5. Frammenti di località. Sant’Antimo

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Da: Andrea A. Ianniello, Pietre che cantano 2 Volume II (Anteprima [Excerpts])] Capitolo 5. Frammenti di località. Sant’Antimo (Siena), Sagra di San Michele (Val di Susa). Note su Aversa. Qualche cenno su Gotland (Svezia) 5, A. Sant’Antimo, Val d’Orcia (Toscana). Le notizie di carattere storico si possono trovare sul sito della Comunità di Sant’Antimo, che svolge il rito con tutte le preghiere in latino in canto gregoriano: http://www.antimo.it/ . Un bel sito, con belle immagini, è questo: http://www.colonialvoyage.com/viaggi/santantimo.html , ed anche la pagina: http://www.colonialvoyage.com/viaggi/santantimo1.html . In particolare su questi due siti Internet è possibile dare un’occhiata ai capitelli, con delle foto sufficientemente grandi da permettere di osservarli attentamente, distintamente. Da rilevare che un percorso di deambulazione come quello di Sant’Antimo lo si può ritrovare in poche chiese d’Italia, fra le quali la Cattedrale di Aversa. Ad ogni modo, per dare una “chiave di lettura”, si seguirà la “Guida” dell’Abbazia di Sant’Antimo, significativamente intitolata: Una pietra che canta, guida all’Abbazia di Sant’Antimo, Edizioni Sant’Antimo 2004. Va ricordato che nell’Abbazia, in una posizione molto interessante al centro di una valle, vi è una scuola di Canto Gregoriano. Non sarà inutile qui riportare, prima di venire al dunque, qualche commento di Marius Schneider sul canto gregoriano. “Il canto gregoriano è una forma d’orazione, pertanto la sua essenza non si può cogliere per un tramite puramente musicale ma soltanto attraverso la pratica stessa dell’orazione. Esso occupa un termine medio fra la lettura pronunciata della preghiera e la pura contemplazione mistica (…). (…) Il canto gregoriano non racchiude nulla di patetico o di violento, e neanche di blando o dolce. Il sentimento non gli dà origine né corpo, ma anzi ne costituisce soltanto (…) la conseguenza. Il canto gregoriano è un cammino, un mezzo di trasporto. Il simbolismo pre-cristiano lo avrebbe chiamato un carro, una nave o un fiume sul quale avrebbero camminato le luminose sillabe sonore” (Marius Schneider, Il significato della musica, Rusconi 1981, p. 183, corsivi di Schneider). Aggiungeva: “Colui che canti queste melodie non sta seguendo il movimento facile d’una melodia adattata ad un calco tradizionale, ma intraprende un’ascensione verso terre lontane, e perciò è necessario sottomettersi senza riserve ai precetti della guida. Le sue formule non son orecchiabili come le strutture simmetriche della canzoni popolari, perché le sue evoluzioni, invece di limitarsi a mettere in moto le più elementari leggi dell’equilibrio, mirano a superare ogni cadenza troppo schematica. Tuttavia sarebbe errato pensare che movimenti musicali del canto gregoriano contraddicano le leggi della gravitazione musicale; al contrario, le rispettano. Ma i loro archi melodici tolgono a tali leggi il loro peso e tutto ciò che in esse potrebbe esserci di rudimentale o greve; il ritmo delle loro evoluzioni si

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Da: Andrea A. Ianniello,

Pietre che cantano 2Volume II(Anteprima[Excerpts])]

Capitolo 5. Frammenti di località. Sant’Antimo (Siena),Sagra di San Michele (Val di Susa).

Note su Aversa.Qualche cenno su Gotland

(Svezia)

5, A. Sant’Antimo, Val d’Orcia (Toscana). Le notizie di carattere storico si possono trovare sul sito della Comunità di Sant’Antimo, che svolge il rito con tutte le preghiere in latino in canto gregoriano: http://www.antimo.it/. Un bel sito, con belle immagini, è questo: http://www.colonialvoyage.com/viaggi/santantimo.html, ed anche la pagina: http://www.colonialvoyage.com/viaggi/santantimo1.html. In particolare su questi due siti Internet è possibile dare un’occhiata ai capitelli, con delle foto sufficientemente grandi da permettere di osservarli attentamente, distintamente. Da rilevare che un percorso di deambulazione come quello di Sant’Antimo lo si può ritrovare in poche chiese d’Italia, fra le quali la Cattedrale di Aversa.

Ad ogni modo, per dare una “chiave di lettura”, si seguirà la “Guida” dell’Abbazia di Sant’Antimo, significativamente intitolata: Una pietra che canta, guida all’Abbazia di Sant’Antimo, Edizioni Sant’Antimo 2004. Va ricordato che nell’Abbazia, in una posizione molto interessante al centro di una valle, vi è una scuola di Canto Gregoriano. Non sarà inutile qui riportare, prima di venire al dunque, qualche commento di Marius Schneider sul canto gregoriano. “Il canto gregoriano è una forma d’orazione, pertanto la sua essenza non si può cogliere per un tramite puramente musicale ma soltanto attraverso la pratica stessa dell’orazione. Esso occupa un termine medio fra la lettura pronunciata della preghiera e la pura contemplazione mistica (…). (…) Il canto gregoriano non racchiude nulla di patetico o di violento, e neanche di blando o dolce. Il sentimento non gli dà origine né corpo, ma anzi ne costituisce soltanto (…) la conseguenza. Il canto gregoriano è un cammino, un mezzo di trasporto. Il simbolismo pre-cristiano lo avrebbe chiamato un carro, una nave o un fiume sul quale avrebbero camminato le luminose sillabe sonore” (Marius Schneider, Il significato della musica, Rusconi 1981, p. 183, corsivi di Schneider). Aggiungeva: “Colui che canti queste melodie non sta seguendo il movimento facile d’una melodia adattata ad un calco tradizionale, ma intraprende un’ascensione verso terre lontane, e perciò è necessario sottomettersi senza riserve ai precetti della guida. Le sue formule non son orecchiabili come le strutture simmetriche della canzoni popolari, perché le sue evoluzioni, invece di limitarsi a mettere in moto le più elementari leggi dell’equilibrio, mirano a superare ogni cadenza troppo schematica. Tuttavia sarebbe errato pensare che movimenti musicali del canto gregoriano contraddicano le leggi della gravitazione musicale; al contrario, le rispettano. Ma i loro archi melodici tolgono a tali leggi il loro peso e tutto ciò che in esse potrebbe esserci di rudimentale o greve; il ritmo delle loro evoluzioni si

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estende in una forma analoga a quella di un arco, che permette d’aumentare la distanza fra le colonne sotto il tetto di un tempio. In certa misura e su di un altro piano si osservò lo stesso fenomeno ai primi del XIX secolo, quando Ludwig van Beethoven abbandonò il dinamismo (…) stereotipato della simmetria musicale della sua epoca. Come sempre capita nella storia, nessun professionista o esperto della materia capiva alcunché di quella nuova e superiore concezione delle stesse leggi fondamentali, perché il maestro di Bonn (…) chiese ai suoi ascoltatori (…) di seguire con somma attenzione le difficili scorciatoie melodiche fino alle loro inaudite vette, invece di considerare la musica come un comodo paesaggio di dorati luoghi comuni” (ibid., pp. 184-185). E continuava: “Una volta compenetrati delle formule melodiche di questo canto [gregoriano], ci s’impone il suo ritmo e subito mutiamo atteggiamento, essendo stati trasportati in una zona superiore alla nostra personale e limitata fantasia. Data l’unione specificamente gregoriana della lettera e della musica, la nostra attenzione si rifugia subito in parole che dianzi parevano di scarsa importanza e trascorre su altre che sembravano occupare il primo posto. Così forte è il rilievo che la linea melodica conferisce alla lettera, che il canto a volte sembra abbia funzione di un’esegesi mistica” (ibid., p. 185). “La forza espressiva del canto gregoriano non si afferma col parossismo, ma con la sobrietà, la sincerità, la cortesia e la castità delle sue formule. Una volta compreso quanto s’è detto, è chiaro che una melodia gregoriana si può mettere a fuoco soltanto quando la si esamini ogni volta nel luogo specifico che la liturgia le assegna” (ibid., p. 186). Di conseguenza, il problema della lingua della liturgia diviene fondamentale, poiché la cosa evidente si è che solo in latino l’abbinamento “sillaba/musica” funziona pienamente. Ma torniamo all’Abbazia di Sant’Antimo.

