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Il settore della divulgazione culturale ha ri-chiesto, e tutt’ora richiede, a collaboratori e redat-tori maggiori e più articolate attenzioni, la prima delle quali è la necessità inderogabile che i contri-buti divulgativi rimangano al livello di una media cultura per essere più agibili a un numero sempre maggiore di lettori.

Ampio il ventaglio divulgativo a cominciare dal campo scientifico, sanitario che impiega mag-giori attenzioni dei lettori su tutti gli sviluppi e tra-guardi della scienza medica protesa a combattere il dolore e le cause che affliggono la nostra citta-dinanza.

Di rilievo i diversi rami della scienza specu-lativa e attuativa i cui spettacolari progressi che, specie quelli dell’ingegneria spaziale, generano affascinanti attese.

Un monito, e severo, va invece al campo delle mirabolanti e inarrestabili innovazioni della microelettronica, mentre qualsiasi altro campo de-sta ammirazione e consensi per le valide fruizioni.

Tutto bene ciò che è bene, s’intende, ma ci sono campi in cui all’indiscussa validità delle rapide tappe sulle mete del progresso, si contrap-pongono autentici pericoli sociali. I nostri colla-boratori nei loro scritti alludono spesso a quell’e-lettronica tascabile, oggi di inarrestabili sviluppi, a uso indiscriminato dei minori, ottusi e inermi manipolatori di schemi digitali che li chiudono a ogni sana e naturale relazione nelle comunicazioni della collettività.

Non basta, e qui il monito è ancora più forte, quando rivolto ai sempre più diffusi pannelli elet-tronici che consentono al minore di fotografare in-discriminatamente chiunque consentendogli di re-care grave nocumento al prossimo. Identico il dire sulla facoltà indiscriminata del minore a scrivere quello che vuole e usarlo come pericolosa arma contro la collettività.

Ancora limitati i contributi dei collaborato-ri a spaziare sulle scienze pedagogiche che oggi invece richiamano sempre più ampi interessi. Ov-viamente, senza prendere le posizioni del profano nei confronti dei numerosi temi in dibattimento su Didattica e Scuola, l’impegno de “La Scelta” è quello di esporne le tematiche e i programmi per una più valida fruizione scolastica, anche verso un auspicabile migliore prestigio del padre nell’am-bito familiare e del docente per la tutela dei valori inalienabili della famiglia e dell’educazione.

G. S.

SOMMARIO

EditorialE

G. S. .................................................... pag. 1

Storia

LondiniumGiorgio Spina ..................................... pag. 3

AtlantideClara Rubbi ........................................ pag. 4

Simon BoccanegraChiara Colella ................................... pag. 5

Lega Anseatica Giorgio Antinoris ............................... pag. 7

Cultura

Homo SapiensMarco Cingolani ................................ pag. 9

Analisi del linguaggioMaria Galasso ................................... pag. 12

Attualità

Occhio alle truffePaola Tiscornia .................................. pag. 14

Binge DrinkingPaola Tiscornia .................................. pag. 16

VariE

Fantasia della sofferenzaGrazia ................................................ pag. 17

La tonnarella di CamogliMarco Cingolani ................................ pag. 19

Riti FunEbri

Le sepolture presso i romaniMauro Nicoscìa .................................. pag. 23

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Comitato Scientifico

Enzo Baldini

Docente Universitario di Storia delle DottrinePolitiche

Luisella Battaglia

Docente Universitario di Bioetica e Filosofia Morale

Giuseppe Benelli

Docente Universitario di Filosofia del Linguaggio

Giovanna Rotondi Terminiello

Storico dell’Arte

Michele Schiavone

già Ordinario emerito di Bioetica

Francesco Massimo Tiscornia

Avvocato del Foro di Genova

Fax 010 5962000E-mail: [email protected]

internet: www.socrem-genova.org

Fondata il 14 Aprile 1897

eretta in Ente Morale con R.D. del 13 Aprile 1902

Sede:

Via Lanfranconi, 1/4 - 16121 Genova

Tel. 010 562072 - 593174

SO.CREM

ConsiglieriMarco Cingolani, Maria Galasso,

Clara Rubbi, Enrico Sparviero,

Giorgio Spina, Davide Zucca

COMITATO di CONTROLLO

Giacomo Longo Membro

Luigi Santori Membro

DIREZIONEGiulia Mangiarotti Direttore

Maria Galasso

Marco Cingolani

Mauro Peirano

Clara Rubbi Redattore capo

Comitato di Redazione

Giorgio Spina Direttore Responsabile

Edoardo Vitale Fondatore

Autorizzazione del Tribunale di Genova n° 20/98

Manuela Ferrari

Salvatore Nicoscìa

Giulia Mangiarotti

“La Scelta”

Periodico edito dal Centro Studi della SO.CREM

GLI AUTORI SI ASSUMONO LA RESPONSABILITÀ DEGLI ARTICOLI FIRMATII MANOSCRITTI NON PUBBLICATI NON SI RESTITUISCONO

GLI ARTICOLI POSSONO ESSERE RIDOTTI DALLA REDAZIONE A SUO INSINDACABILE GIUDIZIO

Salvatore Nicoscìa Vice Presidente

CONSIGLIO di AMMINISTRAZIONE

Flora Pistelli Barbis Segretario

Mauro Peirano Presidente

Chiara Colella

A QUESTO NUMERO:

HANNO COLLABORATO

Paola Tiscornia

Grazia

Grafica e Stampa: Tipolitografia TORRE - GenovaQuesto periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana

MEDAGLIA D’ARGENTOCOMUNE DI GENOVA

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Or sono trascorsi più di duemila anni da quando le legioni romane di Giulio Cesare e dei suoi successori (fino ad Adriano, l’autore del “Vallum” contro gli Scozzesi) presero terra sulle aree acquitrinose delle isole britanniche affacciate sul Continente europeo, dalle foci del Tamigi, grosso modo, alla Manica, fino alla punta estrema di Pensance rivolta verso le opposte coste normanne.

L’insediamento romano, inizialmente militare, si estese alle più importanti contee meridionali, specialmente al Dorset. Come scrisse Thomas Hardy nei suoi romanzi, numerosi furono i reperti romani in quella contea: stele funerarie, iscrizioni su pietra, lastre di marmo e di granito affiorate qua e là nelle verdi distese dove la vanga dell’agricoltore riuscì ad anticipare i programmi mirati degli scavi archeologici. Campeggi militari erano sorti un po’ dovunque, i “castrum”, il cui termine latino è rimasto nell’odierno inglese della toponomastica. Infatti, le città inglesi il cui nome finisce per “chester” (Manchester, Leicester, Colchester, per esempio) conservano corrotto l’antico termine romano “Castrum”.

“Londinium” sorse più tardi, forse intorno al 45 d.C. e non ancora come città ma come emporio commerciale grazie all’apertura delle prime “tabernae” (botteghe). Conclusa negli ultimi secoli l’opera di indefessi archeologi, più fruttuosa quella dei primi due che non nel terzo, la nuova città emerse nelle sue parti più significative dai sedimenti di quasi dieci metri che in due secoli avevano ricoperto le opere della Britannia romana. Il che consentì di delineare un’area primitiva dell’insediamento, vale a dire un’area urbanistica più o meno corrispondente a quella eretta nei suoli dell’impero dai legionari romani. L’area è quella

che ricopre l’intera City, dal ponte Blackfriars alla spianata digradante sul fiume, dove, dopo il Mille troveranno spazio le originali mura normanne della Torre di Londra. Le sponde del Tamigi, di là fino all’“East End” e alla foce costituirono l’affollato centro mercantile per i traffici navali con il Continente.

Individuata così l’area urbanistica tracciata dalle mura del “London Wall”, superfici oggi distintamente topografiche e monumentali, gli archeologi misero a nudo i reperti di un campo trincerato, la sede del governatorato romano dispiegato negli spazi prospicenti l’odierna stazione ferroviaria di Cannon Street e un imponente edificio per l’alta dirigenza che le consentiva di controllare l’intero panorama della nascente città con il lungo ponte sulle due rive, non molto lontano dall’attuale “London Bridge”. Con la città sul Tamigi si reiterava la norma della capitale sul fiume, come lo diventeranno quasi tutte.

Gli archeologi rinvennero l’antico Foro, dove veniva amministrata la giustizia, e quello nuovo, più spazioso, edificato dopo il 61 d.C., proprio l’anno in cui un popolo celtico ribelle, i Ceceni, condotti dalla loro regina guerriera, Boudicca, scatenarono una rivolta contro gli stranieri. Gli aggressori, o liberatori, invasero la città, fecero strage dei legionari e misero a ferro e fuoco ogni edificio. Nomi romani sono affiorati dappertutto nella “City”, come quello di una locale trattoria “Mitra” (nome dalle origini persiane) dove nel Settecento consumerà i suoi lauti pranzi il Dott. Samuel Johnson con le sue schiere di amici. Gli archeologi trovarono anche in muri e pavimenti i segni del terribile incendio, come quelli nella cappella vicino alla Torre dove si recava a pregare Elisabetta I^ giovinetta.

Superati i momenti di sorpresa e di spavento, i legionari riuscirono a sopraffare i ribelli e a ristabilire l’ordine costituito. La “Londinium” venne riordinata e cominciò ad estendersi in aree sempre più vaste della pianura solcata dal Tamigi, nel “West End” e a Knightsbridge.

