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IL PANE, L’OLIO E IL VINO: L’ALIMENTAZIONE NEL MONDO GRECO-ROMANO Lo storico greco Plutarco (45-125) scriveva che i giovani ateniesi, giunti all'età adulta, prestavano un giuramento di fedeltà alla patria, nella cui formula essa era descritta come la terra in cui «crescono il grano, l'olivo e la vite». Infatti i principali alimenti derivati dalle tre piante in questione - cioè il pane, l'olio e il vino - costituivano il nucleo del sistema alimentare greco. La stessa triade alimentare fu anche al centro della gastronomia romana, ma la varietà dei cibi, il maggior rilievo attribuito alle carni rispetto ai prodotti della terra e le sofisticate tecniche di preparazione rendevano la cucina dei romani più complessa. Parallelamente aumentò il divario fra cibo dei ricchi e cibo dei poveri. Questa triade dominò la cucina delle civiltà del Mediterraneo fino alle invasioni germaniche del V secolo e, ancora oggi, essa rimane il cuore di quello che i gastronomi del Novecento hanno chiamato "dieta mediterranea", esaltandone le qualità dietetiche e gastronomiche. ALIMENTAZIONE E CONVIVIALITÀ IN GRECIA Il pane Sicuramente il pane rappresentava l'alimento principe della cucina greca, come è dimostrato dagli interventi delle autorità delle poleis sui prezzi e sull'acquisto dei cereali, di cui parleremo più avanti . Tuttavia il pane come noi lo intendiamo - bianco, lievitato e prodotto con la farina di grano - era per i greci un prodotto tanto importante quanto costoso. Non dobbiamo infatti dimenticare che l'ambiente naturale greco, a causa del suo carattere arido e scosceso, è più idoneo alla coltivazione di piante ad alto fusto (come l'ulivo, gli alberi da frutto e la stessa vite) che non di cereali. Non a caso in tutta l’età antica il principale prodotto importato dalle città greche fu proprio il grano, che veniva comprato soprattutto dalle colonie .greche della Sicilia e del Mar Nero.

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l'alimentazione ANTICHITA'

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IL PANE, L’OLIO E IL VINO: L’ALIMENTAZIONE NEL MONDO GRECO-ROMANO

Lo storico greco Plutarco (45-125) scriveva che i giovani

ateniesi, giunti all'età adulta, prestavano un giuramento di fedeltà

alla patria, nella cui formula essa era descritta come la terra in

cui «crescono il grano, l'olivo e la vite».

Infatti i principali alimenti derivati dalle tre piante in questione -

cioè il pane, l'olio e il vino - costituivano il nucleo del sistema

alimentare greco. La stessa triade alimentare fu anche al centro

della gastronomia romana, ma la varietà dei cibi, il maggior

rilievo attribuito alle carni rispetto ai prodotti della terra e le

sofisticate tecniche di preparazione rendevano la cucina dei

romani più complessa. Parallelamente aumentò il divario fra cibo

dei ricchi e cibo dei poveri.

Questa triade dominò la cucina delle civiltà del Mediterraneo fino

alle invasioni germaniche del V secolo e, ancora oggi, essa

rimane il cuore di quello che i gastronomi del Novecento hanno

chiamato "dieta mediterranea", esaltandone le qualità dietetiche e gastronomiche.

ALIMENTAZIONE E CONVIVIALITÀ IN GRECIA Il pane Sicuramente il pane rappresentava l'alimento principe

della cucina greca, come è dimostrato dagli interventi

delle autorità delle poleis sui prezzi e sull'acquisto dei

cereali, di cui parleremo più avanti . Tuttavia il pane

come noi lo intendiamo - bianco, lievitato e prodotto

con la farina di grano - era per i greci un prodotto

tanto importante quanto costoso. Non dobbiamo infatti

dimenticare che l'ambiente naturale greco, a causa

del suo carattere arido e scosceso, è più idoneo alla

coltivazione di piante ad alto fusto (come l'ulivo, gli

alberi da frutto e la stessa vite) che non di cereali. Non

a caso in tutta l’età antica il principale prodotto

importato dalle città greche fu proprio il grano, che

veniva comprato soprattutto dalle colonie .greche della Sicilia e del Mar Nero.

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Più diffuso era invece l'orzo, cereale di minore qualità, con il quale i greci preparavano prodotti simili al

pane o alla focaccia, il più diffuso dei quali era la maza, forse l'alimento a base di cereali più consumato

nel mondo greco antico. L'orzo era anche consumato, soprattutto dai contadini, in forma di chicchi tostati

o di minestra.

L'olio e le sue qualità Spesso il grano acquistato dai greci era scambiato con l’olio, di cui la Grecia non

faceva difetto . I più antichi reperti che testimoniano la produzione di olio in area

ellenica sono stati individuati a Creta e risalgono almeno al 2500 a.C. A partire da

questa data, la sua produzione si diffuse progressivamente nel resto della Grecia

insulare e peninsulare , trovando, come s'è detto in precedenza, favorevoli condizioni nel

clima e nella morfologia del territorio. Vi erano almeno tre qualità di olio: quelle ottenute

con la prima spremitura delle olive verdi o nere e quello comune, frutto di spremiture

successive e quindi di livello inferiore . L'olio veniva utilizzato non solo come

condimento, sia freddo che caldo, ma anche come medicinale - ingerito o in forma di unguento - oltre

che nell'illuminazione e nella cosmesi.