Va detto che l’Abbazia si trova a 318 metri s.l.m., nella spettacolare Val d’Orcia, non lontano da Montalcino (precisamente vicino a Castelnuovo dell’Abate), vicino al Monte Amiata. Quest’ultimo fu zona sacra agli Etruschi, ma pure per la setta dei “Giurisdavidici”, del cosiddetto “profeta dell’Amiata”, David Lazzaretti. Il Monte Amiata ha sempre avuto un suo richiamo religioso potente. Sul Monte Labbro, più basso, di fronte all’Amiata, dal lato di Arcidosso, vi sono i resti del santuario dei “Giurisdavidici”, che attirarono l’attenzione di molti all’epoca (XIX scolo), anche di Antonio Gramsci e Guy de Maupassant. Lazzaretti era di Arcidosso, dal lato grossetano dell’Amiata, cittadina nelle cui vicinanze si è insediato un centro di cultura tibetana (che, qui trovando rifugio, dagli anni Ottanta del secolo scorso vi ha costruito un piccolo tempio, detto di “Merigar”, sotto il Monte Labbro); tutto ciò sempre a dimostrazione della particolar natura di quelle zone. Infatti, era precisamente il Monte Labbro (1.193 m) ad esser sacro in antichità agli Etruschi. Scendendo giù dall’Amiata verso la bassa Toscana, vi è Pitigliano, un paese che sembra uscito da un presepe, detto “la Gerusalemme toscana”, con la sua sinagoga e le usanze, per esempio nei dolci, d’origine ebraica, usanze conservate sinora. Sull’Amiata c’è l’importantissimo monastero d’Abbadia San Salvatore, con la cripta d’origine longobarda, e che meriterebbe una visita dal punto di vista delle “figure zoomorfe”. Questo monastero deve la sua importanza alla discesa di Carlo Magno come pure al fatto che segnò la definitiva conversione dei Longobardi al Cattolicesimo. Insomma, di nuovo l’importanza specificamente religiosa dell’Amiata si mostra. La Val d’Orcia, infine, si caratterizza pure per quelle formazioni note come “crete” o “calanchi”. L’Abbazia di Sant’Antimo si trova sulla Via Francigena, e questo è un punto molto importante da sottolineare. A parte le zone più moderne, quel che si vede “oggi non è altro che un effetto finale di un’opera di ampliamento ed abbellimento, iniziata intorno al 1100, e voluta dai monaci benedettini che, qui, risiedevano fin dall’VIII secolo” (Una pietra che canta, guida all’Abbazia di Sant’Antimo, Edizioni Sant’Antimo 2004, p. 8), anche se “è il 1118 che segna l’inizio dell’apogeo di Sant’Antimo” (ibid., p. 25). Siamo, in ogni caso, perfettamente “in linea” con il resto delle datazioni dello stile delle “figure zoomorfe”, sì, perché quest’Abbazia è una vera e propria sinfonia riguardo alle figure zoomorfe, qualcuna delle quali proveniente da una villa romana della zona, come la “Cornucopia” (che si vede in ibid., p. 9). La splendida facciata dell’XI secolo presenta “un netto influsso francese che ritroveremo in altre parti della chiesa” (ibid., p. 20). Il portale presenta i due leoni “Guardiani della Porta”, ma pur altre zone della chiesa presentano figure interessanti, anche il toro. Siamo al cuore del rapporto “mi/fa”, toro/leone, che si è visto nel libro precedente riferito alla Cattedrale di Caserta Vecchia. Tale rapporto rimane simile, ma qui ci si vuol focalizzare sull’interno, sui capitelli

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dell’interno dell’Abbazia, lasciando al lettore – basandosi sul libro precedente – di scoprire le “sonorità” incapsulate nella pietra sull’esterno. Veniamo all’interno, come s’è detto. La chiesa è canonicamente orientata verso l’Est, l’entrata, dunque, sta verso l’Ovest. E’ interessante rilevare quel che dice la Guida, parlando di “energia tellurica” riguardo alla posizione dell’altare a Sant’Antimo. “Nell’antichità, come nel Medioevo, non si costruivano templi, chiese e castelli senza che la loro posizione fosse in relazione con l’ambiente, il sole e tutto il cosmo. L’uomo cercava di ‘captare’ le forze del cosmo per trasmettere a certi luoghi un’energia particolare. Si parla di energia tellurica. Questa è moltiplicata dalla presenza dell’acqua che ne intensifica le vibrazioni. I sapienti costruttori di cattedrali come Chartres o Santiago di Compostela avevano una particolare conoscenza dell’influenza dell’energia e l’hanno tradotta in proporzioni e misure architettoniche. A Sant’Antimo, l’altare viene costruito all’incrocio di tre correnti d’acqua sotterranee a -10 m, -19 m di profondità. Questa posizione provoca un aumento d’energia lungo un percorso ben preciso. Partiamo con 6500 unità Bovis alla piccola porta di sinistra, poi attorno all’altare siamo arrivati a 24000 unità Bovis e tocchiamo il massimo sotto il capitello di Daniele nella fossa dei leoni con 35000 unità Bovis. Esattamente il percorso dei pellegrini [della Via Francigena]. Un cammino di salvezza. Il signor Bovis, ricercatore francese del XIX secolo e creatore della cosiddetta ‘scala Bovis’, intuì questa stretta correlazione: ‘per tutti gli organismi esiste un livello vibratoria d’equilibrio che corrisponde allo stato di salute, 6500 unità Bovis; quando si entra in contatto con un campo energetico incoerente e di livello inferiore al nostro, noi perdiamo energia; quando invece siamo in contatto con un campo energetico di un livello vibratorio più coerente del nostro, riceviamo energia ed eleviamo il nostro livello vibratorio’” (ibid., nel “box” a p. 24). Questo può spiegare molte cose, per esempio il livello “incoerente” dell’energia nei posti vicino o non troppo lontani dalle “Porta degli inferi”, ma il discorso ci potrebbe portare molto, troppo lontano. Per quel che riguarda l’acqua che sta sotto la Cattedrale, per successivi approfondimenti, si rimanda alla nota a pie’ pagina n°21.

La relazione dello scorrere delle acque con la musica doveva esser ben presente all’epoca medioevale, tant’è che: “Sul muro a destra della porta della sagrestia si è scoperto recentemente un rigo musicale di gregoriano! E’ il resto di un affresco. Il pigmento della sinopia [fase dell’affresco nella quale si disegna un abbozzo di ciò che sarà, usando della terra rossa, in origine proveniente da Sinope, città fondata dai Greci nel 630 a. C., sul Mar Nero, nel Ponto, attuale Turchia, attuale Sinop; nota mia] è passato oltre l’intonaco macchiando il muro. Rimane visibile ai nostri occhi un pezzo lungo più di tre metri ed alto uno. Oltre alle note, ben visibili, si distinguono anche le lettere ‘mino’, quasi sicuramente la fine della parola ‘Domino’, scritta sotto il rigo musicale. Le lettere sono precedute da una riga ondulante che indica il ‘jubilus’: l’insieme delle note cantate su un’unica sillaba (o). L’apertura della porta della sagrestia nel secolo XV ha interrotto la prima parte del rigo musicale. Quale melodia nasconde?” (ibid., “box” a p. 35).

