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Baskerville UniPress

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SLoTquaderno 5

Territori e progetti nel MezzogiornoCasi di studio per lo sviluppo locale

a cura di Rosario Sommella e Lida Viganoni

Programma di ricerca d'Interesse Nazionale"I sistemi locali nei processi di sviluppo territoriale"

MIURe le università di Torino, Bologna,

Firenze, Foggia, Napoli "L'Orientale",Palermo, Piemonte Orientale - Novara

Baskerville

ROSARIO SOMMELLA E LIDA VIGAGNONI (A CURA DI)SLoT quaderno 5

Territori e progetti del Mezzogiorno

© 2003 Baskerville, BOLOGNA, ITALIA

ISBN 88-8000-504-9

TUTTI I DIRITTI RISERVATIQuesto volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in alcun modo (digitale, ottico o sonoro)

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editrice italiana del libro.

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Il volume è composto in caratteri Baskerville e Gill Sans

Stampato in Italia

SLoT quaderno 5

Territori e progetti del Mezzogiorno

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Indice

Rosario Sommella e Lida ViganoniIntroduzione 5

Parte IProgetti e sistemi locali di sviluppo in Campania 11

Fabio Amato e Ugo RossiUn sistema locale marginale tra cambiamento e continuità: i Quartieri Spagnoli di Napoli 13

Sergio VentrigliaLa dimensione locale dello sviluppo sostenibile:il progetto del Parco napoletano delle Colline 47

Rosario Sommella e Lida ViganoniIl sistema locale dei Campi Flegrei tra spinte interne e strategie esterne 65

Ornella AlbolinoUn sistema locale territoriale delle aree interne: l’Alta Irpinia 89

Mirella LodaRelazioni verticali, capitale sociale e sviluppo locale: il distretto conciario di Solofra 113

Parte IIPolitiche e progetti per lo sviluppo locale nella provincia di Foggia e nel Materano 143

Maria Gabriella RienzoIstituzioni intermedie e sistema locale provinciale: il caso della Fiera di Foggia 145

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SLoT

Luigi Longo e Rosario SommellaLineamenti per una definizione dei sistemi localiterritoriali in Capitanata: il caso di Manfredonia 165

Aldo di Mola e Luigi StanzioneTra la Murgia e il Basento: le potenzialitàdi un sistema locale territoriale interprovincialee interregionale 183

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Gli Autori

ALBOLINO Ornella, dottoranda in “Geografia dello Svi-luppo”, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

AMATO Fabio, ricercatore di Geografia, Facoltà di Lette-re e Filosofia, Università degli Studi di Napoli “L’Orien-tale”

DI MOLA Aldo, funzionario presso la C.C.I.A.A. di Fog-gia, Ufficio Studi

LODA Mirella, professore associato di Geografia, Facoltàdi Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Firenze

LONGO Luigi, urbanista, dottorando in “Economia eTecnologie per lo Sviluppo Sostenibile”, Università degliStudi di Foggia

RIENZO Maria Gabriella, ricercatrice di Storia economi-ca, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Foggia

ROSSI Ugo, dottore di ricerca in “Geografia dello Svi-luppo”, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

SOMMELLA Rosario, professore associato di Geografiaeconomico-politica, Facoltà di Scienze politiche, Univer-sità degli Studi di Napoli “L’Orientale”

STANZIONE Luigi, professore associato di Geografiaeconomico-politica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Uni-versità degli Studi della Basilicata

VENTRIGLIA Sergio, ricercatore di Geografia economi-co-politica, Facoltà di Scienze politiche, Università degliStudi di Napoli “L’Orientale”

VIGANONI Lida, professore ordinario di Geografia, Fa-coltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Na-poli “L’Orientale”

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Introduzione

Rosario Sommella - Lida Viganoni*

In questo volume confluisce una parte dei risultatidel lavoro svolto dai ricercatori delle Università di Napo-li “L’Orientale” e di Foggia, coinvolti nel progetto diricerca nazionale “I sistemi locali nei processi di sviluppoterritoriale”, approvata dal Miur nel 2000 e coordinata daGiuseppe Dematteis (Università di Torino).

Le due unità locali – coordinate rispettivamente daLida Viganoni e Rosario Sommella1 – hanno operato all’in-terno del gruppo nazionale con due progetti di ricerca,entrambi rivolti a indagare il tema dello sviluppo locale nelMezzogiorno. La scelta esprime la volontà di portare avan-ti una serie di riflessioni svolte nell’ambito di un filone diricerche inaugurate da Pasquale Coppola presso il Diparti-mento di Scienze Sociali dell’Orientale di Napoli.

