Giorgio Ghidoni Frammenti di emozioni

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Giorgio Ghidoni Frammenti di emozioni

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Diciannove racconti in differenti situazioni spazio-tempo, ambientati in Italia, Germania, Stati Uniti, America Latina. Sorte che disegna il destino. Casualità buffe. Vita metropolitana sognata, vita campestre nel borgo come dimensione felice, dimenticata dalla pena. Ridondanza di colori, suoni, danze. Mitezza condannata dalla prevaricazione, infamia che deprime gli oppressi e i deboli. L'insidia del male anche nell'anima dei normali. Una costante narrativa quasi sempre presente: l'amore dei protagonisti. Altro ancora. In sintesi: tante storie, personaggi, mondi spesso diversi, sospesi fra la realtà e l'incanto, per dirci di noi e dell'universo in cui corre la nostra esistenza.

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Diciannove racconti in differenti situazioni spazio-tempo, ambientati in Italia, Germania, Stati Uniti, America Latina.

Sorte che disegna il destino. Casualità buffe. Vita metropolitana sognata, vita campestre nel borgo come dimensione felice, dimenticata dalla pena. Ridondanza di colori, suoni, danze. Mitezza condannata dalla prevaricazione, infamia che deprime gli oppressi e i deboli. L’insidia del male anche nell’anima dei normali. Una costante narrativa quasi sempre presente: l’amore dei protagonisti. Altro ancora.

In sintesi: tante storie, personaggi, mondi spesso diversi, sospesi fra la realtà e l’incanto, per dirci di noi e dell’universo in cui corre la nostra esistenza.

Prezzo al pubblico € 14,90 - Iva inclusa

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Giorgio Ghidoni, nato e cresciuto a Brescia, dove tuttora vive. Dimostra presto predisposizione all’arte: scrive e dipinge. Ama da sempre le discipline umanistiche.

Giorg io Ghidoni

Frammenti di emozioni

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A mia moglie Elda, ragione del mio esistere A mio padre Giuseppe, scusando il ritardo

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Narrativa

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GIORGIO GHIDONI

FRAMMENTI DI EMOZIONI

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Frammenti di emozioni

diGiorgio Ghidoni

Paolo Emilio PersianiEditore

piazza San Martino 9/C40126 Bologna

Tel. (+39) 051/9913920Fax (+39) 051/19901229

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Grafica: Con–fine Studio Immagine. Copertina: fotografia di Andrea Fienga©

Curatori del testo: Paola Andalò, Perla Premoto, Elisa Serras, Cleo Zanini.

Copyright © 2011 by Gruppo Persiani Editore di Paolo Emilio Persiani

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Nel consueto le emozioni sono frammenti effimeri nello spazio e nel tempo del tutto.

La mia vita, nella felicità e nella pena, è un susseguirsi costante di brevi, intense emozioni.

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LA SORTE

Simon Kopler e Marianne Zaender erano figli del dopoguerra: lui nato in un’alba livida e tempestosa dell’aprile 1945 e lei in un pomeriggio di splendore di fine agosto dello stesso anno. Avevano mosso i primi passi nel segno dell’incertezza, fra le voragini ereditate dai bombardamenti massicci della RAF ed i calcinacci piovuti dagli scheletri degli edifici, zigzagando fra le ventidue colline, indelebili architetture create dal pugno sinistro delle macerie, che connotavano ormai tutta l’area di Berlino. Senza pathos o emozioni particolari, poiché le coccole della propria madre e una carezza posata sul capo dal padre bastavano a farli trascorrere indenni fra i fantasmi di morte che ancora avvelenavano la città. Tutta l’infanzia era trascorsa, secondo i canoni benedetti che proteggono questa fase dell’umana esistenza, con il sorriso e quella naturale corazza che rende tutti i bambini del mondo impermeabili ai sussulti anche pesanti dell’esteriore. Giusto un sussulto, ma non tanto di più, l’avevano avvertito nell’agosto del 1961 quando i loro primi baci e le loro prime esplosioni amorose erano state interrotte, poiché nella notte fra il dodici e il tredici le autorità della DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, con l’appoggio dell’Unione Sovietica, avevano chiuso tutti i passaggi fra Est e Ovest, prima con il filo spinato, poi con la costruzione del Muro, che li aveva ghettizzati a Berlino Est fino alla sua caduta nel 1989. D’altra parte si erano abituati da sempre al clangore dei cingolati dei carri armati dell’Armata Rossa e la vita agra e avvilente nei casermoni tetri della Karl Marx Allee era divenuta per loro un segno qualunque e normale nello scorrere della loro prima giovinezza.

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È una sera priva di nubi e di imbronciamenti nel cielo e nell’anima quella in cui Simon e Marianne passeggiano in lentezza lungo l’ansa del lungo Sprea. Si tengono accostati, le dita strette e intrecciate, che di tanto in tanto slegano per scambiarsi baci appassionati e abbracci. Dalle acque del fiume, che annuisce con malizia agli ultimi assalti di un sole calante, saette di luce corrono a dilatare le loro iridi e i sussulti delle loro anime. Si guardano a lungo l’un l’altra, poi tacciono, proseguono il lento cammino in assoluto silenzio, mentre i sopraccigli si aggrottano, le bocche disegnano strane increspature e gli occhi sembrano scrutare un orizzonte lontano quanto il percorso di un futuro comune. Quando entrambi rompono il silenzio e iniziano a parlare è come se un’unica mente, un solo fascio di neuroni cerebrali avesse congegnato il pensiero, che esce univoco nel contenuto, persino nelle parole. Hanno deciso che, finite le scuole superiori, frequenteranno la Humboldt Universitat e, con il primo lavoro, si sposeranno.

Raggiungono i loro obiettivi senza intoppi. Dotati entrambi di ottima intelligenza, tenacia e determinazione, nel 1969 conseguono la laurea, Simon in Scienze informatiche e Marianne in Lingue straniere. Ottengono anche un lavoro, Simon presso le officine meccaniche e acciaierie di Stato e Marianne di traduttrice presso il consolato russo. È allora che il progetto del compimento massimo dei loro desideri, il matrimonio, prende consistenza, con una condizione però, che entrambi ritengono essenziale: si sposeranno a Berlino Ovest, nel Reichstag, dove si sentono spinti dal comune desiderio di libertà, con una vita affrancata dalle umiliazioni del regime. Non è facile, anzi, appena congegnata, la ritengono un’idea impossibile, appartenente all’utopia del sogno. Uno spiraglio,

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un esile spazio per la speranza però lo intravedono: Marianne ha un parente che ha combattuto nell’Armata Rossa, lo contatterà, può darsi che dalla rada dell’utopia prenda navigazione la concretezza di uno scafo destinato al porto della libertà.

