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Appunti di STORIA ECONOMICA DEL MONDO Autori: Profman – Aissela – Gilipa - Patata

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Appunti diSTORIA ECONOMICA

DEL MONDO

Autori: Profman – Aissela – Gilipa - Patata

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CAPITOLO IINTRODUZIONE: STORIA ECONOMICA E SVILUPPO

Lo sviluppo economico ineguale ha provocato rivoluzioni e colpi di stato; governi totalitari e dittature militari hanno spogliato intere nazioni della libertà politica e molti individui della libertà individuale e persino della vita. Gli Stati Uniti ed altre nazioni ricche hanno speso miliardi di dollari in tentativi intenzionati a soccorrere i vicini meno fortunati. Non c'è un consenso generale sugli specifici metodi responsabili dei redditi più elevati delle nazioni ricche. Gli studiosi e gli scienziati non hanno ancora prodotto una teoria dello sviluppo economico che sia utile sul piano operativo e generalmente applicabile. Le statistiche del reddito pro-capite sono una rozza misurazione del livello di sviluppo economico.I termini crescita, sviluppo e progresso sono spesso usati come sinonimi ma questo non è corretto. La crescita economica è definita come un aumento sostenuto del volume totale di beni e servizi prodotti da una società. La crescita del prodotto totale può verificarsi sia in conseguenza dell’impiego di maggiori quantità dei fattori della produzione, sia perché quantità equivalenti dei fattori di produzione sono impiegate con maggiore efficienza. Lo sviluppo economico significa crescita economica accompagnata da un sostanziale cambiamento strutturale e organizzativo dell’economia. La regressione economica avviene durante o in seguito ad un prolungato periodo di declino economico.L’economia classica ha sviluppato la classificazione tripartita dei “fattori di produzione": terra, lavoro e capitale. I mutamenti tecnologici e delle istituzioni sociali costituiscono i fattori più dinamici del cambiamento dell’intera economia. Negli ultimi secoli l’innovazione tecnologica è stata il fattore più dinamico di mutamento economico e di sviluppo. Il mutamento tecnologico non è però sempre stato così rapido. La tecnologia dell’età della pietra durò per centinaia di migliaia d’anni senza grossi cambiamenti. Una delle funzioni sociali svolte dalle istituzioni è di rappresentare un elemento di continuità e di stabilità, senza il quale la società si disintegrerebbe; ma nello svolgimento di questa funzione esse possono anche rappresentare una barriera allo sviluppo economico ostacolando il lavoro umano, impedendo lo sfruttamento razionale delle risorse o contrastando l’innovazione e la

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diffusione della tecnologia. Esempi storici d'innovazioni istituzionali sono i mercati organizzati,. la moneta battuta, i brevetti, le assicurazioni e le varie forme d'impresa.Gli intellettuali marxisti ritengono di aver trovato la chiave non solo del processo di sviluppo economico ma anche dell’evoluzione dell’umanità. Secondo loro il “modo di produzione” è l’elemento cardine; tutto il resto non è che sovrastruttura. L’elemento dinamico è fornito dalla lotta tra le classi sociali per il controllo dei mezzi di produzione.La produzione è il processo mediante il quale i fattori di produzione sono messi in relazione per produrre i beni e i servizi desiderati dalle popolazioni umane. La produzione può essere misurata in unità fisiche, o in termini di valore, ossia monetari. La produttività è il rapporto tra il risultato utile di un processo di produzione e i fattori di produzione in esso impiegati. Per misurare la produttività totale dei fattori di produzione è necessario ricorrere a misure di valore. Inoltre, determinate combinazioni di fattori di produzione sono in grado di accrescere la produttività. Importante è il concetto di capitale umano. Il capitale umano deriva dall’investimento in conoscenze e abilità o capacità. L’investimento può assumere la forma di un’educazione o di un addestramento formale. Un aumento dei fattori tradizionali di produzione spiega solo in parte l’aumento della produzione nelle economie avanzate. Gli aumenti della produttività sono stati particolarmente considerevoli nell’ultimo secolo. E’ opportuno considerare la cosiddetta legge dei rendimenti decrescenti, che dovrebbe essere definita come la legge dell’utilità marginale decrescente. Un singolo lavoratore, con l’impiego di una data tecnologia, semplice o complessa, è in grado di ottenere un certo raccolto. L’aggiunta di un secondo lavoratore permette una semplice divisione del lavoro, che fa più che raddoppiare la produzione. Un terzo lavoratore può accrescere ancora di più la produzione. In altre parole, più lavoratori sono aggiunti e più cresce, fino ad un certo punto, il prodotto marginale. Alla fine però, l’aggiunta di nuovi lavoratori fa si che essi si ostacolino a vicenda, che calpestino il raccolto, e così via, e il prodotto marginale decresce. Nel 1798 Thomas Malthus pubblicò il famoso Saggio sul principio della popolazione. In esso partiva dal presupposto che “la passione tra i sessi” avrebbe portato ad una crescita demografica in “progressione geometrica”, ma che le disponibilità di cibo sarebbero cresciute in “progressione aritmetica”. Malthus non previde la serie d’innovazioni tecnologiche e istituzionali che hanno accresciuto la produttività e che hanno ripetutamente ritardato il funzionamento della legge dei rendimenti decrescenti.La struttura economica è implicita nelle relazioni tra i vari settori dell’economia, in particolare i tre settori principali noti col nome di primario, secondario e terziario. Il settore primario comprende quelle attività i cui prodotti sono ottenuti direttamente dalla natura: agricoltura, pesca. Il settore secondario comprende le attività che trasformano o lavorano i prodotti naturali. Il terziario comprende un ampio spettro di servizi, che vanno da quelli domestici e personali a quelli commerciali e finanziari, professionali e pubblici. L’agricoltura è stata la principale occupazione della grande maggioranza della razza umana ma ciò è tuttora valido per i paesi a basso reddito. La ragione di questo fenomeno è che la produttività era così bassa che per sopravvivere

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era necessario dedicarsi alla produzione di generi alimentari. Alcune centinaia di anni fa la produttività agricola cominciò a crescere, cominciò così il processo di industrializzazione, che si protrasse dalla fine del Medioevo fino alla metà del XX secolo. Nel frattempo man mano che la forza lavoro impiegata in agricoltura diminuiva, aumentava, anche se non proporzionalmente, quella nel settore secondario. La crescita della forza lavoro impiegata nel settore secondario è stata accompagnata dalla crescita del reddito prodotto da quel settore. Dal 1950 in poi le economie più avanzate hanno conosciuto un ulteriore cambiamento strutturale, il passaggio da settore secondario a quello terziario. Sul versante dell’offerta, l’accresciuta produttività rese possibile produrre le stesse quantità di prodotti con meno lavoro. Sul versante della domanda entrò in gioco un aspetto peculiare del comportamento umano, definito dalla legge di Engel. La legge di Engel afferma che man mano che cresce il reddito di un consumatore, diminuisce la percentuale di reddito destinata all’acquisto di cibo. Man mano che cresce il reddito, cresce la domanda per ogni genere di merce, ma ad un ritmo inferiore a quello del reddito, mentre la domanda di servizi e di tempo libero si sostituisce in parte a quella dei beni concreti. I prezzi dei beni e dei servizi sono determinati dall’interazione tra domanda e offerta.Il termine logistica indica l’organizzazione dei rifornimenti per un grosso gruppo di persone. Ma la logistica è anche una formula matematica, la curva logistica che ne deriva ha la forma di una S allungata ed è talvolta chiamata curva a S. La curva ha due fasi: una prima fase di crescita accelerata seguita da una seconda di decelerazione.E’ stato anche osservato che le curve logistiche possono anche descrivere molti fenomeni sociali come la crescita delle popolazioni umane. Ciascuna fase d’accelerazione della crescita demografica in Europa è stata accompagnata dalla crescita economica. Nel XI, XII e XIII secolo la civiltà europea si espanse tra la Loira e il Reno nelle isole britanniche, nella penisola iberica, in Sicilia e nell’Italia meridionale, nell’Europa centrale e orientale. Alla fine del XV secolo e nel XVI l’esplorazione marittima, le scoperte e le conquiste portarono gli Europei in Africa e nell’Oceano indiano. Nel XIX secolo, attraverso l’emigrazione, la conquista e l’annessione, gli Europei instaurarono la loro egemonia politica ed economica sul mondo intero. Un certo numero di paesi dovette affrontare locali crisi di sussistenza, la più drammatica delle quali fu la carestia irlandese degli anni quaranta del XIX secolo. Secondo Adam Smith la condizione del lavoratore era migliore in una società “progressista”, cupa in una società stagnante e miserabile in una in decadenza. Le fasi finali di tutte le logistiche, e gli intervalli di stagnazione o depressione che seguirono, testimoniarono la propagazione di tensioni sociali, inquietudini e disordini, e lo scoppio di guerre eccezionalmente feroci e distruttive. Forse le guerre non furono che avvenimenti fortuiti che posero termine a periodi di crescita già avviati al tramonto.

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CAPITOLO VLA SECONDA LOGISTICA EUROPEA

Verso la metà del Quattrocento, la popolazione europea ricominciò ad aumentare. All'inizio del Seicento, però, questa rigorosa crescita incontrò i soliti ostacoli delle carestie, delle epidemie e delle guerre. Questi estremi temporali delimitano la seconda logistica europea. Il periodo di crescita demografica corrispose quasi esattamente all’epoca delle grandi esplorazioni e delle scoperte marittime che portarono all'individuazione di rotte interamente marittime tra l’Europa e l’Asia, alla conquista e alla colonizzazione dell’emisfero occidentale da parte degli europei. Nel XV secolo le città dell’Italia settentrionale godevano ancora di quella leadership negli affari economici che avevano esercitato per tutto il Medioevo. Una serie di guerre che videro l’invasione e l’occupazione dell’Italia da parte di eserciti stranieri portò ad un ulteriore sconvolgimento del commercio. Il declino dell’Italia non fu però immediato né drastico, giacché gli italiani avevano riserve di capitale, di talento imprenditoriale e d’istituzioni economiche sofisticate tali da bastare per diverse generazioni. Verso la metà del Seicento, l’Italia si trovava ormai alla retroguardia dell’economia europea, condizione dalla quale non doveva risollevarsi pienamente fino al XX secolo. La Spagna e il Portogallo godettero di una gloria effimera come principali potenze economiche europee. Lisbona si sostituì a Venezia nel ruolo di grande emporio del commercio delle spezie, e gli Asburgo spagnoli, finanziati in parte dall’oro e dall’argento del loro impero americano, divennero i sovrani più potenti d’Europa. La ricchezza delle Indie e delle Americhe non fu però adeguatamente distribuita all'interno dei due paesi. Pur conservando i rispettivi sterminati imperi marittimi fino al XIX e al XX secolo, entrambi i paesi erano in piena decadenza, economicamente, politicamente e militarmente, già alla metà del XVII secolo. L’Europa centrale, orientale e settentrionale non partecipò alla prosperità commerciale del XVI secolo. La Germania meridionale e la Svizzera, che avevano raggiunto una certa preminenza commerciale nel XV secolo, conservarono per un certo periodo la loro prosperità. Tutta l’Europa centrale cadde preda ben presto di guerre religiose e dinastiche che sottrassero energie all’attività economica. La regione che realizzò i maggiori guadagni

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dai mutamenti economici associati alle grandi scoperte fu quella attorno al Mare del Nord e alla Manica: i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia settentrionale. Per tutto il XVI secolo, la Francia fu coinvolta in guerre dinastiche e religiose, civili e internazionali, e per la maggior parte di esso il suo Governo seguì politiche avverse al commercio e all’agricoltura. La Francia perciò ebbe meno a guadagnare rispetto all’Olanda e all’Inghilterra. L’Inghilterra stava appena emergendo dalla condizione di area arretrata e produttrice di materie prime a quella di paese più o meno manifatturiero. La guerra delle Due Rose decimò le schiere della grande nobiltà ma lasciò indenni le classi medie urbane e quella contadina. Il declino della grande nobiltà accrebbe l’importanza della piccola nobiltà, la gentry. La nuova dinastia Tudor, che salì al trono nel 1485, dipendeva fortemente dal sostegno della piccola nobiltà e ad essa concedeva in cambio i propri lavori. Le Fiandre, la regione più economicamente avanzata dell’Europa settentrionale, si riprese lentamente dalla grande depressione del tardo Medioevo. Anversa si affermò fino a divenire nella prima metà del XVI secolo il porto e il mercato più importante d'Europa. In seguito ad alleanze dinastiche tutte le diciassette province de Paesi Bassi caddero nelle mani della corona spagnola all’inizio del XVI secolo. Nel 1568 i Paesi Bassi si ribellarono al dominio spagnolo. La Spagna sedò la ribellione nelle province meridionali, ma le sette province settentrionali conquistarono l’indipendenza col nome di Province Unite, o Repubblica olandese. Amsterdam divenne la grande metropoli commerciale e finanziaria del XVII secolo. Le innovazioni tecnologiche nelle arti della navigazione e delle costruzioni furono un elemento fondamentale del successo delle esplorazioni e delle scoperte. L'introduzione della polvere da sparo e la sua applicazione da parte degli europei delle armi da fuoco, fu importante per le conquiste europee oltremare.Alla metà del Quattrocento la popolazione europea ammontava complessivamente a circa 45-50 milioni d’individui. A metà del XVII secolo la popolazione era vicina ai 100 milioni. Cosa determinò questa crescita, la susseguente stagnazione e diminuzione? Possibile che si sia verificato un leggero miglioramento climatico. Salari reali più elevati, conseguenza di un rapporto più favorevole tra terra e popolazione risultante dal precedente declino demografico, possono aver incoraggiato matrimoni più precoci e conseguentemente un tasso di natalità più elevato. La crescita demografica del XVI secolo non fu per niente uniforme. In alcune regioni i poderi furono frammentati man mano che aumentava il numero degli individui che cercava di guadagnarsi da vivere con la terra. In altre la popolazione in eccesso lasciò la campagna, volontariamente. In alcuni casi un aumento della popolazione urbana può essere considerato un segno favorevole di sviluppo economico; ciò non era però il caso del XVI secolo. A quell’epoca le città fungevano principalmente da centri commerciali e amministrativi piuttosto che industriali. Molte attività manifatturiere, come quelle tessili e metallurgiche, accadevano nelle campagne. I mestieri praticati nelle città erano di solito organizzati in corporazioni, con clausole di lunghi periodi d’apprendistato ed altre restrizioni all’eccesso. Gli immigrati provenienti dalle campagne possedevano raramente le abilità o le attitudini necessarie per le occupazioni urbane. Nelle città essi formavano un Lumpenproletariat, un gruppo di lavoratori occasionali e non qualificati, spesso privi d’occupazione, che

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arrotondavano i loro magri guadagni con elemosine o piccoli furti. Le loro condizioni di vita in ambienti affollati, sporchi e poveri mettevano in pericolo l’intera comunità rendendola più esposta alle epidemie. La situazione dei poveri delle città e delle campagne fu aggravata da una prolungata diminuzione dei salari reali. Poiché la popolazione cresceva più rapidamente della produzione agricola, il prezzo dei prodotti alimentari crebbe più velocemente dei salari monetari. Alla fine del XVI secolo e nella prima metà del XVII una serie di cattivi raccolti, nuovi focolai di peste bubbonica e altre epidemie, e un’aumentata incidenza e ferocia della guerra (la Guerra dei Trent’anni) arrestarono l’espansione della popolazione.Alla fine del Medioevo notevoli progressi tecnologici furono realizzati nella progettazione delle navi, nella loro costruzione e negli strumenti di navigazione. Navi a tre, quattro o cinque alberi, capaci di navigare di traverso al vento. Nel governo della nave al remo si sostituì il timone. Gli sviluppi della cartografia misero a disposizione carte geografiche e marine molto perfezionate. Gli Italiani erano però tradizionalisti in quanto a progettazione delle navi, e il ruolo guida fu ben presto assunto da coloro che navigavano in mare aperto, vale a dire dai fiamminghi, dagli olandesi e dai portoghesi. Enrico, figlio minore del re del Portogallo, si dedicò all'incoraggiamento delle esplorazioni della costa africana con l’obiettivo finale di raggiungere l’Oceano Indiano. Fondò nel suo castello una sorta d’istituto di studi avanzati nel quale fece venire astronomi, geografi, cartografi e navigatori d’ogni nazionalità. Dopo la morte di Enrico, l’attività d’esplorazione rallentò per mancanza del sostegno regio ma il re Giovanni II riprese le esplorazioni ad un ritmo accelerato. I suoi navigatori si spinsero quasi fino all’estrema punta meridionale dell’Africa. Bartholomeu Dias avanzò lungo la costa, doppiando il Capo di Buona Speranza, Pedro de Covilhao, invece, attraversato il Mediterraneo e giunto via terra nel Mar Rosso, esplorò la parte occidentale dell’Oceano Indiano. La strada era tracciata per il successivo e più grande viaggio d’esplorazione, quello che consenti a Vasco da Gama di raggiungere Calcutta circumnavigando l’Africa. Malattie, ammutinamenti, tempeste incontrati nella spedizione portarono alla perdita di due delle quattro navi di da Gama e di quasi due terzi del suo equipaggio. Il carico di spezie col quale egli fece ritorno compensò però di gran lunga tutti i costi del viaggio. Vedendo l’entità dei profitti, i portoghesi non persero tempo a mettere a frutto il vantaggio di cui godevano. Nel 1513 una delle loro navi attraccò a Canton nella Cina meridionale, e a metà del secolo avevano intrecciato relazioni commerciali e diplomatiche col Giappone. Nel 1483 un genovese chiese al re di finanziare una spedizione attraverso l’Atlantico per raggiungere l’Oriente viaggiando verso ovest. Il genovese era Cristoforo Colombo e dopo la bocciatura della sua proposta non si diede per vinto e si rivolse ai sovrani spagnoli, i quali erano impegnati in una guerra e non avevano soldi da investire in un progetto cosi poco realizzabile. Colombo cercò invano di interessare il re di Francia e d’Inghilterra. Solo nel 1492 i sovrani acconsentirono di patrocinare la spedizione. Colombo salpò il 3 agosto 1492 e il 12 ottobre avvistò le isole note in seguito come Indie occidentali. Egli credette davvero di aver raggiunto le Indie, infatti Colombo chiamò indiani i suoi abitanti. Dopo alcune settimane di esplorazioni tra le isole fece ritorno in Spagna per comunicare la lieta novella.

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Colombo effettuò quattro viaggi nei mari occidentali, e credette di avere scoperto una via diretta per l’Asia. Subito dopo il ritorno della prima spedizione Ferdinando e Isabella, sovrani spagnoli, si rivolsero al Papa perché stabilisse una “linea di demarcazione” che confermasse i diritti spagnoli sulle terre appena scoperte. Giovanni Caboto, un marinaio italiano che viveva in Inghilterra andò alla scoperta di Terranova e della Nuova Scozia. L'anno dopo con il fratello Sebastiano esplorò la costa settentrionale del Nord America; poiché essi non portarono spezie o metalli preziosi i loro finanziatori persero ogni interesse. Mercanti francesi mandarono negli anni venti un altro italiano, Verrazzano, alla scoperta di un passaggio ad occidente per le Indie. Dieci anni dopo il francese Jacques Cartier effettuò il primo di tre viaggi che lo portarono alla scoperta e all’esplorazione del fiume San Lorenzo. Cartier rivendicò alla Francia la regione nota in seguito come Canada. All’inizio degli anni venti, navigatori spagnoli e d’altre nazionalità avevano esplorato l’intera costa orientale delle due Americhe. Divenne sempre più evidente non solo che Colombo non aveva scoperto le Indie, ma anche che non esisteva un passaggio agevole attraverso la parte centrale del nuovo continente. Ferdinando Magellano convinse il re di Spagna a lasciargli guidare una spedizione di cinque navi alle Isole delle Spezie passando per il Mare del Sud oltre l’istmo di Panama. Magellano non intendeva circumnavigare il globo: credeva di trovare l'Asia a pochi giorni di navigazione al di là di Panama. Il suo problema maggiore era di trovare un passaggio attraverso o attorno al Sud America. Ci riuscì, e il tempestoso e infido stretto da lui scoperto porta ancora oggi il suo nome. Alla fine uno dei luogotenenti di Magellano guidò l’unica nave rimasta con il suo equipaggio attraverso l’Oceano Indiano fino in Spagna, dopo tre anni di viaggio; questi uomini divennero i primi ad aver portato a termine un’intera circumnavigazione del globo.Prima del XVI secolo, Spagna e Portogallo erano rimaste ai margini della civiltà europea; in seguito la loro potenza e il loro prestigio declinò rapidamente fino a farle piombare all'inizio del XIX secolo, in uno stato di sonnolenza. Nel XVI secolo, invece, i loro domini erano sterminati e la loro ricchezza e la loro potenza non avevano eguali al mondo. I portoghesi erano oramai i padroni dell’Oceano indiano, Vasco da Gama tornò in India con il compito di interrompere il commercio arabo con il Mar Rosso e l’Egitto, dal quale i veneziani ricavavano le spezie che distribuivano in Europa. I portoghesi non riuscirono a mantenere a lungo un monopolio effettivo nel commercio delle spezie. Alla fine l’impero spagnolo si rivelò anche più redditizio di quello portoghese. Nel XVI secolo gli spagnoli avevano il controllo effettivo dell’emisfero. Gli spagnoli, a differenza dei portoghesi, intrapresero fin dall’inizio un’opera di colonizzazione e di insediamento nelle regioni da loro conquistate. Gli spagnoli introdussero prodotti naturali precedentemente sconosciuti nell’emisfero occidentale, quali il grano ed altri cereali, zucchero di canna, caffè, molti tipi comuni di verdura e frutta, animali tra i quali cavalli, bovini, pecore, asini. Dal punto di vista economico l’espansione determinò un grande aumento delle merci scambiate. Nel XVI secolo le spezie orientali e i metalli preziosi occidentali rappresentavano una percentuale schiacciante delle importazioni dal mondo coloniale. Altre merci fecero la loro apparizione nei flussi commerciali: queste

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aumentarono gradualmente di volume e finirono per mettere in ombra le originali esportazioni coloniali in Europa. Il caffè e il cacao americano, il tè asiatico divennero le più comuni bevande europee, il cotone e lo zucchero non erano mai stati prodotti su larga scala.L’afflusso di oro e soprattutto argento dalle colonie spagnole accrebbe considerevolmente le scorte europee di metalli adatti alla monetizzazione. Il Governo spagnolo cercò di vietare l’esportazione di metalli preziosi in lingotti, ma ciò si rivelò impossibile. Lo stesso si rivelò comunque il principale trasgressore, con le grandi quantità di metalli preziosi inviate in Italia, in Germania e nei Paesi Bassi a pagamento dei debiti e per finanziare le sue interminabili guerre. I metalli preziosi si distribuirono per tutta l’Europa, il risultato più ovvio e immediato fu uno spettacolare e prolungato aumento dei prezzi. Alla fine del XVI secolo i prezzi erano, in generale, circa tre o quattro volte più elevati che al suo inizio. Il prezzo dei generi alimentari crebbe più di quello di gran parte degli altri prodotti. L’incremento demografico fu un fattore forse anche più importante per la lievitazione dei prezzi. Le conseguenze attribuite alla rivoluzione dei prezzi variano dall’impoverimento della classe contadina e della nobiltà alla “nascita del capitalismo”. La crescita demografica, pur non provocando l’aumento assoluto dei prezzi, svolse probabilmente un ruolo determinante nel ritardo dei salari, in quanto l’agricoltura e l’industria si rivelarono incapaci di assorbire la forza lavoro eccedente.Per l’Europa l’agricoltura continuava ad essere di gran lunga la principale attività economica. Il lavoro manuale era il fattore più importante di produzione. Il terreno, le sementa e l’umidità erano naturalmente essenziali ma il lavoro umano era però l’ingrediente più importante di tutti. Nella periferia settentrionale e occidentale d’Europa predominava un’agricoltura di sussistenza. Le campagne erano scarsamente popolate, soprattutto quelle più a nord. Erano ancora applicate tecniche primitive di taglio e incendio della vegetazione spontanea. Nelle aree montuose era particolarmente importante l’allevamento del bestiame. Le colture principali erano segale, orzo e avena; lino e canapa erano coltivati per la fibra. L’abbondanza relativa di terra faceva sì che i poderi fossero fluidi, e che la maggior parte della terra appartenesse a clan di capi tribali o lords. L’organizzazione sociale era gerarchica ma senza schiavitù o legami servili. Nell’Europa di oltre l’Elba e a nord del Danubio, invece, la schiavitù o servitù personale era l’aspetto distintivo delle relazioni sociali. La condizione dei contadini fu gradualmente ridotta ad una situazione non molto lontana dalla schiavitù. La tecnologia agricola era relativamente primitiva. Nei territori adiacenti al Mar Baltico la produzione finalizzata all’esportazione verso i mercati dell’Europa occidentale fu uno stimolo potente alla specializzazione in coltivazioni cerealicole ed altre colture commerciali. L’Italia possedeva l’agricoltura più diversificata d’Europa. La produzione agricola italiana non riuscì a mantenere il passo della crescita demografica; i terreni erano esauriti dalle coltivazioni e dai pascoli. La Spagna offriva quasi la stessa varietà dell’Italia, l’agricoltura spagnola ricevette una cospicua eredità dai predecessori musulmani. Una delle maggiori difficoltà dell’agricoltura spagnola derivava dalla rivalità tra contadini e proprietari di greggi. La lana merino spagnola era molto richiesta nei Paesi Bassi, i pastori

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seguivano la pratica della transumanza, vale a dire il movimento delle greggi tra i pascoli estivi in montagna e quelli invernali in pianura. Il sistema spagnolo era tuttavia insolito sia per la lunghezza dei tragitti che per la sua organizzazione. Il termine tedesco di Grundherrschaft è talvolta usato per descrivere il sistema di possesso fondiario, motivo per cui l’aristocrazia terriera si era trasformata in una classe di meri proprietari terrieri. Le piccole tenute e i fittavoli indipendenti erano più numerosi nei pressi delle città. dove il loro prodotto era vitale per il rifornimento della popolazione urbana. L’altro grande tipo di possesso fondiario era quello mezzadrile, in questo sistema il proprietario della terra provvedeva totalmente o in parte al bestiame e alle attrezzature, partecipava al rischio e alle scelte e si appropriava di una parte del raccolto, di solito la metà. L’area agricola più progredita d’Europa erano i Paesi Bassi, e soprattutto la parte più settentrionale concentrata attorno alla provincia d’Olanda. Nel corso del XVI e XVII secolo l’agricoltura olandese subì una straordinaria trasformazione che le fa meritare il titolo di prima economia agricola “moderna”. La modernizzazione dell’agricoltura fu strettamente legata all’affermazione ugualmente straordinaria della superiorità commerciale olandese. La chiave del successo della trasformazione dell’agricoltura olandese fu la specializzazione, resa possibile dalla domanda sostenuta delle prospere città olandesi in rapida espansione. Invece di cercare di produrre il maggior numero possibile di merci necessarie al proprio consumo, come faceva la maggior parte dei contadini europei, gli agricoltori olandesi cercarono di produrre quanto più possibile per il mercato, acquistando ugualmente sul mercato molti beni di consumo nonché beni capitale e beni intermedi. Gli agricoltori olandesi non si specializzarono esclusivamente nella produzione casearia e nell'allevamento del bestiame. Molti si dedicarono all’orticoltura, alcuni coltivavano orzo, lino, canapa; persino i fiori divennero oggetto di sfruttamento commerciale specializzato. La redditività dell’agricoltura olandese e attestata dagli sforzi continui e ininterrotti di creare nuova terra strappandola al mare, prosciugando laghi e acquitrini e mettendo a coltivazione le torbiere una volta estratta e utilizzata la torba. Quest’attività, iniziata nel Medioevo, conobbe un enorme sviluppo nel XVI e XVII secolo, ed ebbe carattere particolarmente febbrile nei periodi di prezzi agricoli in rialzo. L’opera di arginamento e di prosciugamento richiedeva un grosso consumo di capitale. I mercanti urbani ed altri investitori si organizzarono in società di bonifica con l’obiettivo di vendere o affittare la terra agli agricoltori attivi. La maggior parte delle innovazioni introdotte nel ‘500 e nel ‘600 implicò dei miglioramenti relativamente minori di tecniche già esistenti. Nel 1589 William Lee inventò una semplice macchina per maglieria: mentre un abile magliaio a mano poteva arrivare ad intrecciare fino a cento maglie al minuto, la macchina era in grado di ottenerne una media di mille. Altre innovazioni dell’epoca, negli strumenti di navigazione, nelle armi da fuoco, nell’artiglieria, nell’orologeria ebbero un’importanza economica secondaria pur essendo enormemente importanti dal punto di vista politico e sociale. L’orientamento verso il mercato dell’economia europea, più spiccato nell’industria che non nell’agricoltura, incoraggiava gli imprenditori che erano così in grado di ridurre i costi di produzione e di reagire prontamente alle variazioni della domanda. Esistevano però anche formidabili ostacoli all’innovazione. Uno dei più diffusi era

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l’opposizione delle autorità che temevano la disoccupazione, derivante dalle innovazioni che riducevano la quantità di lavoro necessario. A Lee fu rifiutato il brevetto per la sua macchina e fu costretto a rifugiarsi in Francia dove fondò una fabbrica sotto la protezione di Enrico V; la fabbrica fallì dopo la morte del suo benefattore, ma la macchina per maglieria continuò a diffondersi. L’insufficienza delle fonti energetiche e dei materiali da costruzione erano gli ostacoli naturali che si frapponevano ad una maggiore produttività industriale. Le attività tessili, prese nel loro complesso rimasero quelle con il maggior numero di addetti nel settore industriale, seguite da vicino dalle attività di costruzione. L’organizzazione delle industrie tessili non mutò apprezzabilmente rispetto al tardo Medioevo. La figura caratteristica dell’industriale era quella del mercante-manifatturiere che acquistava la materia prima, la distribuiva a filatori, tessitori ed altri artigiani che lavoravano a domicilio e metteva sul mercato il prodotto finale. Sebbene l’industria delle costruzioni nel suo complesso non facesse registrare innovazioni tecniche significative, un singolo settore specializzato di questa industria subì una profonda trasformazione in un paese: fu questo il caso delle costruzioni navali nei Paesi Bassi olandesi. L’innovazione più significativa fu il flauto, un tipo di nave mercantile introdotta alla fine del XVI secolo equivalente sotto certi aspetti alle moderne navi cisterna, era progettato espressamente per carichi voluminosi e di scarso valore come legname e cereali. Le industrie metallurgiche stavano acquistando un’importanza strategica primaria a causa del peso crescente delle armi da fuoco e dell’artiglieria nelle azioni belliche. Le industrie metallurgiche acquistavano rilevanza alla luce della successiva età industriale. Tra esse quella del ferro era la più importante. L’evoluzione dell’alto forno fu accompagnata da una serie di innovazioni. La Svezia, favorita da un minerale ferroso di alta qualità e dall’abbondanza di legname ed acqua, possedeva una modesta industria del ferro già nel Medioevo. Nelle industrie metallurgiche i progressi, consistenti soprattutto in un incremento della produzione conseguito attraverso l’utilizzazione di tecniche tradizionali e l’applicazione di tali tecniche a nuove fonti di approvvigionamento, furono meno cospicui. La natura non aveva particolarmente dotato l’Europa di metalli preziosi; relativamente abbondanti erano invece i metalli più utili. Il legname era molto richiesto per le costruzioni comprese quelle navali, per la metallurgia e soprattutto per il riscaldamento domestico. La scarsità di legname nelle aree più sviluppate d’Europa fu una delle maggiori cause dell’integrazione della Norvegia e della Svezia nell’economia dell’Europa occidentale. Anche il ferro e altri metalli furono usati al posto del legno, ma l’aumento della domanda di questi ultimi non fece che accentuare la penuria di legname. Oltre che in Germania e nei Paesi Bassi il carbone era stato estratto anche in Inghilterra durante il Medioevo. La domanda di carbone era però continuamente alimentata da altre industrie. Le scoperte oltre mare, introducendo nuove materie prime, stimolarono direttamente la nascita di nuove industrie; le più importanti furono la raffinazione dello zucchero e la lavorazione del tabacco, ma molte altre manifatture sorsero per soddisfare nuovi gusti. Nel Medioevo l’Italia era stata il principale produttore se non l’unico, di manufatti di lusso. La crescita di industrie simili in altri paesi, i cui prodotti spesso erano di qualità inferiore ma costavano

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meno, spiega in parte il declino relativo dell’Italia. Molti lavoratori dell’industria soprattutto di quella tessile, si dedicavano part-time all’agricoltura.Di tutti i settori dell'economia europea, il commercio fu senza dubbio il più dinamico nel periodo compreso tra il XV e il XVII secolo. Il XVI secolo era descritto come l’età della “rivoluzione commerciale”. I mutamenti più interessanti e più significativi per la storia dello sviluppo economico furono quelli che si verificarono nel commercio di lunga distanza. Nel commercio coloniale gli Olandesi mostrarono aggressività. La guerra d’indipendenza interruppe i traffici con la Spagna, ma essi non cessarono di commerciare con l’Impero portoghese attraverso Lisbona. Gli olandesi cominciarono immediatamente a costruire navi capaci di affrontare il viaggio verso l’Oceano Indiano con circumnavigazione dell’Africa. Gli Olandesi, che non furono i soli a trarre vantaggio dalla debolezza del Portogallo, concentrarono la loro attenzione sulle favolose Isole delle Spezie dell’Indonesia, e verso la metà del XVII secolo avevano affermato la loro autorità. Gli Inglesi, dopo infruttuosi tentativi di mettere piede in Indonesia, fondarono delle basi commerciali fortificate nel continente indiano. Le altre potenze marittime approfittarono della debolezza del Portogallo e della rigidità della Spagna anche per invadere e creare mercati nell’emisfero occidentale. Gli Olandesi tentarono di conquistare le colonie portoghesi in Brasile, ma dopo due decenni di combattimenti intermittenti furono definitivamente respinti dagli stessi coloni portoghesi. Il commercio marittimo era di gran lunga la componente più importante per gli scambi internazionali; non era però trascurabile il commercio interno. Gli scambi di merci voluminose furono resi possibili in primo luogo dai miglioramenti nella progettazione e nella costruzione delle navi. Una branca molto particolare del commercio era quella che trattava gli esseri umani: il traffico degli schiavi. Questo traffico fu dapprima dominato dai Portoghesi, poi di volta in volta dagli Olandesi, dai Francesi e dagli Inglesi. Una volta caricati tanti africani incatenati e ammanettati quanti la nave ne poteva portare, il capitano cedeva il suo carico umano in cambio di zucchero o tabacco. I governi europei non presero alcuna misura concreta per proibirlo fino al XIX secolo. La maggiore dinastia commerciale del ‘500 fu la famiglia Fugger: il primo di cui si abbia notizia fu un tessitore. Alla fine del XV secolo erano attivi come finanziatori degli imperatori del Sacro Romano Impero. I Fugger dominarono la scena nel XVI secolo, la forma di organizzazione prediletta era la società di persone, solitamente formalizzata con contratti scritti che specificavano i diritti e gli obblighi di ciascun socio. Non esisteva un capitale societario; ciascun mercante commerciava per conto proprio ma esisteva un quartier generale ed un magazzino comuni e si osservavano le stesse regole, il commercio della lana mantenne la sua importanza. Nella seconda metà del XVI secolo nacquero in Inghilterra diverse altre compagnie detentrici di privilegi commerciali monopolistici: la Compagnia della Moscovia, Orientale, delle Indie orientali. Alcune di queste compagnie adottarono la forma di società regolamentate, altre divennero società per azioni; mettevano in un fondo comune i contributi dei membri sottoponendoli ad un’amministrazione comune. Il regime dei traffici coloniali differiva sensibilmente da quello del commercio interno europeo. Il commercio delle spezie dell’Impero portoghese era monopolio della Corona. I

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mercanti portoghesi erano parte attiva del “commercio regionale”. Il Portogallo produceva poche merci appetite dai mercati orientali, i carichi diretti verso oriente consistevano soprattutto di oro e argento accompagnati da armi da fuoco e munizioni. Il commercio tra la Spagna e le sue colonie non era diverso. Come nel caso del Portogallo, il favoloso Impero spagnolo fu di ben poca utilità per lo sviluppo dell’economia spagnola, ebbe anzi su di essa un effetto ritardante.

CAPITOLO VINAZIONALISMO ECONOMICO E IMPERIALISMO

Le politiche economiche degli stati-nazione nel periodo della seconda logistica europea avevano un duplice obiettivo: costruire la potenza economica per rafforzare lo Stato ed avvalersi della potenza dello stesso per favorire la crescita economica ed arricchire la nazione: profitto e potere dovrebbero andare di pari passo. Prima di tutto gli Stati miravano ad assicurarsi delle entrate, e questa necessità li spingeva frequentemente a porre in atto politiche dannose alle attività produttive. In epoca medievale le municipalità avevano goduto di estesi poteri di controllo e regolamentazione dell’economia. Esse riscuotevano dazi e tariffe sulle merci. Le corporazioni locali di mercanti e artigiani fissavano i salari e i prezzi e disciplinavano le condizioni di lavoro. Le politiche di nazionalismo economico rappresentarono il trasferimento di queste funzioni da un livello locale ad uno nazionale, in cui il governo centrale tentava di unificare lo Stato sia dal punto di vista economico che politico. I governanti europei si facevano concorrenza con lo scopo di rendere i loro Stati autosufficienti in caso di guerra. Il nazionalismo economico aggravò le divergenze religiose e le rivalità dinastiche che occupavano i governanti europei.

Mercantilismo: un termine equivocoAdam Smith classificò le politiche economiche della sua epoca sotto un’unica rubrica, il sistema mercantile. Pur condannando queste politiche tentò di offrirne un quadro sistemico con l’obiettivo di evidenziarne l’assurdità. Dichiarò che tali politiche erano invenzioni di mercanti. Proprio come i mercanti si arricchiscono nella misura in cui le loro entrate sono superiori alle spese, così anche le nazioni si sarebbero arricchite a seconda di quanto le vendite a paesi esteri avessero superato gli acquisti all’estero, incassando la differenza, o “bilancia commerciale”. Per questo motivo incoraggiavano politiche che stimolavano le esportazioni e penalizzavano le importazioni per ottenere una “bilancia commerciale favorevole” per la nazione nel suo complesso. Per oltre un secolo il termine sistema mercantile mantenne una connotazione negativa. Nell’ultima parte del XIX secolo alcuni storici fra cui Schmoller ne rovesciarono la concezione. Per loro, nazionalisti e patrioti, il Merkantilismus era una politica di costruzione dello Stato portata avanti da saggi e benevoli. Nelle parole dello Schmoller il mercantilismo è una “costruzione dello Stato che si accompagna all’edificazione dell’economia nazionale”. Nei manuali si trovano definizioni del mercantilismo come “teoria” o “sistema” di politica

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economica caratteristico dell’Europa occidentale e delle loro dipendenze d’oltremare dal ‘500 circa fino a forse il 1800. Comunque non ci fu un consenso generale né in campo teorico né in quello politico. Nonostante le somiglianze, ogni paese ebbe una propria politica economica. I propugnatori del nazionalismo in economia sostenevano invariabilmente che le loro politiche avevano l’obiettivo di rafforzare lo Stato. La natura dello stato variava dalla monarchia assoluta di Luigi XIV alla repubblica borghese. In nessun stato tutti gli abitanti partecipavano al processo di governo. Poiché il nazionalismo dei primi stati-nazione aveva un fondamento di classe, e non popolare, la chiave delle differenze nazionali nel campo della politica economica dovrebbe essere ricercata nella differente composizione e negli interessi divergenti delle classi dominanti. In Francia e nelle altre monarchie assolute niente si situava al di sopra dei desideri del sovrano. Pochi monarchi mostravano interesse per le questioni economiche. L’amministrazione era affidata a ministri e funzionari minori che spesso non conoscevano bene i problemi della tecnologia industriale e dell’iniziativa commerciale, e rispecchiavano i valori dei loro padroni. In questioni importanti i sovrani spesso sacrificavano per ignoranza o indifferenza sia il benessere economico dei loro sudditi che le fondamenta economiche del proprio potere. Il Governo spagnolo spese più di quanto gli consentissero le entrate. Persino la Francia di Luigi XIV non fu in grado di sopportare la continua emorragia di ricchezza sacrificata al perseguimento delle ambizioni territoriali del re e al mantenimento della sua corte. Alla sua morte il paese si trovava sull’orlo della bancarotta. Le Province Unite governate da e a beneficio dei ricchi mercanti che controllavano le città principali, seguirono una politica economica più accorta: stabilendo il libero scambio all’interno del paese.