Nel corso di queste esperienze si è gradualmenteacquisita la consapevolezza dei livelli crescenti di diffe-

* I curatori ringraziano Libera D’Alessandro e Alberta de Luca,dottorande in “Geografia dello Sviluppo”, per la collaborazione pre-stata nell’elaborazione del corredo cartografico del volume.

1 Il gruppo di ricercatori coordinato da Lida Viganoni è compo-sto da: Ornella Albolino, Fabio Amato, Ugo Rossi, Sergio Ventriglia.Quello coordinato da Rosario Sommella, e poi da Maria GabriellaRienzo nel II anno della ricerca, è composto da: Aldo di Mola, LuigiLongo, Maria Gabriella Rienzo, Luigi Stanzione.

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ROSARIO SOMMELLA

renziazione territoriale in atto nel Mezzogiorno, non piùrealtà unitaria quanto piuttosto insieme di crescentecomplessità, e dell’esistenza di percorsi di sviluppo e dimodernizzazione basati su una sempre più marcata valo-rizzazione delle specificità locali (in termini di patrimo-nio culturale, risorse fisiche e ambientali). Sul versantedegli assetti regionali, inoltre, il diffondersi di tendenzeauto-organizzative da parte dei sistemi locali meridionalie la riscoperta delle specificità si traducono, da un lato,nel crescente protagonismo di entità territoriali interme-die, di dimensioni e scale diverse, e, dall’altro, nell’e-mergere di situazioni di sviluppo in aree periferiche, perl’evoluzione, per esempio, di taluni comparti produttivitradizionali, o per l’uso delle risorse ambientali o per ilmutamento degli stili di vita.

La necessità di portare l’attenzione al livello locale èpertanto sembrata imprescindibile anche in considera-zione della possibilità di poter offrire un contributo diconoscenza specificamente geografico, a partire dalla tra-dizione degli studi già maturati e dalla prassi di cono-scenza diretta dei luoghi oggetto delle indagini.

Nel corso dei due anni di lavoro, i ricercatori hannooperato in stretta sintonia con il coordinatore nazionalee con gli altri gruppi (Università di Bologna, Firenze,Palermo, Torino e del Piemonte Orientale-Novara). Laricerca si è proposta di indagare e definire i sistemi loca-li territoriali (SLoT) e si è sviluppata sostanzialmente suun doppio binario, quello teorico-metodologico e quellodell’analisi empirica e degli studi di caso. Per quel checoncerne l’aspetto teorico-metodologico, ampiamentedibattuto nel corso di molti incontri seminariali (Firenze,2000; Bologna, Roma, Torino, 2001; Napoli, Palermo,2002), si rinvia ai Quaderni 1, 2 e 3 di questa collana.

Dal punto di vista del metodo, i casi di studio sonostati selezionati a partire da una medesima chiave inter-pretativa – “il ruolo centrale del territorio, delle specifi-cità territoriali e dei soggetti locali all’interno dei proces-si di sviluppo locale” (Rossignolo, Imarisio, 2003, p. 6) –ma seguendo due distinti percorsi.

Un primo percorso ha privilegiato lo studio di quel-le aree esemplificative di determinate strategie di inter-vento. Come si illustra nel Quaderno 3 di questa collana, il

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INTRODUZIONE

gruppo di ricercatori torinesi ha seguito un metodo perl’individuazione di potenziali SLoT a partire da porzionidi territorio “dove si hanno aggregazioni progettualivolontarie” (Dematteis, 2003, p. 14 e segg.).

Un altro invece ha privilegiato l’analisi di contestiindividuati sulla base di un insieme di considerazioni: laconoscenza diretta, l’esistenza di una specifica identitàgeografica da verificare, la presenza di progetti a base ter-ritoriale.

Questo secondo percorso ha sostanzialmente guida-to la scelta dei casi di studio raccolti in questo volume. Icontributi sono esemplificativi di situazioni territorialiche, in generale, si definiscono a prescindere dalle pro-gettualità anche se ormai, per la ricchezza e varietà dellaprogettazione che in quest’ultimo decennio ha investitoil Mezzogiorno, quasi ogni porzione del territorio meri-dionale è sede di interventi.

