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Diritto Commerciale Esplicazione Liberamente tratto dal manuale V. BUONOCORE, Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, XI edizione, 2013. L’acquisto di questo lavoro è subordinato all’acquisto del manuale dal quale è tratto. Per gli altri termini e condizioni visita il sito www.appuntiluiss.it

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Diritto Commerciale Esplicazione

Liberamente tratto dal manuale V. BUONOCORE, Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, XI edizione, 2013. L’acquisto di questo lavoro è subordinato all’acquisto del manuale dal quale è tratto. Per gli altri termini e condizioni visita il sito www.appuntiluiss.it

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Premessa

Chi siamo

Appunti Luiss è un progetto nato per rendere meno difficoltosa e più soddisfacente la vita universitaria.

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Ora, dato che la diffusione di questo tipo di lavori aiuta lo studio e il superamento degli esami, il favorire tale diffusione è il primo obbiettivo che Appunti Luiss si propone.

Il secondo obbiettivo che ci proponiamo è quello di valorizzare questo tipo di lavori.

Tale valorizzazione, per natura, produce un doppio effetto: favorisce la diffusione, incentivando gli studenti a produrne sempre di più, e costituisce la giusta ricompensa per gli studenti che li hanno prodotti agevolando anche il sostentamento dello studente stesso.

Insomma, quello che Appunti Luiss vuole fare è aiutare gli studenti e premiarecoloro che hanno reso questo possibile.

Appunti Luiss Team

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L’IMPRENDITORE

L’IMPRENDITORE IN GENERALE

Il codice civile qualifica imprenditore “chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082). Inoltre, secondo il dettato dell’art. 41 Cost. l’iniziativa economica è libera, ed essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Da questi due principi possono ricavarsi alcuni corollari importanti:

1. La libertà di iniziativa economica genera a sua volta quattro libertà: di intraprendere l’attività di impresa, di svolgerla senza condizionamenti, di cessarla senza interferenze, la libertà di concorrenza.

2. Se è vero che i precetti costituzionali contengono limiti alla libertà di iniziativa economica, è anche vero che tali precetti devono essere considerati indicatori di rotta che il Costituente ha voluto dare al legislatore ordinario, quindi anche alle imprese.

3. Si profila l’adozione di interventi pubblici di programmazione e controllo tesi a far sì che l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali.

Il concetto di imprenditore è, prima che un concetto giuridico, un concetto economico, individuante uno dei vari soggetti che concorrono alla distribuzione della ricchezza. Essendo individuato in funzione dell’esercizio dell’impresa, la definizione generale dell’imprenditore è anche definizione generale dell’impresa. Quella che viene denominata realtà globale dell’impresa riceve un supporto normativo in quella parte della disciplina che regola i momenti fondamentali della vita di un’impresa, come:

1. La nascita e la morte; la qualità di imprenditore individuale si acquista in conseguenza dell’esercizio di fatto dell’attività e la stessa qualità si perde non solo per effetto di una determinazione volitiva dell’imprenditore ma anche in conseguenza dell’effettiva dissoluzione del patrimonio aziendale.

2. La vita dell’impresa nel mondo esterno; ditta, insegna, marchio. 3. La sostituzione del soggetto imprenditore nell’esercizio dell’attività e l’attribuzione coattiva o

volontaria del potere ad altri soggetti. È poi naturale che in relazione alle dimensioni e alla natura dell’attività esercitata l’impresa possa essere destinataria di statuti normativi differenti. L’analisi dell’art. 2082 esige che la definizione venga scomposta nei seguenti elementi caratterizzanti:

1. Attività economica. L’impresa viene in evidenza quale attività e quindi quale serie di atti finalizzati ad un medesimo scopo ultimo, e l’attività deve potersi far risalire alla volontà del soggetto e nello specifico, se non la volontà degli effetti, la volontarietà del comportamento. Nella disputa tra coloro i quali respingono la plausibilità di un’impresa illecita, vi sono autori che distinguono l’ipotesi in cui illecita è l’attività come tale dall’ipotesi in cui l’illiceità riguarda solo le modalità di svolgimento di un’attività lecita. Nel primo caso la sanzione può consistere nella non invocabilità della disciplina dell’impresa; nelle ipotesi del secondo tipo si tratterà di valutare, di volta in volta, se l’atto singolo debba essere colpito dalla sanzione della nullità.

2. L’attività deve essere “organizzata”. L’organizzazione serve, in primo luogo, a individuare il confine tra le attività produttive e quelle attività le quali non assumo carattere di impresa proprio perché non sono organizzate, come ad esempio il lavoro autonomo. L’organizzazione deve rivolgersi al modo esterno (eterorganizzazione) e l’attività deve essere rivolta al mercato. Conclusivamente, vi è lavoro autonomo anche e finché l’uso di mezzi o strumenti materiali serve all’esplicazione dell’attività di lavoro del soggetto e non configura una produttività che ecceda quella del lavoro individuale; vi è impresa quando quel livello è superato.

3. Professionalità. L’avverbio “professionalmente” sta ad indicare abitualità, non permanenza, né

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esclusività, né prevalenza nell’esercizio. Di converso non può parlarsi di impresa in relazione ad un’attività economica svolta occasionalmente. La destinazione dell’attività a durare nel tempo deve essere rilevabile oggettivamente e non desumendola dalle intenzioni del soggetto, sulla base di indici e criteri rilevatori. La valutazione relativa all’esistenza della professionalità non può mai andar disgiunta da una coeva valutazione dei dati relativi alla organizzazione.

4. Non si discute più se lo scopo di lucro sia elemento costitutivo della nozione d’impresa. L’economicità dell’art. 2082 non può che riferirsi all’azione del soggetto e al risultato economico di tale azione; ciò non significa dare rilevanza ad un intento del soggetto, bensì controllare pur sempre un carattere oggettivo dell’attività e il suo meccanismo di funzionamento, il quale deve essere remunerativo

5. Produttività. Per qualificare un’impresa come produttiva sono irrilevanti sia il tipo e la natura dei beni o dei servizi prodotti o scambiati, sia il tipo di bisogni che beni o servizi sono destinati a soddisfare.

L’impresa non è soltanto esercizio di attività economica professionalmente organizzata, ma anche una comunità di lavoratori. Al richiamo all’importanza del lavoro delle norme costituzionali, diversi articoli del codice civile fanno riferimento. Esempi di ciò sono l’art. 2086 stabilisce che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” e l’art. 2087 a tenore del quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nelle’esercizio dell’impresa le misure che secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Né meno importante è l’art. 2112 che al 1° comma dispone che “in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con l’acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”. In mancanza di specifiche indicazioni normative, l’individuazione del criterio da adottare per l’imputazione dell’attività d’impresa ha costituito uno dei più rilevanti nodi posti dalla disciplina del codice civile. Se si guarda alla fisiologia dell’attività d’impresa non vi è dubbio che l’attività d’impresa vada imputata secondo il criterio della spendita del nome: il rischio di impresa va a ricadere sulla persona nel cui nome gli atti d’impresa vengono posti in essere e l’attività d’impresa viene esercitata. Ma la responsabilità per le obbligazioni assunte dall’impresa deve appuntarsi sull’imprenditore occulto o su quello palese? Applicando il criterio della spendita del nome la risposta è nel senso dell’attribuzione della qualità di imprenditore esclusivamente a chi appare all’esterno come tale e su di lui ricade il rischio d’impresa. Se pure si scoprisse l’esistenza di un accordo regolante i rapporti tra imprenditore palese e imprenditore occulto, questo dovrebbe essere considerato alla stregua di un mandato senza rappresentanza, con la conseguenza che il mandatario agisce in proprio nome. Non mancano orientamenti inclini ad individuare regole di imputazione degli atti e dell’attività ulteriori rispetto a quelle illustrate. Una prima corrente di opinione rileva che la spendita del nome non costituisce l’unico criterio di imputazione dell’attività di impresa. L’attribuzione della paternità di agire postula l’identificazione dell’effettivo autore dell’atto, al di là del nome che questi spenda nelle relazioni giuridiche intrattenute. Ad altro filone di pensiero appartengono autori i quali colgono nella correlazione tra potere di direzione dell’impresa e responsabilità patrimoniale risultante dalle norme in tema di società personali l’espressione di un principio generale, che consente di chiamare a rispondere delle obbligazioni assunte nell’esercizio dell’impresa non soltanto il soggetto il cui nome è speso, ma anche il soggetto nel cui interesse l’attività stessa è svolta. A conclusioni diverse approda la c.d. tesi dell’imprenditore occulto. Essa ha individuato nella art. 147 l. fall. i presupposti per riconoscere la qualifica di imprenditore a chi, padrone dell’impresa, si occulta dietro il paravento di un altro soggetto che agisce in nome proprio. Tale articolo stabilisce che il socio occulto scoperto dopo l’apertura della procedura concorsuale è esposto alla stessa sorte dei soci palesi, cui si estende il fallimento della società. Le riserve espresse in ordine alla possibilità di individuare criteri di imputazione dell’impresa diversi dalla spendita del nome nulla tolgono all’esigenza di contrastare adeguatamente i fenomeni di abuso nell’interposizione

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nell’esercizio dell’impresa. È in questa ottica che la giurisprudenza tende a qualificare come autonoma impresa commerciale l’attività mediante la quale un soggetto sistematicamente dirige e finanzia una diversa impresa, ponendosi quale dominus della stessa. Occorre precisare che occorre distinguere la disciplina che ha ad oggetto l’esercizio dell’attività d’impresa da quella parte della disciplina che riguarda il “tipo” di imprenditore. A tutte le entità che rispondono al paradigma delineata nell’art. 2082 si applicano in linea di principio le norme che costituiscono lo statuto dell’imprenditore in generale. In aggiunta alla disciplina generale, alle singole entità saranno applicabili le norme indotte dalla “natura” dell’attività esercitate, in relazione alle dimensioni dell’azienda e al dettato delle leggi speciali. Alla tematica dell’imputazione dell’attività di impresa appartiene il caso dell’imprenditore che eserciti più attività economiche organizzate ad impresa. Si avranno imprese distinte quando potranno riscontrarsi pluralità di attività e pluralità di organizzazioni; dovrà parlarsi di impresa unica in presenza di un’unica attività organizzata con articolazioni di stampo autonomistico. Va preliminarmente ribadito che l’art. 2082 si riferisce all’impresa senza ulteriori attribuzioni e che gli elementi in tale norma contenuti come individuanti l’istituto non possono essere considerati di uno o di altro tipo di impresa. Nel quadro della nozione generale di imprenditore possono poi operarsi alcune distinzioni previste dal legislatore importanti ai fini dell’applicazione della disciplina differenziata; e cioè:

1. In relazione all’attività esercitata avremo le imprese agricole e le imprese commerciali. 2. Con riferimento alle dimensioni dell’impresa avremo il piccolo imprenditore e l’imprenditore. 3. Con riguardo al soggetto esercente potremmo avere una prima distinzione basata sulla natura di

esso e quindi avremo l’impresa pubblica e l’impresa privata, ed una seconda distinzione basata sulla veste che l’imprenditore assume all’esterno, ed avremo la distinzione tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo (società).

Non ha più ragione d’essere la distinzione che un tempo si profilava tra imprese soggette a registrazione e imprese non soggette a registrazione. La nuova disciplina mantiene ferma la formazione precedente per la parte relativa all’obbligo di iscrizione nel registro degli imprenditori commerciali non piccoli, delle società e degli enti pubblici aventi ad oggetto un’attività commerciale. Tuttavia la disciplina in discorso ha previsto l’istituzione di sezione speciali del registro nelle quali devono essere iscritti gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori e le società semplice, nonché le imprese artigiane ed ha precisato che tale iscrizione ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre che gli effetti previsti dalle leggi speciali. La legge attribuisce la qualifica di imprenditore agricolo a colui che esercita le attività di “coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse” (art. 2135, comma 1°). Si tratta quindi di attività che da un lato sono connotate dalla loro attinenza a specie vegetali o animali, dall’altro devono essere, in concreto o potenzialmente, esercitate in relazione con il fondo.

1. L’impresa di coltivazione del fondo consiste in un’attività umana che deve assumere i carattere di un’attività di produzione dei beni, rispetto alla quale il fondo assume il ruolo di fattore produttivo, essendo indifferenti le modalità tecnico-produttive. Analogo discorso può farsi per la selvicoltura.

2. Con la locuzione “allevamento di animali”, l’aver adottato il termine animali sta ad indicare la chiara volontà del legislatore di non porre limiti all’inquadramento nelle attività agricolo principali di ogni tipo di allevamento.

Il d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99, ai fini dell’applicazione della normativa statale, ascrive la qualifica di imprenditore agricolo professionale (IAP) al soggetto che dedichi alle attività agricole di cui all’articolo 2135 c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessi e che ricavi dalle attività medesime almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro. Fermo restando il criterio soggettivo per cui deve esservi identità tra la persona che esercita l’attività agricola principale e la persona che esercita l’attività agricola per connessione, la norma delinea due ipotesi di connessione da cui discende una sensibile dilatazione dell’area delle attività connesse:

1. Attività consistenti nella manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e

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valorizzazione aventi ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento del bestiame.

2. Attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata.

Affinché le società possano essere considerate imprenditori agricoli a titolo principale occorre in primo luogo che lo statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo dell’attività agricola. Ferma tale condizione, devono ricorrere ulteriori presupposti:

1. Con riguardo alle società di persone, è richiesto che almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale. Analogo presupposto vale con riguardo alle cooperative.

2. Nel caso di società di capitali occorre che il 50% del capitale sociale sia sottoscritto da imprenditori agricoli a titolo principale, condizione che deve essere assicurata anche in sede di circolazione delle partecipazioni.

Inoltre, la legge equipara alla figura dell’imprenditore agricolo la diversa figura dell’imprenditore ittico dedito all’esercizio, in forma singola, associata o societaria, dell’attività di pesca professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici nonché di attività connesse. Sempre la legge definisce attività agrituristiche “le attività di ricezione e di ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 c.c. attraverso l’utilizzazione della propria azienda in rapporto alla connessione con le attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento di animali. L’imprenditore commerciale è identificabile attraverso un particolare statuto normativo, ma a differenza dell’imprenditore agricolo, non viene definito da una norma ad hoc. La nozione di impresa commerciale si ricava applicando un criterio negativo, nel senso che è commerciale ogni imprenditore che non eserciti un’attività agricola, ovvero, le attività commerciali coprirebbero tutto l’ambito delle attività riconducibili all’art. 2082 con la sola espressa esclusione delle attività qualificate come agricole dall’art. 2135. L’art. 2195 sancisce innanzi tutto l’obbligo della iscrizione del registro delle imprese di alcune categorie di imprenditori che svolgono determinate attività la cui natura commerciale si desume dal 2° comma per il quale “le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano”. Tali attività sono:

1. Attività industriali; 2. Attività commerciali; 3. Attività di trasporto; 4. Attività bancarie; 5. Attività assicurative; 6. Attività ausiliarie delle precedenti.

