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Antonio Putini

EspErimEntidi dEmocrazia

i bilanci partecipativi in italia

PrefazioneGiovanni Allegretti

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Copyright © MMXIARACNE editrice S.r.l.

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(06) 93781065

isbn 978–88–548–3714–0

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 2011

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A quell’esempiodi dignità, tenacia, forza

e amore: ai miei genitori.

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare tutte quelle persone che hanno contribuito a trasformare una semplice idea in un lavoro compiuto: Erica, Enrico, Walter e Pierpaolo, che mi hanno accolto e introdotto così calorosamente nelle realtà comunali scelte come casi di studio; ogni persona intervistata, che con pazienza ha ceduto il suo tempo e aperto parte della sua memoria a uno sconosciuto; Paola, vulcano di idee e attenta lettrice delle bozze di questo libro; Giovanni Allegretti, a cui sono particolarmente debitore quale insostituibile fonte di stimoli ed esempi, a lui va la mia più profonda stima personale, prima ancora che professionale.Un ringraziamento doveroso all’Università della Calabria, che ospitandomi negli anni di dottorato, ha reso materialmente possibile questa impresa. Desidero inoltre ringraziare la professoressa Arianna Montanari, per la fiducia riposta in chi scrive, e i continui “punzecchiamenti” affinché prendessi il coraggio di rendere pubblici i miei pensieri.Infine, un ringraziamento speciale a Manuela. Senza la sua presenza, il suo supporto e la dolce energia che i suoi gesti suscitano in me quotidianamente, questo studio non si sarebbe mai trasformato in autentico libro.

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Indice

Prefazione p. 9di Giovanni Allegretti

Introduzione p. 15

I. Democrazia e PostdemocraziaLa crisi delle democrazie contemporanee

1. Il primato della liberal-democrazia: evoluzione e consolidamento del modello rappresentativo, p. 25. - 2. I paradossi della liberal-democrazia: l’emergere del paradigma postdemocratico, p. 36. - 3. Individualismo e democrazia di mercato: il modello neoliberista, p. 51. - 4. Sulla qualità dei regimi democratici, p. 57.

II. Democrazia Partecipativa e DeliberativaAspetti teorici e strumenti empirici per un recupero della qualità democratica

1. È possibile democratizzare la democrazia?, p. 71. - 2. Fra liberalismo e comunitarismo: la teoria partecipativa della democrazia, p. 77. - 3. Verso la deliberazione: la concezione partecipativa di Benjamin Barber, p. 94. - 4. Innovazione dei metodi decisionali della democrazia: le teorie deliberative, p. 102. - 5. Dalla teoria alla pratica: le arene deliberative, p. 111. - 6. Perché il Bilancio Partecipativo, p. 120.

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III. I Bilanci PartecipativiCaratteristiche, obiettivi, origini ed evoluzione

1. Definizioni e caratteristiche dello strumento, p. 125. - 2. L’esperienza di Porto Alegre: origini e caratteristiche, p. 130. - 3. I Bilanci Partecipativi nel contesto Sudamericano, p. 144. - 4. I Bilanci Partecipativi in Europa, p. 158.

IV. Cosa succede in Italia?Democrazia, democratizzazione e pratiche partecipative

1. Breve excursus sulla qualità della nostra democrazia, p. 171. - 2. I Bilanci Partecipativi in Italia, p. 181. - 3. I casi studiati, p. 197. - a. Grottammare, p. 203 - b. Modena, p. 210. - c. Novellara, p. 217. - d. Priverno, p. 222.

V. Esperimenti di democraziaPratica dei Bilanci Partecipativi

1. La dimensione partecipativa, p. 229. - 2 La dimensione deliberativa, p. 246. - 3. Fattori esplicativi, p. 263. - 4. Gli effetti del Bilancio Partecipativo, p. 280.

Conclusioni p. 295

Appendice metodologica p. 307Bibliografia p. 317

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Prefazione

E se per la maggioranza dei cittadini fosse “strategico” ciò che per molti professionisti della politica o della gestione del territorio è considerato “secondario”? È realmente pensabile che esistano categorie di decisioni urbane “oggettivamente” più importanti delle altre? E più importanti per chi? Non staremo per caso confondendo una questione di “scala” (lo strategico come ambito che tocca interamente un territorio e decide delle sue questioni di struttura) con una questione di “intensità” della democrazia? Non dovremmo forse accettare che la qualità del-la vita (e degli spazi che ospitano la quotidianità) sia per alcuni cittadini la maggiore motivazione a occuparsi di politica e terri-torio, anche accettando che il “resto” (quello che chiamiamo le “grandi scelte strategiche”) resti legato alla discrezionalità de-cisionale dei rappresentanti eletti?

La lettura di questo libro che Antonio Putini ha tratto (con un’opera di forte rielaborazione del linguaggio e della struttura) dalla sua tesi di dottorato ha reso esplicite in me tutta una se-rie di domande latenti che da anni attraversano i miei pensieri quando lavoro o rifletto sulle diverse esperienze di democrazia partecipativa in cui sono direttamente coinvolto come consulen-te o valutatore. Il fattore scatenante di questa pioggia di doman-de sta in un fattore “di struttura” del libro: ossia la centralità che lo sviluppo del testo lascia alle “percezioni” dei diversi attori coinvolti nei percorsi partecipativi che analizza.

In un’epoca in cui si moltiplicano fattorialmente in tutto il pianeta le esperienze di processi di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte riguardanti il loro territorio, l’autore di questo libro ha compiuto al-cune scelte importanti, su cui può valere la pena soffermarsi.

La prima sta nell’aver investito su un tema che è molto tratta-to in ambito teorico come anche attraverso monografie di singo-li studi di caso, scegliendo l’ottica comparativa. L’autore spiega, infatti, l’importanza che riveste per lui l’opportunità di verifi-

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care alcune ipotesi sul funzionamento e gli esiti virtuosi di al-cuni processi partecipativi, a partire da una lettura trasversale di più percorsi che si sviluppano in contesti socio-territoriali diversi sulla base di principi comuni.

La seconda scelta interessante è quella di appuntare l’atten-zione sui “punti di contatto”, le “sovrapposizioni” e le “zone grigie” esistenti tra percorsi partecipativi e arene deliberati-ve, generi che (seppur indubbiamente affini per il fatto di of-frire un complemento alle procedure tipiche della democrazia rappresentativa “pura”) sono sovente trattati dalla letteratura come categorie frutto di logiche quasi “escludenti”, lette più nelle loro differenze inconciliabili che non nelle loro somi-glianze potenzialmente cumulabili.

La scelta dei Bilanci Partecipativi come “prisma” e occa-sione per leggere questi due temi pare assai opportuna. Spe-cialmente in un momento in cui la crisi economico-finanziaria che – dal 2008 – è andata a comporsi con le crisi sociopoliti-che già in atto in un contesto globalizzato sempre più ottene-brato da logiche individualistiche, rende necessario guardare alle differenti scale dell’economia (a partire da quella a noi più vicina, dei territori di residenza e lavoro) con occhi nuovi. Os-sia come ad un ambito che ha a che vedere con “scelte” (che potrebbero quindi essere diverse da quelle che vengono spesso compiute) e non come a uno spazio di fenomeni ineluttabili a cui dobbiamo forzatamente assoggettarci.

