48-93-4 la metafora che cura - Rivista di Psicologia Analitica · Rivista di Psicologia Analitica,...

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La metafora che cura Mito personale e relazione analitica Aldo Carotenuto. Roma (1) A. Carotenuto, «Osserva- zioni su alcuni aspetti del transfert e controtransfert», in Rivista di Psicologia Analitica, 1/1. (2) A. Carotenuto, «Sulle ipo- tesi che sono a fondamento della terapia psicologica», in P. Arte, A. Carotenuto (a cura di), Itinerarì del pensiero junghiano, Milano, Raffaello Cortina. 1889. II problema che intendo affrontare in questo scritto riguar- da i presupposti teorici che guidano il mio agire terapeutico. Presupposti che, generati dalla mia lunga esperienza clinica, sono stati l'oggetto di tutti i miei saggi, a partire da un articolo (1) apparso sul primo numero di questa rivista ventitré anni fa. Nel corso di questi anni ho potuto riflettere su quanto accade durante la terapia, formulando delle ipotesi che delineano una possibile spiegazione. In una relazione (2) presentata alcuni fa ad un convegno internazionale ho cercato di riassumere quali a mio avviso sono i fattori terapeutici. La domanda dalla quale muoveva la mia riflessione riguardava la possibilità di individuare dei fattori aspecifici e comuni a ogni psico- terapia, a prescindere dai modelli teorici di riferimento. Strutturazione di un campo intersoggettivo in cui analista e paziente vivono una dimensione di complicità e fiducia; simmetria tra le aspettative profonde del paziente da una parte e dall'altra le fantasie e l'investimento emotivo del- l'analista; possibilità di modificare mappe mentali inade- guate, responsabili del disagio del paziente erano alcuni dei fattori da me indicati come strutturanti il processo analitico. Ad esse va aggiunta una variabile estremamente importante: la personalità dell'analista. Nel mio scritto parlavo del «carisma» de terapeuta, benché questo ter- mine possa generare degli equivoci. Applicata alla situa- zione terapeutica, la parola carisma, come precisavo al- 65

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La metafora che curaMito personalee relazione analitica

Aldo Carotenuto. Roma

(1) A. Carotenuto, «Osserva-zioni su alcuni aspetti deltransfert e controtransfert», inRivista di Psicologia Analitica,1/1.

(2) A. Carotenuto, «Sulle ipo-tesi che sono a fondamentodella terapia psicologica», inP. Arte, A. Carotenuto (a curadi), Itinerarì del pensierojunghiano, Milano, RaffaelloCortina. 1889.

II problema che intendo affrontare in questo scritto riguar-da i presupposti teorici che guidano il mio agireterapeutico. Presupposti che, generati dalla mia lungaesperienza clinica, sono stati l'oggetto di tutti i miei saggi,a partire da un articolo (1) apparso sul primo numero diquesta rivista ventitré anni fa. Nel corso di questi anni hopotuto riflettere su quanto accade durante la terapia,formulando delle ipotesi che delineano una possibilespiegazione. In una relazione (2) presentata alcuni fa adun convegno internazionale ho cercato di riassumere qualia mio avviso sono i fattori terapeutici. La domanda dallaquale muoveva la mia riflessione riguardava la possibilitàdi individuare dei fattori aspecifici e comuni a ogni psico-terapia, a prescindere dai modelli teorici di riferimento.Strutturazione di un campo intersoggettivo in cui analista epaziente vivono una dimensione di complicità e fiducia;simmetria tra le aspettative profonde del paziente da unaparte e dall'altra le fantasie e l'investimento emotivo del-l'analista; possibilità di modificare mappe mentali inade-guate, responsabili del disagio del paziente erano alcunidei fattori da me indicati come strutturanti il processoanalitico. Ad esse va aggiunta una variabile estremamenteimportante: la personalità dell'analista. Nel mio scrittoparlavo del «carisma» de terapeuta, benché questo ter-mine possa generare degli equivoci. Applicata alla situa-zione terapeutica, la parola carisma, come precisavo al-

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lora, descrive un fenomeno complesso nel quale entrano ingioco diversi fattori: la fiducia che l'analista nutre neiconfronti della propria Weltanschauung e del progettoterapeutico che da essa discende; il campo energeticogenerato dal suo investimento affettivo sul paziente, leaspettative salvifiche del paziente. Queste ultime, derivantidalla proiezione dell'archetipo del Guaritore, contri-buiscono a creare intorno alla figura dell'analista un alonemagico, facendo di lui ciò che Jung, riprendendo un ter-mine polinesiano, definisce personalità mana.Letto da questa prospettiva il carisma si configura come unfenomeno relazionale di cui sottolinerò qui gli aspetti cheappartengono all'analista. Il carisma si lega in questo casoalla consapevolezza di quel mito personale a cui Jung fariferimento nell'autobiografia (3) e che va inteso come lascoperta delle immagini che fondano il proprio agire,immagini che hanno una radice archetipica e che vengonoarricchite e plasmate sulla base delle proprie esperienzepersonali. La scoperta del proprio mito personalecostituisce allora, come ritiene Jung, un compitofondamentale a cui nessuno, e in particolare il terapeuta,può sottrarsi.La nozione di «mito personale» ci introduce a quella, piùgenerale e che qui più ci preme prendere in considerazio-ne, di metafora. Al «mito personale» si contrapporrebbe ilmito dell'oggettività del reale, della corrispondenza senzascarti tra il reale e la nostra descrizione di esso,corrispondenza che riposa sull'assunto che «il mondo èfatto di oggetti distinti, con proprietà intrinseche e relazionifisse tra essi ad ogni dato momento» (4).Secondo tale «mito dell'oggettivismo», così lo chiamano illinguista Lakoff e il filosofo Johnson, i significati sarebberocaratterizzati da assoluta autonomia, si costituirebberocioè come indipendenti dalla comprensione umana e, cosache Wittgenstein avrebbe certamente deplorato,indipendenti dall'uso. In questa prospettiva, quindi, larealtà si considera come già data: si tratta soltanto discoprirla. Tale operazione, come si può ben comprendere,relegherebbe la metafora a uno statuto soltanto marginale.La metafora denuncerebbe in altri termini una lontananzacostitutiva da «ciò che è», se non addirittura un inganno

(3) C.G. Jung (1961) Ricordi,sogni, riflessioni, Milano.Rizzoli. 1978, p. 27.

(4) Lakoff-Johnson, Metaforae vita quotidiana, Espressostrumenti, Roma, EditoriEuropei Associati, 1980,p.234.

che ci tiene lontani dalle luce del reale. Per raggiungere ilreale occorrerebbe, dati tali presupposti, scardinare l'as-setto metaforico che caratterizza e, diremmo, sostiene,alimenta il nostro parlare. Un'operazione in parte simile,se è concessa la similitudine, alla demitizzazione delNuovo Testamento proposta da Bultmann. Ma le cosestanno davvero in questi termini? È possibile una realtàche prescinda dalla metafora? E cosa è, propriamente,metafora?Figura retorica per eccellenza, strumento imprescindibiled'ogni genere letterario, la «metafora», un temposemplicisticamente declinata come «similitudine abbre-viata» (implicante cioè la soppressione del «come» tradue termini proposti per il paragone) sta a significare,fondamentalmente, un «trasporto di senso», uno «spo-stamento di significato» fondato su una relazione di si-milarità. Un esempio semplice di ciò può rinvenirsi nel-l'espressione «capelli d'oro» nella quale viene soppressoil sintagma «biondi come», sintagma cui ogni parlanteimpegnato nella interazione comunicativa può rinunciaresenza pregiudizio alcuna per la comprensione. Ora,come dimostrano Lakoff e Johnson, la metafora, lungi dalrappresentare soltanto l'ornamento o il mascheramentodell'essenziale, lungi dall'allontanarci dal nostro reale,costituisce il meccanismo di fondo del nostro stessoparlare e delle nostre interazioni comunicative. Nonsoltanto, dunque, il linguaggio letterario, ma anche quelloquotidiano, è fondato sull'uso metaforico del linguaggio.E quando dico «uso» metaforico, non intendo diresoltanto che noi, di fatto, usiamo metafore, ma ancheche, in qualche modo e certo il più delle volteinconsapevolmente, ne siamo usati. La psicopatologiadelle nevrosi, ad esempio, potrebbe essere considerataanche nell'ottica d'un inadeguato uso della metafora e, insuo luogo, d'un essere assoggettati ad una metafora.Il nostro parlare, il nostro teorizzare e il nostro fare espe-rienza è dunque metaforico, si fonda su una serie ditrasferimenti di senso.I significati non sono insomma indipendenti, come affer-ma il mito oggettivistico, ma imprescindibili dalla relazio-ne, si costruiscono insieme ad essa e in virtù dell'impie-

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go, voluto o meno, di metafore. Lungi dal costituire unostacolo all'acquisizione di realtà, dovremmo dire, rove-sciando tale assunto, che la metafora sostanzia, fonda larealtà.Tornando a Jung, quando in età avanzata finalmentedecide di dettare la sua autobiografia, sceglie il mito perdefinire la sua intera esistenza:Che cosa noi siamo per la nostra visione inferiore, e che cosa l'uomosembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con unmito. Il mito è più individuale, rappresenta la vita con più precisione dellascienza. La scienza si serve di concetti troppo generali per potersoddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola. Ecco perché, aottantatré anni, mi sono accinto a narrare il mio mito personale. Possofare solo dichiarazioni immediate, soltanto «raccontare delle storie»; e ilproblema non è quello di stabilire se esse siano o no vere, poiché l'unicadomanda da porre è se ciò che racconto è la mia favola, la mia verità (5).

Capire il proprio mito significa essere consapevoli dellapropria equazione personale, per usarla in manieracreativa e soprattutto per costruire, a partire da essa, lapropria metafora psicologica, tanto retorica quanto clinica.Conoscere il proprio mito in modo da essere capaci diviverlo, ma anche di vederne il carattere metaforico, ponele basi per una condizione nella quale non si è vissuti dalleimmagini inferiori, ma si dialoga con esse. Il mitoindividuale apre appunto l'accesso a una modalitàmetaforica dell'esperienza, una modalità che permettel'attivarsi di quel simbolo vivo di cui parla Jung. Si passa intal modo da una condizione di vita inconscia in cuil'esistenza è subita a una condizione nella quale il rapportocon l'immaginario consente di ricreare, almenoparzialmente, i presupposti del proprio esistere. Svincolatoda una dimensione di pura necessità, dove istinti e modelliinconsci di comportamento regolano l'agire, il soggettolentamente recupera una condizione di possibi lità eprogettualità che lo rende artefice della propria storia, unacondizione questa di cui l'analista è il vigile custode. Con isuoi rituali che attivano l'immaginario, l'analista guida ilpaziente nella difficile lettura del proprio mondo interno,nella lettura del proprio mito in cui sono racchiusipotenzialità e limiti. Su questo punto Stephen Larsen (6),analista americano, infatti scrive:

(5) C.G.Jung (1961), Ricordi,sogni, riflessioni, Milano,Rizzoli, 1978, p. 27.