Il vino, la bevanda preferita dai greci Il terzo elemento della triade alimentare, il vino, costituiva la bevanda principale dei

greci.

La produzione di vino si diffuse in Grecia probabilmente a partire dall'inizio del I

millennio a.C., trovando anche in questo caso un ambiente naturale decisamente

propizio. Ne sono una prova non solo la grande popolarità di questa bevanda e

la sua esportazione in tutto il Mediterraneo, ma anche le numerose varietà che

venivano prodotte nella Grecia antica.

Vi erano infatti vini sia rossi che bianchi , a loro volta suddivisi in varie qualità, che

gli autori dell’ epoca classificano in base al bouquet, al sapore - che poteva essere "secco",

"amabile", "aspro", "leggero", "corposo" ecc. - e alla provenienza.

È probabile che i più apprezzati fossero i vini di tipo liquoroso ad alta gradazione (tra i 16° e i 18°); la

diffusione di vini di questo tipo dimostra che i greci antichi possedevano tecniche enologiche già

avanzate, al punto da poter garantire, mediante l'utilizzo di anfore provviste di ottimi tappi di sughero,

un lungo invecchiamento del prodotto.

Verdure, legumi e frutta

Naturalmente in Grecia pane, olio e vino non erano gli unici alimenti.

Quasi al livello dei principi della tavola greca antica, dobbiamo infatti

ricordare i legumi, in particolare fave, lenticchie e ceci. Non

mancavano, inoltre, i prodotti dell'orto, come la cipolla, l'aglio, la rapa

e le insalate (per esempio il crescione) o le erbe aromatiche (in

particolare maggiorana e timo). Verdure e legumi erano il principale

accompagnamento della maza o del pane tra i contadini e i cittadini più poveri, anche se talvolta, nei

periodi di carestia, li sostituivano del tutto. Altra grande protagonista dell'alimentazione greca era la

frutta, sia selvatica che coltivata: innanzi tutto il fico, consumato sia fresco che secco, ma anche il

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melone, la mela , la pera , la nespola e, naturalmente, l'uva. Non vanno inoltre dimenticati il formaggio,

utilizzato sia direttamente che come ingrediente (soprattutto nella preparazione di dolci), e il miele,

usalo come conservante e come dolcificante.

Il consumo di carne legato ai sacrifici religiosi Quanto detto finora non significa che i greci fossero vegetariani, benché non mancassero comunità

filosofico-religiose, come quella fondata dal filosofo

Pitagora (575-490 a.C.), che rifiutavano di nutrirsi di

carne. In realtà i greci mangiavano anche pesce - in

quantità significative, data la pescosità del mar

Mediterraneo - e carne. Tuttavia quest'ultima occupava

uno spazio particolare nell'alimentazione greca (e,

almeno in parte, in quella romana), essendo strettamente

legata al fenomeno religioso del sacrificio, cioè

dell'offerta di un bene a un dio o ad un altro essere

sovrannaturale.

I greci, infatti, per lo più consumavano carne solo in occasione di ricorrenze religiose che

implicavano il sac1ificio di animali agli dei. Tali festività potevano interessare l'intera cittadinanza - e

in questo caso tutti i cittadini potevano partecipare al consumo delle carni sacrificate - oppure solo

una sua parte o anche una singola famiglia, per esempio in seguito a ricorrenze come i matrimoni.

Gli animali sacrificati, e mangiati, erano soprattutto ovini e suini e, solo in casi straordinari, bovini.

Non sappiamo se e in che misura la sola carne mangiata dai greci fosse quella uccisa in occasione di

sacrifici religiosi. È comunque probabile che nella Grecia classica fosse raro il consumo di carne al di

fuori di contesti sacrificali sia a causa delle norme che condannava- no chi si cibava di carni non

sacrificate agli dei, sia per la presenza in tutto il mondo antico del divieto, che assumeva i caratteri della

vera e propria ripugnanza , di mangiare le carni di animali non uccisi dall'uomo. Le bestie trovate morte

erano agli occhi dei greci, come anche dei romani, nient'altro che "carogne", di cui solo una bestia, ma

non un essere umano, poteva cibarsi. In sostanza, nell'alimentazione dei greci, la carne, pur non essendo

per nulla disprezzata (come è anche testimoniato dalla grande popolarità che avevano i banchetti in cui

era previsto il consumo di carne), occupava un posto assolutamente particolare ed eccezionale e certa-

mente non faceva parte della dieta quotidiana.

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Gastronomia e tecniche di preparazione

Per quanto concerne la gastronomia, va sottolineato che i greci, salvo

nei casi in cui erano invitati a man- giare a casa di amici o partecipavano

a banchetti pubblici organizzati dalle autorità della polis, mangiavano a

casa propria. L'attività di preparazione dei cibi occupava quindi un ruolo

importante nella loro vita familiare. A essa si dedicavano soprattutto le

donne, che nella società greca erano poste in una posizione netta-

mente subordinata ai maschi, condizione che le obbligava a rimanere

tra le mura casalinghe e a occuparsi delle attività di cura, come

l'allevamento dei figli o la produzione di cibi e di abiti. Nelle famiglie più ricche, peraltro, le parenti del

padrone di casa sovrintendevano solamente alle attività in cucina, lasciando il grosso del lavoro alle

schiave.