In tal senso, Antonio Putini – nel giustificare la scelta dei Bilanci Partecipativi come oggetto privilegiato del suo studio – pare riconoscerli quasi come una cartina di tornasole per testare non tanto (o non solo) le capacità adattive dei modelli partecipativi alla natura peculiare di ogni territorio, ma so-prattutto per leggere la natura adattiva della democrazia tout court e la sua capacità di essere “evolutiva” e accrescere gra-dualmente la sua inclusività e il suo grado di intensità.

Come suggerivo prima, una terza scelta interessante che l’au-tore di questo libro ha compiuto riguarda proprio l’attenzione dedicata al tema delle diverse “percezioni” che della democra-

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zia hanno i vari attori che interagiscono all’interno dei processi partecipativi descritti, nella convinzione che la possibilità delle nostre democrazie di crescere di intensità non sia solo conseguen-za di “fatti oggettivi” (la volontà politica che anima i diversi per-corsi partecipativi, la loro architettura, le relazioni costruite con il contesto politico-sociale e territoriale, il loro impegno nel darsi forme capaci di produrre efficienza ed efficacia, ecc.) ma è anche il frutto della capacità di attivare nuove visioni e nuove letture della politica, contribuendo con i “fatti” a modificare la perce-zioni di concetti complessi quali la legittimità, la trasparenza, la fiducia reciproca tra cittadini e istituzioni. L’autore non si assenta mai dalla scena, ma spesso lascia spazio a voci, pareri e visioni di molti di coloro con cui ha collaborato per esaminare i 4 casi sele-zionati, rendendo il testo più vivace e plurale.

È riguardo alla selezione di questi casi, che va – infine – ri-levata un’ulteriore scelta interessante di Antonio Putini. I crite-ri esposti per giustificare le scelte dei percorsi partecipativi da analizzare portano, infatti, il giovane ricercatore romano a con-centrare l’attenzione su casi già oggetto di altre analisi (come quello di Grottammare), mettendoli a contrasto con due novi-tà assolute per la letteratura prodotta in Italia, come i casi di Priverno (la prima esperienza di Bilancio Partecipativo com-piutamente strutturata dentro una coalizione politica vicina al centrodestra) e di Modena. Quest’ultimo – a motivo della sua brusca interruzione al culmine del suo successo – viene analiz-zato e interpretato con curiosità e competenza, producendo un piccolo trattato che si potrebbe ironicamente definire di “socio-logia patologica”. Ed è vero che in quest’attenzione per un Bi-lancio Partecipativo di riconosciuto successo, ma “morto” pre-maturamente, Antonio Putini precorre una serie di nuovi per-corsi di analisi che si stanno sviluppando di recente (soprattutto in Brasile e Portogallo) proprio in funzione dell’alta volatilità e fragilità di alcuni processi partecipativi. Esaminare a posteriori (2 o 3 anni dopo la sua interruzione) un percorso partecipati-vo non è per nulla semplice, come l’autore mostra chiaramente nell’esporre le sue difficoltà dovute alla “sparizione” di molti

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attori o alla “memoria distorta” che avvolge eventi passati di alto valore emozionale e un percorso partecipativo innovatore come quello modenese.

Tentare una simile operazione resta, comunque, una sfida importante, perché capire le ragioni di una “scomparsa inatte-sa” può aiutare a elaborare strategie e “muri di contenimento” che aiutino esempi ancora vitali a evitare un destino simile. E non si tratta solo di questo, ma anche di evidenziare l’esi-stenza di principi sperimentati con relativo successo e ancora diffusamente percepiti come strutturalmente validi, a dispet-to della scomparsa del processo per ragioni “congiunturali”. In tal senso (tra i numerosi Bilanci Partecipativi scomparsi in Italia nell’ultimo triennio, dopo l’esplosiva fioritura degli anni tra il 2005 e il 2008) la scelta di Modena ha un alto grado di significatività. E specialmente nel 2010, anno che ha visto na-scere a Modena diversi processi partecipativi ben strutturati, che hanno ricevuto critiche e confronti dispregiativi da parte di una fetta non secondaria della cittadinanza modenese, il cui termine di paragone era quasi sempre il percorso di Bilancio Partecipativo sperimentato fino al 2008.

Relativamente alla scelta dei casi presi in analisi da que-sto libro, merita un’ultima considerazione, che riguarda un ele-mento che – come ho avuto modo di sottolineare nello studio comparativo sui Bilanci Partecipativi in Europa scritto con il collega francese Yves Sintomer e pubblicato nel 2009 anche in Italia – rende il nostro paese quasi unico nel panorama mon-diale. Si tratta del contributo offerto dai Bilanci Partecipativi municipali a una lettura e a una riproduzione “frattale” di al-cuni principi del BP ad altre scale amministrative. Putini ac-cenna appena al tema, soprattutto nel caso di Grottammare (e delle politiche partecipative messe in opera a livello della Pro-vincia di Ascoli dall’ex-sindaco Massimo Rossi), di Priverno (che ha interagito con alcune politiche innovative della Regio-ne Lazio nel mandato 2005-2009) e di Modena, che ha influen-zato in maniera diretta una quindicina di altre città emiliano-romagnole (e persino la Provincia di Bologna) grazie a mec-

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canismi supra-comunali di interazione continua tra le strutture politiche e tecniche di molte città.

Il fatto che il tema dello “scaling up” (o della creazione di un “indotto”, o di una “spinta propulsiva”, secondo le diverse defi-nizioni che Putini usa) non sia approfondito nel testo non lo ren-de meno importante. Tanto più in un momento in cui altri casi (come il Bilancio Partecipativo di Arezzo, in Toscana, o il caso dello Stato del Rio Grande do Sul dopo le elezioni dell’autunno 2010 che hanno visto trionfare come governatore l’ex-sindaco di Porto Alegre Tarso Genro) mostrano capacità di attivarsi come “ponti” per favorire il diffondersi di sperimentazioni che si mol-tiplichino in ambiti territoriali più vasti, grazie a una stretta re-lazione dei comuni con politiche portate avanti da (o insieme a) enti di area vasta.

Del resto, uno dei pregi di questo libro, è quello di lanciare e sug-gerire temi e “linee di fuga” che vanno oltre il libro stesso, stimo-lando creativamente la curiosità del lettore. Un tale pregio autorale si somma al nitore e alla chiarezza (doti rare in chi analizza una let-teratura tanto articolata e contraddittoria) che contraddistinguono la parte più teorica che apre il libro, nonché alla capacità lungimirante di leggere le positività di un percorso partecipativo anche attraverso le sue dichiarate “imperfezioni” e le “incoerenze” che lo separano dal modello teorico a cui dice di ispirarsi.

Senza dubbio, tali doti che contraddistinguono questo libro, lo rendono facile da leggere e appassionante, permettendogli di entrare costantemente in dialogo con il lettore. L’interazione che si crea tra il libro e i suoi destinatari lascia alcune certezze e un cauto ottimismo (riflesso di quello dell’autore) sui destini della qualità della nostra democrazia, almeno a livello locale.

Ma apre anche una serie di dubbi, che meritano di essere af-frontati per il futuro. Il primo dei quali è senza dubbio questo: gli “esperimenti di democrazia” su cui il libro di Antonio Putini si sofferma, a partire dal suo titolo, sono reali “esperimenti”? Sono cioè esaminati e monitorati dai loro estensori con il fine di farli migliorare e maturare nel tempo (rendendo possibile la loro continuità e/o il fiorire di altri esempi consimili altrove), o

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restano appena delle mere “esperienze”, che investono energie e capitale sociale, ma non si danno la pena (o non hanno la for-za) di monitorarsi e auto-valutarsi?

