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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MESSINA
Facoltà di GIURISPRUDENZACorso di Laurea IN SCIENZE
GIURIDICHE
"L'USO LEGITTIMO DELLE ARMI "
(APPENDICE)
Tesi di Laurea e appendice a cura di Andrea AJELLO
Anno Acc. 2005/2006
Indice sommario
1.LE FATTISPECIE SPECIALI
3.1 La repressione del contrabbando ………. …….. pag. 06
3.2 L’uso delle armi per impedire l’espatrio clandestino e immigrazione clandestina
…………..
…..pag.
……13
3.3 L’uso delle armi per impedire l’evasione di detenuti ………………………………
…………...
…..pag.
……16
3.4 L’art. 41 del c.p.m.p……………………. …….. pag. 18
2.L'USO LEGITTIMO DELLE ARMI
NELLA PROSPETTIVA EUROPEA E IN QUELLA INTERNAZIONALE
4.1 La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto alla vita (art. 2, § 2, lett. b e c) ………………………………
……………….
……..pag.
…………
24
4.2 Gli interventi armati dell’O.N.U. ……… ……. pag. 33
/ / / / /
ABBREVIAZIONI:
art. = articoloartt. = articolic. = commac.d.= cosiddettou.c. = ultimo commacpv. = capoversocod. pen. = codice penaleCost. = Costituzione della Repubblica italianal. = leggel. cost. = legge costituzionalel. r. = legge regionaled. d. l. = disegno di legged. l. = decreto legged. lg. = decreto legislativotrad. = traduzione§ = paragrafov. = vedi
Si elencano qui di seguito le abbreviazioni più usate per le pubblicazioni italiane citate nel testo.
Amm. Civ. = L’Amministrazione civileAmm. e pol. = Amministrazione e politica Arch. dir. pubbl. = Archivio di diritto pubblicoArch. dir. pubbl. = Archivi di diritto pubblicoArch. pen. = Archivio penaleArch. ric. giur. = Archivio di ricerche giuridicheCass. pen. = Cassazione penale Cass. pen. mass. = Cassazione penale – massimario annotato
(fino al 1981)Comun. intern. = Comunità internazionale (La)Cons. st. = Consiglio di StatoCorte ass. = Corte d’assise (La) Corte cass. = Corte di cassazione (La)Corte cost. = Corte costituzionale (La)Dir. = DirittoDir. crim. = Diritto criminale e criminologiaDir. giur. = Diritto e giurisprudenzaDir. intern. = Diritto internazionaleE.G.T. = Enciclopedia Giuridica Treccani
Enc. dir. = Enciclopedia del diritto
Enc. for. = Enciclopedia forense
Foro civ. = Foro civileForo it. = Foro italianoForo pen. = Foro penaleGiur. comp. dir. civ. = Giurisprudenza comparata di diritto civileGiur. compl. cass. pen. = Giurisprudenza completa della Corte suprema
di cassazione - sezioni penaliGiur. cost. = Giurisprudenza costituzionaleGiur. it. = Giurisprudenza italianaGiur. merito = Giurisprudenza di meritoGiust. = Giustizia (La)Giust. pen. = Giustizia penale (La) Mass. dec. pen. = Massimario delle decisioni penaliMass. trib. supr. mil. = Massimario delle sentenze del Tribunale
supremo militareNovissimo Dig. It. = Novissimo Digesto ItalianoNuovo Dig. It. = Nuovo Digesto ItalianoRacc. Cons. St = Raccolta completa della giurisprudenza del
Consiglio di Stato Racc. giur. C. giust. = Raccolta della giurisprudenza della Corte di
giustiziaRass. bibl. sc. giur. = Rassegna bibliografica delle scienze
giuridicheRass. dir. civ. = Rassegna di diritto civileRass. giust. mil. = Rassegna della giustizia militareRass. st. penit. = Rassegna di studi penitenziariRISG = Rivista italiana per le scienze giuridicheRiv. crit. dir. giur. = Rivista critica di diritto e giurisprudenzaRiv. dir. civ. = Rivista di diritto civileRiv. dir. intern. = Rivista di diritto internazionaleRiv. dir. intern. priv. proc. = Rivista di diritto internazionale privato e
processualeRiv. dir. lav. mass. = Massimario della rivista di diritto del lavoro Riv. dir. lavoro = Rivista di diritto del lavoroRiv. dir. mil. = Rivista di diritto e procedura penale militareRiv. dir. nav. = Rivista del diritto della navigazioneRiv. dir. penit. = Rivista di diritto penitenziarioRiv. dir. priv. = Rivista di diritto privatoRiv. dir. proc. = Rivista di diritto processualeRiv. dir. proc. civ. = Rivista di diritto processuale civileRiv. dir. proc. pen. Milit. = Rivista di diritto processuale penale militare Riv. dir. pubbl. = Rivista di diritto pubblicoRiv. giur. magistr. = Rivista giuridica della magistraturaRiv. it. dir. pen. = Rivista italiana di diritto penaleRiv. it. dir. proc. pen.. = Rivista italiana di diritto e procedura penaleRiv. Pen. = Rivista penaleRiv. poliz. = Rivista di polizia (Rassegna di dottrina,
tecnica e legislazione)Riv. prat. dir. giur. = Rivista pratica di diritto e giurisprudenzaRiv. proc. pen. = Rivista processuale penaleStato e dir. = Stato e dirittoTrib. It. = Tribunale d’Italia
Arch. nuova proc. pen. = Archivio della nuova procedura penale Corr. giur = Corriere giuridico Dir. pen. e proc = Diritto penale e processo Gazz. giur. = Gazzetta giuridicaGazz. uff. = Gazzetta ufficialeGiur. it. = Giurisprudenza italiana Crit. Pen. = Critica penale Guida al dir. = Guida al diritto Giust. pen. = La Giustizia penale Dir. e giust = Diritto e Giustizia Mass. uff. dec. pen. = Massimario delle decisioni penaliRiv. polizia = Rivista di polizia Riv. int. dir. uomo = Rivista internazionale dei diritti dell’uomo Sc. posit. = Scuola positiva St. iuris = Studium iuris Dig. disc. pen = Digesto delle discipline penalistiche Enc. dir. = Enciclopedia del diritto
1. LE FATTISPECIE SPECIALI
Le “fattispecie speciali” sono situazioni specifiche legittimanti
l’uso delle armi in contrapposizione alle generiche figure della
”violenza” e della “resistenza”1.
La loro peculiarità consiste nei “soggetti” specificamente
indicati dalle norme e legittimati all’uso, mentre non toccano il
contenuto sostanziale della causa di esclusione della punibilità. In
altre parole, si tratterebbe, per il soggetto legittimato, dell’impedire la
commissione di fatti determinati2.
1.1 La repressione del contrabbando
E’ una fattispecie speciale prevista dalla legge 4 marzo 1958
n.100 “Uso delle armi da parte dei militari, degli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria in servizio di frontiera in zona di vigilanza”.
1 ALIBRANDI, L’uso legittimo, cit., 104.
2 ARDIZZONE, voce Uso legittimo delle armi, in Enc. Dir., Milano, 1992, vol. XLV, 985.,
Tale normativa ha rinnovato la disciplina previgente ed in
particolare l’art. 49 del Regolamento delle Guardie di Finanza (r.d.
del 6 novembre 1930 n.1643) che sanciva << in zona di vigilanza
doganale, i militi del Corpo che siano comandati nei servizi di
sentinella, di vedetta, di appostamento e di perlustrazione, devono
tenere le armi da fuoco cariche. Quando i militi stessi scorgono
persone in attitudine di contrabbando devono fare loro l’intimazione
di alt come è prescritto nel primo comma del precedente articolo. Se,
malgrado le intimazioni, le suddette persone assumono un contegno
minaccioso e persistono negli atti diretti alla consumazione del
contrabbando, può farsi uso delle armi per rendere impotenti le bestie,
o immobilizzare i veicoli eventualmente utilizzati per il trasporto e
successivamente, ove si renda necessario, anche contro le persone >>
L’art. 1 della nuova legge 100/1958 stabilisce invece che: << è
vietato fare uso delle armi contro le persone da parte dei militari ed
ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio di repressione del
contrabbando in zona di vigilanza doganale, come determinato dalle
vigenti disposizioni, fatta eccezione per i casi previsti dagli artt. 52
c.p. e 53 c.p. primo comma e 54 c.p. nonché, quando:
a) il contrabbandiere sia armato palesemente;
b) il contrabbando sia compiuto in tempo di notte;
c) i contrabbandieri agiscano raggruppati in non meno di tre
persone.>>
L’art. 2 reca << è vietato far uso delle armi nelle ipotesi previste
nelle lettere a) - b) e c) dell’art. 1 quando il contrabbandiere si dia alla
fuga ed abbandoni il carico, mentre l’art. 3 dispone che l’uso delle
armi non è vietato contro gli autoveicoli e gli altri mezzi di trasporto
veloci quando i conducenti non ottemperino all’intimazione di fermo e
i militari non abbiano possibilità di raggiungerli >>
Di minore rilievo appaiono, invece, i successivi articoli: l’art. 5
prescrive alcune formalità da osservarsi prima dell’impiego delle
armi (intimazione a voce o col gesto, due spari in aria), mentre l’art. 6
estende la normativa predetta alle ipotesi di contrabbando con
imbarcazioni in zona di vigilanza marittima; l’art. 7 sancisce infine
l’abrogazione delle norme contenute nei regi decreti 6 novembre 1930
n. 1623 e 20 agosto 1923 n. 1876, che siano incompatibili con le
disposizioni di tale legge.