(6) S. Larsen (1990), L'im-maginazione mitica, Milano,Interno giallo, 1992, p. 26.

I miti personali possono rivelarci che possediamo un particolare dono,oppure una debolezza morale che ci limita e che ci è stata trasmessadalle generazioni precedenti. Ecco due domande semplici a proposito diqualsiasi sistema di credenze (ma soprattutto di quelli che potrebberoavere un carattere nocivo): «Come influisce sulla mia vita?» e «Èsuscettibile di cambiamento?» (in particolare di fronte a nuove informa-zioni).

Se la decodificazione del mito personale è al centro dellavoro analitico, la relazione analitica è caratterizzatadall'incontro tra due miti, un incontro particolare in cui loscopo dell'opus terapeutico consiste nella capacità diinterpretare e di vivere in maniera metaforica e non let-terale il mondo inferiore. Appare quindi particolarmenteimportante che l'analista sia in grado di vivere questadimensione metaforica. È necessario che, aggirandosinelle zone oscure della psiche, egli non rimanga prigio-niero ne dei propri fantasmi, ne di quelli del paziente,fantasmi i cui volti molto spesso appaiono simili. Il rap-porto che l'analista ha con il proprio mito assume un'im-portanza decisiva nel suo modo di strutturare la terapia,nella metafora analitica che egli costruirà con ogni pa-ziente e che costituirà poi il nucleo delle sue speculazionimetapsicologiche. Ciò che intendo analizzare in questepagine è appunto il rapporto tra il mito personale del-l'analista e la creazione della sua personale metaforaanalitica, una metafora che, se correttamente vissuta, è ingrado di aiutare il paziente a superare lo stato di disagio edi blocco psicologico.Parlare della metafora analitica richiede alcune necessa-rio premesse. Innanzitutto bisogna osservare come lapsicologia del profondo, puntando la sua attenzione sul-l'inconscio, si trovi in una condizione particolare, che lasottrae e quei criteri di riproducibilità e quindi di falsificabi-lità delle sue ipotesi, comuni alle altre scienze. La vicendaanalitica non è riproducibile, ne le sue variabili possonoessere controllate. Legate al campo relazionale, essesono continuamente modificate dalla presenza e dall'in-tervento dell'osservatore - l'analista - che, in questo caso,è anche un agente del processo osservato. Ciò rendel'obiettivo della neutralità analitica proposto da Freudsemplicemente un mito, legato alla sua equazione perso-nale e la cui rigida difesa da parte degli analisti non solo

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rivela i problemi legati alla trasmissione agli allievi dellametafora del maestro, ma tradisce anche il bisogno delterapeuta di assumere un atteggiamento difensivo. Siteme proprio l'incontro con il paziente su cui tanto Jung,quanto la psicologia umanistica insistono ripetutamente.Gli elementi che caratterizzano il rapporto analitico, gliimpediscono dunque, ipso facto, di adempiere ai requisitidel metodo scientifico. Per quanto si possa ovviare par-lando della probabilità statistica del verificarsi di un certoeffetto in una data situazione, rendendo in qualche modopossibile prevedere i risultati di un'azione terapeutica condeterminate strutture di personalità, si rimane sempre nelcampo della pura probabilità. Ciò che accade in terapiacon quel paziente può seguire infatti delle strade moltodiverse da quelle statisticamente prevedibili. Questa con-dizione di estrema variabilità e indeterminatezza si rifletteanche sul piano teorico che è strettamente connesso conl'esperienza clinica. Elaborando delle ipotesi su una storiaclinica, l'analista non soltanto è limitato dal suo essere altempo stesso attore e osservatore del processo terapeu-tico - l'influenza della variabile osservatoresull'andamento dell'esperimento del resto è statariconosciuta anche nelle scienze fisiche -, ma si trova aformulare delle teorie che non possono in alcun modoessere verificate, così come è verificata ad esempio unateoria fisica. I risultati ottenuti da terapeuti appartenentialle varie scuole dimostrano l'impossibilità di legare questirisultati alle teorie a cui gli psicoterapeuti fannoriferimento. Bisogna quindi essere consapevoli che leteorie e le strategie operative che da esse discendonohanno un puro valore metaforico.L'insistere di Jung sul relativismo di ogni teoria, che èradicata nell'equazione personale del suo autore, va ap-punto in questa direzione. Ma il ripensamento delle teorieè anche alla base di tutte le più feconde innovazioni natenell'alveo freudiano: dalle ipotesi di Melanie Klein a quelledi Ronaid Fairbairn, dal pensiero di Wilfred Bion a quellodi Donai Winnicott, dalle formulazioni di John Bowlby aquelle Heinz Kohut, per citare solo alcuni esempi di unrinnovamento creativo della matrice teorica originaria. Èproprio Kohut a sottolineare la necessità di un rinnova-mento creativo della matrice teorica originaria.

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(7)H.Kohut(1977).La gua-rìgione del Sé, Torino, Borin-ghieri, 1980. p. 270.

(8) A. Carotenuto, Discorsosulla metapsicologia, TorinoBoringhieri, 1982.

È proprio Kohut a sottolineare la necessità di un atteggia-mento critico come presupposto dell'avanzamento scien-tifico.Un atteggiamento di adorazione verso i sistemi esplicativi stabiliti -versol'accuratezza raffinata delle loro definizioni e la coerenza compatta delleloro teorie - diviene limitante nella storia delta scienza - come avviene difatto per tutti gli atteggiamenti analoghi in ogni branca della storia umana(7).

Da parte mia ho sempre visto nelle teorie psicologiche unostretto legame con la ferita personale del loro autore. Leteorie sono cioè la feritoia aperta sulla propria ferita (8),una feritoia che consente di guardare e riconoscere ilmondo e gli altri, ma che è sempre determinata dallasofferenza che l'ha prodotta, benché questa sofferenza siausata in maniera creativa. Occorre inserire a questo puntoun'ulteriore precisazione. Se si leggono gli scritti di Freude di Jung, ci si accorge di come entrambi fosseroconsapevoli della radice soggettiva delle loro teorie e deiloro metodi. Questa consapevolezza appare più chiara inJung, mentre Freud, fermo a una visione positivistica dellapsicologia, è rimasto in gran parte legato al sogno di unateoria in grado di descrivere obiettivamente la realtàpsichica. Va riconosciuto tuttavia che Freud si muoveva inun ambito diverso e che le sue teorie avevano giàfortemente scardinato le sicurezze della coscienza. Pun-tare i riflettori sull'inconscio e introdurre il concetto di realtàpsichica aveva inferto un duro colpo alla visioneilluministica e positivistica dell'essere umano in auge inOccidente tra Settecento e Ottocento. Se tra le luci dellaragione avevano fatto capolino. Le ombre dell'inconscio,conosciute e descritte dalla cultura romantica, la metaforaanalitica di Freud non poteva non risentire del climaculturale in cui era nata. Nel caso di Jung, la spintairrazionalistica di fine secolo, l'influenza di filosofi comeNietzsche e una diversa equazione personale gli avevanoinvece consentito di ridurre ulteriormente le pretese dell'Ioe il suo sogno di una conoscenza obiettiva. Il problemanasce quando la metafora analitica di questi autori diventaun modello della psiche condiviso da altri, quando entranoin scena degli allievi che non hanno creato la metaforaanalitica, ma l'hanno semplicemente

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ereditata. È a questo punto che, in un clima sicuramentecomplicato da invidie, gelosie, rivalità, da simpatie e anti-patie, da alleanze e lotte, la difesa a oltranza della meta-fora del maestro diventa una questione di fondamentaleimportanza nella strutturazione iniziale delle società anali-tiche. Un pensiero originale e diverso è spesso bollato dieresia. E sul dilemma tra ortodossia ed eresia si consuma-no scissioni e allontanamenti divenuti celebri. Adler, Jung,Ferenczi vivono questo destino, mentre a Melanie Kleinspetta la lunga querelle con Anna Freud, e DonaldWinnicott (9) si lamenta nelle sue lettere di essere tenutoin disparte a causa delle sue teorie. Se gli stessi maestrisono stati spesso responsabili, in misura diversa, di questarigidità (10), è soprattutto alle generazioni di analisti che sisono succedute che va attribuita la richiesta di inutiliprofessioni di fede. Ciò che intendo evidenziare è unprocesso di cristallizzazione delle metafore che in molticasi può essere paragonato alla creazione di un dogma,autorizzando a parlare di un «fondamentalismo»psicologico. Dal mio punto di vista invece l'evoluzione dellapsicologia del profondo può aver luogo solo all'interno diun processo creativo nel quale l'apprendimento dellemetafore del maestro da parte degli allievi va completatocon un'elaborazione di queste metafore, traendo dal lavoroclinico e dalla conoscenza della propria equazionepersonale i dati per la costruzione di una propria metaforapersonale.A un recente convegno, a cui partecipavano fisici e psi-cologi, sono rimasto molto colpito dalla dichiarazione di unfisico che, alla fine di un'accesa discussione, affermò cheogni scienziato crea la propria fisica. A me, psicologo,questa frase ha fatto molto riflettere riportandomi allamemoria il contributo di Pauli (11) all'interpretazione dellacosmologia di Keplero. Se dunque il fattore soggettivopermea qualsiasi forma di conoscenza, nel caso dellapsicologia del profondo il problema non può essere sem-plicemente liquidato basando lo sviluppo di questa disci-plina solo su metafore personali tra loro irrelate, metaforeche ignorano quanto esposto dagli altri, in particolar mododa/' maestri. La creazione di una metafora affonda le sueradici in un terreno di conoscenze che vengono succes-sivamente sistematizzate ed elaborate sulla base delle

(9) D.W. Winnicott (1987),Lettere, Milano, RaffaelloCortina, 1988. p. 104.

(10) Già Jung si lamentavadel settarismo delia psicologiae cercava di promuovere ildialogo tra le scuole. Cfr. inparticolare C.G. Jung (1934),«Situazione attuale dellapsicoterapia» e (19337 1938)«Discorsi ai Congressi dipsicoterapia (ottavo, nono,decimo)» in Civiltà intransizione. Il periodo tra ledue guerra, Opere, voi. 10/ 1,Torino, Boringhieri, 1985.