Giorgio Spina

QUANDO LONDRA SI CHIAMAVA “LONDINIUM”

· S T O R I A ·

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A migliaia di anni di distanza, da quando sarebbe sprofondato negli abissi dell’Atlantico, il continente di Atlantide continua ad essere uno degli enigmi più appassionanti della storia. Se pur esistita, Atlantide fu una civiltà, che non ha avuto eguali. Eppure sarebbe svanita senza lasciare traccia.

Il racconto più antico dell’ascesa e della scomparsa di questa grande isola risale il IV secolo a.C. ed è opera del filosofo Platone. Secondo la sua descrizione, Atlantide era un territorio dove gli animali abbondavano e dove gli agricoltori avevano creato immensi frutteti. Esistevano palazzi signorili, il sontuoso palazzo del re e un tempio eretto in onore di Poseidone, dio del mare. Ma il lusso e i piaceri, cui si dedicavano gli abitanti, suscitò l’ira degli dei, che fecero sprofondare l’isola in fondo all’oceano. E con l’isola sparirono tutti i tesori che conteneva.

Nella capitale non si contavano i palazzi signorili, ma su tutti spiccavano il palazzo del re e il tempio eretto in onore di Poseidone. Ma l’oro, il lusso, i piaceri, di cui si circondavano gli abitanti di Atlantide suscitarono le ire degli dèi che decisero la fine di Atlantide, Molti sono convinti che nel fondo dell’oceano esistano ancora tesori di Atlantide e che un giorno qualche audace sommozzatore riuscirà a trovarli. Il nome Atlantide sembra che derivi da Atlante, figlio primogenito di Poseidone e primo re di Atlantide. Sempre, secondo il racconto di Platone, l’impero di Atlantide dominava su quasi tutto il Mediterraneo.

Il lusso sfrenato dominava la città, mentre lo spirito religioso si andava estinguendo. La

ricchezza aveva fatto smarrire agli Atlantidi ogni virtù, ogni senso morale. Pare che stessero armando un esercito per conquistare Atene e l’Oriente.

Ma Zeus intervenne: scatenò spaventosi terremoti, sollevò onde gigantesche (così scrive ancora Platone): in un solo giorno e in una sola notte l’isola di Atlantide s’inabissò in un punto dell’Oceano molto profondo, pericoloso per la

navigazione e, quindi, inesplorabile.

Si racconta che nel 1939 un uomo in stato di “trance” ebbe la visione degli ultimi giorni di Atlantide. Comunque il ricordo del favoloso continente perduto, ha incantato poeti, filosofi, scienziati, soprattutto da quando Platone nel Crizia, uno dei suoi ultimi dialoghi, descrisse la

favolosa Atlantide nel 355 avanti Cristo.Il perduto continente di Atlantide è stato

oggetto di più di duecento libri (e recentemente anche della trasmissione “Focus”).

Atlantide era terra fertile, ricca di fauna e flora. Pare che vi fossero anche gli elefanti. Il sottosuolo aveva miniere di oro e di argento, forse anche materiale radioattivo. Questo potrebbe spiegare la catastrofe finale.

La scomparsa di Atlantide fu paragonata a quella di Troia. Entrambe città scaturite dalla fantasia degli scrittori. Ma Heinrich Schliemann, ricco signore con la passione dell’archeologia, scoprì che sotto le rovine della città turca di Hissalich c’era sepolta una città: aveva scoperto le rovine di Troia. E il mito divenne realtà.

Forse un giorno un sommozzatore fortunato troverà nel fondo del mare tracce dell’isola di Atlantide.

Clara Rubbi

I L MISTERO DI ATLANTIDE

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Per gli storici fu il primo doge di Genova. Per i melomani il protagonista delineato dalla sapiente penna di Francesco Maria Piave e immortalato dalla musica di Giuseppe Verdi. Per i più solo un nome, non più noto del Carneade di manzoniana memoria. Laddove non ha potuto la storia (ridotte all’essenziale le note biografiche su di lui) ha potuto la poetica opera del Cigno di Busseto, tanto che Simone nella sua identità storica, sta sfumando nel mito quasi non avesse mai calcato il palcoscenico della vita ma solo il palcoscenico dei teatri. Dalla prima rappresentazione al Teatro La Fenice di Venezia (1857) a oggi, migliaia e migliaia di spettatori l’hanno conosciuto nei torbidi giorni in cui visse, quando Genova, dilaniata da lotte intestine, scelse, a furor di popolo, il suo primo doge, il borghese (uno scandalo per l’epoca!) Simone Boccanegra, discendente del primo Capitano del Popolo della Superba, Guglielmo Boccanegra. Non fu un governo tranquillo; luci e ombre si rincorsero creando un’immagine in chiaroscuro di difficile lettura. Persino le circostanze della sua morte non furono certe anche se il sospetto di morte per avvelenamento alla fine trovò il maggiore credito. Era il 3 marzo 1363 e Simone era appena rientrato da un banchetto offerto in onore del re di Cipro, quando accusò i primi dolori che rapidamente lo portarono alla tomba.

Dopo quasi 656 anni da quella tragica

notte, la sua città lo ha ricordato nel fortunato allestimento del Teatro Carlo Felice: a dargli volto e voce il magistrale baritono Ludovic Tézier, a prestargli parole e sentimenti, ancora una volta, Francesco Maria Piave e Giuseppe Verdi.

La scenografia essenziale, ma icasticamente efficace, che ha riprodotto paesaggi e luci della marina ligure, la delicata e sapiente direzione d’orchestra di Andriy Yurkevych che ha saputo attenuare la veemenza musicale anche nei momenti “forti” dell’opera a vantaggio di una lettura più intensa e poetica, hanno fatto conoscere al numeroso pubblico in sala il volto tragicamente umano di un personaggio che un tempo fu così potente e temuto.

Tre parole che, nel racchiudere la chiave di volta dell’intera opera, schiudono le porte del cuore di un uomo ormai disilluso dalla vita, logorato dalla politica, solo nella sua numerosa corte.

Immediata e spontanea la reazione di Maria. I due si abbracciano e il potente Doge, al centro di subdole trame, che le scene precedenti hanno lasciato intendere, è solo un padre: “Figlia!... a tal nome palpito qual se m’aprisse i cieli... un mondo d’ineffabili letizie a me riveli; Qui un paradiso il tenero Padre ti schiuderà...” Di mia corona il raggio La gloria tua sarà”. Il sentimento paterno

SIMON BOCCANEGRA TRA STORIA E MUSICA

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tradotto in musica e poesia. L’uomo potente diventa la rappresentazione universale di un padre che vede nella propria figlia il bene più prezioso, da lei ricambiato con altrettanto fervore: “Padre, vedrai la vigile Figlia a te sempre accanto; Nell’ora malinconica asciugherò il tuo pianto... Avrem gioie romite note soltanto al ciel, Io la colomba mite sarò del regio ostel”.

La forza di questo riannodato legame d’amore viene subito messo a dura prova poiché il giovane che Maria ama profondamente altri non è che Gabriele Adorno, nemico giurato del Doge che, perciò, si trova a combattere un’aspra battaglia interiore. Contro ogni speranza, ha ritrovato la figlia che da anni piangeva morta per scoprire che ella ha donato il suo cuore all’uomo che lo odia per avergli ucciso il padre. “O crudele Destino! O dileguate mie speranze! Una figlia ritrovo; ed un nemico A me la invola...”. Tuttavia l’uomo pugnace ha ceduto le armi al padre: l’amore paterno che tutto può spinge Simone a promettere alla figlia il suo consenso alle nozze. “Se egli ravveduto…”. La tenerezza che prova per Maria è tutta qui, in questa brevissima frase lasciata in sospeso, più eloquente di un lungo discorso.

Il Doge, però, non è l’unico a combattere con i suoi demoni interni. Analoga battaglia si agita nel cuore dell’impetuoso Gabriele, a cui dà vita sulla scena l’apprezzatissimo tenore genovese

Francesco Meli. Anche nel suo caso, alla fine, l’amore trionfa. Abbandonati i propositi di vendetta, lasciata la compagine guelfa avversa al Doge, il giovane si schiera con quest’ultimo e sarà proprio lui a raccogliere l’eredità di Simone che, morente, trova la forza di resistere, tra gli spasmi del dolore, fino al momento di congedarsi da Gabriele e Maria, ormai sposi: “Senatori, sancite il voto estremo. Questo serto ducal la fronte cinga di Gabriele Adorno”. Gabriele, il nemico divenuto figlio attraverso il vivificante e prezioso amore paterno che ha sempre legato Simone alla figlia, nonostante la lunghissima separazione, diventa così il nuovo

Doge, mentre – commenta il coro – “S’avvolge la natura in manto di dolor!”.

Cala il sipario. L’opera è conclusa. I personaggi sono restituiti alla storia della musica e alla Storia. Ma permane l’emozione provata nel percepire il vibrare di sentimenti così umani e sempre così attuali come l’amore padre-figlia. Simone Boccanegra: il primo doge, l’uomo politico amato-odiato, l’avversario da abbattere, l’amico da sostenere era anche e soprattutto un padre. Sarà stata la penna di Piave a renderlo tale? Le informazioni sulla sua identità storica sono scarne e allora perché non indugiare in questa idea romantica, perché non pensare che il primo doge della nostra città sia stato anche e soprattutto un padre, dimentico dei propri rancori e del proprio orgoglio, per assicurare alla figlia un futuro felice come i padri di tutto il mondo e di tutti i tempi?