Dal confronto fra le due normative, la dottrina fa rilevare una
notevole attenuazione del rigore con il quale l’abrogato articolo 34
della legge del 1930 disciplinava la materia3, appare comunque
3 NUVOLONE, Sistema, cit., 212; che a proposito di tale legge rileva come essa << fosse giustamente considerata come frutto di una esagerata tendenza alla massima severità >>; PISA, Osservazioni, cit., 186, nota 103; << il cui contenuto era ancora più illiberale dell’attuale normativa >>
interessante l’analisi delle conclusioni cui era pervenuta parte della
dottrina dell’epoca4.
In particolare si osservava che per permettere l’uso delle armi
contro le persone, il regio decreto del 1923 n.1886, richiedeva oltre al
contegno minaccioso o alla persistenza del contrabbando, gli estremi
della necessità, elemento quest’ultimo che rimaneva di incerto
contenuto ma che, secondo D’Orsi5, costituiva anticipazione di quella
contenuta nell’art. 53 del successivo codice penale del 1930.
In tale ottica, la normativa speciale viene a collidere con la
normativa di carattere generale6.
Secondo altri, nella suddetta ipotesi, l’uso delle armi era
disciplinato in modo nettamente diverso rispetto a quello della prima
parte dell’art. 53 c.p..
Infatti, il ricorso alle armi non sarebbe stato subordinato alla
necessità di vincere una “resistenza” o respingere una “violenza”,
neppure nel caso in cui i contrabbandieri avessero assunto un
comportamento minaccioso che non può andare confuso con la
4 Cfr. in particolare MILILLO, L’uso legittimo delle armi contro i contrabbandieri e l’eccesso scusabile, in Foro pen., 1954, 577 ss.; D’ORSI, L’uso delle armi da parte della guardia di finanza e degli agenti di custodia, in Riv. Polizia, 1953, 405 ss.;
5 D’ORSI, L’uso legittimo, cit., 406 ss.;
6 ALIBRANDI, L’uso legittimo, cit.,105
“violenza” né con la “resistenza” all’Autorità. In altre parole tutto
sarebbe stato demandato alla valutazione dei militari7.
La disciplina tuttora in vigore, presenta senza dubbio una
maggiore chiarezza di contenuto.
Significativo è innanzitutto l’inciso di apertura << è vietato fare
uso delle armi >>. Giustamente, si è osservato in dottrina che << la
regola (…) è il divieto di fare uso delle armi8.>>
I casi di uso contemplati dalla norma sono dunque “eccezioni”;
superfluo, appare il richiamo alla disciplina di cui agli artt. 52 c.p. e
53 c.p. prima comma nonché 54 c.p. in quanto, gli articoli 52 e 54
sono scriminanti laiche e quindi applicabili in ogni tempo a chiunque
mentre il primo comma dell’art. 53 appare mal richiamato specie se si
pone mente alla delimitazione del concetto di pubblico ufficiale, per
7 MILILLO, L’uso legittimo delle armi contro i contrabbandieri e l’eccesso scusabile, in Foro pen., 1954, 583 - 590. Cfr., inoltre, Cass. 19 ottobre 1949, in Giust. Pen., 1950, II, 146 << per l’applicazione dell’art. 53 c.p. occorre che la resistenza di chi si oppone al p.u. sia attiva non essendo sufficiente a giustificare l’uso delle armi contro le persone la semplice disobbedienza, come nel caso in cui all’intimazione di fermarsi si risponde con la fuga. >> Non deroga a tale principio l’art. 94 del Reg. 6 novembre 1930 n.1643; Trib. Como, 9 ottobre 1957, in Foro pen. , 1958, 326, secondo cui << L’uso delle armi da parte degli appartenenti al corpo della G.d.F. non è subordinato alla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità. Tuttavia, ai fini dell’esimente la G.d.F. deve attenersi ai mezzi ed alle modalità di uso che le concrete circostanze facciano ritenere sufficienti al fine specifico di impedire il contrabbando >> V. anche Cass. 15 giugno 1951 in Giust. Pen., 1952, II, 118; Trib. Como 20 luglio 1954 in Foro pen., 1954, 577. Contra, Cass. 15 luglio 1942, in Giust., pen., 19432, II, 211, per la quale << l’art. 84 faculta le guardie di finanza a far uso delle armi contro i contrabbandieri che non obbediscono all’ordine di fermarsi >>
8 CADONI, Interpretazione ed applicazione dell’art.53 c.p. in Riv. Polizia, 1970, 129 ss., cit., 160
cui gli agenti in questione appartengono senz’altro alla “forza
pubblica” e ben potrebbero impiegare legittimamente le armi qualora
vi fosse la necessità di respingere una violenza o di vincere una
resistenza messe in atto dal contrabbandiere e questo anche in
mancanza di tale richiamo9.
Il vero problema consiste dunque nella trattazione delle
eccezioni di cui alle lettere a) - b) - c) dell’art. 1.
Si osserva in dottrina10 che si può giustificare entro certi limiti,
la deroga - posta dal generale divieto sancito nella prima parte della
norma - relativa alle ipotesi a) e c); ma resta del tutto inspiegabile,
invece, la deroga di cui alla lettera b) poiché ripristina,
sostanzialmente, il principio della legittimità dell’uso delle armi per
impedire il contrabbando come fatto illecito in se considerato11. A
riguardo, si considera l’art. 2 della legge 100/1958, ove si rinviene un
temperamento alla durezza normativa dianzi prospettata e trova
espressa menzione il principio che il divieto di usare le armi << 9 ALIBRANDI, L’uso legittimo, cit., 107.
10 NUVOLONE, Sistema,cit., 202;
11 NUVOLONE, op. cit., Secondo il Nuvolose, per superare tali interrogativi cui da adito la legge, occorre ricorrere al principio della proporzionalità. In particolare l’A. scrive << posta la legittimità dell’uso delle armi contro il contrabbandiere che agisce in tempo di notte, tuttavia, tale uso deve essere in concreto adeguato sia sotto il profilo della sua strumentalità rispetto a ciò che si vuole impedire sia in relazione al bene che esso lede >>. Sostanzialmente conforme al pensiero di Nuvolone è l’opinione di SENSALE, Eccesso colposo, in Foro pen., 1958, 326; che, commentando la sentenza del Tribunale di Como 9 ottobre 1957, reputa necessario anche in questa materia il rispetto della necessità e della proporzione.
permane quando il contrabbandiere si dà alla fuga ed abbandona il
carico >> che, comunque, non basta a fugare i dubbi e gli interrogativi
che le deroghe sopra considerano. Nel caso in cui il contrabbandiere
sia palesemente armato (o anche disarmato, ma in tempo di notte)
fugge, senza abbandonare il carico, potrà l’agente sparare?
Da quanto sino ad ora affermato la risposta propende per
l’ipotesi affermativa. A questo proposito, però la giurisprudenza pare
divisa12 ma può intanto rilevarsi come la modifica legislativa in
questa materia non abbia inciso in modo sostanziale se si considerano
le conclusioni.
Secondo la sentenza della Cassazione13 l’uso delle armi e degli
altri mezzi di coazione fisica è legittimo solo se effettuato nel
territorio dello Stato e quindi << non può invocare la scriminante di
cui all’art- 53 c.p. la Guardia di Finanza che, inseguendo un
contrabbandiere sul confine, penetri in territorio straniero e spari
contro il fuggitivo >>
Il principio affermato, che in fondo, altro non è che
l’applicazione al caso in esame del principio dei limiti spaziali del
12 V. Cass. 9 maggio 1959 in Riv. Pen., 1960, II, 39 << non è giustificato l’omicidio del contrabbandiere nel caso di semplice fuga o disobbedienza all’ordine di fermarsi >> contra Corte Conti, 23 novembre 1962, in Riv. Corte Conti, 1962, II, 155.
13 Cfr. Cass.7 aprile 1954, in Giur. compl. Cass. Pen., 1954, II, 2141, m.997.
diritto penale, è riferito alla disciplina generale di cui al primo comma
dell’art. 53.