Gli elementi comuniNel Medioevo gran parte dei signori feudali e soprattutto i monarchi possedevano dei “forzieri di guerra”: enormi scrigni corazzati in cui venivano accumulate monete e verghe di metalli preziosi per finanziare guerre previste o inattese. Ciò determinò una forma di politica economica nota come “bullionismo”, vale a dire il tentativo di accumulare all’interno del paese tutto l’oro e l’argento possibile, proibendone l’esportazione mediante decreti che comminavano la pena di morte ai trasgressori. I tentativi della Spagna di amministrare con parsimonia il tesoro del Nuovo Mondo furono l’esempio più cospicuo di questa politica. Poiché erano pochi i paesi europei che possedevano miniere d’oro e d’argento, l’acquisizione di colonie in cui esistessero miniere di metalli preziosi fu uno degli obiettivi principali dell’esplorazione e della colonizzazione. Il modello da imitare fu il caso fortunato della Spagna. Fu in questo quadro che i mercanti riuscirono ad influenzare i Consigli di Stato ed ad escogitare le argomentazioni a sostegno di una bilancia commerciale favorevole. Secondo la teoria un paese doveva solo vendere, senza acquistare nulla dall’estero. In pratica ciò era impossibile e si pose la questione: cosa si doveva esportare e cosa importare? A causa dell’alta incidenza di raccolti insufficienti e di carestie periodiche, i Governi cercarono di garantirsi abbondanti riserve interne di grano. Allo stesso tempo incoraggiarono le manifatture. Per incoraggiare la produzione nazionale, le

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manifatture estere furono tagliate fuori o obbligate a pagare alte tariffe protezionistiche. Le manifatture nazionali furono altresì incoraggiate attraverso la concessione di monopoli. Se le materie prime non erano disponibili sul mercato interno, potevano essere importate senza il pagamento di tasse sull’importazione. Le leggi suntuarie (relative ai consumi) tentarono di limitare il consumo di merci estere e di favorire quello di prodotti nazionali. Le grandi flotte mercantili consentivano di ottenere denaro dagli stranieri attraverso la fornitura di servizi di trasporto e incoraggiavano le esportazioni nazionali assicurando un mezzo di trasporto conveniente. Quasi tutti i paesi avevano delle “leggi sulla navigazione” che avevano l’obiettivo di riservare a navi nazionali le importazioni e le esportazioni, e di favorire la marina mercantile. I teorici sottolineavano l’importanza dei possedimenti coloniali come fattori della ricchezza e della potenza nazionale. Anche se le colonie non possedevano miniere d’oro e d’argento, esse potevano produrre beni non disponibili nella madrepatria.

La Spagna e l’America spagnolaNel XVI secolo la Spagna era l’invidia e il flagello delle teste coronate d’Europa. Il suo re Carlo I ereditò non solo il regno di Spagna (in realtà i regni distinti di Aragona e di Castiglia) ma anche i domini asburgici in Europa centrale, i Paesi Bassi e la Franca Contea. Il regno di Aragona gli porto la Sardegna, la Sicilia e tutta l’Italia a sud di Roma. Nel 1519 Carlo divenne imperatore del Sacro Romano Impero col nome di Carlo V. Sebbene le risorse agricole spagnole non fossero le migliori, la Spagna aveva ereditato l’elaborato sistema moresco di orticoltura della Valencia e dell’Andalusia, mentre la lana delle pecore merino era molto apprezzata in tutta l’Europa. Essa possedeva inoltre alcune fiorenti industrie (in particolare quella del panno e del ferro). I possedimenti di Carlo nei Paesi Bassi vantavano l’agricoltura più avanzata d’Europa. I domini asburgici nell’Europa centrale assicuravano importanti giacimenti di minerale, l’oro e l’argento dell’Impero nel Nuovo Mondo cominciarono ad affluire in Spagna in quantità enormi a partire dagli anni trenta. Ma l’economia spagnola non riuscì a progredire, gran parte della responsabilità deve essere attribuita alle esorbitanti ambizioni dei suoi sovrani e alla miopia e alla perversità delle loro politiche economiche. Carlo V riteneva sua missione riunificare l’Europa cristiana. A questo scopo combatté i turchi nel Mediterraneo e in Ungheria, lottò contro i principi protestanti ribelli in Germania e fece guerra ai Valois di Francia. Incapace di ottenere un successo duraturo su ciascuno di questi fronti abdicò nel 1556 al trono di Spagna. Aveva sperato di trasmettere i suoi possedimenti intatti al figlio Filippo, ma il fratello Ferdinando riuscì ad ottenere i territori asburgici in Europa centrale e il titolo d’Imperatore del Sacro Romano Impero dopo la morte di Carlo nel 1558, Filippo II continuò gran parte delle crociate paterne, aggiungendo anche l’Inghilterra. Nel 1588 ci fu la sconfitta definitiva. Per finanziare le guerre e i notevoli consumi Carlo e Filippo si affidarono alle tasse. Il popolo spagnolo era nel XVI secolo quello soggetto alla tassazione più pesante. I grandi proprietari terrieri, quasi tutti di sangue nobile erano esentati dalle imposte dirette, il carico tributario ricadeva su artigiani, commercianti e contadini. La corona trovò un’inaspettata fonte di entrate con la

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scoperta dell’oro e dell'argento nell'impero americano. Le entrate raramente pareggiavano le enormi spese del governo. Ciò costringeva i sovrani a ricorrere ad una terza fonte di finanziamento, il prestito. Il prestito non era una novità per la Spagna. Ma sotto Carlo e Filippo il ricorso al prestito pubblico divenne una pratica regolare. Carlo già nei primi anni del suo regno aveva preso a prestito somme enormi dai Fugger e da altri banchieri tedeschi e italiani per comprare i voti degli elettori che lo avevano proclamato Sacro Romano Imperatore. Gli interessi su questi debiti crebbero progressivamente. I prestatori, banchieri fiamminghi e spagnoli oltre che tedeschi e italiani, si assicurarono contratti in cui venivano offerti a garanzia dei prestiti, taluni specifici introiti tributari o quote di future spedizioni di argento americano. Nel 1557 l'onere era divenuto cosi pesante e il governo rifiutò di riconoscere una parte sostanziale dei propri debiti, avvenimento definito “bancarotta nazionale”. I governi, a differenza delle imprese commerciali, non vengono posti in liquidazione in caso di bancarotta. I debiti a breve termine vennero invece tramutati in obbligazioni a lungo termine, furono ridotti il capitale e il tasso d'interesse, e il ciclo ricominciò. In otto occasioni gli Asburgo spagnoli dichiararono bancarotta. L'assenza di una sistematica politica economica è illustrata dalla storia di due delle maggiori attività economiche spagnole, la produzione cerealicola e la manifattura del panno. La produzione dei cereali prosperò nella prima metà del XVI secolo sia per l'incremento demografico che per il moderato aumento dei prezzi. Con l’accelerazione dell’aumento dei prezzi, il Governo rispose alle lamentele dei consumatori imponendo nel 1539 dei prezzi massimi sui cereali. Il risultato fu che, con l'aumentare dei costi, la terra arabile fu impiegata a fini diversi dalla coltivazione dei cereali, e la penuria di questi ultimi si aggravò. Per porvi rimedio il Governo consentì l'importazione esente da dazi di cereali esteri, ciò però scoraggiò ulteriormente i produttori cerealicoli. Molte terre smisero del tutto di essere coltivate. La situazione era più o meno identica nell'industria del panno. L’espansione della domanda fece aumentare i costi e i prezzi. L'offerta non era in grado di reggere il ritmo di crescita della domanda. Nel 1548 furono aboliti i dazi sul panno estero e fu proibita l'esportazione del prodotto nazionale. Ci fu una grave crisi. Con una politica economica illuminata Carlo V avrebbe potuto assicurare una durevole prosperità al suo vasto impero. Ogni regione, consapevole delle proprie tradizioni e dei propri privilegi, avrebbe opposto resistenza ad una iniziativa in tal senso. Il monarca era troppo dipendente dalle entrate doganali per abolire le tariffe e i dazi interni sul commercio tra le varie regioni dell'impero. Anche dopo l'unione delle corone di Castiglia e di Aragona ciascuna manteneva le proprie barriere tariffarie contro l’altra e persino un diverso sistema monetario. I mercanti e gli industriali dei Paesi Bassi dovettero la loro capillare penetrazione nei mercati spagnoli alla loro superiore capacità concorrenziale piuttosto che a qualche speciale privilegio. I sovrani spagnoli riuscirono a danneggiare il benessere dei loro sudditi e ad indebolire le fondamenta economiche del loro stesso potere. Nei primissimi anni del loro regno Ferdinando e Isabella ottennero dal Papa l'autorizzare a fondare l’Inquisizione. Le conseguenze iniziali dell’Inquisizione furono i casi di apostasia tra i conversos - gli ebrei convertitisi al cristianesimo di fatto o solo nominalmente - sebbene gli ebrei praticanti fossero

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ancora ufficialmente tolleranti. Molti ebrei e conversos figuravano tra i più ricchi e colti cittadini spagnoli. Il clima di terrore determinato dall’Inquisizione spinse molti conversos ed ebrei ad emigrare, portando via con se le proprie ricchezze. I monarchi seguirono una politica analoga nei confronti dei mori musulmani. Nel 1502 decretarono la conversione o l’espulsione di tutti i mori; poiché questi ultimi erano in maggioranza umili lavoratori agricoli furono costretti a diventare nominalmente cristiani: i moriscos. Nel 1609 un altro Governo spagnolo ordinò l’espulsione dei moriscos. Le politiche della Spagna nei confronti del suo impero americano furono altrettanto autodistruttive. Non appena cominciò a diffondersi una certa consapevolezza della portata delle scoperte nel Nuovo Mondo il Governo impose una politica di monopolio. Nel 1501 fu proibito agli stranieri di stabilirsi nelle nuove colonie o di commerciare con esse. Nel 1503 fu creata a Siviglia la Casa de Contrataciòn con un monopolio commerciale. Tutte le navi mercantili erano tenute a viaggiare con i convogli armati riuscendo, così, a proteggere le spedizioni di metalli preziosi. Le politiche monopolistiche si rilevarono talmente ingestibili che il Governo fu costretto a fare marcia indietro. Nel 1524 si permise ai mercanti stranieri di commerciare con l’America senza però stabilirvisi. Ciò risultò una tale manna per i mercanti italiani e tedeschi tanto che nel 1538 il Governo abrogò questa politica restaurando il monopolio dei castigliani. Tra il 1529 e il 1573 fu permesso alle navi di altri dieci porti oltre Siviglia di commerciare con l’America, ma con l'obbligo di registrare i loro carichi a Siviglia e di scaricare in questa città le merci trasportate al ritorno. A causa della lievitazioni dei costi questa autorizzazione ebbe scarsi risultati, la politica del monopolio e delle limitazioni incoraggiava invece l’evasione e il contrabbando. La politica generale era di riservare il mercato dei prodotti di manifattura delle colonie ai produttori della metropoli. L’intrinseca assurdità di questa politica coloniale è nel trattamento riservato all’unico possedimento spagnolo nel Pacifico, l’arcipelago delle Filippine. Sebbene ricadessero nell'orbita portoghese le Filippine divennero possedimento spagnolo in virtù della scoperta di Magellano. I Filippini ed altri asiatici commerciavano tra loro e con le vicine regioni asiatiche, Cina compresa. Il solo tipo di commercio con l’Europa permesso era indiretto, attraverso il Messico e la stessa Spagna. Ogni anno un’unica nave, il galeone di Manila, partiva da Acapulco. L'intero viaggio richiedeva due anni. La nave caricava spezie, sete cinesi porcellane ed altri prodotti di lusso orientali. Ovviamente poche potevano essere le merci che riuscivano a sopportare un tale costo.

Il PortogalloUna delle imprese più notevoli dell’età dell’espansione europea fu quella del Portogallo, stato piccolo che riuscì ad assicurarsi il dominio su un vasto impero marittimo in Asia, Africa e America. All’inizio del XVI secolo l’economia era prevalentemente di sussistenza, le esportazioni erano di prodotti primari e le importazioni comprendevano il grano e prodotti industriali quali il panno e gli articoli di ferramenta. I fattori che condussero il Portogallo ad ottenere una posizione di predominio furono:• la fortuna, all’epoca in cui il Portogallo si affacciò nell’Oceano Indiano le realtà

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politiche in quell’area erano eccezionalmente deboli e divise;• le conoscenze accumulate nella progettazione delle navi, nelle tecniche di

navigazione e in tutte le arti relative;• lo zelo, il coraggio e la capacità degli uomini che si avventurarono nei mari.Nell’ebbrezza delle scoperte e dei successi asiatici i Portoghesi prestarono scarsa attenzione ai loro possedimenti africani e americani. Il commercio delle spezie prometteva rapidi profitti. Dopo il 1530 però la Corona portoghese fu allarmata dalla presenza di predoni francesi sulle coste del Brasile e decise di favorire l’insediamento di coloni portoghesi nell’entroterra. Le prime colonie non prosperarono, la popolazione indigena non rappresentava un mercato per la produzione portoghese né un’affidabile forza lavoro. Il Brasile non divenne parte integrante dell’economia imperiale fino agli anni settanta, con l’introduzione della canna da zucchero e di tecniche di coltivazione che prevedevano l’impiego di schiavi africani. Subito dopo il Portogallo passò alla Corona spagnola. Il monopolio legale della Corona portoghese nel commercio delle spezie attirò a questa ultima gli appellativi derisori di “re droghieri” ma la realtà celata era abbastanza differente da quella che si potrebbe sospettare. Il Portogallo non si assicurò mai un controllo effettivo delle fonti di approvvigionamento delle spezie. Alla fine del XVI secolo esse sostenevano un volume di scambi mai visto. Due erano le ragioni principali :• i Portoghesi erano semplicemente troppo sparpagliati;• la Corona era costretta ad affidarsi, per amministrare il proprio monopolio, a

ufficiali regi o ad imprenditori che ne “appaltavano” una parte; gli ufficiali regi non erano ben pagati e spesso arrotondavano i loro stipendi accettando doni da contrabbandieri o commettendo in prima persona commerci illeciti.

Il commercio delle spezie fu la più famosa ma solo una delle molte branche del commercio che i monarchi portoghesi cercarono di monopolizzare per ragioni fiscali. La Corona portoghese monopolizzava quello con l’Africa le cui esportazioni più preziose erano l’oro, gli schiavi e l’avorio. Con la scoperta dell’America la domanda di schiavi crebbe enormemente. Nel XVIII secolo ci fu la scoperta di oro e diamanti in Brasile. La Corona cercò di monopolizzarne il commercio, ma le navi da guerra inglesi erano veicoli frequenti di questo commercio di contrabbando. Le tentazioni monopolistiche della Corona non si limitarono ai prodotti esotici dell’India e dell’Africa, ma si estesero a prodotti nazionali di prima necessità e quello che la Corona non riusciva a monopolizzare veniva tassato. All’inizio del XVIII secolo quasi il 40% del valore delle merci spedite legalmente da Lisbona al Brasile era rappresentato da dazi doganali e altre tasse. La ragione prima di monopolio e tasse era quella di assicurare nuove entrate alla Corona; ma l’evasione era agevole e diffusa. Quanto più era forte l’imposizione fiscale tanto maggiore era l’incentivo ad evaderla. Anche i Portoghesi cominciarono a chiedere prestiti ad alti tassi di interesse ad italiani e fiamminghi, oppure ai sudditi del re, i “nuovi cristiani” (questo termine era eufemisticamente applicato ai cittadini portoghesi di origine ebraica). Alcuni di essi si erano realmente convertiti al cristianesimo, ma molti avevano segretamente conservato la loro fede. Re Emanuele aveva nel 1497 obbligato alla conversione gli ebrei a imitazione e su istanza dei monarchi spagnoli, ma per vari decenni non fu

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preso alcun provvedimento repressivo. In realtà cristiani vecchi e nuovi continuavano a vivere insieme in armonia e ad unirsi in matrimonio. Ma alla fine anche il Portogallo ottenne la sua Inquisizione: i cittadini erano addirittura istigati a denunciarsi a vicenda.

L’Europa centrale, orientale e settentrionaleTutta l’Europa centrale, dall’Italia settentrionale al Baltico, era nominalmente unita sotto il Sacro Romano Impero. Il territorio era organizzato in centinaia di principati indipendenti o quasi, da possedimento laici ed ecclesiastici di dimensioni variabili, a quello del singolo cavaliere imperiale, alle terre asburgiche dell’Austria, della Boemia e dell’Ungheria. Con la riforma protestante l’autorità dell’Imperatore ebbe subito una drastica limitazione. La lotta tra il particolarismo locale e le tendenze centralizzatrici dei più potenti monarchi e principi costituisce gran parte della storia europea della prima età moderna.In Germania i propugnatori del nazionalismo economico sostenevano una serie di principi. Gli scrittori che appartengono a questa scuola sono di solito chiamati cameralisti dalla parola latina “camera” che nell’uso tedesco dell’epoca indicava le casse o il tesoro dello stato territoriale. Questi scrittori erano funzionari statali, cioè funzionari dei principi territoriali che lottavano per conseguire un’autonomia sia politica che economica. Nella loro preoccupazione per il rafforzamento dello stato territoriale, essi invocavano misure che, oltre a riempire le casse dello Stato, avrebbero ridotto la sua dipendenza da altri Stati e lo avrebbero reso più autosufficiente in caso di guerra: limitazioni al commercio con l’estero, incentivazione delle manifatture nazionali, bonifica dei terreni paludosi, offerta di lavoro per i “poveri oziosi”. Nel XVIII secolo in diverse università tedesche furono fondate cattedre speciali destinate a preparare i futuri funzionari statali.Il caso più spettacolare di successo di una politica di centralizzazione è senza dubbio quello dell’ascesa della Prussia degli Hohenzollern. E’ stato questo successo a spingere alcuni storici a ribaltare la condanna prevalente delle politiche del nazionalismo economico. Questa dinastia arrivò al potere nell’elettorato del Brandeburgo, nel XV secolo. Gli Hohenzollern estesero i propri domini per via ereditaria. Notevole fu l’acquisizione della Prussia orientale nel 1618. La guerra dei Trent’anni causò grandi devastazioni ma a partire da Federico Guglielmo (il “Grande Elettore”) una serie di abili regnanti trasformò il Brandeburgo-Prussia in una delle più grandi nazioni europee. Tra i mezzi impiegati figurano gli strumenti consueti della cosiddetta politica mercantilistica, quali dazi protettivi, concessioni di monopoli e sussidi all’industria, incentivi a imprenditori stranieri e lavoratori specializzati a stabilirsi nei territori meno popolati. Fattore importante fu la gestione delle risorse dello Stato: attraverso la centralizzazione dell’amministrazione, il requisito della responsabilità personale imposto al corpo di funzionari statali professionisti da loro creato, l’attenta riscossione delle imposte e la parsimonia sul lato della spesa, essi crearono una macchina statale efficientissima. La loro unica stravaganza fu l’esercito che arrivò ad assorbire più della meta del bilancio statale. I Re prussiani sfruttarono il loro esercito non solo da un punto di vista militare e politico ma anche economico.

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Essi erano in grado di ottenere sussidi dagli alleati ed evitavano di prendere denaro in prestito. Nonostante lo Stato fosse efficiente l’economia del paese era solo moderatamente prospera secondo il metro dell’epoca. All’ascesa della Prussia si contrappose la scomparsa del regno di Polonia. La caduta della Polonia ebbe cause militari e politiche, quali la debolezza dell’autorità regia elettiva ed il liberum veto, in virtù del quale ogni singolo membro del sejm, parlamento, poteva annullare gli atti dell’intera sessione. Ma la povertà e l’arretratezza dell’economia furono fattori determinanti. Giuridicamente la popolazione era composta per circa tre quarti da servi, legati alla terra e con nessun diritto. La nobiltà polacca era abbastanza numerosa, ma nella grande maggioranza era anch’essa povera e virtualmente senza terra. La maggior parte della terra era controllata da non più di una ventina di famiglie. Nel XVI e XVII secolo la Polonia esportò in Occidente grandi quantità di cereali, ma con l’aumento della produzione agricola in Occidente la domanda di grano si contrasse e il paese ritornò ad una agricoltura di sussistenza. Sebbene l’assenza di un’effettiva autorità centrale rendesse impossibile per la Polonia una coerente politica economica, alcune regioni che ne facevano parte l’avevano: esempio è lo stato di Curlandia ma non ebbe lunga vita e scomparve insieme alla Polonia.Nel XVI e XVII secolo la Russia si sviluppò sia dal punto di vista economico che politico. Priva di sbocchi sul mare, intratteneva pochissimi scambi commerciali di lunga distanza. La grande maggioranza della popolazione si dedicava ad una agricoltura di sussistenza, condizionata dalle istituzioni servili. Nel frattempo nonostante le numerose rivolte l’autorità dello Zar si andava rafforzando. Nel 1696 quando Pietro I (“il Grande”) divenne unico sovrano, il suo potere all’interno dello Stato era senza rivali. Pietro intraprese un politica di “occidentalizzazione”: concesse sussidi e privilegi ad artigiani e imprenditori occidentali disposti a stabilirsi in Russia per esercitarvi una professione o un commercio; costruì la città di San Pietroburgo, la sua “finestra sull’occidente”; si assicurò così un porto e cominciò a costruire una flotta per estendere i propri domini; costituì un più efficiente sistema tributario per raccogliere più denaro possibile. Quando le industrie del paese si dimostrarono incapaci di soddisfare le sue richieste di articoli militari, Pietro fondò arsenali, cantieri navali e fonderie che disponevano di tecnici occidentali il cui compito era di addestrare una forza lavoro indigena, ma il tentativo ebbe scarso successo. Dopo la morte di Pietro la maggior parte delle industrie da lui fondate scomparvero, la flotta cadde in rovina e persino il suo sistema tributario assicurò rendite inadeguate a mantenere l’esercito e la burocrazia. Tra i suoi successori Caterina (anch’essa detta “la Grande”) fu responsabile di due innovazioni nella finanza statale: l’accensione di prestiti all’estero e l’eccessiva emissione di moneta cartacea a corso fiduciario.Nel XVI e XVII secolo la Svezia svolse un ruolo di grande potenza politica. Il suo successo dipese dall’abbondanza di risorse naturali (rame e ferro) e dall’efficienza amministrativa del suo governo. I Sovrani svedesi abolirono i dazi doganali e le tariffe interne che ostacolavano il commercio negli altri paesi, standardizzarono pesi e misure, istituirono un sistema di tassazione uniforme e presero dei provvedimenti che favorirono la crescita del commercio e dell’industria. Nel XVIII secolo la Svezia

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divenne il principale fornitore di ferro sul mercato europeo. L’Italia è stata esclusa da questa rassegna delle politiche nel periodo del nazionalismo economico perché subì le rivalità delle grandi potenze. Ripetutamente invase le sue città-stato e i suoi piccoli principati ebbero scarse opportunità di intraprendere o porre in atto politiche indipendenti. Fece eccezione la repubblica di Venezia che riuscì a conservare sia l’indipendenza politica che una certa prosperità economica fino alla conquista francese del 1797. Venezia sviluppò un’importante industria della lana, della vetreria, della carta e della stampa. Il Governo (oligarchia) tentò di scongiurare la decadenza commerciale ma con scarso successo.

Il colbertismo in FranciaL’esempio archetipo del nazionalismo economico fu la Francia di Luigi XIV. Luigi ne costituì il simbolo e il potere, ma la responsabilità del disegno politico fu del suo primo ministro Jean-Baptiste Colbert. La sua influenza fu tale che è stato coniato il termine colbertisme (sinonimo di mercantilismo). Colbert cercò di sistematizzare e razionalizzare l’apparato dei controlli statali sull’economia, ereditato dai suoi predecessori, ma non riuscì mai ad ottenere un vero successo. La ragione del suo fallimento fu l’incapacità di attingere dall’economia denaro sufficiente a finanziare le guerre e il lusso smodato della corte di Luigi. All’epoca della guerra dei Cent’anni le “imposte straordinarie” (imposte in caso di emergenza) erano divenute voci permanenti delle entrate reali. Alla fine del XVI secolo il Re si era accaparrato il potere di elevare i tassi d’imposta e di istituire nuove tasse per decreto, senza il consenso di alcuna assemblea rappresentativa. Alla fine del XVI secolo le entrate tributarie erano aumentate di sette volte rispetto all’inizio del secolo. Ma neanche questa manna fiscale riuscì a coprire le spese delle campagne italiane. Per raccogliere denaro i Re furono costretti a ricorrere ad altri espedienti come l’accensione di prestiti e la vendita degli uffici. I Re francesi avevano preso denaro a prestito nel Medioevo ma fu solo a partire dal regno di Francesco I che i debiti della corona entrarono a far parte del sistema fiscale. Il debito crebbe progressivamente. La Corona si procurava nuove entrate anche attraverso la vendita degli uffici (giudiziari, fiscali e amministrativi). La vendita degli uffici divenne una pratica normale. Questa politica raggiunse il suo obiettivo immediato ma a lungo andare il suo effetto fu deleterio: infatti creò una moltitudine di nuovi uffici privi di funzioni o le cui funzioni erano dannose per le masse. La Corona, per la riscossione delle imposte istituì la figura degli esattori che si impegnavano a pagare allo Stato una somma forfetaria in cambio del privilegio di riscuotere certe specifiche tasse, quali le aides (imposte sul consumo che colpivano diverse merci) e la gabelle (originariamente imposta sul consumo del sale che divenne un tributo fisso) e soprattutto molti dazi e pedaggi. Fu il fallimento del sistema fiscale come produttore di entrate a portare all’assemblea degli Stati Generali del 1789, l’inizio della fine dell’antico regime. Oltre che a riformare il sistema tributario Colbert cercò di migliorare l’efficienza e la produttività dell’economia francese. Furono emanati numerosi decreti e ingiunzioni che avevano per oggetto le caratteristiche tecniche dei manufatti e la condotta dei mercanti. Incoraggiarono la proliferazione delle corporazioni e concessero sussidi

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alle manifactures royales. Per conseguire una bilancia commerciale favorevole crearono un sistema di proibizioni e di alti dazi protettivi. I Re francesi inaugurarono i loro tentativi di centralizzazione del potere sulla nazione e del controllo dell’economia nel periodo successivo alla guerra dei Cent’anni. Uno dei risultati delle guerre italiane fu di stimolare tra gli aristocratici la domanda di beni di consumo di lusso che Re ed ufficiali avevano conosciuto in quel paese. L’uomo che dovrebbe essere considerato il fondatore della tradizione francese dell’étatisme (statalismo) negli affari economici fu il duca di Sully, primo ministro di Enrico IV. Sully è considerato un energico amministratore tuttavia il suo ambiguo legato è simboleggiato dai due provvedimenti (solitamente attribuiti ad Enrico) presi nel 1598. Da un lato con l’editto di Nantes Enrico concedeva ai protestanti una tolleranza limitata, dall’altro ridusse d’autorità sia il capitale che il tasso d’interesse su tutti i maggiori debiti della Corona (regia dichiarazione di bancarotta parziale). Sully accrebbe le entrate derivanti dai monopoli reali sulla produzione di salnitro, polvere da sparo, munizioni e sale. Richelieu e Mazzarino (successori di Sully) non avevano interesse per gli affari finanziari, ma avevano come obiettivo principale l’affermazione della Francia nell’arena internazionale, essi lasciarono che le finanze statali scivolassero nelle deplorevoli condizioni risalenti a prima di Sully. Uno dei principali obiettivi di Sully era di rendere la Francia autosufficiente dal punto di vista economico e di creare un impero sui mari. Per disciplinare l’industria emanò istruzioni dettagliate che abbracciavano ogni fase della manifattura di centinaia di prodotti. Colbert, di salda fede cattolica, appoggiava la limitata tolleranza agli Ugonotti dall’editto di Nantes. Dopo la sua morte il suo debole successore si sottopose alla determinazione di Luigi di sradicare l’eresia protestante che culminò nella revoca dell’editto nel 1685. Ciò gettò la Francia in una grave crisi economica dalla quale non doveva emergere fino alla fine della Guerra di Secessione spagnola.

La prodigiosa ascesa dei Paesi BassiLa struttura del Governo della Repubblica Olandese era del tutto diversa da quella delle monarchie assolute dell’Europa continentale ed inoltre l’economia olandese dipendeva dal commercio internazionale molto più di quelle dei più grandi vicini. L’Unione di Ultrecht del 1579, il patto tra le sette province settentrionali che divennero poi i Paesi Bassi Uniti o Repubblica olandese, fu più una sorta di alleanza difensiva contro la Spagna che l’istituzione di uno stato-nazione. Tutte le decisioni dovevano essere raggiunte per accordo unanime, e ciascuna provincia disponeva di un voto; in mancanza di accordo i delegati facevano ritorno nei rispettivi stati provinciali per consultazioni e istruzioni. Gli Stati provinciali erano dominati dalle maggiori città. Queste erano governate da Consigli cittadini autorinnovanti composti da un numero di membri che erano i veri signori della Repubblica olandese. Originariamente i membri di questa oligarchia venivano selezionati tra le più facoltose famiglie cittadine. I membri di questo gruppo di Governo, noti come i “reggenti” cominciarono a provenire da una classe di rentiers composta da proprietari terrieri e possessori di titoli di stato; i reggenti discendevano solitamente da famiglie mercantili o si legavano ad esse per via di matrimonio. Alla base della superiorità

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commerciale olandese erano i cosiddetti “commerci madre”, i traffici che collegavano i porti olandesi con quelli del mare del Nord, del Baltico, del Golfo di Biscaglia e del Mediterraneo. La pesca delle aringhe occupava un posto eccezionale nell’economia olandese. L’agricoltura olandese era la più produttiva d’Europa e si concentrava sulle produzioni di maggior valore, come burro, formaggio, e colture industriali. I Paesi Bassi mancavano di risorse naturali come carbone e minerali, ma importavano materie prime e prodotti semilavorati, come i tessuti grezzi di lana inglesi, per riesportarli in forma finita, importante era anche l’industria delle costruzioni navali. I Paesi Bassi settentrionali, in special modo l’Olanda e la Zelanda, beneficiarono in alto grado della libera immigrazione delle altre regioni europee. La facilità con cui Amsterdam raggiunse la sua posizione di principale centro commerciale europeo fu in parte una conseguenza dell’afflusso di mercanti e finanzieri dalla decaduta Anversa che portarono con sé il know-how capitalistico e i capitali liquidi. Queste migrazioni furono nello stesso tempo un simbolo e un contributo alla politica di tolleranza religiosa dei Paesi Bassi. L’oligarchia mercantile riuscì a conservare sia la libertà religiosa che economica per i cattolici, gli ebrei e i protestanti. L’interesse olandese per la libertà era effettivo, in particolare per quanto riguardava la libertà dei mari. La lotta olandese per la libertà era un po’ più equivoca nelle questioni di politica commerciale e industriale: le città seguivano politiche di libero scambio, non vi erano dazi che ostacolassero le esportazioni e le importazioni di materie prime e prodotti. Tariffe e tasse sui generi di prima necessità erano finalizzate all’ottenimento di entrate, non alla protezione delle industrie nazionali. Il commercio dei metalli preziosi era del tutto libero. Amsterdam, con la sua banca, la borsa e la favorevole bilancia dei pagamenti divenne in breve tempo l’emporio mondiale dell’oro e dell’argento. La libertà era la norma anche nell’industria. Pur non del tutto assenti, le corporazioni non erano né diffuse né potenti come negli altri paesi. La più notevole eccezione all’assenza di regole nel commercio e nell’industria olandesi era il “Collegio della pesca” sanzionato dal Governo che disciplinava la pesca delle aringhe. Il Collegio licenziava vascelli per il controllo della quantità ed imponeva inoltre rigidi controlli di qualità. Questa politica restrittiva diede generosi risultati finché gli Olandesi riuscirono a conservare il quasi monopolio sul mercato europeo. Là dove gli olandesi prendevano più nettamente le distanze dalla loro regola generale di libertà era nei confronti dell’impero coloniale. Gli Stati generali olandesi delegarono il controllo del commercio ma anche i poteri del governo a società per azioni di proprietà privata, la Compagnia delle Indie orientali per l’Oceano Indiano e l’Indonesia e la Compagnia delle Indie occidentali per la costa occidentale dell’Africa e dell’America settentrionale e meridionale. Le compagnie scoprirono ben presto che per avere successo dovevano stabilire un controllo territoriale. Nella misura in cui l’ottennero si trasformarono in “stati nello stato”, conseguenza inevitabile fu il monopolio commerciale sia nei confronti dei connazionali che della concorrenza straniera.

Il “colbertismo parlamentare” in Gran BretagnaLe strategie economiche dell’Inghilterra e, dopo l’unione tra il Parlamento scozzese e

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quello inglese nel 1707, della Gran Bretagna erano diverse sia da quelle Olandesi che delle monarchie assolute del continente. Mentre le caratteristiche generali delle politiche economiche delle altre nazioni europee rimasero più o meno le stesse dall’inizio del XVI secolo alla fine del XVIII secolo, quelle inglesi e britanniche attraversarono una graduale evoluzione corrispondente all’evoluzione del governo costituzionale. Enrico VIII fu per l’Inghilterra un monarca assoluto. Ma mentre nella maggior parte dei paesi del continente l’assolutismo monarchico crebbe nel corso del XVI e XVII secolo, in Inghilterra nel 1688 si ebbe una monarchia costituzionale sotto controllo parlamentare. Un’altra differenza tra l’Inghilterra e il continente getta luce sulla natura della politica economica. In Spagna e in Francia le necessità fiscali della Corona resero impossibile al Governo di perseguire una politica razionale di sviluppo economico. In Inghilterra le richieste della Corona la posero ripetutamente in conflitto con il Parlamento, fino alla vittoria finale di quest’ultimo. Il Parlamento inglese non aveva mai rinunciato alla sua prerogativa di approvare nuove tasse. Il tentativo di Carlo V dopo il 1630 di governare senza il Parlamento e di riscuotere le tasse senza autorizzazione parlamentare fu uno dei fattori scatenanti dell’insurrezione armata. Dopo l’insediamento di Guglielmo e Maria nel 1689 come monarchi costituzionali il Parlamento assunse il controllo diretto delle finanze del Governo e istituì formalmente un debito “nazionale” distinto da quelle personali del Governo. La cosiddetta gloriosa rivoluzione del 1688-89 rappresenta una svolta importante non solo nella storia politica e costituzionale ma anche in quella economica. Nel campo della sola finanza pubblica, l’ultimo decennio del ‘600 vide l’istituzione di un debito consolidato, la creazione della Banca d’Inghilterra, la sostituzione della moneta nazionale con moneta di nuovo conio e l’affermazione di un mercato organizzato per i titoli pubblici e privati. Il successo del nuovo sistema finanziario non fu immediato, nei primi anni fu sconvolto dalla “bolla del Mare del Sud”. Uno storico definì “colbertismo parlamentare” la politica economica inglese del periodo compreso tra la grossa rivoluzione e la rivoluzione americana. Come il termine “mercantilismo” anche questa definizione è imprecisa perché ignora il ruolo notevole avuto dal Parlamento prima del 1688 nelle scelte di politica economica, fuorviante in quanto fa supporre che il Parlamento aspirasse a conseguire un grado di intervento nell’economia analogo a quello di Colbert. Essa ha comunque il merito di indicare che, in Inghilterra, le scelte di politica economica non erano prerogativa di un monarca assoluto ma rispondevano agli interessi eterogenei di quei gruppi che erano effettivamente rappresentati in Parlamento. E’ impossibile illustrare dettagliatamente tutti i modi in cui il parlamento influenzò l’economia. Esamineremo alcuni tipici e importanti atti legislativi. Lo statuto dei mestieri del 1563 è stato spesso additato come esempio archetipo di legge mercantilista, attentamente soppesata ed espressione di un piano di ampio respiro per l’intera economia. In realtà esso non fu niente del genere, fu una reazione ad una situazione temporanea. La sua maggiore preoccupazione era la stabilità sociale. Le clausole più importanti imponevano a tutte le persone abili di dedicarsi ad un lavoro produttivo. Stabiliva la norma dei sette anni di apprendistato per tutte le arti e mestieri compresa l’agricoltura e specificava gli strati sociali da cui gli apprendisti dovevano essere scelti. Essa avrebbe impedito lo

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sviluppo economico. Ma l’applicazione domandata ai giudici di pace (funzionari regi non pagati) era approssimativa e di regola inesistente. Altro progetto importante è quello di Cokayne. Nel Medioevo la merce più esportata dall’Inghilterra era stata la lana grezza e il mercato principale per questi tessuti erano i Paesi Bassi. Nel 1614 sir William Cokayne, mercante, assessore della City di Londra e confidente del re Giacomo I, persuase quest’ultimo a revocare il monopolio dei Merchant Adventures, proibì l’esportazione di tessuti finiti ad una nuova società di cui Cokayne era l’esponente di maggiore spicco. Il motivo era che i processi di rifinitura erano la fase più redditizia della manifattura del panno; riservandoli all’Inghilterra il progetto avrebbe accresciuto il reddito nazionale e colpito gli Olandesi. Questi ultimi risposero proibendo l’importazione di lane colorate dall’Inghilterra. Nel 1617 il Governo ripristinò il monopolio dei Merchant Adventures ma la crisi commerciale non si arrestò. Nel 1624 su pressione della Camera dei Comuni, il Governo liberalizzò il commercio del panno. Altro atto importante furono i Navigation Acts. Le leggi sulla navigazione, il cui scopo generale era di riservare il commercio internazionale di un paese alla marina mercantile di quest’ultimo, non furono un’esclusiva dell’Inghilterra o del XVII secolo. Quasi tutti i paesi avevano proprie leggi in questo campo. La prima era stata promulgata in Inghilterra nel 1381, tali leggi erano inefficaci per due ragioni, mancavano di adeguati meccanismi di applicazione e le marine mercantili non erano all’altezza della concorrenza. Gli Olandesi si sentirono sufficientemente colpiti da dichiarare guerra. Sebbene la legge sulla navigazione non fosse l’unica causa di questa dichiarazione di guerra, la sua abrogazione fu uno degli obiettivi perseguiti dagli Olandesi senza successo, nelle trattative che posero termine ad una guerra ormai in una situazione di stallo. Nel 1660 il Parlamento rinnovò e diede maggior forza alla legge e divenne una pietra angolare del sistema coloniale inglese. La legge cercava anche di proteggere l’industria delle costruzioni navali imponendo che le navi fossero costruite in Inghilterra, ma in questa clausola si rivelò di difficile applicazione. Persino alle navi britanniche era richiesto di importare le merci direttamente dal paese d’origine, in questo modo la legge mirava a indebolire la posizione commerciale di Amsterdam e a colpire il trasporto merci olandese. Il commercio costiero era riservato esclusivamente a navi inglesi. Il commercio con le colonie britanniche doveva inoltre avvenire su naviglio britannico. In pratica questa clausola riservava il mercato coloniale ai mercanti e agli industriali inglesi. Le leggi sulla navigazione non furono di facile applicazione soprattutto nelle colonie ma favorirono la crescita della marina mercantile inglese e del commercio marittimo. Ebbero anche un effetto: la perdita di una larga parte del vecchio Impero britannico. Superate le difficoltà iniziali dei primi decenni del Seicento, le colonie inglesi del Nord America erano cresciute prodigiosamente. La crescita del reddito e della ricchezza fu ancora più impressionante della crescita demografica, man mano che le colonie si specializzarono secondo criteri di vantaggio relativo e cominciarono a commerciare intensamente tra di loro, con la madrepatria e illegalmente con l’Impero spagnolo. Sebbene le leggi sulla navigazione disciplinassero il commercio coloniale la loro applicazione non fu particolarmente rigorosa fino a dopo la guerra dei Sette Anni.