(11) W. Pauli (1952), «TheInfluence of Archetypal Ideason the Scientific Theories ofKepler» in C.G. Jung, W.Pauli, The Interpretaton ofNature and the Psyche, NewYork, Pantheon Books, 1955.

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(12) C.G. Jung, Ricordi, so-gni, riflessioni, op. cit. p. 150.

(13) Su questo punto cfr.anche A. Haynal, The Tecni-que at Issue, London, KarnacBooks. 1988, p. 136.

proprie esperienze. Mentre l'apprendimento di questeconoscenze può essere in larga misura inteso come unassemblaggio di dati, l'elaborazione di un proprio punto divista da parte dell'analista richiede la capacità di rivivere inmodo del tutto personale il corpus di conoscenzeacquisite, filtrandolo con la propria soggettività. È noto delresto come Jung, confrontandosi con la malattia mentaleall'inizio del suo incarico al Burghözli, l'ospedalepsichiatrico di Zurigo, si sia completamente immerso persei mesi nella lettura dei cinquanta volumi della Allge-meine Zeitschrift tur Psychiatrie (12), e come l'elabora-zione del suo modello della psiche e del suo metodoterapeutico abbiano richiesto un lungo processo, alimen-tato da approfonditi studi oltre che dal viaggio nel proprioinconscio. Memore della propria esperienza, che l'avevavisto riformulare le teorie dei maestri, aprendo nuovi oriz-zonti, egli ha potuto rivolgere agli allievi un ripetuto invito adimenticare ogni teoria per cercare nel confronto con sestessi e con il paziente tanto la via terapeutica dapercorrere, quanto la sua rielaborazione teorica. Ancorauna volta è possibile scorgere una differenza tra l'atteg-giamento di Freud e quello di Jung, nonostante entrambiabbiano costruito dei modelli psicoterapeutici basandosisulla loro personale metafora. L'atteggiamento di Freudappare in verità contraddittorio. Se ponendo le basi tec-niche del setting, come ad esempio il tanto discusso usodel divano sottolineava la soggettività di una tale prassi,egli stesso poi stilava una serie di regole tecniche ad usodegli allievi, polemizzando con quanti se ne discostavano.Anzi a partire da un certo momento nell'evoluzione delmovimento psicoanalitico l'approvazione di Freud era laconditio sine qua non per definire psicoanalisi una prassiclinica, mentre la sua disapprovazione segnava la «sco-munica» dell'analista (13). Jung invece ha sempre sotto-lineato nei suoi scritti la pluralità dei metodi, raccoman-dando agli allievi di adattare la tecnica al paziente. L'in-segnamento di Jung va sicuramente nel senso di unametafora personale, l'unica veramente attiva nel processoterapeutico.Come ho già detto, Jung ha spesso evidenziato il relati-vismo psicologico, tentando con questa tesi di spiegare,

almeno in parte, l'esistenza dei numerosi modelli dellapsiche e delle tante possibili strategie terapeutiche. No-nostante ciò sembra essere particolarmente difficile eamaro per alcuni analisti dover accettare l'idea che tuttala loro attività si basa più su fattori soggettivi che ogget-tivi. Molto più rassicurante e scientificamente accettabileappare invece ai loro occhi la convinzione di poter faresempre e comunque riferimento a norme precise chestabiliscono che cosa si deve e che cosa non si deve farein terapia. Ma si tratta di un'amarezza fuori luogo perchél'ovvia soggettività di una metafora non implica la suainutilità, invalidandone il potere terapeutico. Tutte lepsicologie e tutti i procedimenti terapeutici altro non sonoche personali proposte dei loro autori. Se il fondamen-talismo psicologico appare con maggiore intensità nelcaso della tecnica analitica, dove più forte sembra esserel'esigenza di nascondere dietro delle regole standardizza-te le inquietudini e i dubbi che attraversano il lavoroclinico; le illusioni di chi pensa di proteggere il propriooperato dietro un'unica e impersonale tecnica vanno dis-solte. Esaminando i tanti resoconti clinici non è infattidifficile scorgere anche dietro prassi apparentementestandardizzate l'azione della metafora personaledell'analista che racconta. Il riferimento a un tecnicismoastratto appare del resto oggetto di revisione anche daparte di psicoanalisti di formazione freudiana come RoySchafer. La sua posizione a riguardo è lontana da ogniestremismo. Riconoscendo tanto il fattore soggettivo,quanto l'esistenza di parametri comuni che caratterizzanola terapia analitica, egli parla di «linee direttrici» a cuil'analista deve far riferimento, potendosi muovereall'interno di questo spazio in sintonia con la propriastruttura di personalità e con le esigenze poste dallasituazione terapeutica.

Poiché inevitabilmente si lavora con la propria personalità anche quan-do se ne è raggiunta ('opportuna subordinazione al lavoro analitico,occorre chiedersi che senso abbia parlare di tecnica psicoanalitica. Ilfare analisi è una questione di tecnica? E in qualche modo l'idea ditecnica distorce o guasta quello che è l'aspetto più autenticamenteumano del lavoro psicoanalitico? C'è qualcosa da dire riguardo a en-trambi gli aspetti della questione. Bisogna riconoscere che l'analisi nonfunziona bene se non viene portata avanti con certe limitazioni che ladefiniscono come metodo e che trascendono la questione della perso-

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naiità; la definizione di questi limiti e i mezzi per sopportarli rientrano nelcampo della tecnica. Invece che di limitazioni si potrebbe parlare dilinee direttrici (14).

Il riferimento costante alla metafora personale, sia nel-l'esperienza cllnica, sia nella sua elaborazionemetapsico-logica, pone dei problemi solo nel momento incui un atteggiamento inflazionato spinge l'analista aconsiderare la propria metafora, «ortodossa» o «eretica»che sia, l'unica possibile, e a polemizzare aspramentecon le metafore dei colleghi, ritenute destituite di ognifondamento. Proprio la soggettività delle vie terapeuticherichiede invece il rispetto per l'operato e per il pensieroaltrui. Questo rispetto naturalmente non va confuso conla giustificazione del'arbitrio, con la legittimazione di pras-si manipolatrici che schiacciano il paziente sotto il suodisagio e con l'avallo a teorie che razionalizzano la ma-nipolazione e l'abuso del paziente a vantaggio dell'anali-sta. Arbitrio e libertà di intervento assolutamente noncoincidono. Il problema non è quello di abolire la tecnicain quanto tale, sostenendo un'improvvisazione selvaggiache nasce dalla psicopatologia dell'analista, ma di rende-re plastico l'atteggiamento dell'analista in modo daadattarlo al paziente, facendolo aderire alle diversecircostanze che si verificano in terapia. In quest'ultimocaso l'etica del terapeuta, il confronto con il proprioinconscio, la conoscenza del proprio mito personale e lacapacità di vivere creativamente la propria metaforaanalitica per aiutare il paziente sono le migliori garanziecontro il pericolo di abusi nei suoi confronti. Al contrario ilfare acriticamente riferimento a prassi standardizzate,legittimate da una presunta ortodossia, rischia ditramutarsi in un danno per il paziente, le cui peculiaritàindividuali sono azzerate dal livellamento della tecnica,una tecnica imposta d'autorità. La tecnica deve invecesempre misurarsi con il rispetto della diversità di ognisingolo paziente che non può essere compresoincludendolo in una categoria generale, in unaclassificazione psicopatologica a cui è uniformata laprassi clinica. Con un'ovvia metafora si può sostenereche per quanta esperienza il genere umano abbia accu-mulato nel corso del tempo, essa non sarà mai sufficientea produrre la certezza che, nonostante tutti i cigni

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(14) R.Schafer (1983).L’atteggiamento analitico, Milano,Feltrinelli, 1984, p. 277.

siano bianchi, non venga un giorno scoperto anche unsolo cigno nero. Benché in quel caso possa purtroppoaccadere che taluni individui, posti di fronte al cigno nero,preferiscano negare l'evidenza e vedere in esso non uncigno, ma un esemplare di un'altra specie animale.Tenere conto delle differenze soggettive consente da unaparte all'analista di operare in armonia con la propriapersonalità e dall'altra al paziente di vedere rispettata lasua unicità di individuo. Una delle ragioni della sofferenzapsicologica consiste infatti nel tradimento della diversitàindividuale messo in atto prima dalla famiglia - famiglieovviamente rigide e carenti da un punto di vista empatico -e poi dalle diverse organizzazioni collettive. Il risultato diquesto tradimento è uno stato di cronica insicurezza, discissione e di incapacità di riconoscersi da parte di coluiche è stato per anni sottoposto a tale trattamento. Chi vain terapia cerca di riappropriarsi della propria individualità,di imparare ad accettare, amare e vivere ciò che Winnicottdefiniva vero Sé. Accade invece che talune terapieperpetuino l'alienazione dal vero Sé, costringendo ilpaziente a rivivere per anni il trauma essenziale della suavita. Il collante di queste analisi nasce in una collusionepatologica strutturata sulla base di uno dei meccanismi didifesa messi in evidenza da Anna Freud: l'identificazionecon l'aggressore. Forse questo fenomeno può spiegare ciòche Ferenczi chiamava «la patologia delle societàanalitiche» (15), dal momento che talvolta le analisi didat-tiche a cui l'aspirante analista si sottopone perpetuanol'adesione a un principio di autorità che diviene parteintegrante della sua formazione e che in seguito struttureràla sua relazione con i pazienti. L'incidenza di dinamiche dipotere incontrollate nella terapia costituisce una delle piùgravi e non sufficientemente riconosciute forme di abusoche l'analista può perpetrare nei confronti del paziente.Una delle caratteristiche principali di questo problema èlegata all'imposizione di un sapere - quello del terapeuta -che sembra ignorare i propri limiti e non tener in debitoconto la saggezza di cui è dotato l'inconscio profondo delpaziente, una saggezza che deriva dal Sé. Trascurarequesto sapere falsifica i veri scopi della terapia, impeden-

