. il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro

poteri, indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società. Deve essere indicata la scelta tra i diversi modelli di amministrazione: il tradizionale, c.d. latino (consiglio di amministrazione e collegio sindacale); quello dualistico (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza); quello monistico (consiglio di amministrazione e comitato di controllo al suo interno);

9. il numero dei componenti del collegio sindacale, tra tre e cinque;10. l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione

poste a carico della società;11.la durata della società e, se costituita a tempo indeterminato, il periodo di tempo,

comunque non superiore ad un anno, decorso il quale il socio può recedere.

Lo statuto contiene le regole relative al funzionamento della società e anche se oggetto di atto separato, è parte integrante dell’atto costitutivo.Avviato il procedimento di costituzione, esso si dovrebbe concludere con la nascita della società se ricorrono puntuali condizioni, in mancanza delle quali il procedimento si arresta.

Deposito ed iscrizione dell’atto costitutivo. Contestualmente al deposito, deve essere richiesta l’iscrizione della società cui provvede l’ufficio del registro delle imprese.Con l’iscrizione, la società acquista l personalità giuridica; per le operazioni compiute in suo nome prima dell’iscrizione rispondono illimitatamente e solidalmente coloro che hanno agito.

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Le somme depositate dai soci al momento della sottoscrizione possono essere consegnate agli amministratori soltanto se se ne prova l’avvenuta sottoscrizione. Se entro 90 giorni dalla stipula dell’atto costitutivo o dalla data del rilascio delle necessarie autorizzazioni la società non è iscritta nel registro delle imprese, quelle somme vengono restituite ai sottoscrittori e l’atto costitutivo perde efficacia.

La costituzione per pubblica sottoscrizione. La costituzione immediata, simultanea dell’atto costitutivo non è la sola attraverso la quale si pongono le premesse per la nascita della società per azioni. Gli interessati dispingono di una modalità alternativa: quella della costituzione per pubblica sottoscrizione, abbastanza desueta.

La nullità della società. Prima dell’iscrizione nel registro delle imprese, all’atto costitutivo si applicano le regole generali sull’invalidità, cioè quelle relative ai contratti associativi. Successivamente, nata la persona giuridica, la società – autonomo centro di diritti ed obblighi – opera concludendo affari: è sul mercato.La nullità, perciò, è stata disciplinata in funzione delle esigenze dell’apparato organizzativo della persona giuridica: non più, dunque, nullità dell’atto costitutivo, bensì nullità della società (art. 2332).La nullità può essere pronunciata soltanto per:

1) mancanza di stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico;2) illiceità dell’oggetto sociale;

3) mancanza, nell’atto costitutivo, di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, i conferimenti, l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale.

La dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese.La nullità non può essere dichiarata quando la causa di essa è tata eliminata e di tale eliminazione (non necessariamente con la modifica dell’atto costitutivo) è stata data pubblicità con l’iscrizione nel registro delle imprese.La dichiarazione di nullità fa salva l’efficacia degli atti poti in essere dalla società successivamente all’iscrizione; non opera, cioè, per il passato, bensì esclusivamente per il futuro. La sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori.Il patrimonio sociale deve soddisfare le pretese dei creditori per cui, coerentemente, i soci non sono dispensati dall’obbligo dei residui conferimenti.

I CONFERIMENTI E I TITOLI AZIONARI

Conferimento e capitale sociale. Il conferimento è l’obbligo che il socio assume di apportare beni in società, il versamento ne costituisce l’esecuzione. Quale corrispettivo, l’azionista riceve le azioni, ossia le quote nelle quali è diviso il capitale.Il capitale sociale nominale è la componente del patrimonio netto (il saldo tra attività e passività) in suscettibile di distribuzione tra i soci. Con l’esercizio dell’attività, infatti, il patrimonio si modifica ma tra gli azionisti se ne può ripartire soltanto la parte che eccede l’ammontare del capitale sociale nominale. Il bilancio è in utile se si registra un’eccedenza delle attività rispetto alle passività maggiorate del capitale sociale nominale: l’eccedenza può allora essere divisa tra i soci (art. 2247).Per converso, il bilancio segnala una perdita se le passività, al pari maggiorate del capitale sociale nominale, sopravanzano le attività. In questo caso non solo non è

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possibile ripartire alcunché, ma nel rispetto di soglie prestabilite è necessario ridurre il capitale, a tutela dei creditori e dei soci.Il conferimento deve farsi in denaro se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente.La novella prescrive che al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato, presso una banca, il 25% dei conferimenti in denaro; se la società nasce, invece, per atto unilaterale il versamento deve essere integrale.

I conferimenti in natura. Se il socio non conferisce denaro ma beni in natura o crediti, se ne rende necessaria la stima da parte di un esperto nominato dal presidente del tribunale competente, che redigono una relazione.Gli amministratori devono controllare la relazione nei 180 giorni dal conferimento; se il controllo conferma la stima, i titoli azionari possono circolare.Se l’atto costitutivo lo prevede, le azioni del socio il cui apporto è risultato sovrastimato possono essere ripartite in misura diversa da quella convenuta inizialmente.La protezione dell’integrità del capitale è ulteriormente soddisfatta assicurando trasparenza ad alcune operazioni poste in essere dai promotori, dai fondatori e dagli amministratori nei due anni dall’iscrizione della società: se, infatti, tali soggetti vendono proprio alla società beni o crediti, l’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea ordinaria.

Mancato pagamento delle quote. Non trascurabili sono le innovazioni relative al mancato pagamento delle quote da parte del socio, cioè al suo inadempimento all’obbligo di conferimento. Decorsi, infatti, 15 giorni dalla diffida di cui gli amministratori lo hanno reso destinatario – pubblicata nella Gazzetta Ufficiale – gli stessi amministratori, se non ritengono utile promuovere un’azione per l’esecuzione della prestazione dell’azioniste moroso, sono tenuti ad offrire i titoli agli altri soci in proporzione all’ampiezza della loro partecipazione e per un corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti.In mancanza di offerte, possono far vendere le azioni a rischio e per conto del socio, da una banca o da un intermediario autorizzato. Se mancano i compratori, il socio è dichiarato decaduto e quanto ha eventualmente versato è trattenuto dalla società. Le azioni non vendute, se non sono rimesse in circolazione, devono essere estinte con riduzione corrispondente del capitale sociale.Il socio moroso non può esercitare il voto.Una novità riguarda il diritto di opzione a benefizio dei soci ai quali è concessa la possibilità di acquistare le azioni del socio moroso; la decisione è, comunque, rimessa agli amministratori tenuti a valutare se sia più conveniente perseguire, con azioni esecutive, l’azionista inadempiente ovvero offrire le sue azioni agli altri.

Capitale sociale e diritti dei soci. Il capitale è anche l’indice attraverso il quale si determina la posizione del socio, cioè la partecipazione sociale di cui è titolare, articolata in diritti di natura patrimoniale (il diritto agli utili e alla quota di liquidazione) e amministrativa (l’intervento alle assemblee, il voto, l’impugnativa delle deliberazioni).Il socio, da solo, se possiede un “pacchetto” di azioni adeguato, ovvero con altri soci, può esercitare ulteriori diritti amministrativi: la richiesta di convocazione dell’assemblea e quella del suo rinvio se non sufficientemente informato sugli argomenti posti all’ordine del giorno. Questi diritti vengono qualificati diritti delle minoranze, poiché proprio i quorum rappresentano una frazione minoritaria del capitale.

Le azioni devono essere di eguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti; la posizione dei soci dovrebbe variare soltanto in funzione della maggiore o minore ampiezza del numero che ne hanno sottoscritto.L’art. 2349 prevede l’emissione, se contemplata dallo statuto, sia di azioni sia di strumenti finanziari, tanto della società quanto delle controllate, a favore dei loro dipendenti per stimolare l’interessamento alle vicende dell’impresa.

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Le azioni di risparmio. Queste azioni sono state introdotte dalla l. n. 216/1974 per favorire l’investimento in borsa (la loro emissione è consentita solo alle società quotate).Gli azionisti di risparmio non dispongono del voto né nell’assemblea ordinaria né in quella straordinaria: a fronte di questo sacrificio, vera e propria riduzione dei diritti amministrativi, è stato protetto il diritto all’utile e quella alla quota di liquidazione.Il d. lgs. n. 58/1998 ha introdotto dei quorum deliberativi che ne agevolano la partecipazione alle assemblee.In linea con le accennate esigenze di trasparente consapevolezza, l’atto costitutivo della società che ha emesso azioni di risparmio deve prevedere le modalità per assicurare un’adeguata informazione sulle operazioni suscettibili di influenzare le quotazioni dei titoli della categoria.Diritto agli utili e alla quota di liquidazione. Ogni azione attribuisce il diritto di voto e quelli all’utile e alla quota di liquidazione.La società può essere autorizzata ad emettere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività in un determinato settore: si tratta delle azioni correlate, rapportate cioè non ai risultati complessivi dell’impresa, bensì ad uno suo determinato settore di operatività. L’introduzione di tale categoria di titoli azionari prova che l’attività può essere frazionata, assumendo così rilevanza autonoma ogni sua componente per sollecitare l’investimento di chi confida proprio in uno specifico settore.L’autonomia del settore, però, non permette di remunerare l’investimento se la società non ha realizzato utili.

Diritto di voto. L’art. 2351 stabilisce che ogni azione attribuisce il diritto di voto: lo statuto della società può prevedere anche l’emissione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari condizioni meramente potestative. Il valore di queste azioni non può complessivamente superare la metà del capitale.La novella permette oggi anche l’emissione di azioni che votano su particolari argomenti; si tratta di avvenimenti, al cui verificarsi gli azionisti della relativa categoria saranno convocati per esprimere il voto.Nel caso di pegno o usufrutto, il diritto di voto, salvo convenzione contraria, compete al creditore pignoratizio i all’usufruttuario; nel sequestro al custode. È altresì confermato che il diritto di opzione spetta al socio al quale sono attribuite le azioni di nuova emissione; la novità sta in ciò: se questo socio non lo esercita, gli altri possono offrirsi di acquistarlo (opzione sull’opzione).

Azioni di godimento. Un’altra categoria è quella dei titolari delle azioni di godimento riservata ai soci i cui titoli siano stati rimborsati. Tali soci sono usciti dalla società, con l’attribuzione della quota di liquidazione determinata sul valore nominale e non sui quello reale; potrebbero, dunque, subire un pregiudizio se il valore reale risultasse superiore. Vi si può, allora, ovviare con l’assegnazione di azioni di godimento che permettono di partecipare alla distribuzione degli utili futuri.Alle azioni di godimento è negato il diritto di voto; non parrebbero, invece, private degli altri diritti amministrativi.

I titoli azionari e la loro circolazione. I titoli azionari possono essere nominativi o al portatore, a scelta del socio, se lo statuto o le leggi speciali non stabiliscono diversamente.Le azioni devono indicare: la denominazione, la sede e la durata della società; la data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta; il loro valore nominale o, se si tratta di azioni senza valore nominale, il numero complessivo delle azioni emesse nonché l’ammontare del capitale sociale; l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate; i diritti e gli obblighi particolari ad essi inerenti.I titoli azionari devono essere sottoscritti da uno degli amministratori.

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La circolazione delle azioni può essere limitata dalla legge, da accordi tra i soci che affiancano l’atto costitutivo o lo statuto (c.d. patti parasociali) ovvero, ed infine, proprio dallo statuto e dall’atto costitutivo. Le azioni emesse a fronte di conferimenti di beni di natura o di crediti sono inalienabili fin quando non è stato accertato il valore dell’apporto.I limiti contrattuali. Se regolati in patti parasociali determinano una situazione di blocco dal momento che il socio è obbligato a rispettare appunto il “blocco” e non può, quindi, alienare i propri titoli azionari (c.d. sindacati di blocco). La violazione del patto parasociale, pur comportando l’inadempimento dell’azionista, non è opponibile ai terzi; in definitiva, gli obblighi assunti con questo accordo vincolano soltanto i contraenti. Diversa, invece, l’efficacia delle previsioni limitative della circolazione delle azioni inserite nell’atto costitutivo o nello statuto; l’uno e l’altro hanno, infatti, efficacia reale e le loro trasgressioni sono, pertanto, opponibili ai terzi.Le clausole di prelazione, di regola, prevedono che il socio alienante comunichi agli altri l’intendimento di vendere. La prelazione, nel rispetto della parità di trattamento, è riconosciuta in misura proporzionale alla quota dei (soci) possibili acquirenti.Le clausole di gradimento tendono a selezionare l’ingresso di nuovi soci, innanzitutto in funzione di requisiti soggettivi. In mancanza, l’aspirante non è ammesso.

L’acquisto di azioni proprie. Il valore nominale delle azioni (proprie) acquistate non può eccedere la decima parte del capitale sociale.La decisione di acquistare compete all’assemblea (ordinaria) che ne fissa le modalità, indicando il numero massimo dei titoli azionari, la durata, il corrispettivo minimo e massimo. Il mancato rispetto di queste regole non comporta né l’invalidità né l’inefficacia dell’acquisto che produce i propri effetti; gli amministratori incorrono, peraltro, in responsabilità innanzitutto penale.Il rigoroso regime normativo può essere derogato se l’acquisto è indotto: dall’esecuzione di una delibera assembleare di riduzione del capitale sociale da attuarsi mediante riscatto e annullamento dei titoli azionari; da un negozio a titolo gratuito; da esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società.Acquisite dalla società, le azioni proprie non sono nella disponibilità degli amministratori salvo che l’assemblea li autorizzi stabilendo le relative modalità.Vige il divieto assoluto di sottoscrizione di azioni o quote della controllante da parte della controllata e viceversa.

L’azionista unico. La posizione dell’azionista unico è stata innovata per quel che riguarda il rapporto con i terzi, e in primo luogo con i creditori della società. È, cioè, disciplinata con rigore la pubblicità legale. Gli amministratori della società devono depositare presso il registro delle imprese una dichiarazione che identifichi, con puntualità, il socio unico, sia esso persona fisica o società.I contratti perfezionati dall’azionista unico con la società sono opponibili ai creditori sociali soltanto se risultano dal libro delle adunanze a dalle deliberazioni del consiglio di amministrazione o da atto scritto.

L’ASSEMBLEA

L’assemblea e l’amministrazione. Le competenze. L’esercizio dell’impresa richiede decisioni tempestive e consapevoli. L’assemblea, che è convocata nel comune dove ha sede la società, è ordinaria e straordinaria (art. 2363).Quella ordinaria, nelle società prive di consiglio di sorveglianza:

approva il bilancio;

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nomina e revoca gli amministratori, i sindaci e il presidente del collegio sindacale;determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito dallo

statuto;delibera sugli altri oggetti che le sono attribuiti dalla legge nonché sulle

autorizzazioni richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori;

approva l’eventuale regolamento dei propri lavori.L’assemblea ordinaria nelle società con consiglio di sorveglianza (quindi nel sistema dualistico):

1. nomina e revoca i consiglieri di sorveglianza; 2. determina il loro compenso, se non è stabilito nello statuto; 3. delibera sulla loro responsabilità; delibera sulla distribuzione degli utili; 4. nomina il revisore contabile.5.

Se ne deduce che nel sistema dualistico – articolato tra consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza – tra l’assemblea e gli amministratori si frappone, con funzione di collegamento, il consiglio di sorveglianza. Tale caratteristica spiega la ragione per la quale l’assemblea nomina i componenti del consiglio di sorveglianza, ma non i componenti del consiglio di gestione.Le competenze dell’assemblea straordinaria – qualunque sia il modello di amministrazione prescelto – non mutano ed investono le modificazioni dello statuto, la nomina, la sostituzione ed i poteri dei liquidatori ed ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza.Ancora, lo statuto può attribuire al consiglio di amministrazione (nel sistema tradizionale), al consiglio di gestione (nel sistema monistico) o al consiglio di sorveglianza (nel sistema dualistico)il potere di deliberare su alcuni argomenti di competenza dell’assemblea straordinaria, quali le fusioni, l’indicazione di quali tra gli amministratori sono investiti dalla rappresentanza legale.La convocazione dell’assemblea compete agli amministratori sia nel sistema tradizionale sia nel sistema monistico. Vi provvedono con il relativo avviso che deve indicare il giorno, l’ora, il luogo dell’adunanza e l’elenco delle materie da trattare; va pubblicato nella Gazzetta Ufficiale o in almeno un quotidiano indicato nello statuto, almeno 15 giorni prima di quello fissato per la riunione.In mancanza di tali formalità, l’assemblea si reputa regolarmente costituita quando è rappresentato l’intero capitale sociale e vi partecipa la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo; ognuno dei partecipanti può opporsi alla discussione sugli argomenti sui quali non si ritenga sufficientemente informato.La convocazione dell’assemblea può essere richiesta agli amministratori o al consiglio di gestione da tanti soci che rappresentino almeno un decimo del capitale o la minore percentuale prevista dallo statuto, e che abbiano indicato gli argomenti da trattare; i destinatari della sollecitazione devono provvedere senza ritardo.

La costituzione dell’assemblea. L’assemblea è organo collegiale che decide nel rispetto della regola maggioritaria. Le sue deliberazioni esauriscono un unitario ed articolato complesso di fasi che prendono avvio dalla convocazione; si sviluppano con la sua costituzione, con la discussione degli argomenti in esame, ed infine ed appunto, con le deliberazioni. Lo svolgimento dei lavori viene progressivamente verbalizzato.Il quorum costitutivo è determinato in funzione proprio della titolarità del voto (e le azioni vengono conteggiate), quello deliberativo è stato fissato in funzione del suo esercizio (e le azioni, pertanto, non vengono computate).L’assemblea ordinaria è regolarmente costituita con la presenza di tanti soci che rappresentino almeno la metà del capitale sociale, escluse dal computo le azioni prive del voto; delibera a maggioranza assoluta, salvo che lo statuto la richieda più elevata.

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Per l’assemblea straordinaria non è previsto un quorum costitutivo che, pure, si trae indirettamente, ma è prescritto quello deliberativo: le delibere devono essere adottate con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del capitale sociale, se lo statuto non richiede una maggioranza più elevata.Se in occasione della riunione assembleare non viene raggiunto il quorum costitutivo, l’assemblea deve essere nuovamente convocata. La seconda convocazione non può essere fissata per lo stesso giorno della prima; se l’ordine del giorno, peraltro, non avesse previsto la seconda convocazione, l’assemblea deve essere riconvocata entro 30 giorni dalla data della prima. In seconda convocazione, l’assemblea ordinaria delibera qualunque sia la parte di capitale presente, mentre quella straordinaria è costituita con la partecipazione di oltre un terzo del capitale e delibera con il voto favorevole di almeno due terzi del capitale rappresentato in assemblea.

Il diritto di intervento. Possono intervenire in assemblea gli azionisti cui spetta il diritto di voto (art. 2370).Il deposito delle azioni – per partecipare alla riunione – non è più necessario se non è prescritto dallo statuto.Una novità è stata introdotta in merito alla partecipazione in assemblea con l’impiego di mezzi di telecomunicazione ovvero all’opportunità di esercitare il voto per corrispondenza; in quest’ultimo caso il socio che se ne avvale è considerato intervenuto, con ogni riflesso sul quorum deliberativo e su quello costitutivo sebbene al relativo computo si provveda anche dopo la riunione assembleare. La presidenza dell’assemblea e la rappresentanza. L’assemblea è presieduta dalla persona indicata nello statuto o, in mancanza, da quella eletta dalla maggioranza dei presenti. Il presidente verifica la regolarità della costituzione, accerta l’identità dei presenti e l loro legittimazione, regola lo svolgimento dei lavori ed accerta i risultati delle votazioni; degli esiti di tali riscontri si dà conto nel verbale.La rappresentanza in assemblea può essere conferita soltanto per singole riunioni, salvo non si riconduca ad una procura generale ovvero sia stata attribuita da una società, associazione, ecc, ad un proprio dipendente.

Il conflitto di interessi. L’art. 2368 computa le azioni del socio in conflitto di interessi per la determinazione del quorum costitutivo e di quello deliberativo, disciplinando esclusivamente gli effetti della deliberazione stabilendo che è impugnabile se può arrecare danno alla società, sempreché il voto del socio in conflitto sia risultato determinante per il raggiungimento della maggioranza.Agli amministratori (ovviamente anche soci) è vietato votare nelle deliberazioni sulla propria responsabilità.

I sindacati di voto. Il comportamento degli azionisti in assemblea, in particolare con riferimento al voto, incontra il solo limite del conflitto di interessi. Nulla impedisce, pertanto, che i soci ne concordino il contenuto.Sempre più frequenti, a tal fine, gli accordi tra una parte dei soci, prevalentemente tra quelli di maggioranza, con i quali reciprocamente si vincolano ad esercitare il voto in modo identico; non mancano, peraltro, intese in tal senso anche tra i soci di minoranza. Questi accordi vengono qualificati sindacati di voto, patti parasociali privi di efficacia reale che determinano obblighi soltanto per i contraenti e sono in opponibili ai terzi, tra i quali la stessa società.

Il rinvio dell’assemblea. I soci intervenuti che riuniscono un terzo del capitale rappresentato in assemblea possono chiedere il rinvio della riunione entro 5 giorni. Il diritto può essere esercitato una sola volta per lo stesso oggetto.

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Il verbale assembleare. Il verbale deve contenere la puntuale identificazione dei partecipanti e della parte di capitale da loro rappresentato; le modalità ed il risultato della votazione con l’individuazione dei favorevoli, degli astenuti e dei dissenzienti.Le dichiarazioni dei soci, su loro richiesta, vengono verbalizzate se pertinenti con gli argomenti in discussione.

L’invalidità delle deliberazioni assembleari. I rimedi. Le deliberazioni, i cui vizi comportano l’annullabilità, possono essere impugnate soltanto se il socio o i soci che le contestano rappresenta/rappresentano l’uno per mille del capitale delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ed il cinque per cento nelle altre. Per i soci, o per il socio, che non esprime queste quote di capitale, al pari di quelli privi del voto, è preclusa l’impugnativa; hanno, per converso, diritto al risarcimento del danno per la non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. Sono legittimati ad impugnare anche gli amministratori, il consiglio di sorveglianza ed il collegio sindacale.La deliberazione, comunque, non può essere annullata:

1. per la partecipazione all’assemblea di persone non legittimate, salvo che la partecipazione stessa sia stata determinante per la regolare costituzione dell’assemblea;

2. per l’invalidità di singoli voti o per il loro errato conteggio, salvo che il voto invalido o l’errore di conteggio siano stati determinanti per il raggiungimento della maggioranza;

3. per l’incompletezza o l’inesattezza del verbale che impediscono l’accertamento del contenuto degli effetti e della validità della deliberazione.

L’impugnativa ovvero la domanda di risarcimento devono essere proposte nel termine di 90 giorni che decorre dalla data della deliberazione ovvero, se soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese, dall’iscrizione.L’annullamento ha effetto per tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e quello di gestione ad adottare i conseguenti provvedimenti; sono fatti salvi i diritti acquisiti in buona fede dai terzi. Come per il passato, l’annullamento non può essere pronunciato se la deliberazione è sostituita con altra conforme alla legge e allo statuto.Al pari, l’invalidità cui consegue la nullità delle deliberazioni è stata ora regolata con l’obiettivo di scoraggiare le strumentalizzazioni con la limitazione della relativa impugnativa soltanto a fronte di vizi suscettibili di incidere effettivamente sulla decisione.L’impugnativa può essere proposta:

mancata convocazione dell’assemblea;mancanza del verbale;impossibilità o illiceità dell’oggetto.

La nullità della deliberazione per mancanza del verbale può essere sanata mediante verbalizzazione eseguita prima dell’assemblea successiva.L’impugnativa per nullità è proponibile, da parte di chiunque vi abbia interesse, entro 3 anni dall’iscrizione o dal deposito, presso il registro delle imprese, della deliberazione se vi è soggetta ovvero, sempre entro 3 anni se non vi è soggetta. Nel rispetto di questi termini, la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice. In definitiva, l’esercizio dell’azione di nullità soffre un limite temporale indotto dalla più volte sottolineata esigenza di certezza e stabilità. In precedenza, invece, tale impugnativa poteva essere proposta in qualsiasi momento: questa opportunità permane ora soltanto per le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale per la realizzazione di attività illecite o impossibili.

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In conclusione, alcuni vizi che possono determinare la nullità interessano: il procedimento di formazione delle deliberazioni assembleari; il contenuto delle decisioni che i soci adottano nelle riunioni.

AMMINISTRAZIONE E CONTROLLO

I diversi sistemi di amministrazione. In ordine all’amministrazione ed al controllo, in funzione delle previsioni statutarie è possibile optare per diverse soluzioni: la soluzione c.d. latina impostata sul consiglio di amministrazione (o sull’amministratore unico) e sul collegio sindacale; quella del sistema dualistico (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza) e quella del sistema monistico (consiglio di amministrazione e comitato di controllo costituito al suo interno).Sia che lo statuto preveda i tre sistemi o due soltanto, il passaggio dall’uno all’altro ha effetto dalla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio successivo.

A) Il sistema tradizionale.

La gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.L’organo amministrativo può assumere struttura unipersonale (amministratore unico) o pluripersonale (consiglio di amministrazione). La carica di amministratore può essere assunta da azionisti e/o da estranei alla società.Gli amministratori sono nominati per un periodo non superiore a tre anni e sono rieleggibili, salva diversa disposizione dell’atto costitutivo; sono revocabili, dall’assemblea, in qualunque tempo, anche se nominati nello stesso atto costitutivo. Se, peraltro, la revoca non è indotta da giusta causa, hanno diritto al risarcimento dei danni.Non possono essere nominati amministratori, e se nominati decadono, l’interdetto, l’inabilitato, il fallito o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi: il rapporto che lega gli amministratori alla società è fiduciario.La cessazione del rapporto non è determinata soltanto dalla revoca; la può indurre la rinuncia degli stessi amministratori (cioè le dimissioni), la scadenza del termine, la morte, la sopravvenienza di una causa di decadenza.Qualunque sia la ragione che determina l’esaurimento del rapporto, la cessazione deve essere scritta, entro 30 giorni nel registro delle imprese, a cura del collegio sindacale.Se viene meno la maggioranza degli amministratori nominati dall’assemblea, quelli rimasti in carica devono convocare tale organo per la sostituzione. In questo caso gli amministratori nominati in sostituzione scadono con quelli in carica all’atto della loro nomina; è, pertanto, possibile differenziare le date di scadenza.Se vengono a cessare l’amministratore unico o tutti gli amministratori, l’assemblea deve essere convocata d’urgenza dal collegio sindacale che, nel frattempo, può compiere gli atti in ordinaria amministrazione. Nuova è la disciplina della clausola simul stabunt simul cadent, per la quale la cessazione di alcuni amministratori comporta anche quella dell’intero consiglio. In tale eventualità, gli amministratori rimasti in carica devono convocare d’urgenza l’assemblea per la nomina del nuovo consiglio.

Presidente, comitato esecutivo, amministratori delegati. Puntualmente disciplinata è la figura del presidente del consiglio di amministrazione al quale compete la convocazione di questo organo fissando l’ordine del giorno; ne coordina i lavori e, in particolare, provvede affinché adeguate informazioni vengano fornite a tutti i consiglieri.

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Il consiglio viene convocato dal presidente con l’invio (per lettera, telegramma, fax) agli amministratori dell’avviso di convocazione, destinatari anche i sindaci. I lavori del consiglio e le deliberazioni vengono verbalizzati e, comunque, riportati nello specifico libro sociale.Se lo statuto o l’assemblea lo consentono, il consiglio può delegare lo proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni suoi membri o anche ad uno o più di essi.Il delegante può impartire direttive ai delegati e avocare a sé operazioni ricompresse nella delega. Si conferma, cioè, che il consiglio di amministrazione è l’organo di gestione dell’impresa.Il consiglio di amministrazione valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; gli organi delegati devono realizzarla in funzione della natura e delle dimensioni dell’impresa e riferiscono, poi, allo stesso consiglio ed al collegio sindacale con la periodicità fissata dallo statuto, comunque almeno ogni 180 giorni, sul generale andamento della gestione, sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo.Il consiglio di amministrazione non può delegare il potere di emettere obbligazioni convertibili (si tratterebbe di una subdelega), quello di redigere il bilancio, quello di aumentare, nei limiti fissati dall’assemblea, il capitale (un’altra subdelega).

Il potere di rappresentanza. Gli amministratori sono investiti della rappresentanza generale della società, attribuitagli dallo statuto.Ai terzi non sono opponibili le cause di nullità o annullabilità della nomina degli amministratori ai quali è stata conferita la rappresentanza della società, sempreché siano stati soddisfatti gli adempimenti pubblicitari.

La validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione. Per la validità delle deliberazioni consiliari è necessaria la presenza della maggioranza degli amministratori in carica, se lo statuto non la richiede più elevata; per la deliberazione è necessaria l’approvazione assoluta dei presenti.Si ribadisce che il voto non può essere esercitato per rappresentanza.Le innovazioni riguardano l’impugnativa delle deliberazioni non conformi alla legge e allo statuto, esercitabile entro 90 giorni dalla loro assunzione, dagli amministratori assenti o dissenzienti nonché dal collegio sindacale; i soci possono impugnare quelle che ledono i loro diritti; sono salvi in ogni caso quelli acquisiti in buona fede dai terzi.Gli amministratori rispondono, altresì, dei danni per l’utilizzazione, a vantaggio proprio o di terzi, di dati, notizie ed opportunità di affari, appresi nell’esercizio dell’incarico. Gli è vietato di assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti e di esercitare un’attività concorrente, per conto proprio o di terzi; gli è, ora, anche precluso l’ufficio di amministratore o direttore generale in società concorrenti; l’assemblea può, comunque, autorizzarli.

Il compenso degli amministratori. I compensi, anche per gli amministratori che sono componenti del comitato esecutivo, sono stabiliti all’atto della nomina o dell’assemblea (quindi non più nell’atto costitutivo).La remunerazione può essere costituita, in tutto o in parte, dalla partecipazione agli utili o dall’attribuzione del diritto di sottoscrizione, a prezzo predeterminato, di azioni di futura emissione: le cc.dd. stock options.

La responsabilità degli amministratori. Gli amministratori, trasgredendo gli obblighi imposti dalla legge e dallo statuto, possono determinare pregiudizi non solo per la società, ma anche per i creditori, nonché per i singoli soci e/o singoli terzi; e ne devono rispondere.Se la società è organizzata con un consiglio di amministrazione, gli amministratori rispondono solidalmente.

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L’azione promossa dalla società, al pari di quella esercitata dai soci, è tesa al risarcimento del danno provocato alla stessa società. Deve essere avviata a seguito della deliberazione dell’assemblea ordinaria.La deliberazione dell’azione di responsabilità non comporta la revoca degli amministratori salvo che non sia adottata con il voto favorevole di un quinto del capitale; in questa eventualità la stessa assemblea provvede alla sostituzione.Gli amministratori rispondono in solido nei confronti della società. Limita la portata di questa regola, innanzitutto la ripartizione dei poteri di cui, in conformità dello statuto, si fosse avvalso l’organo amministrativo. In effetti, se il consiglio li ha delegati, sia in versione unipersonale (amministratore delegato) sia collegiale (comitato esecutivo), dell’inadempimento rispondono i delegati.La solidale responsabilità viene meno, altresì, per l’amministratore che, senza ritardo, abbia fatto annotare il proprio dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, sempre che sia immune da colpa e abbia dato immediata notizia per iscritto del suo dissenso al presidente del collegio sindacale.L’azione di responsabilità, comunque, non può essere esercitata se sono trascorsi 5 anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica.L’inadempimento degli amministratori può danneggiare anche i creditori sociali che perseguono la sola finalità della realizzazione del credito. I creditori possono esercitare l’azione di responsabilità di cui è presupposto l’insufficienza del patrimonio per il soddisfacimento del credito.Se la società rinuncia a proporre l’azione di responsabilità, non è impedito ai creditori di esperire la propria.La responsabilità degli amministratori non si esaurisce nel risarcimento del danno alla società ed ai creditori. Essi rispondono, infatti, anche di quelli direttamente arrecati al patrimonio del singolo socio o del singolo terzo. Per converso, se questi soggetti subiscono una lesione mediata, quindi riflessa, vengono meno le premesse per l’esercizio di tale specifica azione.Il singolo socio può esercitare individualmente l’azione di responsabilità quando la condotta o l’omissione degli amministratori, colposa o dolosa, si proietti sul suo patrimonio.

Il collegio sindacale. Il collegio sindacale può essere composto da tre a cinque membri effettivi. I primi sindaci sono nominati con l’atto costitutivo, il presidente dall’assemblea.Almeno un sindaco effettivo ed un supplente devono essere scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituiti presso il Ministero della Giustizia, affinché vengano soddisfatte esigenze di professionalità.I sindaci rimangono in carica per un triennio e non possono essere revocati se non per giusta causa; sono ineleggibili per le stesse ragioni previste per gli amministratori: interdizione, inabilitazione, fallimento o per condanna ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi.I sindaci sono obbligato ad assistere alle riunioni del consiglio di amministrazione, del comitato esecutivo e alle assemblee; possono procedere in qualsiasi momento, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo.Sono, inoltre, tenuti a vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; questo specifico compito valorizza il ruolo svolto per assicurare la legalità all’azione sociale. Coerente con il suo adempimento, è riconosciuto anche il potere di impugnare sia le deliberazioni assembleari sia quelle del consiglio di amministrazione non conformi alla legge e allo statuto.Il collegio sindacale opera nel rispetto delle regole della collegialità decidendo a maggioranza in riunioni che devono tenersi almeno ogni 90 giorni. Ha il potere di denuncia all’autorità giudiziaria se vi è fondato sospetto di gravi irregolarità degli amministratori suscettibili di arrecare danno alla società.