Fino quasi alla fine del V secolo a.C. erano preparati in casa tutti i cibi, compresi il pane e la maza, che

erano prodotti a partire dai chicchi di cereali, come è testimoniato dalle macine e dai forni casalinghi ritrovati

in molti siti archeologici. Solo dopo la seconda metà del V secolo cominciarono a diffondersi, prima ad

Atene e poi negli altri centri urbani, le botteghe dei panettieri, presso i quali si andava a comprare il pane già

cotto; sempre in questo periodo cominciò a diffondersi la vendita nei mercati della farina di orzo. Entrambi i

fenomeni mostrano il progressivo abbandono, per lo meno tra gli abitanti delle città, dell’ uso delle macine

e dei forni casalinghi. Per quanto concerne le tecniche di conservazione dei cibi, nella Grecia antica,

come in tutte le società preindustriali, il principale prodotto utilizzato - soprattutto nella conservazione

delle olive e del pesce - era il sale.

Le tecniche di preparazione, fino al V secolo non dovevano essere

né particolarmente complesse, né particolarmente differenziate tra

la varie classi sociali . La cucina arcaica greca probabilmente era

costituita soprattutto da zuppe o pappe, fatte di verdure o cereali

bolliti, e da verdure, pesci o cereali arrostiti. Sicuramente diffusi

erano i dolci, preparati con farine di cereali, miele e formaggio.

Successivamente le città greche, a partire da Atene, cominciarono a

sviluppare gusti alimentari più variati; ne sono prova la diffusione della frittura (consistente nella cottura in

un liquido a base di olio, scaldato ad alta temperatura, e testimoniata dalla comparsa di padelle in

ceramica intorno al 400 a.C.) e di nuovi ingredienti importati da altri paesi, come alcune spezie e alcune

qualità di pesce. L'uso di questi prodotti d'importazione, il cui costo era sicuramente molto elevato, dimostra

che, a partire dal IV secolo a.C., i gusti popolari e quelli delle classi privilegiate cominciarono a differenziarsi

sempre più, secondo una linea di tendenza che ritroveremo, in misura ancor più accentuata, nella società

romana.

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Convivialità e banchetti

Prima di passare a considerare il sistema alimentare romano,

dobbiamo soffermarci ancora su un aspetto di quello greco, senza il

quale non è possibile comprenderne fino in fondo il significato: la

convivialità. Per i greci, mangiare voleva dire innanzi tutto mangiare

insieme. La convivialità al momento del pasto non

solo non era un aspetto secondario nel quadro delle pratiche

alimentari, ma costituiva un momento di grandissima importanza

dal punto di vista sociale: per un greco non era pensabile che un uomo degno di questo nome

mangiasse da solo, tant'è che uno degli aspetti che ai suoi occhi distinguevano l'uomo civile dal

"barbaro" era proprio il fatto che il primo mangiava sempre in compagnia dei propri simili, mentre il

"barbaro" si nutriva in solitudine.

Come e perché banchettavano i greci? Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzi tutto considerare che i banchetti in Grecia si

svolgevano non solo all’interno delle case private , ma anche in luoghi pubblici, in occasione di feste religiose

e di eventi particolarmente importanti per la polis.

Come abbiamo già osservato, si banchettava in occasione dei sacrifici di animali agli dei e il pasto

comune costituiva il momento in cui i sacrificanti si nutriva- no della carne degli animali sacrificati. La

convivialità era dunque duplice: si banchettava sia con gli dei, in quanto si condividevano con loro le

vittime sacrificali, sia con gli uomini, come patte di una stessa comunità religiosa, familiare o sociale.

Solo per gli uomini e per le loro "compagne" Il grande valore attribuito ai banchetti spiega perché i greci si preoccupassero di stabilire in modo dettagliato

chi potesse essere ammesso ai banchetti. A questo proposito la prima osservazione riguarda un 'esclusione:

quella delle donne che, secondo l'atteggiamento anti- femminile tipico di tutta la società greca, non potevano

partecipare né ai banchetti p1ivati né a quelli pubblici, con la sola eccezione delle etère. Queste ultime erano

donne che, in genere in cambio di denaro, intrattenevano gli uomini, offrendo però non solo prestazioni

sessuali, come la comune prostituta, che i greci chiamavano porne, ma anche una compagnia nel senso più

vasto della parola; tuttavia anche le etere erano ammesse so- lo nelle case private, ma in nessun caso nei

banchetti pubblici. Se non si svolgeva in locali pubblici, il banchetto ave va luogo all'interno dell'ambiente

della casa chiamato andron, ossia "stanza degli uomini", a sottolineare ancora un volta il carattere

fondamentalmente maschile dell'incontro. Il pasto veniva consumato sdraiati su una sorta di letto, chiamato

klfne, con a fianco dei tavolini mobili di piccole dimensioni su cui erano posti i piatti contenenti le vivande.

Non esistevano posate e il cibo veniva consumato con le mani , mentre i resti del pasto venivano gettati per

terra; il servizio era assicurato dagli schiavi.

