24) RECDELFINI
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Antonio Delfini Poesie della fine del mondo e poesie escluse
Quodlibet, Macerata 1995, pp. 168, € 11,36
Scrittore sarà chi non avrà scritto,
chi sarà rimasto fermo e muto, con la
bocca semichiusa, di fronte a un muro
spietatamente bianco. Questo il
messaggio, questa la piccola
apocalisse portata dal personaggio
Antonio Delfini, “Barone delle Rive
del Rodano”, aristocratico in
decadenza e scrittore (o meglio: non
scrittore) modenese, nato nel 1907 e
morto nel 1963, pochi mesi prima che
gli fosse consegnato il Premio
Viareggio. Non a caso Giorgio Agamben,
nell’introduzione alle Poesie della fine del mondo, consiglia di
paragonare Delfini non tanto ai poeti novecenteschi, ma a quelli
che, come Dante, Petrarca e i provenzali, credevano che vita e
parola fossero un cosa sola, e che le ragazze incrociate per le
strade del rione fossero né più né meno come gli angeli delle
Scritture. In altre parole, Delfini, per ingenuità o per ingegno,
è decisamente un trovatore gettato nel mezzo del Novecento. E
l’esperienza delfiniana, proprio perché ambientata in provincia
(quella emiliano‐romagnola), dice tanto del destino di una lingua
che nella provincia è nata, che nel dialetto si è battezzata come
universale. Nelle Poesie della fine del mondo, scritte non per
lodare ma per diffamare la donna che le ispira, Antonio Delfini è
precisamente Antonio Delfini. Del resto, c’è una linea lirica
visibilissima che rimbalza nel secondo novecento italiano, in cui
il poeta smette di essere uno che fa uso di parole e rimane sulla
pagina niente altro che l’individuo che è. Nel Novissimum
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Testamentum, Edoardo Sanguineti altri non è che Edoardo
Sanguineti. Discorso uguale per il Montale di Satura, per Giorgio
Caproni ne Il seme del piangere o per Giovanni Giudici in Salutz.
Ovviamente, il vizio è lo stesso di François Villon, ladro o poeta
(esplicitamente parafrasato e trafugato nel testo sanguinetiano),
o della Vita Nuova di Dante, che attesta il fugace e messianico
passeggiare di Beatrice nei vicoli fiorentini. Vissuto e parola
sono una sola cosa: ed è questo il tratto lirico comune,
intagliato nelle origini della lingua italiana. L’indifferenza tra
alfabeto e accadimenti privati non è propriamente allegoria, né è
propriamente lettera: piuttosto, la scrittura è indiscernibilità
tra “visio Dei” ed esperienza contingente; zona dell’unificabilità
tra lingua e vita come necessità narrativa; stanza comune di Logos
e Cosmos, che assieme concepiscono il verso poetico. Deposta la
moltiplicazione delle funzioni autoriali, occupata la pagina come
si occupa il registro dell’anagrafe, nella lirica delfiniana
avviene il recupero di una formula poetica pulita, chiara,
genuina, anche se i suoi messaggi sono l’invettiva e la fine del
mondo. Ma perché, secondo Delfini, il mondo sta finendo o deve
finire? Come tutte le cose che significano, la risposta è stupida
e seria allo stesso tempo, e consiste in quell’analogia tra
universo e particella che rende possibile qualunque letteratura.