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I sindaci devono adempiere i loro doveri con la diligenza professionale e non più, pertanto, con quella del mandatario: sono responsabili della verità delle loro attestazioni e devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio.Anche i sindaci sono soggetti all’azione di responsabilità promossa dall’assemblea, dai creditori sociali, dai soci che rappresentino le percentuali prescritte non ché dagli organi delle procedure concorsuali ed infine – novità – dal singolo socio o dal singolo terzo.Tenuto conto che il collegio cura i propri compiti anche controllando l’attività degli amministratori, i sindaci rispondono solidalmente con essi per i fatti e le omissioni di questi ultimi quando il danno non si sarebbe prodotto se avessero vigilato (culpa in vigilando).

Denuncia al Tribunale. La legalità dell’attività non è garantita soltanto dall’esercizio di specifici poteri degli amministratori, e in particolare, dei sindaci che lo esercitano all’interno della società; ancor più efficaci quelli a rilevanza esterna poiché determinano l’intervento dell’autorità giudiziaria.I soci che rappresentano il decimo del capitale sociale (il ventesimo del capitale nelle società che fanno ricorso l mercato del capitale di rischio) possono sporgere denuncia al tribunale; la denuncia può essere proposta anche dal pubblico ministero al quale compete la tutela di interessi generali, dunque pubblici, ma ciò soltanto per le società che ricorrono al capitale di rischio.Il “fondato sospetto” deve investire “gravi irregolarità” degli amministratori nella gestione, suscettibili di arrecare danno alla società o ad una o più controllate.Sentiti in camera di consiglio gli amministratori ed i sindaci, lo stesso tribunale può ordinare l’ispezione per accertare se esistono le gravi irregolarità denunciate. La società, tuttavia, può impedire l’ispezione se l’assemblea sostituisce gli amministratori e i sindaci con soggetti di adeguata professionalità, a condizione che essi si attivino senza indugio per accertare se le violazioni sussistono.Il primo tentativo di eliminare le irregolarità è, in tal modo, rimesso alla società, che rimuove gli amministratori ed i sindaci.Il tribunale, preso atto della sostituzione, sospende, per un periodo determinato, il procedimento e si affida all’esito dei riscontri e delle iniziative dei rinnovati organi sociali. Nei casi più gravi, lo stesso tribunale può revocare gli amministratori ed, eventualmente, anche i sindaci, nominando un amministratore giudiziario.

Il controllo contabile. Il controllo contabile sulla società è esercitato da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti nel registro istituito presso il Ministero di Giustizia.Al revisore contabile sono state attribuite le originarie, specifiche competenze del collegio sindacale: i revisori sono tenuti ad adempiere il loro compito con professionale diligenza e sono responsabili, in solido, con gli amministratori la cui condotta abbia arrecato danno alla società; la loro responsabilità è determinata dalla mancata vigilanza.

B) Il sistema dualistico.

Questo sistema si articola nel consiglio di gestione e in quello di sorveglianza; il controllo contabile è affidato a professionalità esterne.La possibilità di avvalersi del sistema dualistico deve essere prevista nello statuto che attribuisce l’amministrazione al consiglio di gestione e il controllo a quello di sorveglianza.

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La nomina degli amministratori che compongono il consiglio di gestione spetta al consiglio di sorveglianza con l’esclusione sia dei primi indicati nell’atto costitutivo sia di quello designato dai possessori, anche dipendenti della società, di strumenti finanziari (se lo statuto lo prevede). Il loro numero complessivo è fissato dallo statuto; la durata dell’incarico non può eccedere tre esercizi.L’azione di responsabilità nei di loro confronti può essere promossa anche dallo stesso consiglio di sorveglianza che può rinunciarla o transigerla purché approvata dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti e sempre che non si oppongano i soci che rappresentano la percentuale di capitale fissata dall’art. 2393.Il consiglio di sorveglianza è formato da almeno tre componenti, anche non soci; la loro nomina, con l’eccezione dei primi indicati dell’atto costitutivo, spetta all’assemblea. Almeno uno di loro deve essere scelto tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero di Giustizia; sono rieleggibili e revocabili dall’assemblea.Se nel corso dell’esercizio vengono a mancare uno o più componenti del consiglio di sorveglianza, l’assemblea provvede senza indugio alla loro sostituzione. Il presidente del consiglio di sorveglianza è eletto dall’assemblea mentre i suoi poteri sono determinati dallo statuto.Il consiglio di sorveglianza: nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione; approva il bilancio; vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul suo concreto funzionamento; esercita l’azione di responsabilità nei confronti dei componenti del consiglio di gestione; propone la denuncia all’autorità giudiziaria.I componenti sono soggetti all’azione di responsabilità promossa solo dall’assemblea.Il sistema dualistico, dunque, permette all’azionariato di atteggiarsi con soluzioni diverse nei confronti della gestione, fino al punto di rimanere completamente estraneo rinunciando alla più significativa delle verifiche: quella relativa ai risultati dell’esercizio riportati dal bilancio.

C) Il sistema monistico.

Anche questo sistema costituisce una novità assoluta. È impostato su un organo unitario formato da un consiglio di amministrazione per la gestione dell’impresa, e da un comitato costituito al suo interno per il controllo su di essa. Il controllo contabile è affidato a professionalità esterne (i revisori): Per i componenti del comitato di controllo non solo è richiesta l’indipendenza, ma anche il requisito dell’onorabilità e della professionalità. La determinazione del numero dei componenti e la loro nomina spetta al consiglio di amministrazione: almeno uno di essi deve essere prescelto tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili.Queste le competenze del comitato di controllo sulla gestione: elegge al suo interno il presidente (a maggioranza assoluta); vigila sull’adeguatezza del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile nonché sulla su idoneità a rappresentare correttamente i fatti gestionali.Al consiglio di amministrazione si applica, nella sostanza, la disciplina che riguarda gli amministratori nel sistema tradizionale. Gli amministratori ai quali è affidata la gestione equivalgono l’organo amministrativo del sistema classico; il comitato di controllo le funzioni, invece, del collegio sindacale.

LE OBBLIGAZIONI

La società per azioni per ottenere finanziamenti può attingere dal mercato non solo offrendo azioni, ma anche documenti definiti titoli obbligazionari.

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L’obbligazionista non mette a disposizione capitali di rischio, bensì un prestito che esige l restituzione con gli interessi, quindi capitali di credito; si avvicinano, così, le posizioni degli obbligazionisti e degli azionisti risparmiatori, disinteressati al governo dell’impresa.Peculiarità essenziale dell’emissione di obbligazioni è la sua unitarietà; questa si trae, innanzitutto, dalla deliberazione relativa al prestito obbligazionario che compete, ora, agli amministratori (e non più all’assemblea straordinaria), salva diversa previsione dello statuto.L’emissione delle obbligazioni incontra il limite del doppio del capitale versato, integrato dalla riserva legale e dalle riserve disponibili.Specifica attenzione meritano le obbligazioni convertibili in azioni per la particolare opportunità che offrono al sottoscrittore; questi è, innanzitutto, quale obbligazionista, un creditore che ha diritto alla restituzione del capitale prestato on gli interessi; gli è, inoltre, concessa la facoltà di convertire questa posizione (di creditore) in quella di socio sia della società emittente sia di altra coinvolta nell’operazione.All’atto dell’emissione viene fissato il rapporto di cambio tra obbligazioni ed azioni che, al momento della restituzione del capitale, se il sottoscrittore opta per la conversione, consente di stabilire il numero delle azioni che gli spettano; l’obbligazionista dismette, quindi, la qualità di creditore (ovviamente il credito non gli viene restituito) ed assume quella di socio. Questa operazione esige che sia deliberato l’aumento del capitale per un importo peri all’ammontare delle obbligazioni.La riforma ha disciplinato anche la conversione, ad iniziativa dell’obbligazionista, dei sui titoli in azioni: nel primo mese di ciascun semestre, gli amministratori della società curano l’emissione delle stesse azioni a beneficio di quegli obbligazionisti che hanno chiesto la conversione, appunto, nel semestre precedente; devono naturalmente essere soddisfatte le conseguenti esigenze di pubblicità legale relativa all’intervenuta modificazione del capitale della società.Poiché con l’emissione delle obbligazioni convertibili si pongono le premesse per la sottoscrizione dell’aumento del capitale, questi titoli devono essere offerti in opzione ai vecchi soci ed ai precedenti possessori di obbligazioni convertibili. Si assicura, in tal modo, l’inalterato mantenimento della partecipazione sociale a chi è già azionista ed a chi può divenirlo.Gli obbligazionisti dispongono di una propria assemblea che nomina e revoca il loro rappresentante comune e delibera sulle modificazioni delle condizioni di prestito. A questa adunanza si applicano le disposizioni sull’assemblea straordinaria dei soci, quindi, anche i relativi quorum. Le deliberazioni possono essere impugnate, se non conformi alla legge, innanzi al tribunale della cui giurisdizione la società ha sede, in contraddittorio del rappresentante comune.Il rappresentante comune (dura in carica per un triennio e può essere rieletto) può essere scelto al di fuori degli obbligazionisti e, se non è nominato dalla loro assemblea, è nominato con decreto del presidente del tribunale su domanda di uno o più obbligazionisti o degli amministratori della società emittente. Non possono essere nominati gli amministratori, i sindaci e i dipendenti della società emittente e tutti coloro per i quali sono fissate le cause di ineleggibilità previste per il collegio sindacale.Il rappresentante comune cura, inoltre, il libro delle adunanze e delle delibere degli obbligazionisti.

LA DOCUMENTAZIONE SOCIALE. I LIBRI OBBLIGATORI. IL BILANCIO.

Documentazione contabile e libri sociali. Oltre i libri e le altre scritture contabili di ogni imprenditore commerciale, la società per azioni deve tenere:

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1. il libro dei soci nel quale devono essere indicati, distintamente per ogni categoria, il numero delle azioni, il cognome e il nome dei titolari di quelle nominative, i trasferimenti e i versamenti eseguiti;

2. il libro delle obbligazioni, che deve indicare l’ammontare delle obbligazioni emesse e quelle estinte, il cognome ed il nome dei titoli delle obbligazioni nominative e i trasferimenti;

3. il libro delle adunanze e delle deliberazioni delle assemblee; del consiglio di amministrazione o del consiglio di gestione; del collegio sindacale o del consiglio di sorveglianza o del comitato per il controllo della gestione; del comitato esecutivo; dell’assemblea degli obbligazionisti se sono state emesse obbligazioni;

4. il libro degli strumenti finanziari.

La ripartizione in esercizi. Le finalità del bilancio. Gli azionisti assumono consapevolezza sul complessivo svolgimento dell’impresa – innanzitutto con riguardo ai risultati – soltanto attraverso il bilancio dell’esercizio (c.d. bilancio ordinario).Il bilancio non soddisfa soltanto l’informazione degli azionisti, ma altresì quella dei creditori ed in genere dei terzi, dunque del mercato: ogni interessato può disporre dei relativi dati.

Articolazione del bilancio e clausole generali. Il bilancio, che è costituito dallo stato patrimoniale, dal conto economico e dalla nota integrativa, deve essere redatto dagli amministratori con chiarezza e deve rappresentare, in modo veritiero e corretto, la situazione patrimoniale e finanziaria della società, nonché il risultato economico dell’esercizio.La situazione patrimoniale, esposta in termini numerici nello stato patrimoniale, rappresenta il complesso delle attività e delle passività, quindi, la consistenza (l’entità) e la composizione (la qualità) del patrimonio sociale (aspetto c.d. statico del bilancio). La situazione finanziaria, anch’essa esposta in termini numerici nello stato patrimoniale, identifica al pari, la consistenza e la composizione delle disponibilità finanziarie, dei mezzi, cioè le partecipazioni, i crediti, i titoli, ecc.Il conto economico riporta i costi e i ricavi; dà modo di conoscere se l’esercizio si è concluso con un risultato positivo, in utile, ovvero negativo, in perdita (c.d. aspetto dinamico del bilancio).Chiarezza, correttezza e rappresentazione veritiera costituiscono qualità essenziali del bilancio, i principi basilari che ne segnano la redazione e che, opportunamente, sono definite clausole generali sulla quali si modellano le molteplici regole particolari. La chiarezza del bilancio deve assicurar la comprensione sia delle diverse voci sia del loro complesso unitario, favorita dalla illustrazione della nota integrativa, attraverso una rappresentazione ordinata e lineare.S’impone, in sostanza, agli amministratori di avvalersi di criteri tecnico-contabili idonei, che tratti dalla scienza che, tratti dalla scienza economico-aziendale, non segnalino incoerenze con le regole poste dal modello legale.

Lo stato patrimoniale. È articolato a colonne contrapposte, con iscrizione a sinistra delle attività e a destra delle passività e del patrimonio netto.L’attivo è articolato per categorie:

crediti verso soci per versamenti ancora dovuti;immobilizzazioni immateriali, materiali, finanziarie, cioè quei beni destinati ad

impiego durevole nello svolgimento dell’attività;attivo circolante, che individua i beni acquisiti grazie allo sviluppo dell’attività e che,

diversamente dalle immobilizzazioni, sono destinati ad essere scambiati con altri beni: rimanenze, crediti, attività finanziarie, disponibilità liquide;

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ratei e risconti: i primi individuano i proventi di competenza dell’esercizio che la società incasserà in quelli successivi; i secondi identificano i costi sopportati durante l’esercizio.

Il passivo dello stato patrimoniale è, al pari, articolato per categorie:

il patrimonio netto formato dal capitale sociale nominale e dalle diverse riserve; è integrato dagli utili dei precedenti esercizi, ovviamente non distribuiti e da quelli dell’esercizio che si è chiuso; è, viceversa, diminuito delle perdite pregresse e di quelle maturate nel corso dell’esercizio;

fondi per rischi ed oneri, cioè accantonamenti tesi a fronteggiare perdite o debiti;D) trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato;E) debiti, suddivisi in obbligazioni, convertibili e debiti verso i soci per finanziamento,

verso banche, verso imprese controllate, collegate, controllanti;F) ratei e risconti.

In calce allo stato patrimoniale devono essere indicati le garanzie prestate, con distinzione tra fideiussioni, avalli, altre personali e reali, nonché i beni di terzi ricevuti, ad esempio, in deposito. Si tratta di rischi, di impegni non attuali ma futuri, che potrebbero esporre la società all’escussione.

Il conto economico. Il conto economico rende conto del risultato economico dell’esercizio (in utile o in perdita) che si trae dal saldo tra i costi e gli oneri sopportati ed i ricavi e i proventi.Anche il conto economico è suddiviso in sezioni:

valore della produzione;costi della produzione;proventi ed oneri finanziari;proventi ed oneri straordinari;

i criteri di valutazione. L’esigenza che il bilancio soddisfi un’informazione oggettiva ed imparziale giustifica il rigore prescritto per le valutazioni che non riguardano i valori certi ma quelli stimati.Per circoscrivere i margini dell’opinabilità, l’art. 2426 fissa rigorosi criteri di valutazione soltanto eccezionalmente derogabili. Ad esempio: le immobilizzazioni devono essere iscritte al costo di acquisto o di produzione; i costi d’impianto e d’ampliamento, di ricerca e di sviluppo e di pubblicità possono essere iscritti all’attivo se hanno utilità pluriennale; i crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione; il costo dei beni fungibili può essere calcolato col metodo della media ponderata o con quelli “primo entrato, primo uscito” (fifo, first in-first out) o “ultimo entrato, primo uscito” (lifo, last in-first out).

Nota integrativa e relazione sulla gestione. La nota integrativa completa il contenuto dello stato patrimoniale e del conto economico per agevolarne la comprensione; fornisce, in altri termini, un’informativa discorsiva ed esplicita delle voci che la situazione patrimoniale ed il conto economico rendono in numeri, imponendo l’illustrazione dei criteri applicati nella valutazione delle voci.

Il procedimento di formazione del bilancio. L’art. 2428 richiede, inoltre, la relazione degli amministratori (relazione sulla gestione), non compresa, però, nella documentazione tipica del bilancio. È tesa ad informare sull’andamento complessivo nei diversi settori di operatività, anche quelli curati attraverso imprese controllate, con specifico riguardo ai costi, ai ricavi e a gli investimenti.

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Il bilancio coinvolge tutti gli organi della società: quello amministrativo che lo predispone, il collegio sindacale ed, ora, anche il responsabile del controllo contabile che sono tenuti a riferire sui risultati dell’esercizio all’assemblea, ovvero al consiglio di sorveglianza che lo approvano.La redazione del bilancio è curata dagli amministratori ai quali è vietato delegarla; con l’approvazione, gli stessi, i direttori generali ed i sindaci non sono liberati da responsabilità.Esaurita la fase a rilevanza interna, entro trenta giorni dall’approvazione, una copia del bilancio deve essere depositata, a cura dell’argano amministrativo, preso l’ufficio del registro delle imprese o ad esso spedita a mezzo di lettera raccomandata.

L’invalidità della deliberazione di approvazione del bilancio. Rilevanti le modifiche apportate in merito alla deliberazione invalida del bilancio, sia che i vizi riguardino il procedimento di formazione della stessa deliberazione sia che, invece, ne interessino il contenuto (cioè il bilancio stesso).L’impugnativa non può essere proposta se è stato approvato il bilancio dell’esercizio successivo: questa previsione persegue l’obiettivo di impedire l’incertezza che colpirebbe una decisione particolarmente importante come quella relativa al documento che attesta i risultati conseguiti dalla società; diversamente, l’accoglimento dell’impugnativa si potrebbe riflettere sui bilanci che seguono, di esercizio in esercizio, quello contestato, accentuando il pericolo dell’incertezza.Se il revisore non ha formulato rilievi sul documento contabile, la sua impugnativa è riconosciuta ai soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale; essa, invece, viene meno se il revisore esprime rilievi.

La distribuzione degli utili. Gli utili distribuibili. Le riserve. La deliberazione di approvazione del bilancio acquista rilevanza decisiva nell’organizzazione della società, poiché la stessa assemblea che lo ha approvato decide sulla distribuzione degli utili ai soci.Si tratta degli utili distribuibili: non tutto l’incremento patrimoniale conseguito nel corso dell’esercizio può, infatti, essere distribuito; si può ripartire quello effettivo, reale, non quello fittizio determinato da sopravvalutazioni dell’attività ovvero da sottovalutazioni delle passività.Occorre rispettare i vincoli di destinazione dell’utile maturato: ne è preclusa l ripartizione fin quando le perdite non siano state reintegrate ovvero il capitale ridotto in misura corrispondente.Se fossero pagati i dividendi in violazione dei limiti posti alla ripartizione, i soci che li avessero riscossi in buona fede non sono tenuti alla restituzione.Gli accordi dividendo. La remunerazione dell’investimento, cioè la distribuzione dell’utile sotto forma di dividendo, costituisce il principale interesse dei soci. Per favorirli, alle società quotate in borsa è accordata la facoltà di anticipare – rispetto al momento dell’approvazione del bilancio – il pagamento del dividendo; vi provvedono, cioè, gli amministratori, sempre che lo statuto preveda tale opportunità.Gli amministratori deliberano la distribuzione degli acconti dividendo sulla base di un prospetto contabile e di una relazione dai quali risulti che la situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società la consente; su questi documenti deve essere acquisito il parere dell’incaricato del controllo contabile.Il prospetto contabile e la connessa relazione devono restare depositati in copia nella sede sociale fino all’approvazione del bilancio dell’esercizio in corso.Anche se al termine dell’esercizio, o successivamente, fosse accertata l’inesistenza degli utili relativi al periodo posto a base del prospetto dell’organo amministrativo, gli acconti percepiti dagli azionisti non sono ripetibili, sempre che riscossi in buona fede.

Il bilancio consolidato. La consapevole informazione degli azionisti, dei creditori e, in genere, del mercato è assicurata anche dalla redazione del bilancio consolidato alla cui

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redazione sono tenute le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata che controllano un’impresa.Il bilancio consolidato permette una rappresentazione della situazione patrimoniale economica e finanziaria di società che formano un gruppo la cui attività è, pertanto, unitariamente finalizzata. La struttura di questo documento è identica a quella del normale bilancio di esercizio: stato patrimoniale, conto economico, nota integrativa e la relazione degli amministratori della capogruppo.Quello consolidato non è la semplice aggregazione dei bilanci delle singole società che appartengono al gruppo, essendo ripresi solamente gli elementi dell’attivo e del passivo non ché i proventi e gli oneri delle società del gruppo stesso.La data di riferimento del bilancio consolidato coincide con quella di chiusura dell’esercizio della controllante.

LE MODIFICAZIONI DELLO STATUTO

La competenza assembleare. Le modificazioni dello statuto devono essere deliberate dall’assemblea straordinaria, col rispetto di specifici quorum: tanti soci che rappresentino più di un terzo del capitale.Questa assemblea, nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, può deliberare il cambiamento dell’oggetto sociale, la trasformazione della società, il suo scioglimento anticipato, la proroga della società, il trasferimento della sede sociale all’estero, l’emissione di azioni privilegiate.

L’omologa della deliberazione. Le deliberazioni relative alle modificazioni dello statuto non sono ora necessariamente assoggettate all’omologazione e, quindi, al controllo della loro legalità da parte del tribunale.Infatti il notaio che redige, nella forma dell’atto pubblico, il verbale della relativa assemblea, deve accertare se sono state adempiute le condizioni di legge: il registro delle imprese, riscontrata la regolarità formale della documentazione, provvede all’iscrizione.Se, viceversa, il notaio rileva il mancato rispetto delle condizioni di legge, ne informa tempestivamente – comunque non oltre 30 giorni – gli amministratori. Questi, nei 30 giorni successivi, possono convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti ovvero ricorrere al tribunale per l’omologazione che, se la concede, ordina l’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese; diversamente, la stessa deliberazione è definitivamente inefficace (art. 2436).La deliberazione non produce effetti, né per i soci né per i terzi, se non dopo l’iscrizione sul registro delle imprese.

Il diritto di recesso. Il socio, se assente, dissenziente o astenuto può recedere, per tutte o per parte delle azioni, in ragione:

della modifica dell’oggetto sociale che comporti un cambiamento significativo dell’attività;

della trasformazione della società: la modificazione, cioè, del tipo. L’azionista, al momento dell’ingresso ha confidato sulle peculiarità essenziali della società che, modificate, ne giustifica l’uscita;

della revoca dello stato di liquidazione;dell’eliminazione di una o più cause di recesso previste dallo statuto o di quelle

relative alla proroga del termine di durata della società ovvero all’introduzione o alla rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari;

della modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni;

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della modificazione dello statuto concernente i diritti di voto o di partecipazione.

Queste cause di recesso sono ineliminabili, dunque imperative.L’azionista si avvale del diritto di recedere comunicandolo con lettera raccomandata che deve spedire entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della deliberazione; deve indicare le proprie generalità nonché il numero e la categoria delle azioni per le quali il recesso è esercitato.Se il fatto che legittima il recesso è diverso da una deliberazione, il diritto deve essere esercitato al socio entro 30 giorni dalla conoscenza del fatto stesso.Per il recedente vige l’obbligo di depositare le azioni presso la sede sociale.Importanti sono le innovazioni che investono i criteri di determinazione della quota di liquidazione dell’azionista che recede che, per le società che non operano sui mercati regolamentati, è determinata dagli amministratori, sentito il collegio sindacale e il revisore; tale valore è definito alla stregua della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni.La quota di liquidazione delle azioni quotate in mercati regolamentati è determinata con esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione.Nuovo ed articolato il procedimento di liquidazione: le azioni del socio che recede devono essere offerte dagli amministratori agli altri azionisti nonché agli obbligazionisti, titolari di obbligazioni convertibili. Per l’esercizio di opzione deve essere concesso un termine non inferiore a 30 giorni.Nell’eventualità di insuccesso, al socio recedente sono rimborsate dalla società le azioni, che le acquista utilizzando riserve disponibili, anche in deroga al limite del decimo del capitale prescritto dall’art. 2357. la finalità è quella di realizzare l’interesse del socio che intende recedere; se, tuttavia, la società non dispone di utili e riserve disponibili, deve essere convocata l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ovvero lo scioglimento.

L’aumento del capitale a pagamento. A tutela dell’integrità del capitale, non si possono emettere nuove azioni fino a che quelle emesse non siano interamente liberate (art. 2438), fin quando, cioè, la società vanta crediti da sottoscrizione nei confronti dei soci.La decisione dell’aumento del capitale può essere delegata all’organo amministrativo.Il capitale sociale può essere aumentato con l’acquisizione di effettiva ricchezza (aumento, appunto, effettivo o reale) ovvero senza incrementi patrimoniali. Nel primo caso l’operazione si realizza con conferimenti ulteriori rispetto a quelli iniziali (c.d. aumento a pagamento); nell’altro con l’imputazione a capitale della parte disponibile delle riserve e dei fondi iscritti in bilancio (c.d. aumento gratuito).La deliberazione di aumento del capitale, sia se adottato dall’assemblea sia se, in delega, dagli amministratori, fissa il termine entro il quale deve intervenire la sottoscrizione dei titoli azionari.

Diritto di opzione e di prelazione. L’aumento del capitale può modificare la posizione del socio; se, ad esempio, prima dell’operazione era titolare del 10% del capitale che viene aumentato da uno a due miliardi, la sua partecipazione si dimezza (dal 10% al 5%); innegabile il sacrificio poiché l’azionista non beneficerebbe, nella misura iniziale, né di diritti patrimoniali né di quelli amministrativi.per impedire tale pregiudizio, nel caso di aumento del capitale, agli azionisti è concesso il diritto di sottoscrivere, in proporzione al numero delle azioni possedute, quelle di nuova emissione (diritto di opzione). Identico diritto gli è riconosciuto in occasione dell’emissione di obbligazioni convertibili in azioni.Per consentirne l’esercizio, il diritto di opzione deve essere offerto – con pubblicazione nel registro delle imprese – agli azionisti, che possono servirsene entro un termine non

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inferiore a 30 giorni dalla tessa pubblicazione, ridotto a 15 giorni per le società quotate in borsa.Se il socio se ne avvale, e le azioni non sono quotate in borsa, beneficia di un’altra opportunità: può chiedere, nel momento in cui esercita il diritto di opzione, di sottoscrivere anche le azioni non optate dagli altri azionisti; gode, cioè, di una prelazione (rispetto ai terzi) sull’inoptato.

Soppressione e limitazione del diritto di opzione. Il diritto di opzione può essere escluso o limitato quando l’interesse sociale lo esige e sempre che la deliberazione di aumento sia approvata da tanti soci che rappresentino oltre la metà del capitale.Gli amministratori devono illustrare, con apposita relazione all’assemblea, le ragioni dell’esclusione o della limitazione.Il diritto di opzione può essere escluso, o limitato, se i titoli sono offerti in sottoscrizione ai dipendenti della società.

L’aumento gratuito del capitale. Il capitale sociale può essere aumentato senza incremento del patrimonio sociale con l’imputazione, appunto, a capitale, delle riserve facoltative e dei fondi costituiti con utili e con saldi attivi di rivalutazione monetaria. In sostanza, si converte a capitale la ricchezza già nella titolarità della società; le azioni emesse in attuazione di questa operazione spettano, gratuitamente (l’aumento di capitale è, infatti, definito gratuito), ai vecchi soci che non devono esercitare il diritto di opzione per acquistarle: gli vengono attribuite in proporzione al numero delle azioni già possedute. Nella pratica, l’aumento del capitale si esegue sia con l’emissione di nuove azioni sia con l’incremento del valore di quelle in circolazione.L’aumento del capitale, di regola, è deciso dalla libera scelta dei soci.

La riduzione del capitale. La riduzione del capitale sociale è rimessa all’autonoma decisione dei soci; è cioè volontaria. In parte è imposta dalla legge (obbligatoria).L’operazione comporta la restituzione agli azionisti (almeno parziale) dei conferimenti, ovvero li libera dall’esecuzione di quelli residui.Significativo l’obbligo di indicare nell’avviso di convocazione dell’assemblea straordinaria le ragioni e le modalità della riduzione.La riduzione del capitale per perdite (art. 2446). Se le perdite intaccano il capitale sociale per un terzo, questo deve essere ridotto.Decisivi sono i compiti, innanzitutto, degli amministratori; questi, o il consiglio di gestione e, nel caso di loro inerzia, il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono convocare l’assemblea straordinaria per gli opportuni provvedimenti.Se entro l’esercizio successivo la perdita non è diminuita a meno di un terzo, l’assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza, che approva il bilancio di tale esercizio, deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate.

L’art. 2447. Quando l’integrità del capitale è lesa in misura no tollerabile, gli amministratori, con tempestività, devono riunire i soci, obbligati, questa volta, a scelte immediate: o assicurano la prosecuzione dell’attività riportando il capitale al minimo legale ovvero trasformano la società in un tipo per il quale è prescritto un capitale minimo inferiore.

I PATRIMONI ED IL FINANZIAMENTO DESTINATI AD UNO SPECIFICO AFFARE

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In conformità dell’art. 2447, la società può:

a) costituire uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinatario in via esclusiva ad uno specifico affare;

b) convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al suo rimborso, totale o parziale, siano destinati i proventi dell’affare stesso ovvero parte di essi.

Il limite della costituzione dei patrimoni separati non può eccedere un valore complessivamente superiore al 10% del patrimonio netto della società.La deliberazione con la quale viene costituito il patrimonio separato deve essere depositata ed iscritta nel registro delle imprese. L’adempimento pubblicitario garantisce la legale conoscenza dei terzi, segnatamente dei creditori della società il cui interesse potrebbe risultare pregiudicato dall’operazione: una parte, infatti, del patrimonio sociale è stata sottratta all’iniziale destinazione, ma innanzitutto alla funzione di garanzia. I creditori sociali, per evitare questo rischio, possono opporsi all’operazione entro due mesi dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese sempre che il loro credito sia insorto anteriormente all’iscrizione stessa.La rilevanza della separazione giustifica che, nei libri sociali, deve essere assicurata pari e autonoma indicazione di dati relativi all’affare; come, del resto, nel bilancio.

LA SOCIETÀ IN ACCOMANDITA PER AZIONI

Società per azioni ed accomandita per azioni sono accomunate dalla suddivisione del capitali in azioni, ma diversificate dall’esistenza di due categorie di soci: gli accomandatari, amministratori di diritto che rispondono solidalmente ed illimitatamente (in via sussidiaria) per le obbligazioni sociali e gli accomandanti, i quali rispondono nei limiti della quota conferita e non possono amministrare la società.La qualità di socio accomandatario e di amministratore sono inscindibilmente connesse; rilevanti, pertanto, le diversità tra gli accomandatari dell’accomandita per azioni e quelli dell’accomandita semplice: il socio accomandatario di quest’ultima non è, infatti, necessariamente amministratore.L’indiscutibile connessione tra la qualità di socio accomandatario e quella di amministratore rappresenta il pregio ed il limite di questa società: il pregio, in considerazione del fatto che è preservata la stabilità nella gestione della società perché, salva la revoca, il socio accomandatario può mantenere la carica di ammini9stratore permanentemente; e il limite, poiché la prospettiva della responsabilità solidale ed illimitata ha notevolmente condizionato il gradimento di questo tipo di società.La revoca degli amministratori deve essere deliberata con le maggioranze previste per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria della società per azioni; nella società per azioni viene, invece, deliberata con le maggioranze proprie dell’assemblea ordinaria. Al pari, con lo stesso quorum viene decisa la sostituzione dell’amministratore (socio

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accomandatario); il nuovo amministratore assume la qualità di socio accomandatario dal momento dell’accettazione della nomina.L’accomandita per azioni si può sciogliere se cessano dall’ufficio tutti gli amministratori e se nel termine di sei mesi non si è provveduto alla loro sostituzione ed i sostituti non hanno accettato la carica.È data la possibilità di articolare il sistema di amministrazione e controllo nella versione dualistica (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza); se i soci hanno optato per tale soluzione, gli amministratori (gli azionisti accomandatari) operano necessariamente nella versione collegiale: quella, appunto, del consiglio di gestione.È precluso, invece, il ricorso al sistema monistico (consiglio di amministrazione nel cui ambito opera il comitato per il controllo sulla gestione), poiché dell’organo amministrativo sono componenti, necessariamente ed esclusivamente, i soci accomandatari che rispondono per le obbligazioni sociali.Secondo l’art. 2459, i soci accomandatari non hanno diritto di voto, per le azioni di cui sono titolari, nelle deliberazioni dell’assemblea relative alla nomina ed alla revoca dei sindaci ovvero dei componenti del consiglio di sorveglianza né in quelle relative all’azione di responsabilità proposta nei loro confronti, quali amministratori.

LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA

In passato, la società a responsabilità limitata veniva disciplinata in modo residuale, cioè alla stregua della società per azioni, a questa rassomigliante ma distinta per due soli caratteri: per il differente importo di capitale minimo necessario per la costituzione della società (10 mila euro in luogo dei 100 mila fissati per la società per azioni) e, poi, per la differente natura del documento rappresentativo della partecipazione sociale: le quote non possono essere rappresentate da azioni, con la conseguenza che mentre l’azionista è titolare di una o più azioni, il socio di una società a responsabilità limitata è titolare di una quota pari ad un determinato ammontare.

I caratteri marcanti. I caratteri marcanti della nuova società sono: 1) la concessione ai soci di una reale autonomia statutaria, quale quella dell’amministrazione della società e quella di scegliere, in alternativa al sistema legale di amministrazione, il sistema di amministrazione previsto per le società di persone; 2) la “personalizzazione” della società, intesa quale valorizzazione del ruolo che la persona del socio ha: si pensi all’ampliamento significativo dei casi di recesso e la possibilità di esclusione; 3) in merito all’organizzazione interna, vi è l’inserzione di elementi personalistici che ridimensionano il ruolo e le funzioni degli amministratori e rende addirittura eventuale l’organo di controllo: viene corposamente ridimensionato il ruolo dell’assemblea, nel senso che la “deliberazione assembleare” non rappresenta più il modo esclusivo di espressione della volontà sociale ma diventa uno dei modi in cui tale volontà può formarsi e viene relegato al rango di organo facoltativo (tranne che in due ipotesi) il collegio sindacale; 4) modificazione della disciplina del capitale sociale.

La fattispecie costitutiva. La costituzione della società avviene mediante una fattispecie a formazione successiva che si compone di due fasi: stipulazione dell’atto costitutivo – per contratto o atto unilaterale – e iscrizione della società nel registro delle imprese.Al compiersi della prima fase, è direttamente collegato l’effetto preliminare della responsabilità illimitata e solidale dei soci che hanno compiuto operazioni sociali prima dell’iscrizione; mentre solo al compimento della seconda fase si produce l’effetto finale voluto, e cioè la nascita della società.