Venendo ai capitelli, la Guida dice: “La scultura in Sant’Antimo, pur riprendendo motivi consueti al mondo romanico (fogliame: influsso del bacino del mediterraneo; forme geometriche: influsso irlandese; figure di animali o mitologiche: influsso dell’est dell’Europa) si pone ad un livello di altissima qualità, non solo in rapporto al senese, ma a tutta la Toscana; ciò conferma la grande capacità dei maestri impegnati nell’imponente opera. I raffinati motivi fitomorfici e geometrici, precisi nel disegno e netti nell’intaglio, denunciano una matrice che va ricercata in Alvernia (Linguadoca). Però altri capitelli ubicati nel deambulatorio presentano un carattere lombardo. E’ dunque possibile che a Sant’Antimo abbiano lavorato due maestranze, una francese e l’altra lombarda (Pavia)” (ibid., p. 37). Seguono due pagine interamente dedicate al più bel capitello della costruzione: quello di Daniele nella fossa dei leoni, insieme ai suoi compagni. E’ davvero la raffigurazione scultorea, fermata nella pietra, dei passi biblici (soprattutto Daniele, 6, 25: si osserva che, come il Nuovo Testamento ha accolto solo un libro “apocalittico”, l’ Apocalisse di Giovanni, allo stesso modo nel Vecchio Testamento vi è un solo libro “apocalittico”, il libro di Daniele). Attorno a tale capitello zoomorfo si articola tutto il percorso di deambulazione interna alla chiesa,

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percorso che inizia a destra dell’entrata (ovest), muovendosi, quindi, con orientazione solare, cioè passando per il sud e giungendo all’est ove si trova l’altare, il luogo di maggior energia, per tornare da nord nuovamente verso l’entrata stessa (che si trova, ricordiamolo, ad ovest). Si chiede la Guida: “I capitelli della navata centrale sono stati collocati a caso in cima alle 24 colonne e pilastri oppure c’è un ordine ben preciso corrispondente al cammino spirituale dell’ homo viator? Si è visto che il capitello di Daniele nella fosse dei leoni, figura di Cristo risorto, è collocato proprio nel punto più energetico della chiesa. Come mai di fronte a questo capitello ce n’è uno con degli animali e un uomo, mentre tutti gli altri fino al presbiterio rappresentano solo motivi vegetali? E perché a sinistra dell’altare c’è un capitello sul quale è scolpita la figura di centauro e di fronte uno con un’aquila? E se quest’ordine nascondesse un significato a noi sconosciuto? Un itinerario spirituale, un mondo di suoni e di note?” (ibid., p. 43). Ovviamente, occorre rispondere “sì” ad ognuna di queste domande. Beh, qui siamo il più vicino possibile ad una “sequenza completa”! Purtroppo, non è sempre facilissimo identificare la figura zoomorfa sul capitello in esame: chi scrive può sbagliarsi. Detto altrimenti: quanto qui scritto è un’ipotesi, suscettibile di modifiche, sia da parte di chi scrive che da parte di ogni altro studioso che fosse davvero interessato al tema.

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[Immagine della successione dei capitelli all’interno di Sant’Antimo (Siena), da Una pietra che canta, guida all’Abbazia di Sant’Antimo, cit., p. 43]

Per cominciare a “sgrossare” il discorso, come prima cosa veniamo ai capitelli con figure vegetali, che sono molti nel percorso di deambulazione all’interno della chiesa abbaziale di Sant’Antimo. Come si è detto nel libro precedente, secondo M. Schneider i capitelli zoomorfi corrispondenti a suoni e dunque a musiche, avevano come scopo di guarire, la guarigione, il curare. Si trattava di una “griglia” di corrispondenze, originanti da quelle astrali, che, in effetti, è a lungo rimasta come un’orma non più compresa, una “sopravvivenza” (che poi è il significato etimologico si “superstizione”), nella cosiddetta “medicina popolare”. Studiandola, ecco quel che Schneider

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affermava di essa e dell’uso delle piante: “Gli elementi della medicina popolare raccolti finora consentono d’intravedere l’esistenza di un gran numero di strati culturali diversi; ma, alla base, sembrano essere determinati dal sistema di corrispondenze mistiche. In questi paragrafi ci limiteremo a segnalare alcuni esempi di cure per mezzo di medicine animali, perché con ogni probabilità tali cure formano lo strato più antico. L’uso medicinale delle piante sembra essere determinato posteriormente da certe somiglianze dei loro contorni lineari, del loro colore od odore con certe parti caratteristiche degli animali. La determinazione della posizione mistica d’ogni pianta necessiterebbe inoltre dell’esposizione di un canone di forme molto più esteso, che speriamo di poter presentare in uno studio molto specializzato” (M. Schneider, Gli animali simbolici e la loro origine musicale nella mitologia e nella scultura antiche, Rusconi 1986, pp. 333-334). Secondo Schneider, dunque, il simbolismo più antico sarebbe quello degli animali e solo dopo sarebbe venuto quello delle piante, sviluppato in corrispondenza con quello precedente degli animali. Non sarebbe, però, a questo punto impossibile determinare il tipo di nota facendo questo passaggio: pianta>astro. Di conseguenza: astro>nota musicale. Ora, la gran parte delle decorazioni vegetali sui capitelli è costituita da foglie d’acanto. “Il simbolismo della foglia d’acanto molto usato nelle decorazioni antiche e medievali, deriva essenzialmente dagli aculei di questa pianta. (…) Come tutte le spine è anche il simbolo della terra non coltivata, della verginità, che rappresenta un’altra specie di trionfo. Chi è adorno di questa foglia ha prevalso contro la maledizione biblica: ‘Il suolo produrrà per te spine e cardi’ (Genesi, 3, 18): la prova cioè si è trasformata in gloria” (Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, vol. I, 1987, cit., p. 4). Veniamo alla spina: “La spina evoca l’idea di ostacolo, di difficoltà, di difesa esterna e di conseguenza un avvicinamento ostile e spiacevole. La spina è la difesa naturale della pianta che richiama la funzione delle corna nell’animale. Si nota che in topologia il nome di spina è dato alle pietre innalzate che comportano un simbolismo assiale e solare. Guénon ha notato a questo proposito che la corona di spine del Cristo (spine di acacia, si è detto), può esser collegata alla corona di raggi, in quanto le spine s’identificano, per un rovesciamento del simbolo, con i raggi luminosi che emanano dal corpo del Redentore. Di fatto il Cristo incoronato di spine è talvolta rappresentato in forma raggiante. In Cina le frecce, spine volanti, erano armi che servivano ad espellere delle influenze perniciose, strumenti d’esorcismo dello spazio centrale” (ibid., vol. II, pp. 419-420). Ora, se la spina è l’equivalente vegetale delle corna, occorre ricordare che: “Il corno fin dalle origini significa eminenza, elevazione. Il suo simbolismo è quello della potenza, esteso – di solito – anche agli animali che ne sono dotati” (ibid., vol. I, p. 320). Ora, tutto ciò ricorda Marte, e, in parte, il Sole, cioè il “do” ed il “fa”. Ma, nella sua variante vegetale, sembra molto più affine a Marte, cioè al “do”. Poniamo, dunque, la foglie d’acanto dei capitelli equivalente al “do”, con i suoi significati di difesa dal male e di prevalere del bene sulle forze “maledette”, ma dopo una battaglia, un confronto.

A questo punto giunti, seguiamo il percorso dei capitelli all’interno di Sant’Antimo. La deambulazione avviene partendo dalla destra, altare, sinistra, che, dal punto di vista dell’orientazione, è: ovest, sud, est, nord. E’ l’orientazione “solare” (Guénon), cioè quella che segue il movimento apparente del sole nel cielo, per quanto qui sia inverso, nel senso che dalle tenebre dell’ovest si giunge alla luce dell’altare, dell’est. Come si è detto, vale: foglie d’acanto = “do”.

Il primo capitello (da destra, dall’ingresso): acanto, dunque “do”. Secondo capitello: Daniele nella fossa dei leoni: valore “fa”, essendo simbolo della “solare”, “leonina” resurrezione. Dal terzo all’ottavo capitello: acanto, “do”. Finora la sequenza, dunque, sarebbe: “do – fa – do – do – do – do – do - do”. Nono capitello: aquila, di nuovo “do”. Decimo capitello: due belve, sembrano leoni o lupi, con le zampe inferiori che si toccano, perché sono in forma detta “rampante”. Ora la nota del lupo è “mi b”. Ora, vi era il “si b” o il “fa #” che potevano “risolvere” la dissonanza tra “si” e “fa” che costituiva, secondo la musicologia medioevale, il rapporto “diaboli”. Sennonché, ponendo il “si b”, spesso si è costretti a porre anche il “mi b” per assonanza, il che spiegherebbe l’inserimento del “mi b”. Ad ogni modo, tale identificazione delle due belve rampanti con il lupo è dubbia, se fossero leoni vi sarebbe il “fa”. Ma continuiamo. Dall’undicesimo al quindicesimo, di nuovo foglie acuminate, dunque “do”. Per cui, a questo punto, si avrebbe la sequenza: “do – fa – do – do – do –