In base al codice civile a alla legge fallimentare, l’imprenditore commerciale: 1. È obbligato ad iscriversi nel registro delle imprese, anche quando si tratta di un ente pubblico che

esercita un’attività commerciale. 2. È obbligato a tenere le scritture contabili. 3. È soggetto al fallimento e alle altre procedure concorsuali, salvo quando si tratta di ente pubblico. 4. Può servirsi di ausiliari.

L’annotazione in appositi registri delle operazioni contabili e la periodica rilevazione della situazione patrimoniale dell’impresa rappresentano per l’imprenditore, prima che un obbligo sancito per legge, un’esigenza e una necessità indefettibile. Hanno una triplice funzione: consentire di seguire costantemente l’andamento della gestione; informare i terzi; permettere la ricostruzione della situazione debitoria dell’imprenditore. Soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili sono, oltre che l’imprenditore, anche le società, qualunque sia l’attività esercitata, e gli enti pubblici che svolgono attività commerciale non in via principale. Nel delineare la disciplina della contabilità che l’imprenditore deve in defettibilmente

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osservare il legislatore ha introdotto un sistema misto ove, accanto all’obbligo di tenuta delle scritture nominativamente individuate, l’imprenditore debba necessariamente tenere le atre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensione dell’impresa. Il minimo indispensabile, secondo le modalità indicate, è costituito da:

1. Nel libro giornale devono essere annotate, secondo l’ordine cronologico, le operazioni relative all’esercizio dell’impresa, con l’osservanza del c.d. criterio dell’immediatezza.

2. Nel libro degli inventari devono essere indicate e valutate le attività e le passività relative all’impresa, nonché quelle estranee alla medesima.

3. L’imprenditore deve conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite.

La legge prevede anche un nucleo “mobile”, parimenti obbligatorio. La disciplina relativa non contiene alcuna indicazione nominativa di scritture contabili, ma la scienza aziendalistica non ha mancato di individuare i libri resi necessari dalle dimensioni dell’impresa e dal ramo merceologico in cui essa opera. Il sistema normativo è completato dalle disposizioni relative alle modalità di tenuta delle scritture contabili, la cui osservanza è indispensabile perché le scritture stesse siano giudicate regolari. Orbene, le scritture contabili possono essere utilizzate come mezzo di prova sia contro che a favore dell’imprenditore. L’efficacia probatoria a favore dell’imprenditore è subordinata ad alcune condizioni: se infatti l’imprenditore vuole utilizzare come prova contro altri imprenditori le proprie scritture contabili lo può fare solo per i rapporti inerenti all’impresa e sempre che le abbia regolarmente tenute. I mezzi processuali di acquisizione delle scritture sono: l’esibizione, che può avere ad oggetto solo determinate registrazione e viene ordinata dal giudice anche su istanza di parte, e la comunicazione, la quale concerne l’integrale contabilità dell’imprenditore, viene fatta alla controparte ed è ammessa, su ordine del giudice, solo in caso di controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di morte. Resta da segnale che, anche se solo in una parte minima, la dottrina postula l’esistenza di una categoria di imprese civili, partendo dalla constatazione che vi sono attività le quali non possono farsi rientrare tra quelle previste negli artt. 2135 e 2195 c.c. Gli argomenti sui quali tale tesi si fonda sono sia di ordine sistematico, sia di ordine testuale:

1. Le attività di produzione e di scambia di cui all’art. 2195 non coincidono integralmente con quelle all’art. 2082 perché qualificate dal carattere dell’industrialità o della commercialità propriamente detta. Di conseguenza, quando tali caratteri non sono presenti, l’attività non può essere automaticamente qualificata commerciale, anche se non agricola.

2. Esistono attività cine quelle ausiliarie di attività non commerciali prive dei caratteri di commercialità e dell’agrarietà che la legge stessa segnala.

L’art. 2083 c.c. stabilisce che “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”, identificando così una categoria di operatori economici esonerati dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili, nonché immuni al fallimento. Inoltre, al di là della visione del codice civile, la fattispecie della piccola impresa viene in evidenza anche nell’ambito di un’ampia ed articolata legislazione speciale. In realtà, oggi, dal testo dell’art. 1 della l. fall. è stato espunto ogni riferimento alla figura del piccolo imprenditore. Sicché oggi la norma indica essenzialmente i requisiti di ordine dimensionale che l’imprenditore commerciale deve congiuntamente possedere al fine di sottrarsi al fallimento:

1. Il valore dell’attivo patrimoniale e il volume di ricavi lordi, riferiti ai tre esercizi precedenti, non possono superare rispettivamente la soglia di trecentomila e duecentomila euro complessivi annui.

2. L’ammontare dei debiti, anche non scaduti, non può superare il limite di cinquecentomila euro.

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Secondo la più convincente interpretazione l’art. 2083 c.c. consente di individuare, mediante il profilo della prevalenza, figura di piccolo imprenditore diverse da quelle tipiche ivi indicate; ma ciò non toglie che anche in relazione a queste ultime la prevalenza del lavoro personale dell’imprenditore e dei suoi familiari rappresenti un carattere essenziale. Non può tuttavia tacersi che, fatta eccezione per la figura del piccolo commerciante, tanto con riguardo alla figura del coltivatore diretto, quanto con riguardo a quella dell’artigiano, la legislazione speciale è direttamente intervenuta sui profili dimensionali dell’impresa, andando a definirli in termini che progressivamente appaiono sempre più lontani dalla logica codicistica della “prevalenza”. L’impresa pubblica è quella esercitata dallo Stato o da altro ente pubblico, retta da uno statuto approvato con provvedimento ad hoc nel quale sono indicati gli scopi che essa si prefigge di raggiungere, oltre che agli elementi che ne caratterizzano il sorgere. In ogni caso, oggi, attraverso modalità e procedure diverse, si va progressivamente abbandonando la politica dell’intervento pubblico in economia, nel segno della privatizzazione delle imprese che ne sono state espressione. Ai fini della corretta individuazione della fattispecie dell’impresa pubblica occorre precisare che:

1. Non possono ricondursi ad essa le cc.dd. società a partecipazione pubblica. 2. L’impresa pubblica non va confusa con quelle società in cui allo Stato o ad altro ente pubblico sia

riservato il potere di nominare amministratori o sindaci. Dunque il paradigma stricto sensu comprende:

1. Ipotesi dell’impresa esercitata direttamente dallo Stato o da altro ente pubblico nel quadro delle rispettive funzioni istituzionali, per il tramite di un’organizzazione priva di personalità giuridica.

2. Ipotesi dell’ente pubblico, persona giuridica avente come scopo esclusivo o prevalente l’esercizio di una specifica attività imprenditoriale.

È opinione quasi generale che l’impresa pubblica non presenti rispetto a quella privata particolari elementi di differenziazione in punto di disciplina, in quanto lo schema dell’impresa fa posto anche a finalità non lucrative, purché perseguite con metodo economico. Sembra corretto ritenere che, limitatamente alle imprese esercitate, gli enti pubblici in questione siano sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore e alla disciplina dell’impresa commerciale. La figura dell’impresa sociale è stata introdotta dal d.lgs. 24 marzo 2006, n.155 il cui art.1 stabilisce che possono assumere la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazione private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale, un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, coi requisiti di cui agli articoli successivi. Possono comunque acquisire la qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano attività d’impresa per l’inserimento di lavoratori svantaggiati e disabili. A norma dell’art. 768 bis, il patto di famiglia si concreta nel contratto in virtù del quale “compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie” l’imprenditore, da un lato, e il titolare delle partecipazioni societarie, dall’altro, trasferiscono, in tutto o in parte, ad uno o più discendenti, rispettivamente, l’azienda e le proprie quote. Alla stipulazione di tale contratto, che richiede la forma dell’atto pubblico a pena di nullità, devono partecipare il coniuge e i legittimari in quel momento esistenti. I soggetti che, per effetto del patto di famiglia, risultino assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto con una somma di danaro corrispondente al valore delle quote o con beni in natura; e i beni così assegnati sono imputati alle quote di legittima loro spettanti senza che tali assegnazioni siano sottoposte a collazione o riduzione. Il patto di famiglia può essere sciolto mediante diverso contratto con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti o, se previsto dalle parti, mediante recesso.

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L’IMPRENDITORE INDIVIDUALE

L’imprenditore individuale è per definizione la persona fisica. A questa si aggiungerebbero anche la persona giuridica non corporativa e il patrimonio separato. Vi è una parte dello statuto dell’imprenditore che si applica al solo imprenditore individuale, in particolare ove eserciti un’attività commerciale, e vi sono, del pari, momenti della vita dell’impresa che richiedono una distinta analisi per l’imprenditore individuale e per quello collettivo. Ci si riferisce a: acquisto e perdita della qualità di imprenditore; capacità di esercizio dell’impresa; pubblicità legale. Non si dubita che, per la persona fisica, l’acquisto e la perdita della qualità di imprenditore conseguono rispettivamente all’inizio in fatto e alla cessazione in fatto dell’attività d’impresa:

1. Inizio dell’impresa. L’acquisto della qualità di imprenditore è indipendente da ogni adempimento di carattere formale e si produce in conseguenza dell’inizio effettivo dell’attività economica. Detto questo si tratta di stabilire in concreto da quale momento possa dirsi iniziata l’attività e quindi nata l’impresa. Secondo il primo orientamento, all’interrogativo si risponde sostenendo che l’impresa nasce quando sono realizzate organizzazione e attività produttiva. Secondo i fautori della tesi soggettiva, la distinzione, non agevole, tra atti di organizzazione e atti dell’organizzazione non avrebbero rilievo, posto che anche gli atti preparatori rientrano nell’alveo dell’attività d’impresa. All’individuazione del momento di inizio dell’attività d’impresa, la legge ricollega:

L’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta della contabilità. L’applicazione delle forme di tutela dei segni distintivi e contro la concorrenza sleale. La soggezione alle procedure concorsuali. 2. Fine dell’impresa. In perfetta simmetria, la cessazione dell’impresa non è legata a momenti formali,

ma si produce in conseguenza della cessazione di fatto dell’attività d’impresa. Anche in questo caso due tesi principali si contendono il campo, anche se la distanza tra esse è più apparente che reale. In effetti, all’opinione secondo la quale si ha cessazione dell’impresa quando alla cessazione dell’attività si accompagni la disgregazione dell’organismo aziendale, si giustappone l’orientamento di chi ritiene che, cessata l’attività produttiva, l’impresa muore anche se sussistono ancora organizzazione e rapporti con i terzi. Nel quadro di tale valutazione, lo snodo decisivo sembra essere costituito dall’accertamento della cessazione dell’attività, circostanza alla quale, in sede applicativa, tende a connettersi anche il riscontro della disgregazione dell’organizzazione aziendale. In questa ottica la giurisprudenza si affida alla individuazione di una serie di indici e da una serie di manifestazioni che depongano univocamente nel senso della disgregazione dell’organizzazione aziendale. Potrà dirsi avvenuta la disgregazione del complesso aziendale allorché l’imprenditore avrà esaurito la c.d. liquidazione dell’attivo, per aver alienato non solo le giacenze o le scorte di magazzino, ma anche l’attrezzatura necessaria allo svolgimento dell’attività.

La cessazione dell’impresa può avvenire anche per la morte dell’imprenditore. Nell’ipotesi in cui si prevede che l’eredità si presenti dannosa, gli eredi potranno chiedere il fallimento dell’imprenditore defunto, a condizione che l’eredità non si sia già confusa con il loro patrimonio. In tal caso, con la dichiarazione di fallimento cessano di diritto gli effetti della separazione dei beni ottenuta dai creditori del defunto a norma del codice civile. Premesso che anche per l’imprenditore valgono le norme comuni regolanti la capacità al compimento di atti giuridici, sicché può dirsi che chi ha la capacità di agire è anche capace di esercitare una impresa; il codice civile si occupa, con alcune norme, di fissare peculiari presupposti per la legittimazione al compimento degli atti giuridici. Ecco riassunti i principi regolatori della materia:

1. Le deroghe alla disciplina comune riguardano esclusivamente le imprese commerciali. Questa disparità di trattamento trova la sua giustificazione nella maggiore sicurezza dei risultati produttivi dell’impresa agricola e nell’essere la maggior parte degli atti di quest’ultima di ordinaria amministrazione.

2. Sia l’incapace che l’inabilitato possono essere autorizzati solo a continuare, ma non ad iniziare,

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l’esercizio dell’attività commerciale. Fa eccezione alla regola il minore emancipato, il quale dopo l’autorizzazione consegue la piena capacità di agire anche per gli atti estranei all’impresa, con la sola eccezione degli atti di donazione.

3. In ogni caso, l’esercizio-continuazione o inizio di un’impresa commerciale, sia nel caso di incapacità assoluta sia nel caso degli inabilitati e dei minori emancipati, deve essere autorizzato dal tribunale su parere del giudice tutelare.

4. Nel caso di minore o dell’interdetto il giudice tutelare, nelle more della decisione sulla continuazione, può autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa.

5. Tutti i provvedimenti di autorizzazione o di revoca di questa devono essere iscritti nel registro delle imprese.

Per quanto riguarda il registro delle imprese, la parte sostanziale della disciplina resta quella delineata nel codice del 1942. È opportuno, perciò esporre le sole innovazioni importanti:

1. Viene individuato nella Camera di Commercio l’ente sede dell’Ufficio del registro delle imprese. 2. Vengono istituite sezioni speciali del registro, nelle quali sono iscritte tutte quelle categorie di

imprenditori per le quali, nel regime previgente, non era prevista alcuna forma di pubblicità. 3. Il registro delle imprese è unico e comprende le sezioni speciali e nel registro delle imprese sono

iscritti i soggetti previsti dalla legge e gli atti previsti dalla legge.