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do al paziente un contatto autentico con il proprio mondoinferiore. Come risultato di questa situazione il rapportoanalitico si trasforma da un'alleanza finalizzata alla cre-scita del paziente in una sua sottomissione al poteredell'analista che, data l'asimmetria del rapporto, è il piùforte tra i due partner. Il raggiungimento di un'autonomiapsicologica e di una capacità di giudizio indipendenteviene così inficiato dalla deificazione dell'analista, la cuiinflazione narcisistica diventa sempre più evidente. Perevitare di incorrere in questo rischio appare allora neces-saria la messa in discussione, tanto nelle terapie, quantonel training, di un principio di autorità che si riflette nellarigidità teorica e tecnica degli analisti.Se il compito dello spazio analitico è quello di consentiree favorire un migliore rapporto del paziente con se stes-so, le modalità con le quali il setting viene strutturato,all'interno di parametri comuni all'approccio psicoterapeu-tico, non possono dunque essere imposte d'autorità dalterapeuta, ma devono venire stabilite in base alla singolacoppia analitica e alle esigenze che si manifestano du-rante la terapia. Un'obiezione a quanto affermato potreb-be essere avanzata da chi rileva che il fatto stesso chemigliaia di analisti usano con soddisfazione prassiterapeutiche codificate nel corso del tempo dalle diversescuole smentisce la possibilità di errore. Ciò che non sitiene in conto è che anche in questo caso è in azione unametafora personale che spinge l'analista ad operare nelmodo più congeniale al proprio assetto psicologico. Chesi innovi la tecnica, che la si adatti alla situazione o che lasi mantenga inalterata è sempre presente una sceltapersonale. Se l'analista, dopo aver a lungo riflettuto eguardato dentro se stesso - posizione questa ben diversada un'applicazione acritica delle regole - è convinto dellanecessità di mantenere inalterata la tecnica, sarà questasua fiducia ad essere trasmessa all'interno dellarelazione terapeutica e sarà probabilmente questaconvinzione a rivelarsi efficace e ad essere produttivacon certe strutture di personalità. Un esempio di quantovado affermando potrebbe venire fornito dal diverso usodel silenzio in analisi o dalla scelta del divano oppuredella poltrona. Se la mia tipologia e la mia personaleesperienza mi spingo-

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no a preferire il vis a vis e a fare un uso limitato delsilenzio, non posso tuttavia negare che in altre situazioniterapeutiche l'optare di altri analisti per il divano e il ricor-rere a un'interpretazione silenziosa producano dei risultati.Si tratta in entrambi i casi di vivere la propria metafora,lavorando con essa. L'adesione profonda a scelte insintonia con l'equazione personale di cui si è portatori sirivela infatti lo strumento terapeutico più efficace.È mia opinione che la metafora personale dell'analistanasce e si struttura all'interno del campo analitico. Si trattaquindi di una metafora relazionale che prende corponell'ambito dell'esperienza clinica e i cui tratti si modificanonell'incontro con ogni nuovo paziente. La metafora di cuiparlo non è infatti una struttura statica, ma dinamica, incontinua evoluzione. Da una parte essa è il frutto dellapersonalità dell'analista, venendo a formarsi dall'incontrotra le sue esperienze di vita, l'ambiente culturale e lestrutture archetipiche dell'inconscio collettivo, dall'altraessa coniuga il mondo dell'analista con quello del suopaziente. Ed è proprio da questo incontro, da questafecondazione che la metafora analitica trae il suo potereterapeutico. Jung (16) paragona il rapporto analitico allamiscela di due sostanze chimiche. Simile a questamiscela, la metafora terapeutica, su cui il processoanalitico si fonda, nasce dall'incontro tra la metaforadell'analista e quella del paziente e dalla creazione diun'unica metafora, comune a entrambi. È questa metaforarelazionale a consentire ai due partner di comprendersiparlando un linguaggio comune, è sempre questa metaforaad aiutare la nascita, all'interno del campo analitico, delleimmagini del paziente - sogni, fantasie, immaginazioniattive -, immagini che guidano il processo ditrasformazione. Perché abbia un effettivo potere terapeu-tico, la metafora dell'analista deve dunque entrare in re-lazione con il mondo inferiore del paziente, attivando lasua capacità di autoguarigione. Il suo compito è quello disuscitare il potenziale di trasformazione del paziente,ridestandone gli aspetti vitali. Naturalmente uno dei pos-sibili rischi che scaturiscono proprio dalla circolarità dellametafora analitica sta nella selezione inconscia operatadall'analista tra le persone che si rivolgono a lui. Si pre-

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(16) C.G. Jung (1946), «Psicologiadella traslazione», in Pratica dellapsicoterapia, Opere, vol. 16, Torino,Boringhieri, 1981, p. 183.

ferisce spesso lavorare solo con quelle persone con lequali si avverte intuitivamente che è possibile condividereil proprio mito, la propria visione del mondo. Se un buonuso di questa condivisione porta alla creazione di un'al-leanza terapeutica che si rinforza seduta dopo seduta, uncattivo uso può tramutarsi al contrario in una collusionepatologica tra paziente e analista, che in questo caso sitrovano a condividere i loro aspetti d'Ombra. In tal casonon si può parlare ne di conoscenza del proprio mito, nedella creazione di una vera metafora analitica, poichétanto l'analista, quanto il paziente appaiono vissuti dalleloro metafore, metafore attraversate da immaginimortifere, incapaci di operare cambiamenti positivi.L'elaborazione di questa metafora relazionale, nella qua-le la capacità trasformatrice dell'analista collabora conquella del paziente, può anche essere immaginata comeil tracciare una nuova mappa mentale che sostituiscequelle precedentemente utilizzate dal paziente, rivelatesiinadeguate. La creazione di una mappa mentale è unprocesso cognitivo che si struttura sulle esperienze rela-zionali del soggetto. Le mappe cioè nascono all'internodei rapporti con gli altri, attraverso un processo diapprendimento in cui l'individuo si confronta e imparadegli stili di vita. Gli studi recenti sulla prima infanziamostrano come tale processo si verifica, confermando leintuizioni dei pionieri della psicologia del profondo. Lettada questa prospettiva, la presenza di mappe mentali chepredispongono l'individuo a un contatto con il mondointriso di sofferenza dipende da un processo diapprendimento nato all'interno di relazioni conflittuali.Sono rapporti che sembrano tracciare solchi impressinella memoria neuronaie. Un semplice esempio diquanto affermo può essere visto nell'acquisizione dellinguaggio. La lingua che il bambino impara a parlare èquella con cui i genitori si rivolgono a lui. Le voci e leparole pronunciate intorno a lui gli consentono diapprendere questa lingua non soltanto nei suoi aspettigrammaticali e sintattici, ma anche nella pronuncia. Ilbambino impara così dall'ambiente una particolareinflessione. Se però l'inflessione che ha appreso, e che ènormalmente utilizzata nella ristretta cerchia del clanfamiliare, è differente da quella che viene

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usata a scuola o negli altri ambienti esterni, dove ragioniculturali hanno stabilito altre convenzioni ortofoniche, secioè la pronuncia del bambino è venata da un'inflessionedialettale che non gli permette di parlare correttamente lalingua ufficiale, o se egli usa delle strutture grammaticalie sintattiche improprie, si troverà in difficoltà nel comuni-care con gli altri. Emarginato dagli altri bambini, dovràmodificare la sua inflessione e imparare ad usare la lin-gua nel modo ritenuto corretto dalla cultura ufficiale.Quanto descritto a proposito del linguaggio può essereesteso, mutatis mutandis, anche ai comportamenti, aglistili di vita e soprattutto alle emozioni, alle modalità dirapportarsi ad esse ed esprimerle. Le relazioni che ilbambino vive nei suoi primissimi anni di vita, i rapporticon la famiglia costituiscono la base del suo linguaggio,emotivo, sono la chiave che gli consente di entrare nel-l'oscuro e contraddittorio mondo di sentimenti. Se in que-ste relazioni è presente un errore, una distorsione, ilbambino crescendo si troverà ad usare una chiave sba-gliata che rende difficile la sua comunicazione emotivacon gli altri. Ciò determina una condizione di disagio chepuò essere alleviato ed eliminato solo apprendendo unnuovo e diverso modo di comunicare, solo modificando lapropria mappa emotiva. All'origine di questa comunica-zione erronea vi sono frequentemente dei messaggi con-traddittori che la teoria sistemica definisce doppi legami.Si pone cioè il bambino in una situazione senza viad'uscita facendogli delle richieste verbali che vengonoinvece annullate a livello non verbale. Un esempio puòessere la richiesta di una vicinanza fisica, di un gestotenero che invece a livello del corpo viene negato con unatteggiamento che indica distanza e freddezza.Il nucleo fondamentale di rapporti familiari incapaci diaiutare la crescita del bambino è racchiuso spesso in unuso narcisistico del figlio. Attraverso una comunicazioneaffettiva distorta, egli viene obbligato a strutturare un fal-so Sé con cui spera di ottenere e conservare l'affetto deigenitori. Ciò che viene sottilmente richiesto al bambino, ingenere attraverso una comunicazione non verbale, èl'adeguamento al modello genitoriale. Si insegna così albambino a uniformarsi alle aspettative altrui, a dimentica-

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(17) Su questo tema si vedaA. Carotenuto, Amare Tradi-re. Quasi un'apologia del tra-dimento, Milano, Bompiani,1991.

rè ciò che sente per essere come vogliono gli altri. Ade-rendo a questa falsa personalità, egli si allontana pro-gressivamente da se stesso, dai suoi desideri più profondi,dalle sue propensioni e capacità naturali per svilupparequei tratti che sono graditi a chi si prende cura di lui. Ilbambino è un essere vulnerabile, interamente dipendentedalla famiglia. Ai suoi occhi i genitori sono troppo potentiperché egli possa disilluderli, rischiando di perdernel'affetto. Alla radice del disagio psicologico vi è dunquespesso una famiglia che non è stata in grado di sosteneree accompagnare lo sviluppo del bambino, mentre la penadi rapporti frustranti e intrisi di sofferenza veniva duplicatadal contatto con l'aspetto terribile degli archetipi parentali,un aspetto non filtrato e temperato da esperienze positivee soddisfacenti. È in questo ambito di rapporto che sicreano molte delle future sofferenze per le quali i pazientisi sottopongono a una terapia psicologica. Su questoprimo tradimento della propria autenticità che il bambino,imprigionato in relazioni familiari inadeguate, è statocostretto a perpetrare verso se stesso, si innestano tutti isuccessivi. Lo scopo che li muove è sempre il disperatodesiderio di farsi accettare e amare, di ottenere un postonella vita (17). Al tradimento vissuto all'interno del nucleofamiliare si aggiungono così quelli delle relazioni affettive,quelli nati nell'ambiente di lavoro. Ancora una volta leaspirazioni, i sogni, il vero sé dell'individuo vengonoschiacciati ed egli si vede costretto a uniformarsi alleaspettative del collettivo.Il problema che la persona sofferente porta in terapiariguarda quindi la modifica di uno stile di vita che paralizzala creatività, negando quanto di autentico vi è nel soggetto.Bisogna cambiare un modo di essere che si è rivelatofallimentare e autodistruttivo, bisogna cambiare quella chepotremmo chiamare una «metafora di morte». Lasofferenza psichica, generata dai tanti tradimenti verso sestessi, somiglia infatti a una metafora di morte, unametafora che struttura lo stile di vita del paziente e che haorigini lontane. Una volta appresa una mappa sbagliata, ilpaziente se ne trova inconsciamente posseduto. Incapacedi vivere in maniera autentica, egli consuma l'esistenzadietro la maschera di quel falso Sé che ha