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Stipulato l’atto costitutivo, il notaio rogante deve, entro dieci giorni, depositarlo presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della società.Dunque, la società può nascere da contratto o da atto unilaterale che, in entrambi i casi, viene denominato atto costitutivo; esso deve rivestire, in ogni caso, la forma dell’atto pubblico.L’art. 2463 individua nove elementi che deve contenere:

1. i soggetti, cioè il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza di ciascun socio;

2. la denominazione e sede della società, il Comune di residenza e le eventuali sedi secondarie;

3. l’oggetto sociale, cioè l’attività economica, che deve essere lecita, possibile determinata o determinabile;

4. il capitale sociale, cioè la somma dei conferimenti dei soci valutati in denaro; non può essere di ammontare inferiore a 10 mila euro e deve essere indicato il capitale sottoscritto e versato;

5. i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura: possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica: denaro, beni in natura, crediti e, la novità, i conferimenti d’opera;

6. la quota di partecipazione di ciascun socio, che non possono essere rappresentate da azioni. La proporzionalità tra conferimento e contenuto della partecipazione resta il criterio di riferimento “legale”.La disciplina del trasferimento delle quote risulta solo parzialmente modificata. Viene, innanzitutto, confermata la regola della libera trasferibilità delle partecipazioni sia per atto tra vivi che mortis causa, salva contraria disposizione dell’atto costitutivo. È consentita la previsione della trasferibilità o la sottoposizione del trasferimento al mero parere di organi sociali o di terzi o di soci o, per i soli trasferimenti mortis causa, a condizioni o limitazioni che nel caso concreto impediscono il trasferimento, m in tutti questi casi il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso.La partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro con applicazione dell’art. 2352 dettato per la società per azioni.

7. le norme relative al funzionamento della società;8. le spese per la costituzione, poste a carico della società stessa.

La nullità della società. Rinvio. Identica la disciplina della nullità della società a responsabilità limitata rispetto a quella fissata per la società per azioni.

L’organizzazione interna. La nuova disciplina prevede ancora un’assemblea dei soci, gli amministratori e il collegio sindacale, ma rispetto alla normazione precedente che li equiparava a quelli della società per azioni, tutti e tre gli organi vengono depotenziati e trasformati in organi a competenza limitata, come avviene per l’assemblea dei soci, o in organi a struttura alternativa, come avviene per gli amministratori, o addirittura in organi eventuali, come avviene per il collegio sindacale o il revisore.

Decisioni dei soci e assemblea. L’assemblea perde il primo posto nella scala normativa degli organi, cedendolo agli amministratori, avvicinando così, ancora di più, la società a responsabilità limitata alle società di persone nelle quali la legge disciplina solo gli amministratori.Per delineare il ruolo dell’assemblea, si può dire che:

a) l’assemblea della società non è più la sede esclusiva e naturale per l’adozione delle deliberazioni; né la deliberazione assembleare è più lo strumento

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esclusivo attraverso il quale si manifesta la volontà della società su determinati argomenti che, anzi, essa viene sostituita dalla locuzione “decisione dei soci”;

b) la decisione dei soci costituisce l’alternativa alla deliberazione assembleare, perché viene presa al di fuori del contesto assembleare senza l’adozione del metodo collegiale: è però necessario che lo statuto lo preveda espressamente, ed in particolare, che le decisioni siano adottate o mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto, e cioè al di fuori del contesto assembleare e con l’abbandono del metodo collegiale;

c) quanto alla competenza, i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo e sugli altri argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione e, in ogni caso, sull’approvazione del bilancio e sulla distribuzione degli utili, sulla nomina degli amministratori se prevista nell’atto costitutivo, del collegio sindacale o del revisore. Anche le decisioni dei soci sono prese con il voto favorevole della maggioranza dei votanti che rappresentano almeno la metà del capitale sociale e il voto è proporzionale alla partecipazione;

d) l’adozione del metodo collegiale e, conseguentemente, la necessità di convocare l’assemblea per l’adozione di una deliberazione assembleare come espressione della volontà sociale, è il metodo indicato dal riformatore se l’atto costitutivo non dispone diversamente ed è comunque obbligatoria quando si tratti di modificazioni dell’atto costitutivo o di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti dei soci e quando ne è fatta espressa richiesta da tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale.

L’invalidità delle deliberazioni assembleari. Con l’art. 2479ter, il legislatore ha abbandonato, almeno sul piano formale, ogni distinzione tra deliberazioni nulle e deliberazioni annullabili, adottando il termine “invalidità”.Ecco le tre regole fondamentali:

1. possono essere impugnate dai soci dissenzienti, da ciascun amministratore e dal collegio sindacale entro 90 giorni dalla loro iscrizione nel libro delle decisioni dei soci, sia le delibere non prese in conformità della legge e dell’atto costitutivo, sia, qualora possano recare danno alla società, le delibere prese con il voto determinate del socio che abbia per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con la società;

2. entro 3 anni dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni con oggetto illecito o impossibile, nonché quelle prese in assenza assoluta di informazione;

3. senza limiti di tempo, possono essere impugnate le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite.

Il procedimento per ottenere l’annullamento è quello previsto per la società per azioni dall’art. 2378.Il legislatore si è poi reso conto che la salvaguardia dei diritti dei terzi non poteva essere compiutamente assicurata solo attraverso un’enunciazione di principio: ha previsto, così: a) una sorta di convalida che si attua mediante la sostituzione della delibera impugnata con altra presa in conformità della legge e dell’atto costitutivo; b) ha poi ribadito che l’impugnativa non è proponibile nei confronti delle deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo; c) ha negato la legittimazione dell’impugnativa a chi ha dichiarato il suo assenso allo svolgimento dell’assemblea; d) ha ipotizzato una sorta di sanatoria per la mancata verbalizzazione, disponendo che tale lacuna possa essere colmato redigendo il verbale prima dell’assemblea successiva.

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L’amministrazione e la rappresentanza. Per le s.r.l. è possibile scegliere tra il sistema di amministrazione proprio delle società di capitali e il sistema di amministrazione proprio delle società di persone, per adottare il quale occorre un’espressa previsione statutaria.Le regole sono le seguenti: salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’amministrazione può essere affidata ad uno o più soci: se l’amministrazione è affidata ad una persona, deve ritenersi che si applichi la normativa che sarebbe applicabile all’amministratore unico delle società di capitali, mentre se l’amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione. In alternativa, l’atto costitutivo può adottare uno dei due sistemi previsti dal legislatore per le società di persone, e cioè quello disgiuntivo e quello congiuntivo.È opportuno rilevare un’incongruenza: la legge stabiliva che la redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e di scissione, nonché le decisioni di aumento del capitale, sono di competenza del consiglio di amministrazione. Questa disposizione mal si sarebbe conciliata con le scelte statutarie fra i vari sistemi di amministrazione che i soci possono fare, dal momento che, essendo l’approvazione del bilancio un obbligo annuale, quella del consiglio di amministrazione sarebbe stata una scelta ineludibile. Una “errata corrige” ministeriale ha sostituito la locuzione “consiglio di amministrazione” con quella, più neutra, di “organo amministrativo”.Gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società.

La responsabilità degli amministratori. Non sembrerebbe confermata la triplice responsabilità degli amministratori verso la società, verso i creditori e verso i terzi, bensì solo la prima: gli amministratori sono solidalmente responsabili per l’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, mentre la legittimazione ad agire è concessa a ciascun socio il quale può altresì domandare, sempre che sussistano gravi irregolarità nella gestione della società, la revoca degli amministratori in via cautelare.Per quanto riguarda la responsabilità degli amministratori verso i soci o i terzi, viene ripetuta, con minima variazione, la norma dettata in tema da di società per azioni.

Il conflitto di interessi. Non viene disciplinata solo l’incidenza sulle decisioni del consiglio di amministrazione del conflitto di interessi che gli amministratori hanno con la società per conto proprio o di terzi, ma anche l’incidenza che il conflitto ha sui contratti conclusi dagli amministratori che hanno la rappresentanza della società: è possibile chiedere l’annullamento di tali contratti su domanda della società, a condizione che il conflitto fosse conosciuto o riconoscibile dal terzo.

Il controllo sulla gestione della società. La nomina del collegio sindacale è obbligatoria solo se il capitale è di ammonta è pari o superiore alla cifra minima richiesta per la costituzione della società per azioni.A prescindere dai casi in cui la nomina è obbligatoria, è sempre consentito ai soci prevedere nell’atto costitutivo l’esistenza del collegio sindacale o di un revisore, determinandone competenze e poteri.

Le modificazioni dell’atto costitutivo. Le modificazioni sono deliberate dall’assemblea dei soci, e a cura del notaio verbalizzante che deve verificare l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, deve essere richiesta, entro 30 giorni, l’iscrizione nel registro delle imprese. A differenza di quanto accade per l’atto costitutivo, il notaio, se ritiene non adempiute le condizioni richieste dalla legge, ne dà comunicazione agli amministratori i quali, nei 30 giorni successivi, possono o convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti ovvero chiedere che il tribunale ordini l’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese; e la delibera acquista efficacia solo dopo tale inscrizione.

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La partecipazione sociale, i diritti e gli obblighi dei soci. Proprio nella società a responsabilità limitata salta in modo non contestabile il carattere unitario della partecipazione.In ordine agli obblighi, unico obbligo del socio è quello del conferimento.In ordine ai diritti: tutti i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da essi posseduta e, sempre che l’atto costitutivo non disponga diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale ai conferimenti; l’atto costitutivo può prevedere l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili.In tutti i casi di riduzione del capitale per perdite, è esclusa ogni modificazione delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci.I diritti sono: diritto di intervenire in assemblea, sospeso per il socio moroso; il diritto di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso per le decisioni prese al di fuori del contesto assembleare;il diritto di convertire in denaro e in ogni momento il conferimento effettuato attraverso la stipula di una polizza assicurativa o di una fideiussione bancaria; il diritto di recedere dalla società; il diritto di promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori; il diritto di impugnare le deliberazioni assembleari invalide; il diritto di sottoscrivere l’aumento del capitale mediante nuovi conferimenti; il diritto agli utili e alla quota di liquidazione.

Il capitale sociale e le sue variazioni. Il valore dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del capitale sociale.Le variazioni possono essere in aumento e in diminuzione.L’aumento può essere a pagamento e gratuito.L’aumento c.d. a pagamento, che la legge identifica come aumento del capitale sociale mediante conferimento, deve essere deliberato dall’assemblea. I soci devono versare alla società, all’atto della sottoscrizione, almeno il 25% della quota sottoscritta e l’intero sopraprezzo e il socio unico l’intero corrispettivo in denaro. La procedura si conclude con il deposito per l’iscrizione nel registro delle imprese di un’attestazione che l’aumento del capitale è stato eseguito.L’aumento c.d. gratuito avviene mediante imputazione a capitale delle riserve e degli altri fondi disponibili iscritti in bilancio e in tal caso la quota di partecipazione del socio resta immutata.La riduzione del capitale può trovare la sua fonte nella volontà delle parto o nella legge quando si verifichino perdite.La prima forma – volontaria – può avvenire attraverso due modalità: o mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione dei soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti.La riduzione per perdite deve essere obbligatoriamente adottata quando il capitale sociale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite.In presenza della perdita, la legge prevede due situazioni:

• una prima, nella quale la perdita non ha provocato la discesa del capitale al di sotto del minimo legale, nel qual caso gli amministratori devono convocare senza indugio l’assemblea cui devono sottoporre una situazione patrimoniale della società. La legge dà alla società un anno di grazia per il recupero delle perdite, ma se entro l’esercizio successivo ciò non è avvenuto, l’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate;

• una seconda, nella quale la perdita ha provocato la discesa del capitale al di sotto del minimo legale, nel qual caso l’assemblea, convocata senza indugio dagli amministratori, deve, se vuole evitare lo scioglimento, deliberare la riduzione del

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capitale e la sua reintegrazione ad una cifra non inferiore al minimo legale o, se preferisce, la trasformazione della società in un tipo di società la cui costituzione non esige minimi di capitale sociale.

I finanziamenti dei soci. Sono quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento di difficoltà economica e finanziaria della società.

La cessazione dello status di socio. Per la s.r.l. al recesso si aggiunge oggi l’esclusione, che è modo di cessazione dello status di socio proprio delle società di persone e, in modo particolare, più limitato delle società cooperative.Il recesso, definibile come il negozio unilaterale recettizio con il quale il socio dichiara di voler sciogliere il vincolo che lo lega alla società, può trovare la sua fonte nello statuto e nella legge che, in particolare, amplia il numero dei casi in cui può essere esercitato: trasformazione, cambiamento dell’oggetto sociale, trasferimento della sede all’estero, fusione, scissione, revoca della liquidazione, ecc.Il socio che recede ha diritto ad ottenere il rimborso della propria partecipazione entro 180 giorni dalla comunicazione del recesso dalla società.L’esclusione può essere legale: il socio moroso quando sono falliti i tentativi di vendita della quota; statutaria, se per giusta causa.

LA FINE DELL’IMPRESA SOCIETARIA A BASE CAPITALISTICA

l’estinzione dell’impresa societaria può avvenire:

• o in seguito al compiersi di una fattispecie a formazione successiva che comporta una dissoluzione dell’impresa attraverso la liquidazione e culmina nella cancellazione della società dal registro delle imprese, attraverso la quale aveva assunto la personalità giuridica;

• o in seguito ad altri eventi, rientranti nella fattispecie a formazione istantanea, i quali producono la morte della società senza che occorra un procedimento dissolutorio – una procedura di liquidazione – quali, ad esempio, la fusione e la scissione.

La fattispecie estintiva delle società di capitali. Scioglimento ed estinzione non si identificano, nel senso che l’estinzione non si produce in conseguenza del mero verificarsi della causa di scioglimento, ma solo al compiersi della fattispecie estintiva che, al pari di quella costitutiva, è anch’essa una fattispecie a formazione successiva composta di tre fasi distinte:

1. il verificarsi di una causa di scioglimento;2. il compiersi del procedimento di liquidazione;3. la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Il verificarsi delle cause di scioglimento. Le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata si sciolgono:

a) per il decorso del termine, che ha perduto molto della sua importanza, dal momento che per la società per azioni e in accomandita per azioni si prevede che il termine possa essere omesso, mentre per la società a responsabilità limitata, il termine non è anche incluso tra gli elementi dell’atto costitutivo;

b) per il conseguimento dell’oggetto sociale – il compimento dell’opera – o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo;

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c) per l’impossibilità di funzionamento, che deve essere oggettiva ed assoluta (si pensi alla situazione di stallo che può venire a crearsi in una società il cui capitale sociale sia diviso a metà fra due soci irriducibili nemici) o per la continuata inattività dell’assemblea )mancata convocazione o perdurante assenteismo dei soci);

d) per la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, alternativa alla trasformazione e alla reintegrazione;

e) recesso dell’azionista e del quotista;f) per deliberazione dell’assemblea – c.d. scioglimento anticipato;g) per altre cause previste dallo statuto, dall’atto costitutivo o dalla legge.

Gli effetti. Il verificarsi di una causa di scioglimento non produce l’estinzione della società ma una serie di effetti preliminari e funzionali al momento estintivo, il primo dei quali è l’ingresso della società nella fase di liquidazione con il conseguente mutamento dello scopo della società da lucrativo a liquidativo.Gli accertamenti della causa di scioglimento hanno, dunque, carattere non costitutivo ma dichiarativo: questi accertamenti e l’iscrizione di essi nel registro delle imprese sono, perciò, i primi due effetti scaturenti dal verificarsi della causa di scioglimento.Il terzo effetto si concreta nell’obbligo degli amministratori di convocare l’assemblea dei soci affinché nomini i liquidatori; altrimenti, provvede il tribunale con decreto.Il quarto effetto pure concerne gli amministratori, per i quali non è più ripetuto il divieto di compiere nuove operazioni, ma viene introdotta la più ampia formula in forza della quale essi “conservano il potere di gestire la società, ai soli fini dell’integrità e del valore del patrimonio sociale” e sono personalmente responsabili dei danni arrecati ai soci, ai creditori sociali e ai terzi per atti ed omissioni compiuti violando tale limite.

La liquidazione. Il procedimento di liquidazione inizia con la deliberazione di nomina di uno o più liquidatori, l quale deve fissare anche i criteri di svolgimento, i poteri dei liquidatori e gli atti necessari per la conservazione dell’impresa, ivi compreso l’esercizio provvisorio, in funzione del migliore realizzo.La nomina dei liquidatori provoca la cessazione dalla carica degli amministratori, mentre rimangono in funzione sia l’assemblea (che non può adottare deliberazioni in contrasto con lo scopo della liquidazione), sia gli organi di controllo. Esaurita questa fase iniziale del procedimento, scatta l’obbligo di aggiungere alla denominazione sociale l’indicazione della locuzione “società in liquidazione”.Dopodichè, gli amministratori cessati devono consegnare, redigendo apposito verbale, i libri sociali, una situazione dei conti e una relazione sulla loro gestione relativa l periodo successivo all’ultimo bilancio approvato.

L’attività dei liquidatori e le operazioni di liquidazione. Compito dei liquidatori è certamente un facere, teso a realizzare la funzione stessa del procedimento.Il loro potere è quello di compiere tutti gli atti utili alla liquidazione: ad esempio, vendere in blocco i beni sociali o fare transazioni e compromessi.In merito agli obblighi, devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico.I liquidatori hanno la rappresentanza, anche processuale, della società.La liquidazione inizia con il passaggio delle “consegne” dagli amministratori ai liquidatori e consta di tre gruppi di operazioni: la monetizzazione del patrimonio mobiliare e immobiliare della società, ivi compresa l’esazione dei crediti sociali; la soddisfazione delle passività sociali; la redazione del bilancio finale di liquidazione e la distribuzione, previo apprestamento di apposito piano di riparto, dell’eventuale residuo patrimoniale.Esaurita la liquidazione, i liquidatori devono redigere il bilancio finale di liquidazione, indicando la parte spettante a ciascun socio o azione nella divisione dell’attivo (c.d. piano di riparto).

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Il bilancio finale deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese anche per dar modo, nei tre mesi successivi, ad ogni socio di proporre reclamo davanti al tribunale in contraddittorio con i liquidatori. Solo dopo che è trascorso tale periodo senza che sia stato proposto alcun reclamo, il bilancio si intende approvato con conseguente liberazione dei liquidatori di fronte ai soci.Alla fine del procedimento, il completamento della fattispecie estintiva esige un adempimento ulteriore, e cioè la cancellazione della società dal registro delle imprese, che deve essere chiesta dai liquidatori.

La revoca dello stato di liquidazione. È la possibilità concessa ai soci di far tornare la società alla vita attiva, operando una nuova inversione dello scopo, da liquidativo a lucrativo.La revoca dello stato di liquidazione è, dunque, possibile; trattandosi di modifica dell’atto costitutivo, essa è deliberata dall’assemblea della società con le maggioranze richieste per tali deliberazioni; salvo il consenso preventivo dei creditori sociali, la revoca ha effetto solo dopo due mesi dalla sua iscrizione nel registro delle imprese. Entro il termine di due mesi ciascun creditore può proporre opposizione.

LE SOCIETÀ COOPERATIVE E LE MUTUE ASSICURATRICI

L’art. 2511 stabilisce che le cooperative sono società a capitale variabile con scopo mutualistico. Esse sono caratterizzate da una particolare struttura patrimoniale di carattere non lucrativo. Pertanto, le cooperative si distinguono dalle società ordinarie innanzitutto dal punto di vista funzionale, e poi anche dal punto di vista organizzativo e patrimoniale.

Lo scopo mutualistico. L’intera disciplina delle cooperative ruota attorno a questo fondamentale elemento, che è anche causa del contratto sociale.La riforma ha rafforzato il valore qualificante dello scopo mutualistico ma, ancora una volta, ha preferito non dettarne una definizione.Secondo l’opinione tradizionale e prevalente, lo scopo mutualistico delle cooperative consisterebbe in una reciprocità di prestazioni tra società e soci (c.d. gestione di servizio) che sarebbe assente nello scopo delle società ordinarie. Mentre, infatti, queste ultime debbono conseguire (lucro oggettivo) e ripartire (lucro soggettivo) utili patrimoniali derivanti dall’esercizio di un’attività economica con il mercato, le cooperative debbono invece svolgere la loro attività direttamente con i soci, offrendo ad essi beni, servizi ed occasioni di lavoro a condizioni favorevoli: la cooperativa si sostituirebbe all’intermediario speculatore, eliminandone il profitto che viene ridistribuito ai soci stessi sotto forma di minor costo dei beni e servizi e di maggior remunerazione.

Cooperative a mutualità prevalente e cooperative “diverse”. La riforma ha innanzitutto stabilito cha la possibilità di operare on i terzi non soci debba essere espressamente prevista dall’atto costitutivo; ha poi introdotto una distinzione nuova nel nostro ordinamento: quella tra cooperative a mutualità prevalente (definite come “protette”) e cooperative a mutualità non prevalente (definite come “diverse”).Questa distinzione non influisce sulla unitarietà del fenomeno; piuttosto, evidenzia all’interno dello stesso fenomeno un diverso livello di meritevolezza: le cooperative a mutualità prevalente sono caratterizzate dal fatto di agire prevalentemente con i propri soci e di possedere nello statuto alcune clausole che limitano la partecipazione dei soci agli utili di esercizio e alle riserve accumulate durante la vita della società.Queste le differenze principali:

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a) le cooperative a mutualità prevalente sono dotate di un patrimonio gravato da vincoli di indivisibilità tra i soci, mentre le cooperative “diverse” hanno un patrimonio in larga misura divisibile tra i soci;b) solo le cooperative a mutualità prevalente godranno delle agevolazioni tributarie riservate dalla legge alle imprese mutualistiche; agevolazioni che nel sistema precedente erano concesse a tutte le cooperative purché presentassero nei propri statuti le clausole di non lucratività;c) dal versante opposto, solo le cooperative “diverse”, non avendo una marcata impronta mutualistica come le prime, possono trasformarsi in società lucrative, purché devolvano ai Fondi mutualistici il valore effettivo del patrimonio sociale che eccede il capitale. Con questa regola, il legislatore ha voluto evitare che, dopo la trasformazione, la società possa distribuire ai soci gli utili e le riserve indivisibili accumulate prima della trasformazione.

Le cooperative e lo scopo lucrativo. Le cooperative abbandonano spesso il modello ideale della c.d. mutualità pura, operando largamente con i terzi non soci; assumendo dimensioni che eccedono i bisogni dei soci; aprendosi senza remore al mercato; partecipando, addirittura, a società per azioni e a responsabilità limitata.Quando ciò avviene, le cooperative finiscono inevitabilmente per trascurare lo scopo mutualistico per dedicarsi allo svolgimento di attività economiche del tutto simili a quelle delle imprese ordinarie, e quindi al perseguimento dello scopo di lucro. Questo possibile dualismo di finalità delle cooperative non deve essere oggetto di critiche, perché il nostro ordinamento consente alle cooperative di perseguire anche uno scopo di lucro, purché vengano rispettati alcuni correttivi di natura patrimoniale che non sono imposti alle società ordinarie; correttivi che, nel loro complesso, sono destinati ad incidere prevalentemente sul c.d. lucro soggettivo.Nelle cooperative nessun socio può avere una quota o possedere azioni di valore superiore a 100 mila euro.Il codice e le leggi speciali stabiliscono un sistema particolare di distribuzione e devoluzione degli utili: in tutte le cooperative, almeno il 30% degli utili deve essere innanzitutto destinato alla riserva legale; il 3% corrisposto ai Fondi mutualistici e, dopo questi accantonamenti e prelievi obbligatori, la disciplina si diversifica a seconda che si tratti di cooperative a mutualità prevalente (distribuzione “frugale” dei dividendi, escluse le riserve)) o cooperative “diverse” (più ampia partecipazione a gli utili e riserve, secondo dei limiti stabiliti dallo statuto).Nelle cooperative a mutualità prevalente non è consentita la ripartizione delle riserve tra i soci in caso di scioglimento del singolo rapporto; è però consentito il rimborso del capitale rivalutato e del sovrapprezzo. Invece, nelle cooperative “diverse”, può esservi una liquidazione della quota comprendente il valore delle riserve tra i soci. Per quanto riguarda, infine, lo scioglimento della società, nelle cooperative “protette” il patrimonio eccedente il capitale deve essere devoluto ai Fondi mutualistici; mentre nelle cooperative “diverse” esso può essere ripartito tra i soci.Per evitare la sottocapitalizzazione delle cooperative, derivante soprattutto dai limiti posti ai conferimenti dei soci, la legge ha introdotto una serie di misure che consentono anche a queste società di fare ricorso al risparmio dei soci e dei terzi.

La variabilità del capitale. L’art. 2511 considera la variabilità del capitale come un elemento essenziale della società cooperativa.Variabilità del capitale significa che in esse il capitale sociale può essere aumentato mediante l’accoglimento da parte degli amministratori delle domande di ingresso di nuovi soci, mentre nelle società lucrative l’aumento del capitale (c.d. a pagamento) avviene normalmente attraverso un procedimento di modificazione formale dell’atto costitutivo. Nelle cooperative è così possibile una serie continua ed ininterrotta di conferimenti di nuovi soci, che innalza progressivamente, e quasi inavvertitamente, il livello del capitale

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sociale (si dice che le cooperative siano caratterizzate dalla regola della porta aperta); nelle altre società, i conferimenti avvengono secondo flussi finanziari programmati dagli amministratori e approvati dall’assemblea.Variabilità del capitale nelle cooperative esiste anche per le ampie possibilità di recesso concesse dalla legge e per la possibilità di esclusione dei soci (vicende che, pero, non necessariamente incidono sul capitale sociale).

La restante disciplina organizzativa. È importante accennare a due aspetti molto importanti della vigente regolamentazione delle imprese mutualistiche.

a) codice civile e leggi speciali. Il codice è affiancato da numerose leggi speciali non sempre coerenti tra di loro e non sempre in armonia col codice stesso. Uno dei problemi più spinosi sollevati dalla recente riforma è quello della eventuale abrogazione tacita di norme speciali anteriori alla revisione del codice.Secondo le previsioni della legge delega, la riforma non si sarebbe applicata alle cooperative di credito (banche popolari e banche di credito cooperativo).

b) Cooperative s.p.a. e cooperative s.r.l. La riforma consente oggi che le cooperative possano adottare la forma della società per azioni ovvero, in presenza di alcuni requisiti, quella della società a responsabilità limitata.La scelta del modello organizzativo non influisce sulle caratteristiche funzionali e strutturali: la cooperativa deve comunque perseguire lo scopo mutualistico e deve rispettare le regole della variabilità del capitale.

Ciò premesso, le principali regole organizzative che servono a favorire il raggiungimento dello scopo mutualistico sono le seguenti:

1. i soci delle cooperative debbono possedere determinati requisiti personali, stabiliti dalle leggi speciali o dallo statuto, collegati al tipo di attività che la società deve volgere. È vietata la partecipazione di persone che esercitino imprese in concorrenza con quella della società.

2. per la costituzione della società occorre un numero minimo di soci (la regola generale è che i soci debbano essere almeno nove, salvo che la legge non disponga diversamente).

3. la riforma ha eliminato il precedente regime di responsabilità dei soci, stabilendo che per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.

4. la partecipazione sociale può essere rappresentata da azioni o quote a seconda che la cooperativa scelga il modello della s.p.a. o della s.r.l. È opportuno ricordare che comunque le azioni delle cooperative (tranne quelle delle banche popolari) non sono destinate alla circolazione e non hanno un vero mercato.

5. ulteriore aspetto particolare della disciplina è costituito dalla possibilità di esclusione dei soci: si tratta di una ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale che si colloca accanto al recesso e alla morte del socio.

6. altra importante regola è data dalla uguaglianza dei soci nel diritto di voto, qualunque sia la frazione di capitale posseduta. Tutte le decisioni sociali devono conseguire l’approvazione della maggioranza dei soci cooperatori, e non della maggioranza del capitale. Naturalmente, questa regola scoraggia gli investitori e il legislatore ha dovuto temperarne il rigore favorendo il finanziamento delle imprese mutualistiche attraverso la figura dei “soci finanziatori”. Il risultato è ancora una volta un compromesso: ai soci finanziatori possono essere attribuiti più voti, ma essi non possono prevalere sui soci cooperatori. Il sistema del voto pro capite consente la formazione di maggioranza e minoranze stabili, spesso unite da simpatie ideologiche e politiche, che esprimono consigli di amministrazione omogenei e duraturi.I soci cooperatori persone giuridiche possono avere fino a cinque voti.

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7. i soci devono partecipare personalmente alla vita sociale: la rappresentanza in assemblea è limitata a non più di dieci soci.

8. accanto alle assemblee generali (ordinarie e straordinarie) e alle assemblee speciali dei possessori di strumenti finanziari la riforma ha rinnovato la disciplina delle assemblee separate rendendole facoltative per tutte le cooperative, e obbligatorie quando la società ha più di 300 soci e svolge la sua attività in più province. Le assemblee separate nominano i delegati che voteranno nelle assemblee generali.

9. la riforma ha previsto che l’atto costitutivo debba indicare il sistema di amministrazione adottato. In pratica, se adottano il modello della società per azioni, anche le cooperative possono scegliere tra il sistema c.d. tradizionale, il sistema c.d. dualistico e il sistema c.d. monistico. Se invece le cooperative adottano il modello della s.r.l., la amministrazione potrà modellarsi sull’elastico sistema introdotto dall’art. 2475.

10.per essere adeguatamente interpreti dei bisogni dei soci, i membri del consiglio di amministrazione devono essere in maggioranza soci cooperativi.

Gli altri aspetti della disciplina delle cooperative.

A) Anche nelle cooperative sono possibili modificazioni dell’atto costitutivo; assumono particolare importanza quelle modificazioni che interessano direttamente o indirettamente lo scopo mutualistico, e cioè le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale, i requisiti dei soci, le norme regolamentari sul rapporto mutualistico. Il passaggio dalla prevalenza alla non prevalenza, e viceversa, potrà dipendere da modificazioni dell’atto costitutivo (ad es. dalla eliminazione della clausola di non lucratività) o, indipendentemente da modificazioni statutarie, da meri comportamenti della società ( il mancato rispetto delle clausole statutarie sulla prevalenza e non lucratività.

B) La recente riforma ha consentito la trasformazione delle cooperative “diverse” in società ordinarie, anche di persone, attraverso la devoluzione ai Fondi mutualistici del valore effettivo del patrimonio. Per le cooperative a mutualità prevalente resta in vigore il divieto: esso vuole impedire che attraverso la trasformazione i soci possano utilizzare a fini lucrativi o speculativi le risorse accumulate dalle cooperative anche grazie agli interventi pubblici. Queste risorse non appartengono i soci, ma al movimento cooperativo e devono essere destinate a fini solidaristici. Le eccezioni al divieto sono molto circoscritte, e riguardano le banche popolari e di credito cooperativo.

C) In caso di insolvenza, accanto alla liquidazione coatta amministrativa, il codice prevede espressamente il fallimento, ma solo per le cooperative che hanno per oggetto una attività commerciale. Il concorso tra le due procedure è regolato dal criterio della prevenzione.

D) La riforma ha mantenuto in vita un articolato sistema di controlli pubblici sul movimento cooperativo; la vigilanza è devoluta al Ministero della attività produttive mediante revisione o ispezioni straordinarie, da eseguirsi almeno una volta ogni due anni. Il Ministero, sulla base delle risultanze emerse in sede di vigilanza, può adottare una serie di provvedimenti, che vanno dalla cancellazione dall’Albo nazionale degli enti cooperativi, alla gestione commissariale, allo scioglimento per atto dell’autorità, alla sostituzione dei liquidatori, alla liquidazione coatta amministrativa.

Le mutue assicuratrici. La disciplina delle mutue assicuratrici è restata sostanzialmente immutata. In esse, la compenetrazione del rapporto sociale e del rapporto assicurativo è integrale: non si può acquistare la qualità di socio se non

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assicurandosi presso la società e si perde con l’estinguersi dell’assicurazione, mancando veri e propri conferimenti e capitale sociale.L’atto costitutivo può, però, prevedere “speciali conferimenti” da parte di assicuratori o di terzi attribuendo anche a questi ultimi la qualità di soci sovventori.

LE MODIFICAZIONI DELL’IMPRESA SOCIETARIA

A) LA TRASFORMAZIONE

La riforma contenuta nel d. lgs. n. 6/2003 ha profondamente inciso sull’istituto della trasformazione, la quale non può essere più definita come “il cambiamento del tipo sociale”, e quindi come una mera modificazione dell’atto costitutivo. Questa definizione, infatti, si attaglia alla trasformazione tra società ma non a quelle di società in associazioni, fondazioni, ecc.La trasformazione fra società è anche, e forse soprattutto, l’adozione di un diverso modello di organizzazione dell’impresa-società che, tecnicamente, si attua attraverso una modificazione dell’atto costitutivo.Non si estingue né si crea, di conseguenza, la società che si trasforma.

Le specie di trasformazione. Oltre che sancire la distinzione fra trasformazione omogenea e trasformazione eterogenea, il riformatore disciplina ben quattro specie di trasformazione: a) la trasformazione di società di persone; b) la trasformazione di società di capitali; c) la trasformazione eterogenea da società di capitali; d) la trasformazione eterogenea in società di capitali.Anche se la legge non le regola espressamente, alle specie sopra indicate devono aggiungersi le trasformazioni che possono avvenire all’interno della categoria delle società di persone, all’interno delle società di capitali e all’interno delle società mutualistiche.

I principi generali e il procedimento. Queste sono le regole generali: 1) l’atto di trasformazione è soggetto alla disciplina prevista per il tipo adottato e alle forme di pubblicità relativa; 2) la trasformazione ha effetto dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari disposti; 3) salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai partecipanti, all’ente trasformato e ai terzi danneggiati dalla trasformazione, l’invalidità dell’atto di trasformazione non può essere pronunciata una volta eseguiti i prescritti adempimenti pubblicitari.