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Il banchetto e il simposio

Una delle caratteristiche fondamentali dei banchetti greci era la loro netta suddivisione in due momenti

separati: quello in cui si mangiava, il banchetto in senso stretto, e quello in cui si beveva, che i greci

chiamava- no symposion. Esso aveva in genere luogo alla fine di un banchetto privato, mentre assai rari

erano i casi di simposi in luoghi pubblici.

A sottolineare la sua separatezza dal banchetto, prima del simposio la stanza veniva accuratamente ripulita

dai resti del pasto. A questo punto i commensali sceglievano un simposiarca, che non era necessariamente

il padrone di casa o il personaggio socialmente o politica- mente più importante, cui era affidato il compito di

fissare le regole della serata.

La prima di queste regole riguardava la proporzione di acqua e di vino che avrebbe sostituito la miscela

bevuta dai convitati. Non bisogna infatti dimenticare che i greci non bevevano pressoché mai il vino allo

stato puro, ma lo diluivano sempre con l'acqua. Nel corso dei simposi solo raramente si mescolava una

parte di vino con una di acqua, mentre le proporzioni più frequenti prevedevano non meno di 2-3 parti di

acqua contro una di vino. La miscela preparata veniva posta al centro della sala in un vaso di grandi

dimensioni, il cratere, da cui i servi mescevamo il liquido che veniva bevuto dai commensali in coppe.

Le altre decisioni del simposiarca riguardavano il carattere della serata. Il simposio, infatti, dopo una prima

fa- se di tipo religioso in cui si brindava agli dei - tradizionalmente a Dioniso, più tardi anche a Zeus o ad

Apollo - e si cantava un inno liturgico, continuava con successive bevute, che erano in genere

accompagnate da varie attività.

Assai frequente era la recitazione di poesie, scritte in precedenza o inventate dagli stessi partecipanti; la

musica, suonata in genere da qualche schiavo, costituiva un sottofondo costante della serata; frequenti,

infine, erano le discussioni, di carattere culturale, sportivo, politico o addirittura filosofico (cfr. il dossier

Dibattito).

L’ ebbrezza regolata

È evidente che l'obiettivo del simposio era il raggiungimento dello stato di ebbrezza mediante

l'assunzione di quantità crescenti di vino. Ciò non significa che questo tipo di incontro dovesse

necessariamente sfociare in vere e proprie ubriacature o in situazioni incontrollate di delirio collettivo.

Certo non era infrequente che i partecipanti al simposio si addormentassero nel corso della serata, che

dovessero essere accompagnati a casa da un servo perché inca- paci di reggersi in piedi o che, sotto

l'influsso del vino, perdessero il controllo e scoppiassero dei litigi. Nondimeno, secondo la morale greca,

un buon simposio era quello in cui l'ebbrezza era "regolata", cioè non era eccessiva e avveniva all'interno di

una serie di regole concordate e in un clima di amicizia con gli altri partecipanti. Insomma, il piacere

derivante dal cibo e dal vino non era per nulla condannato dal mondo greco, a condizione che fosse

moderato e tenuto sotto controllo.

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BANCHETTI E FRUGALITA’: L’ALIMENTAZIONE DEI ROMANI

Somiglianze e differenze con l'alimentazione greca

Anche al centro della civiltà alimentare romana vi era la triade di "divinità alimentari" costituita dal pane,

dall'olio e dal vino. Tuttavia, pur in questa evidente continuità, non poche erano le differenze esistenti tra

l'alimentazione romana e quella greca.

Innanzi tutto a Roma vi erano anche altri tipi di preparazione dei cibi. Ad esempio i cereali - tra i quali, oltre

a grano e orzo, godeva di particolare fortuna il farro - erano consumati anche in forma di puls, una

preparazione molto simile ali'odierna polenta, in cui la farina veniva cotta insieme all'acqua o al latte.

Notevole , ancora di più che in Grecia, era il consumo di legumi e di verdure, queste ultime mangiate per lo

più crude. Ma soprattutto, come emerge da una famosa raccolta di ricette (ben 468) attribuita ad Apicio (I

secolo d.C.), ma probabilmente elaborata nel IV secolo d.C., il livello di complessità della gastronomia era

certamente maggiore che presso i greci almeno da tre punti di vista: la quantità e la qualità degli ingredienti,

la complessità della manipolazione dei cibi e l'attenzione per la loro presentazione.

Una gastronomia complessa

Prendiamo, a titolo di esempio , una ricetta di una salsa per cinghiale, tratta dalla raccolta di Apicio:

«Pestate una certa quantità di pepe, di levistico, di origano, di bacche di mirto private dei semi, di

coriandolo e di cipolle; bagnate il tutto con miele, vino, garum e un po' d'olio, riscaldate e legate con un po'

di fecola» .

Ci è difficile valutare il sapore di questa ricetta , perché, come in molte di quelle che ci sono pervenute ,

mancano precise indicazioni sulle quantità (in particolare , in questo caso, su quelle della carne).

Nondimeno possiamo notare la complessità degli ingredienti, la mescolanza di salato e dolce e la presenza

di spezie, in particolare del pepe, già usato dai greci anche se solo nell'uso

abbondante che ne fa Apicio nelle sue ricette ci fa capire che ormai la cucina

romana dell'età imperiale faceva ricorso crescente a ingredienti di importazione,

cosa peraltro comprensibile se si considera l'estensione e lo sviluppo economico

dell'impero romano.