strutturato nell'infanzia e che ancora avvelena gli aspettivitali e creativi della sua personalità. Prigioniero della suametafora mortifera, egli si lascia catturare da rapportiaffettivi fallimentari o da situazioni lavorative che lo alie-nano sempre più da se stesso, acuendo la sua sofferenzae rendendo la sua vita priva di senso. Si configura cosìquell'annichilimento progressivo della persona che hodefinito «nevrosi da nullità» (18). Mentre aumenta lapaura di affrontare la vita, ogni nuova scelta, ogni tenta-tivo di sanare il dolore sortisce il risultato opposto, per-petrando il tradimento di sé. È a questo punto, trovandosisenza altra via d'uscita, che l'individuo decide di chiedereaiuto a uno psicoterapeuta.Il lavoro analitico consiste, come si è detto, nella sostitu-zione di uno schema mentale erroneo con un altro piùadeguato. Una metafora inesatta deve essere cambiatacon una capace di sanare la sofferenza, insegnando unmodo differente di rapportarsi alla vita. La psicoterapia vavista perciò come l'incontro tra due modi diversi di vederela vita. Il cambiamento determinato dall'incontro della me-tafora dell'analista con quella del paziente può esserepensato come la sostituzione di una «metafora di morte»con una «metafora di vita», metafore che appartengono adentrambi i partner, ma che nel paziente sono scisse. Egli sitrova cioè prigioniero dei propri aspetti mortiferi,fallimentari. Dimenticando di avere dentro di sé un poten-ziale di rinnovamento, si è identificato con un atteggia-mento negativo che lo porta a perdere continuamente nelconfronto con l'esistenza. La malattia psicologica è ap-punto il segno che si sono deposte le armi e ci si è arresidi fronte alla vita. La metafora predominante nel paziente èquella del fallimento, della paura. L'immagine che mi vienein mente a questo proposito è quella della chiocciola allaquale siano state sfiorate le antenne e che preci-pitosamente si rinchiude nel suo guscio, per evitare ilcontatto con qualcosa che percepisce come estranea epericolosa.All'inizio di una terapia il paziente si presenta all'analistacon un bilancio della propria vita nettamente in perdita.L'area di maggiore sofferenza è in genere quella deirapporti interpersonali e in particolar modo di quelli affet-

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(18) A. Carotenuto «La funzionedi nullità», in Giornale Storico diPsicologia Dinamica, 11, 1982.

tìvi, spesso vissuti come insopportabilmente aggressivi eprevaricatori.L'incontro con l'analista, qualora questi sia stato in gradodi scoprire, integrare e modificare i propri aspetti distrut-tivi e autodistruttivi, durante un lungo viaggio nelle zoneoscure dell'anima, mette il paziente in contatto con unametafora esistenziale diversa da quella che fino a quelmomento ha prevalso nelle sue azioni, una metafora cherompe i suoi vecchi schemi di comportamento. Per attiva-re nel paziente una metafora di vita, attraverso il proprioatteggiamento, l'analista deve però realmente nutrire unsenso di fiducia nell'esistenza e deve essere capace divivere in maniera autentica. Quest'autenticità si riflettetanto nella conoscenza del proprio mito personale, diquelle immagini profonde che guidano l'agire e il sentire,quanto nella traduzione di questo mito in una metaforapsicologica dotata di potere terapeutico. La sostituzionedella metafora di morte che domina la vita del pazientecon una metafora di vita, riflessa nella capacità di cura,nell'attenzione e nell'ascolto offerti dall'analista alla per-sona sofferente, fornisce un'ulteriore spiegazione delsuccesso di strategie terapeutiche molto differenti tra loroe che fanno riferimento ai più svariati modelli della psi-che. Come ho ribadito più volte, i risultati ottenuti daterapeuti di diversa formazione e che applicano tecnicheassai differenti non provano affatto la giustezza di unmetodo e di una teoria, poiché dipendono dal camporelazionale che si è creato tra paziente e analista e da cuiè nata quella nuova metafora in grado di mutare profon-damente la personalità della persona sofferente.È all'interno di quanto ho finora sostenuto sulla metaforaanalitica che si inserisce la mia personale metafora, unametafora che mi spinge al superamento degli ostacoli.Trasformare il negativo in positivo fa parte del mio mitopersonale, degli sforzi che hanno accompagnato la miaintera esistenza e da cui la mia visione del mondo è stataplasmata. Le circostanze esterne della mia vita, le rela-zioni vissute soprattutto nell'infanzia mi hanno portato acostruire una metafora esistenziale nella quale il negativoè la spinta per il positivo. Una delle immagini che piùfrequentemente compaiono nei miti, nelle fiabe, come

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anche nella letteratura di tutti i tempi è del resto quelladell'antagonista, alter ego dell'eroe, che diventa lo stimolo,il motore delle sue imprese. L'ideogramma cinese peresprimere il concetto di crisi è composto da due segni, unoindicante un pericolo e l'altro un'opportunità. Mi sembraquesta un'immagine che esprime adeguatamente il sensodella mia metafora. Il senso del confronto con l'ostacolosta, a mio awiso, proprio nello sviluppare una forzaoperativa che consente di ritrovare la fiducia in se stessi,quella fiducia spesso incrinatasi nell'infanzia. Porsi neiconfronti dell'esistenza con un atteggiamento di fiducianelle proprie capacità permette di mobilitare le energiepsicologiche necessario al superamento delle difficoltà chevia via si presentano. Ciò implica un atteggiamento bendiverso dalla passività e dal fatalismo di chi depone laspugna ancor prima di lottare. Nella mia esperienzapersonale questo rapporto con gli ostacoli, questo sforzo ditrasformare continuamente il negativo in positivo, se dauna parte consente di percepire la propria forza, dall'altrasi mescola con una sensazione di lacerante solitudine.Forse la necessità di quest'ottimismo, di questa fiduciaprendono corpo proprio dal vuoto che si percepisce intornoa sé. È la situazione di crisi a mobilitare l'energianecessaria a superare le difficoltà. Il volto oscuro diquest'atteggiamento, il suo opposto, è invece losprofondare nella depressione, l'arrendersi a una sensa-zione di morte, il soccombere a quel senso di abbandonoche si prova nei momenti cruciali dell'esistenza. Una sen-sazione che affonda le sue origini proprio nell'assenza difigure affettive capaci di comunicare fiducia e sicurezza. Lacrescita psicologica implica pertanto un lungo processo diseparazione da queste immagini mortifere interiorizzate ela costruzione di un diverso atteggiamento nei confrontidell'esistenza. Benché la ferita di un'infanzia traditarimanga per sempre in fondo all'anima, è possibile curarlaritrovando la capacità di vivere e di godere la vitanonostante il dolore e gli ostacoli. Hillmann (19) parla dellaferita come di qualcosa che è capace di generarel'individuo. In quest'ottica è proprio la ferita a farci dagenitore, a supplire carenze, assenze e atteggiamentiinadeguati. È da questo punto dolente che si attiva la

(19) J. Hillman (1979), «Leferite del Puer e la cicatrice diUlisse», in Saggi sul Puer,Milano, Raffaello Cortina,1988. p. 21.

forza per cambiare radicalmente la propria esistenza. Untale ribaltamento che rovescia il tradimento di sé, aprendola strada alla ricerca della propria autenticità, è spessolastricato da solitudine e incomprensioni, sia per la so-stanziale incomunicabilità di certi vissuti profondi, sia perl'allontanamento dalle scelte collettive.Il nucleo di questa metafora che racconta la possibilità disuperare le difficoltà e realizzare se stessi - una metaforache ritengo abbia un peso determinante nel rapporto con ipazienti - si origina come risultato di un lungo processo diaccettazione, di cura e di fiducia verso se stessi, unprocesso che non è mai del tutto concluso. Se guardoindietro alla mia storia posso ben vedere come sia nataquesta visione del mondo. La mia metafora nasce cioè dauna serie di vicende personali che mi hanno costretto aconfrontarmi precocemente con gli avvenimenti piùdolorosi nella vita di un essere umano, avvenimenti limiteche spesso determinano un crollo delle speranze e chesono vissuti come insormontabili: la malattia e la morte. Èdi fronte a questi eventi che si mostra la fragilitàdell'essere umano, che la vita appare dominata dal volereimperscrutabile del fato a cui l'individuo non può in alcunmodo opporsi o sottrarsi. Si tratta di situazioni che per laloro drammaticità mettono a nudo la personalità di chi lesubisce, e che sono ancora più dolorose e difficili daaffrontare quando segnano l'infanzia. Ma, proprio per illoro valore di soglia, questi eventi rappresentano unaprova cruciale per l'individuo, rivelandolo a se stesso.Goethe (20), in una delle sue massime da me preferite,sosteneva infatti:Come si può conoscere se stessi? Mai con la meditazione, ma conl'azione. Cerca di fare il tuo dovere e saprai che cosa vali.

Il modo con cui ci si confronta con gli ostacoli e si rea-gisce al loro carico di sofferenza diventa un test rivelatore,un test che permette di conoscere a fondo l'individuo.Trovare un atteggiamento che possa dare un senso a ciòche accade e che consenta di non lasciarsi distruggere eparalizzare dal dolore, vuoi dire opporre alla morte la vita.lo non so se questo atteggiamento sia migliore di un altro,ma sicuramente la forza che così viene attivata

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(20) J.W. Goethe, Massime epensieri, Milano, Thea, 1988,pp 114-115, [442].

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permette di continuare a vivere. Ne La storia infinita diMichael Ende (21) Atreiu, il valoroso guerriero, alter egodi Bastian, il bambino protagonista del libro, deve attra-versare con Artax, il suo cavallo, le paludi della tristezza.Il segreto per uscire vivi da quella landa inospitale è dinon perdere la speranza. Mentre Atreiu supera la difficileprova, Artax si lascia vincere dalla disperazione e spro-fonda lentamente nelle sabbie mobili, senza che il suoamico possa impedirlo. A nulla valgono infatti leesortazioni di Atreiu che lo invita a tenere duro e checerca in tutti i modi di trarlo in salvo a riva: Atrax muoreperché ha smarrito la speranza. Quella di Ende è unabellissima metafora che illustra a mio avviso anche ilsenso del lavoro terapeutico. Confrontatoquotidianamente con il senso di morte che devasta lavita della persona sofferente, l'analista non deve soltantoaccogliere la disperazione e la depressione dell'altro,aspettando in silenzio che questi risorga da solo, madeve adoperarsi con tutto se stesso per trasmettergliuna diversa lettura dell'esistenza, per opporre alladisperazione la speranza, alla percezionedell'impossibilità il senso della possibilità, alla rinuncia eallo scoraggiamento la voglia di riprendere a vivere, adamare, a lavorare, lottando per condurre al meglio lapropria esistenza. Della stessa opinione è so-stanzialmente anche Ferenczi (22), uno degli autori chemi hanno maggiormente influenzato, il quale scrive nelDiario clinico:

Tuttavia non meno sbagliato è sottrarci semplicemente a ogni reazioneemotiva di natura positiva o negativa e stare ad aspettare, in modovelato, la fine della seduta, senza preoccuparci della sofferenza delpaziente o occupandocene soltanto a livello intellettuale, e lasciare chelui svolga quasi da solo tutto il lavoro di raccolta e di interpretazione.