Debbono attendere parecchio tempo. Poi, quando la speranza ha quasi dimenticato il suo fiato e i loro volti si sono accigliati nell’espressione della rassegnazione, il parente si fa vivo e comunica che Simon, lui solo, potrà avere un colloquio con un alto funzionario della DDR, che studierà la situazione. Giungono il giorno e l’ora dell’appuntamento. Simon si reca al civico 42 di Folkreichstrasse, poco distante da Alexander Platz. Sale a piedi i sei piani dell’edificio privo di ascensore. Quando giunge al piano, prima di premere il campanello, fa una sosta, per ritrovare il ritmo e il respiro, divenuti affannosi, per l’erta dei quarantotto gradini, alti e sconnessi. Osserva l’intonaco dell’esterno: ammuffito e sbrecciato denuncia la necessità di manutenzione, ma sa che non ci sarà alcun intervento risanatorio. Ormai quasi tutte le case di Berlino Est sussistono in uno stato di degrado come quasi tutto in questo Stato-città, dove la sopravvivenza è l’unica possibilità, la sola aspirazione nel campo del possibile.

Il campanello non funziona. Simon deve premere con le nocche sul portoncino tarlato più volte, finché l’emissione di una voce femminile, stanca e fievole, gli fa capire che qualcuno gli sta aprendo. Una donna avanti negli anni, armonica nell’aspetto minuto e fragile, alla sua voce gli fa un lieve inchino del capo, mal protetto da desolata, imperfetta copertura di capelli bianco-giallastri. «Il dottor Kopler?» chiede in un sospiro.

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Alla risposta affermativa di Simon lo fa accomodare sui resti di un salotto che lascia indovinare, nella trama e nella fantasia del tessuto, un passato fastoso, ora umiliato dalle molle a vista che lamentano, nel cigolio da contatto, l’eccesso della propria agonia. L’attesa è lunga, oltre un’ora e mezza, ma Simon sa che la lunghezza dell’attesa è una normale, consueta astuzia dei burocrati per sfiancare lo spirito ai postulanti. Alla fine la portina a vetri Art-déco, sul fondo della stanza, si schiude e la vecchietta emette il secondo sospiro: «Dottor Kopler, si accomodi, il comandante l’attende».

Quando varca la soglia, una riflessione, breve come un lampo estivo, gli attraversa la mente. Se avesse dovuto individuare tra i due uomini nella stanza-studio quale fosse il comandante e quale il parente di Marianne, mai incontrato, avrebbe indicato quello più corpulento, invece la posizione dei due ne palesa con chiarezza i ruoli. Il comandante è quello che prende posto dietro alla scrivania: un ometto smilzo, con una strana parrucca in testa, color topo di fattoria, come se ne incontrano nei land meridionali, e una fila di denti troppo piccoli, troppo fitti, troppo bianchi in relazione all’età, di certo una dentiera di poca spesa e poca pretesa. Il parente di Marianne si è invece incuneato, alla lettera, in una poltrona di pelle sottodimensionata alla sua corporatura. Gli occhi a spillo del comandante si fissano in quelli di Simon, senza che lui emetta sillaba. Interviene Herr Grauben, che prende la parola: «Il comandante Sukov conosce la vostra richiesta e l’ha valutata a fondo, ora vi dirà». Ma l’ometto non dice proprio nulla; prende un foglietto di carta con l’intestazione di un hotel, sfila dalla giacca una penna e scrive una cifra, poi spinge il piccolo foglio, accostandolo alla vista di Simon.

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Simon legge la cifra in marchi DDR: «Una cifra enorme, folle» pensa, tenendo per sé il pensiero. È l’equivalente di un anno del suo lavoro di tecnico laureato. Non vi è chance, la posta in gioco è troppo alta, accetta. È sempre Herr Grauben a concludere la transazione: «Il comandante vi concede un ragionevole lasso di tempo per racimolare la somma. Diciamo che venerdì prossimo, alla stessa ora, voi vi presenterete con i marchi in valuta DDR e il comandante vi consegnerà il lasciapassare per transitare all’Ovest. Il comandante fa un cenno indecrittabile alla vecchia domestica che, in piedi contro la parete laterale, si mimetizza con la tristezza della tappezzeria. La donna si assenta e torna con un vassoio su cui trionfano tre bicchieri colmi di un liquido color paglia chiaro, di intenso profumo. «Cognac francese dei migliori» commenta Herr Grauben. «Una rarità preziosa qui, di questi tempi» pensa Simon, ma subito declina. «Mi spiace, sono astemio» mente e conclude fra sé il pensiero: «Altrove con altri sì, con questi mariuoli mai». I due uomini bevono, il comandante sorseggiando, Herr Grauben d’un fiato, dopodiché accompagna Simon all’uscita concludendo: «Allora dottor Kopler, venerdì sera con la cifra pattuita e avrà il lasciapassare che lei e Marianne desiderate».

La settimana successiva scorre nella ricerca dell’ingente somma richiesta dal burocrate corrotto. Simon e Marianne sono pessimisti proprio per l’entità della cifra, ma la solidarietà di parenti e amici sortisce il prodigio. Tutti nel quartiere provano stima e affetto nei confronti dei due giovani, sono in tanti che con spontanea generosità si autotassano e raccolgono l’importo necessario. Un Simon e una Marianne commossi distribuiscono sorrisi e ringraziamenti a tutti quanti incontrano per strada, per

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le scale, nei locali della spesa. Poi incaricano Karl Grauben di transare lui, andando dal comandante a portare il denaro e ritirare il lasciapassare.