Per quanto riguarda le tecniche di preparazione , la cucina romana ne prevedeva

quattro: l'arrosto, la bolli- tura, il fritto e la cottura in sugo, delle quali l'ultima era

considerata la più raffinata.

Vi era, infine, una notevole cura nel modo di presentazione delle vivande, come

emerge da molte testimonianze; in particolare in periodo imperiale sembra che nei banchetti delle famiglie

più ricche l'impegno destinato alla presentazione dei cibi fosse maggiore di quel- lo destinato alla

preparazione stessa.

Il cibo dei ricchi e dei poveri

Non dobbiamo infatti dimenticare che preparazioni e presentazioni così

raffinate, che infatti in età imperiale erano per lo più affidate a cuochi

professionisti, riguardavano solo una minoranza della popolazione

romana. Per la maggior parte dei cittadini di Roma - per non parlare

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degli schiavi - ricette cariche di pepe, prodotto di importazione e quindi estremamente costoso, non erano

che un sogno, nettamente in contrasto con un 'alimentazione quotidiana probabilmente costituita per lo più

da preparazioni elementari, prima fra tutte la puls. Anche il vino, di cui i romani erano grandi produttori e

consumatori, era accessibile per la maggioranza della popolazione solo nelle sue versioni di qualità più

bassa, quando non addirittura in forma di pasca una miscela di acqua calda e aceto. La disparità fra il cibo dei ricchi e quello dei poveri, poco accentuata nella società greca, divenne infatti

nettissima in quella romana.

I locali pubblici romani

Un'altra importante differenza tra l'alimentazione greca e quella romana è data dalla presenza di luoghi

pubblici in cui era possibile consumare, a pagamento, un

pasto. Vi erano, nelle città dell'impero romano, punti di ristoro

di vario livello, però fondamentalmente riconducibili a due

categorie: le tabernae e le popinae.

Le prime erano le più modeste : consistevano sostanzialmente

in un bancone posto all'aperto, o coperto da una tettoia, presso

il quale, in piedi, il cliente consumava un pasto molto semplice (pane,

un pezzo di salsiccia, un po' di verdura), accompagnato da vino, in

genere di pessima qualità. Le popinae, pur presentando all'esterno Io

stesso bancone, avevano anche un paio di stanz interne, nelle quali si

poteva consumare un pasto seduti oppure - ma solo nei locali più di

lusso - sdraiati, secondo l'usanza preferita dai romani.

Il prandium e la cena

La presenza di locali pubblici di questo tipo mostra che l'importanza della convivialità durante i pasti a

Roma era meno sentita che in Grecia . Il cibo era infatti consumato secondo due modalità: il prandium e la

cena.

II primo era un pasto veloce, in cui venivano consumati alimenti molto semplici, come vegetali o legumi,

spesso crudi o freddi, e che non richiedeva la compagnia di altre persone. •

L'abbondanza dei cibi consumati durante le cene faceva di queste ultime degli eventi eccezionali; infatti,

secondo la tradizione romana, il buon cittadino normalmente non doveva mai eccedere nel campo

dell'alimentazione ma, al contrario, accontentarsi di pasti frugali. Da questo punto di vista la morale romana

tradizionale era più austera di quella greca: il buon cittadino romano era colui che sapeva vivere con poco,

consumando pasti semplici e poco elaborati.

Le portate dei grandi banchetti

Anche a Roma, d'altro canto, i grandi banchetti si svolgono tradizionalmente in occasione di feste di tipo

religioso , politico o privato. La cena era composta in genere da tre portate:

1. la gustatio, che era una sorta di antipasto o aperitivo finalizzato a calmare la fame degli invitati, in cui si

consumavano uova e olive accompagnate da pane e vino, oppure, nel caso di una cena molto ricca e

raffinata, anche molluschi e piccoli volatili;

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2. la cena in senso stretto, che aveva al centro il consumo di carni, in origine frutto di riti sacrificali

3.infine le secundae mensae ("seconda portata") 'costituite da frutta fresca; il tutto, naturalmente,

abbondantemente innaffiato di vino.

I banchetti imperiali

Un'importante differenza, rispetto ai banchetti greci, riguardava la presenza delle donne di casa che i

romani, influenzati in ciò dagli etruschi, spesso ammettevano ai loro incontri conviviali.

Tuttavia, nel corso dell'età imperiale, in questo ambito ebbe luogo un'evoluzione verso comportamenti

conviviali meno moderati . In particolare si diffuse sempre più, ovviamente tra le classi sociali privilegiate, la

pratica di banchetti tanto ricchi e sfarzosi quanto frequenti: non era raro che un romano benestante

partecipasse tutti i giorni, se non addirittura più volte nella stessa giornata, a un banchetto. Il legame con le

radici religiose delle cene divenne sempre meno importante e il banchetto si trasformò in un'occasione di

ostentazione di ricchezza e di potere da parte del padrone di casa nei confronti dei suoi ospiti.

Il consumo della carne

Ma la differenza fondamentale fra l'alimentazione greca e quella romana riguarda la carne: per quanto cibo

non di consumo quotidiano, la carne aveva un posto di rilievo molto maggiore sulle tavole romane rispetto a

quelle greche.