Nei miei trentatré anni di attività clinica, confrontandomicon un gran numero di vicende umane, mi sono convintoche questo mio mito personale, che guarda alla vita conocchio positivo, è in grado di attivare, in chi si trovasmarrito nei bui tenitori della sofferenza, la capacità diuscire da questi territori senza speranza e diricominciare a vivere, ma a vivere una vita diversa.Grazie a questo cambiamento, ciò che prima bloccava il

(21) M. Ende (1979), La storiainfinita, Milano, Longanesi,1981.

(22) S. Ferenczi, Diario clini-co, Gennaio-Ottobre 1932,Milano, Raffaello Cortina,1988. p. 213.

paziente viene visto non solo e non più nel suo significatodi ostacolo, spesso vissuto come insormontabile, macome stimolo. L'ostacolo e il blocco divengono la radicedel cambiamento. Vi è naturalmente il rischio di lasciarsisemplicemente alle spalle il dolore, senza averlosufficientemente elaborato, ma la scommessa conl'esistenza si gioca in molti modi e nessuno può dire concertezza se una via sia più giusta di un'altra. Il puntofocale della mia metafora è dunque il superamentodell'ostacolo, la sua trasformazione in stimolo positivo.Proporre con il proprio atteggiamento, con il proprio mitoquesta metafora al paziente non significa suggerirgli lasoluzione del suo problema, ma aiutarlo a trovare unasoluzione che è assolutamente personale.Se molti sono gli ostacoli che compaiono nella vita di unindividuo e se molte sono anche le modalità con cui essisi manifestano, altrettante sono le risposte date a taliimpedimenti, risposte ancorate alla personalità, al tipo dicultura, all'ambiente in cui si è nati e cresciuti. Ognuno dinoi si trova cioè confrontato con un certo tipo di ostacoliche costituisce il compito che la sua esistenza deveassolvere. Non a caso Riike (23) pregava perché gli fosseconcessa la sua difficoltà e non. erroneamente, quella diun altro. Scopo della terapia è aiutare il paziente a trovarela sua risposta alla sofferenza, il suo modo di superarla.Se mi guardo indietro, se ripenso alla mia vita e alle vitedelle tante persone che ho conosciuto profondamentenello spazio analitico, non posso non riconoscere comeuna delle conseguenze per me più importanti di questomito che ha accompagnato tutta la mia esistenza è ap-punto la scelta di questa professione. Come ho ripetu-tamente sostenuto e come Jung stesso ha continuamentericordato agli allievi, l'analista ha sempre un conto apertocon l'inconscio che lo obbliga a percorrere innumerevolivolte i sentieri dell'anima. Ma il senso di questo camminoall'interno dell'anima non è solo legato alla necessità dirivivere attraverso l'altro il dolore, di guardarecontinuamente la propria Ombra. La sostituzione di unametafora mortifera con una vitale, mediante cui èpossibile restituire il paziente a se stesso, aiutarlo a ritro-

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R.M. Rilke (1921), Iltestamento, Parma Guanda,1983, p. 77.

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vare il senso della sua esistenza e soprattutto aiutarlo amutare, racchiude anche il riscatto delle esperienze dolo-rose che hanno segnato l'esistenza dell'analista. La sceltadi questa professione attraverso la quale si perpetuaall'infinito la cura di parti dolenti della propria personalità èconnessa quindi con la possibilità della trasformazione.Tale possibilità delinea la funzione creativa dello spazioterapeutico, funzione che appartiene tanto al paziente,quanto all'analista il quale l'attiva nell'altro con il suointervento. Si comprende allora lo strano fascino che unaprofessione comunque legata alla sofferenza possa eser-citare in chi la pratica. Non il dolore in sé appare interes-sante. ma il mutamento che, a partire dalla sofferenza, èpossibile costruire, attraverso il lavoro comune di pazientee terapeuta. È in questa dimensione che la mia metaforaviene prepotentemente attivata.Se questo è il volto luminoso mostrato da questa letturadell'esistenza, da questa mia metafora analitica, il suoaspetto oscuro è la tentazione dell'onnipotenza. L'Ombra sinasconde tanto nella voglia di manipolare il paziente,senza assecondarne il naturale sviluppo, quanto in un'in-flazione psicologica che può illudere l'analista di possedereun magico potere di cura. Proprio questo senso dionnipotenza tesse la difficoltà di accettare la passività delpaziente, il suo sostare senza reagire nella condizione didisagio. Il rischio è quello di vedere nell'altro quell'incapa-cità di affrontare la vita, quegli aspetti malati e depressiche costituiscono la propria parte dolente.Sull'onnipotenza si gioca l'identificazione dell'analista conl'archetipo del Guaritore, mentre il paziente è visto comel'unico portatore della ferita. Essere tentati dall'onnipotenzasignifica per l'analista rimuovere la propria ferita, scor-gendola soltanto riflessa nel disagio del paziente. In questocaso il rapporto analitico diventa per il terapeuta una sortadi droga necessaria, che gli permette di sfuggire a sestesso, invece di aiutare effettivamente l'altro. La scissionedell'archetipo Guaritore-Paziente, di cui parla Gug-genbühl-Craig (24), spiega forse quei rapporti terapeuticidalla durata infinita. Il mantenimento della dipendenza delpaziente, di cui vengono alimentate la regressione e iltransfert, è qui funzionale ai bisogni dell'analista. Uno dei

(24) A. Guggenbühl-Craig(1983). Al di sopra del malatoe della malattia. Il potere'assoluto' del terapeuta, Mi-lano, Raffaello Cortina, 1987.

possibili rischi a cui si va incontro nel momento in cui ilpaziente viene inconsciamente identificato con le proprieparti oscure e malate, le parti da riscattare e curare,modificandone l'atteggiamento mortifero, è quello di uncoinvolgimento che ha tutto il sapore di un intreccionevrotico. Jung ha definito «infezione psichica» la situa-zione in cui l'analista si lascia catturare dalle dinamicheinconsce del paziente, dinamiche che attivano in lui particomplementari a quella della persona sofferente. Se ilnucleo della relazione analitica sta nella capacità di met-tersi in gioco e di entrare autenticamente in rapporto conla persona sofferente, così come Jung ha sempre soste-nuto nei suoi scritti sulla pratica psicoterapeutica, tanto lapresenza di macchie cieche nell'analista, presenza di persé inevitabile, quanto soprattutto la sua inconscia identi-ficazione con l'archetipo del Guaritore possono essereforiere di gravi rischi. Si tratta di due fenomeni comple-mentari perché proprio l'inconscietà dell'analista favori-sce la cattura da parte dell'archetipo. Ritenersi l'unicodetentore di una metafora di vita e quindi l'unico in gradodi curare l'altro e di 'salvarlo' dalla sofferenza, facilital'ulteriore scissione del paziente che si trova separato dalproprio potenziale di rinnovamento. Ciò che l'analista inquesto caso rende possibile non è la crescita del pazien-te, ma un mancato sviluppo che finisce con il tradursi inun nuovo e più angoscioso precipitare nel malessereinferiore. Sottilmente il terapeuta promuove la dipenden-za del paziente, lo lega a sé alimentandone il transfert,poiché in tal modo può controllare le proprie parti oscureche, irriconosciute, vengono vissute come appartenentiall'altro. Perché si possa al contrario aiutare il paziente asuperare il suo stato di disagio, è necessario operare inmaniera tale che egli percepisca dentro di sé l'esistenzadi una metafora di vita - attivata dall'analista - e nonsoltanto di aspetti mortiferi. La strada che si delinea in talmodo è una via che conduce verso l'emancipazione delpaziente, verso il superamento di quegli atteggiamentiregressivi che pure sono necessari all'inizio della terapia.Il compito dell'analista in questo senso non è differenteda quello di un genitore sufficientemente buono, secondola definizione di Winnicott, che è in grado di assecondarelo

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sviluppo del figlio, aiutandolo a separarsi da lui e a viverela propria vita.Quelle forme di intenso coinvolgimento, basate sull'incon-scia attrazione delle reciproche parti infantili ferite, talvoltavissute all’interno dei setting analitici - alcune delle qualihanno drammaticamente segnato la storia della psicologiadel profondo (25) - trovano una delle loro possibilispiegazioni nella scissione dell'archetipo del Guaritore. Ilcoinvolgimento in questo caso si innesta non su unautentico interesse per il paziente, sulla capacità diaccoglierlo e prendersi cura dei suoi bisogni profondi,bensì su una modalità di relazione fortemente compro-messa dall'emergere di parti conflittuali dell'analista, partiche questi non ha sufficientemente elaborato.Ed è proprio la mancata relazione con se stessi che rendenecessaria la presenza del partner su cui sono stateproiettate le parti oscure, dolenti, infantili. Il verif i-carsi diuna tale situazione fa supporre che, dietro la metaforaapparentemente vitale di un analista identificato conl'archetipo del Guaritore, sia in realtà all'opera unametafora di morte che, scissa dalla coscienza, segreta-mente agisce per mantenere il paziente nel suo stato didisagio. I piccoli successi del paziente, che pure possonoessere osservati, non promuovono un effettivo cambia-mento nella vita di quest'ultimo, avvolgendolo anzi sempredi più nella rete della dipendenza. Capire questo significaevidenziare anche come la metafora di vita e quella dimorte non possono essere nettamente separate eattribuite all'uno o all'altro dei partner. Quando la terapiaha successo, l'analista aiuta il paziente a fronteggiare gliaspetti negativi e mortiferi, attraverso l'attivazione di partivitali. Perché ciò sia possibile è necessario però chel'analista abbia compiuto il medesimo cammino e che siain grado di non scinderei due opposti atteggiamenti, te-nendone solo uno per sé e proiettando l'altro sul paziente.La prevalenza nell'analista di una metafora di vita chepunta al superamento degli ostacoli e la sua capacità dicoinvolgimento e di cura, quando si legano alla consape-volezza delle ombre del proprio mito personale e al ri-spetto per il mondo inferiore del paziente, divengono glistrumenti che consentono di modificare, se necessario, la