Chiara Colella

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“Hansa”, sia con un “H” all’inizio sia senza, è un vocabolo di antico conio germanico. Affiora talvolta anche oggi, nelle sigle soprattutto, come “Ansa”, l’agenzia giornalistica tedesca, o come “Lufthansa”, la compagnia aerea civile tedesca: “Luft=aria”; “hansa=lega”, ovvero “Compagnia dell’aviazione”.

“Ansa”, nel volere dei suoi antichi fondatori, si intende, come termine esatto di Lega. Si può tradurre altrimenti, ma “Lega” è il suo vocabolo e tale è rimasto nella storia per nascita, azione e storia sociale.

Essa ebbe ben più meriti di quante altre i cui nomi di frequente ricorrono nei testi delle civiltà nordiche. Grande nei suoi meriti, ma grande sarebbe stata anche solo per uno rarissimo: il rifiuto della guerra delle armi. Niente armi che neppure gli Anseatici sapevano costruire e usare; niente guerra come soluzione finale di controversie tra le genti. Sembra di sentir riecheggiare le sante parole della nostra Costituzione.

Ma parliamo ora un po’ di questa “Lega Anseatica” che se mai peccò fu per la vocazione della plutocrazia e per la rigorosa osservanza delle leggi del profitto.

Federazione di città baltiche per la protezione dei loro commerci, dopo due secoli di grande sviluppo, prese forma nel XIV secolo grazie alla partecipazione di un crescente numero di centri commerciali (le città anseatiche, dunque) come Kiel, Lubecca, Brema, Stettino, Amburgo che dallo

Schleswig Holstein danese si estese fino a Danzica, Memel e alle città delle Repubbliche baltiche: Vilna (Lituania), Tallin (Estonia) e Riga (Lettonia).

Lubecca, villaggio di pescherecci, divenne un notevole centro della Westfalia per i traffici con Novgorod la città russa che, importando prodotti europei esportava pellicce, miele, pece, catrame, potassio, cera, carbone di legna, canapa, tessuti di lino. Trascorsero così più secoli di notevole import-export, favorito dalle basi di Gotland, isola davanti alla Svezia, sul Golfo di Botnia, nota anche per i minerali metallici e quelli per l’edilizia.

A Lubecca fecero seguito altri centri mercantili come Brema e Stettino per il commercio dell’ambra, le città prussiane come Danzica per l’esportazione del legname e centro di lavorazione delle farine, malto e birra.

I loro prodotti favorirono il commercio con la Norvegia diventata molto attiva nei traffici anseatici per l’esportazione del merluzzo (Bergen), delle aringhe e dell’olio di balena. Altra penetrazione fu quella in Svezia la cui capitale, Stockolm, divenne

UNA LEGA DI MERCANTI CHE SI CHIAMAVA “HANSA”

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già nel XIV secolo un enorme emporio per i prodotti delle miniere di ferro e di rame. L’estensione dei rapporti riguardò l’Occidente. Amburgo e Lubecca si spinsero nelle Fiandre per il commercio delle tessiture (Bruges, Anversa) che a loro volta stipularono importanti accordi con le più in vista località mediterranee per l’importazione di vino, frutta, spezie e l’esportazione con i mezzi della Lega di tutti i prodotti dell’est europeo e, soprattutto, di salgemma in grande quantità nel sottosuolo di tutta la pianura danubiana e fornito a tutti i Paesi europei come l’indispensabile minerale della vita.

Venezia fu uno dei punti più lontani ma più ricercati dalla Lega che, continuando a esportare salgemma, ambra e pellicce, importò dalla

città lagunare ogni raffinatezza: tessuti, lanerie, coloniali, ricercatezze orientali. Per trasportare tali ingenti mercanzie che via via diventavano sempre più gravose da trasportare via terra, la Lega costruì cantieri navali per il varo di navi mercantili che richiesero un’adeguata protezione militare

prussiana per la difesa contro la pirateria (Lubecca, Rostock).

Il modesto capitolo militare non fu della Lega ma opera di Valdemar IV, re di Danimarca che, geloso dei successi anseatici, attaccò Gotland ma le sue armi furono sconfitte. La pace di Straslung (1370) decretò l’egemonia finanziaria incontrastata dalle città anseatiche alle quali, interessato ai modesti commerci di grano e ambra, si associò l’Ordine Teutonico di Prussia.

Non guerra ma contese commerciali si accesero nel 1438 (con l’Olanda) e nel 1468-1474 (con l’Inghilterra). Grazie alla sua estesa produzione di lana, pellicce e metalli (piombo, stagno, argento), l’isola di Elisabetta Tudor stipulò contratti commerciali con la Renania che in questo caso assunse una posizione privilegiata nella Lega fino a costruire una sua Lega: (“Cologne House of London”).

Raggiunto lo zenith nei XV e XVI secoli, la Lega subì il suo colpo di grazia nella guerra dei Trent’anni che infuriò in tutta Europa.

Fu il declino e la scomparsa nel XVII secolo. L’ultimo mesto incontro di città anseatiche senza più commerci avvenne nel 1669 con la partecipazione delle ultime nove. “Sic transit gloria mundi”.

Giorgio Antinoris

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È stato individuato di recente il genoma della cosiddetta “donna di Vindija”, appartenente alla specie di Neanderthal, vissuta tra 40 e 50mila anni fa e i cui resti furono ritrovati nell’omonima caverna in Croazia.

È soltanto il secondo genoma completo della specie e non è molto diverso dal DNA dell’Homo neanderthalensis della grotta siberiana di Altai.

La ricerca non è stata facile, non essendoci più esemplari di Neanderthal ancora viventi, ma i modelli utilizzati, studiati a tavolino ed elaborati con il computer, hanno fornito risultati interessanti, pur tenendo presente che si tratta di ipotesi.

La scoperta è un lieto avvenimento per la scienza e dice molto sul motivo principale per il quale l’“Homo neanderthalensis” si è estinto: è infatti probabile che i soggetti appartenenti alla specie non si siano saputi adattare ai cambiamenti del clima, alla fame e alle malattie.

Nonostante la somiglianza dell’aspetto, l’uomo moderno e “l’Homo neanderthalensis” si sono sviluppati diversamente e le loro strade si sono separate circa 650 mila anni fa.

L’antenato dell’uomo moderno è rimasto confinato nel territorio dell’Africa, mentre “l’Homo neanderthalensis” si è trasferito al nord e ha popolato l’Europa e l’Asia.

Per moltissimo tempo si è pensato che non avessero niente in comune, però nel 2009

gli scienziati, ricostruendo il genoma dei primi aborigeni dell’Europa, hanno scoperto che il DNA dell’uomo moderno contiene circa il 2-3% dei genî dell’”Homo neanderthalensis”.

Successivamente i paleogenetisti hanno scoperto che la popolazione di “Homo

neanderthalensis” non era molto numerosa e che il loro numero si attestava attorno ai 3000 individui.

Essi hanno anche scoperto che gli aborigeni dell’Europa hanno cominciato ad entrare in contatto con gli uomini di “Cro-Magnon” già 50 mila anni fa e il prodotto di questi contatti è costituito da 15 nuovi genî del “Homo neanderthalensis” nel DNA dell’uomo moderno, mai trovati prima.

Molto probabilmente gli aborigeni dell’Europa si sono estinti non tanto a causa dei conflitti con gli uomini di “Cro-

Magnon”, quanto piuttosto per la mancanza della capacità di adeguarsi alle nuove condizioni climatiche.

La cosa più interessante della scoperta risiede nel fatto che l’uomo di Neanderthal ha lasciato nel DNA dell’uomo moderno più genî del previsto, regalandogli mutazioni oggi associate a problemi cardiaci, obesità, artrite, accumulo di grasso addominale (la cosiddetta pancetta), colore della pelle, degli occhi e dei capelli, i ritmi del sonno e persino all’aumento del rischio di sviluppare schizofrenia,offrendo al contempo una spiegazione del perché i genî di “Homo neanderthalensis” spariscano gradualmente dal genoma umano.

UOMO DI NEANDERTHAL-HOMO SAPIENS

UN INCROCIO E RELATIVE CONSEGUENZE

· C U LT U R A ·

Homo di Neanderthal

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Insomma, nella nostra genetica c’è molto più “Homo neanderthalensis” di quel che potevamo immaginare, ed è proprio ciò che hanno dimostrato in tre distinti studi i ricercatori del Max Planck Institute per l’Antropologia Evoluzionistica di Lipsia e di altri autorevoli atenei.

Oltre alle mutazioni che regolano il cosiddetto “fototipo”, i ricercatori hanno anche individuato quelle legate alla sintesi della vitamina D, alla risposta ridotta ai farmaci antipsicotici, alla regolazione del sonno e dell’umore.

Non mancano quelle relative a malattie come l’artrite reumatoide, la depressione e i disordini dell’alimentazione. Insomma, moltissimi aspetti fondamentali della nostra vita e del metabolismo.

Gli studi condotti nell’ultimo secolo hanno confermato che i Neanderthal avevano un comportamento sociale avanzato e paragonabile a quello di diversi gruppi di Homo sapiens.