Va comunque precisato che i casi di studio che quisi presentano costituiscono una sorta di prima sperimen-tazione, un tentativo di “ricucire” le realtà territorialiindividuate con il modello SLot e rappresentano, pertan-to, una fase ancora aperta di un lavoro che qui delinea leprime conclusioni del raffronto tra la visione generaledella ricerca SLoT e le evidenze empiriche dei casi di stu-dio che abbiamo scelto di approfondire. Ulteriori rifles-sioni, specie di taglio metodologico, sono state presenta-te e discusse nell’ambito di una relazione, tenuta daicuratori di questo volume nel corso del Convegno con-clusivo che si è svolto a Stresa nel giugno di quest’anno.

Come si è anticipato, nella scelta dei casi molto spa-zio è stato accordato allo studio di quelle aree meridio-nali, a varie scale, già da qualche tempo oggetto dellenostre esperienze di ricerca e delle nostre indagini dicampo2.

Pur non escludendo l’esistenza nel Mezzogiorno diSLoT già “belli e fatti”, dove probabilmente risultano giàsoddisfatte molte delle condizioni definite dal modello,abbiamo privilegiato lo studio di aree dove è possibile

2 Ci riferiamo, in particolare, a: Coppola, Sommella, 1998; Stan-zione, 2001; Viganoni, 1997 e 1999.

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ROSARIO SOMMELLA

segnalare l’esistenza di precondizioni favorevoli per laformazione/costruzione di uno SLoT. Di fronte a SLoT“potenziali”, la ricerca si è basata su una serie di indiziriassumibili nella stabilità nel tempo delle caratteristicheumane e ambientali in relazione tra loro, nella sostanzia-le pertinenza della delimitazione, nella continuità dialcune destinazioni funzionali, nella verifica dell’esisten-za di un soggetto territoriale identificato dall’interno(come autoprogettazione e autorappresentazione dellereti locali) e dall’esterno, come, per esempio, in aree conforte connotazione strategica, la cui posizione e il cuimilieu sono al centro di molti interessi.

Otto i casi indagati. Nella prima parte del volume neconvergono cinque di area campana, mentre la secondane ospita tre, compresi tra la provincia di Foggia e il ter-ritorio lucano.

La variabilità delle scale utilizzate nei casi di studio,dal quartiere alla dimensione provinciale, testimoniaoltre che le molte dimensioni territoriali che può assu-mere lo sviluppo locale, anche la multiscalarità del con-cetto di territorialità.

Due degli studi svolti in Campania riguardano loscenario urbano partenopeo. Fabio Amato e Ugo Rossiindagano su un’area problematica del centro storico diNapoli, i Quartieri Spagnoli, valutando il rapporto tra ilsistema locale del quartiere e il percorso del progettoUrban, mentre Sergio Ventriglia incrocia le problemati-che della sostenibilità urbana con quelle della costruzio-ne di uno SLoT, a proposito del progetto per la valoriz-zazione di risorse ambientali nel comune di Napoli.

A una scala sovracomunale il caso di un sistema loca-le per antonomasia, quello dei Campi Flegrei, viene svi-luppato nella chiave dell’identificazione tra area e pro-getti, in un contesto di alta rilevanza strategica alla scalaregionale.

Nelle aree interne della Campania, Ornella Albolinoverifica, in una parte dell’Alta Irpinia, marginale rispettoalle principali direttrici di sviluppo, la territorialità di unprogetto Leader e il protagonismo di attori locali auto-nomi.

Un noto distretto industriale della Campania, quellodi Solofra, è oggetto della ricerca che Mirella Loda con-

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INTRODUZIONE

duce con l’obiettivo di valutare la formazione di capitalesociale all’interno delle dinamiche di mutamento delpolo conciario.

Nell’area della Capitanata, in prospettiva storica, ilruolo di un’importante istituzione intermedia, l’Ente Fie-ra di Foggia, nella formazione dell’identità di un sistemalocale a scala provinciale è alla base dello schema di let-tura di Maria Gabriella Rienzo.

Ancora in provincia di Foggia, le strategie della pro-grammazione negoziata, in particolare nel caso del Con-tratto d’area di Manfredonia, sono oggetto di un appro-fondimento condotto da Luigi Longo e Rosario Sommel-la sulla sostenibilità locale del modello di sviluppo.

Infine, in Basilicata, il caso di studio si colloca a unascala più ampia, che Aldo di Mola e Luigi Stanzione leg-gono interpretandone la posizione e il ruolo nella Pro-grammazione Integrata regionale.