La trasformazione di società di persone. La trasformazione di società di persone in società di capitali è decisa con il consenso della maggioranza dei soci secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili, ed il socio che non ha concorso alla decisione può recedere dalla società.La decisione deve inoltre risultare da atto pubblico; deve essere accompagnata da una relazione di stima dalla quale risulti il capitale della società trasformata determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo; deve essere iscritta nel registro delle imprese con le forme proprio dell’atto costitutivo del tipo di società adottato.Il socio ha diritto all’assegnazione di un numero di azioni o di una quota proporzionale alla sua partecipazione.

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L trasformazione di società di capitali. La trasformazione delle società di capitali in società di persone è adottata con deliberazione dell’assemblea con le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto costitutivo e con il consenso dei soci che, in seguito alla trasformazione, assumeranno responsabilità illimitata e risponderanno quindi, anche delle obbligazioni sorte anteriormente alla trasformazione.Ciascun socio ha diritto all’assegnazione di una partecipazione proporzionale al valore della sua quota o delle sue azioni.Le trasformazioni eterogenee. È la trasformazione di società in enti aventi natura giuridica diversa dalle società, e viceversa.La riforma prevede due specie di trasformazione eterogenea: quella da società di capitali e quella in società di capitali, e da questa previsione si desume l’esistenza di un limite: la non applicabilità della trasformazione eterogenea alle società di persone.La trasformazione eterogenea da società di capitali si ha quando una società di capitali (la società per azioni, in accomandita semplice e a responsabilità limitata) si trasforma in consorzi o società consortili o comunioni di azienda o associazioni non riconosciute o fondazioni.La deliberazione deve essere assunta dall’assemblea con il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto, e comunque con il consenso dei soci che assumono responsabilità limitata, e deve essere accompagnata da una relazione degli amministratori che spieghi le motivazioni e gli effetti della trasformazione.La trasformazione eterogenea in società di capitali è quella che si ha quando i consorzi o le società consortili o le comunioni d’azienda o le associazioni riconosciute o le fondazioni si trasformano in una società di capitali.La disciplina del procedimento è assai articolata e muta a seconda dell’ente che decide di trasformarsi in società di capitali.

B) LA FUSIONE

La fusione è da considerarsi come la vicenda giuridica per la quale ad una pluralità di società se ne sostituisce una sola: se questa è una delle società preesistenti, si parla di fusione per incorporazione; se dalla fusione nasce una nuova società, invece, si parla di fusione in senso stretto. La fusione può avvenire tra società perseguenti il medesimo scopo istituzionale – lucrative, mutualistiche, consortili – e tra società perseguenti scopi istituzionali diversi, ed avremo in quest’ultimo caso la c.d. fusione eterogenea.

Il procedimento di fusione. Il procedimento comprende le seguenti fasi: 1) redazione del progetto di fusione, frutto del comune lavoro degli amministratori di tutte le società che partecipano alla fusione, con l’indicazione di una serie di elementi tra i quali il rapporto di cambio in base al quale vanno attribuite le partecipazioni della società incorporante ai soci della società incorporata o, in caso di fusione in senso stretto, della società che risulterà dalla fusione ai soci delle società che si fondano; 2) redazione della situazione patrimoniale delle società partecipanti alla fusione; 3) redazione degli amministratori sul progetto di fusione e sul rapporto di cambio; deliberazione di fusione da parte delle società partecipanti, mediante l’approvazione del relativo progetto; stipulazione dell’atto di fusione, cui si riconosce natura contrattuale: deve rivestire la forma dell’atto pubblico; deve essere depositato per l’iscrizione – non deve essere però omologato – entro 30 giorni presso l’ufficio del registro delle imprese.

Effetti della fusione. L’effetto principale è che, nella fusione in senso stretto la società nuova, e nella fusione per incorporazione la società incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte.

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La fusione ha effetto quando viene eseguita l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione, anche se nella fusione per incorporazione può essere stata stabilita una data diversa.L’iscrizione dell’atto di fusione nel registro delle imprese preclude il diritto a far valere l’invalidità dell’atto stesso, ma non il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci o ai terzi danneggiati dalla fusione

IL PROFILO ORGANIZZATIVO DELL’IMPRESA

GLI ELEMENTI DI IDENTIFICAZIONE DELL’IMPRESA

A) I SEGNI DISTINTIVI

La ditta. Principio di verità e di novità. La ditta è il nome usato dall’imprenditore come segno distintivo necessario nei rapporti inerenti l’esercizio dell’impresa. Essa assolve alla funzione sia di trasparenza, come mezzo di identificazione del soggetto esercente l’impresa, sia concorrenziale, evitando la confusione con imprese svolgenti attività analoghe.Il principio di verità è inteso come la coincidenza del nome figurante nella ditta con quello del titolare dell’impresa. In omaggio a tale principio, non vi sono limiti all’autonomia privata nella possibilità di aggiungervi ogni altra indicazione di fantasia, purché dotata di capacità distintiva, oltre che rispettosa delle regole dell’ordine pubblico e del buon costume e non ingannevole intorno alla natura dell’attività svolta.Il principio di novità, invece, è il principio per il quale quando la ditta è uguale o simile a quella usata da un altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa, essa deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla. Per le imprese commerciali, l’integrazione o la modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore (c.d. principio della priorità dell’iscrizione). Da notare che la ditta non registrata (o registrata successivamente) può prevalere anche sulla ditta (confondibile) registrata in precedenza purché si provi la conoscenza della sua preesistenza di fatto da parte del titolare di quest’ultima (c.d. principio della priorità dell’uso opponibile).

Contenuto e tutela del diritto sulla ditta. Il contenuto del diritto sulla ditta prescelta consiste nella possibilità di inibire ad altri di fare uso della denominazione adottata. Si tratta di un diritto variamente definito (da alcuni come un diritto di proprietà su un bene immateriale, da altri come un diritto della personalità) ma, in ogni caso, dotato del carattere dell’assolutezza, inteso nel senso della sua opponibilità non a qualsiasi consociato, ma agli imprenditori che operino nello stesso mercato concorrenziale, coerentemente al c.d. principio di specialità dei segni distintivi.

Acquisto ed estinzione del diritto sulla ditta. Il diritto sulla ditta si acquista a titolo originario con l’uso di quella particolare denominazione; in ipotesi di eventuale divario tra la ditta registrata (c.d. ditta ufficiale) e quella effettivamente usata (c.d. ditta ufficiosa) è solo quest’ultima a godere di tutela da parte dell’ordinamento, così come è ad essa che bisogna riferirsi per il giudizio di confondibilità.Impropriamente si annovera, tra i modi di acquisto della ditta a titolo originario, anche l’usucapione; accanto a questo, ve ne è anche uno a titolo derivativo, cioè per trasferimento da parte del precedente titolare, purché ciò avvenga in occasione del trasferimento anche dell’azienda.L’acquisto della ditta non consegue, tuttavia, sempre all’acquisto dell’azienda: a tutela dell’interesse morale del vecchio titolare a non vedere il suo nome associato all’attività

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svolta dall’acquirente, la legge condiziona l’acquisto della ditta nei trasferimenti dell’azienda inter vivos ad un espresso consenso dell’alienante, mentre nei trasferimenti mortis causa esso può essere impedito da apposita disposizione testamentaria.Tale disciplina si ritiene applicabile anche al trasferimento del ramo di azienda, inteso come quella parte dell’organizzazione aziendale idonea a riprodurre, in scala ridotta, le caratteristiche dell’azienda originaria.Il diritto all’uso della ditta si estingue per vicenda eguale e contraria a quella del suo sorgere, ossia per la cessazione dell’uso avente però carattere di definitività.

L’insegna: formazione. Novità e originalità. È il segno (emblematico o denominativo) apposto all’ingresso del locale (o dei locali) dove l’imprenditore offre al pubblico i beni o servizi; risponde all’esigenza di distinguere l’esercizio dagli altri concorrenti e di facilitarne la fisica reperibilità.A differenza della ditta, la scelta dell’insegna non è soggetta al principio di verità; essa, pertanto, può essere formata in base a criteri di pura fantasia, con l’esclusivo limite del rispetto dei principi dell’ordine pubblico e del buon costume e dell’obbligo di non trarre in inganno il pubblico sulla natura e attività dell’impresa.Deve essere dotata di originalità ed avere una certa capacità distintiva.

Nascita, trasferimento ed estinzione del diritto sull’insegna. Come per la ditta, è l’uso a segnare il momento di nascita del diritto sull’insegna: esso si manifesta, normalmente, con la fisica apposizione del segno distintivo sul locale in cui l’impresa opera.Il contenuto del diritto sull’insegna consiste nella possibilità del suo uso esclusivo nei confronti degli imprenditori in rapporto di concorrenza prossima. Così, il conflitto tra insegne andrà risolto unicamente in base alla priorità dell’uso.Oltre che a titolo originario mediante la su adozione, il diritto sull’insegna può essere acquisito a titolo derivativo mediante il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo. Tuttavia, attesa la sua sottrazione al principio di verità, l’uso da parte dell’acquirente dell’azienda dell’insegna derivata non è condizionato al consenso del precedente titolare, a meno che l’insegna includa il nome di quest’ultimo.Il diritto sull’insegna si estingue per una vicenda uguale e contraria a quella della sua nascita, ossia per la cessazione dell’uso protratto per un tempo sufficiente a far riacquistare alla denominazione usata il carattere della novità e quindi renderla utilizzabile da altri, oltre che, ovviamente, con la cessazione dell’attività imprenditoriale.

Il marchio. Funzione, tipologia e titolarità. Il marchio tutela l’interesse dell’imprenditore a differenziare non solo la propria persona e la propria attività, ma anche i prodotti o i servizi offerti, rispetto ad altri presenti sul mercato, mediante apposito segno. Ne consegue che il marchio adempie anche ad una funzione pubblicitaria. Esso, però, non si identifica con le caratteristiche tecniche o estetiche del prodotto (c.d. principio della estraneità del marchio al prodotto).Il marchio può essere apposto, oltre che dal fabbricante (c.d. marchio di fabbrica), anche dal rivenditore (c.d. marchio di commercio), purché non sopprima quello di fabbrica eventualmente apposto né usi un segno idoneo a trarre in inganno il pubblico sulla identità del fabbricante o sulle caratteristiche del prodotto. Contraddistingue un servizio offerto al pubblico, invece, il c.d. marchio di servizio.Il marchio di fabbrica può essere speciale, se destinato a contraddistinguere un solo prodotto, o generale, se destinato a contraddistinguere più prodotti dello stesso fabbricante.La disciplina, pur ribadendo il collegamento tra marchio e impresa, non richiede più la necessaria identità tra il titolare del primo ed il titolare della seconda, consentendo di ottenere l’esclusiva per l’uso del marchio anche a chi i pone analoga finalità per impresa pur formalmente appartenente ad altro soggetto del quale abbia il controllo (esempio: il

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marchio di gruppo adottato da una holding per contraddistinguere i prodotti o servizi delle società controllate).Distinto dal marchio di gruppo è il c.d. marchio collettivo, che è il segno distintivo dei prodotti adottato da un ente istituzionale o associativo per la tutela dell’interesse di una categoria di imprenditori cui ne viene concesso l’uso.

I requisiti di validità del marchio. I requisiti di validità del marchio sono la novità, l’originalità (o capacità distintiva), la liceità e la veridicità.Il requisito della novità implica che il segno del quale si chiede la registrazione non deve essere già stato adottato come marchio distintivo di prodotti o servizi identici o affini.Il requisito dell’originalità esclude che il segno possa essere costituito dalla denominazione generica del prodotto o del servizio ovvero da semplici indicazioni descrittive dello stesso.In conformità ad un principio valido per tutti i segni distintivi, il marchio non può essere formato da parole, figure o segni contrari alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume (c.d. liceità del marchio).La veridicità attiene più che al momento iniziale del rilascio, al momento successivo dell’uso, vietando la legge di usare il marchio in modo da trarre in inganno il pubblico circa la natura, la qualità e provenienza dei prodotti o dei servizi.

La registrazione del marchio e il marchio non registrato. Il diritto di esclusiva all’uso del segno distintivo si acquista con la registrazione del marchio su domanda inoltrata all’Ufficio Centrale Brevetti e Marchi, che verificherà la presenza dei requisiti di validità, tranne quelli della novità o del conflitto con altri diritti esclusivi (liceità), la cui tutela è rimessa all’iniziativa degli interessati. Il rilascio del relativo brevetto non vincola il giudice ordinario innanzi al quale venga contestata la validità del marchio.La legge non lascia privo di tutela il marchio non registrato: chi ne abbia fatto uso, può impedire la registrazione di uno simile nel momento in cui il marchio di fatto abbia acquisito notorietà generale.Tuttavia, esiste sempre una differente protezione del marchio non registrato rispetto a quello registrato per quanto concerne i terzi che facciano uso di un segno simile perché, mentre il titolare di un marchio registrato potrà agire con l’azione di contraffazione fondata sulla semplice identità o somiglianza del segno, il titolare del marchio non registrato potrà agire con l’azione di concorrenza sleale.L’esclusiva riconosciuta al marchio registrato dura dieci anni a far data dal deposito della domanda ma, essendo tale registrazione rinnovabile prima della scadenza, essa ha praticamente durata illimitata.

La tutela giudiziale del marchio registrato. La violazione del diritto di esclusiva sul marchio si realizza con la pubblicità o l’immissione sul mercato di un prodotto dello stesso genere, o di genere affine, contrassegnato da un marchio eguale o simile a quello protetto. Non costituisce contraffazione la semplice registrazione del marchio contraffatto non seguita dall’uso.La protezione del marchio si articola, sul piano processuale, in tre tipi di azioni: cautelari, di cognizione ed esecutive. Le azioni cautelari i articolano nella descrizione, nel sequestro e nella inibitoria; le prime due sono misure cautelari reali perché colpiscono le cose, la terza è una misura cautelare personale perché colpisce una persona impedendole la continuazione di un facere.L’azione di contraffazione mira a far dichiarare illecito e conseguentemente a fare interrompere un uso indebito del segno distintivo su cui l’attore vanta l’esclusiva. Legittimati attivamente sono sia il titolare del marchio sia il licenziatario con esclusiva; legittimato passivamente è chiunque violi l’esclusiva e, quindi, sia il produttore del prodotto, sia il licenziatario che violi gli obblighi assunti con il contratto di licenza.Seguono una serie di misure accessorie: la rimozione del segno contraffatto e, laddove ciò non sia materialmente possibile, la loro distruzione; la pubblicazione della sentenza.

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Vi è, infine, il risarcimento del danno: la difficoltà di prova della sua entità ha indotto il legislatore a prevedere una liquidazione equitativa in una somma globale stabilita anche in base a presunzioni.

La circolazione del marchio. Il merchandising. La nuova disciplina consente il trasferimento del marchio anche separatamente all’azienda.Analoga innovazione si registra anche per la licenza d’uso, che oggi può avere luogo anche in via non esclusiva, con conseguente possibilità di uso da parte di più utenti dello stesso segno distintivo.Una particolare forma di licenza d’uso è ravvisabile nel contratto di merchandising in quanto il titolare del marchio concede l’uso ad un altro imprenditore per apporlo su prodotti di natura diversa da quelli per i quali il marchio è stato registrato; ma anche nomi, espressioni, figure ed emblemi.

L’estinzione del marchio. Il diritto all’uso esclusivo del marchio registrato si estingue per rinunzia espressa o per scadenza, in caso di mancato rinnovo della registrazione.L’ordinamento contempla poi una serie di ipotesi di decadenza dal diritto di esclusiva dovute alla successiva perdita dei requisiti originari di validità: perdita dell’originalità, illiceità sopravvenuta.Altra causa di estinzione è il mancato uso protratto per almeno cinque anni.

Le azioni di nullità e di decadenza. La legittimazione a far dichiarare la nullità o la decadenza del marchio spetta a chiunque vi abbia interesse. Legittimato è altresì il pubblico ministero a tutela dell’interesse del mercato a non tollerare posizioni monopolistiche non conformi alla legge.La sentenza che dichiara la nullità ha efficacia erga omnes e non solo tra le parti in causa, ed h effetto retroattivo, travolgendo anche gli atti di disposizione (cessioni, licenze), posti in essere in precedenza sul segno distintivo invalido.È prevista una eccezionale sanatoria del marchio nullo per difetto di novità, stabilendo che la confondibilità di un marchio registrato con un precedente marchio registrato o con un marchio non registrato di notorietà nazionale non può legittimare la dichiarazione di nullità dopo che per cinque anni consecutivi se ne sia fatto pubblico uso. Cosicché si avrà, per uno stesso settore merceologico, la coesistenza di due segni distintivi.

B) I DIRITTI DI PRIVATIVA

Le invenzioni industriali e loro tutela. Si intende per invenzione (bene immateriale) qualunque idea che consente la soluzione di un problema tecnico idonea a soddisfare i bisogni dell’uomo, sia che essa sia dotata di un particolare livello di creatività, sia che costituisca la semplice applicazione di nozioni già acquisite alla comune conoscenza.Le invenzioni possono essere: di procedimento, di prodotto, d’uso.La tutela dell’interesse dell’inventore ad una remunerazione del costo della ricerca può avvenire solo attraverso la concessione del c.d. brevetto, che conferisce al titolare la facoltà di sfruttare, in via esclusiva, l’invenzione. Si tratta di un’esclusiva limitata nel tempo (venti anni dalla domanda di brevetto) e gravata da un onere di attuazione dell’invenzione.

Paternità dell’invenzione e titolarità dell’esclusiva. Laddove l’invenzione è frutto delle energie intellettuali e dei mezzi economici del suo autore, non vi è alcun dubbio che sia questi ad avere i diritti che gli spettano. Ma il fenomeno della ricerca scientifica, che fa capo a vere e proprie organizzazioni imprenditoriali, determina una scissione tra la persona fisica che previene al risultato

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creativo suscettibile di sfruttamento industriale, e il soggetto giuridico che ha sopportato i costi della ricerca. In tali ipotesi (c.d. invenzioni di servizio), mentre il diritto morale d’inventore spetta sempre ovviamente all’autore della invenzione, il diritto al suo sfruttamento economico spetta l soggetto titolare dell’ente che ha organizzato la ricerca.Se, invece, l’invenzione è fatta nell’esecuzione di un contratto di lavoro dipendente, ma senza che l’attività di ricerca formi oggetto dello stesso (c.d. invenzioni aziendali), il diritto allo sfruttamento economico spetta al datore di lavoro mentre all’inventore spetta un “equo premio” proporzionato all’importanza dell’invenzione.

I requisiti per la brevettabilità. L’ordinamento individua i requisiti che l’idea inventiva deve avere per essere brevettabile.Il primo di tali requisiti viene indicato come materialità dell’invenzione, cioè l’attitudine dell’invenzione a realizzarsi in un quid di fisica percezione che possa essere prodotto dall’inventore ed essere immesso sul mercato.Il requisito dell’industrialità significa che l’invenzione, per essere brevettabile, deve concernere un oggetto materiale suscettibile di produzione in serie. Questo significa che l’esclusiva brevettuale non potrà mai concernere un prodotto di produzione artigianale.L’invenzione deve essere altresì nuova, cioè non compresa nello stato della tecnica; ed originale, nel senso che pure per una persona esperta del ramo, essa non risulta un modo evidente dello stato della tecnica.Il livello di originalità dell’invenzione appare attenuato nelle c.d. invenzioni di perfezionamento, che nascono da una modifica ad una precedente invenzione del prodotto consentendo la risoluzione in forma più conveniente del medesimo problema tecnico. Esse presentano un legame di dipendenza dall’invenzione principale per cui, a meno che quest’ultima non sia divenuta di pubblico dominio, non possono essere attuate senza il consenso del titolare del brevetto principale.

La concessione del brevetto e l’invenzione non brevettata. Il brevetto è concesso da un apposito Ufficio su domanda corredata dalla descrizione dell’invenzione effettuata in termini tali da consentirne l’attuazione a qualsiasi persona esperta del ramo, ed ai relativi disegni, e nella quale sia specificato l’oggetto dell’esclusiva richiesta (rivendicazione).L’Ufficio accerta solo la liceità e l’industrialità dell’invenzione, non la sua novità e nemmeno la titolarità al diritto al brevetto da parte del richiedente.Il brevetto dura 20 anni e non è rinnovabile. Esso attribuisce al titolare il diritto esclusivo all’attuazione dell’invenzione ed al suo sfruttamento economico sia con la fabbricazione che con l vendita del prodotto.Il titolare del brevetto può agire contro chi sfrutti abusivamente l’invenzione con l’azione di contraffazione; la relativa sentenza, oltre che inibire la prosecuzione dell’indebita utilizzazione dell’invenzione, può disporre l’eliminazione dal mercato dei prodotti così realizzati, oltre il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, tipici rimedi contro l’illecito concorrenziale.Il diritto di esclusiva è liberamente trasferibile sia inter vivos che mortis causa e può formare oggetto di esecuzione forzata.Il titolare del brevetto può concedere ad altri licenza d’uso in via esclusiva o meno, contro un corrispettivo che può essere anche rappresentato da una percentuale sui prodotti venduti (c.d. royalties) o sugli utili realizzati.

GLI AUSILIARI DELL’IMPRENDITORE

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Ausiliari autonomi e ausiliari subordinati. Si definiscono ausiliari dell’imprenditore i soggetti che contribuiscono, con il loro lavoro, allo svolgimento dell’attività rimanendo, peraltro, estranei agli effetti giuridici della stessa e, normalmente, anche a quelli economici, nel senso che non subiscono l’alea imprenditoriale se non nei casi in cui il corrispettivo del loro lavoro sia costituito in tutto o in parte da una partecipazione agli utili dell’impresa (restando in ogni caso insensibili ad eventuali perdite). Gli ausiliari subordinati sono legati all’impresa da un unico tipo di rapporto giuridico che è quello di lavoro subordinato, mentre gli ausiliari autonomi sono legati all’impresa da svariati tipi di rapporti contrattuali, diversamente denominati e disciplinati in relazione alla diversità della prestazione che ne forma oggetto.

La preposizione institoria. L’institore è colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale, ovvero di una sede secondaria o di un ramo particolare di essa; è un soggetto, cioè, che non è sottoposto a superiori gerarchie nell’ambito della struttura cui è preposto. Da tale posizione deriva l’attribuzione di un potere di rappresentanza dell’imprenditore che abbraccia tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa.È preposto, insieme con l’imprenditore, all’osservanza delle norme relative alla tenuta delle scritture contabili ed alla pubblicità nel registro delle imprese e coinvolto nelle medesime responsabilità penali in caso di fallimento.La qualità di institore non può essere riconosciuta a collaboratori autonomi, anche se muniti di procura generale.La cessazione della preposizione institoria (che non coincide necessariamente con la risoluzione del rapporto subordinato) è soggetta, ai fini della sua opponibilità ai terzi, alla pubblicità nel registro delle imprese: a tale onere devono ritenersi soggette anche le altre cause di estinzione previste dal diritto comune (morte, scadenza del termine, rinuncia).

Il potere rappresentativo dell’institore. Il potere rappresentativo dell’institore si estende a tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, senza alcuna distinzione tra atti di ordinaria o di straordinaria amministrazione, né tra necessità o semplici utilità degli stessi, eccezion fatta per gli atti di alienazione e costituzione di ipoteche sugli immobili. Tale potere di rappresentanza potrà, con atto espresso, essere ampliato, comprendendo non solo gli atti dispositivi di beni immobili, ma anche atti che esorbitano dal concetto di “gestione” dell’impresa. Parimenti, tale potere potrà essere limitato sia originariamente sia successivamente, alvo l’onere della pubblicità per rendere tali limiti opponibili ai terzi.A questo potere di rappresentanza sul piano sostanziale se ne accompagna uno analogo sul piano processuale, per cui i terzi possono sia convenire in giudizio l’institore in luogo del titolare dell’impresa sia essere da lui convenuti “per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa a cui è preposto”.

I procuratori. Sono definiti come coloro i quali, in base ad un rapporto continuativo, hanno il potere di compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad essa.La mancata ottemperanza all’onere della pubblicità comporta, come per l’institore, la presunzione, nei confronti dei terzi di buona fede, della generalità del potere di rappresentanza, restando irrilevante la normale limitazione del potere gestorio interno.Inapplicabile, invece, ai procuratori, deve ritenersi la norma sulla responsabilità dell’imprenditore anche in difetto di spendita del nome, che trova la sua ratio nella posizione di alter ego dell’imprenditore tipica dell’institore.Alla rappresentanza sostanziale del procuratore non si accompagna, come effetto naturale, quella processuale che, a differenza di quanto avviene per l’institore, deve

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essere conferita espressamente per iscritto, salvo il potere di chiedere misure cautelari e compiere atti urgenti.

I commessi. Si tratta di ausiliari subordinati i quali svolgono mansioni prevalentemente esecutive che, però, comportano un’attività giuridicamente rilevante nei rapporti esterni: essi, perciò, hanno un potere di rappresentanza, salve le espresse limitazioni contenute nel conferimento dell’incarico.Per i commessi incaricati di concludere contratti, vige il divieto di derogare alle condizioni generali ed alle clausole prestampate predisposte dall’imprenditore; per i commessi preposti alle vendite, vige il divieto di riscuotere il prezzo delle merci fuori dai locali dell’impresa o negli stessi locali se vi è un’apposita cassa.Tali limiti hanno carattere dispositivo e sono quindi rimovibili con apposita autorizzazione dello stesso imprenditore.

L’AZIENDA

Concetto giuridico e concetto economico. L’art. 2055 definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dell’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Essa si configura come strumento per l’esercizio dell’attività economica organizzata rivolta alla produzione e allo scambio di beni o servizi al cui esercizio l’ordinamento connette la qualifica di imprenditore.Il concetto giuridico di azienda diverge da quello economico. Mentre per la scienza economica fa parte dell’azienda ogni elemento che concorre all’attuazione del programma imprenditoriale, sotto il profilo giuridico fuoriescono dal contenuto dell’azienda i “servizi”, stante il concetto rigoroso di “beni” secondo il codice civile, allusivo ad elementi obiettivi distinti dalla persona umana ed appropriabili da terzi.

La circolazione dell’azienda. Gran parte della disciplina dedicata dal codice all’azienda concerne la circolazione, ossia il trasferimento volontario della sua titolarità per atto tra vivi (anche se il trasferimento può avvenire per mortis causa – stessa disciplina – o per effetto di una espropriazione forzata).Anche se il codice allude ad un trasferimento dell’azienda nel suo complesso, nulla toglie che la vicenda possa riguardare anche un ramo di azienda, cioè una parte della struttura organizzata dotata di autonomia operativa tale da riprodurre, in scala ridotta, il progetto imprenditoriale.Attesa la libertà delle parti di escludere dal trasferimento uno o più beni aziendali, si pone il problema di stabilire dove il suo esercizio non intacchi l’unità aziendale in modo da dar luogo non ad un trasferimento di azienda ma al trasferimento di un semplice insieme di beni non legati da alcun vincolo organizzativo. La distinzione tra le due fattispecie andrà fatta in base ad un criterio oggettivo, nel senso che per avere trasferimento di azienda non è necessario che si attribuisca all’acquirente la disponibilità di tutti i beni aziendali, purché nel complesso trasferito siano inclusi tutti i beni essenziali per la realizzazione del programma aziendale originario idonei a mantenere inalterata la natura e la qualità dei beni e/o servizi offerti sul mercato.In base al criterio della buona fede, l’alienante sarà tenuto a consegnare anche tutta la documentazione aziendale e le scritture contabili così come a comunicare ogni dato utile per la continuazione dell’attività (segreti di fabbrica, know-how, ecc.)Forma e pubblicità del trasferimento. Salvo che la natura del contratto con il quale si trasferisce l’azienda (es. donazione) o la natura dei beni che ne fanno parte (es. beni immobili) impongano già di per sé l’adozione di una forma a pena di nullità, il codice richiede, ai soli fini di prova, l’uso della forma scritta: tale onere si colora più

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specificatamente, con l’imposizione del ricorso alla scrittura privata autenticata o all’atto pubblico, al solo fine di ottemperare all’onere di pubblicità del trasferimento nel registro delle imprese.L’ottemperanza serve a rendere opponibile l’acquisto ad altri acquirenti della stessa azienda o di beni aziendali, anche se di data anteriore; nonché ad imputare all’acquirente l’attività svolta successivamente, restando altrimenti l’alienante responsabile per i debiti contratti dal nuovo titolare nei confronti dei terzi di buona fede, in base al c.d. principio dell’apparenza.L’art. 2557 stabilisce, poi, a carico dell’alienante un’azienda commerciale, l’obbligo di astenersi, per un periodo massimo di 5 anni (riducibili in base a clausola pattizia) dall’iniziare una nuova impresa che, per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze, sia idonea a sviare la clientela dall’azienda ceduta.

La successione nei rapporti contrattuali. L’art. 2558 prevede che al trasferimento dell’azienda si accompagni la successione dell’acquirente “nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa”.È riconosciuta la possibilità, al terzo contraente, di “recedere” dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, risultante dalla pubblicità legale o di fatto della cessione dell’azienda, laddove ricorra una giusta causa, consistente o in carenze nelle qualità dell’acquirente o nella scarsa consistenza del suo patrimonio extraziendale rispetto a quello dell’alienante.Tale recesso non comporta lo scioglimento del contratto ma soltanto e impedisce il trasferimento: trova così spiegazione la permanenza della responsabilità dell’alienante per la sua esecuzione.L’art. 2558 esclude dalla successione i contratti aventi “carattere personale”.

Il trasferimento dei crediti. A differenza di quanto previsto per i contratti in corso di esecuzione, la legge nulla dispone circa il trasferimento all’acquirente dell’azienda dei crediti facenti capo all’alienante, lasciando alle parti di regolarne le sorti in sede di stipula dell’accordo di cessione. Se nulla questo dispone, allora deve ritenersi che passino all’acquirente i crediti scaturenti dai c.d. contratti d’azienda in quanto aventi per oggetto l’apporto di beni strumentali alle funzionalità del complesso.

L’usufrutto di azienda. Anche l’azienda può essere data in godimento temporaneo, gravando sull’usufruttuario l’obbligo (e non la mera facoltà) di continuare la gestione dell’impresa, di rispettarne la destinazione impressa precludendo, quindi, un cambiamento qualitativo dell’azienda.L’usufruttuario deve garantire la conservazione del valore di avviamento, dell’efficienza dell’organizzazione e degli impianti (senza tuttavia un obbligo di ulteriori investimenti) e delle normali dotazioni di scorte atte a garantire la possibilità di far fronte alla domanda del mercato.Anche l’usufruttuario beneficia della successione nei rapporti contrattuali in corso di esecuzione e della norma sulla pubblicità globale della cessione dei crediti, mentre non è gravato dall’accollo ex lege dei debiti risultanti dalle scritture contabili obbligatorie.Limitatamente alla durata del rapporto, il concedente è gravato dall’obbligo di non concorrenza (tale obbligo graverà anche sull’usufruttuario al termine dell’usufrutto).

L’ATTIVITÀ D’IMPRESA E IL MERCATO

A) LA CONCORRENZA

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Il principio di libertà di concorrenza. Tale principio sancisce l’assenza di impedimenti alla conquista del mercato con gli strumenti che, in un sistema di c.d. concorrenza perfetta, dovrebbero essere i soli ad assicurare il successo o l’insuccesso della singola impresa, quali la qualità del prodotto offerto e/o il prezzo praticato.Può subire delle limitazioni sia di carattere legale che convenzionale.

Le limitazioni legali. Sono quelle limitazioni a carattere legislativo che precludono ai privati l’accesso a determinati settori di mercato, riservati allo Stato o ad altri enti pubblici, ovvero ne filtrano l’accesso subordinandolo ad autorizzazioni amministrative: ciò si verifica tutte le volte che siano in gioco interessi più generali della collettività.I pericoli che, per gli utenti del bene o del servizio, possono derivare dalla situazione di esclusiva legale sono scongiurati dal disposto dell’art. 2597 che impone a carico del monopolista legale:

un obbligo di contrarre con chiunque faccia richiesta del bene o del servizio offerto, sempre nel limite delle risorse dell’impresa;

un obbligo di osservare la parità di trattamento tra tutti gli utenti, che si realizza in base a condizioni generali di contratto rese note al pubblico ed autorizzate o stabilite dall’autorità concedente. Tale parità non esclude trattamenti differenziati, se previsti dalle predette condizioni generali di contratto.

Le limitazioni convenzionali. L’autonomia privata può, in varia misura, limitare convenzionalmente la possibilità di attività concorrenziale, con il limite di salvaguardare comunque, per la parte obbligata, la possibilità di svolgere un’attività imprenditoriale.Ciò può avvenire attraverso i cc.dd. patti autonomi di non concorrenza, che possono contemplare restrizioni sia a carico di una sola delle parti (unilaterali), con o senza corrispettivo, sia reciproche (c.d. cartelli); oppure attraverso i cc.dd. patti accessori di non concorrenza, costituiti da accordi inseriti quale clausola di altri contratti aventi un diverso oggetto, potendo così intercorrere tra imprenditori che siano in diretta concorrenza tra loro (restrizioni orizzontali), o che svolgono attività diverse ma in rapporto di integrazione nella catena del processo produttivo e distributivo (restrizioni verticali). Parimenti, essi possono comportare obblighi unilaterali o bilaterali.

La disciplina antitrust. Rapporti con la disciplina comunitaria. Con la l. n. 287/1990 (c.d. legge antitrust) si è finalmente introdotta una disciplina antimonopolistica. Essa sacrifica la libertà di iniziativa economica dei singoli laddove questa si pone in contraddizione con la libertà di iniziativa economica degli altri operatori attuali o potenziali, pregiudicandone l’accesso o la permanenza sul mercato.Tale disciplina presenta una stretta derivazione dalla disciplina comunitaria: l’art. 1 stabilisce che la legge non si applica alle fattispecie che ricadono nell’ambito del Trattato, dei regolamenti ed atti equiparati (sistema della c.d. barriera unica).Se è già iniziato un procedimento in sede comunitaria, l’Autorità italiana sospende l’istruttoria indipendentemente da una propria valutazione intorno alla competenza, salvo che per gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza nazionale. In caso contrario, l’Autorità italiana valuta se il caso sottoposto al suo esame rientri o meno nell’ambito di applicazione della legge antitrust.