L’estinzione dell’uomo di Neandertal è il risultato di vicende più complesse che non quelle legate a semplici scelte alimentari.

La flessibilità nella scelta del cibo dei neandertaliani è risultata del tutto simile a quella trovata in Homo sapiens del Paleolitico Medio e Superiore, così come si è riscontrata la stessa prevalenza di dieta carnivora dei neandertaliani dell’Europa dell’ultima glaciazione pleistocenica, anche negli uomini moderni che abitavano la regione nello stesso periodo.

Il team di ricercatori del “Senckenberg

Research Institute” di Francoforte è riuscito a ricostruire i movimenti mandibolari dall’analisi dell’usura dentale, sistema che permette di ottenere informazioni sulla dieta di un individuo, e in particolare di quella delle specie fossili.

Lo studio della superficie, della forma e dell’inclinazione delle aree di usura di alcuni denti fossili ha permesso la ricostruzione dei movimenti mandibolari strettamente correlati alle proprietà fisiche del cibo masticato, fornendo importanti informazioni sulla dieta e mettendo in evidenza le tracce

di rinoceronte lanoso, mufloni, funghi e di piante forse usate come antidolorifici e antibiotici.

Sebbene l’uomo di Neanderthal sia tradizionalmente visto come un cacciatore abitante in climi freddi che si nutriva quasi esclusivamente di carne, in realtà egli si nutriva di quello che offriva l’ambiente in cui viveva, cioè cereali, legumi, frutta, praticamente come l’uomo moderno, il che esclude la dieta come uno dei fattori che portò la specie all’estinzione, ma riflette in modo chiaro la capacità di adattarsi ai varî cambiamenti dell’ambiente di vita.

Dall’analisi del tartaro accumulatosi tra i denti di alcuni Neanderthal, un gruppo di ricercatori dell’Università di Adelaide (Australia) è riuscito a ricostruire parte della dieta di alcuni ominidi vissuti in Europa circa 50mila anni fa.

La ricerca ha portato ad alcune interessanti scoperte: oltre a variare sensibilmente la loro dieta a seconda delle latitudini a cui vivevano, alcuni gruppi di Neanderthal utilizzavano probabilmente piante con capacità medicinali, seppure limitate, per curare alcuni acciacchi come il mal di denti.

L’analisi del tartaro ha rivelato l’esistenza di DNA simile a quello dei moderni rinoceronti e di alcuni ovini e pertanto si è ipotizzato che il gruppo di Neanderthal esaminato si nutrisse di animali come rinoceronti lanosi e mufloni, dei quali c’era una notevole abbondanza.

Sugli stessi campioni sono state trovate tracce di DNA riconducibili ad alcune specie di fungo, suggerendo che questi ominidi variassero

Homo Sapines

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a sufficienza la loro dieta senza trascurare il gusto, oltre alle necessità di sfamarsi.

La dieta dei Neanderthal presenti in Spagna era invece diversa, senza presenza del DNA di grandi animali, ma solamente sequenze genetiche compatibili con quelle dei pinoli, del muschio e di alcuni funghi commestibili.

Le marcate variazioni nella dieta dei Neanderthal, già messe in evidenza da altre ricerche, testimoniano quanto fossero varî gli ecosistemi in Europa e in particolare i campioni provenienti dalla grotta spagnola di El Sidrón hanno anche fornito alcuni indizi a conferma delle ipotesi di utilizzo di alcune piante curative da parte dei Neanderthal e sequenze del DNA di un batterio che provoca diarrea acuta negli esseri umani.

È stato individuato anche il genoma quasi completo di un batterio orale, il “Methanobrevibacter” commensali, che con 48mila anni di età può essere considerato il più antico genoma microbico orale finora scoperto.

Sono inoltre state rilevate tracce di DNA compatibili con il pioppo, pianta che contiene acido acetilsalicilico, il principio attivo dell’aspirina, e con alcune muffe sulle quali prolifera il “Penicillinum rubens”, con proprietà antibiotiche, con tutta probabilità per un ascesso dentale dal quale cercava sollievo.

I risultati sono interessanti, ma devono comunque essere trattati con cautela perché gli studi eseguiti sugli esseri umani contemporanei hanno dimostrato che non sempre le tracce di DNA del cibo presente nel tartaro si conservano invariate.

Il fatto che nel nostro DNA siano presenti varianti genetiche n e a n d e r t h a l i a n e suggerisce quindi che vi siano stati, tra le due

specie, numerosi accoppiamenti, e dunque flusso genico, anche se alcuni ricercatori ipotizzano che i genî condivisi potrebbero provenire semplicemente da un antenato comune, vissuto ai tempi della separazione con i Neanderthal.

Vale la pena però di ricordare che intorno alla sepoltura di un uomo di Neanderthal collocata nella celebre grotta irachena di Shanidar sono stati trovati anche i resti di piante e fiori che parevano essere stati ordinati con cura, a mazzetti, intorno al morto, come una sorta di semplice corredo funerario.

Si è obiettato che la deposizione dei fiori non fosse opera di ominidi, ma che siano stati accumulati in quel punto da roditori della specie “Meriones persicus”, piccoli animali autoctoni. Però le scoperte degli ultimi anni hanno confermato che l’uomo di Neanderthal seppelliva i suoi morti, ed ora, grazie ai ricercatori, sappiamo che era sicuramente a conoscenza delle proprietà straordinarie di alcune piante medicinali, compresa l’achillea.

Non si può quindi escludere del tutto che siano stati veramente i congiunti e gli amici del Neanderthal iracheno scomparso a raggruppare i mazzetti di fiori intorno alla salma, manifestando un ultimo gesto di pietas per il loro caro.

Marco Cingolani

I due volti a confronto

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Il linguaggio ha sempre connotato la società in cui si è espresso. Per conoscere le sue trasformazioni, prendiamo in esame alcune teorie elaborate su di esso.

Secondo il filosofo austriaco Ludwin Gwittgenstein, nato nel 1889 e morto nel 1951, il linguaggio è collegato alla società in cui si sviluppa.

Infatti, lo studioso così si esprime: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.” Oggi, è utile riflettere su una società che rivela un limite del pensiero in quanto un soggettivismo diffuso prevale sui rapporti sociali. Inoltre, consideriamo anche che, se il linguaggio esprime le idee e queste idee non vengono rappresentate, ci imbattiamo sempre nel pensiero del limite.

Poiché constatiamo che, il linguaggio ha subìto una rapida e profonda trasformazione, appare evidente nella comunicazione dei giovani la frammentarietà delle parole, l’assenza di approfondimento di esse in relazione ad un contesto di riferimento.

Vale allora la pena di chiedersi, se il segno linguistico e quello del significato vanno di pari passo oppure no.

In realtà il dualismo tra segno e significato ha connotato il linguaggio dell’età moderna.

È utile, in questa ottica, soffermarsi sul modello linguistico di Ferdinand de Saussure (1857- 1913), padre della linguistica generale.

Il modello si basa sul dualismo tra il significante, cioè la forma, e il significato.

Il filosofo Agostino (354 d.C.- 430 d.C.) è il primo a classificare due tipi di segno: i segni naturali che rimandano ad altri segni e i segni artificiali creati proprio per la comunicazione.

Secondo Charles Sanders Peirce (1839-1914) padre della moderna semiotica (disciplina che studia i segni) vi è invece una connessione- relazione tra significante e significato.

Per comprendere le trasformazioni del linguaggio, è utile anche sapere che sulla sua origine esistono due teorie: la prima parla del

linguaggio come innato, l’altra come abilità appresa.

Non sappiamo se le lingue moderne derivino da una comune lingua originaria oppure da diversi ceppi primordiali. Possiamo però dire che le lingue esistenti sono il risultato di un processo di differenziazione avvenuto nel corso dei millenni.

Il linguaggio è stato favorito dai rapporti col territorio e con gli uomini. Infatti una esperienza di un ragazzo selvaggio, che aveva vissuto per dodici anni allo stato brado e che diceva solo poche parole, ne è la testimonianza.

Socializzazione e interazione con altro ed altri, determinano lo sviluppo del linguaggio e della intelligenza strettamente ad esso collegata.

Molte ricerche sono state effettuate in questo ambito: ricordiamo Jean Piaget( 1896-1980 ) che si è occupato dello sviluppo dell’età evolutiva mettendo in evidenza il legame tra linguaggio, intelligenza ed età cronologica.

Pur trovando in Piaget un utile documentazione, possiamo dire che il rapporto

ANALISI STORICA E CULTURALE DEL LINGUAGGIO

Jean Piaget

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si può modificare in quanto i bambini piccoli possono avere un linguaggio più evoluto rispetto ai bambini più grandi di età. Naturalmente anche il quoziente intellettivo varia.

Ricordiamo che per Vygotskij (1896-1934) lo sviluppo psichico è guidato e influenzato dal contesto sociale. Lo studioso non ha condiviso le teorie di Piaget in quanto ne ha criticato alcuni aspetti. Ricordiamo quelli che hanno portato Piaget a ritenere che, essendo il pensiero del bambino egocentrico, anche il suo linguaggio lo era. Invece per Vygotskij il linguaggio è un mezzo di comunicazione, ma anche uno strumento per riflettere la realtà, e per quanto riguarda il linguaggio egocentrico, pensa che possa servire per comprendere le proprie attività mentali e costituisca un modo per avvicinare se stessi.