Se la risposta – come sospetto io dopo questa lettura – si avvicina più alla seconda ipotesi, è proprio per chi fa ricerca in Italia che si apre un nuovo grande “campo di responsabili-tà”, ossia quello di seguire, accompagnare e offrire la propria capacità valutativa a simili esperienze, attraverso forme di ri-cercazione interessate a contribuire alla valorizzazione delle capacità auto-evolutive di simili “esperimenti”…

Senza dubbio, con questo libro, Antonio Putini ha offerto – con passione, umiltà e competenza – un primo valido contribu-to per iniziare a mettere in pratica una simile collaborazione.

Giovanni Allegretti

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Introduzione

Affrontare un discorso sulla democrazia e sulla qualità de-mocratica, intendendo con tale espressione l’intensità con la quale trovano attuazione i suoi principi essenziali, significa aver presente che gli standard massimi di un simile regime politico sono da concepire in senso ideale, e che quindi tutti gli esempi riconducibili a questo genus si porranno lungo un continuum senza mai poterne raggiungerne l’estremo più virtuoso.

Partendo da un simile presupposto un numero crescente di studiosi ha rilevato però come, dagli anni Settanta del XX se-colo, i sistemi democratici occidentali si siano avviati lungo una parabola discendente: Colin Crouch sostiene ad esempio che le attuali democrazie presentano numerosi paradossi, fra i quali quello più evidente è dato dal contrasto fra l’estendersi della dimensione quantitativa (numero degli stati da ascrivere nell’in-sieme democratico) e il contrarsi di quella qualitativa, riferita invece alla correlazione fra dimensioni normativo - prescrittive e caratteristiche effettive di tali regimi (Crouch, 2003).

Si deve peraltro sottolineare che questa analisi non provie-ne unicamente da studiosi che adottano posizioni critiche nei confronti del primato del paradigma liberal-rappresentativo: sono infatti gli stessi esponenti delle teorie liberali e pluraliste a guardare con preoccupazione al deficit qualitativo delle demo-crazie contemporanee, auspicando lo sviluppo e l’ampliamento di una serie di misure in grado di colmare tale deficit.

Norberto Bobbio, già a metà degli anni Ottanta, descriveva la distanza fra presupposti teorici e realizzazioni empiriche dei re-gimi democratici in termini di “promesse non mantenute”, indi-viduando un insieme di argomenti nati nel corso dell’evoluzione della democrazia liberal-rappresentativa che non avevano trovato risposta dal punto di vista della “rozza materia”, come lui stesso la definiva, ovvero dell’applicazione reale (Bobbio, 1984).

A queste mancanze, a questi iati fra teoria e realtà, se ne de-vono aggiungere altri, quali ad esempio la rinuncia alla rappre-sentanza politica delle minoranze fatta in nome del principio di

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stabilità dei governi, della cosiddetta “governabilità” (Canfora, 2007), e la presenza di un potere burocratico capace di imbri-gliare l’autonomia di quello politico.

In modo analogo Dahl evidenzia come, soprattutto nelle democrazie mature, si assista a un paradosso in base al quale i cittadini, pur mantenendo una profonda fiducia nel sistema de-mocratico generalmente inteso, si dimostrano sempre più cri-tici nei confronti delle sue istituzioni chiave, quali ad esempio i parlamenti (Dahl, 1999).

Concorde con l’affermarsi di questo modello regressivo di democrazia sembra essere anche Alain Touraine, il quale sostie-ne che, negli ultimi anni, la democrazia si stia riducendo a un mero insieme di procedure istituzionali. Quello che sembra es-sere un trionfo celebrativo delle vittorie della democrazia, pro-segue Touraine, spesso non è altro che la sostituzione di regimi dirigisti con mercati politici concorrenziali (Touraine, 2002).

Le democrazie consolidate sembrano dunque avviate verso un modello post-democratico nel quale le procedure rimango-no sostanzialmente inalterate, mentre la politica e i governi ce-dono terreno in favore di élites privilegiate, con la conseguente perdita di attrattiva nei confronti di argomenti come quelli, ad esempio, dell’egualitarismo.

In questo modello, anche se le elezioni continuano a te-nersi, condizionando in qualche modo l’operato dei governi, il dibattito elettorale è saldamente controllato e indirizzato su un ristretto numero di questioni selezionate da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione.

In un simile contesto la partecipazione dei cittadini si trova a svolgere un ruolo di secondo piano, limitandosi il più delle volte a reagire agli stimoli necessari al mantenimento del si-stema politico. Le funzioni principali della democrazia vengo-no perciò definite all’interno di uno spazio che poco ha a che vedere con quella dimensione pubblica entro la quale dovreb-bero essere espletate, procedendo invece mediante interazioni fra i governi eletti e le élites economiche e finanziarie.

La descrizione del modello post-democratico presenta nu-

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merose affinità con i contenuti della corrente più radicale del liberalismo, emersa nel corso degli anni Settanta negli Stati Uniti: il neoliberismo.

Alla luce di quanto affermato dal paradigma neoliberista, allo stato è riservato un ruolo minimo che lo trasforma in una sorta di “agenzia protettiva” i cui compiti consisterebbero uni-camente nel tutelare l’individuo contro la forza, la frode, il fur-to e la violazione dei contratti; qualsiasi misura pubblica che miri a promuovere l’uguaglianza mediante criteri redistributi-vi è interpretata perciò come una lesione dei diritti individuali di quei soggetti sui quali ricadrebbero i costi di tale azione.

Le conseguenze dell’applicazione di tali assunti hanno deter-minato però risultati non certo brillanti, come dimostra l’analisi di ciò che avvenne alla città di N.Y. dopo che le autorità politiche decisero per la prima volta di attuare una gestione improntata sugli schemi neoliberali: nel giro di pochi anni, afferma Har-vey, gran parte dell’ “infrastruttura sociale” della città risultò indebolita mentre le infrastrutture fisiche (come ad esempio il sistema metropolitano) subirono un evidente deterioramento per mancanza di investimenti. Il governo della city acquisì un carat-tere sempre più imprenditoriale e la competizione per attrarre capitali lo trasformò in una governance urbana costituita dalla commistione tra pubblico e privato. In questo modo “l’attività economica della città venne sempre più portata avanti a porte chiuse, mentre i contenuti democratici e rappresentativi del go-verno locale si indebolivano” (Harvey, 2007).

Una simile analisi può essere applicata a quanto accaduto nel corso degli anni novanta in Argentina, passata da icona globale dei successi derivanti dall’applicazione in campo eco-nomico e sociale delle dottrine neoliberiste, a esempio cata-strofico di un default dal quale stenta ancora, dopo circa un decennio, a risollevarsi.

L’adattamento verso forme minime di democrazia rette da logiche economiche derivanti dagli assunti neoliberali, com-porta dunque l’acuirsi di quegli effetti disastrosi in termini so-ciali e culturali (quali la mercificazione di ogni aspetto della

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vita degli individui, la distruzione dei riferimenti culturali, lo sgretolamento degli orizzonti collettivi) che già a metà del se-colo scorso Karl Polany evidenziava nella sua ricostruzione storica, economica, politica e sociale riferita al fenomeno del libero mercato in grado di autoregolarsi, iniziatosi a manife-stare nel corso del XIX secolo e proseguito nei primi decenni del XX (Polany, 1974).