È la sera del 12 giugno 1970. Hanno noleggiato due limousine. Simon aveva pensato ad una sola, tutto più semplice e sicuro, ma Marianne, scaramantica, aveva argomentato che la sposa deve viaggiare su una macchina separata, dietro quella dello sposo che non deve neppure girarsi a guardare e vedere l’abito della sposa. Così alle venti e trenta, in successione, le due limousine lasciano il casermone di Rauber Strasse e iniziano il percorso verso la libertà. Guida la limousine su cui si trova Simon il fratello minore Hubert, mentre la macchina su cui si trova Marianne è guidata da un autista. Le macchine procedono lente, con una lentezza estenuante, che mette a dura prova il sistema nervoso dei due giovani sposi. Purtroppo si contrappongono ai loro aneliti tre fattori concreti, ineludibili: le troppe buche della strada, la vetustà delle limousine, sgangherate come quasi tutto quel che circola a Berlino Est e i numerosi posti di blocco, dove la meticolosità dei militari di guardia crea tempi di attesa biblici. Un brillio negli occhi di Simon e uno sfiato consolatorio del fratello Hubert: «Finalmente ci siamo» fanno comprendere che sono alle viste, ormai prossimi al Check Point Charlie, unico passaggio, solo transito fra Berlino Est e Berlino Ovest. La paletta dritta del militare e la mimesi della sua mano indicano che la limousine di Simon può accostarsi. I militari controllano i documenti e lo fanno passare. Si accosta anche la limousine con Marianne. In sincrono, nello stesso istante, un commilitone distante chiama a gran voce il militare di guardia, questi si gira a sinistra,

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girando con la torsione del busto anche la paletta. L’autista della limousine di Marianne, preso dal dubbio, frena la macchina. È un attimo: il militare DDR abbassa la sbarra e blocca il passaggio. Pochi minuti e un automezzo della STASE, la polizia politica di Berlino Est, preleva Marianne e l’autista e parte sgommando in direzione di Alexander Platz. Simon ha visto la scena, ordina al fratello di fare retromarcia e tornare al Check Point Charlie. Scende con furia dalla limousine e chiede spiegazioni al militare di guardia. Questi risponde evasivamente, non dà spiegazioni. Simon gli si avventa contro: «Dov’è mia moglie? Dov’è mia moglie?». Il militare reagisce. Con il calcio del fucile gli assesta un colpo al capo. Simon cade a terra svenuto e sanguinante. Poi il soldato si rivolge a Hubert con rabbia e sguardo torvo: «Portalo via subito e lontano, se lo rivedo gli sparo». È chiaro che non scherza. Hubert carica Simon svenuto sulla limousine. Quando percorre il lungo tratto di Unter den Linden per portare Simon presso amici migrati all’Ovest, i tigli del viale sembrano tingersi di un colore violaceo cupo, quasi un richiamo di paramenti funebri, codice di una tristezza mortale.

Nei giorni seguenti un Simon febbricitante, scosso da fremiti convulsi, corre in vari punti di Berlino Ovest, per conoscere come può rientrare a Berlino Est e ritrovare la sua Marianne. Al 62 di Zurich Strasse un funzionario dell’Ufficio Immigrazioni lo accoglie con disponibilità e gentilezza. Quando sente che la quasi moglie è stata prelevata dalla STASE scuote più volte il capo e gli occhi chiari si ingrigiscono di preoccupazione.

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«L’unica possibilità» dice «sono i negoziati del 1963 che consentono di andare a trovare i parenti rimasti all’Est a Natale e a Capodanno».Simon firma i documenti relativi e torna a casa dagli amici che con dolcezza lo consolano: «Manca poco, siamo a novembre, vedrai che potrai per le feste riabbracciare la tua Marianne». Invece i permessi non giungono, anzi non vengono rilasciati.

Inizia per Simon un periodo di torture psicologiche, di false speranze, di disincanti che, in costante alternanza, lo precipitano nel pozzo di una disperazione cupa ed esiziale. Sorretto talvolta da barlumi di luce e di fede, resiste e sopravvive fino al giugno del 1972, quando viene firmato dalle quattro potenze un regolamento di controllo sulla città e sui lasciapassare, che consente ai berlinesi dell’Ovest, pur con iter burocratici lunghissimi, di recarsi all’Est. La notizia riporta fiato alle speranze di Simon, che riprende a nutrirsi con sufficienza e a dormire qualche ora la notte. Riprende la trafila presso i funzionari dell’ufficio preposto al rilascio dei lasciapassare. L’attesa è di nuovo lunga oltre il lecito, ma stavolta è sorretta dalla luce oltre la quale Simon vede i lineamenti della sua adorata Marianne. Quando il funzionario di turno gli telefona per comunicargli che le carte sono pronte, Simon riesce persino a sorridere e a ringraziare l’interlocutore con inedita euforia. Gli sono state fornite anche indicazioni del penitenziario presso cui la detenuta n. 1520, Marianne Zaender, sconta gli ultimi mesi di carcere. Ritirato il lasciapassare, si mette subito in viaggio e ancora in mattinata è presso gli uffici del mandamento. Deve constatare che più il regime è rigido più la burocrazia è stupida: deve fare la fila presso tre differenti sportelli, compilare e firmare decine di documenti, prima di

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venir ammesso alla presenza della guardiana, responsabile delle visite al carcere. È una donnona che, sull’angusta seggiola impagliata e sull’esiguo tavolino del suo compito, straripa da ogni parte. Quando è il suo turno Frau Fonubia osserva i documenti di Simon e, allargando le grandi braccia, esclama: «Nein, nein!». «Niente cosa?» interroga Simon con apprensione. «Il cuscinetto del timbro: è asciutto come una spugna esposta per giorni al sole del Baltico. Deve tornare domani alle otto». «Non può far firmare il permesso al funzionario?» insiste Simon. «No, no la firma non serve, serve il timbro. Domani chiederò al responsabile dell’Economato un cuscinetto nuovo e lei avrà il suo permesso per visitare la detenuta». Un Simon stordito e irritato prende la via dell’uscita.

Il tempo perde di nuovo la connotazione della normalità, per dilatarsi e divenire ansia e nevrosi per la stupidità di un’attesa imprevista, posta come uno steccato alla soglia della sua soluzione.

L’indomani mattina, alle ore otto precise, Simon è sul posto. La guardiana di turno è cambiata, una mezz’età con i capelli maldisposti e le unghie malcurate, quasi sporche. Simon nota con sollievo l’unico indice di salvezza che gli preme: sul tavolinetto di pino sbrecciato vi è un cuscinetto nuovo e accanto il timbro e il blocchetto dei permessi. La guardiana malcurata apre il cuscinetto, preme con forza il timbro, lo alza nel gesto di imprimerlo sul modulo del permesso, quando squilla il telefono. Ascolta a lungo, l’espressione è dura, indecrittabile. Quando termina depone il timbro sul tavolo e fissa Simon; ora lo sguardo è mutato nel codice di una forte

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commiserazione. «Non serve più» dice indicando il modulo intonso «non serve più». «Cosa vuol dire?» chiede Simon sbiancato in volto. «La detenuta Marianne Zaender, stamattina alle cinque, si è impiccata in cella».