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Nella seconda metà del XVII secolo la Compagnia delle Indie orientali cominciò ad importare dall’India un tessuto poco costoso, leggero e dai vivaci colori detto calicò che divenne ben presto popolare. Nel 1701 gli industriali lanieri persuasero il Parlamento ad approvare il primo Calico Act, che proibiva l’importazione dei tessuti di cotone stampato: nacque una nuova industria. Quella della lana si sentì minacciata, e nel 1721 il Parlamento approvò una seconda legge sul calicò che proibiva l’ostentazione e l’uso dei tessuti di cotone stampato. Ciò a sua volta stimolò un’industria cotoniera nazionale basata sull’importazione di cotone grezzo. Alla fine del secolo la manifattura del cotone aveva preso il posto della lana come prima industria britannica. In gran Bretagna la crescita del potere parlamentare a spese della monarchia portò con sè maggior ordine nelle finanze pubbliche, un sistema impositivo più razionale ed una più snella burocrazia statale. L’ideale era ancora quello di un’economia “regolata” e il Parlamento seguì una rigorosa politica di nazionalismo economico. Internamente pur desiderando controllare l’economia il Parlamento mancava in generale della possibilità di farlo. Gli imprenditori inglesi godevano di una misura di libertà e di opportunità virtualmente unica al mondo.

CAPITOLO VIIL’ALBA DELL’INDUSTRIA MODERNA

All’inizio del ‘700 diverse regioni europee avevano sviluppato discrete concentrazioni di industria rurale. Per descrivere tale processo di espansione e di trasformazione occasionale di queste industrie è stato inventato il termine di protoindustrializzazione. Le caratteristiche essenziali di un’economia protoindustriale sono una forza lavoro dispersa, rurale, organizzata da imprenditori urbani che la riforniscono di materia prima e smerciano il prodotto in mercati lontani. La protoindustrializzazione fa riferimento in primo luogo alle industrie dei beni di prima necessità, in particolare tessili. Nel cap. VI si è parlato di “manifactures royales” francesi (situate in grandi strutture simili a fabbriche dove maestri artigiani lavoravano sotto la supervisione di un sovrintendente o di un imprenditore). Analoghe protofabbriche furono organizzate da nobili proprietari terrieri (industria del carbone, ferriere, fabbriche di piombo, rame e vetro) ma, sebbene imponenti furono eclissate nel XVIII secolo dalla nascita di nuove forme di attività industriale.

Caratteristiche dell’industria moderna

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Una delle differenze più ovvie tra la società preindustriale e la moderna società industriale è il forte ridimensionamento in quest’ultima del ruolo relativo dell’agricoltura. Alla diminuzione della sua importanza corrisponde una crescita enorme della produttività dell’agricoltura moderna. Una differenza è l’elevata percentuale di forza lavoro impiegata nel settore terziario, o dei servizi in epoche recenti. Nel periodo della vera e propria industrializzazione la caratteristica saliente della trasformazione strutturale dell’economia fu l’ascesa del settore secondario (industria estrattive, manifatturiera e delle costruzioni) riscontrabile sia sulla base della forza lavoro impiegata che dei livelli di produzione. La Gran Bretagna è definita la “prima nazione industriale”. Il termine “rivoluzione industriale” è stato usato per indicare gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento: tale espressione è imprecisa, il suo uso distoglie l’attenzione dalle evoluzioni contemporanee ma differenti dei paesi dell’Europa continentale. La nostra attenzione è rivolta all’inizio del processo di industrializzazione nella Gran Bretagna del XVIII secolo. Nel corso di questa trasformazione emersero alcune caratteristiche che distinguono in modo netto l’industria moderna da quella “premoderna”. Esse sono:• l’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica;• l’introduzione di nuove fonti di energia inanimata (combustibili fossili);• impiego diffuso di materiali che normalmente non si trovano in natura.I miglioramenti più significativi dal punto di vista tecnologico furono quelli che videro l’utilizzazione di macchine e di energia meccanica. Ma gli sviluppi più importanti furono la sostituzione della legna e del carbone di legna col carbon fossile come combustibile e l’introduzione della macchina a vapore nell’industria mineraria, manifatturiera e dei trasporti.Rivoluzione industriale: un termine equivovoQuesto termine è stato usato per oltre un secolo per indicare quel periodo della storia britannica che vide l’introduzione delle macchine e del sistema di fabbrica nel processo di produzione. Le prime descrizioni del fenomeno misero in evidenza le “grandi invenzioni” e la natura drammatica dei mutamenti. Il cambiamento fu quasi violento, in pochi anni furono perfezionate le invenzioni di Watt, Arkwright e Boulton. Per la maggior parte della sua storia l’espressione “rivoluzione industriale” ha posseduto una connotazione negativa. Alcuni studiosi, consapevoli che nelle descrizioni tradizionali la rapidità dei mutamenti era stata esagerata, proposero un periodo più lungo per la rivoluzione, come ad esempio quello compreso tra il 1750 e il 1850. Ma la datazione tradizionale ricevette l’imprimatur di Thomas Ashton, il più famoso storico dell’economia britannica del XVIII secolo. Lo storico considerava i risultati di questo periodo un “traguardo” piuttosto che una catastrofe, e sottolineava il fatto che i cambiamenti di questo periodo non furono solo industriali, ma anche sociali e intellettuali.

Requisiti e fattori concomitanti dell’industrializzazioneGià nel Medioevo singoli individui avevano cominciato a considerare la possibilità pratica di imbrigliare le forze della natura. Le scoperte scientifiche realizzate in seguito da Copernico, Galileo e Newton rafforzarono queste idee. Alcuni studiosi

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considerarono l’applicazione della scienza all’industria il carattere distintivo dell’industria moderna. Per quanto affascinante, questa idea ha il suo punto debole nella fragilità del “corpus” della conoscenza scientifica. L’espressione metodo sperimentale può risultare troppo formale e specifica per definire tale processo, una più appropriata è per tentativi. Tuttavia una propensione a sperimentare e innovare si diffuse in tutti gli strati della società. L’Inghilterra fu una delle prime nazioni ad accrescere la propria produttività agricola, grazie alla sperimentazione per tentativi di nuove colture e nuove rotazioni. La più importante innovazione agricola fu lo sviluppo della cosiddetta agricoltura convertibile, che prevedeva l’alternanza di campi coltivati e pascoli temporanei in luogo di arativi e pascoli permanenti. Essa aveva il duplice vantaggio di ripristinare la fertilità del suolo con rotazioni più efficaci e di permettere l’allevamento di una quantità ingente di bestiame. Una condizione per il miglioramento delle rotazioni e l’allevamento selettivo fu la recinzione e il consolidamento dei campi. Il nuovo paesaggio agricolo consisteva in fattorie compatte, consolidate e recintate. La crescente produttività agricola inglese permetteva a quest’ultima di sostentare una popolazione sempre maggiore secondo standard nutritivi via via più elevati. Per circa un secolo essa produsse un surplus per l’esportazione, prima che il tasso di crescita demografica superasse quello di crescita della produttività. L’orientamento dell’agricoltura verso il mercato fu un aspetto di un processo generale di commercializzazione dell’intera nazione. Già nel XVI secolo Londra aveva cominciato a svolgere la funzione di “polo di crescita” dell’economia inglese. I suoi vantaggi erano sia geografici che politici. La commercializzazione interagì con la nascente organizzazione finanziaria della nazione. Le origini del sistema bancario britannico sono oscure, ma sappiamo che negli anni successivi alla Restaurazione del 1660 diversi grandi orefici londinesi cominciarono a svolgere le funzioni di banchieri. Rilasciavano ricevute di deposito che circolavano come banconote, e concedevano prestiti a imprenditori degni di credito. La fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694 costrinse i banchieri privati a rinunciare all’emissione di banconote, ma essi continuarono accettando ordini di pagamento e scontando cambiali. La Banca d’Inghilterra non istituì filiali, e le sue banconote non circolavano fuori Londra. Il valore delle monete d’oro era troppo elevato perché queste potessero essere utilizzate, mentre le monete d’argento o di rame erano insufficienti. Questa situazione di penuria di moneta spicciola incoraggiò l’iniziativa privata con l’istituzione di “banche di provincia”. L’euforia della gloriosa rivoluzione portò alla creazione di numerose società per azioni e culminò con il boom finanziario speculativo noto come “bolla del Mare del Sud”. L’episodio prese il nome dalla Compagnia del Mare del Sud, istituita per decreto nel 1711 con il monopolio ufficiale dei traffici con l’impero spagnolo. Ma la vera ragione della sua creazione era quella di raccogliere denaro per conto del Governo per finanziare la prosecuzione del conflitto. La bolla scoppiò nel 1720 quando il Parlamento approvò il Bubble Act. La legge proibiva la costituzione di società per azioni senza l’espressa autorizzazione del Parlamento. L’Inghilterra fece il suo ingresso nella “sua” rivoluzione industriale con uno sbarramento legale contro la forma azionaria dell’organizzazione capitalistica, condannando gran parte delle sue imprese alla proprietà individuale o alla condizione

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giuridica di società di persone. Il Bubble Act fu infine abrogato nel 1825. Un’altra importante conseguenza della Gloriosa Rivoluzione fu di porre la finanza pubblica del Regno sotto lo stretto controllo del Parlamento, il che ridusse il peso del debito pubblico e rese disponibili i capitali per l’investimento privato. Sebbene il sistema tributario fosse molto regressivo la Gran Bretagna dovette buona parte della sua precoce prosperità e la sua posizione di capofila nell’industria moderna alla sua natura insulare che non solo le assicurava una protezione contro gli sconvolgimenti, ma era anche un mezzo di trasporto a buon mercato. Canali e fiumi navigabili furono migliorati, le iniziative di canalizzazione furono organizzate sotto forma di società private a scopo di lucro (riscossione di pedaggi). Anche le strade, tradizionalmente curate dalle parrocchie, furono oggetto di miglioramenti da parte di società che curavano la loro manutenzione e anche in questo caso gli utenti erano tenuti a pagare un pedaggio.

Tecnologia industriale e innovazioneGli storici impressionati dalla natura rivoluzionaria del mutamento industriale sottolineano la rapida meccanizzazione e la crescita dell’industria cotoniera negli ultimi due decenni del XVIII secolo. Quasi un secolo prima altre due innovazioni ebbero un impatto fondamentale sull’industrializzazione: il procedimento di fusione del metallo ferroso con il carbon coke e l’invenzione della macchina a vapore atmosferica. Numerosi erano stati i tentativi di sostituire il carbon fossile al carbone di legna negli altiforni. Nel 1709 Darby riscaldò il carbone in un contenitore chiuso per eliminarne le impurità in forma di gas e dal processo ottenne come residuo il coke che poi utilizzò come combustibile nell’altoforno per produrre ghisa grezza. Nonostante la grande scoperta fatta da Darby, l’innovazione si diffuse solo lentamente. La continua ricerca per pressare il carbone di legna dopo il 1750, accompagnata da innovazioni come il procedimento di puddellaggio e laminazione di Cort, liberò definitivamente la produzione del ferro dalla dipendenza dal carbone di legna. I proprietari delle ferriere ottennero delle economie di scala concentrando tutte queste operazioni in un unico luogo. Sia la produzione di ferro che la percentuale di esso ottenuta con l’impiego di combustibile crebbero in maniera spettacolare. La Gran Bretagna divenne un grande esportatore di ferro e di prodotti ferrosi. Il vapore fu utilizzato per la prima volta nell’industria mineraria ed espandendosi la domanda di carbon fossile e metalli si intensificarono gli sforzi per estrarli da miniere sempre più profonde. Nel 1698 Savery ottenne il brevetto per una pompa a vapore che chiamò “l’amico del minatore”. L’apparecchio aveva diversi difetti (tendenza ad esplodere!) allora Newcomen, un mercante di ferramenta e calderaio, costruì la sua prime pompa a vapore atmosferica in una miniera di carbone. Il maggior difetto della sua macchina era il suo elevato consumo di combustibile in rapporto al lavoro prodotto. Negli anni sessanta Watt cominciò a fare esperimenti sull’apparecchio. Nel 1769 brevettò un condensatore separato, che eliminava la necessità di ricorrere al riscaldamento e raffreddamento alternato del cilindro (fulcro della macchina di Newwcomen). Molti problemi tecnici ritardarono la sua utilizzazione pratica. Nel frattempo Watt formò una società con Boulton e

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insieme a questo fabbricante di articoli di ferramenta costruì macchine impiegate per pompare via l’acqua dalle miniere. Watt realizzò moli altri miglioramenti, quali un regolatore della velocità del motore e uno strumento che trasformava il movimento alternativo del pistone in moto rotatorio. Quest’ultimo offrì alla macchina a vapore una serie di nuove possibilità applicative, come la macinatura del grano e la filatura del cotone.La manifattura dei tessuti di cotone era per la Gran Bretagna un’industria nuova e quindi non era molto soggetta ad una legislazione repressiva. Nell’arco di pochi anni furono inventati diversi apparecchi per la filatura meccanica. Il primo di essi fu la “jenny” o giannetta (ruota per filare con una batteria di fusi) di James Hargreaves. Poi fu la volta del filatoio idraulico che condusse direttamente al sistema di fabbrica sul modello dell’industria della seta. Poi vi fu la “mula” di Samuel Crompton che favorì la costruzione di enormi fabbriche in città dove il carbon fossile era a buon mercato. Tutte queste innovazioni necessitavano di una forza lavoro composta da bambini e donne (poco costosi e più arrendevoli). Le innovazioni tecniche furono accompagnate da un rapido incremento della domanda di cotone. Poiché la Gran Bretagna non aveva cotone proprio, lo importava dall’India, dal Levante, dalle Isole caraibiche britanniche e dagli Stati americani del Sud. Grazie a tutte queste innovazioni nel campo della filatura e della tessitura vi fu una grossa caduta dei costi di produzione, un aumento della produzione e delle esportazioni. Le innovazioni concernenti l’industria cotoniera, quella siderurgica e l’introduzione della forza a vapore costituiscono il nocciolo della cosiddetta rivoluzione industriale britannica. Non furono però solo queste le industrie trasformate. Adam Smith scriveva nella Ricchezza delle nazioni dei grandi aumenti di produttività realizzati in una fabbrica di spilli semplicemente attraverso la specializzazione e la divisione del lavoro. La fabbrica degli spilli di Smith può essere considerata un simbolo delle molte industrie impegnate nella produzione di beni di consumo (esempio: industria delle stoviglie). Un significativo processo di espansione ebbe luogo anche nell’industria chimica. Alcuni miglioramenti furono una conseguenza dei progressi della chimica (Lavoisier): furono studiati l’acido solforico, gli alcali (in particolare la soda caustica e la potassa). Nel 1791 Leblanc scoprì un processo di produzione degli alcali che faceva uso di cloruro di sodio, il sale comune. Questa soda artificiale aveva molti impieghi. L’industria del carbone rimase per lo più un’industria ad alta intensità di lavoro. Alle miniere del carbone va la responsabilità delle prime ferrovie. La locomotiva a vapore fu il prodotto di un processo evolutivo che ebbe diversi stadi preparatori. La sua principale antenata fu la macchina a vapore. A Richard Trevithick va il merito della costruzione della prima locomotiva perfezionata infine da Stephenson.

Varianti regionaliE’ importante prendere atto delle varianti regionali della industrializzazione inglese, nonché dell’andamento eterogeneo che il cambiamento economico assunse nelle varie componenti del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. All’interno dell’Inghilterra il Lanchashire divenne sinonimo di cotone, la Cornovaglia rimase la fonte primaria dello stagno e del rame, il Sud rimase agricolo. Il Galles era una sorta

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di parente povero in quanto per questa regione la fama e la fortuna passava attraverso l’Inghilterra e la Scozia. La Scozia, a differenza del Galles, conservò la sua indipendenza dall’Inghilterra fino all’unione volontaria dei parlamentari nel 1707. A metà del XVIII secolo la Scozia era un paese povero e arretrato, ma ebbe un passaggio all’industria anche più veloce di quello dell’Inghilterra. L’ingresso della Scozia nell’Impero britannico le diede accesso non solo ai mercati inglesi, ma anche a quelli delle colonie inglesi nel Nord America e altrove, il che senza dubbio contribuì all’accelerazione del ritmo della vita economica. L’Irlanda, in contrasto purtroppo con la Scozia, non riusciva quasi ad industrializzarsi. Gli Inglesi trattavano l’Irlanda come una provincia conquistata. Quando la carestia di patate la colpì, a metà degli anni quaranta, la morte per fame e l’emigrazione privarono l’Irlanda in meno di un decennio di un quarto della sua popolazione.

Aspetti sociali della prima industrializzazioneLa Gran Bretagna fu una delle componenti della terza logistica europea. Che la crescita demografica non fosse esclusivamente legata al processo d’industrializzazione è documentato dal fatto che si trattò di un fenomeno generale europeo. D’altra parte sarebbe scorretto affermare che non ci fu alcuna relazione. L’industrializzazione fu quanto meno un elemento propizio alla crescita continua della popolazione. Non è possibile offrire una spiegazione adeguata dei meccanismi della crescita che si verificò nel XVIII secolo. E’ possibile che la crescita del tasso di natalità sia dipesa da un decremento del tasso di mortalità dovuto a diversi fattori, quali i progressi dell’agricoltura, che portarono ad una maggiore abbondanza nonché ad una maggiore varietà di cibi, migliorando l’alimentazione. Inoltre l’accresciuta produzione di carbon fossile significò abitazioni meglio riscaldate. La popolazione totale risentì anche degli effetti dell’immigrazione e dell’emigrazione. Per tutto il XVIII secolo le migliori opportunità economiche offerte dall’Inghilterra e dalla Scozia vi attirarono irlandesi di ambo i sessi. L’emigrazione interna alterò la distribuzione geografica della popolazione. Questo fenomeno produsse due mutamenti: aumento della densità nel nord-ovest a scapito del sud-est e crescita dell’urbanizzazione. Nel 1800 Londra era la maggiore città della Gran Bretagna e probabilmente la più grande d’Europa. La crescita delle città non ebbe solo aspetti positivi. Non mancavano le abitazioni cadenti, le infrastrutture sanitarie erano inesistenti (causa, questa, di colera e malattie epidemiche) e ci si liberava dei rifiuti gettandoli nelle strade. Tali condizioni erano frutto in parte della crescita estremamente rapida, dell’inadeguatezza dell’apparato amministrativo, della mancanza di esperienza delle autorità locali e della assenza di pianificazione. La rapida espansione delle città è ancora più sorprendente se si tiene conto del fatto che essa dipese interamente dall’immigrazione dalle campagne. A causa delle spaventose condizioni sanitarie la mortalità superava la natalità (mortalità infantile) e il tasso di incremento naturale era in realtà negativo. Un vecchio libro di testo affermava che i lavoratori “erano spinti verso le fabbriche dalla lusinga di salari elevati”. Niente potrebbe essere più falso: la presenza femminile e infantile sia nell’agricoltura che nell’industria domestica era un fenomeno di lunga tradizione, che il sistema fabbrica

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non fece che adottare. L’ultimo mezzo secolo ha assistito ad un dibattito erudito sulla questione di come mutò il livello di vita delle classi lavoratrici britanniche tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XIX secolo. Nessun accordo è stato mai raggiunto. Nel complesso sembra probabile che si sia verificato un graduale miglioramento del livello di vita delle classi lavoratrici. La maggior parte dei lavoratori, inclusi quelli peggio pagati, videro migliorare in qualche modo la propria situazione, ma la disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza, già grande nell’economia preindustriale, divenne ancora più accentuata nelle prime fasi della industrializzazione.

CAPITOLO VIIILO SVILUPPO ECONOMICO NELL’OTTOCENTO: FATTORI DETERMINANTI

Il XIX secolo vide il trionfo definitivo dell’industrialismo come sistema di vita in Europa, in particolare nell’Europa occidentale.

PopolazioneNel XIX secolo la crescita demografica europea accelerò, l’Europa aveva raggiunto un totale di 400 milioni di abitanti. La popolazione continuò ad aumentare nel XX secolo, ma il tasso di crescita europeo conobbe una leggera diminuzione, mentre quello del resto del mondo aumentò. E’ pertanto evidente che non esiste una chiara correlazione tra industrializzazione e crescita demografica, e che non bisogna andare alla ricerca d’altri fattori causali. Prima dei miglioramenti dei trasporti, uno dei maggiori limiti alla crescita demografica era quello posto dalle risorse agricole del

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continente. La produzione agricola crebbe enormemente. Questo fenomeno fu particolarmente importante nel caso della Russia. La produttività agricola aumentò per effetto dell’introduzione di nuove tecniche più scientifiche. Una migliore conoscenza della chimica del suolo ed un uso più intenso dei fertilizzanti, fece salire la resa dei terreni comuni e rese possibile la coltivazione di quelli poco fertili. La diminuzione del prezzo del ferro favorì l’uso di attrezzi e strumenti migliori e più efficienti. Il basso prezzo dei trasporti facilitò i movimenti migratori della popolazione. Cospicua fu anche l’emigrazione interna europea. La Francia attirò gli Italiani, gli Spagnoli, gli Svizzeri e i Belgi, mentre l’Inghilterra ricevette immigrati da tutta Europa. Talvolta gli emigranti cercavano di sfuggire alle persecuzioni o all’oppressione politica, ma nella maggior parte dei casi la loro decisione era frutto delle pressioni economiche interne al loro paese e delle speranze di una vita migliore all’estero. Un numero relativamente elevato d’Italiani e Tedeschi emigrò in quelli che divennero i paesi economicamente più progrediti del Sud America. Il mutamento più fondamentale fu la crescita della popolazione urbana. L’Italia aveva assistito allo spopolamento delle maggiori città all’inizio dell’era moderna. L’urbanizzazione, come l’industrializzazione, procedette ad un ritmo spedito nel corso del XIX secolo. Anche in questo la nazione guida fu la Gran Bretagna. La popolazione dei paesi industriali non solo viveva nelle città, ma preferiva quelle più grandi. Molte sono le ragioni sociali e culturali che fanno sì che gli individui aspirino a vivere in città. La principale limitazione alla crescita delle città è stata di natura economica: l’impossibilità di fornire grandi masse urbane di quanto è indispensabile per vivere. Con i miglioramenti tecnologici dell’industria non solo queste limitazioni erano state allentate, ma in alcuni casi considerazioni di carattere economico richiedevano la crescita delle città. L’introduzione del vapore, la transizione dal carbone di legna al coke cambiarono la situazione.

RisorseL’Europa industriale non beneficiò di un magico aumento della quantità o qualità delle risorse naturali. Accadde piuttosto che risorse precedentemente sconosciute o di scarso valore acquisirono un’importanza enorme. Questo fu in particolare il caso del carbon fossile, e le regioni europee provviste di ricchi giacimenti di carbone divennero nel XIX secolo i siti primari dell’industria pesante. Le regioni prive di riserve indigene di carbone dovettero importarlo. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione dell’energia idroelettrica, le regioni abbondantemente provviste d’acqua, ottennero da questa fonte un nuovo vantaggio relativo. L’Europa era nel complesso relativamente ben provvista di risorse minerarie convenzionali, quali il ferro, altri metalli, sale e zolfo. Il risultato fu una caccia sistematica a fonti d’energia ancora sconosciute, una ricerca scientifica e tecnologica dei migliori metodi di sfruttamento. In alcuni casi, con l’esaurirsi delle risorse domestiche, la ricerca di nuove fonti d’approvvigionamento si estese oltreoceano. Nel corso del XIX secolo la ricerca di materie prime, spinse sempre più le nazioni europee ad estendere il controllo politico sulle regioni africane e asiatiche scarsamente organizzate o prive di

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un governo forte.

Sviluppo e diffusione della tecnologiaSimon Kuznets definì il periodo in cui viviamo come “l’epoca economica moderna”. A suo parere, un’epoca economica è determinata dalle applicazioni e ramificazioni di “un’innovazione epocale”. Egli vedeva, l’innovazione epocale della prima età moderna europea nello sviluppo delle tecniche di navigazione e di altre a queste correlate, che resero possibile la scoperta dell’America. L’epoca economica attuale ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo. Il periodo della storia della tecnologia che va dall’inizio del Settecento a circa il 1860 o 1870 è piuttosto l’era dell’artigiano-inventore. Dopo di allora, però, le teorie scientifiche divennero sempre più fondamentali per i processi produttivi. La superiorità industriale conquistata dalla Gran Bretagna nel primo quarto del XIX secolo dipese dai progressi tecnologici verificatesi in due industrie fondamentali, l’industria cotoniera e quella del ferro. In alcuni casi, le scoperte scientifiche portarono alla creazione ex novo d’industrie precedentemente inesistenti. Molte innovazioni furono opera d’industriali continentali e americani, desiderosi di eguagliare o superare l’efficienza tecnica dei concorrenti britannici.

Motori primi e produzione di energiaNonostante i fondamentali contributi resi da Watt all’evoluzione della tecnologia del vapore, le sue macchine avevano parecchie limitazioni come motori primi dell’industria. Erano pesanti, ingombranti e soggetti a frequenti rotture. Lavoravano a pressioni relativamente basse e ciò limitava la loro efficacia. I successivi cinquant’anni videro molti importanti sviluppi nella tecnologia della macchina a vapore. Il progresso tecnologico toccò anche il maggior rivale della macchina a vapore, la ruota idraulica. Mentre Watt stava sperimentando e mettendo a punto la macchina a vapore, altri ingegneri e inventori rivolsero la loro attenzione al perfezionamento della ruota idraulica. Furono introdotte forme nuove e più efficienti e, in conseguenza della discesa del prezzo del ferro, divennero comuni le grandi ruote realizzate completamente in metallo. Verso la fine del secolo, grazie alle ricerche di Benjamin Franklin in America e degli italiani Luigi Galvani e Alessandro Volta, furono sviluppate numerosissime applicazioni pratiche dell’elettricità. Il perfezionamento della lampadina elettrica rese obsoleta l’illuminazione con lampade ad arco e diede inizio al boom dell’industria elettrica. Per diversi decenni l’elettricità ed altri due materiali d’illuminazione da poco perfezionati, il gas di carbone e il cherosene, si contesero aspramente il campo. Lo stesso anno in cui Edison brevettava la sua lampadina elettrica, il tedesco von Siemens inventò il tram elettrico. L’elettricità può inoltre essere usata per produrre calore, e per questo cominciò ad essere impiegata nella fusione dei metalli, in particolare l’alluminio, scoperto poco tempo prima. Il petrolio è un’altra delle grandi fonti d’energia che si affermò nella seconda metà del XIX secolo. Il petrolio liquido e il suo sottoprodotto, il gas naturale, furono usati soprattutto per l’illuminazione. Il petrolio greggio consiste di diversi elementi o “frazioni”, tra queste il cherosene. Le frazioni più leggere e volatili,

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nafta e benzina, furono considerate a lungo sostanze pericolose.

Acciaio a buon mercatoL’unica grande innovazione tecnica nel settore siderurgico nella prima metà del XIX secolo fu l’altoforno ad aria calda: questo otteneva una combustione più completa, diminuiva il consumo di combustibile ed accelerava il processo di fusione. Le innovazioni più spettacolari nell’industria siderurgica riguardarono la fabbricazione dell’acciaio. L’espansione dell’industria dell’acciaio ebbe un profondo impatto sulle altre industrie, sia quelle fornitrici di materie prime, sia quelle che facevano uso dell’acciaio. Le rotaie d’acciaio duravano più a lungo ed erano più sicure di quelle di ferro. Le lastre d’acciaio per le costruzioni navali consentivano di ottenere navi più grandi, leggere e veloci e potevano essere usate anche per corazzare le navi da guerra. L’acciaio rimpiazzò ben presto il ferro e il legno negli utensili, nei giocattoli ed in centinaia d’altri prodotti, dalle macchine a vapore alle forcine.

Trasporti e comunicazioniPrima delle ferrovie, le inadeguate infrastrutture di trasporto avevano costituito uno dei maggiori ostacoli dell’industrializzazione sia dell’Europa continentale che degli Stati Uniti. La Gran Bretagna possedeva sia le conoscenze tecniche che i capitali necessari per la loro costruzione. Molte delle linee ferroviarie furono costruite con materiali di poco prezzo, e secondo criteri molto variegati. Il Belgio fu all’avanguardia tra le nazioni europee che per prime si dedicarono alla progettazione e alla costruzione di ferrovie. Il Governo belga decise di costruire una rete ferroviaria completa a spese dello stato per facilitare l’esportazione delle manifatture belghe. La Francia e la Germania furono i soli altri paesi del continente a realizzare dei progressi significativi nelle costruzioni ferroviarie prima della metà del secolo. La Francia aveva predisposto un piano ferroviario globale incentrato su Parigi. Negli altri paesi i progressi furono minimi. La prima ferrovia dell’Impero asburgico, dove però la forza motrice era fornita dai cavalli, fu costruita negli anni venti. I Paesi Bassi videro un turbine d’iniziative a cavallo tra gli anni trenta e quaranta, per effetto delle quali le maggiori città furono tutte collegate tra loro; i risultati finanziari furono però scarsi, e le ferrovie caddero in disgrazia. Nella penisola italiana alcune brevi ferrovie erano state costruite nel corso negli anni trenta e quaranta, tuttavia, esse registrarono scarsi progressi fino all’avvento negli anni cinquanta dello statista Camillo Benso di Cavour nel regno di Sardegna. Svizzera e Spagna avevano inaugurato brevi linee ferroviarie negli anni quaranta. La seconda metà del XIX secolo fu sia in Europa che altrove l’età dell’oro delle costruzioni ferroviarie. Gli ingegneri britannici, forti del loro vantaggio d’esperienza e del numero delle loro fonderie e officine meccaniche, costruirono alcune delle prime ferrovie del continente; in seguito furono responsabili della maggior parte delle costruzioni realizzate in India, America Latina e Africa meridionale. I continui miglioramenti nella progettazione di locomotive portarono alle enormi macchine del tardo Ottocento e primo Novecento, epoca in cui la trazione elettrica e i motori diesel avevano cominciato ad insidiare il primato delle locomotive a vapore. Il battello a vapore, sebbene fosse stato inventato prima della

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locomotiva, svolse un ruolo meno vitale di quest’ultima nell’espansione del commercio e dell’industria. Nella prima metà del secolo i piroscafi contribuirono in particolar modo allo sviluppo del commercio interno. Fino alla guerra civile americana le navi a vapore oceaniche trasportarono principalmente posta, passeggeri e carichi costosi e leggeri. Forse però nessuna singola invenzione del XIX secolo può essere paragonata a quella quattrocentesca della stampa per i suoi effetti sul mondo delle comunicazioni. La macchina per la fabbricazione della carta e la macchina da stampa cilindrica, usata per la prima volta dal “Times” di Londra ridussero notevolmente il costo di libri e giornali. Queste innovazioni misero la carta stampata alla portata delle masse e contribuirono alla loro progressiva alfabetizzazione. L’invenzione della litografia e gli sviluppi della fotografia resero possibile la riproduzione economica e l’ampia diffusione delle immagini visive. La Gran Bretagna introdusse il servizio postale. Ancora più significativa fu l’invenzione del telegrafo elettrico da parte dell’americano Samuel Morse. Il telefono, brevettato da Graham Bell rese ancora più personale la comunicazione su lunghe distanze. L’inventore e imprenditore italiano Guglielmo Marconi, inventò il telegrafo senza fili. Nel campo delle comunicazioni d’affari l’invenzione della macchina per scrivere e d’altre macchine rudimentali aiutò l’impiegato indaffarato a tenere il ritmo e contribuire al flusso crescente d’informazioni che le operazioni su scala mondiale rendevano necessarie. La macchina per scrivere contribuì inoltre all’ingresso della donna nella forza lavoro impiegatizia.

L’applicazione della scienzaIl progresso scientifico divenne sempre più essenziale per il progresso tecnologico, si ebbe una crescente interazione tra scienziati, ingegneri e imprenditori. Lo sviluppo tecnologico richiedeva sempre più la cooperazione di numerosi specialisti delle scienze e della meccanica. La scienza chimica si rivelò particolarmente prolifica nel far nascere nuovi prodotti e procedimenti. La chimica svolse un ruolo vitale anche nella metallurgia, molti nuovi metalli furono scoperti, tra cui zinco, allumino, nichel, magnesio e cromo. Oltre a scoprire nuovi metalli, scienziati e industriali trovarono il modo di impiegarli ed escogitarono metodi di produzione economici. Uno degli usi più frequenti era la preparazione delle leghe, miscele di due o più metalli; esempi di leghe naturali sono l’ottone e il bronzo. L’acciaio è in realtà una lega di ferro e piccole quantità di carbonio e talvolta altri metalli. La chimica venne inoltre in soccorso di vecchie e affermate industrie quali quelle della produzione, lavorazione e conservazione degli alimenti. L’agricoltura scientifica si sviluppò perciò in parallelo con l’industria scientifica.

Il contesto istituzionaleLo scenario istituzionale in cui si svolse l’attività economica nell’Europa del XIX secolo, assicurava ampie opportunità all’iniziativa individuale, lasciava libertà di scelta in campo occupazionale si fondava sulla proprietà privata; tuttavia la loro combinazione e l’esplicito riconoscimento loro accordato fecero sì che essi contribuissero in modo notevolissimo al processo di sviluppo economico.

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Fondamenti giuridiciUna delle istituzioni cardine della Gran Bretagna era il sistema giuridico noto come diritto comune. Le caratteristiche distintive del diritto comune erano la sua natura evolutiva, il suo affidarsi alle consuetudini; il diritto comune divenne il fondamento del sistema giuridico statunitense e dei paesi dell’Impero britannico. La rivoluzione francese istituì un sistema giuridico più razionale che fu alla fine incorporato nei Codici napoleonici. Il manifesto del nuovo ordine può essere considerato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il primo articolo proclamava che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti”, diritti che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza. La Dichiarazione elencava anche le garanzie necessarie per tutelare questi diritti: uniformità delle leggi, libertà di parola e di stampa. Le assemblee rivoluzionarie oltre ad abolire il regime feudale e ad instaurare la proprietà privata della terra, si sbarazzarono dei dazi doganali e delle tariffe interne, abolirono le corporazioni di mestiere e l’intero apparato statale di controllo dell’industria, proibirono i monopoli.I Francesi naturalmente esportarono le loro riforme rivoluzionarie nei paesi conquistati nel corso delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche. Il Belgio, gran parte dell’Italia, e per breve tempo l’Olanda furono tutti incorporati nell’Impero francese. Il regno di Napoli e l’intera Spagna, tutti posti sotto la “protezione” francese, accettarono la maggior parte della legislazione rivoluzionaria. Le moderne istituzioni francesi ricevettero la loro impronta definitiva da Napoleone. La sintesi napoleonica raggiunse forse il suo culmine nella grand’opera di codificazione del diritto intrapresa durante la rivoluzione ma completata sotto l’Impero. Il fondamentale Code civil, promulgato nel 1804, era scritto da giuristi e avvocati della classe media, esso rifletteva evidentemente le preoccupazioni e gli interessi delle classi proprietarie. Il Code civil fu adottato per intero o posto a fondamento dei codici nazionali in tutta l’Europa e anche oltre. Un altro dei codici napoleonici di particolare importanza per lo sviluppo economico fu il Code de commerce, promulgato nel 1807, esso fu la prima normativa di carattere generale che avesse mai regolato le forme d’impresa. L’accresciuta dimensione dell’impresa determinata dalle nuove tecnologie richiedeva nuove forme legali che facilitassero l’accumulazione di capitale e la ripartizione dei rischi d’investimento. Il Code de commerce distingueva tre tipi principali d’organizzazione commerciale:• la società semplice, i cui soci sono individualmente e solidalmente responsabili dei

debiti della ditta;• le società di persone, in cui il socio o i soci accomandatari assumono una

responsabilità illimitata per gli affari della società, mentre il socio o i soci accomandanti rischiano esclusivamente il capitale sottoscritto;

• le società a responsabilità limitata nel senso americano, nella quale tutti i soci sono responsabili nei limiti delle quote conferite.

Pensiero economico e politica economicaL’epoca delle guerre napoleoniche assistette a quello che sotto vari aspetti fu l’apogeo

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del nazionalismo e dell’imperialismo economico. Nel 1776 Adam Smith pubblicò la “ricchezza delle nazioni” quella che doveva diventare una dichiarazione d’indipendenza economica dell’individuo. La maggiore preoccupazione di Smith nel suo libro è però quella di dimostrare che l’abolizione di restrizioni vessatorie e “irragionevoli” all’impresa privata favorirebbe la concorrenza economica e ciò, a sua volta, porterebbe al massimo grado la “ricchezza delle nazioni”. Il libro di Smith godette di una popolarità insolita. Molto dopo la sua morte, e dopo che vari altri scrittori come Malthus e Ricardo, le idee di Smith cominciarono ad essere messe in pratica nella legislazione. Ciò si verificò in primo luogo nel Regno Unito, il maggior risultato conseguito fu l’abrogazione delle leggi sul grano, che inaugurò in Gran Bretagna un lungo periodo di libero scambio. Oltre al libero scambio, i principi del liberalismo economico sollecitavano una limitazione del ruolo del governo nell’economia. Secondo Smith e il suo “sistema di libertà naturale”, il governo aveva solo tre funzioni da svolgere:• proteggere la società dalla violenza;• proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia od

oppressione;• creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche.Nello stesso periodo in cui si smantellava il vecchio sistema di regolamenti e di privilegi speciali, il Parlamento emanava una serie di nuovi provvedimenti legislativi riguardanti il benessere pubblico, e in particolare dei soggetti meno in grado di difendersi. Il sistema americano vedeva nel Governo un’agenzia col compito di assistere gli individui e le imprese private nell’accelerare lo sviluppo delle risorse materiali della nazione.