Da ultimo si può notare come la nuova normativa abbia allargato
la cerchia dei soggetti attivi. Infatti, mentre l’art. 94 menzionava solo
gli appartenenti alla Guardia di Finanza, l’art. 1 della legge 100/1958
menziona invece << i militari e gli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria in servizio di repressione del contrabbando >>
1.2 L’uso delle armi per impedire l’espatrio clandestino e immigrazione clandestina
Ulteriore caso di autorizzazione espressa all’uso legittimo delle
armi è quello previsto dall’art.158 ultimo comma del r.d. 18 giugno
1931 n.773 (TULPS)14 secondo cui << è autorizzato l’uso delle armi
quando sia necessario, per impedire i passaggi abusivi attraverso i
valichi di frontiere non autorizzati >>
La legge 18 aprile 1940 n. 494, dopo aver stabilito che i militari
in servizio di vigilanza alle frontiere sono equiparati, nell’esercizio del
servizio stesso, alle sentinelle in servizio di presidio, all’art. 2 dispone
che << agli effetti dell’applicazione dell’art. 158 del TULPS, i
14 che riproduce sostanzialmente il contenuto dell’art. 160 del T.U. del 1926
predetti militari, quando scorgono persone che tentano di oltrepassare
clandestinamente la linea di confine, debbono intimare l’ALT con
ogni mezzo idoneo a manifestare l’intimazione. Contro le persone cui
l’intimazione è fatta, che persistano nel tentativo di oltrepassare la
frontiera, il militare in servizio può fare uso delle armi >>
L’uso delle armi autorizzato dalla citata normativa, non può
prescindere da quelli che sono i presupposti previsti dall’art. 53 del
c.p., e cioè respingere una “violenza” o vincere una “resistenza”, l’
“attualità” della “costrizione” al fine di adempiere un dovere del
proprio ufficio, e la “proporzionalità” fra i bene in conflitto, cioè tra
il bene che si vuole tutelare e quello che l’uso dei mezzi di coazione
lede15, già trattati nel secondo capitolo della tesi sull’uso legittimo
delle armi.
Con riferimento al caso specifico, l’ipotesi ricorrente è quella
della fuga, ove la giurisprudenza, ha negato legittimità dell’uso della
armi fatte salve le eccezioni previste da specifiche disposizioni di
legge come quelle in materia di contrabbando, di passaggio abusivo
alle frontiere e di custodia di detenuti.
Infatti, la giurisprudenza e la dottrina, in tema di uso legittimo
delle armi, nel caso di resistenza posta in essere con la fuga, hanno
15 MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2001, 284 ss.
affermato che manca il rapporto di proporzione tra l’uso dell’arma e il
carattere non violento della resistenza opposta al pubblico ufficiale16.
Tuttavia, l’uso di mezzi coercitivi da parte degli organi statuali
per vincere forme di resistenza illegale, indipendentemente dal modo,
pacifico o non, in cui detta resistenza si attui, deve ritenersi sempre
lecito ogni qualvolta che il ricorso alla forza miri a salvaguardare
interessi a cui debba essere riconosciuto un valore sociale superiore o,
anche solo uguale, a quello dei diritti dei resistenti esposti a sacrificio
in conseguenza dell’impiego dei mezzi di coazione17.
Poichè la fuga integra un ipotesi di resistenza illecita, l’uso delle
armi contro le persone ai sensi dell’art.53 c.p., per reprimerla può
essere considerato ammissibile ogni volta che la stessa sia attuata in
condizioni e con modalità tali da costituire un attentato
particolarmente grave a beni giudicati di rilevante importanza
dall’ordinamento18.
In particolare, nel caso dei c.d. “scafisti” che, scoperti nel
tentativo di introdurre in Italia “clandestini” si diano alla fuga, l’uso
delle armi è già previsto dalla legislazione speciale che però non
16 Cass. pen., Sez. V, 05/06/1991, imp. Rizzo.
17 MUSACCHIO, Uso legittimo della armi e immigrazione clandestina, in Riv. G.d.F., 2002, 3, 1123 ss.
18 C. Ass. Roma, 08/07/1977, Velluto, in Giur. Merito, 1978, II, 887.
esime il militare dal proporzionarlo al tipo di condotta in essere e al
tipo di bene giuridico leso o esposto a pericolo.
In altri termini, se lo “scafista” semplicemente si limita a fuggire
in direzione opposta rispetto ai confini nazionali, appare eccessivo
cercare di fermarlo sacrificando o ponendo in pericolo la sua vita.
Invece, qualora lo stesso cerchi di coprirsi la fuga gettando in
mare il suo carico di disperati in mare, è chiaro che tale condotta
debba essere fermata anche a costo della sua vita.
Infine, se lo “scafista” fugge con l’intenzione di introdurre sé ed
il suo carico entro i confini nazionali, in ossequio dall’art. 2 della L.
494/1940 è legittimo l’uso delle armi, quantomeno per arrestarne la
corsa. Potrebbe anche essere considerata legittima l’azione di
interporre il mezzo militare alla sua traiettoria per impedire l’ingresso
nel territorio nazionale, ma, in tali circostanze, sono diverse le
incognite da valutare non ultima quella di considerare che il criminale
potrebbe speronare il mezzo militare con tutte le conseguenze
derivanti dal fatto.
1.3 L’uso delle armi per impedire l’evasione di detenutiL’uso legittimo delle armi era espressamente consentito ai
militari ed agenti di custodia per impedire l’evasione di detenuti.
L’art. 181 del regolamento per gli istituti di prevenzione e pena
(r.d. 18 giugno 1931 n.787) sanciva infatti all’ultimo comma << i
militari e gli agenti addetti alla traduzione o alla sorveglianza degli
stabilimenti o alla custodia dei detenuti che lavorano all’aperto, sono
autorizzati a fare uso delle armi quando vi siano costretti dalla
necessità di impedire l’evasione. >>
In tale materia rileva oggi l’art. 41 primo comma della legge 26
luglio 1975 n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) secondo il
quale << non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti
dei detenuti e degli internati se non è indispensabile per prevenire od
impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione per
vincere la resistenza anche passiva, all’esecuzione degli ordini
impartiti >>
L’ultimo comma del citato articolo stabilisce inoltre che gli
agenti in servizio all’interno degli istituti di pena non possano portare
armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal
direttore.
Per impedire le evasioni, quindi, è attualmente previsto in via
generale - il semplice ricorso ai mezzi di coazione fisica la cui deroga
costituisce eccezione.
1.4 L’art. 41 del c.p.m.p.
L’uso legittimo delle armi, nel diritto penale militare, è regolato
dall’art. 41 codice penale militare di pace che, testualmente, recita
<<non è punibile il militare, che, al fine di adempiere un suo dovere di
servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di
coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una
violenza o vincere una resistenza. La legge determina gli altri casi in
cui il militare è autorizzato ad usare le armi o altro mezzo di coazione
fisica.>> 19.
Questo articolo è di nuova creazione, poiché non ha precedenti
nell’abrogata legislazione penale militare e riproduce sostanzialmente
l’art. 53 del c.p.20.
Dal confronto fra le due norme, emergono, in maniera evidente,
le seguenti differenze:
- nell’art. 41 c.p.m.p. il soggetto beneficiario della scriminante è
“il militare”, mentre nell’art. 53 c.p. è “il pubblico ufficiale”;
- nell’art. 41 c.p.m.p. non è stata riportata la “clausola di
riserva” esistente al primo comma dell’art. 53 c.p. che fa
19 codice penale militare di pace approvato con Regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303 vigente dal primo ottobre 1941.
20
? CIARDI, voce: Uso legittimo delle armi (dir. pen. milit.) in Nov. Dig.It., Torino, 1975, 268.
riferimento ai precedenti articoli 51 e 52 del c.p. riguardanti,
rispettivamente, l’adempimento di un dovere e la difesa legittima,
poiché ritenuta superflua essendo evidente che la norma in esame
non è in contrasto con gli istituti suddetti21;
- manca l’estensione della non punibilità al terzo che, essendone
legittimamente richiesto, presti assistenza al pubblico ufficiale, ciò
in quanto, la scriminante militare - non limitata ai reati militari e
non espressamente sostitutiva di quella parimenti privilegiata
comune - appare finalizzata a estendere la disciplina dell’uso
legittimo delle armi a tutti i militari (i quali non sempre rivestono
anche la qualifica di pubblico ufficiale) nel momento in cui
debbono adempiere a un dovere “di servizio”. La differente
terminologia (l’art. 53 c.p., infatti, indica “dovere d’ufficio”) è
dovuta al fatto che non sempre un incarico di natura militare è
ricompreso nella nozione di “ufficio”22;
- è riportata in entrambi gli articoli l’altra “clausola di riserva” di
cui al terzo comma riguardante gli altri casi determinati dalla
legge in cui il pubblico ufficiale (militare) è autorizzato all’uso
delle armi o di altro mezzo di coazione fisica.
21 CIARDI, voce Uso legittimo delle armi (diritto penale militare), cit., 268.
22 GARINO, voce Uso legittimo dele armi (diritto penale militare), in Nov. Dig. It., Torino, appendice 1980-87, vol. VII, 1987, 1036.