Tra i vari tipi di carne, i romani privilegiavano quella di maiale, in questo sicuramente influenzati dagli

etruschi. Dell'alimentazione di questi ultimi sappiamo poco e soprattutto solo da testimonianze posteriori;

nondimeno, dai ritrovamenti archeologici, in particolare di ossa di animali, si ipotizza che gli etruschi

fossero grandi consumatori, oltre che di vegetali e di cereali, anche di carne di maiale e di pollo.

Che la carne di maiale fosse assai gradita ai romani , risulta da molte testimonianze; per esempio lo stesso

Cicerone (106-43 a.C.), uno dei più importanti scrittori romani, considerava il maiale nient'altro che «Carne

su quattro zampe», paragonandolo al sale utilizzato per conservarlo. Inoltre, in età imperiale, il consumo di

carne dei romani aumentò notevolmente, al punto che alcuni imperatori la distribuivano alla plebe romana

insieme al frumento.

L'aumento di consumo delle carni è legato probabilmente al progressivo abbandono delle pratiche

sacrificali, che anche nel mondo romano avevano giustificato il consumo alimentare della carne: a partire

dal periodo imperiale, sempre più spesso i romani mangiavano carne non solo in occasione di riti sacrificali

dedicati agli dei, ma semplicemente quando lo desideravano ed erano in grado di procurarsi la materia

prima. Ciò non elimina il fatto che la carne mantenesse, all'interno della cultura alimentare romana, un ruolo

di eccezionalità e di "lusso", che non avevano invece le fruges (letteralmente "prodotti della terra"), cioè il

pane, l'olio, il vino, i legumi e le verdure. Solo le fruges erano considerate alimenti veramente essenziali per

la vita umana, mentre le carni rimanevano solo un 'aggiunta, senza la quale l'uomo "frugale" (aggettivo non

a caso tratto dafruges) poteva e doveva saper vivere.

Le caratteristiche fisiche-climatiche del Mediterraneo

Come abbiamo visto, nel mondo greco è romano l'alimentazione era in particolare basata sui prodotti della

terra piuttosto che sulla carne, come invece accadeva in altri popoli a loro contemporanei (quali, per

esempio, le popolazioni celtiche e germaniche).

Una prima spiegazione di questo fenomeno è stata già fornita in precedenza e riguarda le caratteristiche

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fisico-climatiche dell'area del Mediterraneo, particolarmente adatta alla coltivazione della vite, dell'ulivo, dei

cereali e, più in generale, dei prodotti agricoli.

Si tratta, però, di una spiegazione largamente insufficiente, anche perché non dobbiamo dimenticare

che l’ ambiente che ci circonda non è solo il risultato dell’ evoluzione naturale, ma anche il prodotto

dell'azione umana. Per esempio, proprio nel caso della Grecia, molti storici e naturalisti hanno

ipotizzato che l'aridità di questo territorio sia stata anche la conseguenza della scelta dei contadini e delle

autorità delle città elleniche antiche di puntare sulla coltivazione estensiva dell'olivo, col risultato di far

sparire buona parte delle altre piante e di impoverire così il terreno.

Un' interpretazione economica

Una seconda possibile interpretazione è di tipo economico. Appare infatti evidente che l'ampio consumo di

pane, olio e vino venne reso possibile da un'economia, come quella delle poleis greche, basata

sull'agricoltura e sui commerci; essa era quindi in grado di garantire tanto la produzione e l'esportazione

dell'olio e del vino, quanto l'importazione dei cereali necessari per il pane.

Per quanto riguarda invece la maggior ricchezza della cucina romana, in termini di qualità e quantità degli

ingredienti e di complessità nella preparazione, essa può essere spiegata facendo riferimento al ruolo

giocato dall'impero romano nell'integrazione dell'economia del Mediterraneo e nella facilitazione degli

scambi con le società asiatiche.

Infine la prevalenza dell'alimentazione vegetale rispetto a quella carnea può essere ricondotta a un

fenomeno economico tipico di ogni società, come quella greca e romana, caratterizzata da un'elevata

crescita e densità demografica: tanto maggiore è la popolazione e tanto più è concentrata, quanto più

viene privilegiato il ricorso ai vegetali. .

Come ha osservato lo storico Bràudel: «Su superfici uguali [...] l'agricoltura riesce di gran lunga superiore

all'allevamento. Bene o male [l'agricoltura] nutre un numero di uomini dieci, venti volte superiore che non il

suo rivale [l'allevamento]» . In altri termini: dal punto di vista economico, cibarsi prevalentemente di carne è

molto più costoso che non ricorrere ai prodotti dell'agricoltura, poiché l'allevamento comporta un

consumo di risorse molto maggiore; pertanto, ogni società caratterizzata da una popolazione elevata tende

a nutrirsi più di vegetali che di animali.

Una spiegazione politica

Vi è poi una spiegazione di tipo politico: il sistema alimentare greco-romano era il risultato anche di un

massiccio intervento delle autorità pubbliche o semipubbliche. Non dobbiamo infatti dimenticare che Grecia

e Roma antiche erano società urbane, cioè erano caratterizzate dalla presenza di città di medie e grandi

dimensioni, che fungevano da sedi del potere politico. Questa situazione comportava importanti

conseguenze economiche: se le città potevano essere autosufficienti in alcuni settori produttivi di tipo

artigianale, certamente non lo erano, soprattutto nel periodo dell'impero romano, dal punto di vista

alimentare.