L’Autorità garante. Il controllo sull’osservanza dei divieti contenuti nella legge è stato affidato ad un organismo amministrativo collocato in posizione di assoluta indipendenza dal potere esecutivo, nominato dai presidenti delle camere.

Le fattispecie vietate:

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a) le intese. Sono quelle che hanno per oggetto o effetto di impedire, restringere e falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante. Sono tali: gli accordi di fissazione del prezzo; gli accordi di limitazione della produzione; gli accordi di ripartizione del mercato; di cooperazione industriale; di specializzazione, ecc.b) l’abuso di posizione dominante. È tale quella che consente all’impresa di ricavare profitti sovra competitivi grazie ad una posizione sul mercato che la pone al riparo dai rischi della concorrenza. La sua individuazione in concreto avviene mediante il ricorso ad indici non solo quantitativi, ossia relativi alle quote percentuali di mercato controllate (in genere tra il 55 ed il 70 per cento), ma anche qualitativi, quali l’esistenza di “barriere” di tipo amministrativo per l’ingresso nel mercato di riferimento non facilmente superabili.Sono tali: l’applicazione di prezzi o condizioni contrattuali gravosi; il rifiuto di contrarre con chi ne faccia richiesta; l’applicazione di condizioni diverse per prestazioni equivalenti.c) le concentrazioni. Sono quelle che comportano la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza.Sono tali: le fusioni, con riduzione dei soggetti operanti sul mercato e quindi della competizione concorrenziale; la cessione del controllo; la formazione di un’impresa comune, ecc.

L’intervento dell’Autorità garante e dell’Autorità giudiziaria. La legge n. 287/1990 prevede due distinti procedimenti innanzi all’Autorità garante:

1. per le intese e gli abusi di posizione dominante. Inizia con una verifica preliminare attivata a seguito di notizia, comunque pervenuta all’Autorità, circa l’esistenza di una intesa vietata e dell’abuso di posizione dominante. Laddove da questa indagine preliminare risulti una probabile infrazione, si apre una vera e propria istruttoria, caratterizzata dalla garanzia del contraddittorio e dal potere dell’Autorità di chiedere informazioni e documenti così come di disporre ispezioni e perizie. Il procedimento si chiude con una decisione che, laddove accerti l’infrazione contestata, diffida l’impresa interessata alla eliminazione di questa, oltre a disporre, nei casi più gravi, sanzioni pecuniarie;

2. per le concentrazioni. Si caratterizza, rispetto al precedente, anzitutto per la inevitabilità della verifica preliminare; ma anche dalla fissazione di un termine di durata (30 giorni) alla verifica preliminare, scaduto il quale ove l’Autorità ritenga l’operazione “suscettibile di essere vietata”, si apre l’istruttoria, anch’essa soggetta ad una precisa scadenza. All’esito, se l’Autorità accerta che la concentrazione ha carattere lesivo della concorrenza, assume le seguenti decisioni: se l’operazione non è stata realizzata, ne vieta l’esecuzione; se l’operazione è stata realizzata, prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva, eliminando gli effetti distortivi (c.d. misure di deconcentrazione).

La repressione della concorrenza sleale. La disciplina della concorrenza sleale non rappresenta una limitazione, bensì un rafforzamento della libera concorrenza, trattandosi di un sistema di regole che mira a tutelare l’interesse della categoria imprenditoriale a vedere assicurata la prevalenza, nella conquista delle zone di mercato, dell’impresa più efficiente.La disciplina repressiva della concorrenza sleale è contenuta nell’art. 2598 c.c.

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I soggetti dell’atto di concorrenza sleale. Nonostante l’art. 2598 inibisca a “chiunque” il compimento degli atti vietati, non vi è dubbio che la norma abbia come destinatari soggetti che rivestono la qualità di imprenditori e che si trovino in rapporto di concorrenza: non ha alcun rilevo il carattere pubblico o privato del soggetto imprenditore, purché si tratti di attività esercitata in regime di concorrenza prossima, ossia intercorrente tra due soggetti che si rivolgono allo stesso mercato.La responsabilità dell’imprenditore è coinvolta non solo dagli atti di concorrenza sleale compiuti materialmente da lui, ma anche da quelli compiuti da altri soggetti nel suo interesse.Si ritiene possibile applicare, analogicamente, la disciplina della concorrenza sleale ai rapporti tra soggetti esercenti l medesima attività economica, anche se non qualificabili come imprenditori (esempio, liberi professionisti).

Gli atti di concorrenza sleale. L’atto qualificabile come di concorrenza sleale è vietato nella su oggettiva idoneità a danneggiare l’impresa concorrente, indipendentemente da ogni profilo di consapevolezza o di intenzionalità nell’autore.L’art. 2598 premette l’indicazione di due comportamenti tipici vietati che individua:

a) negli atti di confusione con i prodotti o con l’attività del concorrente (l’uso di nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri, imitazione dei prodotti di un concorrente);

b) negli atti di denigrazione o di appropriazione dei pregi di un concorrente (diffondere notizie sui prodotti o attività di un concorrente idonei a determinare il discredito, atti di vanteria, ecc.)

e chiude con una clausola generale, atta ad individuare e reprimere tutti i possibili comportamenti contrari alla regola della lealtà della concorrenza, vietando il compimento di atti con conformi ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’altrui azienda (boicottaggio, ribasso irregolare dei prezzi, sottrazione di segreti imprenditoriali, pubblicità menzognera).

La tutela giurisdizionale contro gli atti di concorrenza sleale. Colui che si ritiene leso ha diritto di ottenere, anche eventualmente in via cautelativa di urgenza, previo accertamento della slealtà del comportamento denunciato, sia un provvedimento (c.d. rimedio inibitorio) che inibisca la continuazione dello stesso, sia un provvedimento (c.d. rimedio restitutorio) che, nei limiti del possibile, ne cancelli le conseguenze (art. 2599).L’art. 2600 contempla anche il diritto al risarcimento dei danni “se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa”, prevedendosi una presunzione (relativa) di colpa nell’atto di concorrenza sleale. A carico dell’attore resta quindi solo l’onere della prova di un danno effettivo. Ricorrendo la colposità (presunta) del comportamento può essere altresì disposta la pubblicazione, su uno o più quotidiani, della sentenza: si tratta di un provvedimento discrezionale che, portando a conoscenza del pubblico l’illecito concorrenziale compiuto, svolge una funzione sia riparatrice dell’eventuale pregiudizio subito dal concorrente leso che preventiva rispetto al suo perpetuarsi, pur prescindendo dalla individuazione e quantificazione di un danno effettivo.

B) LA PUBBLICITÀ

L’autodisciplina pubblicitaria. Stante la carenza di una disciplina positiva, le associazioni di categoria interessate hanno assunto l’iniziativa di dare luogo ad una sorta di ordinamento privato, di origine volontaria, mirante a disciplinare l’intero fenomeno pubblicitario: è nato, così, il codice di autodisciplina pubblicitaria, con la

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previsione di particolari organi (il c.d. Giurì ed il Comitato di controllo) ai quali si può rivolgere chiunque si ritenga concretamente leso da un messaggio pubblicitario in contrasto con il codice.Il meccanismo per rendere vincolanti queste regole autodisciplinari è rappresentato:

a) dall’impegno assunto dalle associazioni di categoria interessate di adottare e rispettare il codice e farlo adottare, mediante apposita clausola, dalle varie imprese aderenti;

b) dall’obbligo, a carico di tutte le imprese pubblicitarie aderenti, di inserire nei contratti di pubblicità stipulati con le imprese utenti una clausola di accettazione del codice.

Il principio posto a base di tali regole si sostanzia nella lealtà pubblicitaria (art. 1); vengono poi individuati: il divieto di pubblicità ingannevole, l’obbligo di rendere riconoscibile la pubblicità e di rispettare la personalità e la sensibilità dei destinatari della stessa. Nel procedimento innanzi al Giurì, vige il principio dell’inversione dell’onere della prova, per cui non è chi si duole della falsità del messaggio che deve provare la fondatezza della sua accusa, ma il convenuto che deve provarne la infondatezza.Il sistema del codice di autodisciplina manifesta, però, i suoi limiti rappresentato, da un lato, dalla sua applicabilità solo alle imprese aderenti ed agli utenti di pubblicità che abbiano sottoscritto le c.d. “clausole di accettazione”, dall’altro, dalla valenza puramente “morale” delle decisioni del Giurì.

I requisiti del messaggio pubblicitario e la sua portata pregiudizievole. L’art. 1 d. lgs. n. 92/1974 enuncia tre requisiti fondamentali che deve rivestire il messaggio pubblicitario, stabilendo che la pubblicità deve essere palese (riconoscibile), veritiera e corretta.La censurabilità del messaggio non è basata solo sulla sua oggettiva ingannevolezza, che prescinde dal dolo e dalla colpa dell’emittente, ma sul potenziale pregiudizio che esso può arrecare, pregiudizio diversamente individuato dalla legge a seconda che si tratti dei clienti o dei concorrenti.Nel primo caso il pregiudizio è determinato dalla potenziale incidenza del messaggio ingannevole sulla scelta del prodotto o del servizio, indipendentemente dalla circostanza che tale scelta si sia effettivamente concretizzata con la conclusione di un contratto, mentre nel secondo caso è dato dal potenziale sviamento della clientela.

Pubblicità ingannevole e rimedi. Il legislatore ha costruito la pubblicità ingannevole come un illecito unitario che assorbe e comprende in sé sia la lesione degli interessi dei concorrenti sia quella degli interessi dei consumatori e del pubblico in genere.La legge n. 74/1992 attribuisce all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, istituita con la legge antitrust, il potere di intervenire nei confronti dell’autore del messaggio su istanza sia dei concorrenti che dei consumatori o loro organismi associativi.L’Autorità può intervenire sia con provvedimenti d’urgenza sia con provvedimenti di carattere definitivo. Accanto a questi rimedi inibitori, l’Autorità può concedere rimedi di carattere restitutorio, quali la pubblicazione della decisione che dichiara ingannevole il messaggio. La mancata ottemperanza ai provvedimenti dell’Autorità è punita con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a cinque milioni.Manca, però, la possibilità di ottenere dall’Autorità garante provvedimenti di carattere risarcitorio, per i quali dovrà farsi ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria da parte sia dei concorrenti, in base alle norme sulla concorrenza sleale, sia dei consumatori, in base alle norme sull’illecito aquiliano ex art. 2043, e da parte di entrambi in base alle norme sulla responsabilità precontrattuale nei confronti dell’immediato fornitore.

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Contro i provvedimenti definitivi dell’Autorità garante può ricorrersi al giudice amministrativo.

FORME DI INTEGRAZIONE FRA IMPRESE

I GRUPPI DI IMPRESE

L’assunzione di partecipazioni in altre imprese, in linea di principio, non è vietata alle società. Tuttavia, la legge tende a regolare e limitare questo fenomeno soprattutto quando la partecipazione riguardi società quotate, o quando la partecipazione determini “concentrazioni” regolate dalla disciplina della concorrenza.L’art. 2361 stabilisce che l’assunzione di partecipazioni in altre imprese, anche se prevista genericamente nello statuto, non è consentita se per la misura e per l’oggetto

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della partecipazione ne risulti sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato dallo statuto.

Le nozioni di controllo e di collegamento. Nell’ordinamento giuridico italiano manca una disciplina generale del gruppo di società. Il codice civile contiene solo le nozioni di “controllo” e di “collegamento”.In merito al controllo, l’art. 2359 comma 1 stabilisce che “sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabile nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”.Dunque, in sostanza, “controllo” è sinonimo di influenza dominante: che altro non è che il potere di una società di imporre le proprie decisioni ad un’altra società.Per quanto riguarda il collegamento, l’art. 2359 comma 3 stabilisce che “sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole, cioè quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

Disciplina del bilancio di esercizio. Bilancio consolidato. È la disciplina del bilancio il settore in cui più ampiamente si dispiega la rilevanza giuridica del controllo e del collegamento. L’obiettivo è quello di rendere al massimo trasparenti i rapporti giuridici intercorrenti fra società collegate e controllate.È per questo che nello stato patrimoniale devono essere indicate separatamente le partecipazioni in imprese controllate, collegate o controllanti; regola analoga vale per i crediti e per i debiti verso le stesse.Correlativamente, nel conto economico, i “proventi da partecipazioni” devono indicare separatamente quelli relativi ad imprese controllate e collegate.Non è tutto. La nota integrativa deve indicare l’ “elenco delle partecipazioni” in imprese controllate e collegate, specificando, per ciascuna partecipazione, la sede, il capitale, l’importo del patrimonio netto, l’utile o la perdita dell’ultimo esercizio.Alla disciplina fin qui esposta si aggiunge quella, non meno complessa, del bilancio consolidato, che deve essere redatto col metodo integrale. ciò implica la ripresa integrale degli elementi dell’attivo e del passivo, dei proventi e degli oneri delle imprese incluse nel consolidamento. È redatto dagli amministratori dell’impresa controllante nel rispetto dei principi generali che sovrintendono la redazione del bilancio d’esercizio: è anch’esso costituito da uno stato patrimoniale, da un conto economico e da una nota integrativa ed è accompagnato da una relazione sulla gestione; è sottoposto al controllo degli organi o dei soggetti cui è attribuito per legge quello sul bilancio di esercizio dell’impresa controllante. A parere dei più, non deve essere approvato dall’assemblea; infine, il consolidamento non ha rilevanza fiscale.

Dal controllo al gruppo. La disciplina. Secondo l’opinione prevalente, controllo e gruppo sono fenomeni fra loro contigui ma concettualmente differenti. Si ritiene che il controllo rappresenti condizione necessaria, ma non sufficiente, per aversi un gruppo, il quale sarebbe caratterizzato dalla presenza dell’ulteriore presupposto della c.d. direzione unitaria.Le nuove norme sui gruppi introdotte con la riforma delle società (d. lgs. n. 6/2003) non menziona mai…i gruppi stessi. Il legislatore delegato ha preferito disciplinare direttamente l’attività di direzione e coordinamento delle società, esercitata all’interno dei gruppi; attività necessaria per realizzare le finalità del gruppo, ma dal cui esercizio non corretto porrono derivare danni alle società controllate, agli azionisti e ai creditori di queste, quando il perseguimento dell’interesse del gruppo comporti sacrifici per le società che ne fanno parte, o i loro soci e creditori.

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L’azione di responsabilità. L’art. 2497 introduce una azione di responsabilità quasi certamente extracontrattuale a favore dei soci e dei creditori delle società sottoposte ad attività di direzione e controllo. l’azione è diretta con la conseguenza che il risarcimento del danno spetta direttamente al socio o al creditore e non alla società.Direzione e controllo di per sé non possono essere fonte di responsabilità quando abbiano un titolo giuridico che li giustifichi (esercizio di poteri di maggioranza; esercizio di poteri contrattuali, ecc.) e vengano esercitati in conformità alle prerogative che la legge riconosce in tali situazioni, anche al di fuori dei gruppi, all’azionista di maggioranza o al partner contrattuale forte, ecc.

Diritto di recesso. Sono previste, in favore del socio di società assoggettata a direzione e controllo, ipotesi specifiche di recesso: a) quando la società che esercita la direzione si trasforma mutando il suo scopo sociale; b) quando ottenga sentenza definitiva di condanna verso chi esercita attività di direzione.

IL FINANZIAMENTO DELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA

GLI STRUMENTI

La fonte del finanziamento. Anche un’impresa sana può avere bisogno di ricorrere a finanziamento diverso da quello costituito da mezzo propri.Il finanziamento dell’impresa è l’insieme di operazioni tramite le quali l’impresa acquisisce quei mezzi finanziari necessari allo svolgimento della sua attività.A seconda della fonte dalla quale l’imprenditore attinge i fondi, si potrà parlare di autofinanziamento se tali fondi provengono dall’interno dell’impresa, di eterofinanziamento se provengono da fonti esterne all’impresa stessa, e cioè da terzi.L’autofinanziamento, che in generale è rappresentato dai capitali di rischio apportati dall’imprenditore – i cc.dd. mezzi propri – e che nell’impresa individuale non può che consistere nel reinvestimento del guadagno ottenuto dall’imprenditore medesimo, può essere costituito:

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a) dagli iniziali conferimenti dei soci; b) dalle operazioni sul capitale sociale, che si concretano essenzialmente

dell’aumento a pagamento del capitale stesso.

L’eterofinanziamento può realizzarsi essenzialmente attraverso i seguenti canali:

a) quello bancario e/o finanziario; b) quello dei contratti di finanziamento non tipicamente bancari, come il leasing, il

factoring, il forfaiting;c) dai possibili incentivi previsti da leggi speciali.

Una nuova forma di finanziamento è anche quella prevista nell’art. 2447bis che prevede la costituzione di “patrimoni destinati al finanziamento di uno specifico affare”. Ma la forma di finanziamento che anche in Italia sta assumendo un’importanza sempre crescente è quella costituita dall’investimento che il pubblico dei risparmiatori fa nei capitali delle grandi imprese, acquistando, ad esempio, azioni delle società quotate in borsa.

Il sistema finanziario italiano è tradizionalmente bancocentrico: le banche costituiscono gli snodi vitali dei processi di allocazione delle risorse. “La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria”. Tale attività può essere esercitata esclusivamente da imprese autorizzate denominate banche.Ma le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria. In definitiva, la stessa attività bancaria è diventata una delle attività finanziarie esercitabili.

CONTRATTI DI FINANZIAMENTO PARABANCARI

1. IL LEASING

Il leasing poggia sulla considerazione che il godimento economico di un bene è più importante della sua proprietà. Si tratta di un negozio giuridico non disciplinato da una normativa specifica che riunisce in sé elementi propri della locazione e dell’acquisto. Per leasing si intende l’affitto (cessione d’uso) a medio/lungo termine di beni strumentali e di beni di consumo durevoli. Per tutta la durata del contratto l’oggetto è di proprietà della società di leasing mentre l’utilizzatore del leasing è il locatario. A differenza delle forme «tradizionali» di affitto, al locatario incombono però gli obblighi tipici del proprietario, quali la manutenzione o i rischi legati al bene e al suo utilizzo.Per l’impiego del bene l’utilizzatore del leasing corrisponde le rate di leasing che, oltre al canone, comprendono anche una quota di ammortamento del capitale, calcolata in funzione della durata del contratto. Allo scadere del periodo contrattuale concordato, normalmente la società di leasing offre al cliente di acquistare l’oggetto contro il pagamento del valore residuo calcolato.Si tratta, dunque, di una vera e propria tecnica di finanziamento.Il leasing può essere operativo o finanziario.

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Il leasing operativo si configura come un contratto col quale il produttore di un bene standardizzato concede in godimento il medesimo ad un altro imprenditore, verso un corrispettivo commisurato al valore d’uso del bene, per un periodo inferiore alla vita economica dello stesso; contratto che talvolta prevede anche un’opzione di acquisto del bene alla scadenza del rapporto. La dottrina è concorde nell’identificare nella figura una ordinaria locazione.Ben più complessa è la figura del leasing finanziario, vera e propria originale tecnica di finanziamento.L’imprenditore che abbia bisogno di beni strumentali necessari per l’attività produttiva (macchinari, impianti, attrezzature, ecc.), anziché acquistarli dal fabbricante per contanti (immobilizzando ingenti risorse o ricorrendo al credito bancario) o comprarli a rate (con il rischio, una volta finito il pagamento, di trovarsi in mano un macchinario obsoleto e privo di valore commerciale), si accorda con una impresa finanziaria specializzata (società di leasing), indicandole i beni di cui ha necessità che tale società acquista appositamente dal produttore e concede contemporaneamente in godimento all’imprenditore (utilizzatore) per un corrispettivo commisurato al prezzo dell’acquisto, il cui pagamento viene ripartito in frazioni di cui una quantità preponderante è costituita da canoni periodici una frazione più esigua dal prezzo di una opzione di acquisto che l’utilizzatore può esercitare al termine del rapporto, ove desideri divenire proprietario del bene.Nonostante l’ampia diffusione, il leasing rimane un contratto atipico.Non è prescritta alcuna forma particolare per la stesura del contratto di leasing, ma è prassi abituale stabilire i diritti e gli obblighi delle parti contraenti in forma scritta. Le parti contraenti sono l’utilizzatore del leasing e il concedente il leasing.L’utilizzatore del leasing:

• ha il diritto economico di godimento e utilizzo del bene oggetto del contratto• ha il possesso del bene (effettivo possesso momentaneo) ma non la proprietà

(possesso legale)

• deve corrispondere al concedente il leasing le rate di leasing concordate (interessi più ammortamento)

Il concedente il leasing:

• è il proprietario legale del bene oggetto del contratto• cede all’utilizzatore del leasing il godimento economico e l'utilizzo del bene

oggetto del contratto• percepisce in cambio le rate di leasing

Quanto alla struttura generale dell’operazione, occorre notare che in essa confluiscono due contratti distinti sebbene collegati: la compravendita con la quale la società di leasing acquista il bene dal fornitore, e il contratto di leasing con cui la stessa società concede in godimento all’utilizzatore il bene così acquistato. Tale contratto prevede che alla scadenza convenuta, l’utilizzatore possa scegliere fra tre soluzioni: divenire proprietario del bene in forza di una opzione di acquisto inclusa nel contratto per un prezzo generalmente predeterminato; restituire il bene; chiedere il rinnovo del rapporto ad un canone che, di massima, corrisponde al valore d’uso del bene.Il mancato o ritardato pagamento dei canoni periodici producono la risoluzione del contratto: i formulari contengono una clausola risolutiva espressa che consente al concedente di risolvere automaticamente il contratto, prevedendo il diritto del concedente di trattenere integralmente i canoni percepiti, di vedersi restituire il bene ed il pagamento dei residui canoni a scadere ed il prezzo di opzione.Nonostante gli attuali problemi di inquadramento, il leasing è una vera e propria locazione, o quantomeno ripete la struttura di una locazione accompagnata da una

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opzione di compere (con conseguente applicabilità di gran parte della disciplina legale della locazione); ma allo stesso tempo concreta una vendita rateale con riserva della proprietà; dunque un contratto atipico con causa di finanziamento, cui vanno applicate analogicamente le disposizioni del mutuo.La Corte di Cassazione, con la sua giurisprudenza più recente, propone una soluzione differente a seconda che si tratti di leasing con spiccata funzione di godimento, avente ad oggetto beni strumentali d’impresa, oppure di leasing con prevalente funzione traslativa avente ad oggetto immobili o beni di consumo durevoli.Nel primo sottotipo si ritiene appropriata l’applicazione della regola della irretroattività della risoluzione, con la conseguenza che il diritto del concedente di trattenere i canoni riscossi appare conforme alla regola legale; nel secondo sottotipo, la Cassazione reputa giustificata l’applicazione analogica dell’art. 1526 con la conseguenza che il concedente dovrà restituire all’utilizzatore i canoni riscossi e avrà diritto ad un equo compenso per l’uso del bene e al risarcimento del danno nella misura che verrà liquidata dal giudice.

IL LEASE BACK

Tra i numerosi sottotipi di leasing, deve essere ricordato il lease back o leasing di ritorno, che viene impiegato quasi esclusivamente da imprenditori che abbiano necessità di ottenere con immediatezza una provvista finanziaria e non vogliano ricorrere al credito.La particolarità sta in ciò: colui che vende il bene alla società di leasing (la quale ne paga contestualmente il prezzo) non è un terzo fornitore ma lo stesso imprenditore che ne diventa utilizzatore in forza del contratto di leasing che viene stipulato contemporaneamente a quello di vendita. In tal modo l’imprenditore, con l’incasso del prezzo della vendita, ottiene subito quella liquidità di cui ha bisogno, e grazie al rapporto di leasing conserva la disponibilità del bene (costituito più spesso da un immobile o dall’intero complesso aziendale) che potrà riacquistare pagando i canoni ed esercitando alla scadenza la relativa opzione.Proprio per questi suoi caratteri, il contratto ha sollevato sia in dottrina che in giurisprudenza seri problemi di validità per una sua possibile contrarietà al divieto del patto commissorio (art. 2774).La dottrina prevalente e da ultimo anche la giurisprudenza della Cassazione rifiutano una soluzione generalizzante nel senso della nullità del leasing di ritorno per violazione del divieto del patto commissorio, in quanto la figura esprimerebbe uno specifico assetto di interessi meritevole di tutela secondo l’ordinamento in grado di giustificare l’intera operazione.La contrarietà del contratto al divieto del patto commissorio (art. 2744), o il suo aggiramento fraudolento, (art. 1344) potrebbe quindi aversi solo nei casi in cui si ritrovino nella concreta fattispecie una o più anomalie come, ad esempio, la sproporzione tra valore (elevato) del bene e prezzo (esiguo) pagato dalla società di leasing al venditore.

2. IL FACTORING

È un particolare tipo di contratto con il quale un imprenditore, che si chiama cedente, si impegna a cedere tutti i crediti presenti e futuri scaturiti dalla propria attività imprenditoriale ad un altro imprenditore che si chiama factor, il quale, dietro un corrispettivo, si impegna a sua volta a fornire una serie di servizi che vanno dalla contabilizzazione, alla gestione, alla riscossione dei crediti ceduti fino alla garanzia dell'eventuale inadempimento dei debitori, ovvero al finanziamento dell'imprenditore cedente sia attraverso la concessione di prestiti, sia attraverso il pagamento anticipato dei crediti ceduti.

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Ciò fa comprendere che il factoring rappresenta uno strumento di finanziamento alternativo dell’impresa e che le società di factoring svolgono, in sostanza, attività di intermediazione finanziaria.Nella maggior parte dei casi, dietro il contratto di factoring si cela un'operazione di finanziamento dell'impresa cliente, infatti è prassi costante che il factor conceda all'impresa cliente anticipazioni sull'ammontare dei crediti gestiti. La cessione può avvenire in due modi differenti: pro solvendo, lasciando al cliente il rischio dell'eventuale insolvenza dei debiti ceduti; pro soluto, il factor si assume il rischio di insolvenza dei debiti ceduti e in caso di inadempimento di questi ultimi non potrà richiedere la restituzione degli anticipi versati al cliente. La legge n. 52 del 1992 ha previsto l'istituzione di un albo delle imprese che praticano la cessione dei crediti d'impresa (albo tenuto a cura dalla Banca d' Italia). Tale legge non ha introdotto nell'ordinamento italiano la disciplina giuridica del factoring, che per ciò continua ad essere considerato un contratto atipico, ma si è limitata a modificare la disciplina tradizionale della cessione dei crediti.Il legislatore, dunque, con la legge n. 52 del 1992 ha dettato una apposita disciplina per la cessione dei crediti di impresa . Poiché questa normativa non esaurisce tutti i possibili aspetti del fenomeno, la stessa deve essere coordinata con le disposizioni codicistiche in tema di cessione dei crediti, le quali saranno applicabili nei limiti della loro compatibilità.Deve tuttavia ritenersi che la disciplina speciale di cui alla l. n. 52/1991 sia derogabile nelle se singole disposizioni e che le parti possano rinunciare alla sua applicazione in favore delle norme generali dettate dal codice civile.L’ambito di applicazione della disciplina in esame è segnato dalla contemporanea ricorrenza di una serie di requisiti, alcuni di natura soggettiva altri di carattere oggettivo.Sotto il profilo soggettivo, è necessario che il cedente sia un imprenditore e il cessionario una società o altro ente (pubblico o privato) avente personalità giuridica il cui oggetto sociale preveda anche l’acquisto di crediti d’impresa. Poiché l’art. 2 della legge prevede l’istituzione, presso la Banca d’Italia, di un albo delle imprese che esercitano l’attività di factoring, tale iscrizione costituisce un’ulteriore condizione per l’applicazione della nuova normativa.Sotto il profilo oggettivo, la legge richiede che si tratti di cessioni di crediti pecuniari verso corrispettivo, e di crediti sorgenti da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio di impresa. La nuova disciplina consente che i crediti d’impresa possano essere ceduti anche prima che siano stipulati on i contratti dai quali sorgeranno, entro il termine massimo di 24 mesi.L’art. 1 della legge fa salva, comunque, l’applicazione delle norme del codice civile per le cessioni di credito prive dei requisiti anzidetti.Con riguardo all’efficacia rispetto ai terzi, l’art. 5 mentre da un lato fa salva l’applicabilità delle regole codicistiche, dall’altro introduce un ulteriore criterio di opponibilità costituito dal pagamento, totale o parziale, del corrispettivo della cessione, sempre che abbia data certa.Innovativa è anche la disciplina delle garanzie dovute dal cedente al cessionario, dal momento che l’art. 4, ribaltando la soluzione del codice, prevede a carico del fornitore anche la garanzia della solvenza del debitore, salvo che il factor vi rinunci in tutto o in parte.In ordine alla sorte del contratto a seguito del fallimento del cedente, si desuma dall’art. 7 che il rapporto di factoring non si scioglie ipso iure ma prosegue, salva la facoltà del curatore di recedere dalle cessioni stipulate limitatamente ai crediti non ancora sorti alla data della sentenza dichiarativa.

3. IL FORFAITING

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Denominato anche sconto à forfait, attualmente il forfaiting è diffuso in tutto il mondo e il suo utilizzo risulta particolarmente utile nei casi di esportazioni in paesi in via di sviluppo, nei quali la vendita è quasi sempre condizionata alla concessione di dilazioni di pagamento a medio termine.Con il forfaiting, un imprenditore (di norma un esportatore) cede ad un istituto finanziario (il forfaiter, appunto) un credito cartolare (cioè quel credito direttamente collegato al possesso di un documento) non ancora scaduto derivante dalla fornitura di beni o dalla prestazione di servizi all’estero, dietro anticipazione dell’importo previa deduzione di un tasso di interesse fisso (à forfait).La cessione avviene pro soluto, tant’è che deve considerarsi elemento essenziale del rapporto l’apposizione sul titolo della clausola “senza ricorso”, diretta ad escludere la responsabilità dell’imprenditore cedente nel caso che il credito non vada buon fine.Il forfaiting, che la ampiamente inquadrato in una cessione di credito, ha in realtà punti di contatto con il factoring, dal quale differisce, però, non solo per il diverso oggetto – crediti d’impresa tout court e non crediti cartolari – ma anche perché il factoring può avere ad oggetto anche crediti futuri.

4. LO SWAP

Con il contratto di swap (“scambio”) le parti convengono di scambiarsi uno o più flussi di pagamento, anche periodici, versando o riscuotendo somme il cui importo è determinato in funzione di parametri oggettivi (rappresentati da due diversi tassi di interesse, tassi di cambio, valute, ecc.), e più frequentemente concordandone la liquidazione c.d. per differenza (estinguendo cioè fino a concorrenza le reciproche obbligazioni per compensazione, di modo che una sola delle parti risulterà debitrice nei confronti dell’altra).La finalità: nel contratto di swap, il pagatore di tasso fisso si protegge dal rialzo dei tassi (rinunciando ai benefici di un loro eventuale ribasso) mentre nel caso opposto il pagatore di tasso variabile si protegge dalla riduzione dei tassi stessi. Applicati alla gestione delle passività sono un efficace strumento di tesoreria.Vicende del genere suppongono l’incontro di due operatori economici che abbiano esigenze simmetriche ma opposte: fatto teoricamente possibile ma nella pratica difficile a verificarsi.Si tratta di un contratto atipico, consensuale, oneroso, contraddistinto dallo scambio di ricchezza finanziaria, dall’essenzialità del termine.

5. IL CREDITO AL CONSUMO

È uno dei più recenti contratti di finanziamento: è il primo contratto che si propone di tutelare in modo diretto il semplice consumatore.Il contratto di credito al consumo è stato reso legalmente tipico attraverso la legge di recepimento di una direttiva comunitaria.Per credito al consumo si intende la concessione, nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, di un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altra analoga facilitazione finanziaria, a favore di una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (consumatore).Ovviamente, il finanziamento non è erogato gratuitamente: il costo totale del credito a carico del consumatore è costituito dal T(asso) A(nnuo) E(ffettivo) G(lobale) TAEG.

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I CONTRATTI DELL’IMPRENDITORE

LA CONTRATTAZIONE D’IMPRESA

A differenza del sistema previdente (il codice del commercio del 1882), il codice civile del 1942 non detta un’apposita disciplina per i contratti dell’imprenditore.Fonti di diritto interno (codice civile, leggi speciali, usi mercantili, prassi commerciali, ecc.) e di diritto internazionale (direttive e regolamenti comunitari, convenzioni internazionali, lex mercatoria, ecc.) consentono di delineare i contorni ed i contenuti di un diritto speciale dei contratti d’impresa, costituito da regole che riservano uno specifico trattamento ai contratti di cui sia parte un imprenditore; un diritto speciale che sta assumendo una articolazione ogni giorno più ricca e che ha generato regimi diversificati in ragione delle qualità soggettive dei contraenti.

Il contenuto del contratto. Si deve segnalare l’esistenza, per tutti i contratti nei quali almeno una delle parti è un imprenditore, di regole speciali che si applicano ai solo contratti d’impresa.Si pensi, ad esempio, alle clausole vessatorie, inefficaci qualora, oltre a determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, non siano state oggetto di trattativa individuale.Da segnalare anche le disposizioni che impongono contenuti obbligatori del contratto a protezione del contraente debole, ora il cliente-consumatore ora un piccolo o medio imprenditore.Di notevole portata sistematica appare anche la legge n. 51/1991 che detta una particolare disciplina per la cessione a titolo oneroso dei crediti d’impresa, disciplina che deroga vistosamente a quella codicistica sulla cessione del credito (e che costituisce anche il nocciolo duro della regolamentazione italiana degli effetti del factoring).