GLI ELEMENTI DI IDENTIFICAZIONE DELL’IMPRESA Sezione I – I segni distintivi

La ditta è il nome usato dall’imprenditore nei rapporti inerenti l’esercizio dell’impresa: essa costituisce un segno distintivo necessario, nel senso che ogni imprenditore ne è dotato, venendo esso, in mancanza di una diversa scelta, a coincidere con il nome civile. Tuttavia anche in tal caso resta netta la differenza, sul piano concettuale, tra nome civile e ditta perché mentre il nome civile distingue l’imprenditore nei rapporti extra aziendali, la ditta lo distingue nei rapporti afferenti l’esercizio dell’impresa. Nei rapporti imprenditoriali l’interferenza della funzione concorrenziale della ditta esclude l’esistenza di ditte identiche. Inoltre il nome civile è intrasmissibile, non così la ditta, sia pure nei limiti di cui all’art. 2565 c.c. La coesistenza di nome e ditta sussiste non solo per gli imprenditori individuali, ma anche per quelli collettivi. Nel dettare la disciplina della ditta il legislatore si è astenuto dall’esercitare una chiara e coerente opzione tra le due funzioni astrattamente assegnabili a questo segno distintivo: ossia una funzione di trasparenza, ovvero una funzione concorrenziale. Conserva pertanto la sua attualità l’antica disputa tra i seguaci della c.d. teoria soggettiva, che qualifica la ditta come segno distintivo dell’impresa, e della c.d. teoria oggettiva, che qualifica la ditta come segno distintivo dell’impresa. L’art. 2563 impone, nella formazione della ditta, l’adozione del cognome o della sigla dell’imprenditore: peraltro la salvezza della regola sulla trasferibilità della ditta in realtà circoscrive la vigenza del principio della verità, inteso come coincidenza tra il soggetto cui la denominazione usata consente di risalire ed il titolare dell’impresa, al momento della creazione della ditta, riducendolo, in caso di trasferimento del segno distintivo ad altro imprenditore o di cambiamento dello stato civile, ad un principio di verità storica. La norma non contempla un’esplicita sanzione in caso di sua inosservanza, se non quella della non iscrivibilità della ditta nel registro delle imprese, come si desume dal disposto dell’art. 2566 a tenor del quale l’ufficio deve rifiutare l’iscrizione se la ditta non è conforme al dettato del codice civile, lasciando all’interprete se ed in che misura sia tutelabile anche una ditta irregolare. La indicazione del cognome o della sigla dell’imprenditore non esaurisce il contenuto della ditta, ma costituisce soltanto un limite all’autonomia privata che, scontata l’osservanza della citata norma, può poi esplicarsi con ogni libertà aggiungendo a quella indicazione ogni altra fantasia purché dotata di capacità distintiva o c.d. originalità. La possibilità di arricchire il contenuto del segno distintivo, consente, da parte di un imprenditore che eserciti più imprese, l’uso di ditte diverse; tale facoltà non può invece esercitarsi rispetto alle varie sedi in cui può essere articolato l’esercizio di un’unica impresa. L’art. 2564 c.c. stabilisce

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che, quando la ditta risulti eguale o simile a quella usata da un altro imprenditore e possa creare confusione in relazione all’oggetto dell’impresa ed al luogo in cui la stessa è esercitata, incombe a carico del suo creatore l’obbligo di introdurre nella stessa elementi idonei a differenziarla. La norma prescrive il riferimento congiunto, ai fini della rilevanza della confondibilità, sia all’oggetto dell’attività delle ditte eguali o simili che alla zona di operatività. La giurisprudenza adotta un’interpretazione ampia di tali punti di riferimento tale da rendere rilevante la confondibilità di ditte anche in presenza di un rapporto concorrenziale meramente potenziale e non ancora effettivo. Il conflitto tra ditte confondibili viene risolto in base al principio della priorità d’uso, non supplito, per le imprese commerciali, da quello della priorità d’iscrizione del registro delle imprese. La mancata ottemperanza all’obbligo di registrazione non preclude totalmente l’opponibilità del fatto soggetto a pubblicità, ma la subordina all’onere della prova dell’effettiva conoscenza da parte del terzo cui si vuole opporre il fatto non iscritto. Il soccombente nel conflitto tra ditte confondibili ha l’onere, non l’obbligo, di modifica o integrazione, essendo tenuto a tanto solo se interessato a conservare la possibilità di utilizzare la propria ditta. Nel caso di ditte confondibile formate solo dal cognome, è subentrato un moderno orientamento che, privilegiando l’interesse socialmente diffuso alla differenziazione tra imprese, ritiene che il soccombente possa conservare, accanto alla nuova ditta, l’uso del proprio nome, non con funzione concorrenziale, ma di semplice indicazione del soggetto responsabile per le obbligazioni assunte. L’art. 2563, comma 1°, individua il contenuto del diritto sulla ditta nel potere di farne uso esclusivo. L’esclusiva riconosciuta al titolare non si riferisce solo all’uso del segno distintivo in funzione di ditta, ma anche quale insegna o marchio. Controversa è la natura giuridica del diritto all’uso esclusivo della ditta, concepito da taluni come un diritto di proprietà su un bene immateriale, da altri come una manifestazione della personalità dell’imprenditore. In ogni caso si tratta di un diritto assoluto opponibile erga omnes. Non essendovi una normativa specifica in ordine alla tutela del diritto all’uso esclusivo della ditta si farà capo alle norme sulla concorrenza sleale che comprende anche l’uso confusorio di altrui segni distintivi. Pertanto chi si ritiene leso dall’usurpazione della propria ditta potrà chiedere l’inibitoria dell’uso, oltre che la rimozione degli effetti e il risarcimento del danno, nonché la pubblicazione della sentenza. Il diritto all’uso esclusivo della ditta nasce con l’adozione di una certa denominazione come segno distintivo, indipendentemente dalla sua registrazione. Ne consegue che la registrazione, non accompagnata dall’uso effettivo, è inidonea ad attribuire un’esclusiva sul segno distintivo. Il diritto all’uso della ditta si estingue per una vicenda eguale e contraria a quella che è alla base del suo sorgere: ossia la cessazione dell’uso, con carattere di definitività. Il processo di spersonalizzazione della ditta sancisce la trasferibilità sia mortis causa sia per atto tra vivi della stesso, purché ciò avvenga unitamente al trasferimento, al medesimo titolo, dell’azienda. La fattispecie deroga al principio di verità, non imponendo la legge all’acquirente della ditta l’aggiunta del proprio nome a quello del dante causa, pregiudizio temperato dall’onere di pubblicità cui sono soggetti i contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda. La trasferibilità della ditta è però condizionata dall’esigenza di salvaguardare l’interesse morale del vecchio titolare a non vedere associato il proprio nome all’attività svolta dall’acquirente. Mentre nei trasferimenti mortis causa tale interesse non assume rilievo se non si manifesta un’apposita clausola testamentaria che esclude il trasferimento della ditta, in quelli inter vivos condiziona la vicenda traslativa al consenso dell’alienante a che il trasferimento includa la ditta. La disciplina in analisi si ritiene applicabile anche al trasferimento del ramo d’azienda. All’insegna il codice civile dedica un’unica disposizione, l’art. 2568 contenente il richiama alla regola sul divieto di uso di ditta confondibile. Essa è un segno (emblematico o denominativo) apposto all’ingresso del locale (o dei locali) dove l’imprenditore offre al pubblico i beni o servizi da lui prodotti o commercializzati. Essa risponde sia alla funzione di distinguere l’esercizio dagli altri facenti capo alla concorrenza sia di facilitarne la fisica reperibilità. L’esclusivo richiamo al principio di novità per la ditta consente di formare l’insegna in base a criteri di pura fantasia, con l’esclusivo limite, oltre quello di concorrenza, del rispetto dei principi di ordine pubblico e buon costume, nonché dell’obbligo di non trarre in inganno il pubblico sulla natura ed attività dell’impresa. Come tutti i segni distintivi deve essere dotata del requisito di originalità. Il

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richiamo all’art. 2564 attribuisce al titolare del diritto sull’insegna il potere di inibire ad altri imprenditori l’uso del medesimo segno distintivo. Inoltre, il rinvio al conflitto tra ditte confondibili consente di individuare nell’uso il momento del sorgere del diritto sull’insegna. Tale uso si estrinseca normalmente con la sua fisica apposizione sul locale in cui l’impresa offre al pubblico i suoi beni o servizi, ma nulla esclude che possa essere anticipato. Speculare al fatto costitutivo del diritto all’insegna è il fatto estintivo: il diritto all’uso esclusivo si estingue per la cessazione dell’attività o per il protratto inutilizzo dell’insegna stessa. L’insegna non è iscrivibile nel registro delle imprese in quanto non soggetta a pubblicità; le controversie su di essa si risolveranno unicamente in base alla priorità dell’uso. Infine essa non è trasferibile separatamente dall’azienda, né può formare oggetto di concessione d’uso, ed in ogni caso l’uso della stessa non può essere condizionato dal consenso del cedente, tranne nel caso in cui apposita clausola pattizia escluda l’insegna dai beni costituenti il complesso aziendale ceduto. Il sistema giuridico dei segni distintivi considera anche il marchio, il segno con il quale l’imprenditore presenta i suoi prodotti o servizi sul mercato. La funzione distintiva del marchio afferisce alla presenza nel prodotto o nel servizio di determinate caratteristiche particolari, riconducibili all’utilizzazione di un brevetto o di una serie di specifiche cognizione e tecniche procedimentali. È la presenza costante di queste caratteristiche tipologiche che il marchio assicura e per questo non possono essere utilizzati come marchio i segni idonei ad ingannare il pubblico. Esso adempie inoltre ad una funzione pubblicitaria che cessa di costituire un mero risvolto di quella distintiva quando il marchio finisce per esercitare una funzione puramente suggestiva. Il marchio si presenta come un segno del prodotto, un entità che pur essendo idonea a differenziarlo, tuttavia non si immedesima con le sue caratteristiche. Questo principio, noto come estraneità del marchio al prodotto, esclude che possano essere protette come marchio le innovazioni tecniche ed estetiche che sono elementi costitutivi del prodotto stesso ed inseparabili da esso, ed acquisibili in esclusiva solo tramite brevettazione. Il marchio di fabbrica è quello apposto dal fabbricante per contraddistinguere i suoi prodotti, il marchio di commercio è quello apposto dal rivenditore di prodotti altrui. Il rivenditore, se il prodotto reca un marchio di fabbrica non può sopprimerlo apponendovi quello di commercio, mentre se ne è privo deve evitare che il proprio marchio possa indurre in errore il pubblico sulla provenienza del prodotto. Può ottenere il brevetto per marchio d’impresa chi lo utilizza o si propone di utilizzarlo nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso. Fenomeno del tutto diverso è quello del marchio collettivo, adottato da un soggetto per la tutela di una categoria di imprenditori cui viene concesso l’uso del segno per contraddistinguere i loro prodotti. Fornisce ai consumatori una garanzia qualitativa circa la provenienza, la natura e gli standard del prodotto, funzione assicurata dalla subordinazione della concessione in uso del marchio all’adesione delle imprese utenti ad un ordinamento regolamentare comune, atto ad assicurare la rispondenza alla realtà della garanzia offerta nonché sanzioni per la loro inosservanza. Il mancato controllo sull’uso del marchio ne comporta la decadenza. Possono costituire oggetto di registrazione come marchio tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente purché siano atti a contraddistinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. I requisiti di validità del marchio sono:

1. Novità; 2. Originalità (o capacità distintiva); 3. Liceità; 4. Veridicità.

La legge ammette che la nullità del marchio possa essere sanata se il segno ha acquistato carattere distintivo del prodotto a seguito dell’uso che ne è stato fatto (c.d. secondary meaning). L’acquisto del diritto di esclusiva all’uso del segno distintivo con efficacia preclusiva assoluta di un marchio eguale o simile avviene con la registrazione del marchio presso l’Ufficio Centrale Brevetti e Marchi, il quale verificherà la presenza dei requisiti di validità sopra elencati. L’art. 2571 c.c. stabilisce che “chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altrui ottenuta, nei

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limiti in cui anteriormente se ne è avvalso”. Per quanto riguarda i rapporti coi terzi che adottino un segno eguale o simile, il titolare del marchio non registrato potrà agire non con l’azione di contraffazione, che contempla una tutela assoluta fondata sulla sola identità o somiglianza del segno, ma con quella di concorrenza sleale per confusione ex art. 2598 c.c. che contempla una tutela condizionata al fatto che la confondibilità del segno distintivo si sia tradotta in confondibilità dei prodotti o dell’attività. L’esclusiva riconosciuta a chi registra il marchio dura dieci anni, essendo tuttavia il brevetto rinnovabile essa ha praticamente durata illimitata. La protezione del marchio si articola, sul piano processuale, in tre tipi di azioni: cautelari, di cognizione ed esecutive. Le azioni cautelari si articolano nella descrizione, nel sequestro e nella inibitoria. Le prime due sono misure cautelari, perché colpiscono le cose, la terza è una misura cautelare personale, perché colpisce una persona impedendole la continuazione di un facere. La descrizione mira a fotografare la situazione, che viene dedotta come integrante la violazione del diritto di esclusiva, ed ha per oggetto tutti gli elementi materiali che ne provano la violazione. Il sequestro invece si realizza con lo spossessamento. Ha una funzione preclusiva della perpetuazione dell’illecito. Questa funzione preclusiva è svolta con maggiore incisività dall’inibitoria che essendo un ordine di non facere ha una portata generale, laddove la valenza inibitoria del sequestro è limitata agli oggetti sui quali esso riesce ad essere eseguito materialmente. L’azione di contraffazione mira a far dichiarare illecito e conseguentemente a fare interrompere un uso indebito del segno distintivo su cui l’attore vanta l’esclusiva; accanto alla statuizione di merito si pongono poi una serie di misure accessorie quali la rimozione del segno contraffatto o la distruzione dei prodotti, e la pubblicazione della sentenza. vi è infine il risarcimento del danno. Esso deve essere in rapporto di causalità con l’illecito ed assume la configurazione sia del danno emergente che del lucro cessante. Il riconoscimento del marchio come bene suscettibile di circolazione separata rispetto all’azienda non può cancellare la valenza funzionale del diritto di esclusiva rispetto all’attività di produzione o commercializzazione, conseguentemente si stabilisce una presunzione (relativa) di trasferimento del marchio in caso di cessione d’azienda, eccezion fatta per il marchio patronimico. Inoltre la disciplina ammette la licenza d’suo del marchio, quindi la concessione in uso non esclusivo,con l’obbligo però a carico del licenziatario di usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari. Il merchandising è il contratto con il quale il titolare di un marchio ne concede la facoltà di uso ad un altro imprenditore per apporlo su prodotti di natura diversa da quelli per i quali è stato registrato in precedenza. La figura si differenzia tuttavia dalle licenze d’uso di tipo tradizionale nelle quali al licenziatario viene concesso di usare il marchio per prodotti già fabbricati dal licenziante. Il diritto all’uso esclusivo del marchio registrato si estingue per rinuncia espressa o per scadenza in caso di mancato rinnovo della registrazione. Esistono una serie di ipotesi di sopravvenuta perdita dei requisiti di validità del marchio, le quali si convertono in causa di decadenza del diritto di esclusiva:

1. Volgarizzazione del marchio; 2. Perdita successiva di istintività; 3. Illiceità sopravvenuta.

L’esigenza di evitare una pura e semplice occupazione monopolistica del segno distintivo è alla base dell’obbligo che impone al titolare l’uso effettivo del marchio entro cinque anni dalla registrazione. Al mancato uso è equiparata la usa sospensione per eguale periodo. Dalla decadenza per non uso sono esclusi i c.d. marchi difensivi, cioè quelli che presentano somiglianza con il marchio effettivamente usato e che vengono registrati per evitare che altri si avvicinino al marchio difeso adottando quelle piccole varianti idonee ad escludere la confondibilità. La legittimazione a far dichiarare giudizialmente la nullità o la decadenza del marchio spetta a chiunque vi abbia interesse, nel senso della presenza di uno specifico interesse a contestare la legittimità della registrazione e dell’uso del marchio. La sentenza che dichiara la nullità ha efficacia erga omnes e non solo tra le parti in causa ed ha effetto retroattivo, travolgendo anche gli atti di disposizione posti in essere in precedenza sul segno distintivo invalido. È prevista una ipotesi eccezionale di sanatoria del marchio nullo per difetto di novità stabilendo che la confondibilità con un marchio precedentemente registrato o non registrato ma con notorietà nazionale non può legittimare la

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dichiarazione di nullità dopo che per cinque anni consecutivi se ne sia fatto pubblico uso, salvo che la registrazione sia stata ottenuta in malafede. In ipotesi di registrazione del marchio da parte di persona diversa dall’avente diritto, quest’ultimo può optare tra la declaratoria di nullità del segno distintivo ed il trasferimento a suo nome dell’attestato di registrazione tramite l’azione di rivendicazione.