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IL CAVALIERE

Saette di luce, di quelle che abbassano le palpebre ai tanti peones per proteggere gli occhi dalla protervia del sole, illuminano il cielo di tutto il paese. A Quetzaltenango è giornata di festa. Anzi, una settimana di feste e festeggiamenti proclamata dal generale/presidente José Castillo Ramirez per l’anniversario dell’indipendenza del 1839 dalla Spagna e per il laudato evento della nascita del primo figlio maschio. Il centro cittadino, le avenidas, ma anche le calles, i callejones, i vicoli che si insinuano nel profondo del tessuto cittadino, brulicano di gente che cerca un destino gioioso, il più gioioso possibile. L’Avenida Mayor dà abitazione agli avvenimenti dovuti al potere: la sfilata delle Forze Armate, paurosamente armate, dei cappelli cartonati dei carabineros a piedi e a cavallo, dei membri della Giunta Municipale. Segue il popolo in gaudio, disordinato e imbelle, armato di bandoneon e chitarre, maraquillas e tamburi. Ultimi i peones intrisi di aguardiente, che degradano la loro disperazione cantando le esultanze caraibiche e latino-americane. L’aguardiente si spreca a fiumi nei bar dell’Avenida e nelle sordide taverne dei vicoli. Questo il mattino.

Il desinare, ricco o parco che sia, e la siesta benedetta occupano il primo pomeriggio, poi la calura oppressiva e l’umidità che stilla le guance dei pochi irriducibili in strada tengono i più in casa a cercare impossibili soste di fresco, che può essere solo mentale, mentre i tanti cani della contrada giacciono accucciolati a terra, con il capo reclinato, che qualche mano pietosa ha coperto con un sombrero.

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IL VIAGGIO

«Svelto, svelto, più forte, più forte, così lo perdo, così lo perdo!». Sospinto dalle mie parole gridate, quasi urlate, Costantino Federici, l’amico di sempre, pigia con rabbia l’acceleratore della sua citycar di remota anagrafe. Centoquaranta. Di più non può chiedere al supplice gemito della sua utilitaria. Mantiene, anzi aumenta la pressione del piede sul pedale, ma più di tanto non ottiene. La mia urgenza a spasmo deforma la realtà. Mi fa apparire come se la corta lancetta della velocità sia vittima della menzogna o di un guasto repente. Se non fosse che l’osservazione all’esteriore mi mostra un guardrail in precipitosa fuga, sintonica e opposta alla nostra direzione, direi che annaspiamo in lentezza. Comunque il traguardo mi appare molto, molto lontano, più delle precedenti volte, come se la distanza fra il punto A e il punto B potesse dilatarsi a dispetto, a dispetto della mia fretta. Lo dico a Costantino, che osserva l’ora sul cruscotto e mi comunica: «Stai quieto, tranquillo: è presto, ce la facciamo». Io non sono per niente tranquillo e scalpito sul sedile e punto i piedi, come se, così facendo, potessi influire sulla velocità del mezzo. Sudo a pioggia. Sono tachicardico. Alla buon’ora. Il cartello formato maxi indica la deviazione in uscita. Ancora poco. Il ritmo della mia psiche decelera con benevolenza quando imbocchiamo una periferica e poi la carreggiata comunale che ci conduce alla piazza del nostro, anzi del mio, destino. Rido sottopelle quando — che grazia — scopro il corpaccione

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NICCOLO’

I sussurri e le grida di un autunno che invade gli schemi di un precoce inverno, battono la schiena prona di Niccolò, che insidiato da una lama di vento, procede ingobbito, quasi a cercare la linearità del selciato e con la mano sinistra tenta di porre protezione alla gola, assente del consueto riparo della sciarpa. Per quanto sforzi la mente e le gambe nell’intenzione di degradare lo spazio che lo divide dal suo orizzonte, il suo procedere è lento, oltremodo, come se l’anima di un bradipo si sia impossessata dei suoi tendini e dei suoi muscoli, fiaccando ogni sua velleità motoria. Ode solo, come un ronzio assordante, le onde crude, amare, i gemiti di quel cosmo avverso che lo intonaca tutto, fino allo stordimento. Paranoie del contesto o supplici voci del suo imbelle subconscio?

Quel percorso l’ha conosciuto un numero imprecisato di volte. Ha trascorso le vie e le piazze della conoscenza con passo spedito e spirito lieve, decontratto, spesso gaio, sempre però di giorno, fra il consolante tumulto dei conterranei in cammino e le ammiccanti sagome degli edifici di contorno. Tenta con la memoria di ripercorrerne i nomi, le sembianze; può aggiungere anche il film di tetti, comignoli, terrazze vagheggianti il cielo e giù giù fino agli infissi, fino ai tendaggi che eclissano l’interiore, fino al garbo dei fiori, che ornano i balconi e i davanzali tutti. Tutto inutile e vano, poiché tutto appare inghiottito dalla insaziabile fame dell’oscurità.

Eppure una prodigiosa percezione, simile a quella dei non vedenti che decritta le piccole asperità dell’intorno, indottagli dallo spasmo delle sue urgenze, gli rivela ora la scansione delle

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IMMAGINE

Il caldo del sole di luglio, che con un proditorio rialzo dell’umidità atmosferica ha raddoppiato la propria aggressività, mi demolisce e opprime oltre il lecito. Vago ciondolando le braccia e flettendo le gambe in un’andatura misera e buffa: me ne rendo conto ma non posso fare altrimenti. Dopo molto tempo e lunga sofferenza mi pare di ravvisare un benevolo soccorso: una toilette pubblica, che appare decente e praticabile. Nell’atrio-vestibolo mi tolgo la maglietta t-shirt e la metto in un sacchetto di plastica. All’interno del servizio mi rinfresco a ripetizione traendone alfine un buon sollievo. Opero in lentezza e prolungo i gesti per dilatare il tempo della compensazione ai precedenti tormenti. Quando esco dal servizio, la maglietta t-shirt nel sacchetto di plastica non c’è più, sparita. Invece al suo posto trovo molti vecchi indumenti, dei quali non avevo neppure memoria. Frugo, rimesto, incredulo, tenendo tra le mani questi capi venuti da un prodigio che non comprendo. Vado all’aperto e ancora li osservo.

Fuori un gruppo di ragazzini mi scrutano. Uno di loro — piccolo, avrà sette/otto anni, due occhi sapienti, uno sguardo che va oltre la sua età — mi dice, con una voce e un tono adulti: «Non meravigliarti, quelli sono il linguaggio della tua nostalgia». Proseguo a piedi. Un autobus extra-urbano è fermo alla fermata. Con la mia sposa, che nel frattempo mi ha raggiunto con il bagaglio, salgo a bordo. Ci sediamo negli ultimi posti in fondo.