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Fase precontrattuale. Diverse sono le disposizioni per tale fase. Si ricordi la legge n. 126 del 1991, recante norme per l’informazione del consumatore; il d. lgs. n. 50/1992 in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, che impone all’operatore commerciale di informare specificamente e per iscritto il consumatore del suo diritto di recedere dal contratto o di revocare la proposta contrattuale entro il termine di 7 giorni; le disposizioni in materia di contratti a distanza, che impongono al fornitore di dare, e poi confermare per iscritto, al consumatore una serie di informazioni relative sia al contenuto e ai caratteri dell’affare sia al diritto di recedere dal contratto entro il termine di 10 giorni; le numerose disposizioni volte a soddisfare l’esigenza della trasparenza nella contrattazione.

Formazione ed interpretazione del contratto. Una disciplina specifica per la contrattazione d’impresa è dettata dall’art. 1330 che, in deroga alla regola di diritto comune in tema di formazione del contratto (art. 1329), stabilisce il permanere dell’efficacia della proposta o dell’accettazione fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa nonostante la morte o la sopravvenuta incapacità dello stesso prima della conclusione del contratto.Rappresenta una deviazione rispetto ai principi generali sulla formazione e perfezione del contratto anche la disposizione dell’art. 1341, secondo cui le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono vincolanti anche per l’altro non soltanto quando siano state da lui accettate, ma anche se conosciute o solo “conoscibili” (con l’ordinaria diligenza) al momento della conclusione del contratto.Per le clausole vessatorie, ai fini della loro efficacia, è necessaria una approvazione per iscritto da parte dell’aderente.In merito all’interpretazione, vengono in considerazione due peculiari canoni ermeneutici utilizzabili, appunto, solo per i contratti dell’imprenditore. In base all’art. 1370, le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto ovvero in moduli e formulari predisposti da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro. Secondo l’art. 1368, nei contratti in cui una delle parti riveste la qualità di imprenditore, le clausole ambigue si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa.

Abuso di dipendenza economica. La legge n. 192 del 1998 un istituto sostanzialmente nuovo detto “abuso di dipendenza economica”, che trova relazione o situazione tra imprenditori in cui un’impresa sia in grado di determinate, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.La norma, che abbraccia tutto il campo della contrattazione d’impresa, pone a carico delle imprese un espresso divieto di abusare dello stato di dipendenza economica nella quale si trovi, nei suoi riguardi, un’altra impresa, sanzionando la violazione del divieto in modo espresso mediante una comminatoria testuale di nullità del patto contrattuale attraverso il quale venga realizzato l’abuso, e in modo implicito attraverso la previsione di una responsabilità per danni (a seconda dei casi, di natura aquiliana, precontrattuale o contrattuale) a carico dell’autore dell’abuso e nei confronti dell’impresa che l’abbia subito.L’abuso può consistere (anche) nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare; nella imposizione di condizioni contrattuale ingiustificatamente gravose o discriminatorie; nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. In base a ciò, la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche (e quindi, non necessariamente) della reale possibilità, per la parte che abbia subito l’abuso, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.

Caratteri e principi comuni alla contrattazione e ai contratti d’impresa. Abbiamo accertato, quindi, l’esistenza nel nostro ordinamento di regole riferibili ai solo contratti d’impresa. In questa senso può parlarsi di un diritto speciale dei contratti d’impresa.

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Discorso da affrontare adesso è se i contratti d’impresa possano costituire una autonoma categoria. Su punto, la dottrina commercialistica è divisa, anche se c’è una linea di tendenza dottrinale favorevole.In effetti, un esame della normazione vigente consente di riscoprire una serie di caratteri generali comuni ai contratti d’impresa: l’imprenditore deve necessariamente improntare la sua azione ad una unità di criteri e direttive; di qui una esigenza di uniformità e standardizzazione non solo dei contenuti contrattuali ma anche dei procedimenti di formazione del contratto.Altro profilo attiene alla insensibilità dei contratti in esame alle vicende personali del contraente imprenditore. L’attività d’impresa, in quanto volta alla realizzazione di uno scopo economico, è suscettibile di proseguire, senza soluzione di continuità, anche con un soggetto diverso da quello che le ha dato impulso fino al momento dell’avvicendamento.Siffatte esigenze hanno trovato riconoscimento in svariate norme di legge, con la previsione dell’automatica cessione dei contratti d’impresa (salvo espresso patto contrario e fatta eccezione per i contratti c.d. personali) in caso di trasferimento di azienda o di concessione in affitto o in usufrutto della stessa, senza necessità del consenso del ceduto, in deroga alla regola di diritto comune (art. 1406). Fenomeno analogo è previsto nell’art. 1330 che – in deroga al principio generale che identifica nella morte e nella sopravvenuta incapacità del soggetto una causa di caducazione della proposta e dell’accettazione contrattuale – consente agli atti prenegoziali dell’imprenditore di conservare efficacia anche in caso di morte o sopravvenuta incapacità del medesimo.È sancita anche l’esigenza di protezione dell’altro soggetto del rapporto contrattuale in quanto, di regola, “contraente debole”.

Distinzione e classificazione all’interno dei contratti d’impresa. Si consideri o meno scientificamente corretta la categoria dei contratti d’impresa, certo è che tali contratti ammettono distinzioni al loro interno.Taluno ha proposto di distinguere i “contratti aziendali” in senso stretto dai “contratti d’impresa”, ed ha indicato con la prima espressione i contratti che hanno per oggetto il godimento, da parte dell’imprenditore, di beni aziendali non suoi, e con la seconda i contratti che hanno ad oggetto beni aziendali.Poiché i provvedimenti legislativi visti prendono in specifica considerazione i rapporti contrattuali intercorrenti tra un imprenditore e un consumatore, la dottrina ne imputa l’emersione di una nuova categoria di contratti che – come fa il codice – possono appunto designarsi “contratti del consumatore”. Di qui l’emersione di una nuova contrapposizione normativa, all’interno dei contratti d’impresa, fra contratti del consumatore e contratti tra imprenditori.Una specifica rilevanza normativa sembra potersi riconoscere anche ai contratti dell’impresa pubblica, intesa come impresa in mano pubblica.

A) IL FRANCHISING (CONTRATTO DI SCAMBIO E DISTRIBUZIONE DI BENI)

Il franchising (o contratto di “affiliazione commerciale”) può distinguersi in:

• franchising di distribuzione, in virtù del quale il franchisee (rivenditore) rivende determinati prodotti in un punto vendita che reca l’insegna e l’immagine del franchisor (produttore);

• franchising di servizi, in virtù del quale il franchisee (impresa satellite) offre un servizio sotto l’insegna, la ditta oppure il marchio del franchisor (impresa c.d. madre);

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• franchising di produzione (o industriale), in virtù del quale il franchisee fabbrica, lui stesso, seguendo le indicazioni del franchisor, dei prodotti che poi vende sotto il marchio di quest’ultimo.

È la legge n. 129/2004 dettare la disciplina dell’affiliazione commerciale, definendo, infatti, l’affiliazione commerciale (franchising) come “il contratto fra due soggetti giuridici economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte (l’affiliante) concede la disponibilità all’altra (affiliato), verso corrispettivo, d un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, disegni, diritti di autore, brevetti, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi…in ogni settore di attività economica”.La legge italiana conferma che il franchising è contratto a prestazioni corrispettive tra due imprenditori. La nuova legge prescrive la forma scritta a pena di nullità e contempla inoltre una serie di contenuti negoziali obbligatori.Quanto alla durata, il rapporto può essere a tempo indeterminato o a tempo determinato; in quest’ultima ipotesi la durata non può essere inferiore al periodo di tempo (minimo) necessario per consentire all’affiliato di ammortizzare l’investimento, e comunque a tre anni.Obbligazioni del franchisor sono quelle di concedere l’uso dei segni distintivi (insegna e marchio), trasmettere le altre conoscenza ed esperienze che individuano i prodotti o i servizi commerciali, e quella di prestare i necessari servizi di assistenza d (tecnica e commerciale) e consulenza (con eventuale addestramento del personale).Tra le obbligazioni del franchisee vanno ricordate quelle di attrezzare ed allestire l’unita di vendita e di usare insegna e marchio del franchisor, di acquistare i prodotti contrattuali, di rispettare determinati standards di qualità nella presentazione e vendita del prodotto.Vi sono poi gli obblighi dell’affiliato inerenti al pagamento del corrispettivo a favore dell’affiliante. La legge italiana prevede il pagamento del c.d. diritto d’ingresso nel sistema (una somma da corrispondere una tantum al momento della stipulazione del contratto) e un pagamento periodico in somma fissa o, più spesso, sotto forma di royalty percentuale (calcolata sul fatturato del franchisee) o anche entrambe le forme di corrispettivo.

B) L’APPALTO (CONTRATTO PER L’ESECUZIONE DI OPERE O SERVIZI)

Secondo la definizione dell’art. 1655, l’appalto è “il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso un corrispettivo in denaro”.L’appaltatore, per eseguire il contratto, organizza i mezzi personali e materiali necessari per raggiungere il risultato promesso al committente e assume su di sé il rischio dell’affare, sia come rischio economico della difficoltà del lavoro e di non coprire i costi della prestazione con il corrispettivo, sia come rischio del perimento dell’opera prima della consegna, oltre al rischio degli eventi che ne impediscano il compimento.Nonostante ciò, l’appalto è contratto commutativo, poiché il cennato rischio economico rientra nell’alea normale del contratto e, d’altro canto, le contrapposte prestazioni sono certe al momento della sua conclusione.Il compimento dell’opera o del servizio non è istantaneo, ma richiede il protrarsi dell’attività lavorativa per un certo tempo. Per queste ragioni è comune la qualificazione dell’appalto come contratto ad esecuzione prolungata.Sottotipo diffuso dell’appalto è il subappalto, col quale l’appaltatore incarica un terzo di eseguire, in tutto o in parte, l’opera o il servizio che forma oggetto del rapporto principale. Trattasi di contratto derivato distinto dal rapporto di base – sebbene ad esso

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collegato – che lascia ferma la responsabilità dell’appaltatore nei confronti del suo committente e quella del subappaltatore unicamente verso l’appaltatore-subcommittente (e viceversa), e non comporta, in particolare, un’azione diretta del committente nei confronti del subappaltatore.L’art. 1656 subordina il subappalto ad una autorizzazione (espressa o tacita) del committente; in difetto di autorizzazione, il subappalto sarà valido ed efficace, ma l’appaltatore si renderà inadempiente e si esporrà anche alla risoluzione del contratto ex art. 1453, oltre che al risarcimento dei danni.

Gli effetti e l’esecuzione del contratto. Le obbligazioni dell’appaltatore. Il contratto produce il trasferimento della proprietà, in favore del committente, dell’opera realizzata dall’appaltatore. Il trasferimento della proprietà non è, però, annoverabile tra gli effetti principali: questi sono dati dall’obbligazione dell’appaltatore di compiere l’opera o il servizio e dall’obbligazione – corrispettiva – del committente di pagare il prezzo.L’opera o il servizio devono essere compiuti conformemente alle modalità convenute e, in difetto, secondo le c.d. regole dell’arte. La responsabilità tecnica dell’esecuzione dell’opera incombe sull’appaltatore che è obbligato non solo al progetto eventualmente fornitogli dal committente e a seguire le istruzioni del medesimo (o del direttore dei lavori), ma deve utilizzare la necessaria perizia professionale anche al fine di far presenti al committente eventuali carenze ed errori del progetto o delle istruzioni.L’opera o il servizio deve essere compiuta nel termine contrattualmente convenuto; in difetto di termine pattizio, il termine da osservare sarà quello richiesto dalla natura e dai caratteri della prestazione che, ove le parti non si accordino, potrà essere stabilito dal giudice. Frequente è la previsione nel contratto di penali per il ritardo nell’ultimazione dell’opera.Al committente è data dalla legge la facoltà di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne la regolarità in corso d’opera. Il codice gli permette, ove accerti che l’esecuzione dell’opera “non proceda secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte”, di fissare un termine entro il quale l’appaltatore si deve conformare alle condizioni prescritte e di intimargli (anche implicitamente) che, trascorso il termine, il contratto si risolverà. Si tratta di una ipotesi di risoluzione c.d. di diritto del contratto per inadempimento dell’appaltatore, analoga alla diffida ad adempiere.Non secondario rilievo riveste l’istituto delle c.d. varianti, che si riferisce alle possibili variazioni dell’opera oggetto dell’appalto.

Verifica, collaudo, accettazione e consegna dell’opera. Poiché quella dell’appaltatore è un’obbligazione di risultato, ben si comprende come acquisti un particolare rilievo la fase finale di esecuzione del contratto, nella quale si tratta di stabilire se l’opera o il servizio, come eseguiti dall’appaltatore, abbiano le caratteristiche (qualitative e quantitative) convenute e, di conseguenza, se il committente sia tenuto al pagamento del prezzo.Le operazioni che contrassegnano questa fase sono la verifica e il collaudo, l’accettazione e la consegna (dell’opera).La verifica finale è costituita da quel complesso di operazioni materiali e tecniche intese ad accertare se l’opera sia stata eseguita conformemente al contratto; il collaudo è l’esito della verifica, che viene riversato in una dichiarazione con cui il committente dà atto che l’opera è stata eseguita bene o meno. Eseguita la verifica, il committente può accettare l’opera senza riserve, accettarla con riserva o non accettarla: l’accettazione concreta una dichiarazione (recettizio) di volontà del committente con cui questi manifesta la volontà di ricevere la prestazione dell’appaltatore e che, oltre che espressa, può essere tacita. Alla accettazione segue la consegna, con cui il committente riceve il possesso e la disponibilità materiale dell’opera, fino a quel momento nella detenzione dell’appaltatore.

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L’accettazione dell’opera è fonte di effetti importanti nell’economia dell’appalto, in quanto con l’accettazione: a) passano dall’appaltatore al committente i rischi del perimento o deterioramento dell’opera; b) si trasferisce in capo al committente la proprietà dell’opera; c) sorge nel committente il diritto alla consegna dell’opera; d) l’appaltatore matura il diritto al pagamento del prezzo, salva diversa pattuizione; e) viene meno la responsabilità dell’appaltatore per le difformità e i vizi dell’opera conosciuti o riconoscibili dal committente.

Le obbligazioni del committente. Revisione del prezzo e difficoltà di esecuzione. L’obbligazione principale del committente ha per oggetto il pagamento del prezzo. L’entità del prezzo viene normalmente stabilita dalle parti; il contratto è comunque valido anche in mancanza di determinazione pattizia poiché la legge prevede dei criteri suppletivi basati sulle tariffe esistenti o sugli usi e, in difetto, su una determinazione giudiziale. Grava sull’appaltatore il rischio economico dell’affare, il rischio cioè di non riuscire a coprire i costi di esecuzione dell’opera con il corrispettivo pattuito, a causa non solo di errate previsioni iniziali, ma anche di eventi sopravvenienti che determinano una lievitazione dei costi particolarmente accentuata. Il codice ha cercato di mitigare questo rischio con una disciplina speciale – rispetto a quella generale sull’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467) – concernente due specifiche sopravvenienze contrattuali: l’aumento (o la diminuzione) del costo del materiali o della mano d’opera per cause imprevedibili, e l’insorgere di difficoltà di esecuzione per cause geologiche, idriche e simili non previste dalle parti. La peculiarità sta nel fatto che la sopravvenienza non è causa di risoluzione del contratto (a differenza di quanto prevede la disciplina generale) ma attribuisce all’appaltatore il diritto alla revisione del prezzo o ad un equo compenso, assicurando in tal modo il mantenimento del contratto. Siffatta disciplina, che può essere liberamente esclusa o modificata dalle parti, lascia ferma quella generale di cui all’art. 1467 in relazione alle ipotesi diverse dalle due fattispecie previste dall’art. 1664.

Incidenza dei rischi e scioglimento del rapporto. Nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile alle parti (impossibilità originaria di eseguire l’opera ed impossibilità totale verificatasi dopo la stipulazione del contratto, il rapporto si risolve automaticamente e per intero a norma dell’art. 1463, con eventuale diritto del committente di ripetere il prezzo pagato. Per l’ipotesi di impossibilità sopravvenuta parziale provvede l’art. 1672, che pone carico del committente di pagare la parte di opera già compiuta, nei limiti in cui è per lui utile, in proporzione al prezzo pattuito per l’opera intera.In caso di perimento (totale o parziale) o deterioramento dell’opera prima che essa sia accettata, non imputabile ad alcuna delle parti, è a carico dell’appaltatore il quale non soltanto non potrà esigere il corrispettivo per i lavori eseguiti ma sarà obbligato a procedere alla ricostruzione o alla riparazione senza diritto a supplementi di prezzo. Se il perimento o deterioramento avvengono dopo l’accettazione, questi rimangono a carico del committente.Altra causa di scioglimento (con efficacia ex nunc) è data dal recesso del committente, esercitabile in qualunque momento e per qualsiasi ragione, il quale resta obbligato a tenere indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno. Altra ipotesi di recesso del committente può aversi in caso di morte dell’appaltatore, che di per sé non costituisce causa di cessazione del rapporto salvo che, in concreto, la considerazione della persona dell’imprenditore sia stata motivo determinante del contratto.

Inadempimenti e responsabilità dell’appaltatore. La “garanzia per le difformità e i vizi dell’opera”. Le regole di diritto comune sulla responsabilità contrattuale trovano sicuramente applicazione nelle ipotesi di ritardo o mancata

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esecuzione (totale o parziale) della prestazione avente ad oggetto il compimento dell’opera o del servizio. In questi casi il committente – salva l’applicazione dell’art. 1662 – può chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso il risarcimento dei danni. Una volta completata l’esecuzione dell’opera o del servizio, viene meno la possibilità per il committente di ricorrere alle misure di tutela di diritto comune appena ricordate, salvo che per l’eventuale ritardo nella consegna dell’opera. Da questo momento potranno essere fatti valere dal committente unicamente i rimedi propri della “garanzia per difetti o difformità”, con esclusione dei difetti conosciuti o riconoscibili dal committente all’atto dell’accettazione dell’opera.L’art. 1668 determina i rimedi della “garanzia” e accoda al committente il potere di “chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno in caso di colpa dell’appaltatore” ed inoltre il potere di “chiedere la risoluzione del contratto…se le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione”.Si discute sulla natura di siffatta responsabilità. Per molti, si tratta di una speciale responsabilità assoluta (che si estende cioè anche ai difetti cagionati da caso fortuito o forza maggiore e persino da causa estranea alla sua organizzazione d’impresa: terremoto, sabotaggio) e oggettiva, ossia indipendentemente da colpa dell’appaltatore.Ciò non significa tuttavia che l’appaltatore debba subire sempre e senza eccezione i rimedi appena ricordati. Il limite della sua responsabilità è rappresentato dagli eventi imputabili al committente, come nei casi in cui i vizi dell’opera derivino da errori del progetto fornito dal committente, da ordini sbagliati dello stesso o del direttore dei lavori o da difetti di materiali forniti dal committente.Mentre l’eliminazione dei vizi, la riduzione del prezzo e la risoluzione del contratto hanno un fondamento squisitamente oggettivo, il risarcimento del danno è riconosciuto al committente solo “nel caso di colpa dell’appaltatore”La responsabilità dell’appaltatore è speciale, anche perché la legge ne assoggetta l’operatività al rispetto di un termine di decadenza per la rinuncia dei vizi, che va fatta entro 60 giorni dalla scoperta.La prova di aver denunziato tempestivamente i vizi spetta al committente, il quale è però esonerato dalla denuncia se provi che l’appaltatore ha riconosciuto i vizi.

La responsabilità per rovina o gravi difetti di immobili. Una ulteriore ipotesi di responsabilità dell’appaltatore è in relazione ai casi in cui, entro dieci anni dalla costruzione di un edificio o altre cose immobili destinate a lunga durata, il bene rovini in tutto o in parte ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti in conseguenza del vizio del suolo o per difetto di costruzione. La denunzia dell’evento lesivo deve farsi, a pena di decadenza, entro un anno dalla scoperta e l’azione è soggetta alla prescrizione di un anno dalla denunzia.Si discute sulla natura della responsabilità. È discusso, inoltre, se possa essere richiesto all’appaltatore solo il risarcimento del danno per equivalente pecuniario o anche l’eliminazione dei difetti o la ricostruzione dell’edificio.

C) I CONTRATTI DI ENGINEERING (CONTRATTO PER L’ESECUZIONE DI OPERE O SERVIZI)

Con il contratti di engineering “una parte (solitamente un’impresa) si obbliga nei confronti dell’altra ad elaborare un progetto, di natura industriale, architettonica, urbanistica, ed eventualmente a realizzarlo, ovvero a dare realizzazione a progetti elaborati da altre imprese, provvedendo anche a svolgere prestazioni accessorie di assistenza tecnica, ricevendo a titolo di corrispettivo un somma di denaro, integrata (o

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sostituita) eventualmente da royalties o partecipazioni agli utili dell’attività imprenditoriale avviata a seguito della realizzazione del progetto”.L’oggetto del contratto è molto vario, potendo consistere nella attività di consulenza preliminare, nella progettazione di un impianto o di un’opera, ecc.Dottrina e giurisprudenza hanno distinto due sottotipi di engineering: il consulting engineering ed il commercial engineering, riconducendo al primo le ipotesi in cui l’attività di progettazione è autonoma, e al secondo le ipotesi in cui alla progettazione segue anche la realizzazione dell’opera.Per quanto riguarda l’inquadramento tipologico, dottrina e giurisprudenza oscillano tra la configurazione di questo contratto come negozio atipico e l’accostamento all’appalto di servizi.

D) I CONTRATTI DI CATERING (CONTRATTO PER L’ESECUZIONE DI OPERE O SERVIZI)

Il termine catering (“approvvigionare di viveri”) viene impiegato per indicare una serie di modelli contrattuali nel settore della ristorazione collettiva, la cui (generica) finalità è quella di assicurare la distribuzione periodica di pasti in favore di comunità.I modelli negoziali di catering evidenziano, tuttavia, una tendenziale tipicità e si rivelano prevalentemente inquadrabili nell’ambito dell’appalto di servizi.Uno degli schemi contrattuali più diffusi è quello che prevede il servizio di ristorazione con cucina e preparazione dei pasti in loco, in cui la società di catering assume su di sé tutte le fasi della ristorazione.Altri contratti-tipo prevedono l’obbligo per la società di catering di effettuare la fornitura di pasti preconfezionati in proprie cucine esterne centralizzate. Siffatto schema presenta ora i caratteri di un appalto di servizi, ora di una somministrazione.La fornitura e somministrazione di viveri a bordo delle navi ha costituito la prima forma di catering; nel catering navale sembra ricorrere un contratto misto di somministrazione e appalto di servizi, mentre nel catering aereo una somministrazione.

E) IL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE (CONTRATTO PER L’ESECUZIONE DI OPERE/SERVIZI)

Con il contratto di assicurazione, l’assicuratore si obbliga, verso il pagamento di un corrispettivo (detto premio), a rivalere l’assicurato – nei limiti e nei modi convenuti – del danno ad esso prodotto da un sinistro (assicurazione contro i danni), oppure a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un eventi attinente alla vita umana (assicurazione sulla vita).Ma per comprendere pienamente la funzione economica e sociale del contratto di assicurazione, occorre tener presente che l’assicuratore è necessariamente un imprenditore: le compagnie di assicurazioni, con i premi versati dalla massa degli assicurati, raccolgono ingenti mezzi finanziari e sono, come le banche, detentrici di capitale finanziario. Tale attività assicurativa può essere esercitata solo da enti pubblici (tale era l’INA, ora trasformata in società per azioni) o da imprese private costituite in forma di società per azioni, società cooperativa a responsabilità limitata e società di mutua assicurazione, con preventiva autorizzazione dell’ISVAP (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private).

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Disciplina generale: il contratto. I contratti di assicurazione hanno solitamente un contenuto predisposto unilateralmente dalla società di assicurazione e concretano, quindi, contratti per adesione conclusi mediante moduli e formulari. La conclusione del contratto viene curata, di solito, dagli agenti di assicurazione, che di regola sono muniti del potere di stipulare in rappresentanza della compagnia.Il contratto di assicurazione deve essere provato per iscritto; per tale motivo la legge pone a carico dell’assicuratore l’obbligo di rilasciare in ogni caso un documento scritto, che prende il nome di polizza di assicurazione.I soggetti del contratto sono l’assicuratore e normalmente l’assicurato, ossia il soggetto titolare dell’interesse esposto alò rischio. Peraltro, non è infrequente che l’altro contraente (ossia il soggetto obbligato a pagare il premio) non coincida con l’assicurato e, nella assicurazione sulla vita, non coincida con il beneficiario, ossia con colui a favore del quale l’assicurazione è stipulata e al quale spetterà l’indennizzo (si pensi all’assicurazione sulla vita a favore di terzi).

Il rischio e il premio. Abbiamo già chiarito che la causa del contratto di assicurazione consiste nel trasferimento del rischio dall’assicurato all’assicuratore dietro pagamento di un corrispettivo (c.d. premio) da parte del contraente. Il rischio e il premio sono perciò gli elementi essenziali del contratto, nel quale devono essere indicati il tipo di rischio contemplato (incendio, furto, ecc.) e l’oggetto assicurato (abitazione, veicolo, ecc.); parimenti, nell’assicurazione sulla vita deve risaltare se l’evento contemplato è la morte ovvero la sopravvivenza del contraente o di altra persona.Il contratto è nullo se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto; se invece il rischio cessa di esistere dopo la conclusione del contratto, questo si scioglie automaticamente.Corrispettivo dell’assunzione del rischio è il pagamento del premio, che deve essere versato anticipatamente in un’unica soluzione o in rate periodiche. La corresponsione del premio costituisce un obbligo per chi contrae l’assicurazione.Senza il pagamento del premio il contratto non è operativo.Il contratto di assicurazione viene tradizionalmente classificato come aleatorio, poiché al momento della sua conclusione è incerto se, a fronte del premio convenuto, l’assicurato riceverà un indennizzo; è contratto a prestazioni corrispettive.

L’assicurazione contro i danni. È governata dal principio indennitario per il quale le somme dovute dall’assicuratore assolvono ad una funzione risarcitorio (o meglio, riparatoria), essendo dirette a rimuovere un concreto pregiudizio economico sofferto dall’assicurato, non già a garantirgli un lucro o un arricchimento.L’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso gli eventuali terzi responsabili (civilmente) del sinistro.Se la durata supera i dieci anni, le parti, trascorso il decimo anno, nonostante patto contrario, hanno facoltà di recedere.

L’assicurazione della responsabilità civile. Si tratta di una assicurazione contro i danni con la quale l’assicurato trasferisce all’assicuratore il rischio cui l’intero suo patrimonio è esposto, in base all’art. 2740, per effetto della responsabilità civile dedotta in contratto.Il danneggiato deve sempre agire contro il responsabile (assicurato) e costui potrà eventualmente chiamare in causa l’assicuratore.La legge n. 990/1969 ha reso obbligatoria l’assicurazione della responsabilità civile in materia di danni da circolazione dei veicoli a motore e dei natanti.

L’assicurazione sulla vita. L’assicuratore si obbliga a pagare al beneficiario un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana, ossia la sua morte o la sua sopravvivenza ad una certa età.

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Le ragioni che possono indurre a contrarre una assicurazione sulla vita sono le più varie, ma in tutti i casi essa ha carattere previdenziale. La legge consente che l’assicurazione venga stipulata sulla vita propria o sulla vita di un terzo.Assai diffusa è l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo (beneficiario), che concreta un contratto a favore di terzo, pur presentando alcune particolarità di disciplina.

CONTRATTI PER LA PROMOZIONE E LA CONCLUSIONE DI AFFARI

Il fine con essi perseguito dall’imprenditore non è lo scambio di beni o l’esecuzione di opere o servizi, ossia la realizzazione (in proprio) di un affare, ma quello di promuovere, agevolare o concludere un affare nell’interesse di un’altra persona (mandato, commissione, spedizione, contratto di agenzia e mediazione).Il guadagno è rappresentato dalla percezione di un compenso stabilito, di regola in misura percentuale sull’ammontare dell’affare concluso per il loro tramite (c.d. commissione o provvigione).

1. IL MANDATO

È il contratto col quale una parte (mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra (mandante).Compiere atti giuridici vuol significare porre in essere atti giuridici in senso stretto (eseguire pagamenti, riscossioni) e soprattutto concludere contratti (e altri negozi giuridici). I vantaggi e gli svantaggi economici dell’operazione sono di pertinenza del mandante, così pure qualunque rischio inerente ad essa. Il mandato costituisce quindi una ipotesi di “cooperazione gestoria” nei quali un soggetto sostituisce un altro, che non può o non vuole compiere atti giuridici, nella cura dei di lui interessi.A differenza degli institori, dei procuratori e dei commessi che sono cooperatori giuridici che lavorano alle dipendenze dell’imprenditore, il mandatario è un ausiliario autonomo.Tra le varie forme di sostituzione che la legge prevede, occorre ricordare la rappresentanza. Le differenze sono nette:

• nella rappresentanza, la spendita del nome del rappresentato da parte del rappresentante nella conclusione del contratto col terzo contraente comporta che parte nel senso sostanziale di tape contratto è il rappresentato, il quale acquista tutti i diritti e assume tutti gli obblighi da esso derivanti;

• nel mandato, agendo in nome proprio, il mandatario non solo è autore del contratto stipulato col terzo, ma anche parte in senso sostanziale, ossia destinatario diretto degli effetti giuridico-formali di tale contratto; poiché però è il mandante il titolare dell’affare, il mandatario è obbligato a riversargli i risultati vantaggiosi e svantaggiosi della propria attività gestoria.

Qualora desideri rimanere celato agli occhi dell’altro contraente, l’interessato stipulerà un semplice mandato senza rappresentanza; nel caso in cui, invece, intenda apparire all’esterno e diventare parte del contratto da concludere col terzo, conferirà al mandatario anche una procura (mandato con rappresentanza).

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Il mandato può essere a titolo sia oneroso che gratuito, anche se la legge ne presume l’onerosità. Può avere ad oggetto il compimento di uno o più atti specificamente individuati (mandato speciale), o può essere conferito per la cura di tutti gli affari del mandante o attinenti ad una data sfera di rapporti (mandato generale).Il mandato è sempre nell’esclusivo interesse del mandante. Ciò non impedisce, tuttavia, che il mandato – fermo il requisito appena richiamato – possa essere conferito per soddisfare anche un interesse del mandatario o di un terzo, qualora il compimento dell’atto gestorio possa concorrere a soddisfare anche un loro interesse (in rem propriam).Il mandato con rappresentanza non richiede mai una forma solenne; quanto al mandato senza rappresentanza, secondo la giurisprudenza e una parte della dottrina esso esige la forma scritta quando abbia ad oggetto la stipulazione di negozi formali, e in particolare, ove abbia ad oggetto l’acquisto o l’alienazione di beni immobili.

Gli effetti del contratto. Nel mandato con rappresentanza, gli effetti degli atti posti in essere dal mandatario in nome del mandante si producono direttamente in capo a quest’ultimo. Nelle ipotesi di mandato senza rappresentanza, poiché il mandatario agisce (per conto del mandante ma) in nome proprio, gli effetti giuridici dei contratti conclusi con i terzi si producono nella sfera patrimoniale di costui. Quando il mandatario agisce su incarico del mandante e per conto del medesimo, la legge prevede una serie di congegni effettuali intesi ad operare la riversione dal mandatario al mandante degli effetti pratico-economici degli atti compiuti dal primo.Il codice detta regole differenti in funzione dei diversi tipi di situazioni giuridiche acquistate dal mandatario (crediti, proprietà di beni mobili, immobili o mobili registrati, debiti).

Le obbligazioni nascenti dal mandato e l’esecuzione dell’incarico. Con riguardo alla posizione del mandatario, questi ha l’obbligo di compiere l’attività gestoria; qualora il mandatario compia un atto difforme da quello impostogli dal mandato e dalle eventuali istruzioni successive (c.d. eccesso di mandato), l’atto eccedente resta a suo carico. Ha, inoltre, l’obbligo di comunicare, senza ritardo al mandante, l’avvenuta esecuzione del mandato e deve inoltre presentare al mandante stesso il rendiconto.Per quanto attiene alla posizione del mandante, questi è tenuto ad una serie di oneri di cooperazione e di obblighi: il mandante ha l’onere di somministrare i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato, è obbligato comunque a rimborsare le some anticipate con i relativi interessi, deve inoltre tenere indenne il mandatario da tutte le perdite che abbia sofferto in dipendenza dell’esecuzione dell’incarico. Riguardo all’obbligazione di pagare il compenso, la misura (se non stabilita nel contratto) è determinata in base alle tariffe professionali o agli usi; in mancanza, è fissata dal giudice.

Estinzione del mandato. Si evidenziano cause speciali di estinzione (scadenza del termine, revoca del mandante, rinunzia del mandatario, morte, interdizione o inabilitazione del mandante o del mandatario), alle quali si aggiungono i fatti estintivi che appartengono alla disciplina generale del contratto (es. impossibilità sopravvenuta della prestazione del mandatario) e le ipotesi del fallimento di uno dei contraenti.Nelle fattispecie di mandato con rappresentanza, l’estinzione del mandato comporta, di regola, anche il venir meno del potere di rappresentanza; l’opponibilità ai terzi dell’estinzione della procura non è regolata dalle norme sul mandato, ma da quelle in tema di rappresentanza.Per quanto concerne il mandato senza rappresentanza, è importante notare che le varie cause di estinzione del mandato trovano un limite oltre il quale n on possono più operare, costituito dalla conclusione dell’affare da parte del mandatario, giacché in caso

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contrario si perverrebbe all’inammissibile risultato di imputare a costui i risultati dell’attività gestoria compiuta.Per quanto attiene alla revoca (un recesso in senso tecnico), il principio generale è che il mandante può in ogni tempo revocare il mandato; principio che soffre tuttavia di due eccezioni: la prima ipotesi (di irrevocabilità assoluta o reale) si ha in caso di mandato in rem propriam, essendo esso diretto a realizzare non solo l’interesse del mandante, ma anche quello del mandatario o di un terzo. L’altra ipotesi di irrevocabilità “assoluta” è prevista nel mandato collettivo, per il quale la revoca non ha effetto se non è fatta da tutti i mandanti, salvo che sussista una giusta causa.La rinunzia al mandato da parte del mandatario (che concreta anch’essa un recesso) può essere fatta sempre e quando voglia, ma ove non ricorra una giusta causa è obbligato a risarcire i danni al mandante.Il rapporto di mandato si estingue in caso di morte, interdizione o inabilitazione del mandante o del mandatario.