GLI ELEMENTI DI IDENTIFICAZIONE DELL’IMPRESA Sezione II – I diritti di privativa

Si intende per invenzione qualunque idea che consente la soluzione di un problema tecnico idonea a soddisfare i bisogni dell’uomo. L’invenzione è un bene immateriale concettualmente separabile sia dalla personalità dell’inventore, sia dalle cose materiali attraverso cui essa viene comunicata o realizzata. L’invenzione consiste nell’ideazione di un particolare modo di operare per pervenire ad un risultato pratico. Si distingue in:

1. Invenzione di procedimento; 2. Invenzione di prodotto; 3. Invenzione d’uso.

La circostanza che l’attività creativa richiede una profusione di energie personali e mezzi materiali nella fase di ricerca fa sorgere l’interesse, nel soggetto produttore dell’invenzione, non solo a sfruttarla direttamente ma a vedersi riconosciuta tale facoltà in via esclusiva di talché i costi sopportati possano trovare remunerazione anche tramite concessione di analoga facoltà a terzi. La tutela dell’interesse dell’inventore ad una remunerazione del costo della ricerca può quindi avvenire solo attraverso la concessione del c.d. brevetto. Questa posizione monopolistica non risponde solo all’interesse privato dell’inventore, ma, nella misura in cui rappresenta un incentivo alla ricerca, anche all’interesse generale al progresso tecnologico. Il fenomeno sempre più ampio della ricerca scientifica determina una scissione tra la persona fisica che pervenga al risultato creativo ed il soggetto giuridico che ha sopportato i costi della ricerca. In tale ipotesi, c.d. invenzioni di servizio, mentre il diritto morale dell’invenzione spetta all’autore, il diritto al suo sfruttamento economico spetta al soggetto titolare dell’ente che ha organizzato la ricerca. Se invece l’invenzione è fatta nell’esecuzione di un contratto di lavoro dipendente, senza che l’attività di ricerca inventiva formi oggetto dello stesso, c.d. invenzioni aziendali, il diritto allo sfruttamento economico spetta al datore di lavoro mentre all’inventore spetta un equo premio proporzionato all’importanza dell’invenzione. Se infine l’invenzione non ha alcuna attinenza con lo svolgimento del rapporto di lavoro, ma rientra nel campo di attività del datore di lavoro, quest’ultimo ha un diritto di opzione, da esercitarsi entro tre mesi dal conseguimento del brevetto, per l’acquisto dello stesso o della relativa licenza d’uso, contro corrispettivo da determinarsi d’accordo o tramite collegio arbitrale. Poiché l’esclusiva costituisce un privilegio concesso dall’ordinamento, è quest’ultimo a fissare i requisiti che l’idea inventiva deve avere per essere brevettabile:

1. Materialità dell’invenzione; 2. Industrialità; 3. Novità (estrinseca); 4. Originalità (novità intrinseca).

Il livello di originalità dell’invenzione appare attenuato nelle c.d. invenzioni di perfezionamento. Esse presentano un legame di dipendenza dall’invenzione principale, per cui non possono essere attuate senza il consenso del titolare del brevetto principale. Il brevetto è concesso da un apposito Ufficio su domanda corredata della descrizione dell’invenzione in termini tali da consentirne l’attuazione a qualsiasi persona esperta del ramo, ed a relativi disegni. L’Ufficio accerta solo la liceità e l’industrialità del’invenzione. Contro le decisioni dell’ufficio si può ricorrere ad apposita commissione. Il brevetto dura venti anni e non è rinnovabile. Esso attribuisce al titolare il diritto esclusivo all’attuazione dell’invenzione ed al suo sfruttamento economico sia con la fabbricazione che con la vendita del prodotto; l’esclusiva della commercializzazione è limitata però alla prima distribuzione del prodotto brevettato. Il titolare del brevetto

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può agire contro chi sfrutti abusivamente l’invenzione con l’azione di contraffazione. L’inventore può volersi sottrarre al rischio di porre a disposizione del pubblico la propria scoperta e preferire sfruttarla in segreto, prolungando l’esclusiva di fatto. Egli però corre il rischio di una successiva brevettazione da parte di un terzo pervenutovi in via autonoma. La legge tempera questo rischio della polverizzazione del risultato di una ricerca riconoscendo all’autore dell’invenzione non brevettata il diritto a continuare a sfruttare l’invenzione, nei limiti del preuso. Il diritto di esclusiva è liberamente trasferibile sia inter vivos che mortis causa, e può formare oggetto di esecuzione forzata. Il titolare del brevetto può concedere ad altri la licenza d’uso dello stesso in via esclusiva o meno, contro un corrispettivo che può essere anche rappresentato da una percentuale sui prodotti venduti o sugli utili realizzati. Una particolare forma di licenza è prevista per il caso di mancata attuazione dell’invenzione nel termine triennale dal rilascio del brevetto o quadriennale dal deposito della domanda. La possibilità di trasferire a terzi la facoltà di sfruttamento dell’invenzione è consentita anche all’autore dell’invenzione non brevettata, ma solo unitamente all’azienda in cui essa è utilizzata. Si è sentita l’esigenza di accordare una tutela, minore, a quell’attività il cui apporto consiste nel migliorare la funzionalità o la gradevolezza estetica della produzione di massa. Le due categorie che possono conseguire il brevetto sono i modelli di utilità e i disegni ornamentali. In entrambi i casi il titolare del brevetto ha il diritto esclusivo di realizzare il modello o il disegno e di far commercio dei relativi prodotti. Laddove la forma di un oggetto ne accresca sia l’utilità che il pregio estetico può chiedersi una doppia brevettazione della quale si può usufruire in tempi successivi, vietando la legge il cumulo delle due protezioni monopolistiche. La principale differenza sta nella durata dell’esclusiva che per i modelli ornamentali è di quindici anni, per i modelli di utilità di dieci anni. Anche la brevettabilità dei modelli di utilità e la registrazione dei modelli e disegni ornamentali è subordinata non solo alla novità estrinseca rispetto a forme funzionali o estetiche già esistenti per quelle categorie di prodotti, ma anche alla presenza di un apporto creativo. L’oggettiva incertezza nella distinzione tra invenzione e modello di utilità trova un temperamento pratico nella possibilità della conversione del brevetto nullo in virtù della quale un brevetto per invenzione invalido può essere convertito in un brevetto per modello di utilità se ne ricorrono i requisiti. Ancor più delicata è la distinzione tra modelli e disegni ornamentali ed opere d’arte applicate all’industria, tutelate per il solo fatto della creazione, indipendentemente dal brevetto e per un tempo assai maggiore (cinquanta anni dalla morte dell’autore). Il criterio dettato in proposito è quello della scindibilità secondo il quale sono protette come opere dell’ingegno le opere della scultura, della pittura, dell’arte e del disegno anche se applicate all’industria sempre che il valore artistico sia scindibile dal carattere industriale del prodotto al quale sono associate. Ciò non significa che a questa separabilità concettuale debba accompagnarsi il raggiungimento di un certo livello artistico. Le due forme di tutela non sono alternative, ma cumulabili, nel senso che anche un’opera d’arte applicata può essere registrata come modello ornamentale, e, alla scadenza della registrazione, continuare a godere della tutela del diritto d’autore.

GLI AUSILIARI DELL’IMPRENDITORE

Lo svolgimento dell’attività imprenditoriale richiede il concorso sia di mezzi materiali che di energie lavorative il cui coordinamento integra il requisito dell’organizzazione indicato nell’art. 2082. Con le energie dell’imprenditore concorrono quindi quelle di altri soggetti, che sono gli ausiliari. Essi contribuiscono, rimanendo estranei agli effetti giuridici ed economici dell’attività. Questa collaborazione può aver luogo in forma autonoma o in forma subordinata, dove compiti, orari e retribuzioni del collaboratore sono predeterminati. Ovviamente anche la collaborazione autonoma non si svolge sempre in modo del tutto separato dalla organizzazione imprenditoriale, richiedendo un certo coordinamento con l’attività affidata alla struttura dipendente: si parla in questo caso di rapporti di para subordinazione, la cui parziale affinità con il lavoro subordinato è sancita nella sottoposizione di entrambi alla cognizione del giudice del lavoro ed al relativo procedimento speciale di definizione delle controversie. Talvolta l’attività di collaborazione

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autonoma assume la forma imprenditoriale, dando luogo alla figura della impresa ausiliaria. Gli ausiliari subordinati sono legati all’impresa da un unico tipo di rapporto giuridico che è quello di lavoro subordinato, gli ausiliari autonomi da svariati tipi di rapporti contrattuali. L’institore, secondo l’art. 2203 c.c., è colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale, ovvero di un ramo di essa o di una sede secondaria. Da tale posizione deriva l’attribuzione di un potere di rappresentanza dell’imprenditore che abbraccia tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa. La qualità di institore non può essere riconosciuta a collaboratori autonomi, anche se muniti di procura generale. Ulteriore conferma della non riconducibilità del potere rappresentativo dell’institore alla rappresentanza volontaria è offerta dell’art. 2206 a tenor del quale in difetto ella pubblicità della procura institoria, la rappresentanza si reputa generale nei confronti dei terzi in buona fede anche contro una diversa volontà dell’imprenditore. L’origine del potere di rappresentanza attribuito all’institore esclude che alla c.d. procura institoria possa applicarsi la norma che subordina la forma della procura a quella prescritta per gli atti che il rappresentante deve compiere, salva la necessità della forma scritta ai fini dell’ottemperanza degli obblighi di pubblicità. La cessazione della preposizione institoria è soggetta, ai fini della sua opponibilità a terzi, alla pubblicità nel registro delle imprese. Questo istituto è proprio di tutte le imprese commerciali, sia gestite in forma individuale che in forma collettiva: è riscontrabile anche nelle società. Il potere rappresentativo dell’institore si estende a tutti gli atti pertinenti l’esercizio dell’impresa, ove il giudizio di “pertinenza” va effettuato con riferimento alle concrete dimensione dell’impresa. Sono solo eccettuati, in base alla tradizionale concezione che attribuisce particolare importanza al patrimonio immobiliare, gli atti di alienazione e costituzione di ipoteche sugli immobili. Tale potere di rappresentanza potrà, con atto espresso, essere ampliato o limitato, sia originariamente che successivamente, salvo l’onere della pubblicità per rendere tali limiti opponibili ai terzi. A questo potere di rappresentanza sul piano sostanziale se ne accompagna uno analogo sul piano processuale, per cui i terzi possono sia convenire in giudizio l’institore in luogo del titolare sia essere da lui convenuti per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell’esercizio dell’impresa cui è preposto. Anche la rappresentanza processuale è suscettibile di limitazione volontaria. Infine, la gestione rappresentativa dell’institore non sfugge alla regola generale secondo la quale per aversi deviazione degli effetti dell’atto posto in essere dal rappresentante sul patrimonio del rappresentato occorre la spendita del nome di quest’ultimo, pena la responsabilità personale dell’institore per le obbligazioni contratte. L’art. 2209 c.c estende ai procuratori la norma sulla pubblicità della preposizione institoria anche a tali soggetti, definiti come coloro i quali in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per l’imprenditore gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa, pur non essendo preposti ad essa. Il particolare regime della rappresentanza commerciale presuppone l’inquadramento nella struttura organizzativa dell’impresa in base ad un rapporto di lavoro dipendente, ove ad un potere rappresentativo esterno si accompagna un potere decisionale interno, connesso all’attribuzione di funzioni direttive di un autonomo settore operativo dell’impresa. Potere decisionale che non può però mai abbracciare la globalità dell’impresa o di un suo ramo e che si svolge sempre sotto il controllo di un superiore gerarchico intermedio, il che differenzia il procuratore dall’institore. La mancata ottemperanza all’onere di pubblicità comporta la presunzione della generalità del potere di rappresentanza, riferita al settore operativo cui il dirigente è preposto. inapplicabile, invece, ai procuratori deve ritenersi la norma sulla responsabilità dell’imprenditore anche in difetto della spendita del nome, non suscettibile di applicazione analogica. Alla rappresentanza sostanziale non si accompagna come effetto naturale quella processuale che deve essere conferita espressamente per iscritto, salvo il potere di chiedere misure cautelari e compiere atti urgenti. I commessi sono ausiliari subordinati i quali svolgono mansioni prevalentemente esecutive, che però comportano un’attività giuridicamente rilevante nei rapporti esterni. Sono dotati del potere di compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni cui sono preposti. Sono legittimati

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passivamente per conto dell’imprenditore a ricevere le dichiarazioni e i reclami dei terzi relativi all’esecuzione del contratto ed attivamente a chiedere, nel suo interesse, provvedimenti cautelari. Oltre i limiti che al potere rappresentativo dei commessi possono essere apportati dall’imprenditore, altri limiti sono previsti dalla legge:

1. Divieto, per i commessi incaricati di concludere contratti, di derogare alle condizioni generali ed alle clausole prestampate predisposte dall’imprenditore.

2. Divieto, per i commessi preposti alle vendite, di riscuotere il prezzo delle merci fuori dai locali dell’impresa o anche nei locali stesse se all’uopo vi è un’apposita cassa.