Bibliografia

Bonora P. (ed.), SLoT quaderno 1, Baskerville, Bologna, 2001.Coppola P., Sommella R. (eds), Le aree interne nelle strategie di

rivalorizzazione territoriale del Mezzogiorno, in Geotema, IV,1998, fasc. monogr.

Dematteis G., Il modello SLoT come strumento di analisi dello svi-luppo locale, in Rossignolo C., Imarisio C. S. (eds), op. cit.

Rossignolo C., Imarisio C. S. (eds), SLoT quaderno 3. Una geo-grafia dei luoghi per lo sviluppo locale. Approcci metodologici estudi di caso, Baskerville, Bologna, 2003.

Sommella R. (ed.), SLoT quaderno 2. Riflessioni metodologiche,Baskerville, Bologna, 2003, in corso di stampa.

Stanzione L. (ed.), Le vie interne allo sviluppo del Mezzogiorno,Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi diNapoli “L’Orientale”, 2001.

Viganoni L. (ed.), Lo sviluppo possibile. La Basilicata oltre il Sud,Esi, Napoli, 1997.

Viganoni L. (ed.), Percorsi a Sud. Geografie e attori nelle strategieregionali del Mezzogiorno, Fondazione Giovanni Agnelli, To-rino, 1999.

Parte IProgetti e sistemi locali di sviluppo

in Campania

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Un sistema territoriale marginale tra cambiamento econtinuità: i Quartieri Spagnoli di Napoli

Fabio Amato - Ugo Rossi*

L’obiettivo di questo contributo è di illustrare il per-corso di riqualificazione che ha preso forma recente-mente nei Quartieri Spagnoli di Napoli, alla luce dellelinee guida proposte da Giuseppe Dematteis (2001a;1999b; Sommella, 2003) per l’interpretazione dei pro-cessi di produzione di “territorialità attiva” alla scala loca-le. Secondo Dematteis, l’analisi dei sistemi locali territo-riali deve guardare alle relazioni che si stabiliscono, dauna parte, tra la “rete locale dei soggetti” e il “milieu ter-ritoriale” e, dall’altra, tra queste due ultime componentie le “reti sovralocali” di attori con le quali un sistema ter-ritoriale decide di entrare in relazione.

* Il testo è stato concepito e discusso unitariamente. La stesuradel paragrafo 1, dei sottoparagrafi 1.1, 1.2, 3.2.1, 3.2.2 e 3.2.3 sono daattribuire a Fabio Amato. I paragrafi 2, 3 e i sottoparagrafi 3.1 e 3.2sono da attribuire a Ugo Rossi. L’introduzione e le conclusioni sonoinvece comuni. Le fonti dirette utilizzate in questo studio di caso sonotratte da una serie di interviste somministrate, durante la ricerca sulcampo, a responsabili delle istituzioni locali, referenti delle politicheurbane e operatori sociali attivi sul territorio, oltreché ad abitanti efruitori abituali del quartiere. Il lavoro, inoltre, attinge all’esperienzadi intervento sociale di Fabio Amato e dai risultati della ricerca cheUgo Rossi ha svolto per la tesi di dottorato in Geografia dello Svilup-po, sotto la direzione del prof. Pasquale Coppola (Rossi, 2003a). Siveda ora anche Rossi (2003b).

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FABIO AMATO - UGO ROSSI

Il sistema territoriale dei Quartieri Spagnoli (d’ora inpoi QS) ha una taglia demografica relativamente conte-nuta in termini assoluti (circa 15.000 ab.), anche se conlivelli di densità abitativa superiori alla media cittadina, esi estende su una superficie urbana che si colloca in un’a-rea compresa tra tre diversi quartieri amministrativi delCentro Storico di Napoli (Fig. 1). Oggi i QS appaionoancora caratterizzati da forti tratti di marginalità territo-

Fig. 1 – I Quartieri Spagnoli

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

riale, economica e sociale, evidenziati rispettivamente daldegrado dell’ambiente costruito, dalla debolezza dell’e-conomia locale e da persistenti fenomeni di povertà edesclusione sociale. Negli ultimi anni, tuttavia, su questacondizione storica di marginalità si sono innestati impor-tanti fattori di cambiamento, che insieme hanno posto lebasi per l’avvio di un più largo e diffuso processo di riqua-lificazione urbana e quindi anche, come si vedrà, di tra-sformazione attiva del sistema territoriale locale.