L’ipotesi da cui muove il presente lavoro è che attraverso l’introduzione di strumenti che siano al contempo partecipa-tivi e deliberativi, e che vengano destinati alla formulazione delle decisioni pubbliche, si possano creare i presupposti per un innalzamento generale della qualità dei regimi democratici, in modo tale da ristabilire in questi sistemi politici la centralità del ruolo del cittadino, con i suoi diritti, i suoi bisogni e i suoi aneliti di libertà e uguaglianza di opportunità.

I teorici della partecipazione e gli esponenti delle teorie de-liberative asseriscono infatti che ridurre il gap qualitativo del-le democrazie è possibile a patto di introdurre strumenti che consentano una partecipazione reale dei cittadini e un tipo di interazione politica in grado di ridurre la frammentazione de-gli interessi così da determinare decisioni in grado di ottenere un più alto grado di consenso.

Le loro tesi trovano spazio in un paradigma che potremmo definire ibrido, a metà strada fra il modello diretto e quello rappresentativo della democrazia.

Gli autori ai quali è rivolta la nostra attenzione, si dimostra-no infatti tanto sostenitori della necessità di un maggior atti-vismo da parte dei cittadini per quel che attiene alla gestione della “cosa pubblica”, quanto consapevoli del fatto che, a par-tire da un certo livello territoriale e demografico, il ricorso a meccanismi rappresentativi risulti inevitabile.

L’obiettivo che accomuna i rappresentanti del filone parte-cipativo, azzardando una metafora, è quello di tentare una dif-ficile quadratura del cerchio, inserendo meccanismi di mag-gior coinvolgimento politico diretto all’interno di un quadro democratico sostanzialmente rappresentativo.

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Contemporaneamente, l’analisi dei teorici della democrazia partecipativa evidenzia la particolare importanza dei contesti territoriali e istituzionali di natura locale ai fini del raggiungi-mento di una buona democrazia, richiamandosi in questo senso al pensiero di autori classici quali J.J. Rousseau e Tocqueville.

Carole Patenam dimostra, ad esempio, come la partecipa-zione possa contribuire non solo a dare stabilità all’organizza-zione in cui viene introdotta, ma anche a garantirne una mag-giore efficienza e un incremento delle qualità individuali in coloro che si attivano in questi processi, recuperando in questo modo quella dimensione partecipativa estromessa dai sosteni-tori delle teorie élitiste.

Analizzando le opere di Rousseau, J.S. Mill e G.D.H. Cole, l’autrice di Participation and Democratic Theory affida alla partecipazione tre funzioni fondamentali a livello teorico (Pa-tenam, 1970): la prima è di natura educativa nel momento in cui, partecipando alle decisioni pubbliche, l’individuo acquista le capacità necessarie non solo a comprendere il funzionamen-to alla base dei meccanismi di governo del sistema politico in cui vive, ma, cosa ancor più importante, a realizzare quanto interessi personali e necessità pubbliche siano fra loro legati. In questo modo l’individuo impara ad essere un buon cittadi-no, sia rispetto alla sua dimensione pubblica sia nei confronti della sfera privata. Questa crescita a livello psicologico con-tribuisce inoltre, sulla scia delle tesi di Rousseau, a garantire il perseguimento di una reale libertà attraverso il controllo e la possibilità di plasmare, mediante la partecipazione, le deci-sioni politiche: solo quando si è in grado di essere padroni di se stessi (ovvero di perseguire regole alle quali si aderisce per libera scelta) può dirsi raggiunto il massimo grado di libertà. Tesi quest’ultima che rievoca in modo pressoché identico, nei contenuti, quanto dichiarato e argomentato da Kant nelle sue spiegazioni sull’illuminismo.

La partecipazione comporta anche, volendo citare J.S. Mill, che una società o un’organizzazione caratterizzata da una sua forte presenza riesca a generare un corrispondente grado di

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integrazione sociale, poiché grazie alla partecipazione l’indi-viduo acquista un forte senso di appartenenza alla comunità.

Ultima, ma non meno importante, è la funzione di legitti-mazione e stabilità che le azioni partecipative possono assicu-rare sia nei confronti delle decisioni collettive prese attraverso tali processi che del sistema politico nel suo complesso: parte-cipando al processo decisionale un individuo è disposto infatti ad accettarne l’esito indipendentemente dalla corrispondenza fra quest’ultimo e le sue preferenze iniziali.

La partecipazione degli individui nelle questioni politiche di una comunità conduce poi a una diversa modalità nel decli-nare il concetto di cittadinanza. Se nella teoria liberale essa è caratterizzata infatti da un rapporto verticale che lega indivi-duo e governo, nel modello democratico partecipativo propo-sto, ad esempio, da Benjamin Barber, si configura come un le-game orizzontale fra gli stessi individui che danno vita a una comunità: l’effetto che ne deriva è quello di aumentare, in un ciclo virtuoso scaturito proprio dalla partecipazione, quel le-game di appartenenza che unisce ogni cittadino al suo conte-sto sociale e territoriale (Barber, 1984).

Le teorie deliberative della democrazia, a loro volta, posso-no essere interpretate in prima battuta come una sottoclasse, o meglio, una prosecuzione espressa in termini formali e proce-durali che porta al perfezionamento e al compimento del para-digma partecipativo (Gbikpi, 2005).

Ma il modello deliberativo può anche rappresentare, se visto da un diverso punto di vista, un corpo teorico che intende andare oltre la mera evoluzione di questo sistema: esso rappresenta, in questo senso, quella che potremmo definire la “terza via” all’interno della dicotomia fra modello liberale e modello partecipativo.

L’importanza della discussione e del dibattito pubblico ven-gono riconosciute tanto nel primo quanto nel secondo: la tra-dizione liberal-rappresentativa e quella partecipativa concor-dano entrambe infatti sulla centralità, per un sistema politico democratico, dello sviluppo di un’opinione pubblica informata e consapevole, in grado di esprimersi attraverso giudizi costru-

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iti razionalmente e non invece mediante pregiudizi derivanti da distorsioni emotive, culturali o legate a determinate appar-tenenze politiche.

Lo scopo dei teorici della partecipazione è stato però es-senzialmente quello di rivalutare l’attivismo e l’inclusione po-litica all’interno dei sistemi democratici liberali per corregger-ne i tratti che avevano condotto, a loro parere, a un allontana-mento dei sistemi stessi dall’ideale normativo di questa forma di governo. Dimostrando come la partecipazione migliori non solo le caratteristiche dei singoli individui, ma anche quelle del sistema stesso, i partecipazionisti hanno affrontato importanti questioni, come quella della distribuzione del potere e quella non meno decisiva dei rapporti fra sfera economica e sfera po-litica, avanzando critiche alle teorie élitiste mediante prove e argomenti che ne mettevano in discussione gli assunti e ne di-mostravano gli squilibri sempre più evidenti causati dalle con-seguenze dell’applicazione de loro paradigma (Patenam, cit.).

I teorici della deliberazione partono da una posizione criti-ca simile a quella dei sostenitori dei modelli partecipativi, ma si concentrano su una specifica modalità attraverso la quale i miglioramenti auspicati diventano possibili: quella del dibatti-to e della discussione pubblica (Vitale 2006).