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DAL FUORICAMPO

Il viaggio di Gianluca, in modo opposto alle previsioni, aveva avuto un cattivo inizio. Il vicino di posto in pullman: un uomo asciutto, imbronciato, al limite del torvo, spigoloso nei tratti del viso – parevano l’espressione esterna di un’anima cupa, di un qualche rancore mal digerito. Gianluca aveva celiato con garbo su alcuni personaggi pubblici del mondo dello spettacolo. L’uomo non aveva gradito, mugugnato un rimbrotto. Gianluca aveva cercato di spiegare: «La battuta ironica è nella mia indole, la costante del mio lessico, un modo per sfiatare l’ansia del quotidiano». «Male, non lo sopporto» aveva ripetuto il vicino, mentre tormentava il bracciolo del sedile con il gomito battente, scuotendo in sincrono, a ripetizione, un piede. Gianluca si era zittito. Pensava: «È questione di luogo e misura: ridere con arguzia è saggio, ridere sul nonnulla, sempre e comunque, è stupido. Le persone che non ridono mai, neppure nella normalità, sono pericolose: l’assenza di sorriso e ironia ha guastato pesantemente la storia del mondo». Ma non l’aveva detto per prudenza: se quello si adombrava per una battuta innocua, figuriamoci per un’allusione diretta. Per fortuna a Lubecca il vicino di posto aveva terminato la sua tratta e liberato Gianluca dalla sua ingombrante presenza.

Per il resto il viaggio si svolge nel segno della costante gioiosa. Per Gianluca è consueto fare un viaggio una volta al mese, in alternanza, a Parigi, Londra, Berlino, Barcellona, New York. Il suo lavoro indipendente, per via telematica, gli consente la libertà di ritagliarsi a piacere il tempo libero; stavolta poi ha

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DI LUIS E LARISSA

Luis Esondo Lorin aveva respirato l’aria della grande ricchezza fin dalla nascita, con le prime poppate della nutrice guatemalteca e poi per tutta l’infanzia, in cui la sequenza ordinata di tutti i dipendenti di casa, sottoposti al controllo rigido di Madame quanto a comportamento e aspetto, gli risultava del tutto normale, come tutto ciò che è consueto dalle origini, come le parures scintillanti che papà regalava alla mamma nelle ricorrenze e tutto il resto.

Il piccolo Luis Esondo trascorreva l’estate con la madre e la servitù nella grande casa di campagna, a vista del fiume, con patio, peristilio e fontana in marmo pantelico e il resto dell’anno nel palazzo di città con mobili e suppellettili di enorme valore, provenienti dai cinque continenti. Poi il padre, quando Luis aveva dieci anni, era morto in pochi giorni per una malattia divenuta subito ingovernabile, che il professore aveva diagnosticato con frasi ancora più criptiche della malattia stessa.

La madre era rimasta vedova per poco perché era passata a seconde nozze con il notaio di famiglia, un individuo alto, biavo di pelle e di occhi, sempre chiuso in un lungo mantello scuro, che lo occultava dal mento fino alle punte degli stivali. Il piccolo Luis Esondo provava avversione e, ancora di più, una incoercibile sensazione di paura; connetteva il buio del mantello al buio della notte e quando una ventata fiondata dagli alisei apriva un varco nell’indumento, il piccolo credeva di vedere, mal celati, frammenti di ossa. Per fortuna dopo un anno il notaio era sparito (un viaggio in Australia, disse la madre) e con lui erano sparite tutte le fortune di famiglia: la casa di campagna, il palazzo di città, le servitù, i mobili, i gioielli,

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DUE GIORNI COL PADRE

Dalla feritoia ogivata del Maschio Maggiore la vista spazia a 360 gradi fino al limite dei primi contrafforti prealpini a nord e si confonde nei lontani, indistinti intrecci di bruma dagli altri lati. La campagna, fertile e ubertosa, che si estende tutt’attorno, oltre l’abitato, risulta frammentata dai confini poderali delle differenti colture, dallo svettare dei boschi cedui e perenni, dai torrenti irrigui piccoli e grandi, dai dossi e dalle colline che si levano dalla pianura.

Mio padre mi fa notare con orgoglio l’eccellenza dei nostri movimentati panorami — ogni inquadratura definita dall’ogiva è una suggestiva, gioiosa scenografia, un’esaltazione della geometria naturale — che si distingue — e la soddisfazione paterna diventa riso aperto, squillante — dalla banalità e piattezza delle altre contrade corregionali. Più tardi, percorsi il camminamento di ronda e i cortili castellari, lasciati il levatoio a catena e la sommità collinare, scendiamo a valle e portiamo l’occhio all’altezza dei nostri simili e all’abitato urbano. È tanto che manco dalla mia città, la città delle cento chiese; non l’avevo mai notato, non le avevo mai contate. Constato che sono differenti da quelle che ho conosciuto altrove, anche in terre non lontane: le facciate romaniche o rinascimentali, le prore presbiteriali e i transetti sono più piccoli; in opposto i campanili più alti sembrano esprimere un desiderio di abbraccio al cielo, ciò che altrove atteggiano le architetture ecclesiali gotiche. Rivedo con gioia la cornice ellittica delle mura fortificate che cingono l’abitato, i vecchi quartieri e il centro storico. Caduta, per gli abitanti dei secoli bui, la necessità di contrastare le ondate delle orde barbariche, provo ora due sentimenti

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UN UOMO MITE

È allegro Juan Cordero. Esonda soddisfazione e gioia da tutti i pori. Indulge a guardare la bionda criniera del suo Avelignese e la carezza a lungo, introducendo le dita a scomporla, come fa il vento sulle mesetas sopracosta durante il galoppo. Poi lo abbiada in lentezza, gli sorride, gli sussurra parole. Tanta euforia, fuori le righe del suo normale, viene da altro. È riuscito a strappare un quasi assenso, un «forse» per un appuntamento, a Roxane, la splendida cubana, fuggita dal dispotismo di un padre-padrone, per effondere il fulgore dei suoi grandi occhi e la seduzione del suo corpo ai pianori di queste terre assolate di frontiera. È poco, un appena fuori dal nulla, ma dopo tanto vagheggiare, per quattro stagioni filate, per lui è un avvenimento. Entra in casa Juan, riempie un bicchiere alto di acqua, appena corretto da un dito di aguardiente, e beve d’un fiato. Toglie la camicia, accaldato da un sole indecente che gli ha invaso la schiena di sudore a pioggia. Poi si butta su un divano di lino, a braccia aperte e gambe divaricate, in cerca della benedizione di una siesta. Invece è più sveglio di un grillo.