Secondo la dottrina 23 l’articolo in questione si presenta come
integrativo dell’art. 53 del c.p. poiché il “militare” può rivestire la
qualifica di “pubblico ufficiale”, e quindi in tale ipotesi si applica
anche ad esso la disciplina generale dell’art. 53; invece, quando il
militare non riveste tale qualifica, la sua condotta deve essere valutata
alla luce dell’art. 41 c.p.m.p.24
La qualifica di “pubblico ufficiale” avrebbe quindi una
“funzione specializzante” nel senso che, nel diritto militare, la
categoria dei militari è più vasta e generale di quella dei “pubblici
ufficiali”.25
In tale ottica, quando qualora ricorre l’applicazione dell’art. 41
c.p.m.p. assume un giusto significato anche l’esclusione della
cooperazione del terzo ed esatta è la dizione “dovere di servizio” in
quanto nell’ambito del diritto militare vige una rigida disciplina sì che
23 Cfr VENDITTI, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, Torino 1978, 20 ss.; MORETTI, Codice penale militare commentato, Milano, 1963, 113 ss.; LO CASCIO, Diritto penale militare, Milano, 1958, 56 ss.; BITETTI, Uso legittimo delle armi, in Giust. Pen., 1946, II. 701; CIARDI, uso legittimo delle armi, (dir. Pen. milit.) in Noviss. Dig. It., Torino, XX, 1975, 268;
24 BRUNELLI, diritto penale militare, III ed., 2002, 84-85 secondo cui proprio la non configurabilità della qualità di pubblico ufficiale in capo al personale militare, a meno di incarichi che attribuiscano specificamente tale status ( es. incarichi di polizia militare) ha indotto il legislatore militare del 1941 alla formulazione dell’art.41 c.p.m.p.
25 VENDITTI, Il diritto penale, cit., 222, in ALIBRANDI, L’uso legittimo, cit., 112.
non può trovare spazio quella “sensibilità sociale” che sta alla base
dell’intervento del terzo nell’ambito dell’art. 53 c.p.26.
La previsione di un “dovere di servizio” avrebbe anche il fine di
escludere gli atti di carattere disciplinare, poiché come nell’art.53 c.p.
la specifica previsione del fine di adempiere un “dovere di ufficio”
serve ad escludere motivazioni estranee alla funzione, la previsione di
un dovere di servizio esclude che possano impiegarsi le armi ai fini
semplicemente disciplinari. Pur tenendo conto, infatti, del dovere di
obbedienza e della rigida scala gerarchica vigente nel diritto militare,
un atto di disobbedienza non varrà a concretizzare una resistenza o
una violenza ai sensi dell’art. 41 c.p.m.p.27.
Infatti, nei rapporti tra militari, la richiesta fatta da un militare
durante l’espletamento di un servizio ad un’altro militare inferiore di
prestargli aiuto nell’usare armi o altri mezzi di coazione, integrando
gli estremi di un ordine legittimo attinente al servizio, determinerà
comunque l’applicazione nei confronti di quest’ultimo della
scriminante dell’adempimento del dovere discendente da un ordine
del superiore.
26 ALIBRANDI, L’uso legittimo, cit., 113.
27 Cfr. BITETTI, Sull’uso legittimo delle armi, in Giust. Pen., 1946, 701; CADONI Interpretazione ed applicazione, cit., 161; ALIBRANDI, L’uso legittimo, cit., 113,
Invece, nell’ipotesi in cui il militare in servizio non richieda
assistenza , qualsiasi altro militare che veda il primo in difficoltà nel
portare a termine il suo incarico potrà prestargliela e gli eventuali
reati, comuni o militari, così commessi risulteranno scriminati -
quando non ricorrano gli estremi della legittima difesa comune o
militare - dall’adempimento del dovere discendente da una norma
giuridica.
Infatti, dal regolamento di disciplina militare contenuto del
D.P.R. 31/10/1964 si può ricavare a carico di tutti i militari un
dovere giuridico di attivarsi per agevolare il compito di altri militari
che stanno svolgendo un servizio determinato (art.11), di intervenire
spontaneamente in aiuto di altro militare, di qualunque grado, ogni
volta che questi ne abbia bisogno (art. 23 n.7), di opporsi con
decisione a ogni atto che possa, anche indirettamente, determinare
pericolo o arrecare danni alle armi, ai mezzi, alle opere, agli edifici e
agli stabilimenti militari (art.22), di adoperarsi per sedare e frenare
qualunque disordine che accada in loro presenza e, in caso di reato
flagrante, di cercare con tutte le loro forze di impedirlo e di fermare il
colpevole (art.23 n3)28.
Premesso quanto sopra, appare opportuno precisare, infine, che:
28 GARINO, voce: Uso legittimo, cit., 1036
- anche la scriminante in esame è costruita come una facoltà
legittima del militare il quale, nell’adempimento del servizio,
dovendo superare una resistenza o vincere una violenza, potrà
adottare tecniche diverse dall’uso delle armi o di altri mezzi di
coazione fisica, quali ad esempio intimazioni, stratagemmi,
esortazioni ecc.;
- devono ritenersi legittimi i criteri della proporzionalità fra i
beni in conflitto29 e dei limiti imposti dalla necessità, per valutare
l’operatività della scriminante in esame anche se non richiamati
espressamente nemmeno dall’art.53 c.p.30;
- deve ritenersi legittimo (e doveroso, nei limiti imposti dalla
necessità e dalla proporzionalità) il ricorso alla coazione psichica
anziché a quella fisica, costituendo la prima un minus rispetto alla
seconda autorizzata esplicitamente dal legislatore.31
29 Requisito ammissibile in conseguenza del disposto contenuto negli art. 45 c.p.m.p. e 55 c.p.m.p. nei quali è esplicitamente disciplinato l’eccesso colposo con riferimento ai limiti imposti dalla necessità
30 Trib. Mil. Torino, 28 giugno 2000 (ud. 13 giugno 2000), n.528, imp. Cesarini.
31 MARINI, Elementi di diritto penale, Torino, 1978, vol. I, 148; in GARINO, voce Uso legittimo, cit., 1036
2.
L'USO LEGITTIMO DELLE ARMI NELLA PROSPETTIVA EUROPEA E
IN QUELLA INTERNAZIONALE
2.1 La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il diritto alla vita (art. 2, § 2, lett. b e c)
L’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,
testualmente recita:
<< 1. Il diritto alla vita d’ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere
intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale
pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale
pena.
2. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il
risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:
a. per garantire la difesa d’ogni persona contro la violenza illegale;
b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona
regolarmente detenuta;
c. per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione.
>>
Il diritto alla vita non occupa un grande spazio nei lavori
preparatori alla “Convenzione europea dei diritti dell’Uomo”32.
Nel progetto dell’assemblea parlamentare, all’art. 2 ci si
limitava a garantire la sicurezza della persona in conformità agli
32 La Convenzione di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali è stata elaborata nell’ambito del Consiglio d’Europa. Aperta alla firma a Roma il 4 novembre 1950, è entrata in vigore nel settembre del 1953. Nelle intenzioni dei suoi autori, si trattava di adottare le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di alcuni dei diritti previsti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. La Convenzione, da una parte enunciava una serie di diritti politici e libertà civili e, d’altra parte, istituiva un sistema destinato a garantire il rispetto, da parte degli Stati contraenti, degli obblighi da essi assunti composto dalla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo (istituita nel 1954); dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo (istituita nel 1959) e dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, composto dai ministri degli affari esteri degli Stati membri o dai loro rappresentanti. Nella sua formulazione originaria, la Convenzione prevedeva che gli Stati contraenti, e nel caso in cui questi ultimi avessero accettato il diritto di ricorso individuale, i ricorrenti individuali (individui, gruppi di individui o organizzazioni non governative), potevano inoltrare alla Commissione ricorsi contro gli Stati contraenti considerati responsabili di aver violato i diritti garantiti dalla Convenzione. I ricorsi erano oggetto, innanzitutto, di un esame preliminare da parte della Commissione, che si pronunciava sulla loro ammissibilità, mettendosi in seguito a disposizione delle parti per tentare di ottenere una composizione amichevole. In caso di esito negativo, la Commissione redigeva un rapporto con cui accertava i fatti ed esprimeva un parere sul merito del caso. Tale rapporto era trasmesso al Comitato dei Ministri. Nel caso in cui lo Stato convenuto avesse accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte, la Commissione e qualunque Stato contraente interessato, disponevano di un termine di tre mesi, decorrente dalla trasmissione del rapporto al Comitato dei Ministri, per portare il caso innanzi alla Corte affinché questa si pronunciasse con una decisione definitiva e vincolante. Gli individui non erano legittimati ad adire la Corte. Se un caso non veniva deferito alla Corte, il Comitato dei Ministri decideva se vi era stata o meno violazione della Convenzione e accordava alla vittima, se del caso, un’equa soddisfazione. Esso era parimenti responsabile della sorveglianza dell’esecuzione delle sentenze della Corte. A partire dall’entrata in vigore della Convenzione sono stati adottati dodici protocolli aggiuntivi, in particolare: i nn° 1, 4, 6 e 7 hanno aggiunto altri diritti e libertà a quelli già garantiti dalla Convenzione; il n° 2 ha conferito alla Corte il potere di dare pareri consultivi; il n° 9 ha introdotto, per i ricorrenti individuali, la possibilità di portare il loro caso di fronte alla Corte, a condizione che detto strumento fosse stato ratificato dallo Stato convenuto e che il ricorso fosse accettato da un comitato di filtraggio; il n° 11 ha ristrutturato il meccanismo di controllo. Gli altri protocolli riguardavano l’organizzazione delle istituzioni predisposte dalla Convenzione e la procedura innanzi ad esse. Entrato in vigore il 1° novembre 1998, il protocollo n. 11 prevede che ogni Stato contraente (nel caso di un ricorso inter-statale) o individuo che si ritenga vittima di una violazione della Convenzione (nel caso di un ricorso individuale) possa inoltrare direttamente alla Corte di Strasburgo un ricorso che lamenti una violazione da parte di uno Stato contraente di uno dei diritti garantiti dalla Convenzione. La procedura innanzi alla nuova Corte europea dei Diritti dell’Uomo è contraddittoria e pubblica. Le udienze sono pubbliche, a meno di circostanze eccezionali che comportino una diversa decisione. Le memorie e gli
articoli 3-5-8 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle
Nazioni Unite33.