Attraverso la ricerca di una forma ottimale di interazione si perviene infatti al modello deliberativo quale modalità dotata delle caratteristiche più idonee al perseguimento degli obiet-tivi fondamentali delineati dalla teoria partecipativa: ugua-glianza sostanziale nell’accesso ai meccanismi partecipativi e alla produzione delle decisioni pubbliche, sviluppo cognitivo dell’individuo, accrescimento del senso di appartenenza a un gruppo sociale, sviluppo dello spirito civico, ricerca del con-senso, creazione di una cittadinanza attiva, incremento dell’ef-ficacia e dell’efficienza delle decisioni e, non ultimo, aumento della fiducia e della legittimità fra rappresentanti e rappresen-tati in caso di sussistenza di meccanismi di delega.

Ispirati dal concetto greco di isegoria, inteso come il dirit-to universale di uomini liberi ed eguali di parlare in assemblea

Introduzione

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22 Introduzione

(Finley 2005), i teorici della democrazia deliberativa formulano modelli nei quali il ricorso al dibattito e alla discussione pubbli-ca costituiscono l’essenza procedurale di questi sistemi politici.

L’analisi delle teorie partecipative e deliberative ci permet-te dunque di individuare alcuni strumenti introdotti nella sfe-ra politica che nascono o si sviluppano seguendo la direzione indicata da questi paradigmi, e di analizzarne gli effetti, of-frendo in questo modo la possibilità di verificare la fondatezza delle nostre ipotesi iniziali.

Dopo aver esaminato le caratteristiche di questi strumenti, e aver fornito le motivazioni in grado di sostenere le ragioni che hanno condotto a focalizzare la nostra attenzione su uno in particolare, il Bilancio Partecipativo, lo studio si addentra in una dimensione più propriamente empirica.

La terza parte dell’opera è dedicata perciò a una ricostru-zione delle origini, delle caratteristiche e dell’evoluzione dei Bilanci Partecipativi, mettendo in evidenza i risultati che, dal punto di vista della qualità democratica, hanno prodotto nei contesti locali latinoamericani.

Abbiamo poi approfondito la questione di come tali stru-menti siano stati recepiti in un contesto diverso rispetto a quello in cui hanno trovato origine (il Sudamerica): ci riferiamo alle cosiddette democrazie consolidate presenti nel continente euro-peo, dove, a partire dal 2001, un numero crescente di istituzio-ni locali ha mostrato un forte interesse e una chiara volontà di dar corso a questo genere di esperimenti partecipativi, accom-pagnato in questa scelta da un coro unanime di consensi e inviti a procedere proveniente dai vertici politici dell’Unione Europea.

Dopo questo quadro iniziale, che ricostruisce il percorso storico e politico dei Bilanci Partecipativi, il nostro lavoro si è concentrato sull’analisi di quattro casi italiani (Grottamma-re, Priverno, Modena e Novellara) che hanno aggiunto questo strumento alle tradizionali prassi di governo locale.

Lo scopo dell’analisi empirica dei casi è stato di verificare se, anche in un contesto come l’Italia, l’introduzione di stru-menti partecipativi e deliberativi potesse effettivamente incre-

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mentare la qualità della democrazia sotto i profili tratteggiati da Diamond e Morlino, ovvero dal punto di vista procedurale, contenutistico e del risultato.

Per corroborare tale assunto abbiamo dunque verificato gli effetti che l’introduzione di tali strumenti ha determinato all’in-terno del contesto socio-politico in cui vengono sperimentati.

In particolare, mediante un’analisi documentaria degli atti prodotti nelle fasi di progettazione, elaborazione, implemen-tazione e rendicontazione di questi processi, e una serie di in-terviste semistrutturate somministrate a un gruppo eteroge-neo di testimoni privilegiati provenienti dalla sfera politica, amministrativa e civile che ha preso parte alle diverse fasi dei Bilanci Partecipativi, ci siamo proposti di rilevare: la validità di quelle premesse del nostro lavoro relative allo stato di crisi della democrazia, con un particolare riguardo alle dimensioni legate alla rappresentanza e al rapporto di fiducia fra politici e cittadini; la validità delle teorie partecipative e deliberative in relazione agli effetti virtuosi determinati dall’introduzione di strumenti in grado di assicurare una partecipazione qualitati-vamente diversa all’interno dei tradizionali meccanismi poli-tici e amministrativi; la possibilità che l’introduzione di pra-tiche partecipative e deliberative determini un recupero della qualità democratica sotto il profilo delle dimensioni indicate, e quindi la possibilità di facilitare i meccanismi di accountabili-ty e responsiveness, creando i presupposti per il potenziamen-to del ruolo e delle conoscenze in capo ai cittadini (empower-ment), e innescando un ciclo virtuoso che conduca a una mag-giore stabilità, efficienza ed efficacia dei dispositivi politici e della stessa azione di governo.

Nel tentativo di fornire delle risposte in merito ai punti ap-pena richiamati, una parte della fase di rilevazione ed elabo-razione non ha potuto non tenere in considerazione i limiti di natura politica e amministrativa che l’implementazione di un Bilancio Partecipativo incontra all’interno del contesto in cui viene introdotto, e le conseguenze che tali limiti comportano ai fini della produzione di quegli effetti virtuosi che teorica-

Introduzione

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24 Introduzione

mente dovrebbero seguire all’introduzione di questo genere di pratiche (Wampler 2000 /Goldfrank 2006, a).

Abbiamo infine riservato una parte della nostra analisi alla verifica delle possibilità offerte da questi strumenti di innesca-re processi virtuosi su ampia scala, emancipandosi dunque dai contesti locali in cui abitualmente trovano attuazione.

L’interesse si è stato focalizzato quindi sulla possibilità che tali pratiche riescano a creare un indotto partecipativo capace di estendere i suoi effetti a gradi amministrativi che superano il livello comunale: importante dunque l’esaminare la capacità di questi strumenti nel creare reti orizzontali e verticali, di inne-scare pratiche partecipative e deliberative che coinvolgano, ad esempio, amministrazioni provinciali e/o regionali, dimostran-do in questo modo come la loro natura locale non costituisca un impedimento, ma possa rivelarsi, al contrario, un metodo per una democratizzazione dal basso, condotta mediante percorsi di riforma che gradualmente dimostrino la loro capacità di conqui-stare gli spazi centrali della vita politica di un paese.

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Capitolo primo

Democrazia e Postdemocrazia

La crisi delle democrazie contemporanee

1.1 Il primato della liberal-democrazia: evoluzione e consolidamento del modello rappresentativo

Nonostante le numerose modalità con le quali si è cercato da circa venticinque secoli di definire la democrazia e le for-me assunte da questo regime politico1, il nostro lavoro si apre riconoscendo esplicitamente il primato dei valori liberali e del principio di rappresentanza quali fattori determinanti per defi-nirne e ricostruirne le principali caratteristiche.