Mentre il linguaggio socializzante è finalizzato ad ascoltare per parlare, anche esso si può interiorizzare perchè serve come strumento alla riflessione personale.

Troviamo altre precisazioni in merito al linguaggio da parte di Vygotskij quando afferma che il linguaggio non è solo comunicazione, ma è uno strumento per classificare la realtà.

Si tratta quindi di uno strumento logico. Egli concepisce ancora la comunicazione come sviluppo cognitivo e ciò era dovuto al fatto che la condizione sociale della sua epoca era molto desiderosa di libertà e di conoscenza.

I linguaggi fanno capo a due grandi scuole: la scuola linguistica strutturalista e la scuola romantica.

la prima mette in evidenza le strutture grammaticali e sintattiche, che sono gli elementi del linguaggio contenenti maggiore stabilità nel tempo e uniformità nello spazio. La loro teoria prevede che tali elementi siano universali. la scuola romantica invece, che si è sviluppata nell’Europa centrale nella metà dell’Ottocento, vedeva nel linguaggio lo spirito di un popolo, come elemento fondante della comunità e del popolo stesso.

Nella scuola romantica prevale la semantica (lo studio del significato delle parole) alla sintassi: la variabilità della ricchezza semantica si rapporta all’innalzarsi della scala sociale soprattutto nel linguaggio parlato.

Considerando che i linguaggi interiorizzati si presentano attraverso simboli ed astrazioni, come portatori di significato, possiamo affermare

che il linguaggio può ritrovarsi ad essere unitario nelle sue differenziazioni e che la sua stessa complessità è garante di libertà.

Le due scuole a cui abbiamo fatto riferimento possono coesistere: il linguaggio infatti affonda le sue radici nel pensiero proprio, ma si apre all’esterno per incontrare e, a volte, modificare con i pensieri altrui un percorso mentale, che si decodifica con un linguaggio nuovo, integrato da più significanti.

In queste trasformazioni sta la dinamicità della comunicazione: anche quando parliamo , c’è chi ascolta. e chi ascolta può parlare, interpretare e modificare la comunicazione.

Questo dinamico circuito è necessario, se vogliamo conferire una funzione sociale al linguaggio.

In una ottica particolare invece si presenta il linguaggio di internet. Infatti, ci dà notizie, informazioni solo di altri. non ci dà la possibilità di intervenire, non ci rende protagonisti, non apre con noi nessuna autentica comunicazione.

Siamo di fronte a nuove forme di parole che richiedono studi approfonditi prima di essere valutati.

La documentazione presa in esame sulle varie origini del linguaggio attende molti confronti con quello delle nuove generazioni, che, al momento, appare essere comunicato più per segni che per significati.

Maria Galasso

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Inghippi, tranelli, raggiri: in testa a tutto, il furto della buona fede e della fiducia. Purtroppo oggi il popolo degli anziani è nel mirino di malintenzionati senza scrupoli che trovano terreno fertile in chi per natura non è portato a sospettare malafede. Invece la malafede c’è e, al di là di allarmismi eccessivi, bisogna imparare a difendersene. Vediamo allora quali sono le truffe più nuove escogitate verso chi ha i capelli bianchi.

A casa - La fantasia non ha limiti. I malviventi suoneranno alla porta spacciandosi per dipendenti della banca, della società elettrica/gas, dell’Inps, poi ci saranno vigili, poliziotti, carabinieri (anche in divisa!), impiegati Asl, assistenti sociali, funzionari del catasto, collaboratrici del portiere, dell’amministratore, del parroco, religiosi con tanto di tonaca, parenti di un vicino o di un amico. Non mancano gli imbroglioni in doppiopetto che propongono affari imperdibili od offrono premi e pacchi dono. Da sapere: tutte le aziende, dalla

Asl a luce, gas o telefonia, preannunciano sempre il loro arrivo tramite annunci condominiali. E da memorizzare: in assenza di un appuntamento specifico, non apriamo a nessuno per nessun motivo. Se suonano alla porta, controlliamo dallo spioncino senza aprire: oggi esistono dispositivi che per una cinquantina di euro inquadrano con chiarezza il volto che si profila dall’altra parte della soglia. Non mandiamo alla porta i nostri nipoti e, in assenza di portiere, se dobbiamo firmare una ricevuta apriamo con la catenella attaccata. Se la persona malauguratamente è entrata, non lasciamola sola in una stanza, non firmiamo nulla, non consegniamo bollette. In ogni caso, meglio non tenere mai in casa tanto denaro od oggetti preziosi, men che meno nei cassetti più in vista.

In banca o posta - L’ideale sarebbe predisporre sul conto corrente l’accredito della pensione e la domiciliazione delle utenze. Meglio comunque andare in banca o posta in compagnia

OCCHIO ALLE TRUFFE

· A T T U A L I T À ·

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di un parente o di una vicina e non in orari di punta, per tenerci alla larga dalla eccessiva confusione. Ignoriamo sedicenti dipendenti che asseriscono di dover controllare le banconote appena ritirate.

Bancomat & carte di credito - Digitando il Pin accertiamoci che nessuno possa vederci e ritiriamo solo la somma strettamente necessaria. Se mentre stiamo prelevando dietro di noi c’è una persona troppo vicina o premurosa, rinunciamo temporaneamente all’operazione.

Al telefono - Il raggiro più comune è costituito dall’attivazione di servizi non richiesti. Di fronte alla chiamata di uno sconosciuto, la mossa migliore resta sempre quella di chiudere subito la linea e, comunque, non rivelare mai riferimenti o dati personali.

Sul web - Scegliamo password complesse, non mettiamo a disposizione i nostri dati di accesso a social network o caselle postali, non apriamo email e allegati che arrivano da chi non conosciamo, non lasciamoci abbindolare da finti

annunci di vincite in denaro o regali. E facciamoci installare un programma antivirus, da tenere aggiornato, che aiuta a individuare eventuale malware (software che si autoinstalla per catturare i nostri dati sensibili).

Per strada - Le signore dovrebbero camminare vicino al muro tenendo la borsa dal lato interno, indossata a tracolla con la cerniera sul davanti. Portiamo con noi solo il contante indispensabile. Se ci sembra di essere seguiti, entriamo in un negozio. Non diamo mai retta a estranei e se qualcuno insiste, fermiamo altri passanti o telefoniamo alle forze dell’ordine ai numeri gratuiti 112, 113, 117.

Denuncia Siamo stati raggirati in casa? Oggi si può chiamare subito già al proprio domicilio le forze dell’ordine, che raccoglieranno lì direttamente la denuncia: in seguito la formalizzeremo con calma andando dai carabinieri o alla polizia.

Paola Tiscornia

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Vodka, rum, birra, addirittura anisetta, se non si trova altro. Si chiama mischione, è un gioco, in cui ci si diverte tanto che alla fine qualcuno del gruppo magari finisce all’ospedale, in coma etilico o giù di lì. Il Binge drinking, bere nel week end sino a perdere conoscenza, stando all’Istat potrebbe coinvolgere, anche solo occasionalmente, più dell’11 per cento dei maschi e del 3 per cento delle femmine a partire dagli 11 anni, con un picco massimo fra i 18 e i 24. Ragazzi che si incontrano il venerdì o il sabato sera appositamente per fare a gara a chi “parte” per primo, portando ciascuno qualsiasi tipo di alcolico arraffato da casa per consumarlo sino all’ultima goccia.

“Un’abitudine molto rischiosa”, come sottolinea il professor Riccardo Gatti,1 esperto in dipendenze, “in quanto coinvolge adolescenti con cervello e sistema nervoso ancora in formazione e che di solito non sono abituati al bicchiere: quindi faticano moltissimo a smaltire così ingenti quantitativi di bevande alcoliche. E per le ragazze, il cui organismo riesce a difendersi meno dall’alcool, il problema è ancora più pesante. Ai danni dell’oggi poi se ne aggiungeranno quasi sicuramente altri in futuro; un rischio di cui nessun giovane ha idea o viene informato”.

Purtroppo, accanto al “Binge drinking” si sta facendo strada anche un altro fenomeno altrettanto preoccupante, chiamato “cross over”. Il mercato ha infatti capito che i giovani possono rappresentare vere galline dalle uova d’oro e per acchiapparli sta allargando il ventaglio di proposte: birra alla cannabis, whiskey e Coca Cola, rum al succo di pera, shot, ossia bevande a base di vodka, rum o tequila, che si mandano giù in un solo sorso e costano appena un euro. “Non solo”, avverte il professor Gatti, “ma siccome le ricerche di marketing hanno appurato che se nella coppia la ragazza beve coinvolgerà sicuramente anche il partner (non il contrario), stanno fiorendo proposte alcoliche specificamente rivolte a loro. Vedi la vodka lemon o alla fragola, percepita come più soft e scelta perché si avverte meno nell’alito: così i genitori non si allertano. Incitamenti 1 Riccardo Gatti , direttore del Dipartimento area dipenden-ze dell’Asst (Aziende Socio Sanitarie Territoriali) San Paolo e San Carlo di Milano.

al consumo che non arrivano certo tramite la classica pubblicità su cartellone o sui giornali, ma vengono capillarmente diffusi sui social tramite un attentissimo (e redditizio) lavoro dei cosiddetti influencer. Di modo che i messaggi non saranno percepiti come proposte pubblicitarie, ma quale scelta privata del personaggio idolo che si aspira ad imitare”.