3. Divieto di esigere il prezzo di merci della quali non facciano consegna e di concedere dilazioni e sconti non di uso.

I suddetti limiti hanno carattere dispositivo e sono quindi rimovibili con apposita autorizzazione dell’imprenditore. Autorizzazione che nell’ipotesi sub 1) deve rivestire la forma scritta, nell’ipotesi sub 2) può avere carattere tacito, desumibile dalla tolleranza di comportamenti contrari, nell’ipotesi sub 3) deve avere carattere espresso.

L’AZIENDA

L’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come il compresso dei beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Costituisce quindi il risvolto oggettivo di uno dei requisiti dell’acquisto della qualità di imprenditore, ed in quanto tale può essere concepito come distinto dalla persona dell’imprenditore e oggetto di autonoma circolazione. Si ha azienda anche quando il complesso organizzato non è ancora “in esercizio”, ossia non si sono instaurati rapporti con la clientela. Non altrettanto può dirsi laddove il procedimento formativo non sia ancora completato mediante l’inserimento di elementi pur essenziali per il concreto funzionamento dell’azienda, dovendosi in tal caso distinguere l’ipotesi in cui il programma organizzativo è già delineato, di talché il completamento consegue a scelte organizzative predeterminate, da quella in cui il programma organizzativo è ancora aperto. La surriportata definizione sottolinea la rilevanza del vincolo funzionale che unisce i vari elementi costitutivi dell’azienda e consente, grazie alla loro coordinata utilizzazione, di venire incontro ai bisogni del mercato. Questo vincolo funzionale attribuisce all’insieme un connotato qualitativo costante che trascende e neutralizza il cambiamento della consistenza sia qualitativa che quantitativa degli elementi che concorrono a formarlo. L’idoneità del complesso a creare nuova ricchezza fa sì che l’insieme abbia una valenza economica differenziale rispetto alla somma del valore dei singoli elementi che lo compongono, valenza misurabile in termini monetari e definita valore di avviamento. L’avviamento, se pure non costituisce un autonomo bene, rappresenta un valore patrimoniale suscettibile di essere iscritto in bilancio e di formare oggetto di indennizzo a favore del conduttore di immobili adibiti ad attività commerciale in caso di cessazione del rapporto di locazione. In termini attuali non si tratta più di stabilire se l’azienda sia o meno un bene unico, ma se lo sia dal punto di visto normativo, ossia della disciplina concreta dettata per essa. La risposta è articolata essendovi aspetti della disciplina ispirati ad una concezione unitaria dell’azienda ed aspetti ispirati, invece, alla considerazione di essa come una pluralità di beni. Altro profilo sotto il quale può prospettarsi una divergenza tra il concetto socioeconomico di azienda e quello giuridico attiene all’individuazione degli elementi che concorrono a costituire l’azienda. Dal punto di visto economico concorre a costituire l’azienda ogni elemento idoneo a garantire la realizzazione del programma imprenditoriale. Altrettanto non può dirsi per il concetto giuridico di azienda. Gran parte della disciplina specifica dedicata dal codice all’azienda concerne il fenomeno della sua circolazione tramite trasferimento inter vivos. Anche se l’art. 2556 parla di “trasferimento della proprietà”, in realtà oggetto del trasferimento è quella particolare posizione soggettiva che meglio si definisce come titolarità dell’azienda. Il fenomeno del trasferimento dell’azienda va distinto da quello della successione dell’acquirente nell’esercizio dell’impresa: la continuazione dell’attività è scelta dell’acquirente e non

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influenza la disciplina, essendo sufficiente che l’azienda ceduta sia astrattamente idonea alla continuazione dell’attività, anche se non attualmente in esercizio. Ovviamente il trasferimento d’azienda può avvenire anche mortis causa, sia tramite chiamata all’eredità sia sotto forma di legato. La disciplina di cui agli artt. 2556 ss. deve ritenersi applicabile al trasferimento dei cosiddetti rami di azienda e, in quanto contenente riferimenti alla pubblicità nel registro delle imprese ed alle scritture contabili, appare modellata sul trasferimento di aziende commerciali medio-grandi; essa deve pertanto ritenersi parzialmente applicabile alle piccole imprese commerciali ed alle aziende agricole. Si pone il problema di stabilire quando l’insieme residuo, escluso dal trasferimento, costituisca ancora un’unità aziendale funzionale allo svolgimento dell’attività d’impresa. Occorre far capo ad un criterio oggettivo rappresentato dalla permanenza dei beni essenziali per l’attuazione del progetto aziendale. Quando a tale dato obbiettivo si accompagna un conforme reali intento delle parti la disciplina del trasferimento dell’azienda andrà applicata in toto; quando, invece, nonostante l’oggettiva funzionalità dell’insieme, risulta che le parti abbiano voluto fare oggetto del trasferimento una semplice pluralità di beni aziendali allora resterà applicabile solo quella parte della disciplina che coinvolge interessi di terzi, non si applicherà invece quella che coinvolge solo gli interessi delle parti. In difetto di espressa clausola che escluda uno o più beni aziendali non essenziali al trasferimento, questo deve ritenersi che abbracci tutti gli elementi costitutivi dell’azienda. Il criterio di buona fede nella interpretazione comporta che dovranno considerarsi trasferiti anche i documenti aziendali e le scritture, mentre quello di buona fede nell’esecuzione fa ritenere l’alienante tenuto a comunicare ogni dato utile per la continuazione dell’attività. L’art. 2556 c.c. stabilisce, per i contratti aventi per oggetto il trasferimento della titolarità e del godimento dell’azienda, l’osservanza di un onere di forma scritta ad probationem; la norma fa salva la forma richiesta a pena di nullità sia in relazione alla natura del contratto sia alla natura dei singoli beni che la compongono. La nullità del trasferimento di singoli beni aziendali per difetto di forma comporta la nullità dell’intero contratto solo se essi sono essenziali per la qualificazione come azienda del complesso trasferito, altrimenti la nullità resta parziale. Lo stesso articolo sottopone i medesimi contratti all’onere di pubblicità nel registro delle imprese mediante deposito di un esemplare in forma scritta di atto pubblico o scrittura privata autenticata a cura del notaio. Tale norma incide per la parte dei beni mobili aziendali sul conflitto tra acquirenti della stessa azienda o tra acquirenti dell’azienda e quelli di singoli beni aziendali, offrendo sicurezza all’acquirente che, assicuratosi mediante il riscontro dell’inventario che tutti i beni mobili fossero ancora nel possesso dell’alienante, si affretti a pubblicare l’atto di acquisto. Per i beni diversi dai mobili per i quali i conflitti sono risolti con criteri pubblicitari speciali, occorrerà procedere ad integrare la pubblicità commerciale con la pubblicità prevista per i singoli beni. L’ottemperanza dell’onere di pubblicità serve altresì ad imputare all’acquirente l’attività svolta dopo il trasferimento dell’azienda, altrimenti l’alienante continuerà ad essere responsabile in base al cd principio dell’apparenza. L’art. 2557 c.c. stabilisce a carica dell’alienante l’azienda l’obbligo di astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dall’azienda ceduta. Si tratta di un effetto naturale e quindi escludibile dalla volontà delle parti, le quali possono restringere o ampliare la portata del divieto di concorrenza. Tale divieto si applica anche al trasferimento delle aziende agricole limitatamente alle attività connesse, e sempre che rispetto ad esse vi sia pericolo di sviamento della clientela. L’art. 2558, comma 1°, prevede come effetto naturale del trasferimento dell’azienda, la successione dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa. La norma, ispirata al principio della conservazione della c.d. unità aziendale, tiene conto, da un lato della mancanza di interesse dell’alienante e per converso dell’interesse dell’acquirente ad acquisire beni o servizi funzionali all’azienda (c.d. contratti di azienda) e, dall’altro, della difficoltà per l’alienante di adempiere e dell’interesse dell’acquirente ad acquisire i rapporti in corso con la clientela (c.d. contratti di impresa). L’applicazione della norma presuppone che il contratto non abbia avuto esecuzione da ambedue le parti. L’ordinamento tiene peraltro conto dell’ipotesi in cui il cambiamento della controparte contraente non è indifferente per il terzo, consente dogli di recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento dell’azienda, risultante dalla pubblicità legale o da quella di fatto. Dall’ambito di applicazione della norma sono esclusi i contratti aventi “carattere personale”,

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ovvero quelli in cui la prestazione dovuta dall’alienante sia oggettivamente infungibile, in quanto debba essere adempiuta con il contributo personale dello stesso. Per alcuni contratti tipici, l’ordinamento appresta regole particolari, derogative della disciplina all’art. 2558 (contratto di lavoro subordinato, contratto di consorzio, contratto di edizione ecc.). Per i crediti relativi all’aziende ceduta il legislatore si è preoccupato di regolare solo le condizioni di opponibilità della vicenda traslativa nei confronti dei terzi acquirenti dallo stesso alienante e dei creditori di quest’ultimo, stabilendo che il relativo conflitto vada risolto, non in base ad una pubblicità analitica di fatto, ma ad una pubblicità legale globale rappresentata dall’iscrizione del contratto traslativo nel registro delle imprese. Resta invece salva la disciplina generale per l’opponibilità della cessione al debitore, la cui buona fede, in mancanza di notifica, è fatta salva, con vistosa deroga alla opponibilità dei fatti iscritti. Nel conflitto tra l’interesse dei creditori dell’impresa e l’interesse alla facile circolazione dell’azienda il legislatore ha realizzato una soluzione di compromesso stabilendo che nel trasferimento di un’azienda commerciale l’acquirente risponde dei debiti preesistenti nei limiti della loro risultanza dai libri contabili obbligatori. Trattasi di norma che deve considerarsi inderogabile dall’autonomia privata ed al contempo eccezionale, quindi insuscettibile di applicazione analogica. La posizione dell’alienante è regolata invece dalla medesima disposizione stabilendo che, laddove l’acquirente risponda dei debiti aziendali sorti anteriormente al trasferimento, tale circostanza non libera l’alienante, a meno che non risulti che i creditori vi abbiano consentito. La norma di cui all’art. 2560 va applicata analogicamente ai trasferimenti mortis causa, nei limiti della sua compatibilità con le regole della successione ereditaria. La disciplina dell’usufrutto contenuta nell’art. 2561 c.c. è ispirata alla considerazione dell’azienda come un oggetto separato e distinto dai singoli elementi che concorrono alla sua composizione. L’obbligo di conservazione della identità fisica del bene si traduce nell’obbligo di conservazione della funzionalità del complesso e quindi del suo potenziale di avviamento. Anzitutto l’obbligo di gestire l’azienda, ossia di continuare l’esercizio dell’impresa. Nella sua qualità di imprenditore, l’usufruttuario subisce però una doppia limitazione derivante dalla temporaneità del suo diritto sull’azienda e dall’obbligo di non comprometterne l’avviamento. Quindi l’usufruttuario deve esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue e deve gestirla senza modificarne la destinazione. L’estrema difficoltà di stabilire a priori uno standard di diligenza atto a garantire la conservazione dell’avviamento ha fatto optare per la fissazione di un obbiettivo minimo, indicato in una gestione idonea a conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti. Il tutto però nei limiti della liquidità aziendale, senza l’obbligo di ulteriori investimenti, se non in via di mera anticipazione, subordinatamente al consenso del titolare. Al fine di garantire la funzionalità della gestione l’ordinamento assicura all’usufruttuario la disponibilità dei rapporti giuridici preesistenti idonei ad assicurare la conservazione dell’avviamento, consentendogli la successione nei contratti in corso di esecuzione per la durata del rapporto e la possibilità di beneficiare,per i crediti ceduti, della pubblicità globale. Di contro non si estende all’usufrutto la responsabilità ex lege per i debiti aziendali contabilizzati. A tutela dell’usufruttuario, rispetto alla concorrenza differenziale esperibile dal titolare dell’azienda, al disciplina estende il divieto di concorrenza a carico di quest’ultimo per l’intera durata del rapporto; il divieto è applicabile analogicamente all’usufruttuario, al termine del rapporto. La differenza tra le consistenze di inventario all’inizio ed al termine dell’usufrutto è regolata in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto. La disciplina anzidetta si applica anche all’affitto dell’azienda, fattispecie che va tenuta ben distinta dalla locazione di immobile adibito ad uso industriale e commerciale, con la particolarità che non si applica la relativa disciplina della cessione dei crediti aziendali.

LE SOCIETÀ

L’IMPRENDITORE COLLETTIVO

Per impresa collettiva può intendersi l’impresa esercitata in comune da più soggetti e dunque nella

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titolarità sostanziale di più soggetti, ovvero quella esercitata nell’interesse di più persone. La società costituisce solo una delle possibili forme di esercizio collettivo dell’impresa. Il codice disciplina espressamente una sola forma di esercizio collettivo di impresa, una sola forma istituzionalizzata, che è quella della società. Fin d’ora deve escludersi che concretino forme di esercizio collettivo dell’impresa l’associazione in partecipazione e la cointeressenza, in quanto si incentrano su contratti in virtù dei quali, rispettivamente: a) la prestazione di un apporto determinato da parte dell’associato costituisce il corrispettivo della prestazione consistente nella partecipazione agli utili dell’impresa dell’associante; b) la partecipazione agli utili, ovvero agli utili e alle perdite dell’impresa è riconosciuta al contraente senza il corrispettivo di un determinato apporto. I caratteri distintivi tra associazione in partecipazione e società sono abbastanza netti e sono individuabili nell’assenza nella prima delle figure indicate di una gestione comune e di un patrimonio comune, caratteri esclusivi della seconda. C’è, in ogni caso, un diffuso orientamento, in difetto di prove decisive, alla qualificazione del negozio dubbio a vantaggio dell’associazione in partecipazione. Esiste la possibilità di esercizio dell’impresa da parte di soggetti diversi da persone fisiche e da società, disciplinati dal codice civile e perseguenti istituzionalmente scopi diversi dall’esercizio dell’attività economica e imprenditoriale: parliamo di associazioni e fondazioni. Un tempo l’argomento base per distinguere i due istituti consisteva nella differenziazione netta dell’attività istituzionalmente riferita a ciascuna delle due forme. Adesso, la realtà insegna che la neutralizzazione degli scopi caratterizzanti fino ad ora le varie forme associative costituisce un dato incontestabile. In tale ottica non sembra più revocabile in dubbio che anche l’associazione possa svolgere un’attività economica. La differenza risiede nel fatto che carattere peculiare ed esclusivo della società è lo scopo di divisione degli utili fra i soci e tale scopo esula invece dal concetto di associazione. Anche la fondazione può svolgere attività economica, ma in questo caso essa costituirà lo strumento per il migliore conseguimento degli scopi istituzionali ideali che la fondazione stessa si propone di raggiungere direttamente o indirettamente. L’impresa familiare è l’impresa cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. In realtà questa figura non concreta gli estremi di un “tipo” di impresa che si caratterizzi per natura o per dimensione. Essa potrà pure essere una impresa collettiva, non in forza della prestazione di lavoro prevista, bensì per il realizzarsi anche di una fattispecie di con titolarità. In tema di regime patrimoniale ella famiglia, l’art. 177 c.c. stabilisce che costituiscono oggetto della comunione le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio, oppure, qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno solo dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi. La fattispecie è quindi quella di una azienda gestita da entrambi i coniugi in regime di comunione legale. Si riconosce che l’esercizio dell’azienda comune da parte dei coniugi non trasforma la comunione in società. Questa soluzione riceve conferma dal fatto che il criterio legale di gestione del patrimonio comune è la pariteticità, con l’assunzione di entrambi i coniugi della qualità di imprenditore. Resta da valutare se il fenomeno dell’impresa collettiva possa trovare espressione anche attraverso modelli e schemi giuridici non codificati. La c.d. comunione di impresa è un modello generale di esercizio collettivo dell’impresa opzionabile da chi non voglia servirsi dello schema di elezione che per questa ipotesi l’ordinamento pone a disposizione dei privati, e cioè la società. Se per aversi società è indispensabile che vi sia una esplicita manifestazione di volontà diretta a trasformare la comunione dei beni in patrimonio sociale autonomo, mancando tale manifestazione di volontà i beni utilizzati per l’esercizio dell’impresa restano beni in comunione. Conseguenza ulteriore è che tornerà in linea di principio applicabile nei confronti dei soggetti esercenti l’attività economica lo statuto dell’imprenditore, ma non potranno trovare spazio le disposizioni relative alle società. La volontà di destinare i beni al fondo sociale può risultare oltre che da un atto formale anche dal comportamento che in concreto i comproprietari assumono. Da questo

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solo punto di vista, nessuna differenza esiste tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo: sarà l’effettivo esercizio dell’attività a far assumere ad entrambi il loro stato. La giurisprudenza afferma il principio secondo il quale la comunione incidentale ereditaria di un’azienda commerciale si trasforma in società irregolare fra i suoi eredi solo quando vi sia la prova che fra tutti i partecipanti alla comunione ereditaria si sia raggiunto un accordo stabile e duraturo per la continuazione dell’esercizio aziendale.