2. LA COMMISSIONE

La commissione è intesa un mandato in nome proprio a stipulare compere e vendite; l’oggetto dell’incarico, dunque, può consistere unicamente nella conclusione di contratti di compravendita in cui il commissionario è sfornito di poteri di rappresentanza ed agisce quindi in nome proprio e per conto del committente.In quanto “sottotipo nominato” di mandato, la commissione è soggetta alle norme poste per il mandato stesso.Del tutto peculiare alla commissione ed inestensibile al mandato in generale, è l’istituto dell’entrata del commissionario nel contratto: quando la commissione ha ad oggetto la compera o la vendita di titoli o merci aventi un prezzo ufficiale di mercato, il commissionario – salvo patto contrario – può rendersi contraente in proprio, ossia può acquistare per sé le cose che ha avuto l’incarico di vendere, e può vendere egli stesso le cose che ha avuto l’incarico di comprare.

3. LA SPEDIZIONE

La spedizione è intesa come un mandato col quale lo spedizioniere assume l’obbligo di concludere, in nome proprio e per conto del mandante, un contratto di trasporto e di compiere le operazioni accessorie.Si tratta quindi, come nel caso della commissione, di un “sottotipo nominato” di mandato senza rappresentanza, il cui oggetto è costituito unicamente dalla conclusione di contratti di trasporto di cose.La distinzione fra trasporto e spedizione è netta: il vettore si obbliga ad eseguire il trasporto (anche se con mezzi altrui) assumendone tutti i rischi; lo spedizioniere si obbliga, invece, a stipulare con un vettore un contratto di trasporto per conto del mandante e perciò con i relativi rischi a carico di questo.La disciplina della spedizione è quella generale del mandato, salva l’applicazione delle speciali disposizioni dettate appositamente per essa.

4. IL CONTRATTO DI AGENZIA

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È quel contratto col quale una parte (agente) assume stabilmente, verso retribuzione, l’incarico di promuovere contratti nell’interesse dell’altra (preponente) in una zona determinata.L’agente è quindi un ausiliario autonomo dall’imprenditore che riveste, a sua volta, la qualità di imprenditore e si avvale di una propria organizzazione. La sua attività consiste nel provocare e stimolare le ordinazioni di beni o servizi a attraverso la ricerca di compratori ed utenti, le prese di contatto con i medesimi e lo svolgimento di eventuali trattative che vengono, però, portate a compimento dal preponente cui spetta di concludere i relativi contratti con la clientela.La stabilità dell’incarico e la sua estensione ad una determinata zona costituiscono, assieme all’obbligo di promozione di contratti, elementi essenziali del rapporto di agenzia.Compito dell’agente è quello di promuovere la conclusione di affari, non quello di concluderli. È prevista la possibilità che all’agente sia attribuita anche la rappresentanza nella conclusione dei contratti.Riguardo ai diritti dell’agente, è naturale che ad esso non spetti il diritto al rimborso delle spese di agenzia, attenendo queste al rischio che l’agente assume in quanto imprenditore.Fondamentale è il diritto al compenso, normalmente costituito da una provvigione, un compenso cioè ragguagliato in percentuale al rapporto degli affari trattati dall’agente. La provvigione spetta all’agente non su tutti gli affari conclusi, ma solo su quelli che hanno avuto regolare esecuzione o – come suole dirsi – andati a “buon fine”.Il preponente non è obbligato ad accettare gli affari proposti dall’agente e può, quindi, declinare gli ordini trasmessigli.L’agenzia può essere stipulata a tempo determinato o a tempo indeterminato. Nel contratto a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dandone preavviso all’altra entro un termine stabilito, che va da un mese a sei mesi.Diversa è la figura del procacciatore d’affari. Secondo alcuni, si avrebbe procacciamento d’affari nella c.d. mediazione unilaterale, ossia quando l’attività diretta alla conclusione dell’affare viene svolta dall’intermediario nell’interesse esclusivo di una delle parti; secondo altri, si avrebbe quando un soggetto si obbliga verso un altro ad attivarsi per agevolare la conclusione di un affare senza vincolo di continuità, in assenza di qualunque rapporto stabile e senza riferimento ad un preciso ambito territoriale.

5. LA MEDIAZIONE

Il codice vigente non parla di contratto di mediazione, ma disciplina il rapporto e descrive la figura del mediatore definendolo come “colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporto di collaborazione, dipendenza e rappresentanza”.Dalla definizione contenuta nell’art. 1754 e dagli altri dati normativi, è possibile desumere i requisiti caratteristici della mediazione:

a) l’elemento centrale della fattispecie è dato dalla c.d. “messa in relazione” della parti ad opera del mediatore ai fini della conclusione dell’affare, rimuovendo difficoltà, fornendo consigli e notizie; a tale fine è inoltre necessario che il mediatore realizzi un contatto diretto e personale con entrambi i possibili contraenti dell’affare o almeno con uno di essi;

b) non può assumere la veste di mediatore chi sia parte dell’affare, poiché mancherebbe quella alterità rispetto alle parti e la necessaria estraneità all’affare;

c) è escluso che si abbia mediazione se l’intermediario è legato ad una delle parti dell’affare da “rapporti di collaborazione, dipendenza o rappresentanza”;

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d) il diritto del mediatore al compenso è subordinato alla conclusione dell’affare per effetto del suo intervento.

Circa la natura dell’istituto, parte della dottrina colloca la mediazione fuori dall’area negoziale; la tesi opposta, quella cioè della contrattualità della mediazione, viene sostenuta, oltre che da una parte della dottrina, dalla giurisprudenza quasi unanime che, nei casi in cui manca un espresso incarico al mediatore, ravvisa comunque un accordo contrattuale risultante dal comportamento concludente con cui le parti accettano tacitamente l’opera del mediatore.La provvigione è dovuta al mediatore da ciascuna parte senza vincolo di solidarietà passiva; la misura di essa per ciascuna delle parti, in mancanza di patto, è determinata dalle camere di commercio tenendo conto degli usi locali. Se il contratto intermediato è nullo, la provvigione non è dovuta; il diritto alla provvigione non viene meno quando il contratto è annullato o rescisso, se il mediatore non conosceva la causa di invalidità.Il diritto al compenso è soggetto alla prescrizione breve di un anno.

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LA MOBILIZZAZIONE DEI CREDITI D’IMPRESA

I TITOLI DI CREDITO

Concetto e funzione. Il titolo di credito costituisce uno strumento volto a favorire la circolazione dei diritti di credito, tutelando l’acquirente contro i rischi, insiti nel ricorso allo strumento generale della cessione, ed originati dal principio, proprio di tutti i trasferimenti a titolo derivativo, secondo il quale l’acquirente non può acquisire una posizione diversa da quella del suo dante causa.Di fondamentale importanza è il concetto di incorporazione, ossia quel collegamento tra la titolarità del credito e la proprietà di un documento talché quest’ultimo diventa il veicolo necessario per la nascita e la circolazione del diritto.Il tutto si spiega con la particolare origine del c.d. credito cartolare, la cui fonte è in una dichiarazione unilaterale, con la quale chi sia gravato da un’obbligazione nei confronti di un altro soggetto, ne trasferisce i termini essenziali in un documento con cui si impegna ad effettuare la prestazione ivi indicata a favore del proprietario stesso.Per effetto del fenomeno dell’incorporazione, il credito cartolare presenta due caratteristiche:

• la letteralità, significa che le risultanze del documento definiscono i limiti della pretesa azionabile dal portatore. La letteralità è diretta quando il documento contiene tutti gli elementi utili ad individuare il contenuto della pretesa; indiretta quando lo stesso rimanda ad altri documenti;

• autonomia , significa indipendenza della posizione di ciascun portatore del titolo da quella del portatore precedente. Essa scaturisce dalla modalità di acquisto del diritto cartolare che, a differenza della comune cessione, avviene sempre a titolo originario come riflesso dell’acquisita proprietà del documento.

Rapporto cartolare e rapporto fondamentale. In seguito al rilascio del titolo di credito, in capo al debitore vengono generalmente a configurarsi due rapporti obbligatori: uno c.d. fondamentale (o causale) derivante dal rapporto obbligatorio, di svariata fonte, esistente tra il sottoscrittore del documento ed il primo prenditore; l’altro c.d. cartolare, scaturente dal rilascio del titolo e differenziato dal primo per la sua fonte (sottoscrizione del documento), per il suo contenuto (“lettera” del documento) e per l’individuazione del creditore (proprietario del documento).Il collegamento tra rapporto fondamentale e rapporto cartolare è dato dal c.d. contratto di rilascio, che è l’accordo tra debitore e creditore con il quale si conviene la sottoscrizione e la consegna del titolo.

La legittimazione cartolare. Oltre alla titolarità del credito cartolare riconosciuta al proprietario del documento, la legge attribuisce al possessore dello stesso la legittimazione attiva ossia il diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo “purché sia legittimato nelle forme prescritte”.Alla legittimazione attiva si contrappone la legittimazione passiva in quanto il debitore cartolare, a meno che non sia in dolo o colpa grave, è liberato se adempie la prestazione nelle mani del portatore, anche se questi non è titolare del diritto.Il possesso del documento conforme alla legge di circolazione del titolo è condizione non solo sufficiente, ma necessaria per l’esercizio del diritto cartolare, e non può essere sostituita dalla prova diretta della titolarità del credito.

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Sotto il profilo della legittimazione si distingue tra titoli a legittimazione reale, per i quali il diritto a pretendere la prestazione è riconosciuto a chiunque si trovi nella materiale disponibilità del titolo, e titoli a legittimazione nominale per i quali, essendo tale diritto attribuito ad un soggetto individuato in base alle risultanze del documento, si impone la necessità di verificare la coincidenza tra l’identità del portatore ed il nome che risulta dal contesto del titolo.

La formazione del titolo di credito. Il titolo di credito nasce con la sottoscrizione del documento che deve essere autografa ma non necessariamente leggibile, essendo sufficiente un segno grafico che consenta di risalire all’identità del sottoscrittore.Si ha titolo in bianco quando, già sottoscritto il titolo, la sua stesura totale o il completamento del suo testo siano affidati al portatore. I termini in cui il testo dovrà essere redatto sono stabiliti in un accordo (c.d. accordo di riempimento).In caso di incapacità legale, totale o parziale, la sottoscrizione del titolo (atto di straordinaria amministrazione), a cura del legale rappresentante dell’incapace o del curatore, dovrà avvenire facendo risultare dallo stesso tale qualità così da evitare la responsabilità derivante da una forma in proprio.La sottoscrizione del titolo a mezzo di rappresentante deve in ogni caso risultare dal testo cartolare.La sottoscrizione del titolo di credito può essere connessa ad una operazione intervenuta con uno o più soggetti determinati ovvero ad un’unica operazione intervenuta con la massa del pubblico dei risparmiatori: nel primo caso si parla di titoli individuali (es. cambiali); nel secondo di titoli di massa (es. azioni e obbligazioni).

Struttura del diritto cartolare. Titoli semplici e complessi. A seconda che il diritto cartolare attribuisca al portatore il diritto ad una prestazione determinata idonea a soddisfare un unico interesse (es. la cambiale), ovvero quello di esercitare una pluralità di pretese (es. azioni di società), si parla di titoli di credito semplici o complessi.La differenza consiste nel fatto che per i primi è possibile un adempimento uno actu, con contestuale restituzione del documento, mentre per i secondi una restituzione del titolo sarà possibile solo quando tutte le pretese sono state soddisfatte.Per facilitare l’esercizio e la negoziazione delle singole pretese inerenti il titolo complesso e dei diritti accessori, sono annesse al titolo le c.d. cedole che, una volta staccate dal documento principale, acquistano la natura di titolo di credito suscettibile di circolazione autonoma.

La circolazione del titolo di credito. Con l’emissione, il titolo di credito comincia a circolare. La circolazione può essere volontaria, fondata su un valido contratto di rilascio ed in tal caso comporta all’acquisto sia della proprietà del documento che del possesso e quindi della legittimazione, oppure involontaria, se tale contratto di rilascio manca, ed in tal caso comporterà l’acquisto del solo possesso e quindi della sola legittimazione.Anche la circolazione successiva all’emissione può assumere carattere volontario o involontario.La circostanza che il diritto cartolare circoli secondo i principi degli acquisti a titolo originario, non esclude che questo possa formare oggetto di un trasferimento a titolo derivativo, con conseguente applicazione delle regole della cessione. Tale fattispecie definita circolazione impropria, si verifica non solo nella ipotesi (di scuola) in cui le parti espressamente dichiarino di volere questo effetto, ma in ogni caso in cui si ometta di attribuire all’acquirente il possesso qualificato (il trasferimento di un titolo all’ordine con un mezzo diverso dalla girata produce gli effetti della cessione), come avviene nel caso di successione a causa di morte o di fusione di società.Il fenomeno della circolazione impropria non può verificarsi per i titoli al portatore e per i titoli all’ordine girati in bianco, per i quali l’attribuzione della legittimazione cartolare coincide con la mera acquisizione del possesso materiale del titolo.

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Le forme di legittimazione cartolare e le regole del loro trasferimento. Diverse sono le forme secondo cui si realizza la legittimazione cartolare (c.d. possesso qualificato del titolo): in base a tali caratteristiche, i titoli di credito si dividono in titoli al portatore, titoli all’ordine e titoli nominativi.È il sottoscrittore del titolo che decide all’atto della creazione del documento, per l’una o per l’altra delle predette forme di legittimazione. Si tratta di una scelta modificabile tramite l’istituto della conversione del titolo, che consente di modificare la legge di circolazione inizialmente fissata.Il mutamento della legge di circolazione non può mai essere effettuato unilateralmente dal portatore ma solo, su sua richiesta, dall’emittente.

a) I titoli al portatore

Il titolo di credito al portatore è quello per il quale la legittimazione all’esercizio del diritto cartolare è data dalla pura e semplice materiale detenzione del documento.Per la qualificazione di un titolo di credito come “al portatore” è sufficiente ma non necessaria la mancanza di una indicazione nominativa; infatti, anche laddove il documento rechi l’intestazione ad un nome, esso resta “al portatore” se vi è apposita clausola (es. pagabile al portatore).La c.d. libertà di emissione trova un limite che, pena la nullità del titolo, vieta l’emissione di titoli atipici al portatore aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, ciò con il fine evidente di evitare la formazione di documenti che, data la facile circolabilità, siano suscettibili di fare concorrenza alla moneta legale.

b) I titoli all’ordine

Si definisce “all’ordine” quel titolo di credito che reca, all’atto dell’emissione, l’intestazione ad una persona determinata; esso pertanto integra una forma di legittimazione nominale in quanto la possibilità di pretendere la prestazione è condizionata all’accertamento della riferibilità, al soggetto possessore del documento, del nome di colui che risulta intestatario del titolo. L’indicazione nominativa del destinatario della prestazione può variare durante la circolazione ad opera dello stesso portatore, mediante una dichiarazione apposta sul titolo che prende il nome di girata. Essa deve essere totalitaria (per tutta la somma) e incondizionata, altrimenti viene considerata come “non apposta”.Salva diversa disposizione di legge, la girata non comporta alcuna responsabilità cartolare del girante nei confronti del giratario per l’eventuale mancato pagamento del titolo.La girata, unitamente alla consegna del titolo, attribuisce al giratario la legittimazione cartolare laddove provenga dall’originario intestatario; se, invece, le girate siano più di una, occorre che ciascuna si inserisca in una “serie continua”.

c) I titoli nominativi

Si caratterizzano, nel più ampio genus dai titoli a legittimazione nominale (che comprende anche i titoli all’ordine), per la circostanza che la loro intestazione risulta non solo dal documento, ma da un registro tenuto dal debitore, di modo che la legittimazione cartolare è offerta dalla coincidenza tra l’identità del portatore il nome che risulta dal titolo e quello che risulta dal registro. Il trasferimento della legittimazione, dunque, richiede la collaborazione (sia pure obbligatoria) del debitore.Il cambiamento della intestazione nominativa si chiama trsfert e può essere richiesto sia dall’alienante che dall’acquirente, ma in base a diverse condizioni.Il trasfert avviene mediante l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e sul registro, ovvero mediante rilascio di un nuovo titolo del quale viene fatta annotazione sul registro.

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La legge contempla, altresì, la possibilità di attuare trasferimenti intermedi senza la collaborazione del debitore ricorrendo al meccanismo della girata. Essa però si differenzia da quella dei titoli all’ordine sia per la forma che per gli effetti, in quanto non attribuisce il diritto a pretendere la prestazione ma solo quello di ottenere la iscrizione nel registro del nome dell’ultimo portatore in base ad una serie continua di girate.

Il deterioramento del titolo di credito. L’applicazione rigorosa del principio della letteralità fa sorgere il problema della tutela del portatore nell’ipotesi in cui, per varie cause, il documento risulti deteriorato.È attribuito al possessore il diritto ad ottenere dall’emittente un “titolo equivalente”. La fattispecie del titolo deteriorato si realizza quando il documento sia ancora in grado di consentire l’individuazione dell’impegno cartolare, ma si sia il rischio che il processo di degrado si aggravi.

Smarrimento, sottrazione e distruzione del titolo al portatore. In caso di comprovata distruzione del titolo al portatore, la legge consente all’ex possessore di ottenere, sulla base della sola dimostrazione del precedente possesso, a sue spese, dal debitore “un duplicato o un titolo equivalente” (secondo che si tratti rispettivamente di un titolo individuale o di un titolo di massa).Se invece la prova della distruzione non viene pienamente raggiunta, si applicherà la disciplina dello smarrimento e sottrazione, che consoce all’ex portatore solo la possibilità, decorso il termine di prescrizione, di ottenere la prestazione.

Smarrimento, sottrazione e distruzione dei titoli all’ordine e nominativi. Per i titoli a legittimazione nominale, i problemi sollevati dalla perdita involontaria del possesso del titolo sono risolti mediante il ricorso ad una particolare procedura, detta di ammortamento, prevista oltre che per l’ipotesi di smarrimento e sottrazione, anche per quella di distruzione del titolo. La procedura di ammortamento si articola in due fasi: l’una, essenziale, caratterizzata dall’assenza di contraddittore, e rivolta a reintegrare il possessore nella possibilità di riscuotere il credito cartolare mediante un provvedimento giudiziale che tolga valore al titolo in circolazione; la seconda, eventuale, che vede come contraddittore un terzo detentore il quale insorge (mediante opposizione) contro il menzionato provvedimento. Se decorre il termine di 30 giorni senza che sia proposta opposizione, il decreto di ammortamento diviene definitivo e costituisce un titolo giudiziale suppletivo della perduta legittimazione cartolare.

I TITOLI DI CREDITO CAMBIARI

Caratteristiche generali. I titoli cambiari si presentano o come una promessa del sottoscrittore (pagherò cambiario e assegno circolare) ovvero come un ordine (cambiale tratta e assegno bancario) impartito da un soggetto (traente) ad un altro (trattario) avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro al portatore del titolo.

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Essi possono assolvere ad una funzione creditizia, ossia di differimento nel pagamento di una certa somma (cambiale tratta o pagherà cambiario), o ad una funzione di pagamento, ossia di strumento per la riscossione di una somma di denaro (assegno bancario o assegno circolare). Gli obbligati cambiari si dividono in due fondamentali categorie: gli obbligati diretti (ossia coloro ai quali ci si deve rivolgere direttamente per il pagamento) e gli obbligati di regresso, ai quali ci si può rivolgere solo dopo avere inutilmente richiesto il pagamento all’obbligato o al designato al pagamento in via principale.Le obbligazioni incorporate dal titolo cambiario sono rette dal principio della c.d. autonomia delle obbligazioni cambiarie secondo il quale la invalidità di una singola obbligazione cambiaria, per qualsiasi ragione determinatasi, non tocca la validità delle altre.Il trasferimento della proprietà dei titoli cambiari è sottoposto a regole analoghe a quelle previste per i titoli di credito in generale. Peculiare dei titoli cambiari è, invece, il c.d. acquisto della proprietà per riscatto, che si verifica nell’ipotesi in cui il pagamento dei titolo lasci sussistere ancora soggetti obbligati cartolarmente nei confronti del solvens, circostanza questa che si verifica comunemente quando il pagamento venga effettuato da un obbligato di regresso.

L’azione di regresso. L’azione cambiaria di regresso è subordinata al maturare di due presupposti: l’uno, sostanziale, rappresentato dal mancato pagamento (e nella cambiale tratta, nella mancata accettazione) del titolo; l’atro, formale, rappresentato dalla necessità che tale circostanza venga constatata in una forma determinata.È il protesto, atto autentico redatto da un pubblico ufficiale, lo strumento attraverso il quale di solito vengono constatati in forma determinata il mancato pagamento o la mancata accettazione. Nel caso in cui tale constatazione non avvenga in un determinato termine utile (variamento fissato per i diversi tipi di titoli cambiari), la sua omissione, con riferimento al rifiuto di accettazione, determina l’impossibilità di esercitare l’azione di regresso per mancata accettazione, restando salva quella per mancato pagamento.Per quanto riguarda il contenuto, l’azione di regresso comprende l’ammontare del titolo non pagato (o non accettato); la legge fa onere, inoltre, al portatore di dare, entro 4 giorni dal protesto, avviso al proprio girante e al traente: l’omissione dell’avviso non comporta la perdita dell’azione di regresso, ma è solo fonte di risarcimento dell’eventuale danno subito dall’obbligato di regresso (nel limite massimo dell’importo del titolo).L’azione di regresso per mancato pagamento può essere esercitata anche in via anticipata, quando si verifichi: la sottoposizione del trattario o dell’emittente ad una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo, ecc.); la cessazione dei pagamenti (stato di insolvenza non dichiarato); esecuzione infruttuosa sui loro beni; fallimento del traente di una cambiale tratta non accettabile.

La cambiale. Struttura e requisiti formali del titolo. Sul piano giuridico, l’espressione “cambiale” individua due fattispecie distinte: la cambiale tratta ed il vaglia cambiario (pagherò): per cambiale tratta si intende un ordine incondizionato rivolto da un soggetto (detto traente) ad un altro soggetto (trattario) di pagare una somma determinata al portatore del titolo; per vaglia o pagherò cambiario si intende la promessa incondizionata rivolta da un soggetto (detto emittente) al portatore del titolo di pagare una somma determinata.La sottoposizione a condizione dell’ordine o della promessa determina la nullità del titolo.Esclusivo della tratta è il requisito della indicazione del trattario; generalmente il destinatario dell’ordine (trattario) è soggetto diverso da colui che lo impartisce (traente): è tuttavia previsto che il traente possa rivolgere l’ordine a se stesso senza che ciò determini alcuna anomalia.

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Altro requisito formale è costituito dalla indicazione della scadenza del titolo; solo se indicata espressamente, deve corrispondere ad uno dei tipi tassativamente ammessi, altrimenti la sua mancata indicazione non pregiudica la validità del titolo.Anche il luogo di pagamento non necessariamente deve essere oggetto di una enunciazione espressa.Essendo un titolo naturalmente all’ordine, la cambiale deve contenere l’indicazione nominativa del primo prenditore, donde l’inammissibilità di una cambiale al portatore.Essenziale è l’indicazione espressa della data di emissione, certa e possibile.Ultimo dei requisiti formali è la sottoscrizione del traente o dell’emittente, non autentica ma verosimile.La mancanza anche di uno solo di tali requisiti formali è sanzionata dalla legge con la invalidità del titolo “come cambiale”. Essi possono essere apposti anche durante la circolazione, dando così luogo al fenomeno della cambiale in bianco. È sancita la decadenza del portatore dal diritto di riempimento decorsi tre anni dalla data di effettiva emissione del titolo.

La cambiale tratta. Presentandosi come un ordine di pagamento, la cambiale tratta può essere ricondotta alla figura della delegazione di pagamento, con la quale un soggetto (detto delegante), debitore di un altro soggetto (detto delegatario), ordina ad un terzo, di solito suo debitore (detto delegato), di pagare al suo creditore. Il delegato, laddove paghi, potrà “conteggiare” l’importo corrisposto al terzo a riduzione del suo debito verso il delegante. Si rilevi che, sebbene in via di regresso, l’ordinante “risponde dell’accettazione e del pagamento”.

L’assegno bancario: struttura e funzione. L’assegno bancario si presenta come una tratta a vista, on la particolarità che mentre la seconda assolve ad una funzione di credito, il primo adempie ad una funzione di pagamento consentendo, a chi abbia somme disponibili presso una banca, di utilizzarle per effettuare pagamenti a terzi.La sua esigibilità a vista prescinde da ogni scadenza eventualmente apposta sul titolo.È necessario che il trattario rivesta una particolare qualifica (banchiere) che ne assicuri la costante solvibilità; è altresì necessario un preventivo accordo tra traente e trattario in base al quale il secondo si impegna ad onorare gli assegni su di lui tratti nei limiti dei fondi disponibili (c.d. convenzione di assegno).La convenzione di assegno può essere ricondotta allo schema del mandato, in quanto ha per oggetto il compimento, da parte della banca, di una serie di atti giuridici costituiti dal pagamento di assegni tratti in favore di terzi utilizzando i fondi disponibili. Qualora i fondi siano insufficienti, la banca può liberamente scegliere se rifiutare di onorare l’assegno, senza per questo incorrere in responsabilità (extracartolare) nei confronti del cliente, o pagarlo ugualmente (c.d. pagamento di cortesia) “addebitandone” in conto l’importo.Il pagamento non deve essere fatto all’effettivo beneficiario dell’ordine, ma a chi appaia tale secondo le regole della legittimazione cartolare.Ad ovviare il rischio connesso allo smarrimento o alla sottrazione del titolo, soccorre la possibilità di apporre sullo stesso, all’atto dell’emissione o della girata, la clausola di intrasferibilità, che lo rende pagabile unicamente all’immediato prenditore o al banchiere giratario per l’incasso.La legge dichiara la cancellazione della clausola non trasferibile priva di ogni effetto, così come per non scritte vengono ritenute le girate apposte sull’assegno non trasferibile. Inoltre, la banca che paghi a persona diversa da quella indicata viene ritenuta “responsabile” a condizione che sia incorsa in colpa, anche lieve, nell’identificazione del presentatore o nel controllo del titolo in caso di cancellazione.

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Presentazione per il pagamento e l’azione di regresso. Prima di provvedere al pagamento, la banca trattaria è tenuta a controllare, oltre che la legittimazione del portatore, anche l’autenticità della firma di traenza, mediante confronto con l’originale depositato, e l’esistenza di fondi sufficienti.L’azione di regresso, esperibile solo per mancato pagamento, è subordinata alla constatazione, mediante protesto, della tempestiva presentazione del titolo e del suo mancato pagamento. Il protesto può, altresì, essere sostituito da una dichiarazione del trattario scritta sull’assegno con indicazione del luogo e del giorno della presentazione.L’azione di regresso si prescrive nei sei mesi dalla scadenza del termine di presentazione, se si tratta dell’azione intentata dal portatore finale; dal giorno del pagamento o della chiamata in giudizio per il pagamento, se si tratta dell’azione intentata da un obbligato di regresso contro i firmatari precedenti.

L’assegno circolare. Tale tipologia di assegno, detto circolare perché pagabile presso ogni sede, agenzia o filiale della banca emittente, si presenta come un pagherà cambiario a vista emesso da una banca, la cui funzione di strumento di pagamento è rafforzata dal fatto che incorpora un credito verso una banca, e quindi di sicura esigibilità.I requisiti formali dell’assegno circolare sono: la denominazione di assegno circolare inserita nel contesto del titolo; la promessa incondizionata di pagare a vista una somma determinata; l’indicazione del prenditore, il che lo differenzia dall’assegno bancario che può essere emesso al portatore, e ciò per la maggiore idoneità del titolo a far concorrenza alla carta moneta; l’indicazione del luogo e della data di emissione; la sottoscrizione dell’Istituto emittente.

LA CRISI DELL’IMPRESA

LE PROCEDURE CONCORSUALI

Il legislatore ha previsto una pluralità di procedure concorsuali, al verificarsi delle quali viene sottratta all’imprenditore la gestione e la disponibilità dell’impresa e dei suoi beni, ovvero viene nominato un soggetto che opera un controllo sull’esercizio della sua attività.

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Una prima significativa distinzione è quella tra procedure giudiziarie e procedure amministrative. Vi sono, cioè, procedure che vengono disposte con un provvedimento reso dall’autorità giudiziaria (fallimento, concordato preventivo, amministrazione controllata) che altresì nomina gli organi della procedura stessa, ne definisce gli indirizzi e ne ha il superiore controllo; e procedure che sono disposte e “gestite” dall’autorità amministrativa (liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, ristrutturazione industriale), in persona del Ministro di volta in volta individuato dalle leggi speciali.Le procedure giudiziarie hanno essenzialmente cura di attuare l’estinzione della esposizione debitoria (fallimento, concordato preventivo) ovvero di ripristinare la solvibilità dell’imprenditore (amministrazione controllata); le procedure amministrative, invece, hanno come primaria finalità quella di risanare o ricollocare le strutture aziendali appartenenti all’imprenditore sottoposto alla procedura.

Finalità delle procedure. Funzione essenziale delle procedure concorsuali è quella di far cessare la situazione anomala (di crisi) in cui si è venuta a trovare l’impresa che, in quanto riflessa all’esterno, crea una turbativa al sistema economico.La finalità più diffusa è quella esecutivo-satisfattiva, che tende a soddisfare (nei limiti dell’attivo che sarà realizzato) i creditori, attraverso l’esecuzione forzata sul complesso del patrimonio del debitore. Questa finalità hanno, ad esempio, il fallimento ed il concordato preventivo, avente quest’ultimo anche effetto estintivo in quanto nel fallimento, i creditori non pienamente soddisfatti conservano il proprio diritto a conseguire il residuo, dovuto dal debitore, dopo la chiusura della procedura.Finalità a quelle del concordato hanno gli accordi di ristrutturazione dei debiti; tali accordi, stipulati in sede stragiudiziale (ma poi oggetto di omologazione da parte del Tribunale), nel prevedere una ristrutturazione del debito, non solo possono rideterminare le scadenze, ma certamente possono prevedere riduzioni dello stesso negli interessi.La liquidazione coatta amministrativa si applica ad imprese che, nel corso della loro esistenza, sono sottoposte a vigilanza da parte dell’autorità amministrativa. La procedura ha come primaria finalità quella di eliminare l’impresa “malata”; tende, però, al tempo stesso, a ricollocare l’azienda ed a regolare i rapporti pendenti, possibilmente trasferendoli ad altra impresa già operante nel “sistema”.

Il presupposto soggettivo. Ciascuna delle procedure concorsuali presenta proprie specificità anche con riferimento al profilo soggettivo. La qualità di imprenditore commerciale costituisce presupposto comune del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, dell’amministrazione straordinaria, della procedura di ristrutturazione industriale. Invece, per la liquidazione coatta amministrativa, il criterio di identificazione è costituito dal dato testuale delle leggi speciali che la prevedono.È da dire che sono enclisi dall’assoggettamento alle procedure che suppongono la qualità di imprenditore commerciale, i piccoli imprenditori e gli enti pubblici, anche se esercenti attività commerciale.Ai fini dell’identificazione dei piccoli imprenditori, la Corte costituzionale lo ritiene l’imprenditore che esercita l’attività prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.La stragrande maggioranza degli imprenditori commerciali (non piccoli e di natura privata) è assoggettabile a fallimento; tale procedura ha, peraltro, un carattere residuale nel senso che è applicabile solo quando non si applichi l’amministrazione straordinaria, la ristrutturazione industriale o la liquidazione coatta amministrativa.La nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria si applica agli imprenditori soggetti al fallimento che presentano i requisiti: a) un numero di lavorati subordinati non inferiore a 200 da almeno un anno; b) debiti per un ammontare complessivo non inferiore ai due terzi del totale dell’attivo dello stato patrimoniale.

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La procedura di ristrutturazione industriale è, a sua volta, applicabile alle imprese che: a) presentino un numero di lavoratori subordinati non inferiore a 500 da almeno un anno; b) abbiano debiti per un ammontare complessivo non inferiore a trecento milioni di euro.Per la liquidazione coatta amministrativa non esiste un generale criterio di identificazione: sono sottoposti i soggetti per i quali le leggi speciali espressamente lo prevedono.

L’imprenditore collettivo. Nelle società con soci a responsabilità limitata, la procedura concorsuale che riguardi la società non investe anche costoro; un regime diverso opera, invece, quando nella società vi siano soci illimitatamente responsabili. In questo ultimo caso, si produce anche il fallimento dei soci. Sono esclusi i soci illimitatamente responsabili di società cooperative i quali, in caso di fallimento, non ne saranno assoggettati.Si discute, invece, se la norma si applichi ai soci accomandatari di società in accomandita per azioni, all’unico azionista ed all’unico socio di società a responsabilità limitata.

Il presupposto oggettivo. Presupposto oggettivo comune ed indefettibile del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione straordinaria e della ristrutturazione industriale è lo stato di insolvenza del debitore, che si estrinseca in uno squilibrio finanziario dell’impresa, di cui è irrilevante la causa e che prescinde da un eventuale squilibrio patrimoniale (si può avere lo stato di insolvenza anche in caso di prevalenza, nella situazione patrimoniale, delle attività sulle passività).Il debitore inadempiente può ottenere una moratoria per un periodo non superiore a due anni: è la c.d. temporanea difficoltà ad adempiere, presupposto oggettivo per l’ammissione alla procedura di amministrazione controllata, cui si aggiunge la necessità che vi siano comprovate possibilità di risanare l’impresa.