Struttura e conflitti di classeDal punto di vista sociale, l’Europa dell’ancien régime era organizzata in tre ordini: la nobiltà, il clero e tutti gli altri. In cima alla piramide sociale si trovava la classe dominante dei proprietari terrieri, che comprendeva anche non nobili oltre agli strati più alti del clero. Il fondamento economico del loro potere politico e della loro condizione sociale era la proprietà della terra, che permetteva loro di vivere “nobilmente” senza lavorare. Sul gradino successivo della scala sociale si trovava lo strato superiore della classe media, o alta borghesia, composto da grandi mercanti, alti funzionari statali e professionisti come avvocati e notai, il principale fondamento della loro posizione erano le loro particolari conoscenze e abilità. Ad un livello ancora più basso della scala sociale era situata una classe media di rango inferiore, o piccola borghesia, comprendente artigiani, commercianti al dettaglio ed altri dediti ad attività di prestazioni di servizi. Sul fondo erano i contadini, i lavoratori delle industrie domestiche e i braccianti, tra le cui file erano molto numerosi i poveri e gli indigenti. All’inizio del secolo il gruppo di gran lungo più numeroso era quello dei contadini. La loro partecipazione ai movimenti sociali d’ampia portata fu generalmente sporadica. Negli anni immediatamente successivi a Waterloo, l’aristocrazia terriera continuò a godere di prestigio sociale e potere politico, nonostante gli effetti della rivoluzione francese. All’inizio dell’Ottocento i lavoratori

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urbani costituivano ancora una sparuta minoranza della popolazione, ma con il diffondersi del sistema industriale cominciarono a conquistare la superiorità numerica. Karl Marx profetizzò, a metà del XIX secolo, che la polarizzazione da lui osservata e le società industriali avanzate nell’epoca sarebbe continuata fino a che solo due classi sarebbero rimaste, la classe dominante dei capitalisti e il proletariato industriale. Anziché produrre due classi reciprocamente antagoniste, la diffusione dell’industrializzazione ha visto l’enorme sviluppo di una classe media impiegatizia, artigianale e d’imprenditori indipendenti. Le rivoluzioni vittoriose, furono opera di piccoli nuclei di rivoluzionari militanti di professione che approfittarono della debolezza di società debilitate da eventi bellici. Le forme più usuali di solidarietà e autodifesa operaia furono i sindacati di mestiere e successivamente i partiti politici delle classi lavoratrici. L’atteggiamento della maggior parte dei paesi occidentali nei confronti dei sindacati ha attraversato almeno tre fasi. La prima fase, quella della pura e semplice proibizione o repressione. Nella seconda fase, contrassegnata dalla Gran Bretagna dall’abrogazione delle leggi sull’associazione, i Governi concessero ai sindacati una tolleranza limitata, autorizzandone la costituzione ma perseguendoli solitamente in caso di azioni aperte con scioperi. Una terza fase vide il riconoscimento ad operai e operaie del pieno diritto di organizzarsi e dedicarsi ad attività collettive. In Gran Bretagna, nel corso degli anni trenta il movimento sindacale fu coinvolto in un più ampio movimento politico detto cartismo il cui scopo era di ottenere il diritto di voto ed altri diritti politici per coloro che ne erano privi. Sconfitto sul piano politico il movimento sindacale vide la costituzione dell’associazione unitaria dei lavoratori meccanici, prototipo di un cosiddetto “nuovo modello” di sindacato. L’aspetto distintivo di questo nuovo tipo di sindacato era che raccoglieva esclusivamente gli operai specializzati sulla base del mestiere da loro svolto; esso rappresentava “l’aristocrazia” del mondo del lavoro. Questi nuovi sindacati si ponevano l’obiettivo limitato di migliorare i salari e le condizioni lavorative. Rifuggivano dalle attività politiche raramente ricorrevano allo sciopero, se non in casi disperati. Sul continente i sindacati fecero registrare dei progressi più lenti. Fin dall’inizio i sindacati francesi furono strettamente collegati al socialismo ed altre simili ideologie politiche. Questi riuscirono a creare una Confederazione generale del lavoro, nazionale e apolitica, anch’essa però non comprendente tutti i sindacati attivi e frequentemente esposta a grosse difficoltà. Il movimento sindacale tedesco nacque negli anni sessanta e come quello francese, fin dall’inizio fu associato a partiti politici e campagne politiche; fu più centralizzato e coevo. Si divideva in tre tronconi principali: i liberali, che attiravano soprattutto gli operai specializzati, i sindacati socialisti o “liberi” con un numero d’iscritti molto maggiore; i sindacati cattolici o cristiani, nati con la benedizione del Papa in contrapposizione ai sindacati socialisti-atei. Nei paesi economicamente arretrati dell’Europa meridionale, nell’organizzazione delle classi lavoratrici prevalse il modello francese. Ferocemente repressi dai datori di lavoro e dallo Stato, i loro risultati furono per lo più scarsi. I sindacati dei Paesi Bassi, della Svizzera seguirono il modello tedesco. In Russia e negli altri paesi dell’Europa orientale i sindacati rimasero illegali fino a dopo la prima guerra mondiale. I primi tentativi di costituire organizzazioni sindacali di massa negli

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USA ebbero scarsi risultati per l’opposizione del Governo e dei datori di lavoro e per la difficoltà di ottenere la cooperazione tra lavoratori di capacità, d’occupazioni, religioni e origini etniche differenti.

Istruzione e alfabetizzazioneUn altro aspetto dello sviluppo economico ed ottocentesco meno considerato ma non meno importante della crescita delle città, fu il progresso dell’istruzione e la diminuzione dell’analfabetismo. Se a metà del XIX secolo la Svezia era un paese povero, nella seconda metà del secolo essa ebbe uno dei più elevati ritmi di crescita di tutta l’Europa. Il basso livello iniziale d’analfabetismo è attribuibile a fattori religiosi, culturali e politici precedenti l’avvento dell’industrializzazione. Prima del XIX secolo le istituzioni educative pubbliche erano praticamente inesistenti. Coloro che se lo potevano permettere ingaggiavano tutori privati per i propri figli. Istituzioni religiose e di carità, e talvolta scuole private a pagamento, provvedevano all’istruzione elementare di una fetta della popolazione, soprattutto nelle città. Nessuno parlava d’alfabetizzazione universale; molte personalità autorevoli anzi si opponevano a che si insegnasse alle “masse lavoratrici” a leggere e a scrivere perché ciò era incompatibile con la loro “posizione” sociale. L’istruzione tecnica era fornita quasi esclusivamente attraverso il sistema dell’apprendistato. La rivoluzione francese aveva introdotto il principio dell’istruzione pubblica gratuita, che però nella Francia stessa era rimasto inapplicato. In diversi stati tedeschi, furono istituiti dei sistemi educativi pubblici, che però non divennero obbligatori o universali prima della seconda metà del secolo. La Gran Bretagna fece progressi molto lenti nel campo dell’istruzione pubblica. L’Europa meridionale e quella orientale erano in condizioni anche peggiori. La rivoluzione francese fu all’origine d’altre innovazioni educative di particolare importanza per l’epoca industriale. Fu questo il caso delle scuole specializzate nelle materie scientifiche e nell’ingegneria. Di livello universitario, ma situate al di fuori del sistema, queste istituzioni non solo fornivano un’istruzione avanzata ma erano impegnate anche nella ricerca. Furono largamente imitate in tutta Europa, ad eccezione che in Gran Bretagna.

Relazioni internazionaliAl congresso di Vienna del 1814-15 gli uomini che avevano sconfitto Napoleone tentarono di riportare in vita l’ancien regime sia sul piano politico che sociale ed economico ma i loro sforzi, si rivelarono vani. Con le rivoluzioni del 1830 e del 1848 in Europa continentale il crollo definitivo dell’ancien regime divenne evidente dappertutto tranne che in Russia e nell’Impero ottomano. Il XIX secolo non assistette a conflitti generali e devastanti paragonabili alle guerre napoleoniche. Le guerre relativamente brevi e limitate che pure si verificarono ebbero talvolta importanti conseguenze politiche, con implicazioni per la politica economica, ma non rappresentarono un serio ostacolo all’accumulazione di capitale o al processo di cambiamento tecnologico. Verso la fine del secolo, le tensioni politiche si fecero più acute e tracimarono nella rinascita dell’imperialismo europeo. Questa ripresa dell’imperialismo provocò un grande allargamento del sistema di mercato mondiale,

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con l’Europa al suo centro.

CAPITOLO NONO MODELLI DI CRESCITA: I PRIMI PAESI INDUSTRIALI

La Gran BretagnaLa Gran Bretagna fu la prima nazione industriale e alla fine delle guerre napoleoniche

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era di gran lunga il maggiore paese industriale del mondo, si affermava anche come principale potenza commerciale mondiale. La Gran Bretagna conservò il predominio nell’industria e nel commercio per quasi tutto il XIX secolo. Dopo il 1870, nonostante continuassero ad aumentare sia il prodotto nazionale sia gli scambi commerciali, essa perse gradualmente la posizione di guida a vantaggio d’altre nazioni che si stavano velocemente industrializzando. Alla vigilia della prima guerra mondiale la Gran Bretagna era ancora il paese più forte dal punto di vista commerciale ma controllava solo circa un sesto del commercio complessivo, ed era tallonata dalla Germania e dagli Stati Uniti. Tessili, carbone, ferro e costruzioni meccaniche, le basi dell’iniziale prosperità britannica, conservarono la loro importanza. Nell’industria siderurgica la Gran Bretagna produceva oltre metà della ghisa grezza mondiale. Nel 1890 però gli Stati Uniti avevano conquistato la prima posizione, e nei primi anni del Novecento la Gran Bretagna fu superata anche dalla Germania. Nell’industria del carbone, invece, la Gran Bretagna mantenne la sua posizione di capofila in Europa, e produceva un surplus destinato all’esportazione. L’industria tessile aveva bisogno di costruttori e riparatori di macchine, quella siderurgica ne aveva di propri. Un altro potente stimolo fu rappresentato dall’evoluzione dell’industria delle costruzioni navali, dalla navigazione a vela alla propulsione a vapore e dal legno al ferro. Il ferro cominciò a sostituire su larga scala il legno nella costruzione sia delle navi a vapore sia di quelle a vela. Nonostante questi risultati impressionanti, non devono essere sopravvalutati il ritmo e la misura dell’industrializzazione britannica. L’agricoltura, ad esempio, era ancora il settore che impiegava il maggior numero d’unità lavorative, seguita al secondo posto dai servizi domestici. I fabbri erano più numerosi degli operai dell’industria siderurgica primaria. La Gran Bretagna raggiunse l’apice della supremazia industriale tra il 1850 e il 1870, quest’ultima non poteva conservare indefinitamente la propria posizione di predominio, man mano che altre nazioni meno sviluppate ma ricche di risorse cominciavano ad industrializzarsi. In questo senso, il declino relativo della Gran Bretagna era inevitabile. Inoltre, considerate le immense risorse e la rapida crescita demografica degli Stati Uniti e della Russia, non può sorprendere che questi due paesi finissero per superare la piccola nazione insulare in termini di prodotto complessivo. L’industria cotoniera, ad esempio, era stata dipendente dalle importazioni di cotone grezzo, ma ciò non aveva certo impedito alla Gran Bretagna di divenire il principale produttore mondiale di tessuti di cotone. I giacimenti nazionali di metalli non ferrosi (rame, piombo e stagno) si esaurirono gradualmente o non furono più in grado di competere con i prezzi più bassi degli stessi materiali importati dall’estero. Un’altra possibile causa del declino relativo della Gran Bretagna fu il fallimento della strategia imprenditoriale. Gli imprenditori del tardo periodo vittoriano non esibirono lo stesso dinamismo dei loro predecessori. La Gran Bretagna fu l’ultimo grande paese occidentale ad adottare l’istruzione elementare pubblica per tutti. Le poche grandi Università inglesi dedicavano scarsa attenzione all’educazione scientifica e meccanica. Il contrasto con la situazione del XVII secolo è impressionante e ironico: mentre a quell’epoca la società britannica era considerata più fluida e aperta di quelle dell’ancien régime del continente, un secolo dopo questa percezione si era capovolta. Di tutti i maggiori

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paesi, la Gran Bretagna era quello maggiormente dipendente dalle importazioni e dalle esportazioni per il proprio benessere. La Gran Bretagna dipendeva dall’economia internazionale per la propria sopravvivenza in misura molto maggiore di paesi anche più piccoli. Possedeva la flotta mercantile di gran lunga più imponente e aveva investito all’estero più di ogni altro paese. Fin dall’inizio del 19 secolo nonostante l’importanza delle industrie che producevano per le esportazioni, la Gran Bretagna aveva una bilancia commerciale “sfavorevole” o negativa. Nella seconda parte del secolo il ruolo centrale di Londra nel sistema bancario e assicurativo internazionale gonfiò questi ricavi invisibili. Nonostante tutte le vicissitudini, il reddito reale pro-capite dei cittadini britannici aumentò, la distribuzione del reddito divenne leggermente più uniforme, la percentuale di popolazione costretta a vivere in condizioni d’assoluta povertà diminuì nettamente, e il cittadino medio godeva di un tenore di vita che non aveva eguali in Europa.

Gli Stati UnitiL’esempio più spettacolare che rapida crescita economica nazionale nell’Ottocento è offerto dagli Stati Uniti. L’America fu generalmente riconosciuta come il “crogiolo” dell’Europa. Il numero annuo di immigranti crebbe rapidamente. Reddito e ricchezza crebbero ancora più rapidamente della popolazione. Fin dall’epoca coloniale la scarsità di manodopera in rapporto alla terra e alle altre risorse avevano comportato salari più elevati ed un più alto tenore di vita rispetto all’Europa. Fu questo fatto, unito alle correlate possibilità di realizzazione dell’individuo e alle libertà religiose e politiche godute dai cittadini americani, ad attirare gli immigranti europei. E’ probabile che il reddito medio pro capite sia per lo meno raddoppiato nel periodo compreso tra l’adozione della Costituzione e lo scoppio della guerra civile. L’abbondanza di terra e la dovizia di risorse naturali contribuiscono a spiegare come mai gli Stati Uniti vantassero redditi pro capite più alti dell’Europa. La continua scarsità e l’alto costo della manodopera rendevano particolarmente proficuo l’impiego di macchine che permettevano di risparmiare manodopera, in agricoltura come nell’industria. In agricoltura, le migliori tecniche europee assicuravano quantità per acro sensibilmente più alte che degli Stati Uniti, ma gli agricoltori americani, avvalendosi di macchine relativamente poco costose erano in grado di ottenere rese molto più elevate per unità di lavoro. L’immensa vastità degli Stati Uniti, con la loro varietà di climi e risorse, permetteva una specializzazione regionale ancora più spinta di quello attuabile nei singoli paesi europei.Nel 1789, lo stesso anno in cui entrò in vigore la Costituzione, arrivò dall’Inghilterra Samuel Slater, che l’anno seguente fondò la prima fabbrica americana. Alexander Hamilton, che fu il primo segretario al Tesoro, era del parere che si dovesse favorire le manifatture con tariffe protettive ed altri provvedimenti. Thomas Jefferson, primo segretario di Stato e terzo presidente, preferiva incoraggiare l’agricoltura. L’industria del cotone del New England, dopo aver superato drammatici alti e bassi si affermò negli anni venti. Un altro dei vantaggi della vastità del territorio statunitense era il suo potenziale come mercato interno, anche se la realizzazione di questo potenziale richiedeva una vasta rete di trasporti.

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All’inizio del XIX secolo la rada popolazione era disseminata lungo la costa atlantica; le comunicazioni erano assicurate dalla navigazione costiera, l’unico accesso praticabile alle regioni dell’interno era rappresentato dai fiumi, dove si presentava però l’ostacolo di rapide e cascate. Per porre rimedio gli Stati e le municipalità intrapresero un grande programma di “miglioramenti interni”, espressione con la quale s’intendeva in primo luogo la costruzione di strade a pedaggio e canali.Nel 1830 erano state costruite oltre 11000 miglia di strade a pedaggio. Una delle cause principali del fallimento economico dei canali fu la comparsa sulla scena di un nuovo concorrente, la ferrovia. L’era delle ferrovie iniziò negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna quasi contemporaneamente, anche se per molti anni gli USA dipesero fortemente dalla tecnologia, dalle attrezzature e dai capitali britannici. I promotori americani colsero al volo l’opportunità offerta da questo nuovo mezzo di trasporto. Nel 1840 la rete ferroviaria ultimata superava non solo quella britannica ma quella di tutto il continente europeo. Come in gran Bretagna, le ferrovie furono importanti in America per i loro collegamenti ascendenti con altre industrie, in particolare quella siderurgica e dell’acciaio. Prima della guerra civile l’industria siderurgica era per lo più frammentata, caratterizzata da impianti di piccole dimensioni, e legata alla tecnologia del carbone di legna. Dopo la guerra, con la generale adozione del coke per la fusione del ferro e l’introduzione del forno a suola per la fabbricazione dell’acciaio, l’industria siderurgica divenne in breve tempo la maggiore industria americana. La popolazione urbana non eguagliò quella delle campagne fino a dopo la prima guerra mondiale , l’industria siderurgica conservò una base rurale fino a dopo la guerra civile, solo con l’avvento delle centrali elettriche cominciò il declino dell’industria a base rurale.

Il BelgioLa prima regione dell’Europa continentale ad adottare pienamente il modello industriale britannico fu quella che nel 1830 assunse il nome di Regno del Belgio.Il Belgio vantava una lunga tradizione industriale; le Fiandre erano state nel Medioevo un centro importante della produzione del panno, Bruges e Anversa furono le prime città del nord ad assimilare le tecniche commerciali e finanziare italiane nel basso medioevo. Pur avendo dovuto sopportare le conseguenze del dominio spagnolo e di altre disgrazie dopo la rivolta olandese, nel corso del XVIII secolo l’economia della regione si risollevò. Innanzitutto nelle Fiandre nacque un’importante industria rurale manuale del lino. In secondo luogo, le risorse naturali belghe erano molto simili a quelle britanniche, infatti il Belgio possedeva giacimenti carboniferi facilmente accessibili e fu in grado di produrre più’ carbone di qualunque altro paese del continente, inoltre esso possedeva giacimenti di minerale ferroso e non mancava di piombo e zinco. In terzo luogo la regione che sarebbe divenuta il Belgio ricevette importanti infusioni di tecnologia, iniziativa imprenditoriale e capitali stranieri, e godette di una posizione di favore in certi mercati esteri in particolare quelli francesi. Il processo iniziò sotto l’ancien regime ed accelerò nel periodo della dominazione francese. Le miniere di carbone erano le maggiori utilizzatrici di macchine a vapore. Durante la dominazione francese si sviluppò un traffico di notevole importanza sia per l’industria belga del carbone che per l’industria francese

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in generale. La rete di canali ed altre vie d’acqua che collegava la Francia ai bacini carboniferi belgi, la cui costruzione era stata intrapresa sotto l’ancien regime ma era proseguita con i governi successivi, facilitò enormemente questo traffico. I capitalisti francesi giudicavano il carbone belga un investimento promettente. I grandi boom industriali degli anni trenta e quaranta e persino negli anni settanta, quando la produzione di carbone ebbe un’impennata, videro l’apertura di nuove miniere in Belgio con capitali francesi. William Cockerill, un abile meccanico aprì la sua officina per la fabbricazione di macchine filatrici. L’industria cotoniera crebbe invece intorno a Gand. Gli incerti della guerra e ancor più la pace che seguì esposero l’industria a violente fluttuazioni che causarono il fallimento di molti imprenditori, l’industria stessa però sopravvisse e crebbe. I telai meccanici per la tessitura comparvero negli anni trenta, e alla fine di quel decennio l’introduzione della filatura meccanizzata del lino, sempre a Gand, segnò la condanna dell’industria rurale del lino. La ditta di Cockerill cominciò a produrre macchine a vapore accanto al macchinario tessile; a questo scopo furono assunti parecchi operai specializzati inglesi. I Cockerill annunciarono già nel 1820 il progetto di costruire altiforni a carbon fossile, e nel 1823 ottennero a tal fine una sovvenzione dal Governo olandese. Alla vigilia della rivoluzione belga la ditta Cockerill era indiscutibilmente la maggior impresa industriale dei Paesi Bassi, e probabilmente del continente, dava lavoro a quasi 2000 operai. La rivoluzione belga provocò una depressione economica derivante dall’incertezza sul carattere e il futuro del nuovo Stato. La depressione si esaurì in pochi anni, e intorno al 1835 si assistette ad un vigoroso boom industriale sulla base di due fattori: da una parte la decisione del Governo di costruire un’estesa rete ferroviaria a spese dello Stato e dall’altra un’importante innovazione istituzionale nel campo delle banche e della finanza.Nel 1822 Re Guglielmo I aveva autorizzato l’istituzione di una banca azionaria, egli l’aveva dotata di proprietà statali per un valore di 20.000.000 di fiorini e aveva investito una parte consistente delle proprie ricchezze nell’acquisto di sue azioni. Dopo la rivoluzione, però, con un nuovo Governatore nominato dalle nuove autorità statali, si stimolò un boom di investimenti senza precedenti sul continente. Nel 1835 un gruppo rivale di banchieri ottenne l’autorizzazione a fondare un’altra banca a capitale azionario, la nuova banca non perse tempo a emularla come banca di investimento. Nel 1840 il Belgio era il paese più industrializzato del continente e, in termini pro capite molto vicino alla Gran Bretagna.Per tutto il secolo la sua prosperità continuò a fondarsi sulle industrie che ne avevano determinato la crescita: carbone, ferro, acciaio, metalli non ferrosi, industria meccanica e tessili. Un partner particolarmente importante era la Francia.

La FranciaSebbene il modello di industrializzazione francese differisse da quello britannico e di altri paesi, il risultato fu non meno efficiente: è possibile che il modello francese sia stato più tipico di quello britannico. E’ opportuno considerare i fattori determinanti della crescita economica. L’aspetto più notevole del XIX secolo, nel caso della Francia, fu il modesto tasso di crescita demografica. Un secondo aspetto è la

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questione delle risorse. L’industrializzazione della Gran Bretagna, del Belgio e successivamente degli Stati Uniti e della Germania dipese in larga misura dalle abbondanti riserve di carbone. La Francia, pur non essendone totalmente priva, ne era molto meno ricca; inoltre, le caratteristiche dei suoi giacimenti rendevano più costoso il loro sfruttamento. Questi fatti ebbero importanti ripercussioni su altre industrie legate a quella del carbone, come ad esempio quella del ferro e dell’acciaio. In campo tecnologico la Francia non fu certo inerte. Scienziati, inventori e innovatori francesi fecero da pionieri in diverse industrie, come quella dell’energia idraulica, dell’acciaio, dell’alluminio, dell’automobile e, nel XX secolo, dell’aviazione. La crescita economica moderna cominciò in Francia nel XVIII secolo. Nell’intero secolo i tassi di crescita sia del prodotto totale che di quello pro capite furono approssimativamente uguali in Francia e in Gran Bretagna, o forse persino leggermente maggiori in Francia. Il secolo si chiuse però per la Gran Bretagna con l’inizio della rivoluzione industriale, mentre la Francia fu colpita dagli spasimi di un grande sconvolgimento politico, la rivoluzione francese. Dopo una depressione postbellica piuttosto severa, che colpì tutta l’Europa occidentale continentale e toccò persino la Gran Bretagna, l’economia francese riprese a crescere a tassi ancor più elevati. La lenta crescita demografica francese spiega in grande misura la crescita apparentemente lenta dell’economia nel suo complesso. La produzione industriale, il punto principale della crescita economica moderna in Francia come nella maggior parte delle altre nazioni industrializzate, crebbe ancor più rapidamente del prodotto totale. I miglioramenti dei trasporti e delle comunicazioni - includendo la costruzione di una vasta rete di canali, l’introduzione della navigazione a vapore, le prime ferrovie e il telegrafo elettrico - facilitarono la crescita del commercio interno ed estero. Inoltre la Francia beneficiò in questo periodo di una discreta eccedenza di esportazioni nel commercio dei prodotti agricoli, dalla quale ricavò le risorse che le permisero di operare ingenti investimenti all’estero. Le crisi politiche ed economiche causarono un’interruzione del ritmo dello sviluppo economico. La crisi della finanza pubblica e privata paralizzò le costruzioni ferroviarie e altre opere pubbliche. Con il colpo di stato del 1851 la crescita economica francese riprese il vecchio corso ad un ritmo accelerato. La guerra del 1870-71 fu un disastro sia dal punto di vista militare che di quello economico, ma l’economia francese si riprese in una maniera che sbalordì il mondo. Cominciò allora un nuovo boom che durò fino al 1881. Le costruzioni ferroviarie rappresentarono un efficace stimolo per il resto dell’economia. La depressione che ebbe inizio nel 1882 durò più a lungo e costò probabilmente alla Francia più di tutte le precedenti depressioni del XIX secolo. Molti fattori intervennero a complicarla e protrarla nel tempo: le disastrose epidemie che provocarono gravissimi danni all’industria del vino e a quella della seta per quasi due decenni; le ingenti perdite di investimenti esteri per colpa di governi inadempienti o del fallimento di imprese ferroviarie, l’aspra guerra commerciale con l’Italia. La prosperità tornò finalmente, poco prima della fine del secolo, l’affermarsi di nuove industrie come quella dell’elettricità, dell’alluminio, del nichel e delle automobili. La belle époque, come i francesi chiamano gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, fu quindi un periodo di prosperità materiale e fioritura culturale.

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Tra tutte le grandi nazioni industriali, la Francia era quella con il più basso ritmo di urbanizzazione. La causa principale di questo fenomeno fu la lenta crescita demografica complessiva, ma non bisogna trascurare la percentuale di forza lavoro impiegata nell’agricoltura e la dimensione dell’impresa industriale. Per quanto riguarda la dimensione e la struttura dell’impresa, la Francia era famosa per la ridotta dimensione delle sue aziende. Queste aziende si concentravano nei settori estrattivo, metallurgico e tessile - vale a dire nelle stesse industrie prevalenti negli altri paesi - imprese di grandi dimensioni e ad alta intensità di capitale. Tra le aziende di dimensioni ridotte, quelle con meno di dieci operai, si concentravano le tradizionali industrie artigianali, quali quella alimentare, dell’abbigliamento e della lavorazione del legno, mentre quelle con oltre 100 operai appartenevano di regola al settore industriale moderno: industrie chimiche, del vetro, della carta e della gomma. Non devono sfuggire due ulteriori caratteristiche della dimensione relativamente ridotta delle imprese francesi: l’alto valore aggiunto (articoli di lusso) e la dispersione geografica. La Francia possedeva industrie molto diversificate, disseminate in cittadine, villaggi e persino in aperta campagna. Questa dispersione era determinata in parte dalla natura delle fonti energetiche a disposizione. La Francia era, tra tutti i paesi della prima ondata industriale, quello meno ricco di carbone. Le caratteristiche dell’acqua come fonte di energia ponevano però forti limitazioni al suo impiego. I siti migliori erano generalmente molto distanti dai centri abitati. L’energia idraulica, perciò, nonostante tutta la sua importanza per l’industrializzazione francese, contribuì ad imporre un certo modello: aziende di piccole dimensioni, dispersione geografica e limitata urbanizzazione.

La GermaniaFra tutti i paesi della prima ondata di industrializzazione la Germania fu l’ultima a mettersi in moto. Povero e arretrato, nella prima metà del XIX secolo, lo Stato politicamente diviso era anche prevalentemente rurale e agricolo. Lo stato precario dei trasporti e delle comunicazioni ostacolava lo sviluppo economico. Però alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Impero tedesco unificato era la più potente nazione industriale europea. Possedeva le industrie più grandi e moderne nei settori del ferro e dell’acciaio e derivati, dell’energia elettrica, dei macchinari e dei prodotti chimici. La Germania era all’avanguardia nella produzione di vetro, strumenti ottici, metalli non ferrosi, tessili ed altri prodotti di manifattura. Possedeva inoltre una delle reti ferroviarie più dense, ed aveva un grado elevato di urbanizzazione. La storia economica tedesca dell’Ottocento può essere suddivisa in 3 periodi abbastanza distinti e quasi simmetrici. Il primo registrò la graduale consapevolezza dei cambiamenti economici che si stavano verificando in Gran Bretagna, Francia e Belgio. Nel secondo, assunsero consistenza le vere e proprie fondamenta materiali dell’industria moderna, del commercio e della finanza. Finalmente, la Germania raggiunse in poco tempo quella posizione di supremazia industriale nell’Europa occidentale continentale che continua ad occupare ancora oggi. Un vivace afflusso di capitali, tecnologie e iniziative estere contrassegnò il secondo periodo. In quello finale, il quadro fu dominato dall’espansione dell’industria tedesca nei mercati esteri.

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La riva sinistra del Reno, unita politicamente ed economicamente alla Francia sotto Napoleone, aveva adottato il sistema legale e le istituzioni economiche francesi. Persino la Prussia adottò, in forma modificata, molte istituzioni legali ed economiche francesi. Editti successivi abolirono le corporazioni e abrogarono altre restrizioni alle attività commerciali e formarono il sistema fiscale e snellirono l’amministrazione centrale. Altre riforme diedero alla Germania il primo sistema educativo moderno. Una delle più importanti riforme economiche attuate dai funzionari prussiani fu quella che condusse alla formazione dell’unione doganale o tariffaria. Fu decisa l’applicazione della tariffa unica. Di conseguenza la rete ferroviaria tedesca crebbe molto più rapidamente di quella francese. Le costruzioni ferroviarie obbligarono inoltre gli Stati a riunirsi per accordarsi su itinerari, prezzi ed altre questioni tecniche. Fino agli anni quaranta la produzione tedesca di carbone fu più bassa di quella francese e persino di quella del Belgio. La chiave della rapida industrializzazione tedesca fu la crescita vertiginosa dell’industria del carbone. La produzione commerciale cominciò nella valle della Rhur. Negli anni trenta dell’Ottocento furono scoperti i giacimenti nascosti a nord della valle della Rhur. Il loro sfruttamento, sebbene estremamente redditizio, richiedeva capitali più ingenti, tecniche più sofisticate. Le aziende tedesche adottarono rapidamente la strategia dell’integrazione verticale acquistando miniere di carbone e ferro, impianti per la produzione di coke, altiforni, e fonderie e laminatoi, officine meccaniche. Gli investitori tedeschi, aiutati e incoraggiati dalle banche, cominciarono a ricomprare le azioni di aziende tedesche in mani straniere, e persino ad investire all’estero. I settori più dinamici dell’industria tedesca erano quelli che producevano beni capitale o prodotti intermedi ad uso industriale. La produzione di carbone, ferro e acciaio era notevole. Ancora più importanti erano due industrie relativamente nuove, quella chimica e quella elettrica. Non ostacolati dal peso di attrezzature impianti obsoleti, gli imprenditori chimici poterono avvalersi della tecnologia più aggiornata in una industria in rapida evoluzione. L’industria elettrica registrò una crescita ancora più rapida di quella chimica. All’inizio del XX secolo i motori elettrici stavano facendo concorrenza e rimpiazzando i motori a vapore. Una caratteristica notevole delle industrie chimiche ed elettriche, nonché di quelle del carbone, del ferro e dell’acciaio, era l’imponente dimensione delle aziende. Un’altra importante caratteristica della struttura industriale tedesca era la prevalenza dei cartelli. Un cartello è un accordo o contratto tra aziende nominalmente indipendenti nel quale si determinano i prezzi, si limita la produzione, si suddividono i mercati. Tali contratti o accordi, contrari alle norme del diritto consuetudinario britannico, erano in Germania perfettamente legali ed anzi applicabili per legge. I cartelli furono in grado di mantenere sul mercato interno dei prezzi artificialmente elevati e di esportare in maniera virtualmente illimitata nei mercati esteri, persino a prezzi inferiori al costo medio di produzione.

CAPITOLO XMODELLI DI CRESCITA: RITARDATARI E ASSENTI

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Prima del 1850 esistevano singoli nuclei di industrie moderne, ma non si può dire che vi fosse in processo di industrializzazione. Tale processo si mise in moto solo nella seconda metà del secolo. La prima ondata di industrializzazione fu legata al carbone, ciò emerge dalle cifre relative al consumo pro capite. Ovviamente l’aumento del consumo non fu una causa, bensì una conseguenza del successo del processo di industrializzazione.

La SvizzeraSebbene la Svizzera avesse già acquisito, nella prima metà del secolo, diverse importanti risorse, la sua struttura economica era ancora preindustriale. La forza lavoro era impiegata soprattutto in attività agricole. La grande maggioranza degli addetti dell’industria lavoravano in casa o in piccole officine non meccanizzate. La Svizzera non disponeva di una struttura istituzionale adeguata allo sviluppo economico. Fu solo dopo il 1850 che si arrivò all’unione doganale, ad un’effettiva unione monetaria, ad un sistema postale centralizzato e ad uno standard uniforme di pesi e misure. La Svizzera è povera di risorse naturali ad eccezione dell’energia fornita dall’acqua e del legname, ed è priva di carbone. Nonostante tutti questi svantaggi, gli Svizzeri riuscirono a raggiungere all’inizio del XX secolo un livello di vita molto elevato e un notevole incremento della popolazione. A causa della scarsità di terra arabile, gli Svizzeri avevano praticato da tempo la combinazione di industria domestica, agricoltura e produzione casearia. In questi dipendeva dai mercati internazionali. Il successo svizzero sui mercati internazionali fu dovuto ad un’insolita combinazione di tecnologie avanzate e industrie ad alta intensità di lavoro. Il risultato di questa combinazione furono prodotti di alta qualità, di valore elevato e con un alto valore aggiunto. Alta intensità di lavoro significava soprattutto alta intensità di lavoro specializzato. Esisteva una forza lavoro abile e disposta a lavorare a salari bassi. A ciò si aggiunse il famoso Istituto svizzero di tecnologia, fondato nel 1851. La Svizzera possedeva un’importante industria tessile cotoniera che era basata su lavorazioni artigianali e sul lavoro a tempo parziale. La combinazione di tecnologie usate era alquanto insolita: la filatura era meccanizzata (energia idraulica) e si avvaleva del lavoro di donne e bambini, mentre la tessitura era manuale. Anche l’industria della seta contribuì alla crescita economica svizzera, attraverso un processo di ammodernamento tecnologico. Tra le industrie che presero il posto del tessile nelle esportazioni figuravano sia settori tradizionali che industrie che erano esse stesse un risultato del processo di industrializzazione. Alla vigila della Prima Guerra Mondiale esse erano l’industria meccanica, la fabbricazione di prodotti metallici specializzati, di cibi e bevande, di orologi, di prodotti chimici e farmaceutici. La Svizzera, priva di carbone evitò saggiamente di sviluppare un’industria siderurgica di grandi dimensioni, affidandosi all’importazione di materie prime dall’estero, essa sviluppò un’importante industria di trasformazione dei metalli. L’industria casearia si trasformò da un’attività artigianale ad un processo di fabbrica. Sviluppò la produzione di latte condensato (su brevetto americano) e diede origine alla produzione di cioccolato e quella di alimenti per bambini. L’altra industria tradizionale, quella della manifattura di orologi fu caratterizzata da altissima

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specializzazione, da una minima divisione del lavoro e anche se furono inventate delle macchine, l’assemblaggio finale rimase manuale. Infine l’industria chimica si sviluppò in risposta al processo stesso di industrializzazione, ma si specializzò in prodotti esotici e di prezzo elevato, ed inoltre in specialità farmaceutiche. Le ferrovie, infine, non rappresentarono un buon investimento per la Svizzera che saggiamente le lasciò ai capitalisti stranieri (in particolare francesi).

I Paesi Bassi e la ScandinaviaPuò apparire incongruo accomunare Paesi Bassi e Stati scandinavi in questa discussione dei processi di industrializzazione. Le caratteristiche comuni dei paesi scandinavi non sono economiche ma culturali. In quanto a struttura economica, i Paesi Bassi hanno più in comune con la Danimarca di quanto i due paesi non abbiano con la Norvegia o con la Svezia. Tutti questi paesi avevano popolazioni modeste. Nel corso del secolo i rispettivi tassi d’incremento demografico furono moderati. Passando a considerare il capitale umano come una caratteristica della popolazione, si può affermare che tutti e quattro i paesi fossero estremamente ben provvisti. Questo fatto ebbe un valore inestimabile nell’aiutare le economie nazionali a trovare le loro nicchie nelle correnti dell’economia internazionale. Sul piano delle risorse il fatto più significativo è che tutti e quattro i paesi erano privi di carbone. E’ questa la ragione principale per cui essi non svilupparono un’apprezzabile industria pesante. In quanto alle altre risorse naturali, la Svezia era la nazione più fortunata a causa dei suoi ricchi giacimenti di ferro, fosforoso o meno, le vaste distese di foreste da legname e l’energia idraulica. Anche la Norvegia possedeva molto legname, alcuni giacimenti di metalli ed un enorme potenziale di energia idraulica. L’energia idraulica fu un fattore significativo per lo sviluppo della Svezia e della Norvegia. Danimarca e Paesi Bassi erano quasi altrettanto privi di energia idraulica, avevano a disposizione un ammontare non trascurabile di energia eolica. La posizione geografica fu un elemento importante per tutti e quattro i paesi: tutti avevano un accesso diretto al mare. Ciò ebbe notevoli implicazioni per una importante risorsa naturale internazionale, il pesce, oltre che per la disponibilità di trasporti a buon mercato, per la marina mercantile e per l’industria delle costruzioni navali. Ogni paese trasse vantaggi a modo suo. Gli Olandesi, con la loro lunga tradizione di pesca e spedizioni mercantili, incontrarono molte difficoltà nello sviluppare buoni porti adatti alle imbarcazioni a vapore; ebbero successo ad Amsterdam e a Rotterdam. Anche la Danimarca vantava una rispettabile storia commerciale, in particolare per quanto riguardava il traffico attraverso Oresund. Nel 1857, in cambio del versamento di 63 milioni di corone da parte di altre nazioni commerciali, la Danimarca abolì i diritti di passaggio nello stretto e prese altre decisioni politiche in senso liberoscambista. Ciò consentì una crescita considerevole del traffico nello stretto e nel porto di Copenhagen. Nella prima metà del secolo la Norvegia divenne uno dei maggiori fornitori di pesce e legname sul mercato europeo e vantava la seconda marina mercantile dopo quella britannica. La Svezia beneficiò della generale abrogazione delle restrizioni sul commercio internazionale e delle ridotte tariffe di trasporto per le esportazione di legname, ferro e avena. Le istituzioni politiche dei quattro paesi non

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ostacolarono l’industrializzazione o la crescita economica. E ci fu una progressiva democratizzazione di tutti i paesi. Seguirono una politica commerciale liberale e in Danimarca e in Svezia le riforme agrarie portarono alla abolizione del servaggio e ad un generale orientamento al mercato. Il fattore chiave del successo di questi paesi fu la loro capacità di adattarsi alla divisione internazionale del lavoro determinata dai paesi già industrializzati, e di controllare nei mercati internazionali aree di specializzazione per le quali erano particolarmente adatti. Ciò significò una grande dipendenza dal commercio internazionale. In questi paesi si è parlato di “industrializzazione inversa” cioè del fenomeno per cui un paese già esportatore di materie prime comincia a sottoporle a lavorazione e le esporta sotto forma di semilavorati e prodotti finiti. Come esempio può bastare quello del legname svedese e norvegese che ha dato luogo alle industrie della carta, e ancora l’industria siderurgica con la produzione dei cuscinetti a sfera (specialità svedese). Nei due decenni precedenti la Prima Guerra Mondiale, i tassi di crescita che già erano soddisfacenti subirono una accelerazione, dovuti a tre motivi in particolare: il primo fu il contesto di prosperità generale, caratterizzato da prezzi in crescita e da una domanda sostenuta, in secondo luogo tale periodo fu contrassegnato in Scandinavia da massicce importazioni di capitali. Infine il periodo in questione coincise con la rapida affermazione dell’industria elettrica. L’elettricità fu fondamentale per le economie di tutti i paesi, che svilupparono industrie per la fabbricazione di metalli e macchinari.