Parafrasandolo, Delfini non fa che dire: la mia esperienza
fallimentare è sì il mio fallimento, ma è anche il fallimento del
destino della lingua. Il simbolo triste di questa rovina ha un
nome e un cognome precisi: Luisa Bormioli di Parma, la donna che
(come sta scritto nelle Lettere d’amore) sedusse, truffò e
abbandonò Delfini. A lei, all’“Antilaura” e alla sua grazia
disgraziata è dedicato lʼ “Anticanzoniere” del Barone delle rive
del Rodano. Si sa, da che mondo è mondo e da che poesia è poesia:
per non restare bloccati nelle caldaie infernali, per andare a
gustare miele nel paradiso della lingua, serve la figura, la donna
salvifica, l’angelo della grazia. Ogni apocalisse nasce da una
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mancanza di cui si è sazi. Allo stesso modo, l’assenza della donna
significante è il centro vuoto attorno al quale si articola quasi
tutta la letteratura delfiniana. In quest’assenza si genera la
smania d’apocalisse: «Per andare in paradiso col mio cuore \ Vado
in cerca di belle signore. \ È la mia voce che muore.\ Perché Tu
non ascolti o Signore? \ Vorrei tu mi armassi la mano \ per
incendiare il piano padano» (p. 9). Chiaro che, se alla
letteratura è rimasto un qualche potere ontologico, non si tratta
di analizzare il fatto che Delfini sia stato sfortunato in amore,
che non abbia trovato l’angelo d’ispirazione al verso. Si tratta
piuttosto di registrare il dato che l’angelo non esiste più. E
questo è un fatto più curioso e più grave. Il rapporto tra poetato
e vissuto è difficile, pieno di ostacoli, spazi vuoti e giornate
insignificanti. Ma il poeta non ha che questo spazio, non cuce che
le ore di questo spazio alle parole. Ed ecco che è impossibile,
anzi dannoso, non considerare il nuovo stato della poesia come
“genere minore”; condizione di fronte alla quale serve attirare
leggenti, trovare e non inventare, riscoprire il “mestiere” di
narrare di sé versificando come plausibile esercizio né poetico né
critico, e cioè poetico e critico. Questo è il gesto di Delfini,
il movimento che invano cerca di compiere, restando incompiuto
come resta incompiuta una promessa divina, che è divina unicamente
in quanto promessa. Non a caso, Dio c’è ma il mondo no è uno dei
titoli scartati del suo Anticanzoniere. Qualcosa si è rotto,
all’interno della lingua e della poesia: «L’Antilaura
dell’Anticanzoniere ha detto che sei \ Francesco Antipetrarca
critico scemo de tempi tuoi» (p. 119). La scrittura di Delfini è
tutta un rimorso per come le cose potevano andare e non sono
andate. È lui stesso a scriverlo nel meraviglioso incipit della
Prefazione ai suoi racconti Il ricordo della Basca: «Se avessi
avuto altri amici, o non ne avessi avuti affatto, sarei diventato
un grande narratore prima della caduta del fascismo, e
probabilmente dopo lo sarei rimasto. Ma è più probabile che se non
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avessi avuto gli amici che ho avuto, io non avrei mai scritto un
racconto o un quasi racconto. Molto più bello, più intelligente,
più ricco e aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono
trovato davanti alla terribile barriera dei loro difetti, vizi e
capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione» (Il
ricordo della basca, 1992, p. 7). Chiunque provasse a cimentarsi
con l’opera delfiniana si troverebbe perennemente spinto in un
vicolo cieco, con le spalle costrette in aporie insormontabili,
perfette, impeccabili come è impeccabile solo il silenzio. Cos’è
l’apocalisse se non un silenzio per la voce, un morire per la
nascita? Ecco perché Delfini, narratore che non narra, è
dell'apocalisse un “piccolo” ma “affidabile” ambasciatore. Come
scrive in Una singolare avventura: «1) Narrare una storia è sempre
stata una cosa molto difficile. Io non sono nato per le cose
difficili, per quanto abbia sempre creduto di averne la vocazione.
Mi sono accorto oggi, avendo già compiuto il 44º anno di età, di
non essere assolutamente quello che si dice un uomo volitivo. Non
so se questa è la centesima volta che incomincio un libro. Questa
potrebbe essere la volta buona, ma nessuno, me compreso,
scommetterebbe una lira contro dieci […]. Ma non c’è stata
possibilità: sono troppo occupato… con me stesso. Che vergogna!
Sì, ma che vergogna fa la gente del mio tempo, che vergogna fa il
mio secolo! Non sono io che devo vergognarmi: sono gli altri.
Tutti gli altri devono vergognarsi. Sono perfettamente convinto di
essere l’unico presuntuoso che non pecca di presunzione. Tale è la
certezza del giustificato schifo che ho per la vita a me
circostante. Ma che orrore!» (Una singolare avventura in Autore
ignoto presenta, 2008, p. 205). Il messaggio di questo poeta
incompiuto va preso alla lettera, come un segno d.o.c. della
lingua. La lingua, ogni lingua, va indebolita. Le parole sgualcite
vanno licenziate, i pensieri impolverati vanno deposti per fare
posto al tutto o al niente che ci attende. Se è vero (ed è vero)
che la verità si rivela nel dettaglio, proprio nella minuta