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do – do – do – do - mi b [o fa] – do –do – do – do - do”. Il sedicesimo capitello presenta una testa di cavallo (o centauro). C’è una bella differenza se su tratta di un centauro o di un cavallo. “Alla zona critica si-fa, acqua-fuoco, appartengono gli esseri con natura duale, come il centauro e la capra” (M: Schneider, Gli animali simbolici e …, cit., p. 67). Nel qual caso, che tale capitello fronteggi quello dell’aquila vuol dire che il “do” funge da “mediatore” della dualità “irredenta”, propria della Creazione, tra il “si” lunare ed il “fa” solare. Se fosse solo un cavallo, allora sarebbe “sol #”, la nota il cui inserimento fa passare dai “modi maggiori”, attivi ed ascendenti, a quelli “minori”, calmi e discendenti. In ogni caso, funge da “perno di cambiamento”. Avremmo questa sequenza: “do – fa – do – do – do – do – do – do – do - mi b [o fa] – do – do – do – do – do -si/fa [o sol #]”. Il diciassettesimo capitello sembra mostrare una testa d’ariete, di nuovo “do”. Dal diciottesimo al ventiduesimo di nuovo acanto, dunque “do”. Di conseguenza: “do – fa – do – do – do – do – do – do – do - mi b [o fa] – do – do – do – do – do -si/fa [o sol #] – do – do – do – do - do” (si noti il ritorno di cinque “do” nuovamente). Infine, il ventitreesimo mostra una sorta di lupo, nuovamente, che sarebbe “mi b” di nuovo. Per finire, il ventiquattresimo ritorna all’acanto, dunque al “do” iniziale. Per finire, la sequenza (tutta da verificarsi) sarebbe: “do – fa – do – do – do – do – do – do – do - mi b [o fa] – do – do – do – do –do - si/fa [o sol #] – do – do – do – do – do - mi b - do”. E’ molto interessante: si parte con l’ascendente combinazione “do/fa”, e si chiude con quella discendente, però “modificata” dal bemolle, che l’addolcisce, “do/mi b”. Dopo la combinazione iniziale, ascendente, divina, che fa esplicito riferimento a Cristo (“do/fa”) ed alla sua natura “solare”, seguono sei “do”, poi vi è la combinazione “do/mi b”. Il “mi b” attesta una fase di “passaggio” ed un’“inversione”. Seguono cinque “do” intorno all’altare. Poi, la combinazione “duale” del “si/fa” (oppure il passaggio verso il modo “minore”: “sol #”). Infine, di nuovo i cinque “do”, per terminare con il “do/mi b”. Questa sarebbe la “sequenza completa”, non priva di una certa logica coerenza. Occorrerebbe vedere se corrisponde, con la possibile variante che lo stesso Schneider considerava, ad un’effettiva partitura. Lo stesso Schneider dimostrò che la partitura dell’Inno gregoriano che si trovava “scritta nella pietra” dei capitelli romanici di San Cugat e Ripoll in Catalogna era stata modificata in un punto. Quindi, si può considerare che una o due note non siano precisamente quelle della partitura del canto gregoriano senza alterare l’insieme. Però se le note “non in linea” fossero più di due, è bene l’esser prudenti. Va considerato, poi, che al posto del “do” ci potrebbe essere il “do #” e così è per il “fa” che sarebbe “fa #”, nel qual caso il “sol #” verrebbe proprio a proposito.

C’è da considerare un’ultima cosa. Fermo restando che l’itinerario delle note incastonate nella pietra sicuramente aveva una valenza spirituale, potrebbe anche darsi che si trattasse di “accordi” di due note, come lascia intendere il passo della Guida su Sant’Antimo che si è precedentemente citato, passo che ricollega ogni capitello a quello che lo fronteggia sull’altro lato della chiesa. Nel qual caso, avremmo questa serie d’accordi a due note: si entra con il “do/fa”, poi il “do/do”; segue il “do/mi b”, poi di nuovo il “do/do”. Seguirebbe il “do/sol #” (che allora sarebbe “do #/sol #”) oppure il “si/fa/do”, che potrebbe essere armonizzato con un bemolle: “si b/fa/do”, infine il “do/mi b” finale. Considero questa possibilità molto complessa e difficile, ed opterei per una più semplice successione: “do/fa”, “do/mi b”, “do/do”, “do #/sol #” “do/do” “do/mi b”, anch’essa largamente ipotetica. Ciò che, invece – a parte questioni di “sequenze complete” – non è per nulla ipotetico è che questa struttura si gioca sul rapporto “do/fa” e “do/mi b”, eventualmente bilanciata da una relazione “do/sol #” o “do/si b/fa”, sempre in un’atmosfera dove, come si è visto, il “do” è la nota dominante. La Parola divina e la Resurrezione sono al centro, con però il “mi”, che simboleggia il sacrificio, “abbassato” verso il “re”, che rappresenta l’angelo, il saggio. Il “diesis” ed il “bemolle” tendono a simboleggiare la relazione con il mondo “intermedio”, il mondo sottile che permette l’interazione tra i due mondi, altrimenti senza contatto, dello Spirito e del corpo.

5, B. Sacra di San Michele, (Val di Susa, Piemonte). Storicamente, in breve, le fasi iniziali della nascita della sacra di San Michele sono incerte, come in tanti edifici di quelle epoche. Lo storico più antico fu un monaco Benedettino, Guglielmo, che, intorno alla fine del XI secolo, scrisse il Chronicon Coenobii Sancti Michaelis de Clusa. In questo scritto la data di fondazione della Sacra è

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indicata nel 966, ma lo stesso monaco, in un altro passo della sua opera, afferma che la costruzione iniziò sotto il pontificato di papa Silvestro II (999- 1003). Tale ambiguità permane nelle opinioni degli studiosi odierni, ma va detto che l’origine vera e propria della costruzione si può datare, tutto sommato, tra la fine del X secolo e l’inizio dell’XI secolo. Nei decenni successivi la struttura dell’abbazia fu affidata – guarda caso - ai Benedettini. Nello XI secolo fu, infatti, costruito l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, e in grado di accogliere i numerosi pellegrini che transitavano per l’attigua Via Francigena. Nuovo impulso fu dato alla Sacra dall’abate Adverto di Lezat. Probabilmente l’architetto Guglielmo da Volpiano realizzò il progetto della chiesa posta sopra le tre preesistenti. Il periodo interessato da questo sviluppo è compreso tra il 1015 e il 1035. Il Monastero Nuovo, oggi in rovina, fu edificato sul lato nord e aveva tutte le strutture necessarie alla vita di molte decine di monaci: celle, biblioteca, cucine, refettorio, officine. Questa parte del complesso si trova nel posto in cui probabilmente sorgeva il castrum d’epoca romana. Di questa costruzione rimangono ora dei ruderi affacciati sulla Val di Susa. L’abate Ermengardo resse il monastero dal 1099 al 1131. Fece realizzare l’opera più notevole: il basamento che, partendo dalla base del picco del monte, raggiunse la vetta e costituì il livello di partenza per la costruzione della nuova chiesa. Questo basamento è alto ben ventisei metri. La nuova chiesa, che in pratica è quella rimasta oggi, è stata eretta su strutture possenti e sovrasta le più antiche costruzioni. La sua costruzione durò a lungo e fu più volte interrotta. E’ per questo che, nelle navate, si osserva il sovrapporsi di ben tre tipi di architettura: stile romanico con caratteristiche normanne, di nuovo una nostra conoscenza, stile fra romanico e gotico, stile gotico francese. Dal protiro, piccolo portico a cuspide, si accede allo Scalone. Qui si trova la Porta dello zodiaco, con gli stipiti decorati da rilievi dei segni zodiacali, fatto questo di rilevante importanza. Occorre rilevare un elemento molto particolare: siamo di fronte ad una chiesa in cui gli elementi costitutivi fondamentali sono rovesciati. In tutte le chiese la facciata è sempre localizzata frontalmente rispetto alle absidi poste dietro l’altar maggiore e contiene il portale di ingresso. Al contrario, la facciata della Sacra si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello Scalone dei Morti. La curiosità veramente unica è che la facciata è sotto l’altar maggiore, ed è sovrastata dalle absidi con la Loggia detta “dei Viretti”. La Sacra di San Michele godeva del privilegio di abbazia nullius (l’esenzione dalla giurisdizione di un vescovo) da molti secoli quando fu soppressa nel 1803 durante il periodo napoleonico.

Altre notizie sulla Sacra sono su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Sacra_di_San_Michele.