Abbacato da un tarlo improvviso, pensa a Roxane e al loro breve parlare. Forse lei ha risposto con un breve cenno consenziente, «forse, vedremo», per compiacenza gentile o per togliersi di torno la sua defatigante insistenza. Il rovello sulla verità della volontà della ragazza gli dà il tormento, non gli concede tregua. Per smagrire la tensione esce e si avvia — meglio a piedi, i tempi della psiche sono lunghi — verso la città. Non pensa alcunché, non formula speranze di vederla.

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GLI INNAMORATI ADOLESCENTI

«Francesca stai quieta, non stai ferma un secondo, poi finisce che ti faccio male». Nonna Amelia, una morbida crocchia bianca con venature azzurrine che aggraziano il viso tenue di rughe e gli occhi vivaci, testimoni sensibili di trascorsi splendori, depone per un attimo il pettine dall’impugnatura d’argento sul grembo del lungo abito damascato, trae un sospiro di segnalata pazienza poi riprende ad affondare, con movimenti lenti e trascinati, i rebbi nei lunghi capelli biondo-maggese della nipote. L’operazione dura parecchio, perché la chioma di Francesca scende oltre il giro vita e perché nonna Amelia, per indole, compie ogni azione con puntiglio e precisione. Il presto e bene non esiste. Trascorre così un tempo lungo, troppo per l’impazienza della giovanissima nipote che sbuffa e sbadiglia in alternanza, finché i rebbi della tortura non trovano definitiva quiete nella scatola del necessaire. Pensa a una corsa all’aperto, ma la voce imperiosa dell’ava la riconduce alla concretezza del momento. «Ora i compiti scolastici, che farai con la dovuta attenzione, con l’aiuto dell’ottima signorina Giovanna che ti prego di non far tribulare, visto che con te è anche troppo permissiva».

La signorina Giovanna che in casa tutti chiamano Giovannina, per la sua breve statura e per l’aria afflitta in eterno che induce tutti a celiarsi di lei, è già nell’ampio salone della biblioteca, seduta con compostezza dinanzi al grande tavolo in massello di mogano che dalle indisciplinate striature brunastre grida lamenti di angoscia senile. Quando Francesca, saltellando sulle ballerine azzurre, raggiunge il luogo del dovere, la signorina alza le natiche dalla sedia, ingegnando un goffo inchino, mentre

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IL BRAVO RAGAZZO

Fra la foschia di un cielo rosso livido e i calcinacci puntuti delle case sbriciolate correva la coltre irrespirabile, il miscuglio di odori e di immagini fatto di morti, lenzuoli, chiazze di sangue raggrumato sull’asfalto, cassoni rovesciati e, unico segno di vita, qualche gatto smarrito.

Il giovane con gli occhiali e la vecchia camminavano appaiati. Lui adeguava il passo a quello di lei, lento per gli anni, il fisico pesante e un principio di gotta. Lei parlava con voce stridula, una sintesi non felice tra il gracidìo di un batrace e le note acute di una sirena; senza sosta commentava ogni cosa viva o morta che incontravano, lui rispondeva a monosillabi, distratto da altri pensieri. «Guardi signor Davìdi, venga» gridò la vecchia tentando l’abbrivio verso il marciapiede opposto. «È incredibile: è intatta» disse indicando la Nuova Inghilterra, la boutique delle griffes internazionali, inaccessibile alla gente comune, invidiato privilegio dei colonnelli. Il giovane con gli occhiali esitava. Intuendone le ritrosie pudiche, la vecchia insistette: «Non nutra inutili scrupoli: fra mezz’ora, un’ora al massimo, qui sarà pieno di corvi rapaci, lurchi sciacalli scesi dalla collina; si porteranno via tutto, quindi meglio noi di loro. Svelto signor Davìdi, un’occasione così non ci si presenta più». E indicando una piccola trave di traverso sul marciapiede: «La prenda, sfondiamo la portina».

Il giovane era magro ma forte, la portina già in parte disarcionata dal recente disastro: fu un’impresa facile. La vecchia cavò da sotto il cappotto un grosso sacco di plastica, da cui con effetto matrioska ne uscirono altri quattro, e cominciò

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IL PERCORSO

Lo spiazzo immenso dell’acrocoro appare privo di identità, per l’assenza di confini e un suolo desolato di rude pietrisco. Solo il getto maestoso e violento di un geyser ne disegna da un lato il destino. Il brulicare frenetico di un popolo di girellanti ne sottolinea invece l’incoerente antitesi. Anche Daniel Grantwash collabora in parte all’antitesi dell’intorno. Per metà la sua mente effonde nel viso l’esultanza per il recente accaduto, il matrimonio con Susan; per l’altra metà sente la malinconia dell’anima per l’uscita dalla benedizione della sua giovinezza. Si siede sul nulla del suolo, accovacciato, accanto alla sua Yamaha, le braccia incrociate, lo sguardo al cielo — unica benevolenza del luogo che ostenta la baldanza della sua totale pulizia — e ripercorre in rewind il trascorso della sua esistenza.

A Cheyenne con la famiglia: i genitori, lui, il fratello Mark, i nonni. Questi ultimi, benestanti, vivevano in beatitudine la loro prima senilità, raccontandosi le epiche gesta dei pionieri dell’Ovest, negli anni ruggenti della frontiera americana. I genitori ricordavano, con un più modesto orgoglio, la storia del Middle-West e dei suoi eroi. Per loro poi, i ragazzi, si trattava solo di leggende lontane e dimenticate. Daniel e Mark, sino dalle scuole primarie, dedicavano tutti i loro pensieri e muovevano le loro azioni in un’unica direzione, totalizzante delle loro infantili realtà: Susan Mayflow, compagna di studi, amica di giochi, vicina di casa. Inconsapevolmente, il dodicenne Mark e il decenne Daniel, provavano già una passione sentimentale per la piccola Susan che crescendo, nell’adolescenza, avrebbe sviluppato il seme della seduttività, divenendo quella splendida creatura che loro avrebbero a lungo

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TALLY

La città, ogni via, ogni piazza, ogni anfratto, è percorsa da sussurri incerti e indecisi, in costante bisticcio, che evocano spettri del non so ché e non so quando. «Un evento straordinario, eccezionale: figuriamoci, non può essere!» dicono alcuni. «La nostra società è di una tranquillità assoluta, non sortisce eventi neppure modesti da un tempo infinito». «No, si tratta di voci insistenti di figure attendibili» replicano altri. «Fuori i nomi, chi lo dice?» riprendono i primi. «I nomi non si sanno, forse non si possono dire, però l’evento è certo». I più comunque credono che, come è spesso, quasi sempre accaduto, anche stavolta si tratti di qualcosa che verrà rinviato sine die nel limbo del poi e del quando possibile. Ora, però, gole profonde parlano di liti furiose, verbali prima e con scontri fisici poi, fra i rappresentanti del partito degli attendisti e quelli del partito del fare. Le urla del potere, succedute stavolta ai sussurri della gente, si odono nette e distinte fino all’orizzonte degli hinterland. Comunque la gente spera ancora in un nulla di fatto, in una vittoria del partito del poi o, meglio, del partito del mai.