Sino a ora, i termini del fenomeno. L’aspetto fondamentale è cosa fare. E qui, mettiamo da parte i nostri giovani e contiamoci tutti, noi adulti: cosa siamo disposti a fare per proteggere le generazioni che ci seguono? Come richiamare l’attenzione su questi problemi? Perché non allearci per chiedere che venga fermato questo pressing su adolescenti e ragazzi? Come arginare un mercato che continua a proporre l’alcol come un prodotto forse non proprio salutare ma sicuramente divertente e “ganzo”, una sorta di lubrificante sociale? Perché alle casse del supermercato nessuno chiede la carta di identità a minorenni col carrello pieno di superalcolici? Come mai sono sempre pochissime le scuole che aderiscono agli incontri sul bere responsabile?

Parliamo di più con i nostri figli, spieghiamo che chi finisce al pronto soccorso gonfio di alcol non è affatto un supereroe ma ha solo una triste carenza di personalità e di autostima. Facciamo in modo che si dotino di valori più alti del fondo di una bottiglia. E cominciamo a dare il buon esempio. Sigarette, vino, superalcolici, sonniferi, psicofarmaci, che probabilmente si trovano anche nelle nostre case, sono sostanze permesse e legali. Però ci vuole modo e misura e di ogni sostanza è importante conoscere anche rischi e rovescio della medaglia, per poterli spiegare ai nostri ragazzi.

Paola Tiscornia

“BINGE DRINKING”

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Il tartaroTutti i giorni, dal mio letto, che è diventato

la mia vita, scorgo sull’arazzo che ho di fronte, un volto dall’aspetto duro di un uomo di mezza età.

La composizione in realtà è formata da fogliame, ma io vedo d’istinto il suo volto. Sotto le sopracciglia foltissime, divise da un lungo solco, prodotto da una profondissima ruga sulla fronte, mi scrutano due occhi piccoli, infossati e allo stesso tempo gonfi di rabbia. Il naso è insolitamente aguzzo e puntuto, anch’esso segnato da un solco laterale costruito dal passaggio del tempo. Gli zigomi sono così pronunciati da comporre un’ombra fin ai lati del naso.

Questo maturo tartaro mi guarda tenendo la bocca socchiusa, coperta da lunghi baffi che incorniciano un mento prominente; sembra dirmi con sguardo severo e sornione: “Non ci muoveremo mai io e te, siamo legati dall’immobilità, io della tela, tu della malattia”.

Lui mi odia, non vorrebbe stare lì; lo immagino cavalcare nelle steppe sconfinate sul dorso nudo dei cavalli … libero. Anch’io lo detesto, non avrei dovuto mai scorgerlo nella tela: avrei dovuto vivere!

Il nostro legame è forte, a volte ci irrita; altre

ci fa sentire meno soli. So che lui mi capisce e non dobbiamo

parlare, è sufficiente guardarsi e nei nostri sguardi trasferire i nostri pensieri; conosce tutto di me, le mie paure, le speranze, lo sconforto, ed io tutto di lui: la sua terra sconfinata, le mandrie, il sole la neve ed il vento freddo sul viso, … ma non riusciamo a volerci bene!

Vorremmo lasciarci ognuno per la sua strada: è troppo piccola questa stanza per le nostre vite; lui ha uno spirito selvaggio, non può guardare tutto il giorno una donna triste e anch’ìo, pur non essendo rinchiusa in una tela, sono prigioniera di un corpo che non amo più, che mi trattiene a sé, e mi fa soffrire!

Mi piacerebbe ancora sentire il vigore che ha provato anche lui prima di essere catturato nell’arazzo, viaggiare, spostarmi da sola in ampi spazi come faceva il mio triste compagno prima di essere racchiuso.

“Tartaro voglio essere come eri tu e vorrei liberare anche te: stracciare quel tessuto pregiato che ti contiene e farti scappare lontano.”

Ci detestiamo in vece di comprenderci, come spesso fanno i prigionieri rinchiusi in una cella troppo piccola.

Eppure, siamo qui sempre noi due soli, senza lasciarci mai, legati de un odioso matrimonio che ci porta ogni notte a compenetrare i nostri sguardi nel chiudere gli occhi.

Il mio compagno doloreQuando un giorno nella tua vita

avverti “un male”, pensi che passerà da solo, poi con le cure, poi con il tempo e invece lui tutti i giorni ti viene a trovare puntualmente e non dimentica mai quell’incontro con te … “questo è il

FANTASIA DELLA SOFFERENZA

· VA R I E ·

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dolore”.Ad ogni appuntamento cambia, come le

rughe col passare del tempo cambiano i volti delle persone; diventa prima sofferenza, tormento e alla fine supplizio.

Ti avvolge la mente e ti buca l’anima.Ogni persona vivendo questa terribile

esperienza, che dura a volte tutta la vita, reagisce diversamente: qualcuno s’indurisce, si chiude in se stesso, altri si donano, altri ancora si disperano, quasi tutti lottano, perché l’unica speranza che si ha è andare avanti e pregare che un giorno finisca o che la fine della nostra vita ponga termine al supplizio.

Nel frattempo, passano i mesi, gli anni e tu, “malato di niente”, diventi spesso anche nella mente di chi ti dovrebbe credere e sostenere, medici compresi, un malato immaginario.

Il dolore cronico non è una sedia a rotelle non si vede, è più semplice pensare per tutti che sia un prodotto della psiche, per allontanarlo da noi, per essere certi che non ci capiterà, per sentirci meno sconfitti davanti ad un evento purtroppo reale e devastante.

“Sei depresso, è la depressione che ti fa sentire qualcosa che non esiste”, sentenziano umiliandoti alcuni medici, non tutti per fortuna. Altri ti accolgono come se fossi un malato terminale, solo che il tuo dolore non ha una data di “scadenza”.

Fanno quello che possono e che riescono, a volte ti convinci di essere pazzo, “sbagliato per la vita” perché le cure ti rendono una larva e non riesci, a tratti, a ragionare con lucidità.

Non si è in grado di lavorare, non ci si sente più utili, non vivi e vegeti e “disturbi”.

Sì disturbi, perché anche le persone più vicine, i familiari, gli amici più intimi non sanno più cosa dire al cospetto di questo tormento senza fine … e avverti il disagio, la voglia di distacco, la rabbia dei figli e vorresti reagire dicendo: “caro nemico non mi sconfiggerai”, a volte ci riesci, ma la sua costanza spesso prende il sopravvento e ti porta alla disperazione.

Così piano piano rimani solo, anche se fisicamente non tutti ti abbandonano; solo in un deserto popolato dai sensi di colpa, che diventano man mano dei giganti …

Pensi, ti rifugi in un passato che non hai più, quando eri sano, libero di muoverti, di viaggiare, di lavorare, di fantasticare e di non temere il domani.

Mi rivedo tutti i giorni bambina, con i miei cari ancora giovani, mio cugino e mia sorella, protetta e appagata delle piccole cose: ricordo il sapore del cibo che non potrò più assaggiare, gli odori che non potrò più sentire, le sensazioni intime di gioia e serenità che non mi appartengono più … mi perdo in questa malinconia che scorre come un fiume …come le mie lacrime.

Grazia

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La tonnara è un sistema di pesca a reti fisse: quella di Camogli è una delle ultime cinque rimaste in Italia, l’unica ancora presente in Liguria e nel Nord Tirreno.

· Le tonnare di Sicilia, Sardegna e Favignana sono notevolmente più grandi della tonnara di Camogli, che non a caso viene chiamata la tonnarella.

La tonnara di Camogli è fra le più antiche delle poche ancora esistenti in Italia: quella di Carloforte (o Isola Piana), quella di Portoscuso, entrambe in Sardegna, e quella siciliana dell’isola di Favignana, della quale si hanno notizie fino dal 1200.

Altre storiche tonnare, come quelle di Stintino in Sardegna e di Bonagia in Sicilia, hanno cessato di operare da tempo.

Le prime notizie della tonnara di Camogli risalgono al 1603, anno in cui un solenne Decreto del Magistrato dei Censori stabiliva che “delli tonni che si fossero presi alla tonnara di Camogli se ne dovesse dare agli abitanti di Camogli e di Recco per loro uso dieci di un rubo, venticinque di due, sei sino a cento rubi”.

Il rubo è una misura antica che corrisponde a circa 8 Kg e che viene usata ancora ai giorni nostri tra i pescatori di Camogli.

Più tardi, nel 1612, “Si introdusse l’appalto

della tonnara di Camogli, con che dovesse l’appaltatore provvedere di pesci il Comune e non potesse salariare in marinai ed inservienti che persone della parrocchia ...”,certamente per favorire la popolazione meno abbiente.

Bisogna considerare che in quell’epoca Camogli era un piccolo borgo di poche case, collegato con un ponte ad un isolotto roccioso sormontato da un castello dove forse trovavano rifugio gli abitanti durante le scorrerie dei pirati, e che i suoi uomini erano dediti soprattutto alla pesca ed in particolare alla pesca del tonno.