Dunque, dal momento che, per l’ approvvigionamento alimentare, le città dipendevano totalmente o quasi

dalle campagne, si rendeva necessario per le autorità politiche escogitare dei sistemi per garantire in modo

continuativo l'afflusso di alimenti in città.

L'impresa non era facile: non dobbiamo dimenticare che al momento del suo massimo sviluppo tra il I e il II

secolo, Roma raggiunse 1 milione di abitanti e che, nello stesso periodo, vi erano nell'impero diverse città

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che superavano ampiamente le 100000 unità. Anche se sul totale della popolazione dell'impero romano gli

abitanti delle città non superarono probabilmente mai il 20%, contro una netta maggioranza di abitanti dei

villaggi e delle campagne, questo numero rimane molto elevato, soprattutto se consideriamo le condizioni

di vita della popolazione urbana. La maggioranza degli abitanti delle città, in modo particolare della

capitale Roma, era infatti costituita da poveri, i cui magri redditi coprivano a stento il costo degli alimenti più

semplici; in caso di carestia e, conseguentemente, di aumento dei prezzi del cibo, la prospettiva per

costoro era la fame.

Prezzi controllati e interventi pubblici

Le autorità politiche, se volevano evitare la morte per fame di una parte cospicua della popolazione urbana

o sanguinose rivolte sociali, dovevano in qualche modo intervenire con limitazioni e controlli sui prezzi o

pre- disponendo delle riserve alimentari.

Sappiamo che interventi di questo genere ebbero luogo sia tra le poleis greche - in particolare ad Atene -

sia a Roma, nel periodo tardo-repubblicano e imperiale.

Ad Atene, a partire dalla fine del V secolo a.C., esisteva un magistratura, quella degli agoranòmoi , che

aveva il compito specifico di controllare che venisse applicato al pane il prezzo stabilito dalle autorità (che

non si voleva che dipendesse esclusivamente dall'andamento del mercato) e che il pane posto in vendita

rispettasse il peso stabilito. A Roma, a partire dal 123-122 a.C., venne introdotta, per iniziativa del tribuno

Caio Gracco, una "legge frumentaria" che prevedeva la distribuzione di grano a prezzi controllati tra la

plebe della città. Questo tipo di politica venne ripreso e sviluppato in età imperiale: a partire da Augusto il

grano venne distribuito gratuitamente tra la popolazione della città di Roma e addirittura si arrivò in alcune

occasioni, nel corso del II secolo, a fornire gratuitamente anche carne di maiale, cioè, nell’ottica romana, un

prodotto che non rientrava tra gli alimenti di prima necessità, ma era solo un lusso.

L'intervento dei privati contro le crisi alimentari

Tutto ciò era possibile perché Roma poteva sottrarre alle province quantità più o meno elevate della

produzione agricola in forma di imposte. Tuttavia si trattava di un sistema estremamente costoso, che infatti

venne adottato solo per la città di Roma e, a partire dal IV se- colo, per la capitale d'oriente Costantinopoli.

In che modo, dunque, nelle altre città romane si operava nei momenti di normalità economica, ma

soprattutto in quelli di emergenza?

Non vi è unanimità di pareri su questo problema tra gli storici. Tuttavia non v'è dubbio che, insieme alle

autorità pubbliche, erano i privati (i cosiddetti "evergeti") a dare il proprio aiuto nei periodi di crisi o carestia.

Il termine greco "evergetismo" è usato proprio per descrivere il comportamento di cittadini particolarmente

ricchi che, in modo più o meno volontario, mettevano a disposizione della cittadinanza parte delle proprie

ricchezze o comunque prendevano iniziative per far fronte a situazioni di crisi alimentare. In conclusione: in

assenza di un massiccio intervento pubblico o di benefattori privati, un sistema alimentare come quello

greco-romano ben difficilmente avrebbe mantenuto una tale continuità nel corso dei secoli.

Pane, olio e vino, indicatori di civiltà

Tuttavia anche questa spiegazione non è in grado di rendere conto di tutta la complessità dei fenomeni

legati all'alimentazione umana.

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Come già abbiamo osservato nel precedente modulo, mangiare per l'uomo non significa solo soddisfare

bisogni materiali sulla base delle risorse offerte dall'ambiente e dalla tecnica, ma anche soddisfare bisogni

sociali (come la convivialità) e culturali. In particolare, i tre prodotti centrali della "dieta mediterranea" di

greci e romani - il pane, l'olio e il vino - costituivano, agli

occhi di questi popoli, dei precisi indicatori di civiltà. Essi,

infatti, non sono prodotti "naturali", ma sono il risultato

dell'intelligente intervento dell'uomo sulla natura : per

ottenerli è necessario seminare la pianta, averne cura,

coglierne i frutti e lavorarli con sapienza e competenza.