L’IMPRENDITORE SOCIETÀ

Può parlarsi di società facendo riferimento a due concetti ben distinti: e cioè al negozio attraverso il quale la società viene costituita e all’ente che dal negozio stesso trae vita. Si può in linea di principio considerare la società come una forma di esercizio collettivo, di norma in forma di impresa, di un’attività economica, posta in movimento attraverso un contratto o un atto unilaterale, con cui più persone conferiscono beni o servizi per il perseguimento di uno scopo lucrativo, mutualistico o consortile. Il momento genetico va dunque individuato in un contratto. Se unitaria è la nozione di società, diversi possono essere i tipi di società cui il contratto o l’atto unilaterale danno luogo. L’art. 2249 c.c. sancisce il principio della tipicità delle società, recte del numero chiuso dei tipi di società, con la conseguente impossibilità di costituire società atipiche. Confrontando la nozione di imprenditore contenuta nell’art. 2082 c.c. con quella di società contenuta nell’art. 2247, balzano evidenti alcune differenze:

1. L’art. 2247 non reca alcun esplicito riferimento al concetto di impresa reso dall’art. 2082. 2. Mentre nell’art. 2247 manca ogni accenno alla professionalità, nell’art. 2082 manca ogni

riferimento alle finalità specifiche perseguite dall’imprenditore ed in particolare allo scopo di lucro. Una parte della dottrina e della giurisprudenza postula in maniera chiara l’esistenza di una equazione società-impresa, nel senso che basterebbe la sola previsione di un’attività imprenditoriale per far acquisire alla medesima società la qualità di imprenditore, con la conseguente applicazione del relativo statuto. L’elemento della professionalità è insito nel fatto stesso della costituzione della società per l’esercizio di un’attività economica. A criterio opposto si ispirano quanti contestano la parificazione dell’attività economica all’attività imprenditoriale e negano che il requisito della professionalità sia compreso e presente nella definizione di società. Conseguenze di tale impostazione sono da un alto la parificazione quanto ai momenti di acquisto e perdita della qualità di imprenditore, dell’imprenditore-società all’imprenditore individuale; dall’altro, la configurazione, sia pure in ipotesi marginali, del controverso fenomeno della società senza impresa, ossia della società che esercita un’attività economica organizzata non avente le caratteristiche dell’attività d’impresa. In tale quadro di riferimenti, la seconda tesi appare preferibile tenendo conto della varietà di situazioni che possono in pratica verificarsi. Il criterio principale per l’identificazione della fattispecie impresa-società non differisce da quello che identifica la fattispecie dell’impresa individuale: il dna di ogni tipo di impresa è l’esercizio effettivo di un’attività che risponda al paradigma dell’art. 2082. Questo non equivale ad abolire ogni distinzione tra le due fattispecie, infatti l’esercizio dell’attività di un’impresa sociale, proprio perché fa capo a più persone dalla cui iniziativa promana un soggetto da loro distinto, abbisogna di ulteriori elementi di identificazione. L’impresa-società presenta, rispetto all’impresa tout court, quattro ulteriori elementi di identificazione:

1. Esercizio comune di un’attività d’impresa. 2. Comunanza dei mezzi patrimoniali, quindi creazione di un fondo sociale per l’esercizio dell’attività. 3. Comunanza dei poteri. 4. Conseguimento di un risultato coerente con lo scopo istituzionale scelto e ricaduta dei risultati della

gestione sociale su tutti i partecipanti alla società. Se unitaria è la nozione di società, diversi sono i tipi di società che con il contratto o attraverso una fonte di genere diverso possono essere creati. La materia è regolata dall’art. 2249 c.c. il quale stabilisce che “le

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società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati. Le società che hanno per oggetto l’esercizio di un’attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice, a meno che i soci abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi regolati. Sono salve le disposizioni riguardanti le società cooperative e quelle delle leggi speciali, che per l’esercizio di particolari categorie di imprese richiedono la costituzione della società secondo un determinato tipo. I tipi di società espressamente disciplinati sono: società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperativa, società di mutua assicurazione. Non costituisce un tipo in senso tecnico la società consortile, che può costituirsi secondo i modelli societari citati, esclusa la società semplice, per il conseguimento dello scopo consortile. Alcune preposizioni sintetiche possono ricavarsi dall’art. 2249:

1. All’esercizio dell’attività economica, comune a tutti i tipi, si aggiungono una serie di elementi peculiari quali lo scopo istituzionale, il regime di responsabilità personale dei soci e la natura dell’attività esercitata, per l’individuazione dei vari tipi di società.

2. Mentre la società semplice è strumento idoneo per l’esercizio di attività non commerciali, la scelta degli altri tipi sociali permette l’esercizio di ogni specie di attività.

3. Ogni qualvolta i privati facciano ricorso ad uno dei tipi previsti dalla legge si instaura, come conseguenza, la disciplina del tipo prescelto.

Dottrina e giurisprudenza rispondo negativamente al quesito se sia dato ai privati di creare tipi di società non espressamente previsti dal legislatore, ponendo in luce il carattere tassativo dell’art. 2249 e giustificando l’eccezione alla libera formazione dei contratti con ragioni di politica legislativa: è giusto che l’ordinamento imponga forme determinate, e solo quelle, quando l’efficacia dei negozi va ben oltre le parti contraenti. Mentre per quanto riguarda l’inserimento di clausole atipiche nel contratto di società, la maggioranza della dottrina ritiene che queste possano darsi esclusivamente con riguardo agli elementi passibili di variazioni della fattispecie-società, e quindi non con riguardo agli effetti essenziali che il legislatore fa discendere da un determinato schema tipico ma solo con riguardo agli effetti naturali. Esiste un terzo punto di vista dal quale la società può essere identificata, ed è quello funzionale, dato dallo scopo istituzionale assunto come causa del contratto. Attraverso tale strumento i soci possono proporsi di raggiungere, oltre che lo scopo lucrativo, anche uno scopo mutualistico ovvero uno scopo consortile. Da questo punto di vista le società possono distinguersi in relazione alla causa del contratto sociale, in società lucrative, società mutualistiche e società consortili. La società:

1. Perseguendo uno scopo lucrativo si propone di conseguire un utile e di distribuirlo ai soci. La legge commina la nullità di ogni patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite, il c.d. patto leonino.

2. Perseguendo uno scopo mutualistico si propone di offrire ai soci, attraverso l’eliminazione degli intermediari, beni, servizi, occasioni di lavoro a condizioni migliori di quelle che i soci stessi incontrerebbero sul mercato.

3. Perseguendo uno scopo consortile si propone di creare un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle imprese dei soci.

La società si costituisce per l’esercizio di un’attività economico-imprenditoriale in comune fra più persone secondo uno dei tipi che il legislatore ha stimato più idonei al raggiungimento di uno scopo lucrativo, mutualistico o consortile. Dall’art. 2247 c.c. si ricava l’esistenza di un nucleo di elementi negoziali costanti per tutti i tipi di società:

1. Soggetto. Come accennato, la pluralità di persone non costituisce la condicio sine qua non per la costituzione della società, dal momento che è possibile la costituzione per atto unilaterale. Deve, in terzo luogo, notarsi ce quando la società si costituisce per atto scritto, occorre sempre che i contraenti siano individuati con nome e cognome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza. In linea generale, possono sottoscrivere il contratto di società sia le persone fisiche,

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sia le persone giuridiche, sia gli enti non riconosciuti. Quando si guarda alla partecipazione di società ad altre società, queste sono le ipotesi prospettabili:

Partecipazione di società di capitali a società di persone. Ha ricevuto risposta positiva dalla dottrina prevalente. Il problema sembra essere stato risolto dal legislatore che ha stabilito che l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa.

Partecipazione di società di persone a società di persone. Incomparabilmente meno rilevante rispetto al precedente, alla questione si da comunque risposta unanime positiva.

Partecipazione di società di persone a società di capitali. È sempre stata considerata ammissibile. Partecipazione di società cooperative a società di capitali e a società di persone. La c.d. legge Basevi

dispone che le società cooperative e loro consorzi possono costituire ed essere soci di s.p.a. e s.r.l. Partecipazione di società di capitali a società cooperative. Può ammettersi in quanto non dia adito

alla frustrazione dello scopo mutualistico proprio delle seconde. Partecipazione di società alla comunione legale fra coniugi. Ipotesi prevalentemente dottrinaria, la

soluzione positiva è comunque condizionata alla preventiva sottrazione delle quote di partecipazione al patrimonio coniugale.

2. Conferimento. Non esiste società senza conferimenti, né può darsi socio senza l’obbligo di conferimento. Importante è il discorso sulle specie di conferimenti, in relazione alle quali tre sembrano le distinzioni più importanti:

Con riguardo all’oggetto della prestazione, in conferimenti aventi ad oggetto una prestazione di dare e conferimenti aventi ad oggetto una prestazione di fare.

Con riguardo alla fonte, possiamo distinguere i conferimenti in quelli previsti espressamente dalla legge e quelli consistenti in entità che dottrina e giurisprudenza ritengono passibili di essere conferite in società.

La terza distinzione è quella tra conferimenti di capitale e conferimenti non di capitale. I primi hanno ad oggetto entità iscrivibili in bilancio, sono idonei a garantire i creditori sociali, quindi suscettibili di esecuzione forzata e vengono rimborsati al socio all’atto dello scioglimento. I secondi, non hanno alcuna delle caratteristiche indicate, pur essendo idonei al raggiungimento dello scopo sociale, ed attribuiscono al socio il solo diritto di partecipare agli utili. Le differenze tra comunione e società si concretano soprattutto nella diversità della condizione giuridica del fondo sociale e del patrimonio sociale costituito con i conferimenti dei soci. L’art. 2248 stabilisce che la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del libro della proprietà. Tale norma è diretta a riaffermare che le analogie tra società e comunione non vanno oltre il fatto che determinati beni appartengono indistintamente a più persone. C’è comunione, e quindi comproprietà dei beni, quando i soggetti costituiscono il rapporto e lo mantengono solo per godere dei beni stessi e dei frutti che essi producono, mentre si ha società quando i beni sociali vengono impiegati, per effetto della volontà stessa dei soci, solo per l’esercizio in comune dell’attività di impresa. Alla luce di tutto questo, il contratto della c.d. società di comodo, nonostante la qualificazione nominale, dovrà essere considerato come costitutivo di una comunione volontaria. I conferimenti confluiscono nel fondo sociale, che assume la denominazione di capitale sociale, definibile come il valore in danaro dei conferimenti dei soci, quale risulta dalle valutazioni compiute nel contratto sociale. Dal fondo sociale o dal capitale sociale, va tenuto distinto il patrimonio sociale, il quale rappresenta il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alla società. La distinzione tra capitale sociale e patrimonio sociale è assai importante. Il primo fa parte, accanto ad altri beni del secondo. Se è vero che il capitale sociale è il risultato di una determinazione convenzionale, è principio fondamentale della disciplina che quest’ultima non si risolva a danno dei soci e dei terzi. Alla soddisfazione di tali esigenze, racchiudibili nella formula dell’integrità del capitale sociale, sono dedicate nella disciplina di ogni

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tipo di società una serie di norme. Si parla di autonomia patrimoniale con riferimento ai soggetti diversi dalle persone fisiche, per indicare la condizione dei rapporti giuridici facenti capo a tali soggetti.

3. Oggetto sociale. Si può parlare della società come contratto con comunione di scopo. L’attività economica si concretizza di volta in volta nella scelta di un particolare ramo merceologico di attività che costituisce l’oggetto sociale. Esso oltre ad essere espresso nel contratto di società, deve possedere i requisiti della liceità, della possibilità, della determinatezza/determinabilità. In alcuni casi la legge esige in modo espresso e tassativo l’esclusività dell’oggetto sociale, e vieta che la società possa svolgere altre attività, quand’anche complementari o strumentali rispetto all’attività principale.

4. Causa. Lo scopo lucrativo, mutualistico o consortile, possono caratterizzare, in via alternativa, il contratto di società del quale costituiscono la causa e quindi l’elemento individuante e marcante.

Il contratto di società, ai sensi dell’art. 2247 c.c., è inoltre: 1. Oneroso; 2. Consensuale; 3. Sinallagmatico; 4. Potenzialmente plurilaterale; 5. Con comunione di scopo.