Ancora in un’aura estatica per i felici indugi sognati, graziatimi dall’inconscio, mi sveglia il tramestìo diffuso, proveniente dall’esterno. Sbirciando il fuori mi rendo conto che il fuori è già folla, folla attonita e vociante. Vestito in modo approssimativo e a digiuno, scendo anch’io in piazza. Ecco, ora qualcosa è chiaro, le voci hanno preso forma e

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IO, ANNA, VIOLA E LA VECCHIA

Ci sono certe vecchie donne che appaiono immortali. Non sai mai se hanno in abbondanza superato gli ottanta o forse anche il ragguardevole traguardo dei novanta. Anche la signora con la falce le guarda con disincanto e una punta di livore, conscia che avrà partita persa ancora per tanto. Ma andiamo con ordine.

Venerdì, ultimo giorno lavorativo dei sette, poiché abbiamo, anche se da poco, conquistato la settimana corta, trascorre nel segno della normalità. In ufficio il solito ménage sussultoso, con il capo, un omone alto, robusto, iperenergico, che chiede soluzione totale a compiti spesso ardui, talvolta al limite del possibile. A me ha chiesto, con l’occhio che non ammette soluzioni monche, cinque/sei missioni amministrative di non facile esito. Per fortuna viene in mio soccorso Anna, la mia giovane collega, una ante-Elda, che giungerà sei anni più tardi nelle mie prossimità lavorative e nella mia anima otto anni dopo. Ante-Elda poiché della mia futura fidanzata e sposa possiede due doti fondamentali: la disponibilità verso il prossimo e il pragmatismo.

Anna dunque, presa cognizione dei miei problemi, mi accende un sorriso complice, mi prende una mano, esordisce: «Cominciamo dal più semplice: andiamo all’ufficio spedalità a ritirare i dattiloscritti che interessano al capo e che dovremo elaborare. Vedrai che insieme risolviamo». Rispondo al sorriso, annuisco e per mano attraversiamo il vasto salone della contabilità generale. Incontriamo due colleghe, una, per motivi mai chiariti, con approccio antipatico, a occhi bassi, l’altra simpatica ed effusiva di sguardo e lessico. Poi una teoria

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LA CAMPIONESSA

Le rubriche mediche e la saggezza popolare assegnano il mantenimento della propria salute, per quanto possibile, a una adeguata attività fisica, al mangiare in parca misura e all’oblio dei vizi. Ritenendomi abbastanza virtuoso, pur latitando da sempre non solo la frequentazione delle palestre ma anche la più elementare ginnastica domestica e pur, in aggiunta, aggredendo il cibo con la voracità di un lupo siberiano, assegno alla sola ancora residua il mio sussistere fisico: una buona camminata ogni giorno. In quasi T-shirt nella stagione affocata, ovvero nelle miti invernate della mia città con un Monclair degno di più nobili imprese nelle zone pre-artiche, percorro, 365 giorni su 365, un paio di chilometri, forse tre, nell’itinerario che dalla mia abitazione sfiora, dopo gli atenei di Medicina e Ingegneria, l’odore extra-urbano della campagna.

Al momento sto camminando di buon passo contiguo ai campi di maggese, che imbiondiscono appena ora e mi rammentano, una vita fa, la chioma di un paio di puledrine, che rappresentarono la consolazione struggente al cielo della mia giovinezza. Proprio in quest’attimo sento un richiamo dal lato opposto della carreggiata. Sono Carlo e Ferruccio che mi salutano: «Amico Leonardo, ciao, è tanto che non ci vediamo».

La parola amicizia è un termine importante, che io riferisco ai pochi cui da sempre collego la giusta accezione. Con questi, invece, siamo in un’erronea confidenza, per un “tu” infilato da loro nella seconda conversazione al bar. Sarebbe come a dire che siamo amici io e quell’armadio a quattro ante del mio dirimpettaio, perché andiamo entrambi in chiesa la domenica alle dieci e quindici, dove le chitarre, i flauti traversi e la

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LA RIDONDANZA

È la mia prima volta a Puerto Soleado. Finora l’ho vissuta riflessa nelle parole dei miei amici reporter, ma dei loro racconti non ho un’opinione a fiducia illimitata: i giornalisti, come i poeti, si sa, enfatizzano anche un grumo di sabbia fuori luogo pur di scrivere... invece devo ricredermi. Fin dal primo mattino. Ho preso alloggio in una piccola locanda del centro, dignitosa e pulita, su consiglio della guida Pedro Aldovar; escluso il cinque stelle internazionale, troppo estraneo e contaminante per la forte connotazione etnica di Puerto Solado. «Graffia il paesaggio» direbbe Ramon, il mio amico etologo.

Uscito dalla discrezione in penombra della stretta rua Comidora, nella dimensione ampia e soleggiata dell’Avenida Alejandro Cordero, avverto da subito una pazzesca accelerazione delle vibrazioni dell’entusiasmo, che cresce progressivamente in contiguità al procedere dei miei passi, nella percezione di un’inconsueta realtà che si presenta ai miei sensi.

Da prima sono le case, gli edifici in stile coloniale spagnolo: mi evocano le pulsioni cromatiche di Siviglia ma in misura accresciuta. L’arancione profondo del nuovo Municipio, la lacca di garanza del Palazzo vecchio del governatore, in allegra querelle con il ceruleo di casa Larida, esorbitano, nella luce catafratta e totale del Caribe, una sensazione di magia fisica, un incanto malizioso che cancella le atrocità dei conquistadores per lasciar posto solo alle cifre dell’allegria e della spensieratezza. Anche il sacro veste la cifra della leggerezza. Le due chiese cristiano-cattoliche, laterali a plaza Antinora, costruite con la sagacità dei Gesuiti e le preghiere delle

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L’ INTERVISTA

Il giovane Alfred si guarda attorno e spalanca gli occhi sulla sontuosità della suite a sei stelle del Grand Hotel. Ha un anticipo di un quarto d’ora sull’appuntamento. È la sua prima intervista importante e non sa neppure perché il direttore l’abbia affidata proprio a lui. Ha tentato anche di saperlo e di esporre i propri timori: «Sarò all’altezza? Proprio con Parry Lorin, un caratteraccio». «Una volta forse» gli saetta a due palmi dal naso l’indice perentorio il suo capo. «Ho fissato un incontro in due tempi, quattro ore a disposizione; puoi cavarci una biografia, voglio che lo scarnifichi, gli cavi l’anima, voglio tutto di lui, dall’infanzia a oggi e tutto di Gavin Rice, l’amico di una vita. Vai e non farmi pentire dell’incarico».