Questo impianto era così remunerativo che negli anni Venti del 1600 i suoi proventi servirono per costruire strade, per finanziare l’allungamento del molo e anche per completare la costruzione del Santuario della Madonna del Boschetto, dove oggi si conserva una delle più belle collezioni di ex-voto marinari.

Questo impegno di consegnare tonni al municipio si ripete nel tempo fino al 1817, anno al quale risale l’ultima notizia su questo uso.

Nel 1600 la pesca del tonno era considerata così importante, da un punto di vista finanziario, che la Riviera Ligure era tutto un susseguirsi di tonnare e, a metà di quel secolo, la tonnara di Camogli era la prima in ordine di importanza, seguita da quelle di Monterosso e di Santa Margherita.

La storia della tonnara di Camogli attraversa i secoli passando di mano in mano, finché, nel 1889, il Prof. Pietro Pavesi, nella sua “ Relazione alla Commissione reale per le Tonnare” scrive “ Non posso iscriverla tra le tonnare attive, perché la concessione è estesa alla pesca con bestinara, mugginara, ecc...”.

Nonostante questo, nel 1914 la tonnara di Camogli è di

LA TONNARELLA DI CAMOGLI

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nuovo tra le prime, ma nel 1923 cessa di operare.Nel 1937 viene creata la Soc. An. Cooperativa

Tonnarella di Camogli, fortemente voluta dal podestà Giuseppe Bozza.

La Cooperativa riprende a gestire la tonnara che opera senza sosta fino al 1979, anno in cui viene di nuovo dismessa.

Nel 1982 la Cooperativa Pescatori di Camogli, di recente costituzione, prende in gestione la tonnara, rimettendola in mare quell’anno stesso, e da allora essa ha continuato ad operare fino ai giorni nostri.

La tonnara di Camogli, o “tonnarella”, come sarebbe più giusto chiamarla sia per le sue ridotte dimensioni rispetto alle tonnare sarde e siciliane, sia per il fatto che ormai non pesca più tonni, ma qualsiasi pesce che incappi nella rete, viene calata da secoli sempre nello stesso posto, a circa 400 metri da Punta Chiappa, all’interno della Area Marina Protetta di Portofino, e viene legata a terra ad uno scoglio chiamato “pedale” da cui parte verso il largo la rete d’arresto, che si chiama anch’essa “pedale” ed è lunga 340 metri.

Alla fine della rete si trovano due camere : “la camera di raccolta” che conduce alla “camera della morte”.

Quest’ultima è l’unica ad avere un fondo a sacco ed è quella che viene sollevata dai pescatori tre volte al giorno: al primo albeggiare, a metà mattina e nel tardo pomeriggio. La tonnarella viene calata da aprile a settembre.

L’equipaggio della tonnara è formato da dodici pescatori che si alternano in turni di sei per settimana, con cambio al sabato pomeriggio.

I pescatori siciliani e sardi hanno nomi esotici, sono chiamati “tonnarotti” e l’uomo che li comanda si chiama “Rais”, nome di chiara origine araba: si dice infatti che furono gli Arabi ad importare questo sistema di pesca nel Mediterraneo.

A Camogli, invece, il pescatore che lavora in tonnara si chiama semplicemente “pescou da tonnaea “ e il loro capo è il “capoguardia”.

La tonnara impiega tre barche: la prima, la più grande, detta “poltrona”, rimane sempre ancorata alla rete; la seconda, detta “asino”, va avanti e indietro dal porto di Camogli tre volte al giorno, portandosi a rimorchio una barca più piccola senza motore, chiamata “vedetta”, perché è la barca usata dal capoguardia per controllare se ci sono pesci nella camera della morte e se vale la pena di effettuare la “levata”.

La rete viene sollevata dai pescatori che stanno nella poltrona e il pescato viene caricato sull’asino.

A Camogli non si effettua la mattanza, come si usa nelle altre tonnare.

Un tempo le reti erano fatte con la lisca, un’erba che cresce sul Monte di Portofino, che prima veniva fatta seccare e poi veniva intrecciata per fare le reti.

Oggi la rete della tonnara è fatta di filetto di cocco che viene importato ogni anno dall’India in grosse balle.

Durante l’inverno sono i pescatori stessi a cucire la rete in due magazzini, dove pazientemente mettono insieme il grande impianto.

I cavi che limitano la rete in alto ed in basso e ne tengono tesa la struttura, vengono fabbricati a San Fruttuoso di Camogli ogni inverno, rigorosamente a mano e usando strumenti antichissimi.

A marzo, sul molo di Camogli, appare la rete

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finita che viene tesa lungo il muraglione e sul molo stesso, e tutti i giorni i pescatori si riuniscono per assemblare i vari pezzi, collegandoli ai cavi.

Per lavorare a questa fase tutti danno una mano ed è bello vedere giovani e meno giovani che, tenendo in mano una matassa di filetto di cocco, annodano velocemente i vari pezzi, facendo prendere forma all’impianto. La rete finita pesa oltre mille Kg.

In passato, ancora fino a qualche anno fa, non era difficile vedere in giro per Camogli, ormai ultranovantenne, con il suo passo ondeggiante, un decano della tonnara, Lorenzo Gelosi, detto “Cen”, che non solo ha lavorato in tonnara per più di 40 anni ma che fino a tarda età ha partecipato alla lavorazione delle reti e alle operazioni a mare per la messa in opera dell’impianto.

“Cen” al lavoro, in una foto d’epoca

Durante l’estate alla rete, che è di fibra naturale, si attaccano alghe e microrganismi marini che attirano non solo i pesci di grossa taglia,.. ma anche i pesci “neonati”, diventando una specie di “hursery”, con grande vantaggio per l’ecosistema locale; nello stesso tempo ne diventa impossibile il recupero per cui, alla fine della stagione, la rete viene tagliata ed abbandonata sul fondo dove, essendo in fibra naturale, non costituisce un pericolo di inquinamento ambientale ma un’ottima pastura per pesci.

Questa è la storia della tonnarella di Camogli, un retaggio del passato proiettato verso il futuro, anche se quest’ultimo è molto incerto, perché ogni anno diventa sempre più difficile trovare giovani che si adattino a questo faticoso lavoro, mentre i più anziani, che la portano avanti con determinazione, dovranno prima o poi ritirarsi: e allora cosa ne sarà della nostra tonnara?

La tonnara in se stessa non è più molto remunerativa e si continua a calarla forse solo per tenere in piedi una tradizione piuttosto che per un motivo commerciale.

Arriverà il giorno in cui qualcuno deciderà che non è più possibile sostenere quest’onere e allora anch’esso finirà, e un altro pezzo di storia di Camogli e della Liguria se ne andrà per sempre.

C’è però un’importante considerazione da fare: la Tonnarella, con la sua storia e tradizione, antica di centinaia di anni, ha svolto e svolge tutt’ora una importantissima funzione, ovvero quella di monitorare e testimoniare, con le sue catture, la straordinaria biodiversità del Mediterraneo, dove non ti aspetteresti di trovare squali di 200 kg a pochi metri dalla riva.

In questo contesto, le catture di pesci infre-quenti, come lo squalo volpe, o addirittura rari, come la coppia di Marlin Bianco (Tetrapturus al-bidus) pescati nell’agosto del 2009, o il pesce Re (Lampris guttatus) assumono una connotazione differente da quella di semplice curiosità, divenen-do una vera testimonianza della ricchezza che il nostro mare ha da offrirei.

Marco Cingolani

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Nel periodo repubblicano e nel primo pe-riodo imperiale la vita ultraterrena era una conti-nuazione della vita precedente con alcune varia-zioni. Il defunto diveniva una divinità sotterranea, beatificato e considerato uno spirito degli antenati conservando la propria individualità; poteva fre-quentare la dimora dei vivi e era onorato secondo i rituali.

La sepoltura:

Il defunto veniva adagiato per terra, gli venivano chiusi gli occhi, un familiare lo bacia-va ed era pronunciato ad alta voce il suo nome, si facevano risuonare campanellini sca-ramantici per allontanare gli spiriti maligni. Successiva-mente si procedeva con la ve-glia funebre che durava da tre a sette giorni. Se il defunto aveva avuto in vita un ruolo importante, gli veniva ada-giata una maschera di gesso o di cera. In ogni caso veniva lavato con acqua calda, ve-niva vestito con ghirlande e fiori, se donna, o con toga e sigillo, se uomo. Nella bocca del defunto si poneva una mo-neta (obolo) per il pagamen-to di Caronte. Infine, veniva deposto sul letto di morte con candelabri, lucerne, fiori, incenso e rami di abe-te davanti casa. Il corteo funebre era composto da persone che svolgevano una determinata funzione, disposte in un ordine preciso rispetto al feretro. Il corteo stesso era preceduto dai suonatori di stru-menti a fiato (pifferi, corni, trombe.), seguivano i portatori di fiaccole e le preficae. Se il defunto era stata una persona di alto livello sociale, venivano portate in corteo anche le maschere degli antenati. Il feretro veniva normalmente portato sulle spalle

e il defunto veniva tenuto con il volto scoperto. I parenti si disponevano dietro il defunto: per prime passavano le donne e talora seguivano i mimi e i ballerini (secondo la tradizione etrusca). Seguiva-no poi i portatori di cartelli che indicavano la car-riera del defunto e una volta percorso un itinerario piuttosto lungo, il feretro veniva esposto nel foro

per l’elogio funebre: “la lau-datio”. Sono pervenuti bas-sorilievi che confermano le conoscenze sulla disposizio-ne del corteo funebre. Uno di questi è quello che è sta-to rinvenuto ad Amiternum presso L’Aquila risalente al 50 a.C.