Fermi i caratteri comuni, occorre soffermarsi sulla forma che il contratto di società deve rivestire. Mentre per le società di persone la costituzione delle stesse è caratterizzata dalla massima semplicità formale e sostanziale, per le società di capitali e per quelle mutualistiche la legge prescrive, invece, che l’atto costitutivo debba essere stipulato, a pena di nullità, per atto pubblico. La regola della libertà di forma per le società personali la si ricava dalla norma dell’art. 2251 a tenore del quale “nella società semplice, il contratto non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti”. Resta inteso che per le società di persone soggette ad oneri pubblicitari, la forma scritta è necessaria per l’adempimento degli stessi. La società di fatto è quella società in cui due o più persone esercitano in comune un’attività economica, senza aver stipulato alcun accordo espresso, scritto od orale che sia. Per una serie di cause la società di fatto è stata spesso confusa sia con la società irregolare sia con la società occulta sia con la società apparente. Mentre di società di fatto, di società occulta e di società apparente si può parlare con riferimento ad ogni tipo di società personale, alle sole società personali soggette ad iscrizione può riferirsi il concetto di irregolarità. È infatti irregolare quella società, necessariamente commerciale personale, per la quale non siano state osservate le prescrizioni relative agli adempimenti pubblicitari. La mancata iscrizione non impedisce che la società venga ad esistenza per effetto della stipulazione del contratto, ma produce soltanto una parziale modificazione della disciplina applicabile al tipo della società in nome collettivo ed in accomandita semplice. È occulta quella società nel cui contratto vi è l’espressa e concordata volontà dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto della società, ma non in suo nome, quindi all’esterno le operazioni sono compiute, quale imprenditore individuale, da una persona i cui soci restano occulti ai terzi. È apparente quella società in cui più persone operano nel mondo esterno in modo tale da ingenerare nei terzi la convinzione dell’esistenza fra loro di un vincolo sociale, ancorché inesistente nei rapporti interni. Appare opportuno procedere ad alcune precisazioni ulteriori:

1. Società di fatto non è sinonimo di società irregolare. 2. Nessuna equivalenza esiste tra società di fatto e società occulta. 3. Discussioni notevoli ha suscitato la figura della società apparente, data l’incongruenza logica insita

nella circostanza di considerare una società esistente solo nei rapporti esterni e non in quelli interni, oltre all’impossibilità di imputare la responsabilità per le obbligazioni contratte alla società stessa, in quanto inesistente. Ciò non toglie che i terzi che abbiano fatto affidamento sull’esistenza della società potranno agire sulla base delle norme ordinarie.

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La società può nascere anche per atto unilaterale o avere come fonte istitutiva diretta la legge. Da un lato le s.p.a. e le s.r.l. possono essere costituite con atto unilaterale, dall’altro, la forma di costituzione unilaterale viene estesa, a determinate condizioni, anche alla costituzione di società per azioni risultanti dalle dismissioni di partecipazioni dello Stato o di altri enti pubblici in società per azioni. Non tutti i caratteri marcanti il contratto di società possono riscontrarsi nell’atto unilaterale, esso però resta a titolo oneroso, perché il conferimento continua ad essere il momento di esso indefettibile con riguardo al sinallagma: anche con atto unilaterale, il socio si obbliga ad effettuare un conferimento ed acquista per effetto di tale conferimento la qualità di socio. Si sono inoltre registrati interventi normativi contenenti una sorta di ius singulare relativo alle società. La locuzione “società legale” equivale perciò ad indicare le società volute dalla legge, e più in particolare quelle società che non hanno la loro fonte in un contratto o in un atto unilaterale ma direttamente nella legge. La fattispecie della società legale coattiva presuppone che la legge istitutiva individui specificatamente gli elementi essenziali per la nascita dell’ente, per effetto della legge poi, la società nasce come rapporto obbligatorio e come patrimonio autonomo, dovendo l’acquisto della personalità giuridica subordinarsi all’iscrizione nel registro delle imprese. Questi i punti nei quali la normativa ad esse dedicata si discosta da quella della società per azioni:

1. Sono caratterizzate dalla partecipazione pubblica. 2. Sono predeterminati i soci e le rispettive quote di partecipazione, l’ammontare del capitale, il

numero di amministratori, l’oggetto sociale. 3. Le modificazioni dell’atto costitutivo devono essere disposte per legge. 4. Sono disciplinate dalla legge istitutiva e residualmente dal diritto societario comune.

Proprio la semplicità formale e sostanziale delle modalità di costituzione delle società personali provoca il sorgere di una serie di problemi. Per il conferimento di un immobile, la soluzione in ordine alla prova sarà differente a seconda che si accolga la tesi che richiede la forma scritta per l’intero contratto ovvero quella che ritiene la forma scritta necessaria solo per l’atto di conferimento. Un secondo problema attiene all’individuazione degli elementi su cui si incentra la società apparente. Dove ricorra la sintomatologia dell’apparenza i soci “apparenti” non possono eccepire ai terzi l’inesistenza del rapporto sociale: essi raggiunta che sia la prova dell’apparenza, sono chiamati a rispondere delle obbligazioni della società, sino a poter essere dichiarati falliti in estensione. Ai fini della valutazione dell’esistenza di una società di fatto si guarda essenzialmente ai rapporti interni tra i soci, ritenendosi indispensabile, su questo piano, l’accertamento probatorio di tutti i requisiti necessari perché un contratto di società possa dirsi formato. La configurazione della società apparente, di converso, viene connessa dalla giurisprudenza al semplice accertamento delle manifestazioni esteriori del vincolo sociale, senza che assuma rilievo l’indagine circa l’effettiva esistenza del vincolo stesso. Le due prove, secondo la giurisprudenza, sono assolutamente indipendenti. Per quanto attiene ai mezzi istruttori ammissibili per arrivare alla prova dell’esistenza della società, non si individuano particolare preclusioni, ritenendosi che possa farsi ricorso al giuramento decisorio, alla prova testimoniale, a presunzioni rivelatrici dei diversi elementi della struttura sociale. Sul piano metodologico, infine, è opportuno che alla valutazione analitica dei singoli indizi si accompagni sempre una valutazione globale degli stessi, più rigorosa quando si tratti di provare la sola apparenza sociale. In relazione al contratto di società il fatto stesso che un patrimonio venga destinato allo svolgimento di un’attività con i terzi fa risaltare l’esigenza di tutela dell’affidamento di questi ultimi. Si tratta di stabilire se la declaratoria di nullità del contratto di società travolga o meno i contratti e gli atti ce la società abbia posto in essere tra il momento della costituzione e il momento in cui essa interviene. Logiche di conservazione degli atti compiuti medio tempore dall’ente ispirano la disciplina delle società di capitali, ove l’art. 2332 stabilisce che la dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione del registro delle imprese. Il contratto di società è nullo o annullabile negli

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stessi casi in cui lo è ogni altro contratto. Più condivisibile pare l’orientamento inteso a prospettare l’applicabilità dell’art. 2332 anche alle società personali, nel segno dell’affermazione di un principio generale proprio di tutti i contratti che comportano lo svolgimento prevalente di un’attività esterna. Quello dell’ammissibilità dell’azione di simulazione del contratto di società è problema che sembra riguardare oggi essenzialmente la società di persone. La dottrina lo risolve negativamente in ordine alla società per azioni, sulla base di due argomenti: l’art. 2332 non annovera la simulazione tra i casi tassativi di nullità della società e la difficoltà di trasferire un istituto come quello della simulazione ai contratti associativi. In ogni caso, ammessa in linea generale la configurabilità della simulazione, tre sembrano i problemi da chiarire:

1. La distinzione tra società simulata e società apparente, ove la società simulata presuppone sempre e comunque la volontà e la consapevolezza dei contraenti di far apparire all’esterno una situazione che non ha riscontro nella realtà.

2. La difficoltà di individuare quando ricorra la simulazione assoluta e quando quella relativa; sembrerebbe plausibile ravvisare la prima quando si faccia figurare all’esterno come sociale una impresa individuale e coloro che si prestano ad apparire come soci non vogliono in realtà stipulare alcun contratto di società; e la seconda quando l’apparente rapporto sociale sottintenda un rapporto diverso che le parti hanno interesse a far valere come sociale.

3. L’individuazione della disciplina applicabile; applicandosi gli artt. 1415 e 1416, i soci non potranno opporre la simulazione ai creditori sociali, mentre la simulazione stessa potrà essere fatta valere dai creditori particolari del socio fittizio, i quali, nel conflitto con i creditori chirografari della società, sono preferiti se il loro credito è anteriore alla costituzione della società.

Si ha modificazione del contratto o dell’atto costitutivo di società quando si pone in essere un regolamento difforme sia da quello pattuito con il contratto originario, sia da quello legale che ha integrato l’originaria volontà dei soci. Le modalità con le quali le modificazioni devono essere adottate variano a seconda della conformazione del modello di organizzazione interna assunto dalla società. Il problema va considerato con riguardo alle società di persone, da un lato, e alle società di capitali e mutualistiche dall’altro. Nelle prime la disciplina richiama quella generale dei contratti, nel senso che la modificazione deve ricevere il consenso di tutte le parti contraenti, mentre nelle seconde vige il principio maggioritario. Società di persone. L’art. 2252 stabilisce che il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci se non è convenuto diversamente. La deroga maggioritaria non può essere introdotta nel contratto mediante una modifica apportata a maggioranza. L’operatività della regola maggioritaria incontra pur sempre il limite costituito dai diritti individuali dei soci e dalle norme imperative. Società di capitali e cooperative. Le modificazioni dell’atto costitutivo nelle s.p.a. e nelle società cooperative vengono adottate dall’assemblea straordinaria secondo le maggioranze stabilite dagli artt. 2368 e 2369, mentre nelle s.r.l. dall’assemblea secondo quanto stabilisce l’art. 2479. Il principio maggioritario incontra i consueti limiti delle norme imperative e dei diritti individuali dei soci. Come ogni soggetto dell’attività giuridica, anche la società risponde con il proprio patrimonio per le obbligazioni assunte dei confronti dei terzi. Il regime normativo della responsabilità per le obbligazioni sociali non può infatti non tener conto di una serie di fattori ed in primo luogo del grado di soggettività della società e del conseguente grado di autonomia patrimoniale dalla stessa goduto. Possono comunque ricavarsi alcuni principi costanti:

1. In tutti i tipi di società, per le obbligazioni sociali risponde in prima battuta il patrimonio della società.

2. Nei tipi di società cui la legge conferisce la personalità giuridica, quella costituita dal patrimonio sociale è in linea di principio l’unica garanzia e l’unica fonte di soddisfacimento delle pretese dei creditori sociali.

3. In altri tipi di società cui la legge non concede la personalità giuridica la regola generale sta in ciò che alla garanzia costituita dal patrimonio della società si aggiunge, per l’ipotesi che questo sia

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insufficiente alla soddisfazione dei creditori, la responsabilità sussidiaria personale dei singoli soci. 4. Per le società cooperative la legge di riforma del 2003 ha mantenuto in vita le sole cooperative a

responsabilità limitata. Dal complesso normativo circa il sistema di pubblicità che vige per le società, possono ricavarsi le regole seguenti:

1. Tutte le società hanno l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese. 2. L’obbligo di iscrizione per le società che possono svolgere ogni genere di attività non è legato

all’esercizio dell’attività commerciale. 3. L’efficacia dell’iscrizione è diversa a seconda del tipo di società. Per la società semplice l’iscrizione

nelle sezioni speciali ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti dalle leggi speciali. Per le altre società di persone l’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese ha efficacia dichiarativa, nel senso che non è adempimento cui l’ordinamento giuridico subordini la nascita della società o la validità del contratto. Per le società di capitali e per le società cooperative l’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle impresa ha efficacia costitutiva, in quanto la società acquista la personalità giuridica. Per le società uni personali viene previsto un regime particolare di pubblicità che impone agli amministratori di depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese una dichiarazione contenente le generalità anagrafiche dell’unico socio.

Da un punto di vista procedurale, gli obbligati ad eseguire l’iscrizione sono gli amministratori, e se questi non provvedono ciascun socio a spese della società, mentre se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico, l’adempimento può essere curato anche dal notaio. Presupposto per l’iscrizione è il deposito della scrittura privata autenticata o della copia autentica dell’atto pubblico presso il registro delle imprese. L’iscrizione va eseguita presso l’ufficio nella cui circoscrizione è la sede della società. Negli atti e nella corrispondenza delle società soggette all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese devono essere indicati la sede della società e l’ufficio del registro delle imprese presso il quale questa è iscritta e il numero di iscrizione. Le società sono soggette all’onere dell’iscrizione indipendentemente dal fatto che l’attività sia o no esercitata ad impresa e dal fatto che tale attività sia o no di natura commerciale. Dalle norme regolanti l’efficacia dell’iscrizione nel registro delle imprese emerge una distinzione tra società aventi personalità giuridica e società senza personalità giuridica. Il discorso sul diverso grado di soggettività è legato a quello sul diverso grado di autonomia patrimoniale della società. In ogni caso, anche nelle società di persone, sia pure con le inevitabili differenze a seconda dei tipi sociali, il patrimonio della società va distinto dal patrimonio dei soci, e che la società non si risolve nella pluralità dei soci. Una distinzione che riguarda solo i sei tipi di società lucrative e che rappresenta una sorta di proiezione riassuntiva delle differenza di disciplina in rodine ai profili fondamentali esistenti fra le varie società è quella tra società di persone e società di capitali. Vanno ricomprese nelle società di persone la società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice, mentre nelle società di capitali vanno annoverate la società per azioni, la società in accomandita per azioni e la società a responsabilità limitata. Sulla base di questa differenza, possono indicarsi nei seguenti i principali caratteri distintivi:

1. Diverso regime di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali. 2. Diversa misura del potere del socio di incidere con la propria opera sulla gestione della società. 3. Mentre nelle società di capitali esiste un’organizzazione interna, nelle società di persone i poteri di

gestione di deliberazione risiedono entrambi nei soci amministratori. 4. Diverso principio che presiede al funzionamento dell’ente. 5. Diverso regime di circolazione delle partecipazioni sociali. Mentre nelle società di capitali le regole

che presiedono sia alla circolazione inter vivos sia al trasferimento mortis causa non subiscono deroga alcuna, nelle società di persone, costituendo il trasferimento della quota una modificazione dell’atto costitutivo, la regola generale dei contratti riprende vigore e viene addirittura inserita una deroga al diritto successorio: il trasferimento della partecipazione per atto tra vivi può avvenire

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solo con il consenso di tutti i soci, mentre per il trasferimento mortis causa la regola è che, salvo patto contrario, la partecipazione non si trasmette agli eredi, che hanno solo diritto alla liquidazione della quota.

6. Diverso regime del fondo sociale; nelle società di capitali non solo assume la denominazione tecnica di capitale sociale, ma riceve altresì un’articolata disciplina che ne esalta la funzione di prima e principale garanzia dei terzi creditori e contraenti.