Che le odierne democrazie possano essere comprese appieno solo ricorrendo a una teoria liberal-rappresentativa, è stato del resto riconosciuto da numerosi studiosi che si sono occupati del-la loro analisi. Norberto Bobbio afferma che “stato democratico e stato liberale sono interdipendenti in due modi: nella direzione che va dal liberalismo alla democrazia nel senso che occorrono certe li-bertà per l’esercizio corretto del potere democratico, e nella direzio-ne opposta che va dalla democrazia al liberalismo nel senso che oc-corre il potere democratico per garantire l’esistenza e la persistenza

(1) Per una ricostruzione esauriente dal punto di vista storico e filosofico si rimanda a D. Held, 1996, Models of Democracy, Cambridge, Polity Press; Held, nel tentativo di ricostruire una storia del pensiero politico occidentale relativo ai regimi democratici, individua 8 modelli, alcuni dei quali, come quello Repubblicano o quello Liberale, sud-divisi in ulteriori sotto-classi. Il politologo americano aggiunge a queste ricostruzioni una sua prospettiva teorica di natura prescrittiva a sua volta distinta in due modelli, riferiti, rispettivamente, al principio di autonomia e al sistema di relazioni internaziona-li, infranazionali e sovranazionali derivante dal consolidamento della globalizzazione.

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delle libertà fondamentali”.1 Sartori vede un rapporto indissolubile fra l’emergere di questo regime e quello dello stato liberale: uno stato democratico è, dal suo punto di vista e in estrema sintesi, uno stato che si sviluppa sui principi dello stato liberale2.

Nonostante il pensiero di Sartori possa essere inserito all’interno della corrente empirico-pragmatica della democrazia, la presenza di basi normative relative a una teoria che possa essere definita esausti-va gli deriva dal riconoscimento delle tensioni ideali che da sempre caratterizzano questo regime politico, e più precisamente dalla con-statazione che “quel nome pur sempre ci occorre ad effetto normati-vo” così come che “un sistema democratico è posto da una deontolo-gia, e per questo ciò che la democrazia “è” non può essere disgiunto da ciò che la democrazia dovrebbe essere”3.

Questo appello al duplice carattere dei regimi democratici fa sì che Sartori muova le sue osservazioni all’interno di una critica rivolta sia a chi elabora paradigmi prettamente descrittivi (come ad esempio i sostenitori delle cosiddette “teorie elitiste”) sia a quegli studiosi che, rinunciando a una “descrizione dell’essere”, si prodigano nell’elaborazione di modelli interamente costruiti per rispondere alle esigenze ideali della democrazia, tentando di far-ne coincidere la prassi con la sua definizione letterale.

I primi possono essere considerati anti-democratici per la semplice ragione che, descrivendo le pratiche reali in cui si con-cretizza la democrazia, giungono, di fatto, a postularne l’inesi-stenza: un eccesso di realismo spinge, in questo caso, ad allonta-narsi dai valori costitutivi e sostanziali propri della democrazia.

All’opposto, il richiamarsi in modo ortodosso a principi ideali attraverso l’elaborazione di costruzioni teoriche da applicare inte-gralmente alla realtà, conduce, nel migliore dei casi, a una radica-le critica dei meccanismi democratici (con il risultato di minarne la credibilità) e, nel peggiore, a stravolgimenti che minacciano di

(1) N. Bobbio, 1995, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, p. 7.

(2) Vedi G. Sartori, 2006, Democrazia cos’è, Milano, Rizzoli.

(3) Ibid. p. 12.

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generare scenari opposti a quelli auspicati dalle intenzioni ini-ziali: interviene in questo secondo caso un eccesso di “perfezio-nismo ideal-razionale” fondato interamente su valori e presup-posti normativi, imponendo alla realtà adeguamenti ai quali la stessa difficilmente potrà rispondere come auspicato.

Questa necessità di una compresenza di elementi normativi e descrittivi sembra voler rappresentare la sintesi di due diver-se concezioni della democrazia che, secondo Eisenstdat, “pos-sono essere considerate complementari, ma anche in competi-zione fra loro e, per certi aspetti, addirittura contraddittorie”1: quella costituzionale e quella partecipativa.

La prima insiste sull’essenza procedurale della democra-zia, sui meccanismi che regolano l’elezione dei governanti e sulle dinamiche competitive in vista del potere politico che ca-ratterizzano i principali attori di questo gioco.

La seconda, più che orientata a produrre stabilità e certezza mediante il ricorso a regole atte ad assicurare il giusto grado di competitività all’interno del sistema politico, volge l’atten-zione al ruolo dei governati “concentrandosi sull’importanza della partecipazione responsabile dei cittadini al processo po-litico e alla fase decisionale”2.

Crediamo che nonostante la divergenza relativa alle diverse prospettive di analisi di queste due concezioni, la teoria libera-le della democrazia presenti le potenzialità per realizzarne una possibile unione. Se osserviamo infatti le condizioni che Bob-bio introduce per definire in termini “minimi”3 una democrazia, notiamo che in esse sono presenti sia richiami alla partecipazio-

(1) vedi S.N. Eisenstadt, 2002, Paradossi della Democrazia, Bologna, Il Mulino, pp. 15-26.

(2) S.N. Eisenstadt, op. cit., p. 17.

(3) In base a questa definizione una democrazia si caratterizza per i) l’attribuzione del diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla presa delle decisioni collettive a un numero molto alto di cittadini; ii) l’esistenza di regole di procedura come quella di maggioranza; iii) l’esistenza di alternative reali per coloro che dovranno decidere. Vedi N. Bobbio, op. cit., p. 6.

Democrazia e Postdemocrazia

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ne, come ad esempio l’attribuire a un numero molto elevato di cittadini il diritto di partecipare direttamente o indirettamen-te alle decisioni collettive, che condizioni appartenenti più pro-priamente al filone costituzionalista, rappresentate invece dal necessario riconoscimento di un sistema di regole procedurali, come ad esempio il criterio maggioritario, o dall’esistenza e la garanzia di alternative reali per coloro che sono chiamati a sce-gliere tramite elezione i propri rappresentanti.

L’attenzione alle procedure e il riconoscimento del primato della legge, tipico delle concezioni costituzionali, viene affian-cato in questo modello a un’attenzione al rispetto dei diritti di natura civile, politica e sociale necessari ad assicurare una piena partecipazione. Tutto ciò contribuisce a delineare per la democrazia una visione parzialmente diversa rispetto a quella presente, ad esempio, in quelle definizioni prettamente proce-durali di matrice schumpeteriana.

Per Schumpeter la democrazia non consiste in nient’altro che un “metodo mediante il quale alcune persone acquistano il potere di decidere attraverso una lotta competitiva per il voto popolare”1; definizione questa che non introduce alcun richia-mo alla dimensione normativa e che tende invece a concen-trarsi unicamente sulle funzioni strumentali proprie di questo regime. Un tentativo di mediare fra le due concezioni sopra introdotte è compiuto invece da Sartori allorché definisce la democrazia come un “meccanismo che genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale attribuisce potere al popolo, e specificamente impone la responsività degli eletti nei confronti dei loro elettori”2.

In questa definizione troviamo infatti una sintesi fra quel che abbiamo visto essere la definizione schumpeteriana di democrazia, il cosiddetto “principio delle reazioni previste” di Carl J. Friedrich nel suo Governo costituzionale e democrazia e le concezioni plura-

(1) Schumpeter, J.A., 1964, Capitalismo, Socialismo, Democrazia, Milano, Comunità, p. 269.

(1) G. Sartori, op. cit., p. 108.

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listiche sulla distribuzione del potere, con un esplicito richiamo al concetto di poliarchia introdotto da Dahl1.

Schumpeter definendo in senso procedurale la democrazia, spiega come queste forme di governo si producono; Friedrich, con il suo principio, ne illustra l’attuazione e la riproduzio-ne, postulando che gli eletti, all’interno di un contesto com-petitivo, sono quotidianamente condizionati dall’aspettativa di come gli elettori reagiranno alle decisioni che prendono; infine il concetto di “poliarchia” elaborato da Dahl richiama l’atten-zione sulla particolare distribuzione del potere presente negli attuali sistemi politici.