L’Impero austro-ungaricoL’Austria-Ungheria ha la reputazione di essere stato nel XIX secolo uno Stato arretrato. Questo marchio fu in parte conseguenza del fatto che alcune porzioni dell’impero erano effettivamente arretrate, e in parte dell’erronea associazione tra risultato economico e fallimento politico (lo smembramento dell’Impero dopo la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale). Inoltre bisogna dire che l’Impero asburgico, con le province occidentali (Boemia, Moravia e Austria) era caratterizzato in misura anche maggiore della Francia o della Germania da diversità regionali. Nelle province occidentali, poi, i primi segni di una crescita economica moderna potevano essere osservati già nella seconda metà del XVIII secolo. Altri fattori importanti sono la topografia che rendeva difficili e costosi sia i trasporti interni che internazionali, e la scarsità delle risorse naturali. Gli esordi settecenteschi furono con le industrie tessili, siderurgiche, del vetro e della carta. Poi si svilupparono quelle del lino e della lana. La tecnologia impiegata fu dapprima quella tradizionale con la lavorazione a domicilio. La crescita economica dell’Austria ha avuto molti ostacoli, tra cui le istituzioni sociali avverse alla crescita e la scarsità delle risorse. Tra gli ostacoli dovuti all’uomo e non alla natura ricordiamo il servaggio. Con la sua abolizione i contadini ottennero la libera proprietà della terra, e alle tasse pagate fino a quel momento ai signori feudali si sostituirono quelle dovute allo Stato. Vi fu un miglioramento della produttività agricola come conseguenza di questo provvedimento. L’abolizione della frontiera doganale tra la metà austriaca e quella ungherese dell’Impero nel 1850 è stata vista da alcuni come un progresso e da altri come una perpetuazione dello status coloniale

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della metà orientale. Un altro ostacolo fu la politica commerciale estera della monarchia che rimase rigidamente protezionistica per tutto il secolo. Le tariffe elevate limitavano non solo le importazioni ma anche le esportazioni, in quanto le industrie protette, caratterizzate da costi di produzione elevati, non erano in grado di competere nei mercati mondiali. La posizione geografica e la topografia dell’Impero contribuivano alla sua posizione modesta nel commercio internazionale, e l’unione doganale interna che abbracciava aree sia agricole che industriali controbilanciava l’accesso limitato ai mercati esteri e alle fonti di approvvigionamento. La politica commerciale deve essere considerata una delle cause della situazione economica mediocre dell’Impero. Una delle ragioni della lenta crescita e dell’ineguale diffusione dell’industria moderna furono i livelli di istruzione e di analfabetismo, caratteristiche fondamentali del capitale umano. Nonostante gli ostacoli naturali e istituzionali, industrializzazione e crescita economica caratterizzarono la realtà austriaca per tutto l’Ottocento e quella ungherese nella seconda metà del secolo. I trasporti giocarono un ruolo cruciale nello sviluppi economico dell’Impero. Poiché gran parte del paese era montagnoso, il trasporto terrestre era costoso e quello per via d’acqua inesistente nelle regioni montane. L’Austria-Ungheria disponeva di pochi canali. Le prime ferrovie furono localizzate nell’Austria propriamente detta e nella Boemia. Furono utilizzate per il trasporto del grano e della farina. L’Impero possedeva anche industrie pesanti (industria siderurgica alimentare dal carbone di legna) che però scomparvero gradualmente con l’avvento della fusione del minerale ferroso mediante carbon coke.

L’Europa meridionale e orientaleCaratteristiche comuni di questi paesi furono: l’insufficiente grado di industrializzazione fino al 1914, con conseguenti bassi livelli di reddito pro capite ed un’elevata incidenza di povertà, i livelli bassi di capitale umano, l’assenza di una riforma agraria significativa che incidesse sulla produttività ed infine il fatto che tutti furono soggetti a regimi autocratici, autoritari, corrotti e inefficienti.

La penisola ibericaSia Spagna che Portogallo emersero dalle guerre napoleoniche con sistemi economici primitivi e con regimi politici reazionari. Entrambi i paesi erano afflitti da una finanza pubblica in condizioni deplorevoli. Durante le guerre civili entrambe le parti in lotta contrassero prestiti all’estero per finanziare lo sforzo militare. I disavanzi cronici delle finanze statali condussero a manipolazioni del sistema bancario, ad un’inflazione monetaria e all’indebitamento sui mercati esteri, ma il credito di cui il Governo godeva era talmente basso che i prestiti erano concessi solo a condizioni estremamente onerose. La bassa produttività dell’agricoltura rimase una debolezza fondamentale di entrambe le economie. L’economia spagnola è stata definita come un’economia “dualistica”, con un ampio settore agricolo di sussistenza da un lato e un piccolo settore agricolo commerciale interagente con un settore urbano industriale, commerciale e dei servizi di dimensioni ancora più ridotte. La Spagna tentò una riforma agraria che si rivelò un fallimento. Il Governo confiscò le terre della Chiesa, delle municipalità e degli aristocratici che si erano schierati nel partito

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opposto durante le guerre civili, con l’intenzione di rivenderle ai contadini, le esigenze delle finanze pubbliche erano però tali che il Governo finì col venderle all’asta al miglior offerente. Il risultato fu che la maggior parte della terra finì nelle mani dei già ricchi aristocratici e borghesi. La Spagna possedeva diversi giacimenti di carbone, ma non di elevata qualità e localizzati in modo infelice. Ciononostante si sviluppò un’industria siderurgica lungo la costa settentrionale del paese. Nessuna riforma agraria fu tentata invece in Portogallo. Nel frattempo l’incremento demografico determinò l’estensione delle coltivazioni di cereali e di tutti i mezzi primari di sussistenza. Questo deprimente quadro generale aveva i suoi punti luminosi. Un’industria cotoniera moderna si sviluppò dopo il 1790 in Catalogna, a Barcellona. In Andalusia e nella provincia di Oporto del Portogallo esistevano industrie vinicole. Nel frattempo una nuova fonte di valuta estera, costituita da minerali e metalli, era venuta a rimpiazzare gli utili perduti con la produzione vinicola. Nel 1900 le esportazioni di minerali e metalli costituivano circa un terzo delle esportazioni totali. I capitali esteri predominavano anche in altri settori moderni dell’economia, quali le attività’ bancarie e le ferrovie. Fino al 1850 gli sviluppi in entrambe queste aree erano stati trascurabili; il sistema bancario era dominato dalla Banca di Spagna. C’erano pochi km di ferrovie e negli anni cinquanta si decise di accordare uno speciale incoraggiamento ai capitali stranieri che intendessero avviare banche e ferrovie. Ma la maggior parte di esse fece bancarotta. Costruite con capitali esteri le ferrovie portoghesi non sfuggirono alla frode, alla corruzione e alla bancarotta.

L’ItaliaDivisa e dominata da potenze straniere, l’Italia aveva perso da lungo tempo la sua supremazia negli affari economici. Il Congresso di Vienna restaurò lo sconcertante mosaico di principati nominalmente indipendenti, tutti però, compresi lo Stato della Chiesa e il Regno delle due Sicilie, sotto il controllo dell’impero asburgico. L’Austria incorporò la Lombardia e Venezia. Il Regno di Sardegna era indipendente, languiva nelle acque stagnanti del feudalesimo, i proprietari terrieri non avevano interesse a migliorare i possedimenti e la popolazione era completamente analfabeta e viveva in maniera primitiva. Il Regno dei Savoia apparteneva culturalmente e economicamente alla Francia. Genova aveva resistito per secoli come repubblica indipendente fino all’avvento di Napoleone. Il Piemonte era una continuazione geografica della pianura padana: possedeva alcuni setifici e sotto la guida di diversi intraprendenti proprietari terrieri la sua agricoltura divenne la più’ avanzata e prospera della penisola. I differenziali economici regionali, importanti in quasi tutti i paesi erano in Italia particolarmente marcati. Fu nel Nord, economicamente più progredito, che iniziò il movimento di unificazione. Dopo le rivoluzioni fallite nel Regno di Sardegna venne alla ribalta un personaggio eccezionale, Camillo Benso di Cavour, proprietario terriero e imprenditore agricolo progressista che aveva anche promosso una ferrovia, un giornale e una banca, e che nel 1850 divenne Ministro della Marina, del Commercio e dell’Agricoltura del piccolo Stato da poco divenuto monarchia costituzionale. Nel 1852 divenne primo ministro. Egli sottolineò che l’ordine

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finanziario e il progresso economico erano le due condizioni indispensabili affinché il Piemonte potesse assumere la guida della penisola italiana. Per conseguire questi risultati egli riteneva necessaria l’assistenza economica degli altri paesi, e perciò anche la presenza di capitale straniero. Negoziò trattati commerciali con tutti i più importanti paesi commerciali e industriali d’Europa. Le esportazioni crebbero così come le importazioni. L’unificazione alleviò la frammentazione del mercato. Ma senza lo sviluppo dei trasporti anche questo risultato sarebbe stato illusorio. Gli sforzi di Cavour lo condussero alla morte prematura tre mesi dopo la proclamazione del Reno ma i suoi successori non furono in grado di continuare in maniera adeguata il suo lavoro: l’Italia aveva comunque iniziato il suo cammino verso l’industrializzazione.

L’Europa sudorientaleI cinque piccoli paesi che occupavano l’angolo sudorientale del continente europeo (Albania, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia) erano i più poveri d’Europa a occidente della Russia. Tutti avevano conquistato l’indipendenza dall’Impero Ottomano dopo il 1815 e l’eredità del dominio ottomano si faceva sentire pesantemente sulle loro economie. All’inizio del XX secolo erano tutti paesi rurali e agrari. La tecnologia era primitiva, la produttività e il reddito erano bassi. Nonostante la loro povertà, l’alta natalità combinata con una mortalità in declino provocò un’esplosione demografica. L’aumento della pressione demografica portò alla crescita della terra coltivabile, all fame di terra, all’emigrazione verso aree urbane e i paesi più sviluppati dell’occidente e ad un certa emigrazione verso i paesi d’oltremare. Le risorse naturali erano insufficienti ad alleggerire la pressione demografica. Esistevano alcuni piccoli giacimenti sparpagliati di carbone, insufficienti però a rendere uno qualsiasi di questi paesi indipendente dalle importazioni, nonostante una domanda interna molto ridotta. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale esistevano anche alcuni piccoli giacimenti di metalli non ferrosi, il cui sfruttamento era però appena iniziato, con capitale straniero. In accordo con il loro carattere agrario, il commercio estero consisteva in esportazioni di prodotti agricoli e importazioni di manufatti (beni di consumo). In contrasto con la lenta diffusione della tecnologia agricola e industriale, la tecnologia istituzionale delle banche e dell’indebitamento estero si diffuse con rapidità. Le banche a capitale azionario e le altre istituzioni finanziarie conobbero un rapido sviluppo, ma senza forti legami con la finanza industriale. I prestiti esteri furono destinati alla costruzione delle ferrovie, in genere per conto dello Stato. In ciascuno dei paesi si sviluppò dopo il 1895 un modesto settore industriale .

La Russia imperialeAll’inizio del XX secolo l’Impero russo era considerato una grande potenza. L’estensione del suo territorio e della sua popolazione giustificavano tale reputazione. Anche in termini economici complessivi la Russia occupava una posizione ragguardevole. Possedeva grandi industrie tessili (cotone e lino) e industrie pesanti. La Russia era un paese ancora prevalentemente agricolo, ma la produttività era

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ostacolata da una tecnologia primitiva e dalla scarsità di capitali (servaggio legalizzato). Gli inizi dell’industrializzazione russa sono stati fatti risalire al regno di Pietro il Grande. Le prime imprese industriali erano iniziative isolate legate ai bisogni dello Stato russo. La maggior parte di questi operai era nominalmente di condizione servile. In luogo delle prestazioni d’opera tradizionali essi erano tenuti al versamento ai loro padroni di somme in contanti che detraevano dai salari monetari percepiti (servi imprenditori). La guerra di Crimea rivelò la cruda realtà dell’arretratezza dell’industria e dell’agricoltura. Ci furono riforme (emancipazione dei servi del 1861). Il Governo incoraggiò un programma di costruzioni ferroviarie sulla base di capitali e tecnologie d’importazione, e riorganizzò il sistema bancario. Inoltre incoraggiò l’industrializzazione in vari modi: contrasse debiti all’estero, impose dazi sulle importazioni di prodotti di ferro e acciaio, ma allo stesso tempo agevolò l’introduzione delle attrezzature più moderne per la manifattura del ferro e dell’acciaio e per le costruzioni meccaniche. Al boom dell’industria russa degli anni novanta succedette la crisi di primi anni del XX secolo, che a sua volta fu seguita dall’esito disastroso della guerra russo-giapponese (1904-05)e dalla rivoluzione (1905-06). Quest’ultima generò riforme tra cui quella agraria di Stolypin. Ma la debolezza della Russia si acutizzò durante la Prima Guerra Mondiale contribuendo alla sua sconfitta.

Il GiapponeNella prima metà del secolo il Giappone mantenne la sua politica di isolamento dalle influenze straniere. Dall’inizio del Seicento il Governo Tokugawa aveva proibito il commercio con l’estero e aveva vietato ai Giapponesi di viaggiare all’estero. La società era strutturata in rigide classi sociali o caste . Nonostante queste limitazioni l’organizzazione era notevolmente sofisticata. Il livello di analfabetismo era basso. Nel 1853-54 il commodoro Matthew Perry, ammiraglio della flotta statunitense, entrò con le sue navi nella baia di Tokyo e minacciando di bombardare la città costrinse lo shogun Tokugawa ad allacciare relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti. Una clausola chiave di questi “trattati ineguali” impediva al Governo giapponese di imporre tariffe superiori al 5% ad valorem. Gli stranieri inoltre ottennero diritti di extraterritorialità. Ciò portò a rivolte xenofobe per riportare l’Imperatore ad una posizione centrale nel Governo. Ci fu la restaurazione Meiji (governo illuminato). Non appena conquistato il potere il nuovo governo mutò il tono del movimento xenofobo. Invece di tentare un’espulsione degli stranieri, il Giappone cooperò con loro ma tenendoli a rispettosa distanza. Il vecchio sistema feudale fu abolito e sostituito da un’amministrazione burocratica. Uno dei problemi da affrontare fu quello finanziario. Il nuovo Governo meiji ereditò una quantità di moneta cartacea inconvertibile, che nei primi anni di transizione fu costretto ad accrescere. Nel 1873 decretò una tassa sulla terra. Essa ebbe un effetto doppiamente benefico: da un lato assicurò al Governo un’entrata fissa, dall’altro garantì che la terra sarebbe stata usata al meglio. Il Governo intraprese la creazione di un nuovo sistema bancario avendo come modello quello degli Stati Uniti. Secondo questo sistema le banche potevano essere fondate usando titoli governativi a garanzia dell’emissione di

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banconote, obbligatoriamente convertibili in moneta metallica. Nel 1881 ricostruì la struttura bancaria. Una nuova banca centrale, la Banca del Giappone, ottenne il monopolio dell’emissione dei banconote, mentre le banche nazionali persero i loro diritti di emissione e furono trasformate in normali banche commerciali di depositi sul modello inglese. Sin dall’epoca della restaurazione Meiji il Governo aveva intenzione di introdurre nel paese praticamente l’intera gamma di industrie occidentali. Ma era questa un’impresa che poteva essere realizzata solo nel lungo termine. Nel frattempo occorreva trovare le risorse necessarie per pagare le importazioni. Il Giappone disponeva inoltre di limitate risorse naturali. Tuttavia fu il settore agrario a dover sopportare il peso di assicurare con le esportazioni le entrate necessarie a finanziare le importazioni. Le due tradizionali industrie tessili giapponesi erano basate sulle materie prime nazionali (la seta e il cotone). Subito dopo l’apertura degli scambi l’industria cotoniera fu completamente spazzata via dai prodotti meccanizzati provenienti dall’Occidente. L’industria della seta sopravvisse e si sviluppò anche un commercio degli stessi. L’altra grande fonte di esportazioni agricole era il tè, ma il suo peso relativo diminuì comunque gradatamente con la crescita della popolazione e del reddito nazionale. Lo stesso si verificò ed in misura ancora più accentuata con il riso. Il Governo incoraggiò anche l’impresa privata infatti non appena le miniere e le fabbriche cominciarono a funzionare in maniera soddisfacente il Governo le vendette. L’industria cotoniera fece registrare i progressi più rapidi mentre le industrie pesanti ebbero uno sviluppo più lento. La Prima Guerra Mondiale accrebbe naturalmente in misura notevole la domanda dei prodotti di queste industrie e aprì nuovi mercati. Il disavanzo della bilancia commerciale negli ultimi anni prima della guerra era stato ingente, ma l’accresciuta domanda del periodo bellico permise ai produttori giapponesi di penetrare rapidamente nei mercati esteri. La transizione economica ebbe anche conseguenze politiche. Nel 1894-95 il Giappone sconfisse la Cina e la Russia sia in mare che in terra affermando così la propria influenza.

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CAPITOLO XILA CRESCIA DELL’ECONOMIA MONDIALE

L’importanza del commercio di lunga distanza crebbe enormemente nel corso del XIX secolo. Per tutto il secolo l’Europa controllò almeno il 60% del totale sia delle importazioni che delle esportazioni. Il periodo di massima crescita si ebbe tra l’inizio degli anni quaranta del 1872 e il 1873. All’inizio del secolo erano due i principali ostacoli uno naturale, l’altro artificiale che rallentavano il flusso del commercio internazionale. L’incidenza di entrambi declinò significativamente col passare degli anni. L’ostacolo naturale (alto costo dei trasporti, in particolare quelli terrestri) si arrese alla ferrovia e ai miglioramenti della navigazione. Allo stesso modo furono annullati gli ostacoli artificiali (le tariffe sulle importazioni e le esportazioni), anche se alla fine del secolo si verificò un “ritorno al protezionismo” che determinò l’introduzione in molti paesi di più alte tariffe sulle importazioni.

La Gran Bretagna adotta il libero scambioArgomentazioni intellettuali a favore del libero scambio a livello internazionale erano state avanzate anche prima della pubblicazione del trattato di Adam Smith La ricchezza delle nazioni. Nel XVIII secolo il contrabbando era un’attività redditizia. Il Governo britannico aveva cominciato a modificare il proprio atteggiamento protezionistico nel tardo Settecento, ma lo scoppio della rivoluzione francese e le guerre napoleoniche ne differirono gli sforzi. Il blocco britannico ed il Sistema continentale rappresentarono delle forme estreme di interferenza nel commercio internazionale. La perorazione di Smith a favore del libero scambio internazionale fu una conseguenza della sua analisi dei vantaggi derivanti dalla specializzazione e dalla divisione del lavoro tra le nazioni oltre che tra gli individui. Essa si basava sulle differenze tra i costi assoluti di produzione, come ad esempio tra i costi di produzione del vino in Scozia e in Francia. David Ricardo nei suoi Principi dell’economia politica suppose erroneamente che il Portogallo avesse rispetto all’Inghilterra un vantaggio assoluto nella produzione sia delle stoffe che del vino, ma che il costo relativo di quest’ultimo fosse inferiore. Egli dimostrò che sarebbe stato vantaggioso per il Portogallo specializzarsi nella produzione vinicola ed acquistare stoffe dall’Inghilterra. Questo era il principio del vantaggio relativo il fondamento della moderna teoria del commercio internazionale. Sia l’argomentazione di Smith a favore del libero scambio che quella di Ricardo si fondavano su ragioni puramente logiche. Per avere effetti pratici in politica esse dovevano riuscire a convincere gruppi consistenti di individui influenti che il libero scambio avrebbe loro portato dei vantaggi. Uno di questi gruppi era quello dei mercanti coinvolti nei traffici internazionali; inoltre conquistarono posizioni di preminenza nel partito tory al Governo, uomini il cui obiettivo era modernizzare le procedure arcaiche di Governo. Uno di questi fu Robert Peel che creò una forza di polizia metropolitana, i cui

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membri furono chiamati bobbies o peelers. Un altro dei cosiddetti “tory liberals” fu William Huskisson che ridusse il dedalo di restrizioni e tasse. La riforma parlamentare del 1832 estese il diritto di voto alla classe media urbana, in gran parte favorevole al libero scambio. Fulcro e simbolo del sistema protezionistico del Regno Unito erano le cosiddette Corn Laws, le leggi sul grano che imponevano tariffe sull’importazione. Dopo vari tentativi di abrogarle o modificarle Richard Cobden diede vita nel 1839 alla Anti-Corn Law League e intraprese una vigorosa campagna di mobilitazione dell’opinione pubblica. Nel 1841 il Governo whig allora in carica propose una riduzione delle tariffe sia sul grano che sullo zucchero, di fronte alla bocciatura dei provvedimenti proposti, il Governo indisse nuove elezioni generali. In precedenza le leggi sul grano e il protezionismo in genere non avevano figurato tra le questioni di partito, in quanto i proprietari terrieri rappresentavano la maggioranza sia tra i tories che tra i whigs. In questa campagna elettorale questi ultimi proposero un ridimensionamento delle leggi sul grano, mentre i tories si batterono per il mantenimento dello status quo. La vittoria arrise ai tories ma il nuovo primo ministro, sir Robert Peel aveva già deciso un’ampia revisione del sistema fiscale. Nel 1845 l’Irlanda fu colpita dalla disastrosa carestia di patate, che ridusse alla fame gran parte della popolazione irlandese. Allora Peel presentò un progetto di legge per l’abrogazione delle leggi sul grano che fu approvato nel 1846. I whigs noti in seguito come liberali divennero il partito del libero scambio e delle manifatture, mentre i tories noti anche col nome di conservatori, rimasero il partito degli interessi fondiari e in seguito dell’imperialismo. Con il consolidamento dei nuovi schieramenti politici negli anni cinquanta e sessanta e con Gladstone come cancelliere dello Scacchiere si affermò un’intransigente politica liberoscambista. Dopo il 1860 rimasero solo pochi dazi sulle importazioni, applicati esclusivamente per motivi di bilancio su prodotti non britannici (brandy, vino tabacco).

L’età del libero scambioIl secondo grande stadio nel movimento verso il libero scambio fu un importante trattato commerciale, il trattato anglofrancese o Cobden-Chevalier del 1860. La Francia aveva seguito tradizionalmente una politica protezionistica che consisteva nel divieto di importare tessuti di cotone e di lana. Il Governo di Napoleone III desiderava seguire una politica di amicizia nei confronti della Gran Bretagna. Sebbene in Francia avesse tradizionalmente prevalso una politica protezionistica, una forte corrente di pensiero sosteneva il liberalismo economico. Uno dei capi di questa scuola era l’economista Michel Chevalier che convinse l’Imperatore dei vantaggi di un trattato commerciale con la Gran Bretagna. Un’altra circostanza politica rese più allettante la scelta del trattato. Secondo la Costituzione del 1851 l’approvazione di ogni legge che riguardasse la nazione spettava al Parlamento bicamerale, mentre il sovrano deteneva il diritto esclusivo di negoziare trattati con potenze straniere. Napoleone aveva cercato negli anni cinquanta di ridurre la forte impronta protezionistica ma non era riuscito a portare a compimento una riforma complessiva della politica tariffaria. In Gran Bretagna si riteneva dopo la scelta del libero scambio che i vantaggi di una politica liberoscambista sarebbero stati così evidenti che le altre

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nazioni l’avrebbero adottata. Di conseguenza il trattato fu firmato nel gennaio del 1860. Il trattato impegnava la Gran Bretagna a cancellare tutti i dazi sull’importazione di merci francesi ad eccezione del vino e del brandy, in quanto prodotti di lusso per i consumatori britannici, per cui la Gran Bretagna manteneva su di essi dazi ridotti a fini esclusivamente fiscali. La Gran Bretagna manteneva su di essi dazi ridotti a fini esclusivamente fiscali. Inoltre la Gran Bretagna salvaguardò la posizione di preferenza del Portogallo nel mercato britannico. La Francia da parte sua revocò la sua proibizione dell’importazione di prodotti tessili britannici e ridusse i dazi. Un aspetto importante di questo trattato fu la clausola della nazione più favorita, vale a dire che se una delle due parti avesse negoziato un accordo con un paese terzo, la controparte nel trattato avrebbe beneficiato automaticamente di qualsiasi tariffa più bassa eventualmente accordata a quest’ultimo. Entrambi i contraenti del trattato anglofrancese avrebbero beneficiato del trattamento accordato alla “nazione più favorita”. La Francia a differenza della Gran Bretagna stipulò numerosi trattati con altri paesi. Le conseguenze di questa rete di trattati commerciali furono considerevoli. Il commercio internazionale crebbe. Gran parte dell’aumento dipese dal commercio intereuropeo, ma vi contribuirono anche paesi di altri continenti. Un’altra conseguenza dei trattati fu la riorganizzazione dell’industria imposta dalla maggiore concorrenza, i trattati favorirono l’efficienza tecnica e aumentarono la produttività.

La “Grande Depressione” e il ritorno al protezionismoUn’altra conseguenza dell’integrazione dell’economia internazionale provocata da un commercio più libero fu la sincronizzazione della dinamica dei prezzi al di là delle frontiere nazionali. Le fluttuazioni dei prezzi cominciarono ad essere più spesso legate allo “stato del commercio” (alle oscillazioni della domanda), divennero di natura ciclica e furono trasmesse di paese in paese attraverso i canali commerciali. La statistica ha distinto diverse varietà di “cicli economici”: cicli delle scorte di breve durata (2-3 anni), relativamente miti, oscillazioni di più ampio respiro (9-10 anni), concluse frequentemente da crisi finanziarie seguite da recessioni e tendenze secolari di lunga durata (20-40 anni). Causa delle fluttuazioni sono le complesse interazioni di fattori monetari e reali. Fluttuazioni della produzione accompagnavano le fluttuazioni dei prezzi anche se le cadute della produzione erano di breve durata. In quasi tutti gli Stati europei i prezzi raggiunsero il culmine all’inizio del secolo. Le cause furono sia reali (la penuria determinata dalla guerra) che monetarie (le esigenze della finanza di guerra). Dopo di allora la tendenza secolare fu al ribasso fino alla metà del secolo. Le cause furono nuovamente sia reali (innovazioni tecniche, miglioramenti nell’efficienza) che monetarie (pagamento delle riparazioni di guerra da parte di Governi). Nel 1873 un panico finanziario colpì Vienna e New York per poi propagarsi nella maggior parte dei paesi industrializzati. La susseguente caduta dei prezzi divenne nota in Gran Bretagna come “Grande Depressione”. La depressione fu attribuita a torto dai grandi industriali all’accresciuta concorrenza internazionale frutto dei trattati commerciali, e avanzarono nuove richieste di protezione. Prima del 1870 essi non erano stati disturbati dalla concorrenza dei paesi d’oltremare, in quanto

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i costi del trasporto via mare avevano rappresentato una protezione sufficiente. Negli anni settanta le spettacolari riduzioni dei costi di trasporto dovute alla costruzione di nuove ferrovie combinate con le riduzioni dei costi di trasporto oceanici per effetto dei miglioramenti apportati alla navigazione a vapore, incoraggiarono la messa a coltura di vasti tratti di praterie vergini. Per la prima volta gli agricoltori europei si trovavano a fronteggiare una dura concorrenza sui propri mercati. La situazione dell’agricoltura tedesca era molto critica. La Germania era divisa all’epoca essenzialmente in un occidente in via di industrializzazione ed un oriente agricolo. Gli Junker della Prussia orientale si erano dedicati da tempo all’esportazione di grano in Europa occidentale. Era questa la maggiore eccezione all regola per la quale fino agli anni settanta del XIX secolo i costi di trasporto rendevano non conveniente trasportare il grano su lunghe distanze. I Junker erano favorevoli al libero scambio nella loro veste di esportatori. Chiesero protezione non appena cominciarono a subire le conseguenze della caduta dei prezzi del grano. La popolazione tedesca stava crescendo rapidamente e con l’industrializzazione anche le città stavano espandendosi velocemente. Gli Junker volevano conservare l’esclusiva del grande e crescente mercato. Otto van Bismark, creatore e cancelliere del nuovo impero tedesco colse questa opportunità. Gli industriali della Germania occidentale da tempo reclamavano una protezione tariffaria, ora che anche gli Junker prussiani si erano schierati al loro fianco, Bismark decise di “accedere “ alla richiesta e diede la sua approvazione ad una legge tariffaria del 1879 che introdusse il protezionismo sia per l’industria che l’agricoltura. Gli interessi protezionistici francesi ripresero forza sul piano politico. Nel 1881 essi riuscirono ad ottenere una nuova legge tariffaria che reintroduceva esplicitamente il principio del protezionismo. I sostenitori del libero scambio conservarono però un notevole peso politico, e nel 1881 nuovi trattati commerciali ribadirono i principi fondamentali del trattato Cobben-Chevalier. Vi fu una maggioranza favorevole al protezionismo che riuscì a far approvare nel 1892 la famigerata tariffa Méline. Questa tariffa è stata dipinta come estremamente protezionistica, un “protezionismo raffinato”: essa conteneva elementi condivisi da partigiani del libero scambio. Una guerra tariffaria con l’Italia arrecò gravi danni al commercio francese, e ancora maggiori a quello italiano. L’Italia aveva seguito l’esempio tedesco nel ritorno al protezionismo, aveva deciso di discriminare in particolare le importazioni francesi. La mossa fu poco saggia, in quanto la Francia rappresentava per l’Italia il maggiore mercato estero. Il commercio tra i due paesi vicini crollò. Molti altri paesi seguirono l’esempio della Francia e della Germania innalzando i propri dazi come l’Austria-Ungheria, la Francia, la Russia e gli Stati Uniti. In questo generale ritorno al protezionismo resistettero alcune sacche di libero scambio e di queste la più notevole fu la Gran Bretagna. Sorsero dei movimenti politici che si battevano per un “commercio giusto” e una “preferenza imperiale”, tuttavia essi non riuscirono a mietere alcun successo fino alla Prima Guerra Mondiale. Il successo dei commercianti tedeschi sui mercati esteri ispirò alcuni provvedimenti di rappresaglia, tra cui il Merchandise Marks Act che imponeva di apporre sui prodotti esteri un’etichetta “made in Germany” in modo da dissuadere i consumatori britannici dall’acquistare un prodotto, ma in realtà accadde esattamente

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il contrario. I Paesi Bassi, il Belgio e la Danimarca conservarono una posizione liberoscambista. Quindi l’economia mondiale all’inizio del XX secolo era la più integrata e interdipendente di quanto fosse mai stata in precedenza o di quanto lo sarebbe stata fino a molto dopo la Seconda Guerra Mondiale.Il regime aureo internazionaleSecondo alcuni l’alto grado di integrazione raggiunto dall’economia mondiale nella seconda metà del XIX secolo dipese criticamente da un’adesione generale al regime aureo internazionale. Secondo altri questa integrazione fu prima di tutto una conseguenza del ruolo centrale della Gran Bretagna nell’economia mondiale. Nel corso della storia diverse merci (terra, bestiame, frumento) hanno svolto la funzione di standard monetario, ma la maggiore preminenza è sempre stata detenuta dall’oro e dall’argento. La funzione di uno standard monetario è di definire l’unità di conto di un sistema monetario, l’unità in cui tutte le altre forme di monetarie sono convertibili. Ad esempio nell’Inghilterra medievale la “lira sterlina” era definita come una libbra di argento puro. Tecnicamente l’Inghilterra conservò il regime argenteo fino alle guerre franco-napoleoniche, sebbene nel ‘600 e nel ‘700 le monete d’oro, le famose ghinee (prendevano il nome dalla Guinea, regione africana da cui proveniva l’oro) avessero rimpiazzato quelle d’argento nell’uso comune. Durante le guerre la Banca d’Inghilterra sospese il pagamento per cui il paese non aveva più alcuno standard monetario. Aveva una cartamoneta inconvertibile ovvero un “corso forzoso”. Dopo le guerre il Governo decise di ritornare ad uno standard metallico, ma scelse l’oro. L’unità di conto (standard di valore) fu la sovrana o sterlina d’oro, definita come 113,0016 grani di oro fino (puro). Secondo le disposizioni della legge dovevano essere osservate tre condizioni:• la zecca reale era obbligata a comprare e vendere quantità illimitate di oro a

prezzo fisso;• la Banca d’Inghilterra era tenuta a convertire a richiesta le sue passività monetarie

in oro;• nessuna restrizione poteva essere imposta sull’importazione e sull’esportazione di

oro.Ciò significava che l’oro serviva da base ultima o riserva dell’intera provvista monetaria della nazione. Il movimento di entrata e uscita dell’oro dal paese (in funzione della bilancia dei pagamenti) determinava fluttuazioni nella riserva totale di moneta, che a sua vota causava delle oscillazioni nella dinamica dei prezzi. Per un breve periodo la Francia cercò di creare un’alternativa al regime aureo internazionale nella forma dell’Unione Monetaria Latina. Sebbene in Francia vigesse nominalmente un regime bimetallico (oro e argento insieme) la scoperta dell’oro in California e in Australia causò un aumento del livello generale dei prezzi e una diminuzione del prezzo relativo dell’oro rispetto all’argento. La Francia passò ad uno standard argenteo e convinse il Belgio, la Svizzera e l’Italia a seguirla nel 1865. L’obiettivo era quello di mantenere stabili i prezzi. Successivamente aderirono all’unione la Spagna, la Serbia e la Romania. Pochi anni dopo con la scoperta di nuovi giacimenti di argento, i prezzi relativi dell’oro e dell’argento si modificarono in senso inverso, e le nazioni facenti parte dell’unione monetaria latina si trovarono sommerse dall’afflusso

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di argento a buon mercato. Esse limitarono i loro acquisti di argento per poi eliminarli del tutto, ritornando ad un regime aureo puro. La prima nazione ad adottare ufficialmente il regime aureo dopo la Gran Bretagna fu il nuovo Impero tedesco. Il Governo adottò una nuova unità di conto, il marco aureo, e istituì la Reichsbank come banca centrale e unica agenzia di emissione. Prima della Guerra Civile negli Stati Uniti vigeva tecnicamente un regime bimetallico. Durante la guerra sia il Nord che il Sud emisero moneta inconvertibile. La Russia aveva adottato nominalmente il regime argenteo per tutto il XIX secolo, ma in realtà aveva fatto ricorso a ingenti emissioni di cartamoneta inconvertibile. Nell’ultimo decennio del secolo il conte Witte (ministro delle finanze) decise che il paese doveva adottare il regime aureo, cosa che avvenne nel 1897. Quello stesso anno il Giappone, che aveva estorto all Cina un’enorme indennità dopo la guerra del 1895, usò il ricavato per creare una riserva aurea nella Banca del Giappone e per adottare il regime aureo.