Le civiltà la cui alimentazione era - o appariva loro - meno

elaborata della propria venivano quindi considerate inferiori. Ciò emerge per esempio dagli scritti dello

storico greco Erodoto (484-424 a.C.), il quale, confrontando la società greca con altre società europee,

asiatiche o africane, usa tra gli altri parametri di confronto anche l'alimentazione, giungendo alla

conclusione che una società è tanto più civile quanto più i suoi cibi sono il frutto di un complesso lavoro di

coltivazione e preparazione; agli occhi di Erodono, le società meno civili erano quelle che ignoravano

l'agricoltura e praticavano unicamente l'allevamento o la caccia.

Alimentazione e cura delle malattie

L'importanza del processo di preparazione dei cibi come fattore di civiltà appare anche negli scritti dedicati

all'alimentazione dai principali medici greci e romani. In tutta le opere di medicina del mondo antico - dagli

scritti della scuola ippocratica dell'isola greca di Coo (V-IV secolo a.C.), fino a quelli di Galeno (130-200

d.C. circa), il più importante medico e studioso di medicina dell'età romana, non mancano infatti mai scritti

dedicati alla dieta. Infatti, al di là delle differenze esistenti tra le loro concezioni, tutti i medici dell' antichità

greco-romana concepivano la malattia come il risultato di uno squilibrio tra gli umori e gli elementi che

compongono il corpo umano. Per esempio secondo Galeno i fluidi del corpo umano erano quattro: la bile

gialla, la bile nera, il sangue e il flegma; ognuno di questi fluidi era considerato dominante nei quattro tipi

fondamentali dei temperamenti umani (collerico, melanconico, sanguigno e flemmatico), ciascuno dei quali

tendeva a presentare specifiche malattie.

Per questo motivo una corretta alimentazione era considerata importante sia nella prevenzione, sia nella

cura delle malattie. Una particolare importanza era attribuita alla cottura dei cibi: a seconda del tipo di

malattia o dello stile di vita del paziente, era richiesto un tipo di preparazione diverso.

Negli scritti ippocratici si sosteneva che gli uomini primitivi, cercando una forma di alimentazione adatta

alla natura umana, che li distinguesse dagli altri animali, cominciarono a cucinare, cioè «bollirono, cossero,

mescolarono e temperarono le sostanze forti e intemperate con quelle più deboli, conformandole tutte alla

natura e al potere dell'uomo».

Cucina e cottura: il cibo degno degli esseri umani

Cucinare, cioè preparare cibi elaborati, era dunque per la cultura antica sinonimo di civiltà e umanità.

D'altro canto, secondo la visione del mondo dei greci e dei ro- mani , la "cottura" degli alimenti cominciava

al momento stesso della semina: la spiga di grano era già in parte "cotta" dal lavoro umano e dal processo

di maturazione determinato dall'ambiente; la sua trasformazione in farina e poi in pane portava

ulteriormente avanti questo processo, che si concludeva con l'assimilazione dell'alimento da parte

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dell'individuo, i cui processi digestivi erano considerati alla stregua di una "cottura finale" in grado di

scomporre gli alimenti e di trasformarli in elementi e fluidi vitali.

Mentre le fruges, cioè i prodotti dell'agricoltura , erano considerati da questo punto di vista sostanze adatte

all'alimentazione umana in quanto già naturalmente "cotte", e quindi facilmente digeribili e assimilabili, la

carne appariva come un alimento poco appropriato al- l'uomo: essa era fondamentalmente "cruda", anche

nei casi di animali allevati dall'uomo e quindi in parte umanizzati. Solo dopo un elaborato lavoro di cottura la

carne diventava mangiabile, pur rimanendo, secondo le teorie mediche antiche, un alimento destinato a

essere assimilato solo parzialmente.

Non è un caso che, secondo lo scrittore romano Varrone 116-27 a.C.), delle tre principali tecniche di

preparazione della carne - arrosto, bollito e in umido - la terza fosse considerata più progredita. Mentre nel

primo caso la carne è messa a diretto contatto col fuoco o con la brace, e quindi l'intervento umano rimane

limitato, con la bollitura e con la cottura in sugo alla carne si aggiunge un liquido che, nel caso della cottura in

umido , modifica profondamente il sapore e la consistenza della carne al punto da essere assorbito e

consumato con quest'ultima. Insomma, solo nelle preparazioni in cui la carne è profondamente modificata

dall'intervento umano essa diventa veramente commestibile, cioè "cotta", e quindi degna di un essere

umano.

La civiltà dei campi e la civiltà della selva

Quando, a partire dal III-IV secolo, cominciò la crisi dell'impero romano e sempre maggiore divenne la

pressione delle popolazioni germaniche, il conflitto che ne scaturì fu uno scontro non solo politico-

militare, ma anche culturale e dunque coinvolse pure la sfera alimentare: fu il conflitto tra la "civiltà dei campi"

greco- romana, centrata sulla triade alimentare pane-olio-vino e la "civiltà dèlla selva" dei popoli

germanici, basata sulla caccia e sulla carne.

Inoltre, su questo scontro-incontro si inserì il cristianesimo, che apportò in campo alimentare profondi

cambiamenti (come l'abbandono del consumo sacrificale di carni), pur mantenendo elementi di continuità

con la tradizione greco-romana (come l'importanza rituale, oltre che alimentare, attribuita al pane, ali'olio e al

vino). Dalla convergenza di queste tre componenti - greco-romana, germanica e cristiana - nacque la civiltà

alimentare medievale e moderna.