Sartori aggiunge al termine poliarchia l’aggettivo “aperta”, a sottolineare le possibilità di accesso ai gruppi politici dirigen-ziali e alle funzioni di governo che un regime democratico do-vrebbe garantire, per esser tale, a chiunque ambisca ad entrarvi.

Il concetto di responsivness, che possiamo tradurre sinteti-camente come la capacità di risposta dei governanti alle richie-ste dei governati, corrisponde, secondo Sartori, all’ingranag-gio che assicura il funzionamento del meccanismo democrati-co in vista dell’interesse del demos, titolare del potere politico. Questo ingranaggio è costantemente mantenuto in condizioni di efficienza mediante la competizione dei diversi gruppi poli-tici finalizzata all’esercizio del suddetto potere.

L’identità fra poliarchie elettive aperte e democrazia risulta inoltre rafforzata in termini prescrittivi affermando che in tali regimi i governanti dovrebbero superare criteri selettivi di natu-ra meritocratica. Il principio meritocratico corrisponde in que-sto senso allo strumento messo a punto dalla dottrina liberale per il perseguimento dell’ideale egualitario, ideale da concepire

(1) Con il termine poliarchia Dahl intende un governo di molti in cui lo stato e le strut-ture politiche mettono a disposizione un’arena in cui gli interessi organizzati possono entrare in contrattazione e competere sulle proposte politiche. Per un approfondimento: Dhal. R., 1961, Who governs? Democracy and power in an American city, New Haven, Yale University Press; 1990, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti; per una critica alle teorie pluraliste rimandiamo a Lukes S., 1974, Power: a radical view, London, Macmillan; Bachrach, P. e Baratz, M., Le due facce del potere, in G. Sartori, 1970, a cura di, Antologia di scienza politica, Bologna, Il Mulino.

Democrazia e Postdemocrazia

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però non in senso aritmetico (a tutti la stessa quantità) bensì se-condo criteri proporzionali. Il significato liberale del concetto di uguaglianza deve quindi essere interpretato in chiave di op-portunità, di possibilità offerte e garantite da questo regime al fine di permettere a tutti gli individui desiderosi di farlo di poter elevare le proprie condizioni di vita. In chiave politica questo principio dovrebbe dunque essere letto, come pocanzi suggerito, quale possibilità per chiunque lo desideri di essere in condizione di arrivare a poter ricoprire incarichi di governo. In sua assenza prevarrebbe invece il privilegio, vero e proprio diritto ascritto in base al quale alcuni godono di prestazioni differenziate rispetto ad altri malgrado fra i primi e i secondi non si rintraccino diffe-renze sostanziali in termini meritocratici.

Un regime democratico corrisponde dunque a quella forma di governo che permette ai membri di una collettività di sce-gliere, mediante un meccanismo elettorale attivato a scadenze certe e ripetute, coloro che saranno chiamati a prendere deci-sioni vincolanti per la collettività stessa, con la clausola speci-fica che, una volta al governo, i secondi potranno essere rimos-si da tale carica attraverso il ricorso al medesimo meccanismo.

Le principali caratteristiche delle democrazie liberal-rap-presentative sono dunque racchiuse in un insieme di concetti che tenteremo a questo punto di riassumere.

Dal punto di vista contenutistico questi regimi assicurano la libertà dei loro membri, da intendersi come autonomia indivi-duale, ovvero capacità di auto-realizzazione attraverso la garan-zia del rispetto del principio di uguaglianza delle opportunità.

Il presupposto di quanto detto, sia dal punto di vista della dimensione politica che di quella valoriale, risiede a nostro av-viso nel principio etico e filosofico espresso attraverso il con-cetto di tolleranza, che a sua volta può esser letto come una manifestazione del più ampio fenomeno cognitivo conosciuto col nome di relativismo. Questo presupposto è ben evidenzia-to da Kelsen, il quale riconosce nella tolleranza, da intende-re come “l’esigenza di comprendere benevolmente le opinioni religiose o politiche altrui anche se non condivise, e perciò di

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non impedire che possano pacificamente esternarsi”1, il valo-re alla base della dottrina relativista. La tolleranza può essere identificata, in ultima istanza, con la libertà di pensiero, giu-dicata come la prima forma di libertà, la sorgente dalla quale sgorga l’ideale democratico.

La ricostruzione in termini valoriali della democrazia for-nitaci da Kelsen e la centralità da questi attribuita al principio di tolleranza, evidenziano la rilevanza del tema relativo al rap-porto fra maggioranza e minoranza.

Tocqueville e Stuart Mill sottolinearono la fondamentale im-portanza del principio di tutela della minoranza, e della libertà di opinione a corollario di tale principio, quali strumenti di garanzia contro quella “dittatura della maggioranza” che avrebbe condotto all’abbandono del sentiero assiologico di una democrazia.

Nel rispetto per l’opinione altrui, che solo il principio della tolleranza può garantire, risiede, secondo Kelsen, il vero si-gnificato di questo sistema politico: “può essere che l’opinione della minoranza, e non quella della maggioranza, sia quella giusta… unicamente a causa di questa possibilità la minoranza deve avere l’opportunità di esprimere liberamente la sua opi-nione e la possibilità di diventare, a sua volta, maggioranza. Solo se non è possibile decidere in via assoluta cosa sia giusto o ingiusto, è consigliabile di discutere il problema e, dopo la discussione, di sottomettersi a un compromesso”2.

Questa concezione relativistica in termini filosofici corri-sponde, in termini sociali, al riconoscimento del concetto di pluralismo: gran parte della produzione sociologica del XIX secolo così come quella del XX si concentra sull’emergere di spinte alla differenziazione, alla frammentazione e alla tra-sformazione strutturale dei gruppi che compongono un insie-me sociale e che generano quella pluralità di soggetti, posizio-ni e sistemi culturali che contraddistinguono la modernità e il

(1) H. Kelsen, 1955, Democrazia e cultura, Bologna, Il Mulino, p. 171.

(2) Ibid. pp. 125-6.

Democrazia e Postdemocrazia

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suo processo storico, la modernizzazione1. Tali spinte, coniu-gate alla centralità assoluta dell’individuo e al ruolo della ra-gione come strumento analitico di conoscenza, si traducono in termini politici nella necessità di impostare su nuovi principi il rapporto fra governanti e governati.

La necessità di tutelare l’individuo da poteri arbitrari e as-soluti provenienti dalla società e dai centri politici sono alla base di un’altra delle principali caratteristiche delle democra-zie contemporanee, le cui origini vanno ricercate nelle dottrine contrattualistiche inglesi del XVII secolo.

Ci riferiamo al costituzionalismo2 definito da Friedrich come “un sistema di efficaci limitazioni dell’azione governa-tiva fondato sulla suddivisione del potere”3. Nel costituzionali-smo ritroviamo l’essenza giuridica delle liberal-democrazie di massa, essenza che si sostanzia nei meccanismi di check and balance e nel principio della rule of law: i primi consentono il controllo del potere statale in una prospettiva funzionale attra-verso meccanismi di separazione dei poteri; il secondo assicura invece la subordinazione del potere politico a un principio “im-manente”, eliminando in questo modo la possibilità di potere diretto e assoluto di uomini su altri uomini fondato su origini divine o trascendentali del potere stesso.