L’art. 2 appartiene al c.d. “nocciolo duro della Convenzione”
ciò significa che gli Stati membri, per effetto della riserva contenuta
nell’art. 15 comma 2, sono, sempre e comunque, tenuti all’interno del
proprio territorio a garantire il godimento di tale diritto.
L’ermeticità della sua formulazione, induce ad individuarne il
campo d’applicazione facendo riferimento alle sentenze della Corte34
ed alle decisioni della Commissione che ha affrontato il problema del
diritto alla vita soltanto in tempi recenti.
Ciò ha avuto come conseguenza che non tutti gli aspetti del
“diritto alla vita” siano stati chiariti.
altri documenti depositati presso la cancelleria della Corte dalle parti sono accessibili al pubblico. I ricorrenti individuali possono presentare da soli i ricorsi, ma la rappresentanza da parte di un avvocato è raccomandata ed è, in ogni caso, richiesta per le udienze o una volta che il ricorso è stato dichiarato ricevibile. Il Consiglio d’Europa ha predisposto un sistema di assistenza giudiziaria per i ricorrenti le cui risorse finanziarie siano insufficienti. http://www.coe.int/t/i/corte_europea_dei_diritti_dell%27uomo
33 BLASI-RUSSO, sub art.2 CEDU Diritto alla vita, in BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001,35
34 La Corte europea dei diritti dell’uomo ha consacrato, nella sua giurisprudenza, i principi enunciati dalla CEDU. Il trattato di Amsterdam ha rafforzato la garanzia del rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali rientra il diritto alla vita. Questo stabilisce, in particolare, che la Corte sia competente a vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali enunciati dall'articolo 6 per quanto riguarda l'operato delle istituzioni europee. Parallelamente, i provvedimenti da prendere qualora uno Stato membro dovesse violare i principi sui quali si basa l'Unione, in modo grave e persistente, sono precisati con l'inserimento di una clausola di sospensione. La Costituzione europea, in via di ratifica, incorpora la carta dei diritti fondamentali proclamata al Consiglio europeo di Nizza nel dicembre 2000. L'Unione europea si dota pertanto di una raccolta dei diritti fondamentali che sarà giuridicamente vincolante. La carta contiene diritti supplementari che non figurano nella convenzione europea dei diritti umani, nella fattispecie i diritti sociali dei lavoratori, la protezione dei dati, la bioetica e il diritto ad una buona amministrazione.
La Commissione, nel caso B.K. c. Austria35, ha avuto modo di
affermare che l’art. 2 protegge il soggetto solo di fronte alla morte e
non ne tutela l’integrità fisica. Il diritto alla vita, infatti, non è ritenuto
assoluto, il par. 2 dell’art. 21 prevede, infatti, alcune circostanze nella
quali la morte non è considerata inflitta in violazione del diritto alla
vita.
In particolare è consentito allo Stato e ai suoi organi l’uso della
forza, anche quando questo abbia esiti fatali, qualora tale utilizzo sia
assolutamente necessario per assicurare la difesa di qualsiasi persona
dalla violenza illegale (art. 2 par.2 lett. a); per eseguire un arresto
legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta
(art. 2 par.2 lett. b); per reprimere in modo conforme alla legge, una
sommossa o un’insurrezione (art. 2 par.2 lett c).
35 dec. 13 dicembre 1978 su ricorso B.K. c. Austria n. 8278/78
A proposito di ciò va segnalata la sentenza del 27 settembre
1995 relativa al “caso” Mc Cann36, in cui per la prima volta la Corte
ha riconosciuto la violazione diretta dell’art.2 .
In essa, pur ammettendo che la condotta dei militari che
avevano fatto uso delle armi provocando la morte dei terroristi poteva
essere giustificata ai sensi dell’art. 2 par.2, ha riconosciuto la
violazione del diritto alla vita perché le Autorità, nel programmare le
modalità di svolgimento dell’operazione per l’arresto dei criminali,
non avevano seguito tutte le precauzioni necessarie per ridurre al
minimo i rischi per la vita della popolazione di Gibilterra e per quella
degli stessi terroristi.
Con tale sentenza, la Corte ha inteso precisare che:
- l’art. 2 par.2 non definisce le situazioni in cui può essere
inflitta intentionnellement la mort, ma descrive i casi in cui è
36 caso Mc Cann e altri c. Regno Unito (riguardante il grave fenomeno del terrorismo irlandese), in RUSSO-BLASI, sub. art. 2 Diritto alla vita, in BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI, Commentario alla Convenzione, cit.43. Nella fattispecie, il governo irlandese, informato dai propri servizi segreti del fatto che tre terroristi appartenenti all’I.R.A. avevano in progetto di compiere un attentato presso la Rocca di Gibilterra, aveva inviato sul posto un reparto di teste di cuoio incaricato di sventare il piano criminale. Qualche giorno dopo, due dei presunti attentatori – Mc Cann e un suo compagno – venivano avvistati nei pressi della Rocca nell’atto di conversare con una ragazza, con la quale uno dei due immediatamente si allontanava. I militari seguivano quindi l’uomo e la donna e, dopo aver intimato loro di fermarsi (circostanze asserita ma non provata nel corso del successivo processo) aprivano ripetutamente il fuoco, uccidendoli. L’altro compagno, rimasto in disparte accorreva immediatamente e veniva anch’egli colpito a morte. I militari erano giudicati ed assolti davanti la Corte Marziale di Gibilterra, con sentenza poi confermata in grado d’appello. A seguito di ciò, i familiari delle vittime, proponevano ricorso alla Commissione che con rapporto del 4 marzo 1994 riferiva alla Corte Europea. Per ulteriori approfondimenti si rinvia alla pagina internet http://curia.europa.eu/it/content/juris/index_form.htm
possibile il recours à la force che può condurre a causare la
morte de facon involontarie;
- l’elencazione delle finalità per le quali l’utilizzo della forza
può essere considerato legittimo deve essere interpretata in
maniera restrittiva considerando l’importanza primaria del
diritto alla vita;
- il ricorso alla forza deve essere “assolutamente necessario”. A
riguardo, la Corte ha sottolineato come l’impiego di tale
termine imponga di utilizzare << un critère de nècessitè plus
strict ed impèrieux que celui normalment employè pour
dèterminer si l’intervention de l’etat est nècessaire dans une
sociètè dèmocratique au titre du paragraphe 2 des artcicles 8
à 11 de la Convention >> ;
- la forza utilizzata deve essere strettamente proporzionata al
perseguimento delle finalità di cui alle lettere a, b, c, dell’art. 2
par.2. La valutazione sulla legittimità e sulla proporzionalità
del ricorso alla forza deve però essere compiuta tenendo conto
delle circostanze nelle quali si trovavano gli agenti al
momento della decisione sull’utilizzo della forza medesima;
- per determinare se vi sia stata violazione o meno dell’art. 2,
non rileva l’eventuale responsabilità penale dei soggetti
direttamente o indirettamente coinvolti;
- ogni stato membro è tenuto non solo a vietare l’arbitrario
utilizzo della forza che causi la morte, ma ha altresì l’obbligo
di garantire l’effettività di tale divieto. In proposito, è dunque
necessario che ogni Stato membro preveda nel proprio
ordinamento un controllo effettivo per valutare la legalità del
ricorso alla forza ad opera dei propri organi; è quindi possibile
che la Corte riconosca la violazione dell’art.2 qualora le
autorità dello Stato membro non compiano un’indagine idonea
al fine di valutare la legittimità dell’uso della forza (cfr
sentenza Kaya c. Turchia37).