Ora è qui e l’attesa lo tormenta. Il caratteristico rumore a cascata della doccia fa capire che deve ancora pazientare. Invece deve trattarsi più di un atto rituale che di una necessità, poiché passano pochi minuti e, drappeggiato da ricca vestaglia e camicia di seta, appare Parry Lorin con un chiaro sorriso. Alfred atteggia una specie di goffo inchino e si siede sulla poltrona che l’uomo, con il braccio teso, gli indica. «La ringrazio per la disponibilità e l’accoglienza in un luogo così». Mr. Lorin intuisce dal balbettio sommesso del giornalista e anche dall’accenno maldestro alla ricchezza dell’ambiente il suo palese imbarazzo; quindi lo previene e lo aiuta. Rivolge ancora un benevolo sorriso all’ospite e inizia a parlare:

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RACCONTO

Jonata fissò il brodo rado di pasta che il secondino gli aveva appena passato, come uno specchio. Ne mangiò mezza gamella senza fretta e senza capirci il gusto, come quando sei preso da un argomento folle che puoi masticare aragosta e caviale o bietole scondite tanto fa lo stesso. Tra un trangugio e l’altro passarono minuti. Pensava altrove e non sentì neppure la voce di Fanton, spazientito, che reclamava la restituzione delle stoviglie. La guardia dovette gridare perché Jonata intendesse e rendesse gamella e cucchiaio. Rifiutò il vino tinto, già acescente per il caldo affocato di quei giorni, e guardò Fanton con un ammicco di sorriso, del tutto fuori luogo. Quell’ilarità di un detenuto in attesa di capestro dovette apparire al secondino come la decerebrazione di un pazzo. Ma a Jonata non gliene importava nulla. Passò dal paglino sfondato della seggiola alla desolazione delle fibre spossate della branda. Non degnò di alcuna risposta le invettive del piccolo guardiano che gli strusciava sul collo il mazzo di chiavi. Né concesse la soddifazione di un lamento per il bruciore che l’escoriazione gli procurò. Buttata con gesto stizzoso la cicca di betel dal finestrone abbarrato del corridoio, Fanton alla fine si eclissò nell’oscurità del vestibolo. Accucciato a gambe incrociate sulla branda, con la schiena a lambire la malta grossa della parete, Jonata riprese la congerie delle riflessioni sui propri accadimenti.

Aveva conosciuto Flora Asuncion due anni prima. Tutto era cominciato quel giorno dell’estate 1988.

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STORIA DI AVVOLTOI, CORVI E ALTRA GENTE

L’autobus urbano procede lento, a tentoni e sobbalzi che tolgono l’equilibrio. I tanti passeggeri ciondolano in ogni direzione e cercano smarriti un appoggio; un vecchio canuto impreca, tremando per sussulto di nervi e altro di suo contro il conducente, che, di pari misura, contrattacca iroso, anzi sommerge il vecchio di contumelie: «Non vedi, cretino, com’è la strada?! Tutta buche profonde un iugero e calcinacci e scheletri di auto e tutto questo mondo porco di rifiuti di sterco! Vieni qui tu e prova a guidare il catorcio, gran stupido! Appenditi a qualcuno o cercati un bastone e non scassare i miei genitali per niente!».

Andrea Vento sorride. Non per l’alterco, che non ode. Insegue altri pensieri. L’hanno gratificato, prima della partenza, le voci unisone dei plaudenti, per affetto o per finta: «Che coraggio partire, lasciare il tepore, le lenzuola di casa, i genitori, la donna, per andare all’altro capo del mondo a filmare una guerra dimenticata — assente il petrolio, chissà mai che cos’altro. Lei, così fine, così distinto, troverà di sicuro le giuste entrature per spianare il percorso, trovare le fonti importanti, le gole sincere; capire, scrivere, comunicare».È così: Andrea Vento ha avuto proprio ieri l’appuntamento con il console vicario, proprio con lui — da non crederci — e alla prima richiesta, con credenziali e curriculum da riderci, ma è così. Ora sta andando proprio da lui, a colazione: le dritte importanti per muoversi nella realtà che non conosce ma anche le prelibatezze, lo champagne e — dicono — le donne d’incanto.

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INDICE

LA SORTE..........................................................................8

IL CAVALIERE................................................................18

IL VIAGGIO.....................................................................26

NICCOLÒ........................................................................33

IMMAGINE......................................................................43

DAL FUORICAMPO.......................................................50

DI LUIS E LARISSA.........................................................67

DUE GIORNI COL PADRE...........................................74

UN UOMO MITE............................................................87

GLI INNAMORATI ADOLESCENTI...........................98

IL BRAVO RAGAZZO..................................................112

IL PERCORSO................................................................129

TALLY.............................................................................137

IO, ANNA VIOLA E LA VECCHIA............................151

LA CAMPIONESSA.......................................................158

LA RIDONDANZA.......................................................162

L’INTERVISTA..............................................................181

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RACCONTO..................................................................194

STORIA DI AVVOLTOI, CORVI E ALTRA

GENTE............................................................................283

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Diciannove racconti in differenti situazioni spazio-tempo, ambientati in Italia, Germania, Stati Uniti, America Latina.

Sorte che disegna il destino. Casualità buffe. Vita metropolitana sognata, vita campestre nel borgo come dimensione felice, dimenticata dalla pena. Ridondanza di colori, suoni, danze. Mitezza condannata dalla prevaricazione, infamia che deprime gli oppressi e i deboli. L’insidia del male anche nell’anima dei normali. Una costante narrativa quasi sempre presente: l’amore dei protagonisti. Altro ancora.

In sintesi: tante storie, personaggi, mondi spesso diversi, sospesi fra la realtà e l’incanto, per dirci di noi e dell’universo in cui corre la nostra esistenza.

[email protected] al pubblico

€ 14,90 - Iva inclusa

Nella stessa Collana:

Dove guarda la Sfinge

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Alessandro Valenti Pag. 160Prezzo: € 14,90

Giorgio Ghidoni, nato e cresciuto a Brescia, dove tuttora vive. Dimostra presto predisposizione all’arte: scrive e dipinge. Ama da sempre le discipline umanistiche.

Giorg io Ghidoni

Frammenti di emozioni