Gli organi delle procedure. Come sappiamo, vi sono procedure giudiziarie e procedure amministrative.L’autorità giudiziaria non svolge, nell’esercizio delle funzioni procedurali, un’attività giurisdizionale civile contenziosa, bensì un’attività c.d. di volontaria giurisdizione, cioè una funzione di natura essenzialmente gestoria di un procedimento non contenzioso.Il tribunale del luogo in cui l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa dispone la procedura ed emette il provvedimento che apre la procedura stessa.In tutte le procedure giudiziarie, viene nominato dal tribunale il giudice delegato, che ha la funzione di seguire più direttamente la procedura, vigilando sulla stessa ed adottando una serie di provvedimenti amministrativi, di controllo o integrativi della volontà dell’organo operativo.Nel fallimento vi è un organo al quale è affidato l’esercizio dell’attività gestoria – sottratta all’imprenditore fallito – e cioè il curatore; nel concordato preventivo, nell’amministrazione controllata e nella fase preliminare dell’amministrazione straordinaria, dove l’imprenditore di regola non perde il potere di gestione e di amministrazione dell’impresa, viene nominato un organo con funzione di controllo, che è il commissario giudiziale.In queste procedure vi è ancora un altro organo, il comitato dei creditori, nominato dal giudice delegato.I procedimenti amministrativi sono affidati, invece, all’autorità amministrativa.L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza è dichiarata aperta dal tribunale, tenuto conto del parere del commissario giudiziale e del Ministro delle Attività produttive; successivamente il Ministro nominerà gli organi della procedura (commissari ed un comitato di sorveglianza) e vigilerà sulla stessa.

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La procedura di ristrutturazione industriale, invece, si apre con un provvedimento dello stesso Ministro, che contestualmente nomina un commissario a cui seguirà la sentenza del tribunale di accertamento dello stato di insolvenza, sempre che venga riscontrata la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi.

I rapporti tra le procedure. La pluralità di procedure impone di precisare quale sia il rapporto che intercorre tra le stesse.In linea di massima, la previsione normativa della soggezione di un imprenditore alla liquidazione coatta amministrativa esclude che lo stesso possa, in via alternativa, essere assoggettato a fallimento. A tale regola vi sono eccezioni, come per le società cooperative: in questi casi opera il principio della prevenzione, cioè prevale la procedura per prima disposta.Quando risulti che la procedura di amministrazione straordinaria non possa essere utilmente proseguita, essa si converte in fallimento. Analogamente avviene per la procedura di ristrutturazione industriale.Per le procedure di concordato preventivo e di amministrazione controllata vie è tanto una possibilità alternativa quanto una possibilità di successione, come può accadere che un imprenditore ammesso alla procedura di amministrazione controllata venga poi ammesso al concordato preventivo o dichiarato fallito o assoggettato a liquidazione coatta amministrativa.A tale successione di procedure (detta consecuzione) viene data una specifica rilevanza: taluni effetti della procedura finale si fanno retroagire alla procedura inizialmente instaurata.

IL FALLIMENTO

Dichiarazione e sentenza di fallimento. La dichiarazione di fallimento può essere pronunciata su ricorso di uno o più creditori, su domanda dello stesso debitore, su istanza del pubblico ministero o d’ ufficio.L’iniziativa avvia un procedimento in camera di consiglio non di natura contenziosa bensì di volontaria giurisdizione (tendente a valutare l’esistenza delle condizioni per adottare una particolare procedura per la liquidazione del patrimonio del debitore). Il tribunale ha un potere inquisitorio.Un momento indefettibile, a pena di nullità del provvedimento che sarà adottato, è quello del decreto che dispone la comparizione dell’imprenditore in camera di consiglio per consentirgli l’esercizio del diritto di difesa.Il tribunale, all’esisto dell’istruttoria: o con sentenza dichiara il fallimento; o con decreto rigetta la richiesta.La sentenza di fallimento: 1) nomina il giudice delegato; 2) nomina il curatore; 3) ordina al fallito il deposito delle scritture contabili; 4) fissa i termini e le date per avviare la procedura di verifica dei crediti. La sentenza è provvisoriamente esecutiva, cioè è eseguita anche in caso di opposizione.Avverso la sentenza di fallimento è consentito proporre, infatti, opposizione, da parte del fallito o di qualunque interessato (soggetto portatore di un interesse morale o patrimoniale), con la sola esclusione di chi abbia avanzato la richiesta del fallimento. L’opposizione va proposta con atto di citazione da notificarsi al curatore ed ai creditori ricorrenti nel termine di 15 giorni, che per il fallito decorrono dalla data di notifica della sentenza; per gli altri soggetti dall’affissione della sentenza alla porta esterna del tribunale.Nel caso il fallimento venga revocato, restano salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi del fallimento. Con la revoca, quando la relativa sentenza sarà

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passata in giudicato, cessano gli organi della procedura ed il debitore viene rimesso nel possesso dei beni nello stato in cui si trovavano.Il tribunale, qualora non riscontri la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, provvede con decreto (di rigetto). Il ricorso può essere sempre riproposto. Contro il decreto di rigetto, il creditore istante può proporre reclamo alla Corte d’appello entro 15 giorni dalla comunicazione del provvedimento.La Corte d’appello, con procedimento analogo a quello celebrato innanzi al tribunale, provvede sul reclamo in camera di consiglio; può rigettare il reclamo con un nuovo decreto ovvero, sempre con decreto, accogliere il reclamo e rimettere d’ufficio gli atti al tribunale per la dichiarazione di fallimento.Stante la natura meramente processuale del provvedimento della Corte d’appello – sia di rigetto che di accoglimento –, contro lo stesso non è ritenuto ammissibile il ricorso per Cassazione.

Gli organi preposti al fallimento.

Il tribunale fallimentare. Viene attribuita al tribunale fallimentare una competenza generale di programmazione, direzione e controllo della procedura. La funzione preminente può identificarsi nel potere di decidere sui reclami proposti avverso i provvedimenti del giudice delegato assunti appunto nel corso della procedura.Non sono soggette a gravame le decisioni che abbiano un contenuto meramente ordinatorio, cioè che riguardino solo l’andamento della procedura; mentre sono suscettibili a ricorso per Cassazione in caso di violazione di legge, i provvedimenti a contenuto decisorio, cioè che incidono sui diritti soggettivi.Il tribunale è giudice delle controversie che derivano dal fallimento.

Il giudice delegato. Il tribunale, con la sentenza di fallimento, designa il giudice delegato, destinatario di poteri di vigilanza e di indirizzo della procedura.Il giudice delegato riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento di questo; emette provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio; convoca il comitato dei creditori; autorizza il curatore a stare in giudizio ed a compiere atti di straordinaria amministrazione sul patrimonio fallimentare.Esercita funzioni giurisdizionali in senso stretto quando assume la qualità di giudice istruttore nelle cause che derivano dal fallimento (es. opposizione alla sentenza di fallimento, opposizione allo stato passivo, domande tardive, ecc.).La modificazione dell’art. 111 Cost., sancendo i principi del giusto processo e del giudice terzo ed imparziale, ha dato nuova forza al dubbio di costituzionalità di tale funzione.

Il curatore. È, in genere, un libero professionista (avvocato, dottore commercialista, ragioniere) iscritto al relativo Albo, ma può essere anche solo un esperto.È nominato dal tribunale ed ha i poteri di amministrazione del patrimonio fallimentare, sotto la direzione del giudice delegato. La legge gli ha attribuito la qualità di pubblico ufficiale.Il curatore svolge un’attività gestionale, nonché un’attività informativa e preparatoria dei provvedimenti del giudice delegato, al quale relaziona. Non può stare in giudizio né compiere atti di straordinaria amministrazione senza l’autorizzazione del giudice delegato. Nel caso venga compiuto l’atto senza la dovuta autorizzazione, questo presenta un vizio genetico dovuto alla carenza dei poteri del curatore; per cui o l’autorizzazione viene rilasciata a sanatoria dell’atto oppure il curatore potrà chiedere l’annullamento dell’atto stesso; cioè, si tratta di un atto annullabile e l’annullabilità può essere fatta valere solo dalla parte la cui manifestazione di volontà presenta un vizio o una carenza, cioè, in questo caso, il fallito e non il terzo.Il curatore può essere sanzionato solo con la revoca dell’incarico, per il compimento di atti senza il rispetto delle procedure dettate dalla legge.

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Il comitato dei creditori. Il giudice delegato nomina il comitato dei creditori dopo che è stato reso esecutivo lo stato passivo. Il comitato ha funzione non di rappresentanza dei creditori, bensì di controllo e valutazione delle vicende della procedura dell’interesse della massa dei creditori.È composto da tre o cinque membri; ha una funzione di controllo, che può essere esercitata anche singolarmente da ciascun membro, ed una funzione consultiva necessariamente collegiale.In ogni momento il giudice delegato può sostituire uno o più membri del comitato.Deve dirsi che, in linea generale, tale organo ha dato prova di cattivo funzionamento e di scarsa efficacia.

Gli effetti del fallimento per il fallito. Il fallimento produce nei confronti del fallito specifici effetti di natura personale e di natura patrimoniale.Gli effetti di natura personale sono collegati ad un giudizio di inaffidabilità sociale del fallito: non scatta una incapacità generale, bensì viene prevista la incompatibilità o la decadenza da particolari funzioni o uffici. Il fallito non perde, invece, la patria potestà e l’esercizio di tutti i poteri legati al rapporto di famiglia.La riabilitazione può essere concessa con sentenza da parte del tribunale che ha dichiarato il fallimento, quando il fallito: a) ha pagato integralmente tutti i crediti ammessi al passivo del fallimento, compresi gli interessi e le spese; b) ha regolarmente adempiuto il concordato fallimentare; c) abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta per un periodo di almeno cinque anni dalla chiusura del fallimento. La riabilitazione non può essere concessa se il fallito sia stato condannato per il reato di bancarotta fraudolenta o altri reati “economici”.Per quanto attiene agli effetti di natura patrimoniale, dalla data della sentenza di dichiarazione di fallimento, il fallito perde, nei confronti della massa dei creditori, il potere di amministrare e di disporre dei propri beni: questi rientrano automaticamente nell’area della indisponibilità; vi rientrano anche quei beni acquistati successivamente alla sentenza di fallimento.Il fallito conserva nella propria sfera di disponibilità taluni beni e diritti di natura personale, o perché esclusi per legge dalla esecuzione forzata o perché essenziali alla sua sussistenza. Così, certamente può “lavorare” e quindi fare proprio il corrispettivo; ma sarà il giudice delegato a determinare le somme che potrà trattenere per il mantenimento suo e della famiglia e quelle che devono invece essere comprese nella massa attiva.Oltre a queste limitazioni di diritto sostanziale, il fallito perde la legittimazione in ordine ai rapporti processuali pendenti o da instaurarsi; in questi ultimi, se relativi ai rapporti rientranti nel fallimento, al posto del fallito sarà in giudizio il curatore. Peraltro, il fallito può parteciparvi se il giudizio può comportare il rischio di una sanzione penale a suo carico.

Gli effetti del fallimento per i creditori. dalla data di dichiarazione di fallimento, i creditori possono chiedere l’accertamento del proprio credito solo attraverso lo speciale procedimento dell’ammissione al passivo. Da tale data, i creditori non possono proseguire o avviare azioni esecutive nei confronti del fallito. Tal regola vale anche per chi sia divenuto creditore della massa dopo la dichiarazione di fallimento.È da precisare che tali regole non valgono per chi sia diventato creditore personale del fallito dopo la sentenza di fallimento; questo, in pendenza del fallimento, si potrà soddisfare esclusivamente sui beni “personali” del fallito e non potrà partecipare al concorso fallimentare.Il divieto di azioni esecutive individuali, compreso il sequestro conservativo, non è assoluto nel fallimento; vi sono leggi speciali che consentono tali azioni.Se il credito non è munito di un titolo di prelazione (pegno, ipoteca, privilegio) con la dichiarazione di fallimento è sospeso il corso degli interessi.

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Per i crediti pecuniari è consentita la compensazione tra i debiti che i creditori hanno nei confronti del fallito, ed i propri crediti nei confronti dello stesso, anche se sono scaduti alla data del fallimento.

Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori. L’azione revocatoria. L’art. 2740 prevede che il debitore risponda dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Tale norma, se interpretata alla lettera, comporterebbe una cristallizzazione assoluto del patrimonio del debitore; ipotesi paralizzante della circolazione dei beni e quindi della vita economica.Il debitore, pur in presenza di quel vincolo, può disporre dei propri beni; se con tale atto fa venir meno una preesistente garanzia patrimoniale, è previsto un meccanismo che consente al creditore di ripristinare tale garanzia: l’azione revocatoria.L’azione revocatoria colpisce il comportamento (negozio, atti o fatti giuridici) che, modificando la struttura del patrimonio, renda meno agevole o meno sicuro il soddisfacimento del credito o attribuisca ad uno o più creditori una posizione di vantaggio rispetto ad altri. Quindi, viene colpito l’atto di disposizione che pregiudica la massa dei creditori.È da notare che tale azione non colpisce la validità dell’atto (che non è né nullo né annullabile), bensì incide sulla sua efficacia, sui suoi effetti, impedendo che questi si producano in danno dei creditori (ipotesi di inefficacia relativa).Nel caso venga accolta la domanda in revocatoria dal curatore: a) se è revocato un rapporto a prestazioni corrispettive, il terzo deve restituire il bene ricevuto e, su sua domanda, può essere ammesso al passivo per ciò che aveva corrisposto al (debitore poi) fallito; b) se è revocato un pagamento, il soggetto che lo aveva ricevuto deve restituire la relativa somma, potendo chiedere di essere ammesso al passivo per la somma di cui era originariamente creditore.

Gli effetti del fallimento sui rapporti giuridici. La problematica rileva per i rapporti sorti prima della dichiarazione di fallimento che non abbiano avuto completa esecuzione da ambo le parti. Invero, se un rapporto non si è ancora perfezionato alla data del fallimento, il vincolo giuridico non è ancora sorto, per cui non può parlarsi di rapporto preesistente. Se il rapporto è stato completamente eseguito da una delle parti, all’altra non resta che chiedere l’adempimento: se debitore è il fallito, ciò dovrà avvenire con le forme della domanda di ammissione al passivo.Ci sono dei contratti che si sciolgono de iure con la dichiarazione di fallimento: i contratti di associazione in partecipazione, il mandato e la commissione, il rapporto del socio nelle società di persone, il contratto di agenzia.Ci sono poi dei contratti che proseguono con il subingresso del curatore nel rapporto; si pensi, nel contratto di locazione, al fallimento del locatore (subentra, salvo patto contrario, il curatore); con riferimento al fallimento del conduttore, poiché il contratto è da considerarsi come di natura personale, non viene computato nel fallimento.A regime diverso sono sottoposti, poi, i contratti tipici non menzionati ed i contratti atipici.Per il rapporto di lavoro, è da escludere che il fallimento costituisca giusta causa di risoluzione del contratto: il rapporto è sospeso con la dichiarazione di fallimento, salvo determinazioni diverse del curatore.Per i contratti atipici sorgono difficoltà di soluzione.Il leasing (finanziario), in caso di fallimento dell’utilizzatore, si scioglie, salvo che il curatore sia autorizzato a proseguirlo.Il contratto di factoring non si scioglie con la dichiarazione di fallimento; anzi, prosegue salvo recesso del curatore del cedente fallito per i crediti non ancora sorti; in caso di fallimento del factor, il contratto si scioglie in relazione ai crediti non ancora sorti.Al contratto di franchising si ritiene possa applicarsi la disciplina del contratto d’appalto, secondo cui il contratto si scioglie, salvo che il curatore chieda di subentrare nel contratto, prestando idonea cauzione.

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L’avvio della procedura fallimentare. Immediatamente dopo la dichiarazione di fallimento, il giudice delegato provvede all’apposizione dei sigilli sui beni che si trovano nella sede principale dell’impresa e sugli altri beni del debitore.Successivamente, il curatore (con l’assistenza del cancelliere) procede alla stesura dell’inventario, acquisendo il possesso dei beni del fallito.Con la dichiarazione di fallimento viene interrotto l’esercizio dell’impresa; tuttavia, la legge fallimentare prevede la possibilità che ne sia decisa la continuazione quando dall’interruzione improvvisa possa derivare un danno grave ed irreparabile.

L’accertamento e la verifica del passivo. Coloro i quali vantano una pretesa nei confronti del fallito hanno l’onere di farla valere: la pretesa relativa ai crediti pecuniari si fa valere a mezzo della domanda di ammissione al passivo; la pretesa avente ad oggetto la rivendica, restituzione o separazione di beni mobili si fa valere a mezzo di specifica domanda.Il curatore, con lettera raccomandata, deve dare notizia ai creditori risultanti dalle scritture contabili dell’intervenuta dichiarazione di fallimento, dei termini per la presentazione della domanda di ammissione al passivo e della data fissata per l’udienza di verifica.Il giudice delegato, con l’assistenza del curatore, forma lo stato passivo sulla base dell’elenco cronologico delle domande predisposto dal cancelliere. Il giudice provvede sulle domande con decreto.Lo stato passivo è costituito dall’elenco di tutti i creditori che hanno presentato domanda tempestiva, con i relativi provvedimenti adottati dal giudice delegato su ciascuna richiesta; è reso esecutivo, dopo la chiusura dell’udienza di verificazione, con il deposito in cancelleria.Il curatore, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, deve dare comunicazione ai creditori (a tutti, e non solo ai non ammessi) dell’avvenuto deposito in cancelleria dello stato passivo, e del provvedimento adottato sulla loro domanda.I creditori esclusi in tutto o in parte, o ammessi con riserva, possono proporre opposizione mediante ricorso al giudice delegato nei 15 giorni dalla ricezione della comunicazione. Il giudice delegato fissa l’udienza di comparizione.Occorre tenere presente che nel caso un credito non venga ammesso al passivo e non sia proposta opposizione, lo stesso non può più essere fatto valere in alcun modo nel fallimento; solo fino a quando vi sia attivo da ripartire, possono essere presentate domande tardive d’ammissione al passivo.

Domande di rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili. Quando oggetto della pretesa del terzo sia un bene mobile, si applica una procedura simile a quella dettata per i crediti. È previsto che il terzo possa far valere un proprio diritto di proprietà su di un bene acquisito alla massa fallimentare (rivendicazione) o possa far valere un diritto sulla riconsegna del bene, in forza di un rapporto obbligatorio come, per esempio, in ragione di un contratto di custodia (restituzione). Infine, il terzo può limitarsi a chiedere che vanga accertato un proprio diritto sul bene, di cui peraltro non chiede la restituzione, e venga solo assicurata la sua esclusione dai beni oggetto della liquidazione (separazione).Ciò induce alla formazione di un autonomo stato passivo. Se il bene non venga rinvenuto nel patrimonio del fallito, il terzo potrà chiedere l’ammissione al passivo in via chirografaria per il valore che il bene aveva alla data del fallimento.

La liquidazione dell’attivo. Una volta che sia stato reso esecutivo lo stato passivo, e quindi sia noto l’ammontare dei debiti da soddisfare, si procede alla liquidazione dell’attivo rinvenuto.

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Per i beni mobili, il giudice delegato determina le modalità di vendita, che può avvenire o all’incanto o ad offerte private. Se anteriormente alla dichiarazione di fallimento pendeva un procedura esecutiva mobiliare, questa diventa improcedibile.Per gli immobili, innanzi tutto, è da ricordare che le procedure esecutive già in corso alla data del fallimento proseguono. La vendita degli immobili, disposta nell’ambito della procedura, deve farsi con incanto; è prevista la possibilità, con il consenso dei creditori, che si proceda alla vendita senza incanto. È escluso che si possa procedere alla vendita a trattativa privata.

La ripartizione dell’attivo. Ai fini del riparto parziale, il curatore predispone un prospetto delle somme disponibili e un progetto di ripartizione delle stesse, detratte quelle occorrenti per la procedura. Il giudice delegato, a cui è il prospetto è sottoposto, sentito il comitato dei creditori, apporta eventuali variazioni, poi ordina che sia depositato in cancelleria e che tutti i creditori siano avvisati.I creditori devono far pervenire, nei 10 giorni dal ricevimento dell’avviso, le loro osservazioni; dopodichè, il giudice delegato stabilisce con decreto il piano di riparto, rendendolo esecutivo.Il piano di riparto indica, nell’ordine, i crediti in prededuzione, cioè quelli vantati nei confronti della procedura fallimentare, i crediti muniti di diritto di prelazione, e quindi i crediti chirografari in proporzione tra loro; il tutto, ovviamente, nei limiti dell’attivo disponibile.In linea generale, i creditori ammessi tardivamente partecipano solo ai riparti successivi all’ammissione, in proporzione del proprio credito. Tale regola, però, subisce eccezione per i creditori che vantino diritti di prelazione e per quelli (anche non muniti di diritti di prelazione) i quali dimostrino che il ritardo è dipeso da causa ad essi non imputabile.Una volta che sia stata completata la liquidazione dell’attivo, il curatore presenta al giudice delegato il conto della gestione. Approvato il conto, il tribunale liquida il compenso al curatore ed il giudice delegato ordina il riparto finale, da predisporsi secondo il procedimento già descritto per i riparti parziali.Il curatore provvede i pagamenti, e le somme che non vengono riscosse vengono depositate presso una banca.La cessazione della procedura fallimentare. La chiusura del fallimento. Si può avere la chiusura della procedura di fallimento: 1) in caso di mancata proposizione, nei termini fissati dalla sentenza di fallimento, di domande di ammissione al passivo; 2) quando sia stata compita la ripartizione finale di tutto l’attivo realizzato; 3) quando la procedura non possa essere continuata per insufficienza di attivo. A tali casi va aggiunta l’ipotesi di concordato (c.d. fallimentare).Prima che il tribunale emetta il provvedimento di chiusura del fallimento, è necessaria la presentazione del rendiconto (relazione sulla procedura) da parte del curatore e la richiesta di chiusura del fallimento.Il tribunale, con decreto, dichiara chiuso il fallimento; tale decreto può essere reclamato nei 15 giorni dalla data dell’affissione, innanzi alla Corte d’appello. Trattandosi di un provvedimento di natura ordinatoria, è da escludere la ricorribilità in Cassazione.Con la chiusura del fallimento – escluso il caso del concordato – i crediti che non siano completamente soddisfatti, anche eventualmente per i soli interessi, possono essere azionati nei confronti del debitore tornato in bonis.

La chiusura del fallimento per concordato. Una caratteristica del tutto peculiare ha la chiusura del fallimento per concordato. In questo caso si consente che, su richiesta del fallito, possa essere proposto ai creditori il pagamento dell’intero debito, con sua definitiva liberazione e con cessazione del fallimento.Ciò avviene presentando una domanda al giudice delegato, nella quale siano indicati la percentuale offerta ai creditori chirografari ed il tempo di pagamento, nonché le garanzie offerte per il pagamento dei crediti e per le spese della procedura.

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Se fallita è una società, la proposta: nelle società di persone deve essere approvata dai soci che rappresentino la maggioranza di capitale; nelle società di capitali, dall’assemblea straordinaria, salvo che tali poteri siano stati delegati agli amministratori. Nel caso di fallimento di società con soci illimitatamente responsabili, ciascun socio dichiarato fallito può proporre un proprio concordato ai creditori sociali e particolari concorrenti nel proprio fallimento.Una volta che la proposta sia stata approvata dai creditori, il giudice delegato dichiara aperto il procedimento di omologazione – nel cui ambito i creditori dissenzienti possono far valere le proprie opposizioni – che si conclude con una sentenza del tribunale; nel giudizio interviene il pubblico ministero. Con il passaggio in giudicato della sentenza che omologa il concordato, la procedura di fallimento è chiusa.Dopo l’omologazione del concordato, il giudice delegato, il curatore e il comitato dei creditori sorvegliano l’adempimento da parte di chi ne assume l’obbligo (assuntore).Nel caso le garanzie promesse non vengano costituite o comunque il concordato non venga adempiuto, il tribunale dichiara con sentenza, non soggetta a gravame, la risoluzione del concordato e la conseguente riapertura del fallimento.

Gli effetti del fallimento del socio. Il fallimento del socio di società a responsabilità limitata non provoca alcun effetto particolar sulla società, alvo ovviamente la sostituzione del curatore al socio fallito nella gestione della quota di partecipazione.Il fallimento del socio di società con soci illimitatamente responsabili non produce il fallimento della società, bensì la reclusione di diritto del socio fallito (disposizione dettata per le società semplici ma applicabile anche alle società in nome collettivo ed alle società in accomandita semplice).

LE PROCEDURE CONCORSUALI GIUDIZIARIE VOLONTARIE

A) IL CONCORDATO PREVENTIVO

Presupposto oggettivo della procedura non è più lo stato di insolvenza, bensì lo stato di crisi. Il presupposto soggettivo è la sola qualità di imprenditore commerciale, con esclusione degli enti pubblici e del piccolo imprenditore.L’iniziativa del debitore, unico legittimato, si apre con il deposito presso il tribunale di una proposta di concordato preventivo (ricorso), che contenga un piano nel quale vengono identificati: a) i mezzi, le modalità e gli strumenti per una ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti; b) sia previsto l’intervento di un assuntore, che acquisisca l’attivo ed estingua la debitoria.Destinatari della proposta sono i creditori chirografari ed i creditori privilegiati che, eventualmente, rinuncino al titolo di prelazione. I creditori privilegiati non rinuncianti, una volta omologato il concordato, dovranno essere soddisfatti spontaneamente, ovvero potranno agire esecutivamente sui beni sui quali vantano il diritto di prelazione.

Il provvedimento di ammissione alla procedura e suoi effetti. Se il tribunale riconosce ammissibile la proposta, avvia il procedimento nominando un giudice delegato ed un commissario giudiziale, ordina la convocazione dei creditori, stabilendo un termine per il deposito, da parte del debitore, di una somma presumibilmente necessaria per l’intera procedura.

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Se sussiste lo stato di insolvenza, il mancato versamento del deposito comporta la dichiarazione di fallimento d’ufficio; se manca lo stato di insolvenza, l’messo deposito comporterà solo l’inammissibilità della domanda.Il debitore, pur dopo l’ammissione della procedura, conserva l’amministrazione dei propri beni e prosegue l’esercizio dell’impresa sotto la vigilanza del commissario giudiziale e la direzione del giudice delegato. Una serie di atti, considerati di straordinaria amministrazione, sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori alla proposta di concordato, se compiuti senza l’autorizzazione scritta del giudice delegato.In qualsiasi momento il commissario giudiziale accerti che il debitore abbia compiuto atti in frode alla legge o che la procedura non possa essere utilmente continuata, ne riferisce al tribunale perché pronunzi la dichiarazione di fallimento; questo, sempre previo accertamento dell’esistenza dello stato di insolvenza, considerato che presupposto oggettivo della procedura potrebbe essere stato anche una situazione diversa dall’insolvenza.L’ammissione alla procedura di concordato non incide sui rapporti contrattuali.È il commissario giudiziale a redigere l’inventario del patrimonio del debitore ed a predisporre una relazione che illustri le cause della “crisi” e la proposta di concordato. I creditori chirografari e quelli privilegiati rinunciatari sono chiamati a pronunciarsi sulla proposta esprimendo il proprio voto.Il concordato è approvato se riporta il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi; dopodichè, il tribunale può approvare il concordato.Se non si raggiunge la maggioranza, si deve ritenere possibile la presentazione di una domanda migliorativa. Il mancato raggiungimento delle maggioranze non legittima la dichiarazione di fallimento, in assenza dell’accertamento dello stato di insolvenza.

L’omologazione e le vicende successive. La procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione, entro sei mesi dal deposito della domanda.Con la definitività del decreto, il procedimento prosegue ai soli fini del suo adempimento. Per i debiti anteriori al decreto di ammissione alla procedura, il debitore risponderà nei limiti del concordato, mentre per quelli successivi, siano essi anteriori o successivi alla sentenza di omologazione, risponderà secondo le regole comuni. Salvo le limitazioni derivanti dal decreto di omologazione, il debitore riacquista la piena e libera disponibilità dei propri beni.Il concordato, una volta che sia stato omologato, è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura.Il commissario giudiziale sorveglia l’esecuzione del concordato e ne riferisce al giudice delegato: la risoluzione e l’annullamento comportano la contestuale dichiarazione di fallimento, sempre che si riscontro la sussistenza dello stato di insolvenza.In caso di fallimento successivo alla omologazione del concordato, gli atti, i pagamenti e le garanzie poste in essere in esecuzione dello stesso non sono soggetti all’azione revocatoria, a meno che non si dimostri che lo “stato di crisi” esistente al momento dell’apertura della procedura già configurasse (almeno) uno stadio iniziale dello stato di insolvenza.

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. È una sub-specie di concordato preventivo, con la quale il debitore deposita in tribunale un accordo di ristrutturazione del debito già stipulato con i creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti.Il ricorso deve essere accompagnato dalla relazione di un esperto sull’attuabilità dell’accordo stesso.Tale istituto tende ad escludere dalla soggezione a revocazione gli atti, i pagamenti e le garanzie prestati in esecuzione di tali accordi. Da ciò l’interesse dei creditori “non aderenti” all’accordo a proporre eventuali opposizioni contro lo stesso, su cui decide il tribunale. Questo può nonostante le opposizioni, omologare l’accordo; ma è da ritenere anche rifiutare l’omologazione per l’assenza delle condizioni di attuabilità del piano o

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per la sua inidoneità ad assicurare il regolare pagamento di creditori estranei anche eventualmente non opponenti.

B) L’AMMINISTRAZIONE CONTROLLATA

Le funzionalità e le finalità dell’amministrazione controllata possono essere considerate assorbite dal nuovo concordato preventivo, istituto generale di prevenzione del fallimento.Le condizioni di ammissione della procedura sono: l’esistenza di comprovate possibilità do risanare l’azienda e la durata della procedura non superiore a due anni.Anche qui viene designato un giudice delegato e nominato un commissario giudiziale. Trovano applicazione numerose norme dettate per il concordato preventivo.La proposta è approvata se riporta il voto favorevole della maggioranza dei creditori che rappresenti la maggioranza dei crediti.Nel corso della procedura, il debitore conserva l’amministrazione dei beni, sotto la direzione del giudice delegato e la vigilanza del commissario giudiziale.La procedura deve tendere a consentire al debitore il regolare adempimento dei debiti.In qualunque momento risulti che la procedura non sia utilmente proseguibile, il giudice delegato richiede al tribunale di dichiarare il fallimento, salva la possibilità del debitore di avanzare istanza, prima che sia pronunziata la sentenza, per l’ammissione al concordato.Anche qui, la dichiarazione di fallimento investe il tema della consecuzione: i debiti sorti in pendenza della procedura devono essere considerati debiti della massa, come tali da pagare in prededuzione nell’ambito della procedura fallimentare.

LE PROCEDURE CONCORSUALI AMMINISTRATIVE

A) LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA

Finalità della liquidazione coatta è l’eliminazione della impresa dal sistema nel quale è inserita, o per rilevare gravi irregolarità nella gestione o per la manifestazione dello stato di insolvenza.Può essere disposta in via autonoma dall’autorità che ha la vigilanza dell’impresa con un atto amministrativo (decreto ministeriale) soggetto alla disciplina propria di tali atti, anche sotto il profilo della impugnabilità (competenza del giudice amministrativo per lesione di interessi legittimi).Al commissario liquidatore spetta il compito di formare, d’ufficio, lo stato passivo; ha tutti i poteri necessari per la liquidazione dell’attivo, salvo le limitazioni stabilite dall’autorità che vigila sulla liquidazione: occorre l’autorizzazione della stessa ed il parere del comitato di sorveglianza per la vendita degli immobili e dei beni mobili in blocco.La procedura si può chiudere con il riparto tra i creditori dell’attivo realizzato o con un concordato: infatti, anche se ciò può risultare in contrasto con la asserita funzione estintiva dell’impresa, è ammesso che l’impresa in liquidazione proponga un concordato che, peraltro, non viene sottoposto ai creditori per l’approvazione, ma deve essere omologato dal tribunale.

B) L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRESE INSOLVENTI

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La nuova disciplina riguarda la grande impresa commerciale (che sia soggetta per sua natura al fallimento, che abbia almeno 200 lavoratori dipendenti e con debiti per un ammontare complessivo non inferiore a due terzi dell’attivo dello stato patrimoniale) che risulti insolvente.Tale procedura ha finalità conservativa del patrimonio produttivo mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali.Si applicano le disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa.Il commissario straordinario (o i commissari) ha la gestione dell’impresa e l’amministrazione dei beni dell’imprenditore insolvente e degli eventuali soci illimitatamente responsabili ammessi alla procedura e, come il curatore, per quanto attiene alle proprie funzioni, è pubblico ufficiale.È il Ministro delle attività produttive a nominare un comitato di sorveglianza, che ha funzione consultiva sugli atti del commissario.Il commissario straordinario, entro 60 giorni dal decreto di apertura della procedura, redige il programma secondo uno degli indirizzi alternativi previsti: alienazione dei beni aziendali o riorganizzazione dell’impresa.Il programma deve essere particolarmente analitico e la sua esecuzione è autorizzata dal Ministro, che poi lo trasmette al tribunale che ha accertato lo stato di insolvenza.La procedura di amministrazione straordinaria viene convertita in fallimento con decreto del tribunale, su richiesta del commissario straordinario, quando risulti che la stessa non possa essere utilmente proseguita, o quando siano scaduti i termini previsti per l’esecuzione del programma.

C) LA RISTRUTTURAZIONE INDUSTRIALE DI IMPRESE INSOLVENTE

Costituisce una variante dell’amministrazione straordinaria.La procedura è riservata alle imprese, soggette alle disposizioni sul fallimento, che intendano valersi della procedura di ristrutturazione economica e finanziaria, purché presentino i seguenti requisiti: almeno 500 lavoratori subordinati; debiti non inferiori a trecento milioni di euro.La procedura si apre – a seguito della richiesta dell’impresa, unica legittimata – con il provvedimento del Ministro delle attività produttive, che nomina il commissario, a cui seguirà la sentenza di accertamento dello stato di insolvenza.Il commissario, cui viene immediatamente affidata la gestione dell’impresa, predispone il programma di ristrutturazione; qualora il Ministro riscontri la non fattibilità di tale programma, il commissario presenta un programma di cessione; se neppure tale programma appare realizzabile o non è presentato, il tribunale dispone la conversione della procedura in fallimento. Il programma può anche prevedere la soddisfazione dei creditori attraverso un concordato, che viene approvato dalla maggioranza dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto.L’azione revocatoria può essere esercitata purché si traduca in un vantaggio per i creditori.

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