- per determinare se la morte possa essere giustificata ai sensi
dell’art. 2 par.2 è necessario valutare non solo gli atti compiuti
dagli agenti dello Stato, ma anche l’insieme delle circostanze
del caso di specie, tra le quali, in particolare, la prèparation et
le contròle des actes en questionm.
37 Sentenza del 19 febbraio 1998 relativa all’uccisione da parte della polizia turca di un presunto terrorista del PKK. Nell’occasione, infatti, la Corte, pur sottolineando che nel caso in specie non poteva concludersi << al di là di ogni ragionevole dubbio che il fratello del ricorrente è stato ucciso intenzionalmente >> ha condannato la Turchia per violazione dell’art. 2 in quanto le indagini svolte dalla magistratura presentavano macroscopiche lacune (nessun tipo di indagine è stata svolta in merito all’appartenenza della vittima al PKK, l’esame autoptico era gravemente lacunoso, ecc.)
Ulteriore caso emblematico che evidenzia l’attenzione della
Corte nel valutare la legittimità dell’operato delle forze di polizia che
hanno fatto uso delle armi è quello concernente l’uccisione di sospetti
terroristi in Turchia deciso con sentenza del 28 marzo 2006 in cui non
si ravvisata la violazione dell’art. 2 CEDU sotto il profilo sostanziale,
ma solo per la mancanza di un’inchiesta effettiva.38
La Corte e la Commissione, mentre hanno valutato più volte se
la morte poteva essere giustificata per la difesa di qualsiasi persona
dalla violenza illegale (art. 2 par.2 lett. a) o per eseguire un arresto
legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta
38 Corte Europea dei diritti dell’uomo, sezione II, sentenza 28 marzo 2006, pres. Costa, caso Perk e altri c. Turchia. Nella circostanza, nel corso di un operazione di polizia, quindici agenti avevano fatto irruzione in un appartamento uccidendo i tre occupanti a seguito di un conflitto a fuoco. L’inchiesta aperta dalle autorità competenti si era chiusa con l’assoluzione dei poliziotti il cui operato era stato giustificato dalla Corte nazionale facendo ricorso alla legittima difesa e all’uso legittimo delle armi. Tuttavia, i parenti delle vittime, lamentando la violazione dell’art. 2 CEDU avevano fatto ricorso alla Corte, che considerando il contesto in cui si era svolta la vicenda ha reputato irreprensibile la condotta dei poliziotti. Infatti, nel corso dell’istruttoria era emerso che i sospetti terroristi erano in procinto di eseguire una rapina a mano armata presso una banca; prima dell’irruzione, la polizia aveva intimato loro di consegnarsi ; il conflitto a fuoco era durato diversi minuti. Per il giudice europeo, dunque, il blitz della polizia era diretto ad “assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza” e specialmente a “eseguire un arresto legale” ai sensi dell’art. 2 comma 2 lett. a) e b), ed inoltre, l’uso della forza, nel caso in esame, non era andato oltre i limiti dell’ ”assolutamente necessario” imposti dallo stesso articolo 2 CEDU. Tuttavia il Giudice di Strasburgo ha condiviso le doglianze dei ricorrenti per le mancanze riscontrate nell’inchiesta condotta dalle autorità nazionali ove, in particolare, aveva rilevato che: il giudice turco, avrebbe dovuto conferire ad un terzo l’incarico di valutare l’opportunità che la polizia, al momento dell’irruzione impiegasse i gas lacrimogeni, diversi dalle armi da fuoco; l’organo giudicante, inoltre avrebbe dovuto disporre un’ispezione locale e/o una ricostruzione grafica del luogo della sparatoria adeguata e realizzata da esperti indipendenti.
Conclusioni analoghe sono state formulate dalla Corte anche nelle seguenti decisioni: sezione IV, sentenza 7 febbraio 2006, Scavuzzo-Hager e altri c. Svizzera; Sezione IV, sentenza 22 novembre 2005, Belkiza Kaya c. Turchia. Per ulteriori approfondimenti sul tema si rinvia al sito internet http://curia.europa.eu/it/content/juris/index_form.htm
(cfr par.2 let. b), più raramente hanno affrontato casi riguardanti l’uso
della forza per reprimere una sommossa o insurrezione.
A tale riguardo la Commissione, ha ritenuto che un
raggruppamento di 150 persone che scagliavano oggetti su una
pattuglia di soldati con pericolo per gli stessi di subire gravi ferite,
poteva essere considerata sommossa ai sensi dell’art. 2 par. 2 lett. c.
La pattuglia era quindi legittimata a sparare sulla folla proiettili di
caucciù per ristabilire l’ordine e la conseguente morte di un
manifestante non integrava la violazione dell’art. 239.
La Corte, ha affermato in una sua recente sentenza che, pur
astrattamente, l’utilizzo della forza contro una “manifestazione
violenta” può essere giustificato ai sensi dell’art. 2 par. 2 lett. c, ma
non può giustificarsi l’azione di avere sparato contro i manifestanti
utilizzando armi da fuoco di notevole potenza.
A tale riguardo, infatti, deve in ogni caso esistere un equilibrio
tra il fine perseguito ed i mezzi utilizzati (cfr. sentenza Glec c.
Turchia40).
39 Cfr dec. 10 luglio 1984 su ricorso n.10044/1982 in DR, 39, p.162; sul punto v. anche dec.14 luglio 1975 sul ricorso n.6861; dec. 9 marzo 1977 su ricorso n.7126/75 non pubblicato;
40 sentenza 27 luglio 1998 in BLASI-RUSSO, sub. art. 2 Diritto alla vita, in BARTOLE-CONFORTI-RAIMONDI, Commentario alla Convenzione, cit., 47
Infine vi è da dire che l’art. 2 della Convenzione in oggetto non
consente l’introduzione legislativa di misure ante delictum che
comportino la soppressione del soggetto pericoloso41.
2.2. Gli interventi armati dell’ O.N.U. e le
R.O.E.
L’analisi del tema in questione è condotta, attraverso un duplice
aspetto, cioè sui motivi che legittimano un intervento armato da parte
di una forza multinazionale per ristabilire la pace e la sicurezza fra le
nazioni in ossequio agli art. 3942 e 4043 della Carta delle Nazioni
Unite44 con tutte le conseguenze che ne derivano, e le c.d. “regole
41 Cfr. CHIAVARIO, La convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, 136 nota 11. L’art. 2 della Convenzione, resa operante nel nostro diritto con la legge 4 agosto 1955 n. 848, consente l’uccisione << nel caso in cui il ricorso alla forza sia reso absolutement nécessaire per proteggere le persone da una violenza illegale >>, cit. in CAMAIONI, Rilievi sull’uso legittimo delle armi, in Arch. pen., XXXVII, 1985, 140, nota 95;
42 Articolo 39 - Il Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto d’aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure devono essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.
43 Articolo 40 - Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio di Sicurezza prima di fare le raccomandazioni o di decidere sulle misure previste all'articolo 41, può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali misure provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. Il Consiglio di Sicurezza prende in debito conto il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie.
44 Lo Statuto delle Nazioni Unite è stato firmato a San Francisco il 26 giugno 1945 dai 50 paesi membri, a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull'Organizzazione Internazionale. Entrò in vigore il 24 ottobre 1945, dopo la ratifica da parte dei 5 membri fondatori: Cina, Francia, Unione Sovietica, Regno Unito, e Stati Uniti. È un trattato e quindi, secondo le normative di diritto internazionale è vincolante per tutti gli Stati che lo hanno ratificato. Tuttavia, quasi tutti in paesi del mondo hanno ormai aderito all'ONU, per
d’ingaggio” (R.O.E. - Rules of engagement)45 che costituiscono i limiti
all’uso della forza da parte dei militari46 impiegati in missione
all’estero.
Tra gli scopi principali delle Nazioni Unite, indicati nell’art. 1
dello Statuto, vi è quello di mantenere la pace e la sicurezza
internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per
prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti
d’aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi
pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto
internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o
delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una
violazione della pace.
Nel perseguire i suoi fini, ed in particolare quello di
mantenere la pace e la sicurezza fra le Nazioni, l’Organizzazione
cui la sua validità è pressoché universale. In Italia lo Statuto è stato ratificato con la legge n. 848 del 17 agosto 1957.