(25) Oltre al mio Diario di unasegreta simmetria. SabinaSpielrein tra Jung e Freud,Roma, Astrolabio, 1980, de-dicato al caso Jung-SpieIrein,si veda anche H.S. Krutzen-blicher-H. Essers (1991), Sel'amore in sé non è peccato...Sul desiderio dell'analista,Milano, Raffaello Cortina,1993.

tecnica. Il fine di ogni deviazione dalle regole canonicheè naturalmente quello di andare incontro ai bisogni realidel paziente» bisogni che la capacità empatica dell'anali-sta mette in evidenza. Ciò che si verifica appare similealla strutturazione di un buon rapporto primario, in cui lamadre riesce ad adeguarsi alle necessità del figlio, fin daisuoi primi momenti di vita, creando con il suo comporta-mento quell'ambiente facilitante in grado di consentire losviluppo del bambino. Proprio questo parallelismo per-mette di rilevare le simmetrie esistenti tra l'analisi infantilee quella dei pazienti adulti. Poiché l'analista che lavoracon pazienti adulti si rivolge anche al loro bambino infe-riore, i punti di contatto tra questi due tipi di setting -diversi per molti altri aspetti - appaiono soprattutto evi-denti quando ci si trovi di fronte dei pazienti fortementeregrediti e con una grave patologia. È in questi casi che ilsetting ha bisogno di una maggiore elasticità e chel'interpretazione verbale, essenziale con altri pazienti e inaltri momenti della terapia, mostra nettamente i suoilimiti, richiedendo in maggiore misura l'uso di unacomunicazione non verbale. Un sorriso, un gestorassicurante possono ad esempio costituire i canaliattraverso i quali lasciar sentire al paziente, in modo piùsemplice e immediato, l'effettiva presenza dell'analista.Il problema delle variazioni della tecnica non è però limi-tato alle patologie gravi o alle fasi di regressione, assu-mendo una configurazione più generale, nella quale siriflettono il mito personale dell'analista, la sua visione delmondo e il modo con il quale egli ha fatto sua la lezionedei maestri. Ad un'analisi accurata, il diverso uso siadella regola, sia della sua trasgressione rivelano l'azionedell'aspetto vitale o di quello mortifero della metaforaanalitica. Tanto il mantenimento della regola, quanto lasua modifica, qualora nascano dall'interrogarsi critico del-l'analista e rispettino l'individualità del paziente, assecon-dandone la capacità di crescita, sono legati ai tratti vitalidella metafora dell'analista. In questo caso le azioni del-l'analista non sono il frutto di un'adesione formale e privadi empatia a principi formulati da altri, ne si confondonocon gli agiti, ma scaturiscono dall'attenta vantazione dellasituazione clinica. Al contrario sia la rigida e acritica ap-

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plicazione delle regole, sia una trasgressione selvaggia,in cui la regola è piegata ai bisogni personali dell'analista,sono il risultato della metafora di morte. In entrambi i casisi opera un tradimento del paziente. Difendersi dietroun'apparente neutralità, dietro il rispetto di regole che nonascoltano le esigenze più profonde del paziente, oppureagire, attraverso la trasgressione, un coinvolgimentopatologico rivelano ugualmente le difficoltà affettivedell'analista e la sua incapacità di comunicare realmentecon il paziente. Nell'uno e nell'altro caso il terapeuta sicomporta come quei genitori abusanti, sintonizzati solosul loro mondo interno e che, sotto l'etichetta del benedel figlio - a cui è in realtà lasciato poco o nessunospazio -, soddisfano invece i loro bisogni, i loro desideri ele loro aspettative. La costruzione della metafora analiticapersonale e il modo con cui essa è vissuta si riflettonodunque tanto nelle formulazioni teoriche, quanto nellaprassi clinica dell'analista. Se dal mio punto di vista farvivere la propria metafora e lavorare con essa è l'unicagaranzia di un impegno autentico in grado di produrreeffettivamente dei risultati; vorrei ancora una voltaribadire, coerentemente con il pensiero di Jung, che ciòche qui descrivo è la mia modalità di vivere lo spazioterapeutico con il paziente. Una modalità che nasce dallemie caratteristiche psicologiche e che quindi nonpretende di essere estesa ad altri. Dimenticarequest'ovvia premessa si traduce nello stupore enell'incomprensione, spesso frequenti tra colleghi, chesorgono nel momento in cui si mettono a confronto ipropri operati. Ci si chiede allora come sia possibilelavorare in un certo modo, vedendo nel racconto clinicodell'altro, un parto della sua fantasia che misconosce iveri fattori terapeutici, oppure una semplice facciata teo-rica che nasconde modalità operative alquanto diverse.Posseduti dal proprio mito, si dimentica che esistonoaltre metafore, altri miti altrettanto validi, nonostantesiano in parte o del tutto diversi dal proprio. Ognianalista, se vuole operare in sintonia con il proprioautentico essere, non può infatti che lavorare con lametafora che ha costruito nel corso degli anni insieme aisuoi pazienti. A questo scopo la decifrazione del propriomito personale appare un compito di fondamentaleimportanza per il

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terapeuta, una decifrazione che si riflette nel rapportocon il paziente. Solo la consapevolezza e la trasparenzadel mito di cui l'analista è portatore possono aiutare ilpaziente nella scelta del terapeuta che più si addice alsuo problema e alla sua personalità. Molti fallimenti, moltisterili rapporti analitici, prolungati all'infinito senza cheaccada alcun sostanziale mutamento, si spiegano infatticon una scelta errata dell'analista, con una mancata cor-rispondenza tra la sua metafora e quella del paziente.Per capire meglio come la mia metafora si cali nell'espe-rienza clinica, è necessario far prima riferimento ad alcu-ne di quelle che io considero le mie radici analitiche. Se ilriferimento a Jung è del tutto ovvio, un'altra importanteinfluenza va rintracciata nei saggi di Balint dedicati allaregressione e all'amore primario, e soprattutto nell'operadi Ferenczi. Il nucleo dell'esperienza ferencziana, aspra-mente e ripetutamente attaccata dagli altri psicoanalisti,tra cui Jones, e al centro della polemica con Freud, èracchiuso in una sofferta sperimentazione di cui il Diarioclinico è fedele testimonianza. Trovatesi confrontato conpatologie più gravi di quelle nevrotiche, alle prese con leregressioni dei suoi pazienti, in parte ovviamente indottedalla stessa tecnica psicoanalitica, in parte forse incon-sciamente favorite dallo stesso Ferenczi e dal suo biso-gno di entrare in contatto con il bambino inferiore, l'ana-lista ungherese centrava la sua tecnica sia sulladialetticità - culminata negli esperimenti di analisireciproca - sia sull'adattamento ai bisogni del paziente.Cardini questi anche dell'approccio di Jung. Ma se lamalattia stroncò Ferenczi, prima che potesse rivedere gliaspetti controversi della sua tecnica, la lezione che egliha trasmesso alle generazioni successive di analisti èracchiusa nel mettersi totalmente in gioco con il paziente.Un coinvolgimento però, nel suo caso, spesso discutibile,inquinato da un'insufficiente conoscenza di se stesso. Ilbreve viaggio nell'inconscio compiuto insieme a Freudvenne da Ferenczi dolorosamente continuato attraverso illavoro clinico, in modo talvolta confuso che tradiva lamancanza di una sorta di mappa, sia pureapprossimativa, della propria interiorità. Ciò che l'analisipersonale non gli aveva permesso di vedere consufficiente chiarezza - visio-

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ne che appare invece netta alla fine della sua vita - e dielaborare, per evitare sgradite interferenze nella terapia, èil ruolo avuto in certi esperimenti terapeutici dai proprifantasmi, dai propri bisogni. La figura di Ferenczi, nellasua tragica grandezza, appare dominata da un bisognoinfantile di calore e tenerezza mai sufficientemente sod-disfatto, bisogno al quale proprio lo spazio terapeuticosembrava offrire una segreta promessa di accoglimento.L'accento di Ferenczi è posto sugli aspetti materni dellarelazione analitica, sui bisogni pre-genitali del paziente esulla maggiore importanza attribuita al rapporto con l'altrorispetto alla soddisfazione pulsionale, intuizione questasviluppata dalla sua allieva Melanie Klein e poi da tutti iteorici delle relazioni oggettuali. Una delle più importantiinnovazioni introdotte dalla psicoanalisi post-freudianaconsiste infatti nel vedere l'impulso libidico come unaricerca di relazione. Da Melanie Klein a Ronald Fairbairnla vita psicologica viene sempre più nettamente conside-rata come il dispiegarsi di questo bisogno. È in quest'otticache la sessualità, motore del modello di Freud, perde ilsuo ruolo di motivazione primaria, per trasformarsi nelprincipale strumento con cui è appunto cercato il rapportocon l'altro. Vista da questa prospettiva la richiesta pres-sante e apparentemente incoercibile di un rapporto con-creto con l'analista, richiesta che sembra strutturare inmodo particolare le forme erotizzate di transfert, va ben aldi là dell'esigenza di un soddisfacimento libidico dalleevidenti componenti edipiche.Portata oltre la sua cifra letterale, che maschera la naturaprofonda del desiderio del paziente, questa richiesta rivelail desiderio di una relazione autentica con l'altro, espressaattraverso la metafora sessuale. Ma come E. Bernhard(26) ha espresso con sofferenza:

L’accettazione di un rapporto concreto può solo avere come conseguenzache si continui consapevolmente e con accresciuto senso diresponsabilità da ambedue le parti a lavorare a se stesso e all'altro.

In questo protendersi verso l'altro, il paziente però èancora lontano dall'aver acquisito la capacità di rapportonecessaria a vivere in modo armonico la sessualità. Lasua ricerca di una relazione affettiva appare infattifortemente condiziona-

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(26) E. Bernhard, Mitiobiografia,Milano, Adelphi, 1969, p. 124

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(27) S. Ferenczi, Diario clini-co, Gennaio-Ottobre 1932,op. cit, p. 281.

(28) Sul transfert dell'analistasi vedano: A. Carotenuto«Osservazioni su alcuniaspetti del transfert e contro-transfert», op. cit. e dellostesso autore La colomba diKant Problemi del transfert edel controtrasfert, Milano,Bompiani, 1986.(29) C.G. Jung. «Psico logiadella traslazione», op. cit.p.183.