Di nuovo, qui abbiamo la ricorrenza di due elementi che vengono a conferma delle analisi eseguite su tali emergenze delle sculture zoomorfe: ambiente benedettino, influsso normanno. Tali figure sui capitelli son visibili su:http://www.medioevo.org/artemedievale/Pages/Piemonte/Sacra.html

Seguiamo il susseguirsi dei capitelli. All’entrata si vede il classico acanto, ma con una pigna al centro: il senso è chiaro, se la spina è la “prova”, la pigna il successo, la fecondità della terra “selvaggia”, o, per dir meglio, la ricchezza che si racchiude nella terra “vergine” (e qui l’applicazione del simbolismo alchemico chiarisce molte cose: è la “materia prima” in cui si ritrova la “pigna”, tra l’altro anche simbolo d’immortalità). Il suono è un “do”. Segue il capitello che effigia l’offerta di Caino ed Abele, poi l’uccisione d’Abele da parte di Caino. L’idea sostanziale è molto chiara: è il sacrificio, vale a dire il “mi”. Segue il capitello con il volto apotropaico dal quale spuntano tralci. Si tratta di un “mostro” di provenienza nettamente “pagana”, sempre in funzione apotropaica. E’ “l’uomo dei boschi”, il “selvaggio”: ciò si collega all’idea del “cacciatore”, legato al suono “la”. E’ come affermare che la caccia e le lotte “terrene” debbono star fuori dal luogo sacro, sebbene queste stesse forze possono essere “recuperate” come “guardiani” del luogo sacro stesso. Simil discorso si può fare per il capitello che simboleggia “l’ira” (con “tre figure”, fonte online qui sopra citata), ira che va lasciata fuori del luogo sacro. Segue il capitello con la scena di Sansone che distrugge il tempio degli adoratori di Dagon, il dio dei Filistei. Sansone è “solare”, in un ruolo “attivo”, dunque ha nota “fa”. Sul lato del Portale che dà verso lo scalone, vi sono le figure zodiacali (che danno il nome al Portale stesso). I segni zodiacali sono in quest’ordine: Acquario, Pesci, Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine-Bilancia-Scorpione assieme (interessante,

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perché un tempo vi era solo Vergine-Scorpione, poi la Bilancia, da costellazione polare, è divenuta zodiacale ovvero solare, come testimonia Guénon), Sagittario, Capricorno. E’ importantissimo che s’inizi dall’Acquario, perché nel simbolismo zodiacale, come ricostruito da Schneider, sulla scorta di molte fonti, il segno dell’Acquario è quello della “svolta”: è questo il significato della sua posizione nel corso dell’anno (vale a dire del ciclo annuale, in altre parole solare). Parlando del “viaggio” spirituale dello sciamano caucasico, dice: “Indubbiamente, le dieci tappe del viaggio dello sciamano concordano con le dieci risonanze mistiche della dottrina brahmanica” (Schneider, Gli animali simbolici e …, cit., p. 204). Queste “risonanze” mistiche “rappresentano il cammino mistico verso Brahma” (ibid., p. 189). Ed aggiunge: “Un uguale fenomeno caratterizza anche la tradizione sciamanica. Il viaggio dello sciamano al cielo comincia con la salita al figlio Ulgaen, chiamato ‘Qogus con la pelliccia azzurra’. Poi giunge ad un lago, dove si trovano un salice (albero di vita) con tracce d’incendio ed una montagna enorme con una gola così alta che neppure lo sciamano la può oltrepassare. Deve aggirarla ed attraversare un terribile deserto pieno di sabbia bianca ed azzurra. Chi abbia ‘un cavallo cattivo o un beveraggio di qualità inferiore’ muore nel deserto. Oltre questo deserto ‘la strada fa una svolta’ che conduce alla dimora di ‘Solton Qan’. Allora bisogna fare un altro giro intorno per arrivare alla casa di ‘Cajym Qam con la pelliccia verde’. La strada finisce davanti alla porta dello ‘spirito supremo’” (ibid.). E’ interessante rilevare quel che si legge nella tabella di corrispondenze della stessa pagina citata: al “mi b” corrisponde, secondo le “dieci risonanze mistiche brahmaniche”, “l’immortale velato” (ibid.) ed il corno. All’accordo discordante per natura “si/fa” corrisponde il “sapere mistico” e la corda. Quest’accordo si può sostituir con il “si b”, punto importante in relazione a quanto detto a proposito di Sant’Antimo. Il “punto di svolta” corrisponde al segno dell’Acquario, perché non era distinto dal Capricorno nei tempi più antichi, e dunque ad esso corrisponde il solstizio d’inverno. Lo sciamano, nel suo “viaggio celeste”, “comincia lo svoltare per il deserto, che deve corrispondere ai due solstizi [secondo questa dottrina, si passa dal solstizio d’estate a quello d’inverno]. A partire dal mi bemolle lo sciamano torna ad incamminarsi verso Dio” (ibid., p. 204). Il “mi b” corrisponde all’Ariete, ma la svolta è avvenuta durante il Capricorno-Acquario, caratterizzati dalle note rispettivamente “do #” e “fa #”. Ad essi si apparenta il segno del Sagittario, con il “sol #” (che si è visto essere il segno del cavallo, importantissimo nello Sciamanesimo centro-asiatico e non solo). Così commenta Schneider: “Il giro che lo sciamano deve fare dopo la quinta tappa di fronte al Cancro [solstizio d’estate] per tornare a cominciare dal mi (= mi bemolle) divide le dieci tappe [del viaggio “mistico”] in due parti che concordano esattamente con le due serie delle risonanze mistiche. Questo giro, segnato dai due solstizi, sembra indicare un fenomeno molto noto nella vita ascetica. Il primo impulso focoso (risonanze 1-5) verso Dio si ferma e spegne subito; l’uomo cade in uno stato di desolazione (deserto) e torna ad incamminarsi per la seconda volta verso Dio (risonanze 6-10), ma ora con uno spirito diverso. In questa teoria si manifesta anche la radice profonda della vita mistica nella vita cosmica. Il Cancro obbliga lo sciamano a fermarsi nel suo viaggio precipitoso e troppo ardimentoso verso Dio, e unicamente dopo aver oltrepassato il fuoco purificatore (la svolta) l’uomo mistico può tornare ad incamminarsi verso Dio” (ibid.). Lo sciamano, per certi aspetti, è “il morto sapiente” (cfr.: Antonio Bonifacio, “Lo sciamano: il morto sapiente”, in Il viaggio celeste e lo Sciamano, “Archeologia Proibita”, trimestrale n°31 (2008), Casa Editrice Mondo Ignoto, p. 9). In tale studio si fa riferimento al fondamentale: Mircea Eliade, Lo Sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee 1983 (oltre che ai primi tre libri, fondamentali, di Carlos Castaneda). Ma continuiamo il discorso sui capitelli della Sacra di San Michele. Seguono due capitelli con serpenti ed una donna, interpretati come “lussuria”, il che non è sufficiente, pur non essendo per nulla errato. Ad ogni modo, la nota è di nuovo “la”. Segue il capitello con quattro aquile, “do”. Poi, un leone – “fa” -, una sirena, essere semi-acquatico: “si/la”. Vi è un’evidente opposizione tra i due capitelli, dovuta al rapporto “si/fa”, naturalmente dissonante (precisamente tale rapporto è: il “si/la” della sirena accostato (= suonato assieme) al “fa” del leone). Ma, sul capitello della sirena, ci sono due grifoni, “sol”, messaggeri celesti, che si cibano di una testa umana, come a dire che chi cede alle lusinghe delle forze sottili “infere”, “ctonie” o sottomarine – la “sirena”, come “Partenope” – sarà punito dalle forze angeliche divenute, per chi ha errato, “terribili”. Naturalmente, il mondo pagano

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aveva delle forze “infere”, “sotterranee”, una diversa immagine, non che fossero “buone”, ma dovevano essere “propiziate” ed “esorcizzate” piuttosto che “allontanate”. Il messaggio del capitello è, infatti, che queste forze qui non possono entrare. I tralci sulle lesene laterali dell’entrata sono di uccelli, “sol”. Infine, all’estremità dell’archivolto vi è una testa di monaco, con evidente funzione apotropaica. Del resto, è rimasto nelle “superstizioni popolari”, che il monaco “porta fortuna”, “scaccia il male” anche il solo vederlo al mattino, presagio di un buon giorno. Vediamo la sequenza che si estrae, incompleta però: “do – mi - la – fa”. Segue la serie zodiacale, perché lo Zodiaco, nel percorso “sacro” delle risonanze “mistiche”, ha un suono, ma in quanto legato ad animali ne ha un altro, ricollegato alla prima sequenza ma non identico. Veniamo alla sequenza dei suoni zodiacali come collegati alle figure animali: “mi – si – do – mi – re – la – fa – re – mi – do – sol (#) – mi”. Segue l’ultima serie: “la – do – fa – si/la – sol”. Sono ventidue note, o ventuno (se “si/la” li consideriamo separati).