Il giorno della sepoltura veniva celebrata la consacrazione della tomba con il sacrificio di un animale offerto per l’anima in procinto di placarsi. La famiglia del defunto si riuniva in un luogo adiacente ove effettuava il banchetto purificatore per coloro che erano stati a contatto con il defunto: “silicernium”. Il sacrificio serviva soprattutto a collocare il morto nella sua nuova dimensione sotterranea, mentre il banchetto che seguiva serviva a purificare la famiglia

toccata dal lutto. Le portate avevano diversa destinazione: in genere le carni erano riservate ai membri viventi della famiglia, mentre il sangue delle vittime veniva deposto sulla pira. Dopo nove giorni, vi era la commemorazione “novendiales”, con l’allestimento di un nuovo banchetto spesso accompagnato da giochi con gladiatori: “ludi novendiales”. Il lutto era un periodo nel quale gli uomini non si radevano e vestivano di nero, mentre le donne avevano i capelli sciolti e abiti bianchi,

LE SEPOLTURE PRESSO I ROMANI

· R I T I F U N E B R I : S T O R I A , M I T I , L E G G E N D E ·

Apuleius: the souls are demons and on leaving the bodies become Lares (after a good life), Lemures or Larvae (after a bad life) and Manes (if it is uncertain whether the life was good or bad); men fleeing from the

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non potevano sposarsi se non fosse trascorso un anno. La “cena feralis”, banchetto in memoria del defunto in occasione dell’anniversario, prevedeva un rituale durante il quale venivano somministrate al defunto le “profusiones”. Si ricorreva, soprattutto nelle sepolture a cremazione, all’uso di tubuli per libagioni, sia fittili che in piombo, destinati a raggiungere direttamente le ceneri. Per espletare i riti funebri i cittadini si affidavano ai collegi funerari costituiti da associazioni di persone che venivano pagate tramite le tasse.

Nel VII e il VI secolo a.C. le tombe subirono un influenza etrusca: erano ipogee a camera, ricche di corredo, distribuite irregolarmente nelle campa-gne romane. Tali esempi si trovano nella necropoli dell’Esquilino di epoca IV- III secolo a.C. con ri-trovamenti di tombe a camera dipinte con scene di vita politica e militare; tombe nelle quali è evi-denziata la ricchezza del corredo e la decorazione

interna della camera sepol-crale, caratteristiche delle tombe dipinte dell’Etruria e dell’Italia meridionale (Pae-stum). Tomba significativa di questo periodo è quella degli Scipioni lungo la via Appia, prezioso documento dell’uso arcaico di deporre i morti in tombe di famiglia scavate nei banchi di tufo. Essa era co-stituita da una monumentale facciata formata da un alto basamento coronato da una grossa cornice modanata, scandito da sei semi-colon-

ne inquadranti tre nicchie nelle quali dovevano trovarsi le statue del poeta Ennio, di Scipione Afri-cano e di Scipione Asiatico. Il basamento era de-corato con pitture probabilmente riguardanti scene storiche di soggetto militare. Nel II secolo a.C. la tomba, che fino ad allora era stata sotterranea, di-venta visibile così da evidenziare l’aristocrazia al potere. L’architettura si basa su quella ellenizzante e le facciate monumentali costituite da colonnati e fregi sono rivolte verso la strada.

Il primo secolo a.C. è caratterizzato dall’età augustea e segna il momento della costituzione delle tombe monumentali come esibizione del potere economico e politico. In questo periodo, infatti, le strade si affollano di sepolcri imponenti, ma anche di più modesti grazie alle aggregazioni di gruppi sociali, intorno ai quali gravitavano strutture satelliti per celebrare banchetti, cappelle, pozzi, frutteti e la casa per il guardiano. Le classi meno agiate costruivano le loro tombe nelle aree posteriori alle grandi tombe aristocratiche, lontane dalla strada. Si trovano anche casi di grandi sepolcri monumentali isolati: quello di Cecilia Metella sulla via Appia e il Mausoleo di Munzio Planco sul promontorio di Gaeta.

Nel primo secolo d.C. continua l’affollamento delle aree funerarie, ma si ha una diminuzione del lusso, probabilmente perché aumenta la classe media. Si sviluppa una maggiore uniformità e la monumentalità si attua soprattutto all’interno delle sepolture attraverso le decorazioni. In questo secolo si predilige il rito dell’incinerazione e nascono colombari ipogei.

Bassorilievo di Amiterno: corteo funebre: baldacchino a spalla da otto uomi-ni, davanti al feretro i suonatori, mentre dietro un individuo con un secchio e una palma. Intorno personaggi femminili nell’atto della lamentazione, “prefi-cae”, e a seguire altri personaggi femminili con capelli legati forse i parenti.

Tomba degli Scipioni, entrata odierna

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Incinerazione e inumazione: modalità diverse di sepoltura.

Incinerazione e inumazione erano pratiche già in uso nel V secolo a.C. in quanto esplicitamente previste dalle leggi delle XII tavole, che ne impediva l’usanza all’interno della città. È certo che si ebbe una coesistenza dei due riti fino al IV secolo con una prevalenza della cremazione dal III sec. a.C. al I sec. d.C. ed una preponderanza dell’inumazione dal II secolo in poi.

Le sepolture si distinguono in primarie o se-condarie. Primaria indica la sepoltura nella quale il corpo non viene spostato in altro luogo di deposi-zione. Può essere sia una sepoltura a cremazione, sia a inumazione. La cremazione diretta primaria, detta anche “bustum” indica che i resti cremati non venivano spostati in altro luogo, ma venivano la-sciati nella terra o nel monumento nel quale era av-venuta la pira. La sepoltura primaria a inumazione avveniva in terra, in anfore segate, in fosse terra-gne, in casse di legno, cappuccina, in sarcofago di terracotta, pietra, marmo, bronzo. Le inumazioni primarie in sarcofago utilizzavano differenti mate-riali, quali terracotta, pietra, marmo, bronzo; que-ste ultime due venivano adoperate soprattutto per i ceti elevati. Le sepolture secondarie si manife-stano quando il corpo viene spostato dal luogo del decesso. La cremazione indiretta secondaria, detta anche “ustrinum”, si aveva quando veniva fatto il rogo in un luogo diverso da quello della sepoltu-ra definitiva e le ceneri venivano deposte in urna, senza urna oppure in sarcofago. Sia le deposizio-ni in urna sia senza urna, potevano essere raccolte in fossa, in anfore spezzate, in sepolture alla cap-

puccina, in cassette laterizie o in cassette lapidee. Un altro tipo di sepoltura secondaria è quello della riduzione. Con questo termine si intende la ridu-zione a mucchi di ossa, una volta che lo scheletro era completamente scarnificato e l’inserimento di tali ossa in fosse terragne o alla cappuccina, spesso ai piedi di altri inumati. Dalla seconda metà del I secolo a.C. al II secolo d.C. comparvero delle strutture chiamate colombari, nati dall’esigenza pratica della sistemazione delle tombe a incinera-zione. Si potevano trovare sia dei piccoli ambienti a carattere familiare, sia degli ambienti più com-plessi destinati ad accogliere tutti i componenti della famiglia. Le inumazioni variavano per tipo di inumato. I neonati non considerati importan-ti, venivano deposti in piccole fosse in terra o in coppi oppure in anfore tagliate (enchytrismòs), nei luoghi più disparati in quanto non considerati pe-ricolosi. Gli adulti potevano essere sepolti in sem-plici fosse, in casse di legno o in tombe alla cap-puccina, molto frequenti le sepolture in sarcofago, che poteva essere di terracotta, di pietra oppure di marmo. Era usanza accompagnare il defunto con un corredo fatto di oggetti personali e rituali. Gli oggetti di significato rituale sono le lucerne, per tenere lontano gli spiriti malvagi; i tintinnambula (campanelli) venivano utilizzati per allontanare gli spiriti maligni; le chiavi per aprire la porta dell’al-dilà; un chiodo in ferro per difendere il defunto; la moneta per l’obolo a Caronte. Infine, si possono ri-trovare all’interno delle tombe gli oggetti utilizzati per la preparazione del cadavere quali balsamari e unguentari. Secondo la religione romana, religione non soteriologica, i defunti trascorrevano una vita più o meno felice nell’oltretomba mantenevano la loro individualità potevano visitare la casa dei vivi e venivano onorati secondo il rituale con un pro-fondo significato allegorico.

I simboli più frequentemente ritrovati sono: i Miti di Meleagro e Fetonte (consolazione per i morti giovani); i Miti di Alcesti e Persefone (ritorno dall’aldilà); le Muse (arti, teatro, immortalità); il Ciclo dionisiaco (morte, reincarnazione, liberazione dell’anima); il Mare (viaggio per le isole dei beati). La cultura stoica ed epicurea che, nel tempo veniva ad affermarsi a Roma, portò lentamente alla scomparsa di detti miti a favore di una concezione dell’anima, mortale, destinata ad essere riassorbita dall’energia universale.

Mauro Nicoscìa

Fetonte

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