Movimenti migratori e investimenti internazionaliL’emigrazione avvenne anche entro i confini europei, ma la sua dimensione più significativa fu quella transoceanica. La seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX secolo registrarono una massiccia emigrazione dall’Italia e dall’Europa orientale. Questo immenso fenomeno migratorio ebbe effetti benefici: alleggerì le pressioni demografiche nei paesi di provenienza degli emigranti, allentando la tendenza al ribasso dei salari reali, e fornì ai paesi ricchi di risorse ma poveri di manodopera un afflusso di lavoratori volenterosi a salari più elevati di quelli che avrebbero potuto ottenere nei loro paesi di origine. Attraverso legami umani e culturali si favorì l’integrazione dell’economia internazionale. L’esportazione di capitali rafforzò ulteriormente l’integrazione dell’economia internazionale. Le risorse disponibili per essere investite all’estero derivarono dal sensazionale aumento di ricchezza e del reddito provocato dall’applicazione delle nuove tecnologie. Ma l’investimento estero richiede risorse speciali generate dal commercio e dai pagamenti esteri. Esistono due principali categorie di fondi: quelli derivanti da una bilancia commerciale favorevole e quelli frutto di esportazioni “invisibili” (i servizi di spedizione, le rimesse degli emigrati e gli interessi ). Queste fonti possono operare in svariate combinazioni a seconda delle circostanze. La principale motivazione dell’investimento estero è l’aspettativa da parte dell’investitore di un saggio di profitto più elevato che in patria. I meccanismi dell’investimento estero consistono in una serie di strumenti istituzionali per il trasferimento di fondi da un paese all'altro: mercati dei cambi, delle azioni e dei titoli. La Gran Bretagna fu di gran lunga in testa negli investimenti esteri fino al 1914. A quest’ultima data gli investimenti esteri britannici ammontavano al 43% del totale mondiale. Questa situazione si era prodotta nonostante che per la maggior parte del secolo la Gran Bretagna avesse avuto una bilancia commerciale “sfavorevole” ossia avesse importato merci per un valore superiore alle esportazioni. Per la Gran Bretagna gli investimenti esteri furono resi possibili quasi esclusivamente dalle esportazioni invisibili. La Francia figurava al secondo posto in quanto a investimenti, ma l’inizio dell’Ottocento la vide indebitarsi con l’estero, soprattutto con Gran Bretagna e Olanda, per saldare le pesanti riparazioni imposte

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dagli alleati dopo la sconfitta da Napoleone. Nella prima metà del secolo gli investimenti francesi si volsero principalmente verso i vicini più prossimi, cioè all’acquisto di obbligazioni dei governi sia rivoluzionari che reazionari di Spagna, Portogallo e dei diversi stati italiani, in Svizzera, Austria e negli Stati tedeschi. Tra il 1851 e il 1880 gli investitori francesi si assunsero l’onere di costruire la rete ferroviaria di gran parte dell’Europa meridionale e orientale. Dopo l’alleanza franco-russa i Francesi investirono somme enormi nell’acquisto di titoli russi pubblici e privati. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, oltre un quarto di investimenti esteri francesi era concentrato in Russia. A differenza dei Britannici, i Francesi destinarono meno del 10% dei loro investimenti alle colonie. Il contributo francese allo sviluppo economico dell’Europa fu considerevole. La Germania si trasformò nel corso del secolo da debitore netto a creditore netto. All’inizio dell’Ottocento gli stati tedeschi avevano pochi debiti con l’estero e ancor meno crediti. Nei decenni centrali del secolo le province occidentali beneficiarono dell’afflusso di capitali francesi, belgi e britannici, vi fu un boom di eccedenze delle importazioni che fornirono i fondi con i quali la Germania fu in grado di ripagare i capitali esteri e di accumulare investimenti. Il governo tedesco cercò di avvalersi dell’investimento estero privato come di un’arma in politica estera. I paesi industrializzati minori dell’Europa occidentale - Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, le cui economie nel corso del secolo avevano beneficiato di investimenti esteri - erano divenuti alla fine del secolo creditori netti come la Germania. Fra i paesi beneficiari di investimenti esteri gli Stati Uniti erano di gran lunga il maggiore. I capitali esteri contribuirono alla costruzione di ferrovie, allo sfruttamento delle risorse minerarie e al finanziamento dei ranches degli allevatori. Dopo la Guerra Civile, gli investitori americani cominciarono ad acquistare obbligazioni estere e le società private americane cominciarono ad investire direttamente all’estero in una serie di operazioni industriali, commerciali ed agricole. In Europa il paese che beneficiò dei maggiori investimenti esteri fu la Russia. La rete ferroviaria russa fu costruita soprattutto con capitale estero, così come furono finanziati anche l’esercito e la flotta. La maggior parte dei paesi europei contrasse prestiti nel corso del XIX secolo. Le risorse derivanti dagli investimenti privati e dai prestiti governativi furono spesso impiegate con prodigalità e talora in maniera corrotta. Come nel caso degli investimenti in patria, anche un investimento estero, per contribuire allo sviluppo economico, deve generare un flusso di reddito sufficiente a pagare un tasso positivo di remunerazione del capitale e col tempo a rimborsare l’investimento originario. In contrasto con i miseri risultati prodotti da molti investimenti nell’Europa meridionale e orientale gran parte degli investimenti effettuati nei paesi scandinavi ripagò il capitale originario e rese un contributo positivo allo sviluppo delle rispettive economie. Gli investimenti in Danimarca, Svezia e Norvegia furono i maggiori del tempo. Anche l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada beneficiarono di ingenti investimenti esteri. La maggior parte dei fondi furono investiti in titoli pubblici (governativi) e confluirono nel finanziamento di beni capitale di utilità sociale (ferrovie, installazioni portuali, servizi pubblici) anche se in Australia e in Canada somme considerevoli furono investite in attivatà estrattive. Considerata la bassa densità della popolazione e

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l’ampia disponibilità di terre in tutti e tre i paesi, non è sorprendente che essi si specializzassero nella produzione di merci che richiedevano in proporzione poco lavoro per unità di terra, vale a dire della lana, in Australia e Nuova Zelanda e del frumento in Canada. Questi prodotti trovarono ampi sbocchi sui mercati europei, in particolare in Gran Bretagna. Svilupparono industrie di servizi e in qualche modo le manifatture, ma rimasero dipendenti dall’Europa per la maggior parte dei beni di consumo industriali e soprattutto dei beni capitale. Gli investimenti effettuati in America Latina e in Asia, benché considerevoli in cifra assoluta, furono molto inferiori se rapportati alla popolazione dei paesi destinatari in confronto a quelli nei paesi appena menzionati. In queste aree mancava un’analoga consistente quantità di capitale umano da mettere all’opera e le strutture istituzionali delle loro economie non erano propizie allo sviluppo economico. Il risultato principale degli investimenti esteri fu lo sviluppo di fonti di materie prime per le industrie europee, senza una trasformazione della struttura interna dell’economia. Un esame più dettagliato degli investimenti britannici in America Latina consentirà di comprendere meglio il significato degli investimenti esteri per i paesi meno sviluppati e per l’economia mondiale nel suo complesso. Gli investimenti totali della Gran Bretagna crebbero a circa 1200 milioni nel 1913. A questa data l’Argentina era il paese destinatario delle somme di gran lunga più consistenti, seguita dal Brasile, dal Messico, Cile, Uruguay, Cuba, Colombia. La maggior parte di questi fondi fu utilizzata nella costruzione di ferrovie e di altre infrastrutture. Anche la maggior parte degli investimenti esteri diretti nelle ferrovie, nei servizi pubblici, nelle istituzioni finanziarie, in iniziative commerciali e trovò impiego industriali. La produzione di beni per il consumo interno e per l’esportazione fu lasciata ai proprietari terrieri, ai contadini. I paesi latinoamericani scambiavano i loro prodotti primari con i manufatti europei ed americani e la maggior parte di loro cominciò a dipendere da poche beni di prima necessità: frumento, carne in Argentina, caffè e gomma in Brasile. Nitrati e rame in Cile.

La rinascita dell’imperialismo occidentaleGli sterminati continenti dell’Asia e dell’Africa parteciparono solo marginalmente all’espansione commerciale del XIX secolo, fino a quando non vi furono costretti dalla potenza militare dell’occidente.

AfricaLa colonia del Capo, all’estremità meridionale dell’Africa, era stata fondata dagli olandesi alla metà del XVII secolo come stazione di vettovagliamento per gli uomini della Compagnia delle Indie orientali. La Gran Bretagna la conquistò, le politiche britanniche (in particolare l’abolizione della schiavitù), irritarono i boeri o afrikaaner, discendenti dei coloni olandesi. Cominciarono nel 1835 la loro lunga marcia verso il Nord, dando vita a nuovi insediamenti, ma i conflitti continuarono per tutto il secolo. Oltre a combattere tra loro, entrambi i gruppi vennero spesso in urto con le tribù africane che furono sterminate e ridotte in schiavitù. Dapprima sia gli insediamenti boeri che quelli britannici ebbero carattere agrario, nel 1886 nel

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Transvaal fu scoperto l’oro. Questi avvenimenti contribuirono all’ascesa al potere di Rhodes, una delle personalità più’ influenti della storia africana, egli giunse in Africa nel 1870 e fece fortuna nelle miniere di diamanti. Rhodes divenne un ardente patrocinatore dell’espansione imperialistica. Nel 1880 entrò nel corpo legislativo della colonia del Capo e divenne in seguito primo ministro della colonia. Una delle sue maggiori ambizioni era la costruzione di una ferrovia “dal Capo al Cairo” tutta su territorio britannico. Il Presidente della Repubblica sudafricana Kruger rifiutò, Rhodes allora organizzò un complotto che fallì e fu costretto a dare le dimissioni. Nell’ottobre del 1899 ebbe inizio la guerra sudafricana o angloboera. I Britannici subirono dapprima diversi rovesci, poi invasero sia il Transvaal che lo Stato libero dell’Orange. Subito dopo il Governo britannico passò da una politica di repressione ad una di conciliazione. Nel 1910 l’Unione sudafricana divenne un dominio dell’Impero britannico. Prima del 1880 il solo possedimento europeo in Africa, se si escludevano il Sud Africa britannico era l’Algeria francese. Carlo V intraprese nel 1830 la conquista dell’Algeria, e in seguito i Francesi vi aggiunsero le conquiste fatte sulla costa occidentale dell’Africa. Alla fine del secolo avevano conquistato un territorio che battezzarono Africa occidentale francese. Nel 1912 completarono il loro impero nordafricano aggiungendovi un protettorato sulla maggior parte del Marocco. Nel frattempo importanti avvenimenti avevano luogo all’estremità orientale dell’Africa islamica. L’apertura del canale di Suez nel 1869 da parte di una società francese rivoluzionò il commercio mondiale e mise in pericolo la “linea di comunicazione vitale” della Gran Bretagna con l’India. L’obiettivo della politica estera britannica (assumere il controllo del canale) fu favorito dalle difficoltà finanziarie del kedivé (re) d’Egitto. Le ristrettezze finanziarie egiziane permisero verso la fine del 1875 a Benjamin Disraeli, primo ministro britannico, di acquistare per conto del governo del suo paese le azioni del kedivé nella compagnia del canale. Il risentimento egiziano per la dominazione straniera sfociò in vaste ribellioni, e per ristabilire l’ordine i britannici bombardarono Alessandria e inviarono un corpo di spedizione. Il liberale Gladstone assicurò gli Egiziani che l’occupazione sarebbe stata temporanea, i Britannici ereditarono dal Governo del kedivé la conquista incompleta del Sudan. Perseguendo questo obiettivo i Britannici si trovarono faccia a faccia con i Francesi che si stavano espandendo verso oriente. Le truppe rivali si fronteggiarono a Fashoda ma precipitosi negoziati scongiurarono un conflitto vero e proprio. All fine i Francesi si ritirarono. Uno ad uno gli Stati della costa nordafricana nominalmente vassalli del sultano turco erano stati strappati a quest’ultimo. Rimaneva solo Tripoli. Nel 1911 l’Italia prese a pretesto un contrasto con la Turchia che terminò con l’annessione di Tripoli all’Italia. L’Africa centrale fu l’ultima area del continente nero ad aprirsi alla penetrazione occidentale, la scoperta dei diamanti in Sud Africa stimolò le esplorazioni nella speranza di scoperte analoghe in Africa centrale. L’improvvisa corsa ai territori suscitò delle frizioni che avrebbero potuto condurre alla guerra. Per scongiurare questa possibilità Bismark e Jules Ferry (primo ministro francese) convocarono a Berlino nel 1884 una conferenza internazionale sugli affari africani. Le risoluzioni prese furono: abolizione del commercio degli schiavi e della schiavitù, il riconoscimento dello stato libero del Congo con a capo

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Leopoldo del Belgio e la regola secondo cui un paese doveva effettivamente occupare un territorio perché le sue pretese su di esso fossero riconosciute. Alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale solo l’Etiopia e la Liberia conservavano la loro indipendenza.

AsiaLa decadenza interna aveva seriamente indebolito la dinastia Manciù, che aveva governato la Cina dalla metà del XVII secolo. Ciò diede agli europei opportunità di guadagnare con la forza l’accesso all’Impero. Il té e le sete cinesi avevano un ampio mercato in Europa ma un vero cambiamento vi fu quando scoprirono che i Cinesi avevano una spiccata predilezione per l’oppio. Il Governo cinese ne proibì l’importazione, ma il commercio prosperò per mezzo dei contrabbandieri e di doganieri corrotti. Cominciò così la Guerra dell’Oppio (1839-42) che terminò con l’imposizione della trattato di Nanchino. La Cina dovette consegnare agli Inglesi l’isola di Hong Kong, accettare di aprire altri cinque porti al commercio sotto supervisione consolare, fissare un dazio uniforme del 5% sulle importazioni e pagare un’indennità. Il commercio dell’oppio proseguì. La facilità con cui i Britannici ebbero la meglio sui Cinesi incoraggiò altri paesi a richiedere trattati ugualmente favorevoli. Le concessioni agli stranieri suscitarono nuovi episodi di violenze e illegalità xenofobe, che a loro volta portarono a ulteriori rappresaglie da parte degli stranieri e a ulteriori concessioni. Le continue umiliazioni portarono ad un ultimo scoppio di violenza xenofoba nota come rivolta dei Boxer (1900-01); boxer era l’appellativo popolare dato ai membri della società segreta dei “pugni di giustizia e di concordia” il cui obiettivo era di cacciare tutti gli stranieri dalla Cina. Sollevatisi in diverse parti del paese essi attaccarono i Cinesi che si erano convertiti al cristianesimo. I primi tentativi Britannici di occupare Pechino furono respinti ma alla fine l’impero cinese decadde. Nel XIX secolo la Corea era un regno semiautonomo nominalmente sotto il dominio cinese, anche se i Giapponesi da lungo tempo avevano avanzato delle rivendicazioni. Guerra tra Cina e Giappone conclusasi con l’annessione della Corea al Giappone nel 1910. L’Indocina è una vasta penisola dell’Asia sudorientale la cui cultura è una miscela di civiltà classica indiana e cinese. I Britannici assunsero il controllo della Birmania e degli Stati malesi, ma alla fine i Francesi occuparono tutta la regione. La Tailandia ebbe la fortuna di rimanere uno Stato indipendente, dovette la sua indipendenza ad una successione di re abili e alla sua posizione di cuscinetto tra le sfere d’influenza francese e britannica.

Spiegazioni dell’imperialismoLe cause dell’imperialismo furono molte e complesse, non esiste un’unica teoria. Una delle spiegazioni più popolari dell’imperialismo moderno parla di necessità economica. Si parla di “imperialismo economico” dato che:• la concorrenza nel mondo capitalistico si intensifica, determinando la costituzione

di grandi imprese e l’eliminazione delle piccole;• il capitale si accumula sempre più velocemente nelle grandi imprese, e poiché il

potere d’acquisto delle masse è insufficiente ad acquistare tutti i prodotti della pag. 67

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grande industria, il saggio di profitto diminuisce;• man mano che il capitale si accumula e la produzione delle industrie capitalistiche

rimane invenduta, i capitalisti ricorrono all’imperialismo per ottenere il controllo politico su aree nelle quali possono investire i capitali e vendere i prodotti in eccedenza.

E’ questa nelle linee essenziali la teoria marxista dell’imperialismo, o più precisamente la teoria leninista in quanto Marx non previde il rapido sviluppo dell’imperialismo. Lenin pubblicò la sua teoria nel 1915 ne L’imperialismo fase suprema del capitalismo. Lenin attinse in misura notevole da Hobson, critico liberale britannico, che a sua volta aveva adottato molte delle argomentazioni dei sostenitori dell’imperialismo. Uno di questi fu il capitano Mahan il cui motto era “il commercio segue la bandiera”. Ferry fu il principale responsabile delle maggiori conquiste francesi. I sostenitori dell’imperialismo affermavano che le colonie oltre ad offrire nuovi mercati e a costituire uno sbocco alle eccedenze di capitali, avrebbero assicurato nuove fonti di materie prime e assorbito la popolazione in rapida crescita delle nazioni industriali. Che le colonie potessero servire da sbocco per l’eccesso di popolazione era un argomento erroneo. Le colonie erano situate infatti soprattutto in posti con climi oppressivi per gli Europei. E’ vero che in qualche caso le colonie assicuravano nuove fonti di materie prime, ma l’accesso a queste ultime non richiedeva un controllo politico. Altrettanto fallace era la giustificazione delle colonie come mercati per i prodotti manifatturieri in eccesso. Le colonie infatti non erano necessarie a questo scopo ne furono usate in tal senso dopo la conquista, le colonie avevano popolazioni troppo sparse e troppo povere per fungere da grossi mercati, inoltre il controllo politico non era necessario. La spiegazione più importante dell’imperialismo come fenomeno economico è forse quella che accenna all’investimento di capitali in eccesso, almeno secondo la teoria marxista. Una grossa responsabilità va attribuita ad un mero opportunismo politico, combinato con un crescente e aggressivo nazionalismo. La politica di potenza e l’opportunità militare svolsero un ruolo altrettanto importante. Il clima intellettuale del tardo XIX secolo, con forti coloriture di darwinismo sociale, era propizio all’espansione europea e ci fa capire come l’imperialismo debba essere visto anche come fenomeno psicologico e culturale oltre che politico ed economico.

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CAPITOLO XIISETTORI STRATEGICI

AgricolturaUno dei più profondi mutamenti strutturali dell’economia verificatosi nel XIX secolo fu la diminuzione del peso relativo del settore agricolo, ciò non vuol dire che l’agricoltura cessò d’essere importante, anzi è vero il contrario. Un incremento della produttività agricola può contribuire allo sviluppo economico complessivo in 5 modi potenziali:1. Il settore agricolo può sostentare un’eccedenza di popolazione in grado di

dedicarsi ad occupazioni non agricole;2. Il settore agricolo può fornire commestibili e materie prime sufficienti a

sostentare la popolazione non agricola;3. La popolazione agricola può rappresentare un mercato per la produzione delle

industrie manifatturiere e dei servizi;4. Attraverso investimenti volontari o l’imposizione fiscale, il settore agricolo può

fornire capitali da investire al di fuori dell’agricoltura;5. Attraverso le esportazioni di prodotti agricoli, il settore agricolo può far affluire la

valuta estera indispensabile agli altri settori per acquistare le quantità necessarie di beni capitale o di materie prime non disponibili in patria.

All’inizio dell’Ottocento l’agricoltura britannica era già la più produttiva d’Europa. La popolazione agricola offriva da tempo un’eccedenza che poteva essere utilizzata per attività non agricole. Analogamente, l’agricoltura britannica soddisfaceva gran parte della domanda nazionale di derrate alimentari e d’alcune materie prime, come la lana, l’orzo e il luppolo per l’industria della birra. Nella prima metà del XVIII secolo essa aveva prodotto persino un surplus di cereali per l’esportazione. Il periodo tra la metà degli anni quaranta e la metà dei settanta fu anzi la grande età dell’agricoltura: l’agricoltura britannica raggiunse, contemporaneamente all’industria, il suo massimo relativo. I miglioramenti tecnici fecero aumentare la produttività in misura addirittura superiore all’introduzione della coltura a rotazione e delle tecniche a lei associate. La ricchezza prodotta dalla terra contribuì in modo considerevole alla creazione di capitale sociale: canali e strade a pedaggio nel Settecento, ferrovie nell’Ottocento. Nel complesso l’agricoltura britannica svolse un ruolo di primo piano nell’affermazione

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dell’industria britannica. Il ruolo dell’agricoltura sul continente fu diverso da quello che essa ebbe in Gran Bretagna e variò da regione a regione. La riforma agraria fu spesso un presupposto di miglioramenti sostanziali della produttività. Il movimento delle recinzioni in Inghilterra può essere considerato un tipo di riforma agraria. Una riforma fondiaria di tipo differente fu quella della rivoluzione francese, che abolì l’ancien régime e confermò ai piccoli proprietari indipendenti il possesso delle loro piccole fattorie. Riforme simili a quella francese furono imposte in alcuni territori occupati dai francesi, come il Belgio e la riva sinistra del Reno. Le riforme prussiane dell’anno 1870 obbligarono i servi a cedere gran parte della terra da essi precedentemente coltivata ai vecchi padroni. La Svezia e la Danimarca abolirono il servaggio nelle seconda metà del XVIII secolo. Nella monarchia asburgica Giuseppe II tentò negli anni ottanta del XVIII secolo di alleviare il fardello che gravava sulla classe contadina, con risultati deludenti: la piena emancipazione dovette attendere la rivoluzione del 1848. In Spagna e in Italia, i tiepidi tentativi di riforma agraria entrarono in collisione con le necessità finanziarie dei Governi. Gli Stati balcanici, che avevano ereditato il loro assetto fondiario dal periodo di dominazione turca, non fecero seri tentativi di cambiarlo. La piccola proprietà contadina caratterizzava la Serbia e la Bulgaria. In Grecia e in Romania pur non mancando una classe di piccoli proprietari contadini, esistevano anche grandi proprietà coltivate da fittavoli. La Russia imperiale si distinse per la realizzazione di due tipi molto differenti di riforma agraria. L’emancipazione dei servi, decretata con riluttanza nel 1861 in seguito alla sconfitta nella guerra di Crimea, non mutò alla base la struttura dell’agricoltura russa. Gli ex servi pur essendo stati liberati dai loro padroni, appartenevano ora alla comune contadina, il mir; per lasciarla erano tenuti a munirsi di uno speciale passaporto, ma anche in caso di partenza essi erano tenuti al pagamento della loro quota d’imposta e di rate di riscatto. In tale circostanze non può sorprendere il fatto che la produttività rimanesse bassa e che si moltiplicassero le agitazioni contadine. Sull’onda della rivoluzione del 1905-06, il Governo abolì i residui pagamenti di riscatto e approvò la cosiddetta riforma Stolypin (dal nome del ministro che l’aveva ideata), che favoriva la proprietà privata della terra e il consolidamento delle strisce in appezzamenti compatti. Questa fece sì che la produttività dell’agricoltura russa cominciasse a crescere; il paese fu però ben presto travolto dalla guerra e dalla rivoluzione. I risultati conseguiti nella rivoluzione francese sono altrettanto contraddittori e paradossali di quelli dell’industria francese. Patria classica della piccola proprietà contadina, frequentemente accusata di essere orientata alla sussistenza e tecnicamente arretrata, nondimeno la Francia possedeva anche molte aziende agricole moderne. Nel 1882, periodo in cui il morcellement (il frazionamento delle proprietà) era al culmine. Queste prospere aziende agricole producevano un’eccedenza commerciabile sufficiente a sostentare la crescente popolazione urbana. Inoltre, nonostante il leggendario attaccamento del contadino francese al suolo, oltre 5 milioni di persone abbandonarono l’agricoltura per altri impieghi. Sembra che una parte dei risparmi accumulati in agricoltura trovasse sbocco in investimenti industriali, o nella realizzazione d’infrastrutture. Infine, l’industria vinicola era una delle voci principali

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delle esportazioni. In Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera l’agricoltura era da tempo orientata al mercato. La produttività di questi tre paesi era ai livelli più alti d’Europa. Una gran varietà caratterizzava la condizione dell’agricoltura nei vari stati tedeschi. A sud-ovest erano numerosi i piccoli proprietari contadini sul genere francese. L’emancipazione dei Servi in Prussia in seguito all’editto del 1807 non causò grandi cambiamenti. Con la crescita graduale della popolazione e il rapido aumento della domanda di lavoro e la popolazione fu ridistribuita da oriente ad occidente. La forza lavoro agricola continuò a crescere. L’agricoltura contribuì in misura considerevole allo sviluppo economico sia della Danimarca che della Svezia, ma non della Norvegia. In tutti questi paesi il settore primario assicurò sia la quasi totalità dell’approvvigionamento alimentare che l’accresciuta disponibilità di manodopera per altri settori. Il settore primario rappresentò inoltre un mercato per l’industria nazionale e contribuì, per lo meno in Svezia, dove le ferrovie furono costruite dallo Stato, all’accumulazione di capitali attraverso l’imposizione fiscale. Il modo più spettacolare in cui i settori primari dei paesi scandinavi contribuirono allo sviluppo economico nazionale fu comunque attraverso le esportazioni. Ridottosi il commercio d’avena, la Svezia cominciò ad esportare carne e latticini. Il legname era una voce importante anche per le esportazioni norvegesi superato però dall’industria della pesca. La Finlandia, sottoposta allo zar di Russia come granducato, viene talvolta accomunata ai paesi scandinavi. A differenza di questi ultimi, però, essa non registrò alcun mutamento strutturale significativo nel corso del XIX secolo. Rimase un paese prevalentemente agricolo, con un’agricoltura poco produttiva e bassi redditi medi. La voce più importante nelle sue esportazioni era il legname. La monarchia asburgica era contrassegnata, come la Germania, da varianti regionali. La popolazione contadina rappresentava un mercato consistente, se non dinamico, per i tessili ed altri beni di consumo. La metà ungherese dell’Impero esportava prodotti agricoli, in particolare frumento e farina. Il fallimento dell’Impero nel suo complesso nello sviluppo d’esportazioni agricole consistenti può essere attribuito essenzialmente a due fattori: le difficoltà di trasporto e il fatto che il mercato interno assorbiva gran parte della produzione. La Spagna, il Portogallo e l’Italia non beneficiarono nel XIX secolo di una vera e propria riforma agraria. La popolazione non poteva rappresentare, in tali condizioni, un ricco mercato per l’industria, né rifornirla di capitali. I piccoli paesi dell’Europa sud-orientale rimasero impantanati, in misura ancora maggiore rispetto a quelli del Mediterraneo, in una agricoltura arretrata e improduttiva, che non apriva mercati all’industria né assicurava un’eccedenza di generi alimentari, materie prime o lavoro per i mercati urbani. Anche la Russia imperiale rimaneva, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, a gran prevalenza rurale e agraria. L’agricoltura svolgeva in Russia un ruolo piuttosto differente. Pur nella sua arretratezza, l’agricoltura russa era in grado di sostentare il popolo russo e di fornire un’eccedenza esportabile, fatto che si rivelò d’importanza determinante per la spinta all’industrializzazione. La Russia stava seguendo una traiettoria di sviluppo economico simile a quella percorsa dalle nazioni dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti. L’agricoltura svolse un ruolo dinamico nel processo dì industrializzazione statunitense e nell’ascesa degli Stati Uniti; forniva in abbondanza non solo i

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commestibili e le materie prime necessari alla popolazione non agricola, ma anche la maggior parte delle esportazioni statunitensi. Le colonie meridionali mandavano in Europa tabacco, riso e indaco. Il New England e le colonie centrali scambiavano pesce, farina ed altri generi commestibili. Nella prima metà del XIX secolo il cotone divenne il “re” delle esportazioni. Dopo la Guerra Civile, con l’apertura per mezzo delle ferrovie delle regioni occidentali oltre il Mississippi e il crollo dei noli di trasporto transoceanici, mais e frumento divennero le voci più importanti delle esportazioni. L’agricoltura americana fu orientata al mercato fin dall’inizio; nonostante esistessero casi di produzione domestica, gli agricoltori americani si rivolsero ben presto ad artigiani rurali e piccole industrie per gli utensili e gli altri manufatti. Prima della fine del secolo varie ditte di vendite per corrispondenza quali la Sears Roebuck e la Montgomery Ward scoprirono i vantaggi derivanti dalla fornitura alla popolazione rurale di beni di consumo standardizzati e prodotti in grandi quantità. Il rapido incremento naturale della popolazione rurale, fornì anche la forza lavoro necessaria per gli impieghi non agricoli. Questa fonte di manodopera fu integrata soprattutto a partire dagli anni ottanta, da emigranti provenienti dall’Europa. Anche il settore agricolo dell’economia americana contribuì in maniera molto positiva alla trasformazione industriale degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti non si verificò alcuna riforma agraria di stile europeo; l’economia agricola beneficiò tuttavia della straordinaria opera di stimolo rappresentata dal trasferimento del demanio pubblico. Dopo la guerra rivoluzionaria, il Governo federale ottenne la proprietà di gran parte delle regioni al di là degli Appalachi e l’acquisto della Louisiana. Forse in nessun altro paese l’agricoltura svolse un ruolo così vitale nel processo di industrializzazione quanto in Giappone. L’agricoltura giapponese a dispetto della scarsità di terra arabile, fu in grado di sostentare la popolazione per gran parte del periodo prebellico e di fornire la maggior parte delle esportazioni giapponesi. Attraverso la tassa sulla terra del 1873, l’agricoltura finanziò la maggior parte delle spese governative e di conseguenza una parte dell’accumulazione di capitali. Nonostante la loro povertà i contadini giapponesi rappresentavano il mercato più ampio per l’industria nel loro paese.

Banche e finanzaIl processo di industrializzazione del XIX secolo fu accompagnato da una proliferazione di banche ed altre istituzioni finanziarie necessarie ad assicurare i servizi finanziari richiesti da un meccanismo economico considerevolmente cresciuto e sempre più complesso. Tra le possibili forme di interazione tra settore finanziario ed altri settori dell’economia che richiedono i servizi, si possono isolare 3 casi fondamentali: • quello in cui il settore finanziario svolge un ruolo positivo, propizio alla crescita;• quello in cui esso è fondamentalmente neutrale o meramente permissivo; • quello in cui un sistema finanziario inadeguato limita od ostacola lo sviluppo

industriale e commerciale. All’inizio del XIX secolo la Banca d’Inghilterra era ancora in possesso del suo monopolio nel settore delle banche a capitale azionario. Dopo una crisi

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particolarmente grave, il Parlamento emendò la legge per permettere ad altre banche di adottare la forma di società per azioni purché non emettessero cartamoneta; pochi anni dopo il Parlamento approvò il Bank Act del 1844, che modellò la struttura del sistema bancario britannico fino alla Prima Guerra Mondiale e oltre. In base alla legge sulle banche del 1844 la Banca d’Inghilterra cedeva il suo monopolio come banca a capitale azionario in cambio del monopolio dell’emissione di cartamoneta, divenne però sempre di più la banca delle banche, e alla fine del secolo aveva assunto tutte le funzioni di una banca centrale. Accanto alla Banca d’Inghilterra, il sistema bancario britannico prevedeva una serie di banche commerciali a capitale azionario che accettavano depositi dal pubblico e prestavano denaro a imprese commerciali, generalmente a breve termine. Il numero di queste banche crebbe rapidamente, sia a Londra che nell’intero paese. Altra caratteristica del sistema bancario britannico era l’esistenza a Londra di banche di affari private. Con la loro attività di basso profilo, queste imprese private si dedicavano soprattutto a finanziare gli scambi internazionali e al commercio di valuta. Quest’istituzione era specializzata quasi esclusivamente in investimenti esteri, e lasciava alle borse principali la funzione di raccogliere capitali per le imprese nazionali. La Gran Bretagna possedeva molte altre istituzioni finanziarie: casse di risparmio, società di finanziamento per l’acquisto o la costruzione di abitazioni, società di mutuo soccorso e così via.Il sistema bancario francese era dominato, come quello inglese, da un istituto di ispirazione politica i cui affari si svolgevano soprattutto col Governo, vale a dire la Banca di Francia. Creata da Napoleone nel 1800, essa acquistò ben presto il monopolio dell’emissione di cartamoneta ed altri speciali privilegi. Per un breve periodo sotto Napoleone, essa ebbe un certo numero di filiali in città di provincia, essa divenne la Banca di Parigi. Fino al 1848 la Francia non possedette altre banche a capitale azionario e niente che equivalesse alle banche di provincia inglesi. Il suo sistema bancario era in effetti meno sviluppato del necessario, in quanto i notai principali che svolgevano alcune funzioni di intermediazione non potevano supplire alla carenza di banche. Diversi imprenditori diedero vita a Parigi negli anni 30 e 40 a banche in commandite. La Francia aveva comunque, nella prima metà del XIX secolo, un’altra importante istituzione finanziaria, la haute banque parisienne, banche d’affari simili a quelle londinesi, tra cui spiccava la De Rothschild fréres, fondata da James de Rothschild, figlio di un ebreo di corte tedesco del XVIII secolo. Aveva fondato in epoca napoleonica filiali della banca di famiglia, oltre che a Londra e a Parigi, anche a Francoforte, Vienna e Napoli. Come a Londra, la principale attività di queste banche private erano il finanziamento degli scambi internazionali e il commercio di valuta e lingotti, ma dopo le guerre napoleoniche cominciarono a sottoscrivere prestiti governativi ed altre obbligazioni, quali i titoli delle società costruttrici di canali e ferrovie. Dopo il colpo di stato del 1851 e la proclamazione del Secondo impero l’anno seguente, Napoleone III cercò di ridurre la dipendenza del governo dai Rothschild e dagli altri esponenti della haute banque con la creazione di nuovi istituti finanziari. Trovò volenterosi collaboratori nelle persone dei fratelli Emile e Isaac Pereire, con la benedizione dell’Imperatore essi fondarono nel 1852 la Société générale de crédit fondier, un istituto di credito fondiario, e la Société générale de crédit mobilier, una

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banca d’investimento specializzata nel finanziamento di costruzioni ferroviarie. In seguito il Governo autorizzò la costituzione di altre banche a capitale azionario. Il sistema bancario francese della prima metà del XIX secolo non riuscì a realizzare tutto il suo potenziale di stimolo dello sviluppo economico; nella seconda metà del secolo il suo carattere fu un po’ più intraprendente ma senza eguagliare quello belga o quello tedesco.L’aspetto distintivo del sistema finanziario tedesco, fu la banca “universale” o “mista” per azioni, impegnata sia in attività di credito commerciale a breve termine che in investimenti a lungo termine o in attività bancarie di promozione. Chiamate Kreditbanken: esse ripresero ed estesero le iniziative promotrici dei banchieri privati. Il primo esempio consapevole del nuovo tipo di banca fu la Bank fur Handel. I suoi promotori avevano progettato di stabilirsi in quella città ma avevano ricevuto il rifiuto del Governo. In seguito avevano provato nell’importante centro finanziario di Francoforte, ma erano stati respinti anche dal Senato della città libera, dominato da potenti banchieri privati locali. Il Governo del Granducato si rivelò + disposto a cooperare. La nuova banca seguì il modello del Crédit mobilier. Di fronte al rifiuto del Governo prussiano di autorizzare statuti di società per azioni per le banche, alcuni ambiziosi promotori ricorsero alla società simile alla francese société en commadite, che non richiedeva l’autorizzazione da parte del Governo. Ne nacquero parecchie nel corso degli anni 50 e 60. La legge e l’euforia indotta dalla vittoria prussiana sulla Francia nel 1870 portò alla fondazione di oltre 100 nuove Kreditbanken. La depressione che seguì ne eliminò la maggior parte, le più deboli e quelle più orientate alla speculazione; poi un processo di concentrazione e fusione, simile a quello che si verificò in Gran Bretagna, portò una decina di banche ognuna con una rete di filiali ed affiliate. Le più famose furono le “banche-D”, ciascuna con un capitale superiore ai 100 milioni di marchi e con sede a Berlino. Esse non solo provvidero alle necessità dell’industria tedesca, ma facilitarono l’allargamento del commercio estero tedesco fornendo credito agli esportatori e ai commercianti stranieri. La struttura finanziaria tedesca fu completata da un’altra importante innovazione istituzionale, la Reichsbank. Anch’essa fu in parte una conseguenza della vittoria prussiana sulla Francia e dell’enorme indennità che questa fruttò ed era una semplice trasformazione della Banca di Stato prussiana, godeva del monopolio dell’emissione di cartamoneta e agiva come banca centrale. Lo sviluppo del sistema bancario tedesco nella seconda metà dell’Ottocento fu una delle più straordinarie concomitanze del rapido processo di industrializzazione, furono molteplici gli elementi che contribuirono all’affermazione dell’industria tedesca, e quello stesso successo contribuì a sua volta al successo e alla prosperità del sistema bancario. All’inizio del XX secolo il sistema bancario tedesco era probabilmente il più potente al mondo.Negli Stati Uniti il sistema bancario ebbe nel XIX secolo una evoluzione variegata. Nei primi anni della repubblica il conflitto tra hamiltoniani, che propugnavano un ruolo forte del governo federale, e i jeffersoniani, che preferivano lasciare le scelte politiche ai singoli Stati, si riflesse in modo evidente nella storia del sistema bancario. Ebbero dapprima la meglio gli hamiltoniani, che strapparono al Congresso lo statuto

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della prima banca degli Stati Uniti; alla scadenza della statuto, però i sostenitori dei diritti degli Stati e delle banche statali, già numerosi e sospettosi di istituti di maggiori dimensioni, ne impedirono il rinnovo. Una seconda Banca degli Stati Uniti dovette sopportare la stessa sorte. Alcuni stati ammettevano una “libera attività bancaria”, altri gestivano banche di proprietà statale, altri ancora cercarono di proibire del tutto le banche. Durante la Guerra Civile il Congresso istituì il National Banking System, che permetteva l’esistenza di banche federali a fianco delle banche statali. La concorrenza era sleale, in quanto il Congresso aveva imposto una tassa discriminatoria sull’emissione di banconote da parte delle banche statali, cosa che costrinse molte di esse a trasformarsi in banche nazionali. Sia il sistema bancario statale che quello federale subivano le conseguenze negative dell’eccessivo rigore delle leggi e dei regolamenti. L’istituzione di filiali era generalmente proibita. Le banche non potevano occuparsi di finanza internazionale, ciò significava che l’ingente volume di importazioni ed esportazioni del paese era finanziato dall’Europa e dal numero relativamente modesto di banche d’affari private, che non erano ostacolate dalle restrizioni che colpivano le banche a capitale azionario. Alcuni ritenevano inoltre che l’assenza di una banca centrale esponesse maggiormente il paese al panico finanziario e alle depressioni che si verificavano con periodicità. Per porre rimedio a questo problema, nel 1913 il Congresso istituì il Federal Reserve System che alleggerì le banche nazionali del compito di emettere banconote e diede loro la libertà di occuparsi di finanza internazionale.

Il ruolo dello StatoIl mito del laissez-faire significa che lo Stato oltre a promulgare e a far rispettare le leggi penali, si astiene da ogni interferenza nell’economia, secondo il concetto marxista il Governo agisce da “comitato esecutivo” della classe dominante, la borghesia. La funzione fondamentale del Governo nella sfera economica è la determinazione del contesto legale dell’iniziativa economica. La tipologia d’intervento dello Stato nell’economia comprende le attività di promozione non immediatamente produttive. Esse includono i dazi, le esenzioni fiscali, i rimborsi e i sussidi, nonché i provvedimenti di apertura di uffici turistici e di immigrazione, non tutte le attività che ricadono in questa categoria sono necessariamente favorevoli alla crescita. Simili sono le funzioni di regolamentazione, che vanno dai provvedimenti volti a proteggere la salute e la sicurezza di specifici gruppi di lavoratori al controllo dettagliato dei prezzi, dei salari, della produzione. Lo scopo di queste norme può essere quello di favorire la crescita, ma più spesso l’obiettivo non è in rapporto con la crescita, e l’intenzione è di eliminare le ingiustizie e lo sfruttamento, in quest’ultimo caso l’effetto può essere quello di ritardare la crescita. Lo Stato si può impegnare in attività direttamente produttive, che possono andare da iniziative benevoli come la fornitura di servizi educativi all’assunzione totale da parte dello stato della proprietà e del controllo di tutte le risorse produttive. La Gran Bretagna è considerata la patria del laissez-faire, o del minimo intervento dello Stato nell’economia. Il peso del settore pubblico nel Regno Unito era probabilmente rappresentativo dell’intera Europa. La maggioranza delle persone dà per scontato che una delle funzioni dello stato sia

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quello di consegnare la posta. Prima del XIX secolo il servizio postale privato era coesistito con un servizio pubblico incompetente e inefficiente. Il servizio postale moderno ebbe inizio nel 1840, quando il direttore generale delle poste del Regno Unito introdusse il servizio postale prepagato con la tariffa unica di un penny. In pochi anni sistemi simili furono adottati dalla maggioranza delle nazioni occidentali. Gran parte dei paesi continentali seguì l’esempio britannico, mentre negli Stati Uniti sia il telegrafo che il telefono furono lasciati all’iniziativa privata. Un esempio del tutto insolito di impresa privata fu la Compagnia delle Indie orientali. Fondata nel XVII secolo come società esclusivamente commerciale, all’inizio dell’Ottocento era divenuta padrona dell’India, “uno stato nello stato”. Dopo la rivolta dei sepoys del 1857, l’opinione pubblica divenne consapevole di quest’anomalia e pretese lo scioglimento della Compagnia. In nessun settore la Gran Bretagna era in maggior ritardo rispetto agli altri paesi occidentali che nel pubblico sostegno all’istruzione. La Scozia, invece, possedeva quattro antiche Università aperte a tutti i richiedenti diplomati.I paesi del continente avevano per la maggior parte una lunga tradizione di paternalismo statale o étatisme. In diversi di essi lo Stato era proprietario di foreste, miniere e persino di imprese industriali, i francesi avevano le loro manufactures royales che fabbricavano porcellana, cristalli, tappezzerie. Nel XVIII secolo i Governi incoraggiarono i tentativi di appropriarsi della tecnologia britannica con lo spionaggio o con altri mezzi. Un esempio ancora più vistoso è quello offerto dall’industria estrattiva della Ruhr. In Prussia, come in Francia e in diversi altri paesi, l’attività estrattiva, persino nelle miniere private, doveva essere svolta sotto la supervisione di ingegneri del Regio Corpo delle miniere. Questa modalità era definita principio di direzione e si dimostrò sufficiente nella Ruhr fin quando l’attività estrattiva rimase confinata ai giacimenti relativamente superficiali della valle della Ruhr. Le nuove miniere richiedevano capitali maggiori per i pozzi più profondi, le pompe a vapore e altre attrezzature estrattive. Le società minerarie, amministrate in qualche caso da imprenditori francesi, belgi e britannici, intrapresero una lunga logorante battaglia con le autorità prussiane, che ebbe finalmente termine nel 1865 con l’introduzione del principio di ispezione in base al quale gli ingegneri statali si limitavano ad ispezionare le miniere per motivi di sicurezza. Il rapido sviluppo della tecnologia dei trasporti comportò il coinvolgimento di tutti i governi. I britannici, fedeli alla loro tradizione di minima ingerenza, fecero il meno possibile, lasciando la promozione, la costruzione e la maggior parte dei dettagli gestionali all’iniziativa privata. Negli altri paesi i Governi mostrarono un interesse molto maggiore per le ferrovie. Negli anni ‘30 del XIX secolo lo Stato belga intraprese la costruzione e la conduzione per proprio conto di una rete ferroviaria di base. Dopo il suo completamento, esso permise a società private di costruire delle diramazioni. La politica ferroviaria dell’Impero austro-ungarico oscillò, come quella russa, da una tendenza iniziale favorevole alla proprietà e alla gestione statali si passò ad una preferenza per le società private. Se l’Ottocento sembra un secolo in cui lo Stato fu meno invadente che nei secoli precedenti, ciò non significa che esso non svolse alcun ruolo.