5, C. Note su Aversa. Aversa, fondata da Rainulfo Drengot, normanno, nel 1030 su di un preesistente villaggio attorno ad una chiesa di San Paolo “Averze”, faceva parte del Ducato di Napoli nell’XI secolo, ma fu poi di seguito inglobato nel territorio di Capua. La sua importanza strategica nasceva dal porsi tra il territorio longobardo e quello del Ducato di Napoli. La regione specifica della quale Aversa faceva parte era la “Liburia”, che talvolta si trovava riportata, nei testi medioevali – ad esempio Erchemberto nella sua Storia dei Longobardi di Benevento (dal 774 all’889) -, come “Liguria”. “La Liburia (territorium Liburianum, Liguria, Liguria tellus) è quel tratto della pianura campana che è limitato al nord ed al nord-est dal fiumicello Clanius (nome deformato in Laneus, oggi Lagno), diviso in più corsi detti Lanei (lagni). I Leburii o Campi Leburii o Campi Leborii (oggi Terra di Lavoro) si estendevano per una notevole parte della Campania [pianura campana], a sud del fiume Clanius” (Raffaele Calvino, Diocesi scomparse in Campania, F. Fiorentino editore 1969, pp. 84-85). In realtà, “Liburia/Leburia” fa riferimento ai Leporini, il popolo dal quale prende il nome “Terra di Lavoro”, nome oggi esteso, erroneamente, all’intera Provincia di Caserta. Dico erroneamente, perché la “Liburia” è specificamente l’Agro aversano, zona ben distinta dal resto della Provincia di Caserta, che, in realtà, è la “Campania” vera e propria, cioè l’Agro capuano, di Capua. I Leporini, o Leborini, erano identificati dal loro “totem”, la lepre (che ha la stessa radice, “lebus/lepus”).

Molto interessante, ad Aversa, è la chiesa di Santa Maria a Piazza, del XII-XIII secolo, ricostruzione d’epoca normanna, ma con influenze sia gotiche che arabe, in un ambiente “cosmopolita”. Nella sacrestia di questa chiesa sono stati ritrovati dei simboli che han fatto taluno pensare a legami con la chiesa di Rennes-le-Chateau, paesetto dei Pirenei, famoso centro del tenebroso “affaire”, cfr.: http://www.edicolaweb.net/arca002a.htm. Su questo sito si riporta l’articolo di Stelio Calabresi: “Misteri paralleli: da Aversa a Rennes-le-Château”. Interessante l’ipotesi di Calabrese, che pone in relazione questi simboli con quelli della Steganographia dell’abate Trithemius (1462-1516). Da sottolinearsi che l’origine della chiesa di Santa Maria a Piazza sarebbe precedente l’epoca della fondazione normanna della città di Aversa; vale a dire che Santa Maria a Piazza sarebbe d’origine longobarda (cfr.: Lello Moscia, “Abbascio, ‘ncoppa e sotto, dinto e fora, arèto e ‘mmieze (Aversa: i luoghi e la storia)”, in: “Rassegna Storica dei Comuni. Studi e ricerche storiche locali”, Anno XXXIII (nuova seria), n°140-141, gennaio-aprile 2007, p. 7 e sgg., in particolare le pp. 31-32-33). Sempre in quest’interessante articolo appena citato, si riporta un viaggiatore e geografo islamico del X secolo che parla di Amalfi come della “città più ricca della Longobardia” (ibid., p. 33, nota 62 a pie’ pagina), più importante all’epoca della stessa Napoli, cosa che L. Moscia sottolinea. Ciò che, invece, sottolineerei piuttosto è che all’epoca l’attuale Campania si chiamava “Longobardia”, osservazione che dà da pensare. Nello stesso numero appena citato vi è un’interessante scoperta archivista (cfr.: Gianfranco Iulianiello, “Castel Morrone nella Lepidina dell’umanista Giovanni Pontano”, in ibid., p. 42 e sgg.). Si parla dell’“eponimo” di Castel Morrone (“Murronem”) e della sua consorte (“Tifatea”), a sua volta eponimo, femminile, dei Colli Tifatini: molto importante.

Un sito molto interessante, dove si parla della presenza del percorso di deambulazione tra il coro e il

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perimetro dell’abside, è questo: http://web.tiscalinet.it/arte_aversa/E-Rubrica/3-Cattedrale.htm. Vi si riporta l’articolo di Aldo Cecere sul tema, articolo apparso su “… consuetudini aversane” n°4 del 1988, pp. 5-35. Vi sono dei cenni utili riguardo a Santa Maria a Piazza. Si attribuisce a Pietro Cavallino, “pictor romanus”, un dipinto all’interno di Santa Maria a Piazza. Il percorso di deambulazione “di Aversa, in Italia, sarà emulato, in forma ridotta e incompleta, nella chiesa abbaziale della SS. Trinità di Venosa e nella Cattedrale di Acerenza, in Basilicata; un caso isolato rimane quello toscano della chiesa di Sant’Antimo, presso Siena” (Aldo Cecere, Guida di Aversa in quattro itinerari e due parti, “… consuetudini aversane” edizioni 1997, p. 50). La Cattedrale di Aversa, ad ogni modo, è stata pesantemente rimaneggiata, Santa Maria a Piazza, invece, pur avendo avuto rimaneggiamenti, ha conservato molto meglio l’impianto originale, sebbene i restauri, degli ’50 del secolo scorso, non siano mai stati completati. Molto importante, ad Aversa, è la chiesa ed il convento di San Lorenzo (originario del IX secolo, ma modificato, con lo stile “delle figure zoomorfe”, nell’XI-XII secc.). In effetti, sul portale di detta chiesa si ritrovano delle figure zoomorfe, splendido il bue (nota “mi”), posto su di una colonna con le immancabili foglie d’acanto, con il loro senso simbolico. Probabilmente, vi fu netto influsso da San Vincenzo al Volturno. Difatti, questo convento “accolse anche i benedettini del distrutto Monastero di San Vincenzo al Volturno [corsivo di Cecere]” (ibid., p. 100). Possiamo così farci un’idea di come sarebbe potuto essere l’impianto antico di S. Vincenzo al Volturno. Venendo a Santa Maria a Piazza, questa chiesa, “sebbene sia ritenuta la più antica della città, compare nei documenti ufficiali solamente nella metà del XII secolo. (…) La chiesa, comunque, sorse nell’XI secolo, (…) con uno schema molto semplice: una piccola navata che terminava in un abside semicircolare. Anche il campanile [corsivo di Cecere], che non fu mai ultimato, è della stessa epoca; inoltre, ancora del medesimo periodo, sono tracce del pulpito in cornu epistolae (una colonnina col capitello addossato al pilastro), l’antica Sagrestia [idem, come sopra] e un vano con simboli barbarici” (ibid., p. 80). Simboli zoomorfi si trovano sempre nella sagrestia, e, poiché si trovano nella sagrestia, i “simboli barbarici” appartengono all’epoca più antica della chiesa. Ora: “Dopo gli incendi del 1135, che danneggiarono molti monumenti di Aversa, si rese necessario ristrutturare e ingrandire la chiesetta; vennero aggiunte le due navate laterali e le campate antistanti quella centrale. Il presbiterio, pur allargandosi, conserverà uno stretto passaggio esterno con la torre ovest del nuovo castello [idem]. La cupola, col tiburio ottagonale, (…) fu costruita nel XIV secolo” (ibid., p. 83). “Nell’odierna sagrestia [idem] vi sono tracce di affreschi medievali (…), mentre, sulla volta dell’attiguo ripostiglio, si notano antichi simboli barbarici [idem] a rilievo” (ibid., p. 84). Ad ogni modo, sono gli affreschi, sebbene in larghe parti mancanti, a costituire la parte più importante della chiesa. Il restauro effettuatovi non ha certo inteso mantenerne “certi” aspetti: si vede, infatti, che molte pietre sono nuove, per cui la cosa è deludente, come spesso accade in Italia e soprattutto nel Sud. Sul portale gotico, così come su di un altro portale gotico, laterale (dove però è assai più indistinto), si vede un bellissimo agnello con la Croce, suono “do”, che dunque è il suono “residuo” della chiesa, ripetuto due volte.