45 Nella seduta del 7 novembre 2001 – Senato della Repubblica – 63^ seduta pubblica concernente “comunicazioni del Governo sull’impiego di contingenti militari italiani all’estero in relazione alla crisi internazionale in atto o conseguente discussione”, il pro-tempore Ministro della Difesa, On.le Martino, ha precisato che le R.O.E. – rules of engagement- << rappresentano le direttive emanate dalle competenti autorità militari, che specificano le circostanze e i limiti entro cui le forze possono iniziare o continuare il combattimento con quelle contrapposte. Le ROE, quindi, limitano o autorizzano l’uso della forza nel rispetto del diritto internazionale e della legge sui conflitti armati, nonché delle leggi e regolamenti nazionali in vigore. Naturalmente, la scelta delle R.O.E. deve essere compatibile con la missione >> in www.parlamento.it
46 Per questioni d’economia in relazione agli scopi del presente studio, l’analisi sarà limitata
soltanto ai militari italiani, poiché le ROE non sono uguali per tutti i Paesi che partecipano alla formazione dei contingenti multinazionali inviati in missione all’estero.
deve agire in conformità a diversi principi47, tra cui quello di
obbligare i membri ad astenersi nelle loro relazioni internazionali
dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o
l'indipendenza politica di qualsiasi Stato. Nel caso in cui il Consiglio
di sicurezza48 registri una violazione degli accordi, può invitare (ex
art.40 dello Statuto) le parti interessate ad ottemperare a quelle misure
provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili per ristabilire
la pace e la sicurezza, nonché effettuare delle “raccomandazioni”
(art.39 dello Statuto) agli Stati che hanno violato gli accordi.
In caso di persistenza nel loro comportamento da parte degli
Stati violatori può agire adottando misure, non implicanti l'impiego
della forza armata che potranno consistere nell’interruzione totale o
parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie,
marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle
relazioni diplomatiche.
Solo, in ultima istanza, potrà ai sensi dell’art. 41 intraprendere,
con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per
mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale
47 v. art. 2 dello Statuto 48 Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è l'organo probabilmente più potente delle
Nazioni Unite. Si riunì per la prima volta il 17 gennaio 1946 a Londra. Lo scopo del Consiglio è stabilito dall'articolo 24 dello Statuto delle Nazioni Unite, al consiglio è conferita "la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale".
azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni
mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite.
Pertanto, anche in ambito internazionale, l’uso delle armi si
appalesa come extrema ratio, e si rende concreto nelle ROE che sono
assegnate ad ogni contingente disposto dall’ONU.
Con riferimento ai militari italiani, rispetto a quest’ultimo
argomento, l’interrogativo è costituito dalla necessità di conoscere i
rapporti che intercorrono tra tali regole ed altre norme
dell’ordinamento italiano, applicabili ai militari all’estero ed in
particolare quelle codificanti cause di non punibilità a fronte della
commissione di fatti reato.
In particolare la problematica che si pone è: possono le R.O.E.
prevedere un uso della forza più “elastico”49 rispetto a quello
consentito - ricorrendo determinate condizioni - dalla normativa
penale italiana in materia di uso legittimo delle armi, legittima difesa
individuale ecc50; oppure vi è coincidenza, con la conseguenza che,
49 La possibilità di un mutamento delle R.O.E. nel senso di una loro maggiore elasticità così da non costringere i militari italiani ad un atteggiamento eccessivamente arrendevole, si trova prospettata nell’intervento in Parlamento del Ministro della Difesa in data 18 luglio 2004 sulla morte del caporale Vanzan avvenuta a seguito delle gravi ferite riportate negli scontri a fuoco di Nassyriah (Iraq) tra militari Italiani e miliziani iracheni il 16 maggio 2004, in www.difesa.it
50 oltre alle esimenti previste nel c.p. del 1930 si pensi all’art. 41 c.p.m.p. - Uso legittimo
delle armi - secondo cui <<Non è punibile il militare, che, al fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o d’altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o rivincere una resistenza >>; art. 44 c.p.m.p.- Casi particolari di necessità militare - secondo cui <<Non è punibile il militare che ha commesso un fatto costituente reato per esservi stato costretto dalla necessità di impedire l’ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o
soltanto al ricorrere dei presupposti previsti dalle norme penalistiche
ed alle condizioni dalle medesime stabilite, i soldati italiani, nel caso
d’uso della forza armata, non sconfineranno nell’area del penalmente
rilevante?
La risposta a tali interrogativi presuppone un’indagine sulla
natura giuridica delle R.O.E. al fine di valutare la loro posizione
nell’ambito delle fonti dell’Ordinamento.
Soltanto, infatti, nell’ipotesi in cui le R.O.E. risultassero
rivestire il grado di una fonte normativa pari o superiore a quella delle
disposizioni sulle cause di non punibilità, potrebbe in astratto essere
ritenuta ammissibile una regolamentazione derogatoria, con l’effetto
che tali regole sarebbero idonee, in sostanza, a scriminare condotte
che, invero, non ricadrebbero nell’ambito operativo delle già
codificate cause d’esenzione dalla pena.
Diversamente, però, qualora le R.O.E. fossero qualificate come
fonti subordinate alla legge, non potendosi evidentemente ammettere
deroghe alla stessa da parte di una fonte sott’ordinata, le regole
d’ingaggio non potranno che doppiare, quanto a contenuto e limiti, gli
elementi contenutistici previsti dalle varie cause di non punibilità
codificate, ricomprendendo, dunque, nell’area del penalmente
comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell’aeromobile, ecc.>>
rilevante tutte le condotte criminose, i cui elementi sono diversi da
quelli tipizzati nel codice51.
Sembra condivisibile la seconda scelta interpretativa
configurandosi le R.O.E., in realtà, quali atti amministrativi – ordini
gerarchici. A tal proposito devono esser menzionate due fondamentali
previsioni legislative:
- l’art.1 comma 1 della legge 14/11/2000 n.331 che assegna alle
F.AA., tra l’altro, il compito di << operare al fine della
realizzazione della pace e della sicurezza in conformità alle regole
del diritto internazionale del quale l’Italia fa parte >>;
e
- l’art. 1 comma 1 lett. a) della legge 18/3/1997 n.25 secondo
cui il Ministro della Difesa << attua le deliberazioni in materia di
difesa e sicurezza adottate dal Governo sottoposte all’esame del
Consiglio Supremo di Difesa e approvate dal Parlamento >>.
Occorre evidenziare a riguardo che la Commissione Difesa
della Camera dei Deputati, con la risoluzione nr. 7-1007 del 16/1/2001
ha apportato nuovi elementi al quadro normativo vigente specificando
la necessità di quattro passaggi procedurali:
51 D’ANGELO, Missioni militari all’estero, regole d’ingaggio e cause di non punibilità codificate nella legislazione comune e militare. La natura giuridica delle R.O.E., in Dir. pen. e proc., 2005, 9, 1161 ss.
deliberazione governativa con conseguente informativa alle
Camere;
approvazione da parte delle due Camere della deliberazione
governativa;
sèguito governativo alla delibera parlamentare tramite
presentazione di un disegno di legge o emanazione di un decreto
legge per la copertura finanziaria della missione;
adozione delle disposizioni attuative da parte
dell’Amministrazione militare.
Pertanto, il Ministro della Difesa, nell’ambito delle attribuzioni
in materia concernenti l’invio di militari italiani all’estero, esegue -in
via amministrativa- le deliberazioni dell’esecutivo sottoposte
all’esame del Consiglio Supremo di Difesa, approvate dall’assemblea
parlamentare (nella prassi mediante un atto non legislativo) essendo
necessario, a monte, in ogni caso, che l’adottanda decisione sia
conforme al diritto internazionale e alle determinazioni di quelle
organizzazioni internazionali cui lo stato italiano appartiene.
Ciò posto, essendo il Ministro della Difesa il massimo organo
gerarchico e disciplinare preposto all’amministrazione militare, come
sancito dall’art. 1 della legge n.25/1997, appare indiscutibile che i
provvedimenti dallo stesso adottati in materia di missioni all’estero
rappresentino “ordini gerarchici”.
Più nel dettaglio, va specificato che le ROE sono,
verosimilmente, elaborate dall’Autorità politica nell’ambito del primo
passaggio procedurale sopra indicato (deliberazione governativa) sulla
scorta delle indicazioni contenute nelle risoluzioni ONU che
dispongono l’utilizzo della forza multinazionale, e necessitano di
essere approvate dall’assemblea parlamentare che, nella fattispecie,
non dispone con atto legislativo, bensì con un atto d’indirizzo
(risoluzione)52. Successivamente, pertanto, sarà il Ministro della
Difesa (ed il relativo staff) a tradurre, anche tecnicamente, dette ROE
in provvedimenti vincolanti per le truppe, sotto forma d’ordini
gerarchici.
Ciò posto, si ritiene che, dovendo gli ordini gerarchici essere
conformi alla legge come previsto dall’art. 4 della legge 382/197553,
appare chiaro che le ROE non potranno mai derogare ai presupposti e
ai limiti nelle disposizioni in materia d’esimenti codificate.