(30) Ibidem, p. 191.

ta dai modelli di comportamenti infantili. È il bambino infe-riore, non sufficientemente riconosciuto, a guidare iltentativo di entrare in rapporto con il partner. Se ciò ènaturalmente vero per il paziente, anche l'analista si trovaconfrontato con i propri desideri infantili e la terapiadiviene la prova cruciale della loro adeguata elaborazionee trasformazione. Il ruolo giocato dal bambino dell'analistaappare fondamentale nelle terapie condotte da Ferenczi.«Using his patients to give birth to his child» (27) èl'espressione che egli usa nel Diario clinico e che rivela ilproblema di fondo della sua vicenda di analista. Ladistorsione, l'errore stanno proprio in quell'«uso» checancella gli aspetti positivi del coinvolgimento e delladedizione all'altro, ingenerando pericolose regressioni eintrecci transferali di difficile soluzione, come nel caso diElma Palos di cui egli si innamorò, arrivando quasi sulpunto di sposarla, nonostante fosse la figlia di Gizella, lasua compagna. L'incesto, non più visto nel suo significatometaforico, venne letteralizzato in una relazione dallevalenze doppiamente edipiche sia per i legami familiariesistenti, sia per il rapporto terapeutico che univa i due. Larelazione tra Sandor Ferenczi ed Elma Palos rivelava cosìla cattura da parte dell'archetipo dell'incesto. Ma il casoFerenczi-Palos, come quello Jung-Spielrein e come tantialtri più o meno noti, porta alla luce un nodo difondamentale importanza, sul quale si gioca l'intreccio e ladifficile gestione della regressione e delle dinamichetransferali tanto del paziente, quanto dell'analista (28). Sitratta di un problema che è «l'alfa e l'omega del metodoanalitico» (29) e a cui ciascun analista è chiamato ognivolta a dare la propria soluzione. Una soluzione chepurtroppo talora si rivela amara ed è pagata con unagrande sofferenza dai due partner. Come sostiene Jungqui si trovano infatti:

i sentimenti più segreti, più penosi, più intensi, più teneri, più vergognosi,più angosciosi, più bizzarri, più immorali e insieme più sacri checonfigurano la somma indescrivibile e inesplicabile dei rapporti umaniconferendo loro una forza perentoria, coattiva (30).

Se il mito di Ferenczi sembra legarsi al doppio volto delcoinvolgimento analitico, la sua metafora terapeutica con isuoi oscuri risvolti evidenzia un problema con il quale

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ogni analista è costretto a confrontarsi e la cui difficile eindividuale soluzione non sta certo in una teoria e in unaprassi che fuggano il problema. Partecipazione e distaccohanno eguali probabilità di essere impiegate a finiestrinseci all'interesse del paziente, eguali possibilità diessere agite da un analista scarsamente consapevole delconfine tra la propria psiche e quella dell'altro. Ne l'uno nel'altro atteggiamento analitico configurano a priori lamalafede o viceversa la buonafede dell'analista. Se ildistacco può mutarsi in una difesa dal paziente che im-pedisce ogni autentico contatto tra i due partner, uno deipericoli più frequenti in cui può incorrere una scelta chepunta al coinvolgimento è quello di usarlo per abbattere ilsenso di vuoto inferiore e di lontananza dagli altri cheaffliggono l'analista facendo della vicinanza al paziente larisposta ai propri bisogni infantili. In questo caso è all'opera- come accadde a Ferenczi - un bisogno pressante diraggiungere attraverso il paziente il proprio bambinoinferiore (31). Il compito dell'analista è invece quello dimantenersi in un difficile equilibrio tra un coinvolgimentoche aiuti il paziente a riparare la sua ferita relazionale euna distanza che ne rispetti gli spazi e le esigenze, senzaconfonderle con le proprie. L'analista deve da una partelasciarsi profondamente pervadere dal mondo emotivodell'altro, poiché è da questa identificazione che può farsistrada un atteggiamento empatico capace di accompa-gnare il paziente nel suo cammino; dall'altra però devemantenere quel necessario distacco che gli consente diesperire egli stesso e far sperimentare al paziente unatteggiamento metaforico nei confronti di ogni contenutoemozionale e immaginale emerso nel setting. Scivolandonelle proiezioni del paziente, incarnandone transitoria-mente le immagini inferiori, l'analista da corpo ad antichifantasmi, ma sottolineandone il valore metaforico aiuta ilpaziente a liberarsi dal dominio di modelli inconsci dicomportamento. Il muoversi su questo difficile crinale ri-chiede perizia e grande libertà inferiore, senza poter maigarantire dal rischio di dolorose cadute. Ma ingessare lapropria libertà e il proprio sentire per paura degli errorirappresenta un pericolo altrettanto grave per il paziente,che si trova in tal caso escluso da una possibile esperien-

(31) Cfr. A. Carotenuto, Lanostalgia della memoria. Ilpaziente e l'analista, Milano.Bompiani. 1988. pp. 196-203.

za di autenticità, spesso la prima della sua vita. La paurae la rimozione del desiderio dell'analista finiscono perdiventare anche il fertile terreno su cui prima o poiattecchiscono diverse forme di agito. Qui l'eros variamen-te vissuto rivela una difficoltà e una ricerca di relazione,una sofferenza profonda che attiene all'area dei senti-menti. Tuttavia per molti analisti è più facile cogliere ilfantasma di questo agito all'interno dell'operato altrui,piuttosto che riconoscerlo quale possibilità latente in sestessi, con un noto meccanismo di scotomizzazione eproiezione dell'Ombra. Chiudere gli occhi di fronte allarealtà, ripararsi dietro il divieto analitico, dietro il tabùdell'incesto non consente di elaborare un problema cheritorna con drammatica evidenza all'interno di tutta lastoria della psicologia del profondo. Se il divieto dell'agitorimane indiscutibile perché possa parlarsi di terapia, essonon può essere soltanto delineato dall'esterno. Ciò cheviene chiesto al terapeuta è la capacità di vivere sullapropria pelle questo divieto, di lasciare che facciaautenticamente parte di sé, comprendendo e accettandola necessità della rinuncia a soddisfare concretamente ilproprio coinvolgimento con il paziente. Se la capacitàdell'analista di riconoscere i propri sentimenti. senzaagirli, apre la via a un autentico incontro con il paziente;l'occultamento e la negazione di questi sentimentiscavano una sorta di nicchia con cui l'analista sbarra lastrada non solo alla propria presa di coscienza, ma anchea quella del paziente, costretto a vivere un'esperienza diinautenticità.Come il mito di Jung, il mito di Ferenczi, con le sue luci ele sue ombre, è dunque all'origine di una prassi clinicaimprontata alla ricerca di soluzioni personali, aderenti allediverse situazioni cliniche. È all'origine di una metaforacapace di rivedere profondamente se stessa e il propriocalarsi nella terapia, capace di assumere un atteggia-mento autocritico. È questo il senso anche dei miei scrittie delle storie cliniche narrate nei miei libri che non na-scondono rischi, errori e difficili sentieri di rapporto dovel'incontro con il paziente viene vissuto all'insegna delcoinvolgimento. In questo coinvolgimento si celano tantogli aspetti luminosi e vincenti, quanto quelli oscuri e per-

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denti di una prassi clinica che, se da una parte èimprontata al superamento dell'ostacolo, dall'altra fa do-lorosamente i conti con le ferite da cui è segnata lacapacità di relazione dell'analista. È qui che si giocaanche il problema delle regole. Mentre appare natural-mente semplice rispettare queste regole nel momento incui il paziente è sentito lontano dal proprio mondo emo-tivo e la sua storia non riesce a parlare all'anima dell'ana-lista, più difficile e sofferto è il loro mantenimento quandoinvece egli è riuscito a toccare una zona dolente di que-st'ultimo. Si corre allora il rischio che la capacità di valu-tare la situazione terapeutica, adeguandola ai bisogniprofondi del paziente, possa venire oscurata dall'attiva-zione nell'analista di aspetti inconsci che egli non riescepiù a gestire in maniera equilibrata. Solo guardando in-dietro a quelle storie in cui questo rischio è stato vissuto,è possibile cercare di capire.Nell'incrociarsi di due esistenze, quella dell'analista equella del paziente, che portano sofferenze simili, il peri-colo di coinvolgimenti e collusioni nevrotiche rimane alto,nonostante la lunga analisi a cui il terapeuta si è sottopo-sto prima di intraprendere la sua professione. Valutarequeste storie e dare loro un significato appare un'impresaestremamente difficile sia per il paziente, sia per l'analistache non può non chiedersi quanto sia stato effettivamen-te in grado di aiutare l'altro a percorrere un cammino dicrescita. In parte oscuro, attraversato dal dubbio, il sensodi queste storie sta nella necessità di sperimentare, spes-so dolorosamente, parti ignorate della propria anima, dicontattare quel bambino ignorato che vive dentro di sé,nel tentativo di procedere nel proprio cammino di matura-zione e trasformazione. È forse questo significato oscuroa velare di mistero incontri analitici che non si lascianodecifrare da osservatori esterni. Lontana da rassicuranticertezze, la terapia diventa allora un luogo capace dicurare, ma anche di ferire profondamente i due partner.Spesso solo il tempo e il quietarsi di emozioni intensepossono far comprendere quanto una trasgressione siastata legata a una metafora di vita o invece a una dimorte; se essa abbia veramente cercato di accogliere leesigenze del paziente, aiutandone la crescita, o se al

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contrario abbia soddisfatto soltanto i bisogni dell'analista ele parti nevrotiche del paziente.L'attenta valutazione di ciò che accade nel setting, chepresuppone un costante interrogarsi del terapeuta sulproprio operato, non va tuttavia limitata alle modiche dellatecnica, perché riguarda anche il suo ferreo mantenimentoentro una linea di ortodossia. Anche in questo casobisogna chiedersi cui prodest, a chi effettivamente giova ilcomportamento tenuto in una data situazione. Valutato daquesta prospettiva il problema della tecnica appareinfinitamente complesso e non risolvibile una volta pertutte. Ciò rende la terapia un percorso inquieto, segnatonon solo dalla sofferenza del paziente, ma anche daquella dell'analista che non può ogni volta esimersi dalchiedersi se la soluzione di quel caso non avrebbe potutoessere un'altra. Per questo motivo la terapia è sempreuna «terapia inquieta» (32) che talora imbocca stradecompletamente diverse da quelle tracciate dagli altri,esponendosi in questa scelta al rischio di una grandeamarezza e disperazione. Credo che il mio mito personalesi incarni appunto in una metafora terapeutica segnatadall'inquietudine, da scelte in cui successi ed errori pos-sono, sia pure con sofferenza, essere riconosciuti, neltentativo di trovare soluzioni migliori, soluzioni che si le-gano però alla particolarità di ogni singolo rapporto ana-litico.

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(32) A.Carotenuto, «Laterapia inquieta», in Rivistadi Psicologia Analitica, 36,1987.