Nel percorso di deambulazione dietro la Cattedrale di Aversa, pesantemente barocca, davvero molto bello, vi sono due pezzi molto importanti: le due facce barbute, teste apotropaiche di nuovo - ma non si possono escludere reminescenze prettamente nordiche di qualche figura di divinità del pantheon norreno (da individuarsi meglio); la Lastra del cavaliere, San Giorgio, che combatte il Drago. L’ho studiata nel libro precedente, cui rimando, ma finalmente l’ho vista e debbo dire che si tratta di un pezzo straordinario, più grande di quanto reputassi dalle immagini.

Una nota interessante va detta riguardo al Castello fatto costruire da Ruggero II d’Altavilla, re normanno, che però fu ricostruito da Federico II, e non si può affatto escludere “che il nuovo impianto non possa essere servito per i castelli di Puglia e di Sicilia, tutti costruiti successivamente a quello di Aversa” (ibid., p. 88). Quel che qui è interessante sottolineare è la “struttura simbolica” del castello di Aversa, che “fu elaborato col modulo della sezione aurea, cioè con la ‘divisione del segmento [il diametro della fortezza] in media ed estrema ragione’, che si ripete sia sui lati della base che sulle torri angolari” (ibid., p. 87). Il modello, che poi sarà di Castel del Monte, qui trova il suo prototipo: stesso modello si applica sui lati della base, sia sulle torri laterali: è importante

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questo punto. Inoltre, vi è un legame diretto tra il castello e “le ombre del sole ai solstizi e agli equinozi, considerando la torre del castello gnomone di un orologio solare; da ciò si evince che al solstizio d’inverno (21 dicembre), l’ombra copre interamente il cortile del castello e, conoscendo che Ruggiero nasce il 22 dicembre del 1095, non si può non considerarne l’attinenza, quella cioè di valutare l’ombra totale del cortile come prefigurazione del dominio (del re) sul vasto regno dell’Italia meridionale” (ibid., “box” a pp. 84-85). Fu, infatti, partendo da qui, Aversa, che i Normanni giunsero alla definitiva conquista dell’Italia meridionale, cosa che fu più di una “conquista”. In realtà, fu solo per mezzo dei Normanni che “nacque” l’espressione “Italia meridionale” intesa come un insieme, prima essendovi ex-bizantini o bizantini, longobardi fra loro in lotta, presenze islamiche, ambizioni molteplici e confliggenti di Bisanzio, del papato e dell’Impero occidentale, un notevole pasticcio, tutt’altro che facente parte di un “gruppo” non dico “omogeneo”, ma, per lo meno, correlato. Prima dei Normanni l’essere del Sud italiano era sostanzialmente un fatto geografico, privo di qualsiasi valenza politica unitaria. La cosa davvero interessante da sottolineare è che la costruzione del Sud fatta dai Normanni quella è rimasta nel corso dei secoli, con poche modifiche. Occorre sempre ricordare, però, la qualità diversa del Castello federiciano: “Castel del Monte fu tempio di Dio” (O. Mariani, Federico II di Hohenstaufen, Controcorrente 2003, p. 96).

Andrebbe studiato meglio, sempre ad Aversa e dal punto di vista delle figure zoomorfe, il chiostro romanico di S. Francesco delle monache, pesantemente modificato dallo scalone settecentesco.

5, D. Qualche cenno di storia di Gotland (Isola del Baltico, Svezia). “Il periodo compreso fra il 1170 e il 1240 fu particolarmente violento per le comunità delle isole del Baltico. Sebbene la Scandinavia fosse diventata cristiana, una grossa parte della regione del Baltico meridionale ed orientale rimase pagana. Le incursioni dei pirati (…) resero molto vulnerabili le popolazioni delle isole di Gotland, Oland e Bornholm, e quelle del litorale orientale della Scandinavia. Trovandosi su rotte commerciali sempre più battute dall’Hansa, infatti, quelle aree erano considerate come una fonte inesauribile di ricchezze” (Peter Harrison, Fortezze di Dio. Castelli, monasteri, templi: quando le religioni si preparano alla guerra, Oscar Mondatori 2006, p. 141). Ci fu dunque un’epoca nella quale il Baltico era tra i mari più importanti al mondo, e lo sarebbe rimasto per lungo tempo ancora. La Lega anseatica (Hansa) era “l’unione delle compagnie commerciali delle città costiere della Germania settentrionale” (ibid., p. 142). L’isola del Baltico nella quale la Lega lasciò maggiori tracce è Gotland, attuale Svezia, ma che, in effetti, anche per lingua, è a sé rispetto alla Svezia vera e propria, della quale iniziò a far parte solo dal XVII secolo. Per un breve periodo è stata sede dei Cavalieri Teutonici, poi è stata anche danese, ma, in effetti, è stata indipendente. Vanta il miglior clima della Svezia, molto asciutto, tant’è che i due terzi delle orchidee della Svezia vi crescono. “Gotland [lett.: “Buona Terra”], che si trova a circa 90 chilometri dalla costa svedese, è la più grande delle isole del Baltico. Presto diventò un obiettivo conteso dai pirati pagani, dai commercianti di schiavi e dalla Lega anseatica, che fondò Visby [la capitale dell’isola] in un’insenatura naturale della costa occidentale dell’isola. Visby diventò uno dei maggiori porti commerciali del Baltico e fu cinta da mura nella seconda metà del XIII secolo. Vi si trovava l’unica fortificazione significativa sull’isola, costruita per proteggere i mercanti e le loro merci, più che per la sicurezza della popolazione locale, che alcuni decenni prima era stata abbandonata a se stessa, e aveva utilizzato le chiese come luoghi di rifugio. Sparse su tutta l’isola ci sono più di novanta chiese, un’eredità del Medioevo; undici di esse conservano ancora tracce evidenti di fortificazione” (ibid., p. 143). Difatti, l’isola, dopo i tumultuosi ma ricchi tempi medioevali, anche in seguito alla crisi dell’Hansa ed al diminuire d’importanza del Baltico, si ritrovò in una forte crisi, durata molto a lungo, l’unica uscita dalla quale non poteva essere che il farsi annettere dalla vicina Svezia, ma, in realtà, storicamente, Gotland non è affatto Svezia. Proprio questa lunga crisi, però, ha fatto sì che, come “sottovuoto”, siano rimaste queste novanta chiese. Se si fa il rapporto fra numero di chiese e superficie territoriale, quest’isola ha la più alta concentrazione di chiese per km quadrato di tutti i paesi nordici. Se, poi, si vuole avere un’idea di come doveva più o meno essere Danzica prima delle

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distruzioni, si deve andare a Visby, piccola città che ha conservato le mura. Lo stile è quello nordico, “anseatico”. Non sembra, però, che si sia mai studiato queste chiese in relazione allo stile “animalistico”, ma le figure zoomorfe in queste chiese costituiscono un insieme assai ricco. In particolare le chiese di Vamlingbo (o Vamlingby) e di Öja sono interessanti, ambedue situate nell’estrema penisola meridionale dell’isola, la parte più calda. La prima chiesa origina nel XII secolo e si caratterizza per un fonte battesimale che si attribuisce ad un artista anonimo detto “Byzantios” a causa delle origini del suo stile. La seconda, Öja, ha un interessante portale e la torre che sono del XIV secolo e sono attribuiti ad un altro artista anonimo, chiamato “Egypticus”, per le risonanze del suo stile, il che la dice lunga sulla ricchezza dell’isola, che poteva permettersi una variante “internazionale” dello stile “anseatico” della Germania settentrionale, cui, tutto sommato, l’isola è vicinissima artisticamente. Se si vuol conoscere un po’ di quel che doveva essere lo stile della Germania medioevale, Gotland è in grado di darne un’idea, per quanto imprecisa.