L’impresa artigiana, a condizione che la maggioranza dei soci svolga in prevalenza lavoro personale nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale, può essere esercitata in forma societaria. Il tema relativo al rapporto fra la fattispecie societaria e la piccola impresa sembra comunque aver perso di interesse in virtù della riforma della legge fallimentare che rimuove l’incompatibilità fra adozione della forma della società commerciale e esercizio della piccola impresa. Bisogna poi stabilire se la società formata da imprenditori agricoli che abbia ad oggetto sociale la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti provenienti dai fondi appartenenti ai soci stessi possa essere considerata un’impresa agricola per connessione o debba invece essere considerata come un’impresa esercente un’attività commerciale. Deve ricordarsi che la qualificazione di un’attività agricola come connessa postula che essa sia esercitata dallo stesso soggetto cui è riferibile l’attività principale. Inoltre è previsto che si considerino imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli e i loro consorzi quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 2135 prevalentemente prodotti dei soci. Il legislatore ha previsto che le società, con l’esclusione delle mutue assicuratrici e comprese le società consortili, sono considerate imprenditori agricoli professionali se almeno un socio (società di persone) sia in possesso della qualifica di IAP; nel caso delle cooperative se almeno un quinti dei soci sia in possesso della qualifica di IAP; nel caso di società di capitali, se almeno un amministratore sia in possesso della qualifica di IAP. Società finanziarie sono quelle che hanno come oggetto sociale una qualsiasi delle attività normalmente definite finanziarie, o comunque caratterizzanti il mercato finanziario, a prescindere dalla intensità del grado di strumentalità che caratterizza sempre ogni attività finanziaria. La nuova legge bancaria dispone che l’esercizio nei confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazione, di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi a pagamento e di intermediazioni in cambi è riservato a intermediari finanziari iscritti in un apposito elenco tenuto dall’Ufficio Italiano Cambi. Le società fiduciarie sono le società che, comunque denominate, si propongono, sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione dei beni per conto di terzi, l’organizzazione di aziende e la rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni. È stato loro sottratta l’attività di revisione e di certificazione contabile attribuendola alle società di revisione. Private di molte delle loro originarie funzioni, affidate oggi o alle società di revisione o alle società di investimento mobiliare (sim) e considerate da tutti come intermediari finanziari non bancari, occorre distinguere due categorie di fiduciarie: quelle che svolgono attività di gestione di patrimoni mediante operazioni aventi per oggetto valori mobiliari e quelle che svolgono attività lato sensu di amministrazione, che sono regolate ancora dalla legge del 1939. Le prime sono iscritte in un’apposita sezione dell’albo Sim tenuto presso la Consob e sono soggette alla vigilanza di questa; sono sottoposte alle regole dettate in materia di trasparenza delle partecipazioni; devono osservare in materia di gestione la stessa disciplina delle Sim; sono soggette alla vigilanza della Banca d’Italia per i controlli di stabilità patrimoniale. La seconda categoria di fiduciarie non ha il peso dell’esclusività dell’oggetto è può pertanto svolgere una gamma ampia di attività di rappresentanza e di consulenza; anche queste sono sottoposte alla vigilanza del Ministero dell’Industria e del Commercio. Ambedue le categorie sono disciplinate per il resto dalla legge del 1939:

1. Possono essere costituite secondo uno dei tipi sociali che consentono l’esercizio in forma di impresa di un’attività commerciale a favore di terzi.

2. L’inizio dell’attività è soggetto all’autorizzazione ministeriale.

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3. Devono rispettare specifiche disposizioni in merito alle garanzie patrimoniali, alla formazione del capitale ed alle caratteristiche delle partecipazioni

4. Sono previsti particolari requisiti soggettivi per gli organi e per il personale della società. Per patti parasociali devono intendersi quei contratti attraverso i quali alcuni soci, e qualche volta tutti i soci, per tutelare loro legittimi interessi o per tutelare meglio interessi già tutelati dalla legge positiva o per sopperire a lacune e deficienze della legislazione o per adeguarsi a sopravvenute ed effettive esigenze della pratica societaria pongono in essere un regolamento integrativo dei patti contenuti nell’atto costitutivo o nel contratto sociale, che, in qualche caso, può essere difforme dalla disciplina positiva. Proprio perché parasociali, tali patti non sono opponibili alla società, nel senso che l’eventuale inadempimento di uno dei soci partecipanti al patto rileva solo nei rapporti interni. Mentre da un lato non è più contestata l’ammissibilità di tali patti, è d’altro lato, postulata la strategia dell’attenzione verso la formulazione degli stessi al fine di verificare che detta atipicità non sfoci in invalidità.

LE SOCIETÀ DI PERSONE Sezione II – la società semplice

La società semplice viene ad assumere nel codice civile una posizione preminente esclusivamente dal punto di vista normativo, mentre insignificante, soprattutto a causa delle limitazioni relative all’oggetto sociale, è la concreta utilizzazione del modello. È semplice la società che non presenta elementi di identificazione ulteriori rispetto a quelli contenuti nella norma che definisce la società come contratto, l’art. 2247. Le categorie di attività ipotizzabili quale oggetto della società semplice sono:

1. Quella agricola, attività di elezione della società semplice. In concreto però l’ambito di utilizzazione risulta marcatamente ridotto per l’assenza di una regolamentazione ad hoc che rendo lo schema non fruibile nelle fattispecie in pratica più ricorrenti.

2. Società di revisione. 3. Attività professionali. 4. Attività civili, non classificabili come commerciali, ma nemmeno rientranti nel genere dell’impresa

agraria. La costituzione della società semplice è caratterizzata dalla massima semplicità formale e sostanziale. L’art. 2251 sancisce che il contratto non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti. È opportuno precisare fin da questo momento che i beni conferiti dai soci, ad onta della mancanza di personalità giuridica della società semplice e della perdurante responsabilità dei soci stessi per le obbligazioni sociali, entrano a far parte del patrimonio della società. Tale semplicità induce ad affermare la sufficienza dei requisiti stabiliti per ogni tipo di contratto:

1. I soggetti devono essere almeno due. 2. L’oggetto deve avere i requisiti richiesti dall’art. 1346 e non può contemplare attività di natura

commerciale. 3. Altrettanto dicasi per la causa, definita dall’art. 2247 per tutte le società lucrative. 4. Il fondo sociale. Se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a

conferire, in parti uguali fra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale. Una serie di norme di carattere suppletivo tengono luogo all’assenza di pattuizione dei soci come le norme in materie di determinazione dei conferimenti e di criteri per la ripartizione degli utili. Sono iscritte in sezioni speciali del registro delle imprese le società semplici, con funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti dalle leggi speciali. In primo luogo, nelle società personali la pubblicità non incide sulla validità del contratto, né sulla esistenza del soggetto. La mancata iscrizione non determina quella situazione di irregolarità precedentemente descritta. Ferma restando la

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funzione puramente informativa della pubblicità notizia, ciò non significa che l’iscrizione nelle sezioni speciali del registro delle imprese non possa inquadrarsi fra i mezzi idonei a portare a conoscenza dei terzi, rendendoli loro opponibili, determinati fatti. Tanto più se la trasmissione delle informazioni relative agli stessi è prevista dalla legge. Ha importanza essenziale l’idoneità nel caso concreto del mezzo a raggiungere lo scopo notificativo; se vi è idoneità obbiettiva del mezzo pubblicitario, l’atto pubblicato si ritiene opponibile a qualunque terzo anche se ignaro. L’iscrizione delle società semplici esercenti attività agricola, oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, produce gli effetti di cui all’art. 2193 c.c. (efficacia legale degli atti sopracitati). Per quanto riguarda l’organizzazione interna, la disciplina positiva contiene due sole norme (artt. 2257 e 2258) che regolano i sistemi di amministrazione adottabili nelle società personali. Il legislatore ha privilegiato il momento della gestione rispetto a quello della formazione della volontà collettiva: non esistono organi sociali, ma esistono solo i soci ai quali la legge stessa attribuisce il potere di decidere amministrando. Secondo una parte minoritaria della dottrina, il contratto potrebbe prevedere l’esistenza di un’assemblea e di un consiglio di amministrazione con conseguente adozione del metodo maggioritario e dell’osservanza delle regole relative alla convocazione dell’assemblea e all’ordine del giorno. La tesi relativa è postulabile solo con riguardo alle società costituite per atto scritto; ma la maggior parte delle società personali sono società di fatto. In realtà, il legislatore ha fatto dei soci i naturali amministratori della società anche per bilanciare la loro responsabilità illimitata nei confronti dei terzi. I modi di amministrare le società personali sono due:

1. Amministrazione disgiuntiva. Salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascun socio disgiuntamente dall’altro. Ciascun socio amministratore ha diritto ad opporsi all’operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta. La maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a ciascun socio degli utili, decide sull’opposizione.

2. Amministrazione congiuntiva. Se l’amministrazione spetta congiuntamente a più soci, è necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. Nei casi previsti, i singoli amministratori non possono compiere da soli alcun atto, salvo che vi sia urgenza di evitare una danno alla società.

Qualunque dei due modi di amministrare si scelga, due sono gli schemi che all’interno di ciascuno di essi possono darsi:

1. Quello in cui tutti i soci siano amministratori. 2. Quello in cui l’amministrazione sia affidata solo ad alcuni soci, avendovi gli altri espressamente

rinunciato. In alternativa a questi schemi, gli unici consentiti, una parte della dottrina ritiene possibile, data l’assenza di divieti espliciti, l’affidamento dell’amministrazione a non soci. In ordine all’amministrazione disgiuntiva il paradigma legislativo postula quali titolari del potere di amministrazione i singoli soci disgiuntamente instaurando un collegamento fra potere di direzione e rischio di impresa, attesa la responsabilità illimitata nei confronti dei terzi. Ciascun socio è legittimato ad intraprendere da solo in nome della società tutte le operazioni che ritenga utili all’interesse della società senza necessità di informarne preventivamente gli altri soci e di portarle a termine. L’art. 2257 demanda alla maggioranza dei soci, proprio perché si tratta di materia attinente alla gestione, computata per quota di interessi, il potere di decidere sull’eventuale opposizione avanzata dal socio dissenziente. In ordine all’amministrazione congiuntiva, è anche qui possibile prevedere che le decisioni vengano adottate secondo la regola pattizia della maggioranza calcolata per quote di interessi. Qualunque soluzioni si accetti, e soprattutto se si preferisca quella favorevole all’ammissibilità dei cc.dd. amministratori esterni, devono essere mantenuti fermi alcuni punti:

1. L’affidamento della gestione ad estranei non fa venir meno la responsabilità illimitata dei soci. 2. Una volta ammessi gli amministratori estranei, questi sono investiti del potere di compiere, entro i

limiti stabiliti, ogni operazione per la società e i soci non potrebbero interferire né apporsi alle loro operazioni, se non nella forma estrema della revoca.

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Il rapporto di amministrazione non viene disciplinato allo stesso modo in tutte le specie di società, anche se identica per l’investito è la funzione amministrativa come dovere connesso all’esercizio degli speciali poteri propri di ogni attività giuridica idonea a determinare effetti in una sfera di interessi estranei a quelli dell’agente. Chiara è la distinzione dalla rappresentanza, attenendo l’amministrazione alla direzione degli affari sociali nell’ambito della competenza risultante dalla legge o dal contratto e la rappresentanza alla legittimazione sostanziale e processuale ad impegnare il nome della società nei confronti dei terzi. Le fonti del rapporto di amministrazione possono essere la legge e il contratto sociale, ovvero un atto separato. Si desume che l’amministratore può essere nominato sia nel contratto sociale, sia con atto separato e in ambedue i casi con il consenso di tutti i soci e senza che occorra nell’investito alcun particolare requisito, identificandosi la capacità ad essere amministratore con la capacità a divenire socio. Occorre premettere che la legge stabilisce all’art. 2260 che i diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato. Per quanto concerne l’individuazione dei diritti spettanti agli amministratori, l’unica questione a porsi è sostanzialmente quella del diritto al compenso: la giurisprudenza è incline a ritenere che, in mancanza di regole contrattuali sulla ripartizione degli utili, al socio amministratore spetta un compenso. Per quanto concerne gli obblighi occorre ricordare che la funzione amministrativa costituisce sempre per l’investito un dovere connesso all’esercizio di speciali poteri propri di questo tipo di attività giuridica. Inoltre, per l’art. 2260, gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale. Altri obblighi sono:

1. Fornire il rendiconto ai soci non amministratori. 2. Fornire ai soci non amministratori notizie sulla svolgimento degli affari sociali e di consentire la

consultazione dei documenti relativi all’amministrazione. 3. Ottemperare agli obblighi pubblicitari richiesti. 4. Tenere le scritture contabili imposte dalle disposizioni di legge.

Più articolato è il discorso sui poteri. L’art. 2266 dispone che la società acquista diritti ed assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi. Le società di persone si presentano come un gruppo unitario, pur non avendo personalità giuridica. Con riguardo ai soggetti investiti del potere rappresentativo, se il contratto nulla dispone, questa spetta a ciascun socio amministratore; se il contratto contiene disposizioni in merito, l’unico problema riguarda l’attribuzione della rappresentanza ad estranei. In relazione al contenuto dei poteri rappresentativi la regola è che, in mancanza di diversa disposizione, l’amministratore può compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, salve le limitazioni che risultano dal contratto sociale o dalla procura, le quali limitazioni però non sono opponibili ai terzi se non sono portate a conoscenza degli stessi con mezzi idonei. In linea di massima i principi esposti in tema di rappresentanza negoziale, valgono anche per la rappresentanza processuale. ovviamente, per l’imputazione dell’attività processuale alla società, occorre che il socio dichiari di agire per conto del gruppo sociale, rendendo noto che l’azione giudiziaria viene da lui proposta nella qualità di socio in rappresentanza della società. Circa la responsabilità degli amministratori, l’art. 2260 dispone che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale. Tuttavia la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa. Si ricavano tre principi:

1. La responsabilità degli amministratori si atteggia nei confronti della società, non dei singoli soci. 2. La solidarietà fra gli amministratori opera anche in regime di amministrazione disgiuntiva. 3. Ciascun amministratore può esimersi da responsabilità dimostrando di essere immune da colpa.

La responsabilità si estende anche agli amministratori di fatto. Discusso è il problema del quomodo la responsabilità può essere fatta valere. Secondo l’opinione maggioritaria, la legittimazione ad esperire l’azione spetta alla società o al curatore fallimentare (società in nome collettivo) e non ai singoli soci, ed essa tende ad ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale attraverso la condanna degli amministratori al risarcimento dei danni. Se si eccettua l’ipotesi della revoca, l’estinzione del rapporto di amministrazione non è regolata in modo organico. Accantonata la rinuncia (il socio può riappropriarsi successivamente del potere di amministrare) e dovendosi escludere ipotesi di decadenza, i casi di cessazione del rapporto di