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CAPITOLO XIIIPANORAMA DELL’ECONOMIA MONDIALE NEL VENTESIMO SECOLO

L’economia del XX secolo, assunse dimensioni enormi e senza precedenti, influenti in maniera particolare sulla dinamica della popolazione.

PopolazioneAlla fine della Seconda Guerra Mondiale, si assistette ad una crescita demografica, più lenta in Europa e più dinamica nel resto del mondo. Tale fenomeno fu in parte da attribuire alla diminuzione del tasso di mortalità. Una delle conseguenze della diminuzione del tasso di mortalità, è da attribuirsi al rapido incremento della durata media della vita. La speranza di vita cresce laddove vi sono redditi medi elevati, la popolazione è meglio nutrita, e gode di una migliore assistenza medica di quella appartenente a paesi con redditi sensibilmente inferiori. Secondo Foegel, nel XX secolo, è stata importante la stretta correlazione tra la diminuita mortalità infantile, il maggior input di lavoro e la crescita del prodotto procapite. Nel corso del XX secolo continuò quel processo di urbanizzazione del XIX secolo dell’Europa.Al contrario nei paesi del terzo mondo, la produttività ed i redditi furono alquanto bassi, e la disoccupazione dilagava su più fronti. La repentina crescita ha sottoposto paesi come quelli dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa, a pressioni non tollerabili. La crescita delle città è stata in primo luogo determinata dall’emigrazione interna, come la popolazione in più delle zone rurali e delle città di provincia che inseguiva le più ampie opportunità delle città.Si associa a questi fattori, l’emigrazione internazionale, motivata ancor di più nel XX secolo per l’oppressione politica in conseguenza di guerre e rivoluzioni. Nel XIX

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secolo l’Europa dopo aver visto il suo spopolamento, vide un’inversione di tendenza nel XX secolo. Poiché essa divenne l’asilo per rifugiati politici ed una terra di opportunità per le masse impoverite dell’Europa mediterranea, del Nord Africa e di parte del Medio Oriente.Il fenomeno dell’immigrazione in Europa, iniziò nel 1914, sui postumi della rivoluzione russa, che vide molti sudditi dello Zar recarsi in Francia anziché rimanere sotto il regime sovietico. Il fenomeno aumentò a dismisura dopo la Seconda Guerra Mondiale e con la ridefinizione dei confini orientali. L’immigrazione in Germania provocò inizialmente un periodo difficile, ma con l’improvvisa crescita economica, risultò una benedizione per la mancanza di manodopera.Una diversa corrente migratoria fu quella degli ebrei europei, ed in seguito del resto del mondo: durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa delle atrocità dell’olocausto, gli ebrei cercarono rifugio presso i britannici che prima si opposero e poi, dopo la proclamazione del 1948 dello Stato di Israele, permisero l’entrata nel paese a milioni di ebrei.

RisorseLa crescita demografica del XX secolo provocò una pressione sulle risorse mondiali. Nonostante ciò l’economia mondiale rispose bene ai bisogni. Tale positività fu anche da attribuirsi all’integrazione nell’economia tra scienza e tecnologia dalla quale scaturirono nuovi modi per incrementare i raccolti, l’invenzione di nuove tecniche per accrescere le disponibilità di minerali, nuovi impieghi per le risorse esistenti. Uno dei fattori di sviluppo si ebbe grazie al cambiamento delle fonti di energia primaria. Infatti nel XX secolo si ebbe la sostituzione del carbone col petrolio ed il gas naturale. E così il petrolio iniziò ad acquisire un grande significato geopolitico. Infatti i suoi giacimenti erano disseminati nel mondo. L’Europa nonostante la sua abbondanza di carbone, possedeva riserve di petrolio inferiore rispetto a qualsiasi massa continentale. L’estrazione di petrolio negli USA era già una pratica avviata ma solo dopo il 1950 questo Stato divenne un importatore di questo materiale. La maggiore produzione di petrolio è oggi concentrata nel Medio Oriente, nei paesi circostanti il Golfo Persico ed in Russia.

TecnologiaIl mutamento tecnologico ottocentesco continuò nel XX secolo, assumendo un ritmo incalzante ed influenzando la vita anche di chi della tecnologia ne era del tutto ignaro. In realtà, le scoperte tecnologiche, permisero all’uomo di adattare l’ambiente alle loro esigenze. Un esempio di sviluppo tecnologico si può vedere nel campo dei trasporti, dove ci fu il passaggio dalla locomotiva a vapore e lo sviluppo delle automobili fino alla costruzione di razzi.La tecnologia diede il suo contributo anche alle comunicazioni con il telegrafo che fu sostituito poi in seguito dal telefono; il presidente Hoover nel 1931 fece la prima telefonata transoceanica.Nel corso del XX secolo si è avuta la scoperta di nuovi materiali, tra cui le materie plastiche ricavate dal petrolio e da altri idrocarburi, che hanno sostituito il legno, la

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ceramica e la carta in migliaia di impieghi, che vanno dai recipienti a basso peso, ai trapani ad alta velocità..La possibilità della scienza e della tecnologia di crescere rapidamente dipende da un gran numero di sviluppi accessori alcuni dei quali derivanti dal progresso della scienza stessa. Si evince da ciò l’importanza della ricerca scientifica e dei modi in cui viene finanziata. Infatti la ricerca scientifica fu finanziata in gran parte solo dai Governi poiché essa non dava prospettive di guadagno immediate. Altra peculiarità del progresso scientifico e tecnico è la presenza di una adeguata forza lavoro istruita o brainpower. Da qui l’importanza dell’istruzione, ulteriore elemento, oltre al reddito, di distinzione tra il popolo. Il XX secolo era l’epoca in cui non bastava più saper leggere scrivere e quindi avere un buon grado di istruzione ma era importante la specializzazione universitaria. Da qui il proliferare di istituti di studi avanzati e di ricerca finanziati da organismi privati e dal settore pubblico.Nel XX secolo di notevole interesse furono inoltre le nuove fonti di energia (petrolio e gas naturale) e la loro applicazione all’automobile e all’aeroplano. Nel 1913 Ford introdusse il principio della produzione di massa delle automobili, facendo di essa il simbolo dello sviluppo economico del XX secolo. Infatti, come nell’Ottocento lo sviluppo della locomotiva portò i suoi effetti indirettamente sulle altre industrie - produttrici di rotaie, binari ecc. - così nel XX secolo l’industria automobilistica portò effetti benefici sia sull’occupazione sia ad altri settori come quello del cemento per la costruzione di strade. Il Giappone vide la sua fortuna nel mercato dell’esportazione di automobili.Altro settore in crescita era l’industria di aeroplani che nel 1913 portò i fratelli Wright al primo volo su una spiaggia del North Carolina. I primi utilizzi furono in campo militare ma successivamente gli aerei furono utilizzati per il trasporto di posta ed ancora dopo di passeggeri.Ma l’applicazione più sensazionale della scienza si è avuta nel volo umano nello spazio che iniziò nel 1957, culminando il 20 luglio 1969 quando Neil Amstrong ed Edwin Aldrin calcarono per la prima volta il suolo lunare.

IstituzioniAlla fine del XX secolo, la struttura istituzionale dell’economia mondiale, era molto differente da quella di inizio secolo poiché influenzata dai mutamenti demografici, tecnologici e dall’impiego diverso delle risorse. Le principali innovazioni si ebbero nelle relazioni internazionali, nelle istituzioni nazionali e all’interno dei singoli paesi: quali il ruolo dello Stato e dell’istruzione, la natura e la dimensione dell’impresa.

Relazioni InternazionaliFino al 1914 l’economia mondiale era nelle mani dell’Europa e degli USA i quali erano responsabili di oltre la metà della produzione e del commercio internazionale.La radice di questa struttura fu alterata dalla Prima Guerra Mondiale e dalle concomitanti rivoluzioni russe del 1917. Infatti le principali conseguenze di tali fatti portarono alla scomparsa della Russia zarista ed alla contestuale formazione dell’Unione Sovietica con una forma di organizzazione economica, la scomparsa

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dell’Impero asburgico nell’Europa centro orientale e la seguente formazione di Stati nazionali nuovi ed ampliati con economie depauperate ed in competizione. Inoltre la Germania perse parte consistente del proprio territorio e della propria popolazione.L’Europa vide quindi diminuire la sua quota del commercio e della produzione mondiale, a vantaggio di USA, dei dominions britannici e del Giappone. Gli anni venti e trenta videro in Italia, in Germania ed in diversi altri paesi l’affermazione di dittature fasciste.Il Giappone estese un piccolo impero probellico e si trasformò in una rilevante potenza economica. Ciò fu frutto della sua partecipazione alla Prima Guerra Mondiale e del loro desiderio di strappare alla Germania i possedimenti nel Pacifico e le concessioni in Cina. Questo iniziò nel 1931 con l’occupazione della Manciuria.La Seconda Guerra Mondiale portò la perdita dell’egemonia politica ed economica dell’Europa, con la conseguente divisione dei paesi democratici dell’Europa occidentale legati politicamente ed economicamente agli USA, e quelli dell’Europa orientale dominata dai Sovietici. In definitiva si è assistito ad un processo di decolonizzazione e creazione di nuovi Stati, combinato con tentativi di modernizzazione e di conseguimento di uno sviluppo economico sostenuto, messo in atto anche da paesi del Terzo Mondo (ad es. l’America Latina), introducendo un elemento nuovo nelle relazioni economiche internazionali. Da qui numerose nuove organizzazioni internazionali sono state istituite per facilitare un dialogo costruttivo e per scongiurare aperte ostilità. Alcune di queste risalgono al XIX secolo: quali la Croce Rossa internazionale del 1864, l’Unione postale Universale nel 1874; ma è il XX secolo che ha visto la formazione di tutta una serie di organizzazioni, talvolta anche superflue, ma che hanno influenzato in maniera incisiva, l’andamento dell’economia mondiale. Tra queste la Società delle Nazioni, scaturente dal trattato di Versailles nel 1919 ad opera di Woodrow Wilson, con lo scopo del mantenimento della pace mondiale, che a causa della mancata ratifica da parte degli USA decadde. Ad essa successe l’Organizzazione delle Nazioni Unite con una storia leggermente più fortunata e con scopi economici affini. Da essa nacquero poi l’Organizzazione Europea per la cooperazione economica e l’Unione Europea.

Il ruolo del potere pubblicoIl potere pubblico nell’economia crebbe enormemente nel corso del XX secolo. Tale fatto affonda le sue origini nel XVII secolo dove i monarchi assoluti tentarono di piegare l’economia ai propri voleri senza però buoni risultati. Nel XIX secolo invece i Governi limitarono la loro partecipazione all’economia, fino la XX secolo quando, in parte per necessità finanziarie legate alla Seconda Guerra Mondiale, lo Stato ha avuto un ruolo preponderante nell’economia.Le attività direttamente produttive furono intraprese da o per conto dello Stato ed i trasferimenti, ossia la redistribuzione del reddito, per mezzo dell’imposizione fiscale. Infatti nel XX secolo le aziende statali divennero molto comuni. Già il tedesco Bismarck nel XIX secolo aveva introdotto l’assicurazione dei lavoratori ed un sistema pensionistico per i disabili, e da qui l’imitazione di altri paesi e la formazione di stati assistenziali.

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Forme d’impresaAgli inizi del XX secolo, solo le grandi imprese avevano la struttura di S.p.A., mentre le attività di piccole dimensione assumevano carattere familiare. Ma la tendenza di lungo termina, favoriva la forma di S.p.A., soprattutto con la formazione delle holding companies la cui attivtà era correlata al possedimento di altre imprese. L’uso di forme organizzative fu poi utilizzato per fini fiscali, anche da liberi professionisti come medici ed avvocati. La sperimentazione di tali organizzazioni ebbe inizio nel XIX secolo negli USA, ma poi trovarono spazio nel XX secolo in Europa. Ciò permetteva alle imprese di competere con un altro sviluppo tipicamente americano, cioè le multinazionali.

Organizzazioni sindacaliNel XX secolo le organizzazioni dei lavoratori detenevano un potere considerevole nel mercato del lavoro soprattutto in GRAN BRETAGNA ed in Germania.A cavallo delle due guerre mondiali, si assistette ad un aumento delle iscrizione alle organizzazioni sindacali, con una conseguenza positiva sullo sviluppo di quest’ultimi. Sia negli USA che in Europa ci fu una crescita delle iscrizioni, con la differenza però che in Europa le organizzazioni sindacali ebbero una identificazione politica. Ad esempio in Gran Bretagna il sindacato sostenne il partito laburista fino al 1945, fino a quando cioé alcune aziende non furono messe sotto il controllo socialista per la vittoria politica di Winston Churchill, durante la cui politica ci fu l’introduzione di una corrente conservatrice e la successiva nascita del partito socialdemocratico. In Germania quest’ultimo fu preminente fino all’avvento del nazismo che abolì sia i partiti politici che i sindacati. La disciplina del lavoro fu mantenuta attraverso il Fondo Del Lavoro, guidato da membri nazisti. In Italia e in Unione Sovietica, si ebbero sviluppi analoghi con la differenza che in Unione Sovietica questi erano utilizzati per inculcare la disciplina lavorativa e di partito.

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CAPITOLO XIVDISINTEGRAZIONE DELL’ECONOMIA INTERNAZIONALE

Conseguenze economiche della Prima Guerra MondialePrima di divenire nota come guerra mondiale e in seguito come Prima Guerra Mondiale la guerra del 1914-18 fu nota come Grande Guerra. La sua distruttività concentrata superò quella di qualunque altro avvenimento della storia fino alle massicce incursioni aeree e alle bombe atomiche della Seconda Guerra Mondiale. Gran parte dei danni furono subiti dalla Francia settentrionale, dal Belgio, da una piccola area nell’Italia nord orientale e dai campi di battaglia dell’Europa orientale. Non è compresa la mancata produzione dalla carenza di manodopera e di materie prime per l’industria, dall’eccessivo deprezzamento ed esaurimento degli impianti e delle attrezzature industriali prive di adeguata manutenzione. Ancora più nocive per l’economia furono l’interruzione e la disorganizzazione delle normali relazioni economiche i cui effetti non cessarono con la fine delle ostilità ma continuarono, ad esempio con la riscossione di pedaggi nel periodo tra le due guerre. Nonostante alcune restrizioni il grosso dell’attività economica sia nazionale che internazionale era regolata dal libero mercato. Durante la guerra i Governi imposero controlli diretti sui prezzi, sulla produzione e sulla distribuzione della forza lavoro: questi stimolarono taluni settori dell’economia limitandone degli altri. Un problema ancora più serio derivò dallo sconvolgimento del commercio estero e dalle forme di guerra

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economica cui fecero ricorso i paesi in guerra, in particolare Gran Bretagna e Germania. Prima della guerra Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti, all’avanguardia tra i paesi industriali e commerciali, erano anche i migliori clienti e fornitori reciproci. Gli scambi commerciali tra la Germania e gli altri naturalmente si interruppero subito, mentre gli Stati Uniti, si sforzarono di mantenere relazioni normali. La Gran Bretagna, forte del suo dominio dei mari, impose immediatamente un blocco dei porti tedeschi. La flotta britannica non si limitava a sbarrare i mari alle navi tedesche, ma perseguitava il naviglio neutrale confiscandone il carico. Ciò provocò degli attriti con gli Stati Uniti, che furono però controbilanciati dai provvedimenti presi dai tedeschi. Incapaci di attaccare frontalmente la flotta britannica i Tedeschi fecero ricorso ai sommergibili nel tentativo di arrestare l’afflusso in Gran Bretagna di rifornimenti dall’estero. I sommergibili evitavano il più possibile la flotta britannica. L’affondamento nel 1915 del transatlantico britannico Lusitania, provocò una vibrata protesta da parte statunitense. Per qualche tempo l’alto comando tedesco moderò la propria politica, ma nel gennaio del 1917 diede il via ad una guerra sottomarina illimitata. Questo fu uno dei motivi principali dell’entrata dell’America in guerra. La perdita dei mercati esteri rivelò effetti ancora più durevoli nel tempo. La Germania era completamente tagliata fuori dai mercati d’oltremare. Persino la Gran Bretagna, forte del suo controllo dei mari e di una grande flotta mercantile, fu costretta a dirottare risorse dagli impieghi normali alla produzione bellica. Molti paesi d’oltreoceano decisero di fabbricare in proprio o acquistare da paesi extraeuropei le merci che in precedenza avevano acquistato in Europa. Gli Stati Uniti e il Giappone conquistarono mercati considerati riserva esclusiva delle manifatture europee; i primi inoltre aumentarono le esportazioni verso gli Alleati e i paesi europei neutrali. La guerra sconvolse anche l’equilibrio dell’agricoltura mondiale, determinando un notevole aumento della domanda di generi alimentari e materie prime in un’epoca in cui alcune regioni non producevano o erano tagliate fuori dai mercati. Gli agricoltori americani aumentarono la superficie coltivata a frumento acquistando nuove terre a prezzi gonfiati dall’inflazione bellica, quando i prezzi cominciarono a scendere molti si trovarono nell’impossibilità di estinguere le ipoteche e fallirono. Oltre a perdere i mercati esteri, i paesi belligeranti europei subirono un’ulteriore emorragia di entrate nel settore delle spedizioni marittime e dei servizi. L’offensiva sottomarina tedesca causò pesanti perdite alla flotta mercantile britannica, mentre gli Stati Uniti, in virtù di un programma bellico di costruzioni navali finanziato dal Governo, si affermarono per la prima volta dalla guerra civile americana come un temibile concorrente. Un’altra grave perdita causata dalla guerra fu quella dei profitti derivanti dagli investimenti all’estero. Prima della guerra la Gran Bretagna, la Francia e la Germania erano i più importanti investitori. La Gran Bretagna e la Francia furono costretti a cedere parte dei loro investimenti esteri per finanziare l’acquisto urgente di materiale bellico. Gli investimenti tedeschi nei paesi belligeranti furono confiscati durante la guerra, e successivamente liquidati a titolo di riparazione. Gli Stati Uniti, da paese debitore netto si trasformarono in creditore netto in conseguenza del rapido aumento dell’eccedenza delle esportazioni e degli ingenti prestiti concessi agli Alleati. Le pressioni finanziarie della guerra

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costrinsero tutti i paesi coinvolti, ad eccezione degli Stati Uniti, ad abbandonare il gold standard. Tutti i paesi in guerra dovettero far ricorso a ingenti prestiti e all’emissione di cartamoneta per finanziare le operazioni belliche. Ciò determinò una lievitazione dei prezzi anche se non tutti nella stessa proporzione. La grande disparità nei prezzi, rese più difficile la ripresa del commercio internazionale ed ebbe anche gravi ripercussioni sul piano sociale e politico.

Conseguenze economiche della paceLa pace di Parigi invece di tentare di risolvere i gravi problemi economici causati dalla guerra finì in realtà per inasprirli. I pacificatori non volevano che accadesse questo: l’errore fu che semplicemente non tennero conto delle realtà economiche. Dai trattati di pace emersero due grandi categorie di difficoltà economiche: la crescita del nazionalismo economico e i problemi monetari e finanziari. I singoli trattati presero il nome dei sobborghi di Parigi in cui vennero firmati. Il più importante fu il trattato di Versailles con la Germania. Questa dovette cedere la marina da guerra, grosse quantità di armi e munizioni, la maggior parte della flotta mercantile, dovette inoltre accettare limitazioni alle proprie forze armate. Keynes, consigliere economico della delegazione britannica alla conferenza della pace, rimase talmente amareggiato da presentare le dimissioni dall’incarico per dedicarsi alla stesura di un libro di grande successo commerciale, Le conseguenze economiche della pace, in cui prevedeva conseguenze disastrose non solo per la Germania ma per tutta l’Europa. Lo smembramento dell’Impero austro-ungarico nelle ultime settimane di guerra provocò la nascita di due nuovi stati, l’Austria e l’Ungheria, entrambi con una superficie ridotta di quella delle vecchie regioni. Altri due nuovi stati-nazione furono la Cecoslovacchia e la Polonia. L’ex-Impero austro-ungarico aveva adempiuto ad una preziosa funzione economica permettendo l’esistenza di una larga area di libero scambio nel bacino del Danubio; i nuovi Stati erano gelosi l’uno dell’altro e timorosi del dominio delle grandi potenze. Essi perciò affermarono il proprio carattere nazionale nella sfera economica ponendosi l’obiettivo dell’autosufficienza. Durante la guerra civile la Russia scomparve di punto in bianco dall’economia internazionale.In occidente, paesi che precedentemente avevano dipeso in misura notevole dal commercio internazionale introdussero una varietà di restrizioni, che compresero non solo tariffe protezionistiche ma anche misure più drastiche quali divieti di importazione. Contemporaneamente essi cercarono di stimolare le esportazioni per mezzo di sussidi. La Gran Bretagna durante la guerra aveva imposto nuovi dazi come strumento della finanza di guerra e per risparmiare spazio sulle navi. I dazi anche dopo la guerra rimasero dapprima su base “temporanea”, poi come politica protezionistica ufficiale. Gli Stati Uniti, che già prima della guerra avevano dazi relativamente elevati, li portarono alla fine delle ostilità a livelli mai visti. Il Fordney McCumber Tariff Act del 1922 introdusse i dazi più elevati della storia tariffaria statunitense. Le conseguenze nefaste di questo neomercantilismo non si limitarono all’applicazione immediata delle leggi in questione. Ogni nuova misura restrittiva provocava la ritorsione di altre nazioni i cui interessi venivano pregiudicati. I disordini monetari e finanziari provocati dalla guerra e aggravati dai trattati di pace

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condussero col tempo ad un completo collasso dell’economia internazionale. Al cuore di questi disordini era il problema delle riparazioni, ma il “nodo delle riparazioni” era in realtà un problema complesso che coinvolgeva i debiti di guerra e l’intero meccanismo della finanza internazionale. La Gran Bretagna era stata fino al 1917 la maggiore finanziatrice dello sforzo bellico alleato. Tra gli alleati europei i prestiti erano solamente nominali: infatti si aspettavano di poterli cancellarli alla fine della guerra. La Francia e la Gran Bretagna pretesero che la Germania pagasse non solo i danni arrecati ai civili ma anche il costo sopportato dai Governi alleati per la prosecuzione della guerra. I Francesi volevano che gli Stati Uniti cancellassero i debiti di guerra ma nello stesso tempo insistevano sulle riparazioni. Lloyd George, il primo ministro britannico suggerì di cancellare sia le riparazioni che i debiti di guerra, ma gli Americani rifiutarono di ammettere un qualsiasi rapporto tra le due cose. La possibilità della Germania di pagare le riparazioni dipendeva in definitiva dalla sua capacità di esportare più di quanto importava, in modo da riuscire ad ottenere la valuta estera o l’oro necessari per effettuare pagamenti. Le restrizioni economiche imposte dagli Alleati, insieme con la debolezza interna della repubblica di Weimar, resero tuttavia impossibile per il Governo tedesco ricavare un surplus sufficiente per i pagamenti annuali. Nel gennaio del 1923 truppe francesi e belghe occuparono la Ruhr, assunsero il controllo delle miniere di carbone e delle ferrovie e tentarono di obbligare i proprietari e i lavoratori delle miniere a consegnare l’oro e il carbone. I Tedeschi risposero con la resistenza passiva. Il Governo stampò quantità enormi di cartamoneta per indennizzare gli operai e i datori di lavoro della Ruhr. Il marco valeva letteralmente meno della carta su cui era stampato. A quel punto le autorità monetarie tedesche ritirarono il marco dalla circolazione sostituendolo con una nuova unità monetarie, la Rentenmark. Tutti gli Stati succeduti alla monarchia asburgica, la Bulgaria, la Grecia e la Polonia soffrirono allo stesso modo di un’inflazione galoppante. Come Keynes aveva predetto l’economia internazionale si trovò di fronte ad una grave crisi. Una commissione internazionale convocata in tutta fretta sotto la presidenza di Dawes, banchiere e finanziere americano, raccomandò una graduale diminuzione dei pagamenti annuali. Il cosiddetto “Prestito Dawes”, i cui fondi furono raccolti in gran parte negli Stati Uniti, permise alla Germania di riprendere il pagamento delle riparazioni e di tornare al gold standard del 1924. A questo prestito fece seguito un secondo afflusso di capitali americani in Germania sotto forma di prestiti privati alle municipalità e alle grandi società tedesche, che presero a prestito negli Stati Uniti somme notevoli da impiegare nella modernizzazione tecnica e nella “razionalizzazione”. In questo modo la Germania ottenne anche la valuta estera necessaria per pagare le riparazioni. Anche nella Gran Bretagna del dopoguerra i problemi economici assunsero dimensioni inquietanti. Con la guerra la Gran Bretagna perse mercati e investimenti esteri, buona parte della marina mercantile, ed altre fonti estere di reddito. Tuttavia essa dipendeva come non mai dalle importazioni di prodotti alimentari di materie prime. I provvedimenti presi dal Governo per affrontare i problemi economici furono timidi, prosaici e inefficaci. L’unica soluzione per la disoccupazione fu il sussidio, un sistema di pagamento assistenziali del tutto inadeguato a sostentare le famiglie dei disoccupati. La Gran

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Bretagna aveva abbandonato nel 1914 il gold standard. Esistevano forti pressioni per un rapido ritorno al gold standard per scongiurare un ulteriore erosione, iniziata durante la guerra. Le maggiori questioni irrisolte rispondevano alle domande: in quanto tempo ci si poteva tornare e a quale valore per la lira sterlina. La risposta alla prima questione dipendeva dalla quantità di riserve auree accumulate dalla banca d’Inghilterra. Tornare al gold standard alla parità di anteguerra avrebbe significato porre l’industria britannica in situazione di svantaggio rispetto agli Stati Uniti e agli altri paesi che mantenevano la parità col dollaro o adottavano un tasso di cambio persino inferiore. Dall’altra parte i Britannici avevano sempre manifestato un forte desiderio di rispettare le tradizioni, specialmente in questioni importanti come quelle finanziarie. Il cancelliere Wiston Churchill, decise il ritorno della Gran Bretagna al gold standard alla parità di anteguerra. L’industria del carbone fu una di quelle maggiormente colpite dalla perdita dei mercati esteri e dalla lievitazione dei costi. I minatori di carbone tra i lavoratori britannici furono i più radicali: già nei primi anni dopo la fine della guerra avevano organizzato diversi grandi scioperi. Di fronte alla prospettiva di un taglio dei salari in conseguenza del ritorno al gold standard, il primo maggio del 1926 i minatori scesero in sciopero e persuasero molti altri sindacati ad unirsi a loro in quello che avrebbe dovuto essere uno sciopero generale. Nonostante i problemi britannici, alla fine degli anni ‘20 la maggior parte dell’Europa prosperò. I più urgenti e immediati problemi post-bellici erano stati risolti; e con l’istituzione della Società delle nazioni sembrava che fosse albeggiata una nuova era nelle relazioni internazionali.

La Grande Contrazione (1929-1933)A differenza dell’Europa gli Stati Uniti uscirono dalla guerra più forti che mai. Essi erano passati da paese debitore netto a creditore netto, avevano strappato ai produttori europei nuovi mercati sia in patria che all’estero e godevano di una bilancia commerciale estremamente favorevole. I critici sociali che insistevano nel denunciare le vergognose condizioni degli slums urbani e rurali, o che facevano notare che la nuova prosperità era distribuita in modo estremamente ineguale tra le classi medie urbane. Durante il boom speculativo del “grande mercato degli acquisti allo scoperto” numerosi individui con redditi modesti furono tentati dall’acquisto di titoli a credito. Il 24 ottobre del 1920 il “giovedì nero” un’ondata di vendite per panico nel mercato azionario fece crollare i prezzi dei titoli e cancellò milioni di dollari che esistevano solo sulla carta. Una seconda ondata di vendite si ebbe il 29 ottobre, il “martedì nero”. Gli Americani che avevano investito in Europa bloccarono ogni ulteriore investimento e vendettero quanto possedevano per riportare in patria i capitali. I mercati finanziari si stabilizzarono, ma i prezzi delle merci erano bassi e continuavano a scendere. Il crollo del mercato azionario non fu la causa della depressione ma fu un chiaro segnale che la depressione era in atto. La Creditanstalt austriaca di Vienna, una delle banche più grandi e importanti dell’Europa centrale, sospese i pagamenti. Nonostante il Governo austriaco congelasse i patrimoni bancari e proibisse il ritiro dei fondi, il panico si diffuse. Diversi paesi duramente colpiti dalla diminuzione dei prezzi dei prodotti primari avevano già abbandonato il gold

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standard. Le decisioni di sospendere il gold standard e di imporre i dazi e contingenti erano state prese dai Governi nazionali senza consultazioni o accordi internazionali. Nonostante gli Europei fossero d’accordo sul porre fine alle riparazioni, e con esse ai debiti di guerra, l’accordo non fu mai ratificato. Le riparazioni e i debiti di guerra perciò caddero semplicemente nel dimenticatoio; toccò a Hitler nel 1933 porre fine alla “schiavitù degli interessi”. L’ultimo grande tentativo di dar vita ad una cooperazione internazionale che ponesse alla crisi economica fu la Conferenza monetaria mondiale del 1933. Il ruolo degli Stati Uniti in tale conferenza era ritenuto essenziale. Roosevelt assunse la carica nel momento peggiore della depressione; uno dei suoi primi atti ufficiali fu quello di disporre una chiusura delle banche di otto giorni per permettere al sistema bancario di riorganizzarsi. Essi compresero tra le altre l’abbandono da parte degli Stati Uniti del gold standard, cosa che nemmeno la Prima Guerra Mondiale era stata in grado di imporre. Roosevelt rilasciò una dichiarazione secondo la quale la prima responsabilità del Governo americano era di riportare il paese alla prosperità e che egli non avrebbe potuto sottoscrivere accordi internazionali che potessero interferire con questo compito. Cosa provocò la depressione? Un’interpretazione eclettica è quella che non vede responsabile un singolo fattore bensì una sfortunata concatenazione di eventi e circostanze, sia monetari che extramonetari, che concorsero a determinare la depressione: il crollo del gold standard e lo sconvolgimento dei commerci. Prima della guerra la Gran Bretagna, il paese guida a livello mondiale nel commercio, nella finanza e nell’industria, aveva svolto un ruolo determinante nel dare stabilità all’economia mondiale. La sua politica di libero scambio significava che le merci provenienti da ogni angolo del mondo potevano sempre trovare un mercato. Dopo la guerra la Gran Bretagna non fu più in grado di svolgere questa funzione di guida. Meritevoli di nota sono anche le conseguenze della depressione nel lungo periodo. Alcune di esse furono la crescita dell’intervento statale nell’economia, un graduale mutamento di atteggiamenti verso la politica economica. La depressione contribuì inoltre, per le sofferenze e l’inquietudine che provocò, all’affermazione di movimenti politici estremistici sia di destra che di sinistra, in particolare in Germania.

Tentativi diversi di ricostruzioneQuando Roosevelt entrò in carica come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, la nazione era in preda alla peggiore crisi dall’epoca della Guerra Civile. L’industria era praticamente ferma, mentre il sistema bancario era sull’orlo del collasso totale. E la crisi non era solo economica. Nei suoi discorsi elettorali Roosevelt aveva invocato un “New Deal” per l’America. Nei quattro anni del suo primo mandato il numero di leggi approvate superò in effetti quello di qualsiasi precedente amministrazione. Si trattò soprattutto di leggi di risanamento economico e di riforma sociale nei settori agricolo, bancario, monetario, del mercato dei titoli, del lavoro, della sicurezza sociale, sanitario, abitativo, dei trasporti, delle comunicazioni, delle risorse naturali. La legge forse più caratteristica dell’intero periodo fu il National Industrial Recovery Act. Esso istituì una National recovery administration (Nra) con il compito di sovrintendere alla stesura di “norme di concorrenza leale” per ogni industria da parte

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dei rappresentanti delle industrie stesse. L’Nra aveva inoltre sorprendenti affinità con il sistema fascista di organizzazione industriale in Italia. Era essenzialmente un sistema di pianificazione economica privata con supervisione governativa per salvaguardare l’interesse pubblico e garantire il diritto del mondo del lavoro di organizzarsi e contrattare collettivamente. Nel 1935 l’Nra fu dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. Gli Stati Uniti tornarono in guerra. Nessuna nazione dell’Occidente aveva sofferto per la guerra più della Francia. Gran parte dei combattimenti sul fronte occidentale aveva avuto luogo nella sua regione più ricca. Non sorprende, perciò, la pretesa della Francia che la Germania pagasse per la guerra. Il Governo francese intraprese immediatamente un esteso programma di ricostruzione materiale delle aree danneggiate dalla guerra, che ebbe incidentalmente l’effetto di stimolare l’economia a nuovi record produttivi. La depressione moltiplicò la protesta sociale e produsse una nuova infornata di organizzazioni estremistiche. Nel 1936 tre partiti politici di sinistra, comunisti, socialisti e radicali si coalizzarono nel fronte popolare e vinsero le elezioni di quell’anno, dando vita ad un Governo guidato dal venerabile esponente socialista Léon Blum. Il Governo del fronte popolare nazionalizzò la Banca di Francia e le ferrovie ed emanò una serie di provvedimenti di riforma in materia di lavoro. I paesi più piccoli dell’Europa occidentale, fortemente dipendenti dal commercio internazionale, subirono tutti le conseguenze della depressione ma non tutti allo stesso modo. Negli anni venti, quando la Gran Bretagna e la Francia tornarono al gold standard, molti paesi minori adottarono il sistema della libera convertibilità con le monete a parità aurea. Dopo l’abbandono del gold standard da parte della Gran Bretagna molti paesi che con essa avevano intensi scambi commerciali abbandonarono la parità aurea e allinearono le loro valute alla lira sterlina. Nacque così il “blocco della sterlina”. Esso comprendeva gran parte dei paesi del Commonwealth. Con l’accordo monetario tripartito del 1936 i Governi britannico, francese e statunitense si impegnarono a stabilizzare i tassi di cambio tra le rispettive monete per evitare svalutazioni a fini concorrenziali e per contribuire in altro modo ad una restaurazione dell’economia internazionale. Nell’Europa centrale ed orientale, come pure in Spagna, gli sviluppi politici, l’affermazione delle dittature fasciste, oscurarono i fenomeni prettamente economici. Benito Mussolini si affrettò a consolidare il suo potere ricorrendo a metodi polizieschi. Mussolini si avvalse del filosofo Giovanni Gentile per una razionalizzazione del fascismo. Il fascismo glorificava l’uso della forza, vedeva nella guerra la più nobile delle attività umane, denunciava il liberalismo, la democrazia, il socialismo e l’individualismo guardava con disprezzo al benessere materiale e considerava le disuguaglianze umane non solo inevitabili ma desiderabili. Il fascismo aveva bisogno di una forma distintiva di organizzazione economica. Mussolini inventò lo stato corporativo, una delle innovazioni più pubblicizzate e meno riuscite del regime. In linea di principio, lo stato corporativo era l’antitesi sia del capitalismo che del socialismo. Tutte le industrie del paese furono organizzate in dodici “corporazioni” che erano grosso modo l’equivalente di associazioni del settore. Vi erano rappresentanti dei lavoratori, dei proprietari e dello Stato. Tutti i sindacati precedentemente esistenti furono soppressi. Le corporazioni agirono principalmente

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da associazioni capitalistiche di settore il cui scopo era di accrescere il reddito degli uomini d’affari e degli amministratori di partito a spese dei lavoratori e dei consumatori. L’Italia soffrì durante la depressione. La Germania nazista fu il primo grande paese industriale a conseguire un completo risanamento. Nel processo la Germania realizzò il primo sistema autostradale moderno e rafforzò ed estese enormemente le proprie industrie, cosa che le assicurò un vantaggio decisivo nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale. Abolirono le contrattazioni collettive tra lavoratori e proprietari sostituendole con comitati di “amministratori” del lavoro con pieni poteri in materia di determinazione di salari, orari e condizioni di lavoro. Gli industriali furono persuasi a cooperare con il nuovo regime industriale. I nazisti non ricorsero ad una massiccia nazionalizzazione dell’economia per raggiungere i loro fini si affidarono alla coercizione e ai controlli. Uno dei principali obiettivi economici dei nazisti era rendere autosufficiente l’economia tedesca nell’eventualità di una guerra. La Germania aveva adottato controlli sui cambi per evitare la fuga di capitali. Furono siglati inoltre diversi accordi commerciali con paesi dell’Europa orientale e dei Balcani che prevedevano il baratto tra manufatti tedeschi e prodotti alimentari e materie prime, evitando in tal modo il ricorso all’oro o a valute estere di cui c’era scarsa disponibilità. Le merci spedite dalla Germania furono molto poche. La Spagna, sfuggita al coinvolgimento nella Prima Guerra Mondiale, evitò molti dei problemi e dei dilemmi che assillavano gli altri paesi europei. Nel 1936 il generale Francisco Franco diede inizio ad una sanguinosa e distruttiva guerra civile che terminò con il rovesciamento della repubblica nel 1939 e l’istituzione di un regime autarchico simile sotto qualche aspetto a quelli dell’Italia fascista e della Germania nazista, ma senza la tecnologia avanzata di quest’ultima.