Le figure zoomorfe delle quali qui si tratterà non si trovano sui capitelli, ma sulle fonti battesimali, la qual cosa è una particolarità interessante. Venendo ad Öja, è molto interessante l’immagine di un leone che azzanna un asino, simbolo di eresia e stupidità, ma pure, secondo Guénon, di Seth, il “satana” dell’Antico Egitto. Lui narrava, nelle lettere “personali”, che “l’asino rosso” era rimasto come una sorta di “spettro pericoloso notturno” nelle “superstizioni” (ovvero, “sopravvivenze”) dell’antico Egitto al Cairo, dove si era trasferito. Dal punto di vista delle note, si nota un netto rapporto “fa/mi”, dove il “fa”, “solare”, sovrasta e vince le forze delle tenebre, che accettano il sacrificio (“mi”). Veniamo a Vamlingby. Ci sono inoltre sculture zoomorfe del Drago e dell’uccello “canterino” (rispettivamente: “re” e “la”), della Sfinge (“sol”, come la gru, anch’essa simbolo d’immortalità) e del centauro (essere duplice, “si/fa”), che ha vicino a sé l’uomo. Interessantissimo che una scultura zoomorfa avvicini la Sfinge all’Albero della Vita: è la “figurazione” più chiara d’immortalità che si possa dare. Vi è il pavone (“re”). Interessante l’immagine che unisce al leone il cervo, ambedue “solari”, ma il cervo, nel simbolismo cristiano, ha più ruolo negativo che positivo, anche se non sempre. Le immagini in questione e le informazioni le debbo alla cortesia di David Brenner, e sono tratte da: Erland Lagerlöf, Gotland and Bysans, Ödins Förlag AB (Visby) 1999, pp. 110 (Sfinge ed Albero della Vita), 111 (leone e cervo). Il libro in questione si focalizza sui rapporti fra Gotland e Bisanzio, che furono piuttosto stretti[1].

In realtà, si sa come i Nordici fossero o membri privilegiati della Guardia personale dell’Imperatore bizantino, formata soprattutto da Varieghi, o Variaghi, che erano gli Scandinavi che vagavano per la Russia, ovviamente anche mescolandosi con le genti locali. Tali Scandinavi chiamavano se stessi “Ros”, donde il termine di Russi. E’ interessante sottolineare come, nelle Saghe norrene, la Russia sia la terra dei Vani, gli dèi precedenti gli Asi, che sono Odino, “Thòrr”, Freya eccetera. Thor vaga nell’Est, nelle piane della Russia, assieme a Loki, prima che Loki passasse definitivamente al Male e si alleasse con quelli che avrebbe dovuto combattere (un riflesso di un tema mitologico diffusissimo in ogni “mythos” di tutte le popolazioni della Terra). Essi combattevano i giganti, che si trovavano anche al Nord, ed erano i troll. Senza più Loki, Thor vagherà poi da solo, con il Martello Mjolnir, a combattere i giganti ed i nani.

Andrea A. Ianniello

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[1] Qualche altra informazione su Gotland si può trovare sul Dossier dedicato a Gotland, in: Francesco Colotta, “Gotland. L’Isola del tesoro”, “Medioevo. Un passato da riscoprire”, anno 12 n. 9 (149), settembre 2008, De Agostini Periodici. La capitale di Gotland, Visby, è sito protetto dell’Unesco.

Anche l’isola danese di Bornholm possiede delle emergenze architettoniche di gran valore, sulla quali cfr.: John K. Young, I Luoghi Sacri dei Cavalieri del Tempio, Universale Newton 2006. Sull’isola di Bornholm, oltre a monumenti megalitici, “si possono trovare una quindicina di chiese medievali; quattro di esse mostrano la caratteristica struttura cilindrica (mura arrotondate) delle chiese templari, e sono unite a sculture di roccia che rappresentano la croce templare (…). Le chiese furono costruite alla fine del XII secolo. Circa nello stesso periodo (1171), papa Alessandro III proclamò la crociata, da tempo attesa, contro i pagani predatori della vicina Estonia. Sembra che contingenti di Cavalieri Templari fossero stati chiamati in Danimarca e a Bornholm per prestare la loro potenza militare alla crociata” (ibid., p. 131). Le chiese rotonde di Bornholm, effettivamente una rarità, son dette “Rundkirke”. Bornholm è un’isola sotto la Svezia meridionale, la Scania per l’esattezza, e si trova in pieno Mar Baltico, cosa che le dona un clima più mite. Pur essendo danese, come gran parte della Scandinavia in tempi medioevali, è l’ultima parte della Scandinavia vera e propria che è rimasta alla Danimarca, quest’ultima nazione, a parte le isole, dove si trova la capitale, è in effetti costituita soprattutto dalla penisola dello Jutland (“Jyllan” in danese), che è pienamente continente europeo come la penisola italiana lo è. Anche la composizione geologica è molto differente: mentre lo Jutland è composto soprattutto di terreni giovani e sedimentari, l’isola di Bornholm è in buona parte roccia, cioè l’ultimo pezzo dell’antico “scudo” geologico scandinavo. Insomma, una terra vecchia, mentre il resto della Danimarca è piuttosto giovane, come gran parte dell’Italia, del resto.

Senz’arrivare ad ipotesi eccessive, è fuor di dubbio che vi sia stata una forte influenza orientale anche nella nascita del Papato, che, però, poi avrebbe preso tutt’altra via, sempre più “politica”, tesa cioè a trasformarsi in uno stato. Quest’influenza spiegherebbe delle componenti simboliche, non spiegate sin ora con chiarezza, per esempio, per l’appunto, la mitria. Lo stesso Guénon la pensava così, ma poneva piuttosto l’accento sull’influsso del culto di Giano, con il simbolo delle “claves” che vi si ricollegava. La genealogia iniziale dei papi è oscura, fuor di dubbio. Una genealogia più certa è quella dei papi di Alessandria d’Egitto. Sul culto di Mitra e la sua interpretazione astronomica, cfr.: David Ulansey, I Misteri di Mitra. Cosmologia e salvazione nel mondo antico, Mediterranee 2001. Questo libro è tratto dall’ipotesi formulata da Ulansey in “The Mithraic Misteries”, “Scientific American”, dicembre 1989 (pubblicato col titolo de: I misteri di Mitra su “Le Scienze”, edizione italiana di “Scientific American”, n°258, febbraio 1990).

Un valido sunto online di quest’ultimo scritto (quello per “Scientific American”, ma rivisto), è: “The Mithraic Misteries”, e si trova al link: http://www.well.com/user/davidu/sciam.html. Inoltre, l’articolo online che presenta un sunto non dell’articolo, ma del libro di Ulansey (libro tradotto in italiano), è “The Cosmic Misteries of Mithras”, e si trova al seguente link: http://www.well.com/user/davidu/mithras.html. “David Ulansey ha dimostrato che anche nel mitraismo ‘mediterraneo’, così amato dai centurioni romani, il dio Mitra è molto di più di un semplice macellatore di tori: nato da una roccia cosmica a forma di uovo, egli controlla la sfera celeste e lo zodiaco in movimento” (Charles Allen, Alla ricerca di Shangri-La. Sulle tracce della leggendaria valle tibetana dell’eterna giovinezza, della felicità terrena e dell’antica saggezza, Newton Compton editori 2000, p. 141). “Mitra (…) è l’arbitro tra dio e l’uomo, detentore della verità e degli obblighi contrattuali” (ibid.). Mitra, nel corso dei secoli, acquisterà delle caratteristiche del “suo fratellastro iraniano Varuna, signore della magia e della luce. Viene dotato di una clava o di una saetta, il vajra sanscrito, e diventa un dio della guerra, ‘sol invictus’” (ibid.).

“Il mitraismo a Capua, probabilmente introdottovi dai gladiatori che, per lo più, erano orientali, o dai marinai che frequentavano la città (collegata col mare per mezzo del Volturno), (…) ebbe vita effimera, in quanto, con l’editto di Costantino (313 d.C.), crollava il pantheon pagano e, con esso, le altre forme di religiosità venute dall’Oriente. Infatti, a quella data, la religione cristiana si era già affermata nel popolo capuano grazie alla predicazione di S. Prisco, di S. Rufo e di S. Agostino e per essa già sette vescovi avevano subito il martirio. Nel 394, infine, Teodosio vietò ufficialmente quel culto” (A. Perconte Licatese, Capua Antica, cit., pp. 112-113). In questo libro vi è una fotografia degli anni Novanta dell’interno del Mitreo di S. Maria Capua Vetere, ovvero ciò che rimane dell’antica Capua sotto l’attuale città: pur essendo stato restaurato recentemente, posso testimoniare – poiché ho visitato il Mitreo nell’agosto del 2009 – che, sebbene un po’ migliorato, rimane com’era negli anni Novanta. Diversa la forma originale degli anni Venti, conservata in

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una foto dell’edizione del 1938 dell’Enciclopedia Treccani, con i colori integri e quasi completo. Il piccolo bassorilievo dedicato ad Amore e Psiche ivi presente (ibid., p. 111) non è stato mai pienamente spiegato.