52 ad esempio l‘attuale missione in Iraq denominata “Antica Babilonia” è stata autorizzata con risoluzioni della maggioranza nr. 6-0006 e nr. 6-00046 approvate il 15 aprile 2003 dalla Camera (308 favore, 31 contrari, e 159 astenuti) e dal Senato (153 voti a favore, 26 contrari e 2 astenuti), in www.parlamento.it
53 Art. 4 co..4 L. 1 luglio 1978 n.382 << Gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardante il servizio e non eccedere i compiti d’istituto >>
Ciò comporta che, ad esempio, in materia d’utilizzo legittimo
delle armi, non potrà essere ipotizzato un impiego d’armamenti a
scopo preventivo, unilaterale ed offensivo, dovendosi invece rispettare
il disposto di cui all’art. 41 c.p.m.p. che postula la necessità di
respingere una “violenza” o di vincere una “resistenza”.
In tale ottica, anche l’operatività della norma sulla legittima
difesa di cui all’art.52 c.p. nel caso di commissione di reati comuni
(non militari) nell’ambito di quelle missioni assoggettate al codice
penale militare di pace54, sarà subordinata al ricorrere di una
situazione “aggressiva” (il presentarsi di un pericolo attuale di un
offesa ingiusta) che rende necessario difendere un diritto proprio od
altrui e sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa55.
Ne consegue che l’adozione di regole d’ingaggio autorizzanti,
ad esempio, un uso delle armi anche in termini più ampi di quelli
previsti dall’art. 41 c.p.m.p., ovvero in termini sproporzionati a fronte
di pericoli non attuali, ecc., realizzerebbe una violazione del
“principio di legalità.”, con tutte le conseguenze in termini di
legittimità o meno degli ordini gerarchici impartiti in tal senso, fonte 54 Il riferimento alle missioni di pace è indotto dalla circostanza che l’art. 47 c.p.m.g. come
recentemente novellato, considera reati militari un gran numero di reati comuni e pertanto nelle missioni in cui opera la disciplina del codice penale militare di guerra dovrà essere applicato, in luogo dell’art. 52 c.p., l’art. 42 c.p.m.p., come sancito dalla norma medesima (ammesso che le scriminanti codificate dalla legislazione militare di pace si applichino ai militari impegnati in missioni regolamentate dal c.p.m.g. stante il crisma di eccezionalità e temporaneità di quest’ultimo corpus normativo)
55 D’ANGELO, Missioni militari, cit.,1162.
di “conflitti” di doveri in capo al singolo militare. A riguardo si
precisa che l’art. 4 della legge 382/1978 contempla, nel caso d’ordine
manifestamente criminoso o rivolto contro le Istituzioni dello Stato
(rectius contro i precetti fondamentali della carta costituzionale),
l’ipotesi di disobbedienza proprio quale strumento per ottemperare al
fondamentale dovere di fedeltà.
In definitiva, nella situazione attuale, l’esecutore di un ordine
conforme a regole d’ingaggio di tipo “elastico” rischierebbe di vedersi
imputato di un fatto di reato in concorso con il superiore gerarchico,
fatta salva l’ipotesi di cui all’art. 25 comma 2 DPR 545/198656 o, più
in generale, la ricorrenza di un error facti o iuris e, ferma restando, in
quest’ultimo caso, la possibilità di attribuire il fatto a titolo di colpa,
sempre ché il reato sia previsto anche nella forma colposa57.
Tuttavia, in questi ultimi anni, l’esperienza delle missioni
all’estero compiute dai nostri militari ed in particolare quella
attualmente in corso in Iraq, hanno evidenziato la necessità di
garantire l’incolumità fisica dei militari impiegati in missione di pace,
56 secondo cui << il militare al quale venga impartito un ordine che non ritenga conforme alle norme in vigore deve, con spirito di leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato.>> Tuttavia, secondo BRUNELLI, Diritto penale militare, III ed. 2002, 83; l’adozione della cautela, da parte dell’inferiore, dell’invito a ribadire l’ordine ricevuto e ritenuto di dubbia legittimità, consentirebbe l’applicabilità dell’art. 51 c.p., ultimo comma, codificandone un a causa di non punibilità.
57 D’ANGELO, Missioni militari, cit., 1162
bisogna quindi adeguare gli “scopi” alla situazione concreta dell’O.P.
e della P.S. del territorio in cui si va ad operare.
In tale senso sarebbe necessaria una modifica al contesto “non
bellico” cui fa riferimento l’art. 11 della costituzione e che impone un
uso della forza militare in ambito internazionale in termini non
d’offesa/aggressione che inibisce una regolamentazione derogatoria,
ma che consenta l’utilizzo degli armamenti anche in chiave preventiva
al fine di garantire l’incolumità fisica degli stessi militari.
Ciò potrebbe essere risolto facendo anche ricorso ad una
“interpretazione per così dire evolutiva”58 dell’articolo in questione
che dovrebbe essere proposta al parlamento dall’esecutivo che, invece,
ostinandosi a parlare di “missioni di pace” opta per una soluzione
“diplomatica” in virtù d’alleanze internazionali “utili per il Paese”
lasciando irrisolto il problema che rimane a chi si trova sul campo a
fronteggiare una situazione decisa “a tavolino”59.
58 v. supra cap.2 § 4.1, nota 83. 59 ad esempio la missione “Antica Babilonia” non è stata avallata dall’ONU che non ha
creduto al possesso di armi di distruzione di massa da parte del dittatore iracheno Saddam Hussein paventata dagli americani. In effetti, si è poi chiarito che tali armi non esistevano, ma la guerra si è fatta, e l’Italia ha partecipato con i noti effetti disastrosi della strage di Nassyria. Ritengo, in proposito che vi sia stato un errore di valutazione sulla situazione del Paese in cui sono andati i nostri militari che hanno dovuto difendersi da pericoli difficilmente fronteggiabili sulla base delle R.O.E. ricevute da cui hanno avuto anche origine i comportamenti oggetto di esame della Procura militare di Roma accaduti durante la “battaglia dei Ponti” svoltasi a Nassirja il 7 aprile 2004 per la quale sembra sia stato aperto un fascicolo a seguito di esposti (cfr Interrogazione parlamentare n.3-03274 del 20 aprile 2004 e relativa risposta, in www.parlamento.it )
Premesso quanto sopra, occorre ora affrontare un ulteriore
problema: ai militari impegnati in missioni di pace all’estero ed
assoggettati al codice penale militare di guerra60, possono essere
applicate le esimenti previste dal codice penale militare di pace?
Il quesito non è privo di risvolti applicativi, soprattutto se si
considera che alcune delle cause di non punibilità previste dalla
legislazione di pace (art.41 e 44 c.p.m.p.) possono trovare
un’applicazione ampia poiché riferibili anche alla commissione di
reati comuni (non militari) realizzati da un appartenente alle FF.AA.61.
Così ad esempio l’esimente dell’uso legittimo delle armi, che
come visto circoscrive l’ambito dell’utilizzo della forza al ricorrere di
determinate circostanze, qualora fosse ritenuto non applicabile ai
militari impegnati nelle missioni da ultimo ipotizzate, produrrebbe
come conseguenza una restrizione delle cause di non punibilità
concernenti il personale militare, con riduzione dei casi di legittimo
uso della forza, poiché pur potendosi ipotizzare una riespansione
dell’esimente di diritto penale comune (art. 53 c.p.), l’operatività della
60 Ai militari impegnati nella missione in Iraq, in virtù del D.L. 10 luglio 2003 n.,165 conv. in legge 1/8/2003 n.219, si applica il codice penale militare di guerra e l’art. 9 del D.L. 1/12/2001 n.421 conv. con modificazioni in L. 31/1/2002 n.6
61 Cfr. BRUNELLI, Diritto penale militare, III edizione, 2002, 84; il quale osserva con riferimento all’art. 41 c.p.m.p che la norma riguarda più lo statuto penale del militare che la specifica materia del diritto penale militare.
stessa sarebbe, tuttavia, preclusa dalla mancanza della qualità di
“pubblico ufficiale” in capo agli appartenenti alle FF.AA.62.
Sul punto si fronteggiano differenti ricostruzioni: quella
secondo cui l’applicazione della legge penale militare di guerra
determinerebbe la temporanea sospensione della legge penale di
pace63; e quella per cui, stante il carattere di complementarietà della
prima rispetto alla seconda, ravvisa una contemporanea vigenza dei
due complessi normativi, uno dei quali, quello di guerra, concernente
norme prevalenti perché speciali rispetto a quelle contenute in quello
di pace e disciplinanti la stessa materia64.
62 Proprio la non configurabilità della qualità di pubblico ufficiale in capo al personale militare, a meno d’incarichi che attribuiscano specificamente tale status (ad es. incarichi di polizia militare) ha indotto il legislatore militare del 1941 alla formulazione dell’art.41 c.p.m.p., in tale senso BRUNELI, op. cit., 84-85
63 VENDITTI, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, I, Milano, 1995, 1 ss.. Tale tesi è stata elaborata prima delle recenti modifiche al codice penale militare di guerra le quali, ai fini dell’applicazione del medesimo, non richiedono più la dichiarazione dello stato di guerra.
64 BRUNELI, op. cit., 29 ss.
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