Le rivoluzioni russe e l’Unione SovieticaLa Russia imperiale entrò nella Prima Guerra Mondiale prevedendo una rapida vittoria sulle Potenze Centrali. Tale illusione fu ben presto infranta. All’inizio del 1917 l’economia era nel caos. All’inizio di marzo scoppiarono a Pietrogrado (San Pietroburgo) scioperi e sommosse, alcuni soldati si unirono ai dimostranti cui diedero delle armi, mentre i lavoratori delle ferrovie impedirono l’arrivo di altre truppe per ristabilire l’ordine. Un comitato della Duma (il Parlamento) decise di formare un governo provvisorio. Il Governo provvisorio era una eterogenea raccolta di aristocratici, intellettuali e parlamentari; in esso era presente un solo socialista. Il nuovo regime proclamò immediatamente la libertà di parola, di stampa e di religione, annunciò che avrebbe realizzato riforme sociali e ridistribuito la terra. Esso tentò inoltre di continuare la guerra con la Germania, e ciò determinò la sua rovina. Lenin, leader della fazione bolscevica dei partiti socialisti russi, fece ritorno a Pietrogrado nell’aprile del 1917. Certo non poteva immaginare che sarebbe divenuto capo del Governo!. Lenin affermò rapidamente la propria autorità sul soviet di Pietrogrado e cominciò una campagna inesorabile contro il governo provvisorio. Una folla che si definiva di Guardie rosse occupò il Palazzo d’inverno, sede del Governo. Il giorno seguente Lenin formava un nuovo governo, chiamato Consiglio dei commissari del popolo. Nel tentativo di sopravvivere e mantenere il potere i bolscevichi, che ora si

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chiamavano comunisti introdussero una drastica politica che fu detta comunismo di guerra. Esso comprendeva la nazionalizzazione dell’economia urbana, la confisca e la distribuzione della terra ai contadini ed un nuovo sistema giuridico. La sua caratteristica saliente fu però l’introduzione nel Governo di un partito unico, la “dittatura del proletariato”, di cui Leni era la voce. I socialisti rivoluzionari riesumarono la loro tradizionale politica di attentati e nell’agosto del 1918 riuscirono a ferire Lenin. I comunisti instaurarono subito dopo un deliberato regno del terrore, assassinando gli oppositori politici e mantenendo nel frattempo il controllo del governo centrale, spostato a Mosca. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre il Governo rispose positivamente alla richiesta finlandese d’indipendenza. Il 30 dicembre del 1920 nasceva l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss). Essa comprendeva la Repubblica socialista federativa sovietica russa (Rsfsr), che abbracciava gran parte della Russia europea più la Siberia, e le repubbliche dell’Ucraina, della Russia Bianca. In seguito vennero aggiunte a questa facciata altre repubbliche dell’Asia centrale e di altre zone. Nel marzo del 1921, al momento della firma del trattato di Riga che segnò la pace con la Polonia, i comunisti non erano più minacciati. L’economia era però nel caos. La politica del comunismo di guerra era stata sufficiente a sconfiggere il nemico, ma non poteva servire da fondamento per l’economia nel lungo termine. Di fronte alla prospettiva della paralisi economica e all’eventualità di una grande rivolta contadina, Lenin capovolse radicalmente gli indirizzi precedenti con la cosiddetta Nuova politica economica (Nep). Ai contadini fu permesso di vendere le eccedenze ai liberi prezzi di mercato. Le piccole industrie furono privatizzate ed autorizzate a produrre per il mercato; imprenditori stranieri affittarono impianti esistenti ed ottennero speciali concessioni per l’introduzione di nuove industrie. La Nep prevedeva un vigoroso programma di elettrificazione, la fondazione di scuole tecniche per ingegneri e dirigenti d’industria e la creazione di un’organizzazione più sistematica per i settori dell’economia controllati dallo Stato. Nel frattempo grossi mutamenti stavano avvenendo nella direzione del partito comunista. Nel maggio del 1922 Lenin subì il primo di una serie di attacchi di paralisi dai quali non si riprese, si astenne dal designare il suo successore. In un “testamento politico” sottolineò sia le virtù che i difetti di tutti i suoi possibili successori e dei suoi più stretti collaboratori. Due tra i maggiori contendenti erano Stalin e Trockij. Trockij era oratore di talento, Stalin era un fedele seguace di Lenin. Divergenze sia in materia politica interna che esterna separavano i due. Il programma staliniano di “socialismo in un solo paese” implicava un massiccio rafforzamento dell’industria russa per rendere il paese autosufficiente e potente. Nel 1929 lanciò il primo programma quinquennale definito “la seconda rivoluzione bolscevica”. I sindacati furono usati per mantenere la disciplina nei luoghi di lavoro e impedire scioperi. In un compromesso con i contadini il Governo permise loro di formare fattorie cooperative dove la terra era coltivata in comune. Lo Stato forniva consigli e macchinari. Gli obiettivi dei primo piano quinquennale furono raggiunti solo dopo quattro anni e tre mesi. Nel 1933 il Governo inaugurò il secondo piano quinquennale in cui i beni di consumo dovevano essere privilegiati. Nonostante i grandi incrementi della produzione industriale, il paese rimase prevalentemente agrario e l’agricoltura

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era il settore più debole. Un elemento notevole del secondo piano quinquennale fu la “grande purga” del 1936-37. Migliaia di individui da umili operai ad alti dirigenti del partito e dell’esercito, furono sottoposti a processo sotto l’accusa di avere commesso crimini che andavano dal sabotaggio allo spionaggio e al tradimento. Il terzo piano quinquennale, varato nel 1938, fu interrotto dall’invasione tedesca del 1941, e l’Unione Sovietica ripiombò in qualcosa che somigliava al comunismo di guerra.

Aspetti economici della Seconda Guerra MondialeLa Seconda Guerra Mondiale fu di gran lunga la più massiccia e distruttiva delle guerre. Per taluni aspetti essa non rappresentò che un’estensione ed un’intensificazione di caratteristiche che si erano già manifestate nella Prima, quali il crescente ricorso alla scienza come fondamento della tecnologia militare, lo straordinario grado di pianificazione dell’economia e della società e l’uso raffinato e sofisticato della propaganda sia all’interno che all’estero. La guerra aerea, componente accidentale della Prima Guerra Mondiale, divenne nella seconda un elemento determinante, e molto più importanti divennero le operazioni navali. La tecnologia a base scientifica fu responsabile di molte nuove armi speciali, sia offensive che difensive: dal radar alle bombe volanti, dall’aereo a reazione alle bombe atomiche. Le capacità economiche e soprattutto industriali dei belligeranti acquisirono una nuova importanza. L’arma segreta finale dei vincitori fu l’enorme capacità produttiva dell’economia americana. I costi pecuniari della guerra sono stati stimati superiori ai mille miliardi di dollari per le spese militari dirette, ed è una stima per difetto. Essa non prende in considerazione il valore dei danni alle cose, né comprende gli interessi sul debito nazionale indotto dalla guerra, il valore delle vite perdute o mutilate, sia tra i civili che tra i militari. Milioni di altri individui furono feriti, rimasero senza casa o morirono di fame causa di malattie legate all’alimentazione. Per la Russia si calcolano oltre 15 milioni di morti, la Cina ebbe oltre 2 milioni di caduti tra i soldati, più di centomila giapponesi morirono per effetto diretto delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. I danni alle cose furono molto più ingenti che nella Prima Guerra Mondiale, a causa soprattutto dei bombardamenti aerei. Fra i bersagli preferiti furono le infrastrutture di trasporto, ferrovie, porti e bacini. Alla fine della guerra in Europa le prospettive economiche erano deprimenti. Oltre i danni alle cose e alla perdita di vite umane, milioni di persone erano state sradicate e separate dalle loro case e dalle loro famiglie. La struttura istituzionale dell’economia aveva subito gravi danni, la ricostruzione non sarebbe stata agevole.

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CAPITOLO XVLA RICOSTRUZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE

La ricostruzione dell’economia mondialeAlla fine del conflitto l’Europa giaceva prostrata e quasi paralizzata. Tutti i paesi belligeranti, ad eccezione della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica, erano stati sconfitti militarmente e occupati dal nemico. Vincitori e vinti erano accomunati dalla loro povertà. Le necessità più urgenti erano gli aiuti di emergenza e la ricostruzione. Gli aiuti, provenienti in gran parte dall’America, vennero attraverso due canali principali. Durante l’avanzata degli eserciti alleati attraverso l’Europa occidentale, nell’inverno e nella primavera del 1944-45, vennero distribuiti razioni di emergenza e medicinali alle provate popolazioni civili, sia dei paesi nemici che di quelli liberati. Altro canale di soccorsi fu l’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA). Dopo il 1947 l’opera dell’Unrra fu proseguita dall’Organizzazione internazionale per i rifugiati, l’organizzazione mondiale per la sanità ed altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite. A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti uscirono

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dalla guerra più forti che mai. Lo stesso accadde per il Canada, gli altri paesi della Commonwealth e l’America Latina. Le loro industrie e la loro agricoltura trassero vantaggio dalla forte domanda bellica. Molti economisti temevano che alla guerra sarebbe seguita una grave depressione, ma dopo l’abolizione del razionamento la domanda fino allora repressa di beni resi scarsi dalla guerra determinò un’inflazione postbellica che nel 1948 aveva portato al raddoppio dei prezzi.

Pianificazione dell’economia postbellicaUno dei compiti più urgenti che attendevano i popoli europei era il ripristino della normalità nella giustizia, nell’ordine pubblico e nell’amministrazione statale. Molti dei paesi che erano stati vittime dell’aggressione nazista avevano formato governi in esilio a Londra durante la guerra. Tali governi rientrarono in patria sulla scia degli eserciti alleati riprendendo subito le loro normali funzioni. Sul continente un ruolo consistente nella politica postbellica fu assunto dai dirigenti delle opposizioni clandestine alla Germania nazista, ed il cameratismo di quei movimenti, nei quali socialisti e comunisti avevano ricoperto un ruolo di prima grandezza, fu un fattore determinante nello scongiurare l’antagonismo di classe prebellico e nel portare figure nuove in posizioni di potere. La ricostruzione prevedeva un ruolo dello Stato nella vita economica e sociale molto più ampio che non nel periodo prebellico. Vi fu una diffusa domanda da parte dell’opinione pubblica di riforme politiche, sociali ed economiche. Nella sfera economica la risposta a questa domanda assunse la forma della nazionalizzazione di settori chiave dell’economia quali i trasporti, la produzione di energia e segmenti del sistema bancario. Negli stessi Stati Uniti l’Employment Act istituiva il comitato dei consiglieri economici del presidente. A livello internazionale la pianificazione del dopoguerra era cominciata durante il conflitto stesso. Già nel 1941 Roosevelt e Churchill avevano firmato la Carta Atlantica che impegnava i rispettivi paesi nel tentativo di ripristinare un sistema mondiale di scambi multilaterali in luogo del bilateralismo degli anni trenta. Ma era solo una dichiarazione d’intenti. Successivamente nel 1944 al Fondo monetario internazionale (FMI) veniva attribuita la responsabilità di gestire il sistema di tassi di cambio tra le varie monete mondiali ed inoltre di finanziare eventuali squilibri a breve termine nei pagamenti tra i vari paesi. La Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, nota anche come Banca Mondiale, doveva concedere prestiti a lungo termine per la ricostruzione delle economie devastate dalla guerra. Ma per anni la loro efficacia rimase limitata. I partecipanti alla conferenza di Bretton Woods avevano previsto inoltre la creazione di un’organizzazione internazionale per il commercio, l’International Trade Organization (ITO), che avrebbe dovuto formulare le regole di scambi equi fra le nazioni. Ulteriori conferenze furono organizzate a questo fine, ma il meglio che si poté ottenere fu un molto più limitato accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) firmato a Ginevra nel 1947. I firmatari si impegnavano ad estendere reciprocamente la clausola della nazione più favorita, a cercare di ridurre le tariffe, a non ricorrere a restrizioni quantitative e a consultarsi prima di ogni importante cambiamento di politica.

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Il Piano Marshall e i “miracoli” economiciVerso la metà o la fine del 1947 buona parte dei paesi dell’Europa occidentale, ad eccezione della Germania, era tornata ai livelli prebellici di produzione industriale. Nel caos monetario e finanziario degli anni trenta praticamente tutti i paesi europei e molti altri extraeuropei avevano adottato controllo sui cambi. Questi controlli vennero protratti per tutta la durata della guerra. Dopo il conflitto penurie di ogni tipo sembrarono imporre una continuazione di tali controlli. Il denaro concesso dagli Stati Uniti sotto forma di aiuti e sovvenzioni per il risanamento contribuì ad alleviare questa penuria di dollari, ma nella primavera del 1947 era sempre più evidente che l’immediato risanamento postbellico correva seriamente il pericolo di fallire. Inoltre la crescente “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e l’Urss e il ruolo dei partiti comunisti nella vita politica di diversi paesi dell’occidente europeo (Francia e Italia) davano alle autorità americane motivo di preoccupazione sulla stabilità politica in Europa occidentale. Il 5 giugno del 1947 il generale Marshall, nominato segretario di Stato dal presidente americano Truman, pronunciò un discorso in cui annunciava che se i paesi europei avessero presentato una richiesta di assistenza congiunta e coerente il Governo statunitense avrebbe risposto in modo soddisfacente: fu così che nacque il cosiddetto “piano Marshall”. Il 12 luglio 1947 si incontrarono a Parigi rappresentanti di sedici nazioni dell’Europa occidentale, autodefinitisi Commissione di Cooperazione Economica Europea (CCEE). I paesi erano: Svezia, Svizzera, Austria, Portogallo, Grecia e Turchia. Nè la Finlandia e la Cecoslovacchia avevano mostrato interesse a parteciparvi, ma erano state richiamate all’ordine dall’Unione Sovietica. Né questa né gli altri paesi dell’Europa orientale erano rappresentati. La Spagna franchista non fu invitata e la Germania, ancora sottoposta ad occupazione militare, non aveva un Governo da inviare. Dopo la deliberazione del Congresso la Ccee si trasformò nell’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE) responsabile, insieme con l’ECA (Economic Cooperation Administration), della distribuzione degli aiuti americani; i paesi membri dell’Oece erano inoltre tenuti a raccogliere fondi supplementari nelle rispettive valute da distribuire con il consenso dell’Eca. Nel complesso l’ERP (European Recovery Program) aveva distribuito all’inizio del 1952 circa 13miliardi di dollari di aiuti economici sotto forma di prestiti e sovvenzioni statunitensi all’Europa. Vi furono diverse importazioni di generi commestibili, beni capitali, materie prime e combustibili. La Germania in un primo momento occupò una posizione anomala nell’Erp. Dopo la sua sconfitta nel maggio del 1945 i capi di Stato di Stati Uniti, Regno Unito e Urss si incontrarono a Potsdam per decidere del destino della Germania: il risultato finale fu la divisione della Germania in due stati distinti, la Repubblica Federale Tedesca (Germania Occidentale) e la Repubblica Democratica Tedesca (Germania Orientale), anche Berlino fu divisa in quattro settori, poi ridotti a due: Berlino est, capitale del Rdt, e Berlino Ovest, appartenete alla Rft. La suprema autorità nominale era il Consiglio Alleato di controllo. La conferenza di Potsdam aveva previsto lo smantellamento dell’industria degli armamenti e delle altre industrie pesanti tedesche, il pagamento di riparazioni ai vincitori, rigorose limitazioni alla capacità produttiva tedesca e un vigoroso programma di denazificazione, che prevedeva processi ai capi nazisti come

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criminali di guerra. Nei fatti solo l’ultimo obiettivo fu realizzato come originariamente inteso. Dopo un breve tentativo le potenze occidentali compresero che l’economia tedesca doveva essere lasciata integra non solo per sostentare il popolo tedesco ma anche per contribuire alla ripresa economica dell’Europa occidentale. Capovolsero perciò la loro politica e invece di limitare la produzione tedesca, presero misure atte a incoraggiarla. Per stimolare la ripresa economica nel 1948 le potenze occidentali attuarono una riforma della moneta tedesca, rimpiazzando lo svalutato e disprezzato Reichsmark nazista con il Deutschemark ad un rapporto di 1 nuovo contro 10 vecchi marchi (la riforma fu facilitata dal fatto che la popolazione aveva praticamente abbandonato la vecchia moneta ed era tornata ad un sistema di baratto. Ciò fu noto come wirtschaftswunder (miracolo economico) e la Germania occidentale cominciò la sua sensazionale rinascita economica. L’Unione Sovietica replicò sbarrando tutti gli accessi stradali e ferroviari che collegavano le zone occidentali a Berlino Ovest. Ma gli Alleati occidentali risposero con un imponente ponte aereo di rifornimenti strategici. Nel frattempo la Germania veniva integrata nello Erp. Il piano Marshall si concluse nel 1952 con un successo superiore alle attese. Un’altra nuova istituzione fu l’Unione Europea dei Pagamenti (UEP). Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo del commercio nell’immediato dopoguerra era la scarsità di valuta estera, dollari in particolare, e la conseguenza necessità di un conguaglio bilaterale degli scambi. Finalmente i paesi dell’Oece, forti di una sovvenzione di 500milioni di dollari da parte degli Stati Uniti, inaugurarono l’Uep che permise un libero commercio multilaterale all’interno dell’Oece: si tenevano accurate registrazioni di tutti gli scambi fra paesi europei e alla fine di ogni mese si tiravano le somme e si operavano le compensazioni. I debiti dei paesi con un saldo passivo erano segnati su un conto centrale, e se il loro disavanzo era cospicuo una parte di esso doveva essere pagata in oro o in dollari; ai paesi creditori erano riconosciuti dei crediti sul medesimo conto. I risultati furono spettacolari, il commercio mondiale crebbe ad un tasso medio annuo dell’8%. Nel 1961 l’Oece si trasformò nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) alla quale aderirono gli Stati Uniti e il Canada (e in seguito il Giappone e l’Australia): un’organizzazione di paesi industriali avanzati per coordinare gli aiuti ai paesi sottosviluppati. L’espressione “miracolo economico” venne applicata per la prima volta al ragguardevole balzo in avanti compiuto dalla Germania Occidentale dopo la riforma valutaria del 1948. Quando gli alti tassi di crescita continuarono per tutti gli anni ‘50 e ‘60 essa venne usata per denotare l’intero periodo. Gli aiuti americani svolsero un ruolo determinante nell’innescare la ripresa economica. Negli anni della depressione e della guerra si era costituita una riserva di innovazioni tecnologiche che attendeva, per essere messa a frutto, solo il capitale e il lavoro qualificato. La modernizzazione tecnologica accompagnò e contribuì al cosiddetto “miracolo economico”. Altri fattori furono l’atteggiamento e il ruolo della pubblica amministrazione, che partecipò alla vita economica sia direttamente che indirettamente: furono nazionalizzate alcune industrie di base, redatti programmi economici e assicurata un’ampia gamma di servizi sociali. A livello internazionale buona parte del merito per la bontà dei risultati economici va al grado relativamente

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elevato di collaborazione intergovernativa. Tale collaborazione non fu sempre spontanea e alcuni progetti fallirono per scarsa cooperazione. Molto credito va dato infine alla ricchezza del capitale umano europeo. I bassi livelli di analfabetismo e l’abbondanza di istituzioni scolastiche specializzate, dai giardini d’infanzia alle Technische Hochschulen, dalle università agli istituti di ricerca, assicuravano il personale qualificato e il “brainpower” necessari per applicare efficacemente la nuova tecnologia. Nel primo rigoglio di successo del Piano Marshall molti osservatori dedussero erroneamente che sarebbe bastato da solo a provocare lo sviluppo furono intrapresi grandiosi progetti, quali l’alleanza per il progresso tra gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina, destinati a spegnersi nel fallimento e nella delusione.

La formazione del blocco sovieticoL’Unione Sovietica subì i danni più ingenti di qualsiasi altro paese coinvolto nella guerra. Nonostante le sofferenze del popolo russo, l’Unione Sovietica si affermò come una delle due superpotenze del dopoguerra. Questo ruolo le fu consentito dall’immensità del suo territorio e della sua popolazione. Per risanare l’economia devastata il Governo varò nel 1946 il quarto piano quinquennale. Fu sostituito il Consiglio dei commissari del popolo con un Consiglio dei ministri in cui lo stesso Stalin assunse la posizione di presidente o primo ministro. Dopo la morte di Stalin il leader supremo divenne Kruscev. Al XX congresso del partito, Kruscev pronunciò un discorso in cui denunciava Stalin come un tiranno spietato e dichiarava che il dispotismo staliniano era un’aberrazione di una politica essenzialmente corretta e affermò che la nuova direzione collettiva era tornata agli autentici principi leninisti. Il discorso di Kruscev trapelò al pubblico provocando fermenti tra i popoli dei paesi comunisti. Il Governo intraprese una campagna ufficiale di “destalinizzazione” che vide la rimozione delle spoglie dell’ex leader dalla celebre tomba di Lenin sulla Piazza Rossa di Mosca. Ma la natura essenziale del sistema economico sovietico non mutò. Nel 1955 il Governo annunciò il completamento di un piano quinquennale. L’industria pesante continuò ad accrescere la produzione ma rimase lontana dal tipo statunitense, mentre quella dei beni di consumo continuò a procedere a rilento. L’agricoltura rimase in una situazione di crisi. Nel 1954 Kruscev diede l’avvio ad un progetto di “terre vergini” che prevedeva la messa a coltura di grandi distese di terre aride nell’Asia sovietica. Lanciò una campagna per aumentare la produzione di mais, un’altra per la produzione di latte, burro e carne. Ma nessuno di questi programmi si avvicinò agli obiettivi dichiarati. La vita sovietica continuò ad essere caratterizzata dalla carenza di generi alimentari. Gli Alleati riuscirono a stipulare trattati con i paesi satelliti della Germania e ad accordarsi sul trattamento delle vittime dell’aggressione nazista in Europa orientale. I termini generali della sistemazione dell’Est europeo erano stati delineati nella conferenza di Yata. Essi prevedevano un ruolo maggiore dell’Unione Sovietica. Nel 1947 vennero firmati i trattati con la Romania, l’Ungheria la Bulgaria e la Finlandia. La reintegrazione della Cecoslovacchia e dell’Albania era un fatto scontato. Dato che questi paesi non erano mai stati in guerra con gli Alleati, la maniera in cui furono liberati fece però sì che cadessero nella sfera d’influenza sovietica. La Cecoslovacchia ebbe come Presidente del Governo Edward Benes che

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sperava di fare della Cecoslovacchia un ponte fra la Russia e l’occidente, fino alla presa di potere da parte dei comunisti nel febbraio del 1948. Durante la guerra Churchill e Stalin si erano accordati su un’equa spartizione delle sfere d’influenza in Jugoslavia dopo la guerra. I partigiani jugoslavi, guidati dal maresciallo Tito, liberarono però il paese, si fecero le elezioni nel novembre 1945 e fu proclamata una repubblica popolare federale. Tito governò il paese in modo non diverso da quello di Stalin, rifiutò tuttavia di accettare le imposizioni dell’Unione Sovietica e nel 1948 ruppe pubblicamente con quest’ultima e con gli altri satelliti comunisti. La determinazione dei confini postbellici della Polonia e della sua forma di governo rappresentò uno dei problemi più spinosi del processo di pacificazione. Nelle ultime fasi della guerra erano esistiti due governi provvisori polacchi, uno a Londra e uno nella parte della Polonia occupata dai russi. Su insistenza dei Sovietici si fusero formando un governo provvisorio di unità nazionale, la coalizione resse fino al 1947 ma poi la Polonia fu spostata 300 miglia più a ovest. I termini dell’accordo prevedevano solo che la Polonia dovesse avere un’amministrazione “temporanea” della regione a est della linea Oder-Niesse. Ma vi fu immediatamente l’espulsione di milioni di tedeschi residenti nella regione per accogliere vari milioni di polacchi. Nei trattati di pace con i satelliti tedeschi dell’Est europeo la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria, furono incluse clausole territoriali che seguivano un consolidato modello storico. La Romania riottenne dall’Ungheria la Transilvania ma dovette restituire all’Unione Sovietica la Bessarabia e la Bucovina settentrionale e alla Bulgaria la Dobrugia. L’Ungheria subì le perdite maggiori, in quanto dovette cedere una piccola area alla Cecoslovacchia. Tutti e tre i paesi sconfitti furono obbligati al pagamento delle riparazioni. I trattati di pace non affrontarono in alcun modo il problema della scomparsa dei paesi baltici della Lettonia, della Lituania e dell’Estonia. Già appartenuti all’Impero zarista del 1917, furono invasi nel 1941 e rioccupati in seguito dall’armata rossa nel 1944-45. Infine furono annessi senza clamore dall’Unione Sovietica come “repubbliche autonome”. Nel gennaio del 1949 l’Unione Sovietica creò il Consiglio di aiuto economico reciproco (COMECON) nel tentativo di dare maggiore coesione alle economie dei suoi satelliti dell’Est europeo. Vi entrarono a far parte l’Albania, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia e la Germania Orientale. L’Urss se ne servì per accrescere la dipendenza economica dei paesi satelliti. Alla morte di Stalin nel 1953 il blocco sovietico in Europa aveva un aspetto monolitico. Ciascuno dei paesi satelliti era più o meno una riproduzione in miniatura dell’Unione Sovietica, ma dietro la facciata dell’unità si nascondevano tendenze disgregatrici. Presto questi paesi furono percorsi da una ventata di irrequietezza, che assunse una tale gravità da costringere le autorità sovietiche che ancora li occupavano a reprimerli con la forza delle armi. Nel 1956 in Ungheria divenne primo ministro Nagy, un “nazionalcomunista” che promise ampie riforme e libere elezioni. Egli annunciò che l’Ungheria si sarebbe ritirata dal Patto di Varsavia e chiese alle nazioni Unite di garantire la neutralità perpetua dell’Ungheria sulla stessa base di quella austriaca. Questo era troppo per l’Unione Sovietica che inflisse all’Ungheria distruzioni paragonabili a quelle della Seconda Guerra Mondiale. Anche dopo che i russi ebbero riportato la situazione sotto controllo molti continuarono la

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lotta sulle colline con azioni di guerriglia. La rivolta ungherese mostrò chiaramente che persino una Russia destalinizzata non era preparata a rinunciare al suo impero comunista. Il movimento per un socialismo autenticamente democratico ebbe il massimo sviluppo in Cecoslovacchia. Nel gennaio del 1968 il partito comunista ceco guidato da Dubcek avviò un programma di riforme che prevedeva tra l’altro un maggiore ricorso al libero mercato, l’allentamento della censura di stampa e una buona misura di libertà personale. In un primo momento i governanti del Cremlino cercarono di persuadere i dirigenti cechi a ritornare a politiche comuniste ortodosse, ma senza successo. Alla fine, nell’agosto del 1968, l’esercito e l’aviazione sovietici invasero la Cecoslovacchia e proclamarono la legge marziale. Ancora una volta, come nel 1953 in Germania orientale e nel 1956 in Ungheria i fatti dimostrarono che l’impero comunista russo poteva essere mantenuto integro solo con la forza. La Repubblica Popolare cinese, pur non appartenendo al blocco sovietico, fu per breve tempo alleata dell’Unione Sovietica. La Seconda Guerra Mondiale aveva inflitto sofferenze tremende ad un paese già povero. Nel corso del conflitto i comunisti cinesi avevano collaborato con il leader nazionalista Chiang Kai-shek nella resistenza ai giapponesi. Alla fine del conflitto si rivoltarono contro Chiang e nel 1949 lo cacciarono dal continente a Taiwan insieme ai suoi seguaci. Il primo ottobre 1949 i comunisti guidati da Mao Tse Tung e Chun en–lai proclamarono formalmente la repubblica popolare cinese con capitale Pechino. I comunisti estesero rapidamente il loro dominio all’intero paese: consolidato il controllo politico il nuovo Governo intraprese la modernizzazione dell’economia e la ristrutturazione della società. Dopo una prima fase in cui fu tollerata la proprietà privata sia in agricoltura che in maniera limitata nel commercio e nell’industria, nel 1953 il Governo cominciò a incoraggiare la collettivizzazione dell’agricoltura e intraprese una generale nazionalizzazione dell’industria. Ma il programma si tradusse in un fallimento. Nel 1961 il Governo ridimensionò i propri obiettivi, in quelli principali della dirigenza comunista cinese: dare una nuova struttura alla società e riformare i processi di pensiero, il comportamento e la cultura. La vestigia della struttura di classe “feudale” e “borghese” furono eliminate con i semplici espedienti delle espropriazioni e delle esecuzioni. Nel 1966 Mao varò una grande rivoluzione culturale contrassegnata da tre anni di terrorismo e violenze, durante i quali molti intellettuali furono costretti a lavorare come contadini e operai comuni. Fin dall’inizio l’Unione Sovietica aveva accordato alla Repubblica Popolare cinese assistenza economica, tecnica e militare ma i cinesi rifiutarono di conformarsi alle direttive sovietiche. Dopo una serie di scontri di confine, le due superpotenze del mondo comunista arrivarono sull’orlo di un conflitto aperto. La Cina conseguì nel 1964 il suo maggiore trionfo tecnologico con l’esplosione di una bomba atomica. Per compensare l’ostilità sovietica i cinesi intrapresero un processo di riavvicinamento all’occidente che culminò nel 1971 con il ritiro da parte statunitense delle obiezioni all’ammissione della Repubblica Popolare cinese nelle Nazioni unite. Dopo la morte di Mao nel 1976 i contatti con l’occidente si intensificarono, il Governo guidato da Teng Hsiao-ping permise una limitata reintroduzione del libero mercato e della libera impresa. L’Unione Sovietica possedeva in Asia altri tre satelliti o stati vassalli. La Repubblica Popolare mongola fu

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il primo stato comunista dopo l’Urss. Divenne membro del Comecon nel 1962. Nel 1978 il primo segretario del partito comunista annunciò che il paese era stato trasformato da agricolo-industriale a industriale-agrario. Dopo la sconfitta del Giappone truppe americane e sovietiche occuparono congiuntamente la Corea. La Repubblica Popolare Democratica di Corea, o Corea del Nord, possedeva un’economia di tipo sovietico che in confronto con la maggior parte dei paesi dell’est asiatico appare estesamente industrializzata. Nonostante i danni subiti durante la guerra di Corea, la sua industria fu rapidamente ricostruita con l’aiuto sovietico e cinese. La Repubblica Socialista del Vietnam è l’erede della Repubblica Democratica del Vietnam fondata nel 1945 da Ho Chi Minh. Terminato il conflitto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il paese fu diviso in un Vietnam del nord comunista e un Vietnam del sud anticomunista. Nella tragica guerra civile che seguì negli anni sessanta e settanta il Sud rimase sconfitto nonostante i massicci aiuti militari ed economici degli Stati Uniti. L’economia era tradizionalmente agraria, l’industrializzazione è stata incoraggiata dal Governo, che possiede e dirige praticamente tutte le imprese. Il solo Stato socialista dichiaratamente alleato dell’Unione Sovietica nell’emisfero occidentale era la repubblica di Cuba. Fidel Castro, il leader rivoluzionario che rovesciò l’autoritario dittatore Fulgencio Batista il 1° gennaio del 1959, in un primo momento non si proclamò marxista, ma la politica anticastrista degli Stati Uniti, culminata nel 1961 con l’appoggio alla disastrosa invasione della Baia dei Porci, lo gettò tra le braccia dell’Unione Sovietica. Tagliata fuori dai suoi mercati tradizionali ma pur sempre dipendente dal suo tradizionale prodotto d’esportazione, lo zucchero, Cuba ricevette la maggior parte dei manufatti dal blocco sovietico. Nel 1972 divenne membro del Comecon.

Economia della decolonizzazioneLa Seconda Guerra Mondiale inflisse un colpo mortale all’imperialismo europeo. Le Filippine, le Indie orientali olandesi, l’Indocina francese, la Birmania e la Malaysia britanniche caddero sotto il dominio giapponese. Altrove in Asia e in Africa la sconfitta della Francia del Belgio e dell’Italia e la preoccupazione dei Britannici per lo sforzo bellico lasciarono le dipendenze coloniali in balia di se stesse. Alcune di esse proclamarono l’indipendenza, altre videro la nascita di partiti indipendentisti che si battevano contro il dominio coloniale. Nell’immediato dopoguerra le potenze imperiali ripresero il controllo della maggior parte delle ex colonie ma la debolezza causata dalla guerra e la forza crescente dei movimenti indipendentisti condussero ad un graduale abbandono dei poteri imperiali. L’indipendenza concessa dalla Gran Bretagna al subcontinente indiano determinò la nascita non di uno ma di sue stati: l’India e il Pakistan, il primo di religione indù e il secondo musulmano. L’anno dopo fu la volta dell’isola di Ceylon (nello Sri Lanka). Il Pakistan era diviso in due parti: il Pakistan Occidentale, di lingua urdu, sul fiume Indo e il Pakistan Orientale di lingua bengalese, dall’altra parte del fiume Gange. I pakistani dominarono gli orientali fino alla rivolta che culminò con la fondazione del Bangladesh. Questi paesi sono tutti poveri, hanno poche risorse naturali, alti livelli di analfabetismo e governi instabili con disordini razziali e religiosi. Altri paesi che ottennero l’indipendenza furono: la

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Birmania, l’Indonesia, il Laos, la Cambogia, Singapore, Borneo, la Malaysia e le Filippine. Tutti questi paesi hanno caratteristiche comuni, quali il clima, la topografia, sono rurali e agrari, alti livelli di analfabetismo e di crescita demografica. Seppure nominalmente repubbliche, le forze della democrazia sono deboli e molti di essi hanno dovuto sottostare a lunghi periodi di dittatura. Anche le colonie africane, dopo anni di rivolte ottennero l’indipendenza. Tutti i paesi nordafricani sono prevalentemente agrari con un’agricoltura di tipo mediterraneo ma possiedono anche importanti risorse minerarie. In particolare, il petrolio e il gas naturale scoperti in Algeria poco dopo l’indipendenza hanno dato a questo paese sia mezzi per sviluppare l’industria che quelli per svolgere un certo ruolo nella politica mondiale. All’inizio degli anni cinquanta molti osservatori ritenevano che l’indipendenza delle popolazioni nere dell’Africa subsahariana avrebbe richiesto un periodo di una o più generazioni; in realtà nel volgere di un decennio dai vecchi Imperi, britannico, francese e belga erano nati più di venti nuovi stati. Questo sorprendente sviluppo fu dovuto solo in parte alla forza dei movimenti indipendentisti indigeni. Altrettanto importanti furono le difficoltà interne delle potenze imperiali, che le resero meno disponibili a sopportare gli alti costi (economici, politici e morali) della conservazione del dominio su popoli stranieri contro la loro volontà. Una volta iniziato il processo di emancipazione questo continuò come una reazione a catena. Alla metà degli anni ‘60 tutte le ex potenze coloniali europee avevano concesso l’indipendenza a quasi tutte le loro dipendenze asiatiche e africane. Ma i nuovi Stati erano poveri perché le potenze europee avevano solo sfruttato le colonie senza prepararle ad un autogoverno responsabile, quindi alcune amministrazioni dei nuovi stati fu afflitta dalle piaghe dell’inefficienza e della corruzione.

Le origini della Comunità EuropeaIl sogno di un’Europa unita è antico quanto l’Europa stessa. Il concerto europeo che si sviluppò dal Congresso di Vienna del 1815 fu un tentativo di coordinare la politica ai livelli più alti di governo. La Società delle Nazioni fu un concerto dei vincitori europei della Prima Guerra Mondiale. Quasi riuscito fu il tentativo di Hitler di creare una Festung Europa dominata dai nazisti. Tutti questi tentativi fallirono per l’incapacità di sedicenti unificatori di conservare il monopolio del potere di coercizione e la riluttanza dei soggetti a sottomettersi volontariamente alla loro unità. L’idea del nazionalismo si insediò così profondamente nel pensiero europeo che la sovranità divenne quasi sinonimo di nazionalità. Fino alla Seconda Guerra Mondiale le nazioni moderne si opposero con sollecitudine ad ogni tentativo di usurpare o in qualunque modo limitare la loro sovranità. La distinzione tra organizzazioni internazionali o sopranazionali è questa: le organizzazioni internazionali dipendono dalla cooperazione volontaria dei loro membri e non possiedono un reale potere di coercizione, le organizzazioni sopranazionali dipendono dalla cooperazione volontaria dei loro membri e non possiedono un reale potere di coercizione e inoltre richiedono che i loro membri cedano almeno una parte della loro sovranità e possono costringerli a uniformarsi alle proprie disposizioni. Sia la Società delle

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Nazioni che le Nazioni Unite sono esempi di organizzazioni internazionali. In Europa l’Oece e la maggior parte delle organizzazioni postbelliche degli Stati sono state internazionali. Le proposte dei vari tipi di organizzazioni sopranazionali europee scaturiscono da due motivazioni distinte, politiche ed economiche. Il motivo politico è radicato nella convinzione che solo attraverso un’organizzazione sopranazionale la minaccia di una guerra tra le potenze europee può essere permanentemente estirpata. il motivo economico si fonda sulla tesi che i mercati più ampi promuoveranno la specializzazione e la concorrenza, e di conseguenza una produttività più elevata ed un più alto tenore di vita. I due motivi si fondono nella considerazione che la forza economica è la base della potenza politica e militare e che un’economia europea pienamente integrata renderebbe le guerre intraeuropee meno probabili. L’unione doganale del Benelux, che permise il libero movimento delle merci tra Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo e una tariffa esterna comune, derivò dalla consapevolezza che le economie dei singoli Stati erano troppo piccole da permettere loro di godere in pieno dei benefici della produzione di massa. La ratifica formale del trattato venne nel 1947. L’Oece richiedeva solo cooperazione, non una piena integrazione. Nel 1950 il ministro degli esteri francese Shuman propose l’integrazione delle industrie del carbone e dell’acciaio della Francia e della Germania Occidentale, le motivazioni erano sia politiche che economiche. Il carbone e l’acciaio erano il cuore dell’industria tedesca sotto sorveglianza e controllo. Ansiosa di essere ammessa nel nuovo concerto europeo, la Germania Occidentale rispose con alacrità, come del resto fecero i paesi del Benelux e l’Italia. La Gran Bretagna rispose con più cautela e non vi partecipò. Il trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) fu siglato nel 1951, esso prevedeva l’eliminazione delle tariffe e dei contingenti in materia di scambi intracomunitari di minerale ferroso, carbone, coke e acciaio, una tariffa esterna comune sulle importazioni da altri paesi e controlli sulla produzione e selle vendite. Per sovrintendere a queste operazioni furono creati diversi organismi di carattere sopranazionale. In seguito fu costituita la Comunità di Difesa Europea. Sviluppi quali la Corea, l’istituzione della Nato nel 1949 e la rapida ripresa economica della Germania avevano dimostrato l’importanza di includere i contingenti tedeschi in una forza militare dell’Europa occidentale. Ma c’era ancora molta ostilità nei confronti dei Tedeschi. Nel 1957 furono siglati altri due trattati che istituivano la Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM) per lo sviluppo di usi pacifici e l’energia atomica e la Comunità Economica Europea (CEE) o Mercato Comune che prevedeva la graduale eliminazione dei dazi sull’importazione e delle limitazioni quantitative su tutti gli scambi tra i paesi membri e l’introduzione di una tariffa estera comune. Una delle clausole più importanti del trattato fu che esso non poteva essere denunciato unilateralmente e che le decisioni sarebbero state prese da una maggioranza qualificata piuttosto che all’unanimità. Sia il trattato del mercato comune che quello dell’Euratom istituirono commissioni per sovrintendere al proprio funzionamento. La Gran Bretagna, i paesi scandinavi, la Svizzera, l’Austria e il Portogallo crearono l’Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA), ma era un unione molto più debole del mercato comune e prevedeva l’eliminazione delle tariffe sui prodotti industriali tra i paesi firmatari. Alla fine anche questi paesi entrarono a

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far parte dell’organizzazione insieme alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo. Nacque il parlamento europeo che prima aveva solo potere consultivo e in seguito ebbe anche un limitato controllo sul bilancio. Nel 1979 i membri del Parlamento furono eletti direttamente dal popolo e presero posto nell’assemblea come raggruppamenti di partiti piuttosto che secondo la nazionalità. Un problema persistente fu il Sistema Monetario Europeo (SME) che prevedeva la sostituzione delle varie valute nazionali con una singola unità di conto, l’ECU. Inoltre furono stipulati diversi trattati con i Paesi del Terzo Mondo che permettevano l’ingresso libero dei loro prodotti nella comunità.

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