Questi due principi, uniti all’individuazione del popolo quale soggetto depositario della sovranità e al principio di rap-presentanza politica, contribuiscono a generare quel principio di responsabilità politica che lega le azioni del governo e dei rappresentanti parlamentari ai governati, e sulla base del quale i secondi possono destituire pacificamente i primi.

Dal punto di vista storico le liberal-democrazie si sono evo-

(1) A. Martinelli, 2004, La modernizzazione, Roma-Bari, Laterza, p. 11.

(2) Per un approfondimento sul tema del costituzionalismo si vedano: C.H. McIlwain, 1958, Constitutionalism: Ancient and Modern, N.Y., Ithaca; F. von Hayek, 1960, The Constitution of Liberty, London, Routledge.

(3) C. J. Friedrich, 1950, Constitutional Government and Democracy, Boston, Ginn & Company, p. 35.

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lute attraverso “l’estensione in ampiezza e pariteticità delle re-lazioni fra gli attori governativi e i membri della popolazione loro sottoposta, nel quadro di una consultazione vincolante di tale popolazione rispetto al personale, alle risorse e alla poli-tica di governo, unitamente a una protezione della popolazio-ne (e in particolare delle minoranze presenti al suo interno) dall’azione arbitraria dei funzionari di governo”1.

Il passaggio sull’evoluzione storica descritto da Tilly e in particolare il suo richiamo al carattere vincolante della con-sultazione della popolazione, ci permette di focalizzare l’at-tenzione sulla dimensione partecipativa della democrazia e sul ruolo che le strutture statali esercitano all’interno di questo regime: l’espansione delle relazioni fra governanti e governati, messa in atto concretamente a partire dal XIX secolo e pro-seguita attraverso le varie tappe che hanno di volta in volta ampliato il numero di individui ai quali venivano riconosciuti i cosiddetti diritti politici, ha modificato progressivamente la forma di stato, contribuendo in parte ad allontanarla dall’ideal-tipo primigenio contenuto nella teoria liberale, ma rappresen-tando dall’altra la naturale evoluzione di quei principi ricono-sciuti per primi da questa stessa teoria.

Nel XIX secolo la cittadinanza, nell’aspetto relativo alla titola-rità dei diritti civili, aveva assunto una dimensione universale, ma i diritti politici, in quanto appannaggio di una categoria ristretta, non vi rientravano pienamente. Ciò nonostante, sottolinea Marshall, la cittadinanza riconosceva una capacità, se non ancora un diritto: at-traverso le libertà civili qualsiasi cittadino poteva infatti operare per raggiungere quello status economico in grado di permettergli l’ac-quisizione dei diritti politici. I diritti politici non erano deficienti per contenuto quindi, ma per distribuzione.

L’evoluzione storica avutasi nel corso del XIX e del XX secolo, e le profonde trasformazioni subite rispetto alla conce-zione liberale originaria relativa ai secoli precedenti, conduco-

(1) C. Tilly, 2007, Conflitto e Democrazia in Europa, Milano, Mondadori, p.19.

Democrazia e Postdemocrazia

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no Marshall ad elaborare un terzo modello, definito democrati-co-sociale. Questo modello si sviluppa storicamente per gradi: dal riconoscimento dei diritti civili (cittadinanza civile) avve-nuto fra il XVI e il XVIII secolo, la cittadinanza giunge ad as-sicurare anche il pieno godimento dei diritti politici nel corso del XIX e XX secolo attraverso la spinta e le rivendicazioni delle classi subalterne e dei partiti di massa legati al mondo del lavoro o delle confessioni religiose. Questo passaggio si con-clude con l’ottenimento del suffragio universale.

Il godimento dei diritti politici e civili però non poteva fru-irsi appieno senza la creazione di un terzo insieme di diritti creati con lo specifico obiettivo di fornire gli strumenti ma-teriali per l’esercizio dei primi. In questa luce si comprende l’emergere della cittadinanza sociale, che si configura come un vero e proprio tentativo di ridisegnare la struttura della di-suguaglianza tentando di ridurla secondo principi di giustizia derivanti dall’uguaglianza di status riconosciuta universal-mente a ciascun cittadino.

La cittadinanza sociale si afferma nel corso del XX secolo e consiste, di fatto, nel diritto a un grado di istruzione, di be-nessere e di sicurezza che viene a estendersi a ciascun membro appartenente alla comunità politica.

Questa concezione estensiva di cittadinanza è intrinseca-mente legata a una tensione verso l’uguaglianza, ma tale ten-sione, secondo Marshall, si scontra con quel sistema economi-co per lo sviluppo del quale proprio la sua dimensione civile aveva costituito un incentivo così forte.

Se i diritti civili corrispondevano alla logica del capitali-smo e del liberalismo, poiché si venivano a configurare come gli strumenti necessari alla piena affermazione della libertà individuale e di quella di iniziativa economica, e l’estensione dei diritti politici ha, nonostante la presenza di un forte ca-rattere rivendicativo, contribuito all’integrazione sociale delle masse all’interno della democrazia liberale, la cittadinanza so-ciale ha definitivamente portato a una nuova definizione della struttura sociale della disuguaglianza pur non arrivando a un

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vero e proprio livellamento economico dal punto di vista della distribuzione dei redditi.

L’emergere e il consolidarsi del Welfare State nella seconda metà del XX secolo coincide perciò non solo con il tentativo da parte dei regimi politici di arginare le oscillazioni del mer-cato capitalistico, ma anche, e soprattutto, con l’ambizione di assicurare l’insieme di questi nuovi diritti sociali ai propri cit-tadini, al fine di garantire la stabilità e lo sviluppo delle società industriali e di promuovere quelle condizioni di uguaglianza nelle opportunità richiamate dalle stesse dottrine liberali.

La liberal-democrazia si è quindi evoluta, dal punto di vi-sta giuridico relativo all’individuo-cittadino, estendendo quan-titativamente e qualitativamente il numero di diritti garantiti e tentando di conciliare i valori legati alla dimensione liberale con quelli riconducibili al principio di uguaglianza perseguito attraverso canoni di giustizia sociale.

Questo connubio fra democrazia e liberalismo, il cui prodot-to finale può essere rintracciato nei concetti di pluralismo so-ciale e politico, di Welfare State e di cittadinanza, è stato messo in discussione negli ultimi trenta anni a causa delle tensioni in-trinseche presenti all’interno dei suoi stessi principi costitutivi, tensioni riconducibili sinteticamente all’attrito fra principio di libertà individuale e principio di eguaglianza formale. Da que-sta prima dicotomia ne derivano altre come ad esempio quelle fra interessi individuali e interessi collettivi, fra ruolo dello stato e au-tonomia del mercato, così come fra libertà di iniziativa privata e poteri di regolazione degli ordinamenti politici. A queste tensioni si aggiungono infine quelle fra dimensione nazionale e dimensione globale in prospettiva economica, che affievoliscono i poteri sovra-ni degli stati nazione, ne riducono il peso in termini di funzioni di governo e minano, in tal modo, la centralità dell’istituzione entro la quale le democrazie contemporanee si sono sviluppate.

Questa sintesi ci porta a dover affrontare il tema dell’evolu-zione della democrazia negli ultimi trenta anni, periodo questo in cui i fenomeni appena accennati si sono manifestati nelle forme più avanzate.

Democrazia e Postdemocrazia