A partire da queste premesse, il nostro contributocercherà dunque di leggere il processo di riqualificazio-ne che i QS hanno intrapreso in questi anni come conse-guenza dell’operare congiunto di tre diversi fattori dicambiamento:

1) Il primo è rappresentato dalla presenza di unarete locale di attori da tempo ben radicata sul territorio:associazioni di volontariato, reti di intervento sociale,centri di iniziativa culturale. Questi soggetti costituisconoun capitale sociale territoriale che rappresenta un fonda-mentale fattore socio-culturale di cambiamento per il si-stema locale dei QS.

2) Il processo di riqualificazione dell’area deve esse-re poi visto nell’ottica della svolta che si è prodotta aNapoli nella sfera del governo urbano durante gli anniNovanta. Questa svolta ha dato un impulso decisivo alprocesso di interazione tra la rete attiva di soggetti e ilterritorio locale di riferimento.

3) Il terzo fattore di cambiamento è rappresentato,infine, dalla costruzione di un rapporto interattivo daparte della rete sociale e istituzionale locale con retisovralocali di attori. Da questo punto di vista, decisiva èstata l’esperienza del Programma Urban, al di là deglistessi problemi che essa ha incontrato sulla sua strada,come si vedrà più avanti.

La scelta di un livello microurbano di analisi ci haconsentito di individuare con una certa chiarezza sia leinterrelazioni tra i soggetti locali e il milieu territoriale,sia la dimensione transcalare assunta oggi dalle politichedi riqualificazione urbana. Gli interrogativi che riman-gono aperti nel nostro discorso riguardano invece il pro-blema della marginalità economica e sociale dei sistemiterritoriali deboli. Come si dirà anche nelle conclusioni,

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FABIO AMATO - UGO ROSSI

infatti, l’esperienza dei QS insegna come la mobilitazio-ne della rete di attori locali e la valorizzazione del milieuambientale non siano di per sé fattori sufficienti al supe-ramento della condizione di marginalità economica esociale, se al tempo stesso non vengono attivate misure diintervento capaci di modificare in una certa profonditàl’assetto strutturale di questi sistemi territoriali.

1. Tra marginalità e spinte dal basso per il cambiamento

Nonostante la posizione di centralità geografica cheessi occupano nell’area urbana napoletana, i QS sonosempre stati considerati un’area non solo “marginale” daun punto di vista sociale e urbanistico, ma anche “peri-colosa”, malfamata, e di fatto inaccessibile ai più, a causadell’alto numero di attività illegali e criminose presenti.Questo stigma dei QS si è perpetuato in maniera costan-te e duratura nel corso del tempo. Da sempre è opinionecomune, infatti, che questa particolare condizione di“marginalità pericolosa” sia iscritta nel destino dell’areafin dalla sua fondazione, avvenuta nel XVI secolo.

L’insediamento, pensato in origine per ospitare i sol-dati della Corona spagnola, fu edificato in maniera taleda prevenire ogni possibile attacco o pericolo che potes-se giungere dall’esterno. Ciò impresse ai QS la peculiareconformazione urbanistica che notoriamente li contrad-distingue, quella cioè di “una sorta di piccola ‘colonia’,accostata ma non integrata con la grande città” (Alisio,Buccaro, 1994, p. 27). L’area è costituita, infatti, da unafitta maglia ortogonale di blocchi insediativi, interrottisolo raramente da piazze e spazi aperti creati in genereper ospitare i presidi ecclesiastici.

Il carattere di chiusura urbanistica che ne derivò,fece sì che i QS diventassero, ben presto, la sede idealeper traffici illeciti e attività criminose, che la coesistenzadi militari stranieri e strati popolari contribuiva in manie-ra decisiva ad alimentare. Questa condizione non vennesuperata neanche quando le truppe spagnole ebberoabbandonato definitivamente l’area e, di fatto, si ripro-dusse, nel corso dei secoli, adeguandosi di volta in voltaalle mutate condizioni sociali ed economiche del tempo.

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

Uno degli aspetti che ancor oggi esemplificano lacondizione e l’immagine di marginalità solitamente attri-buite ai QS è rappresentato dallo stato di avanzato degra-do che caratterizza il patrimonio edilizio dell’area. Que-sto stato di degrado, che si è esasperato con il passare deltempo, si aggiunge a una situazione di partenza ogget-tivamente difficile per il tessuto abitativo locale, la cuivivibilità è spesso compromessa da modeste condizioni diluminosità e da elevati tassi di affollamento edilizio1. Intempi relativamente più recenti, inoltre, la situazione si èulteriormente aggravata per le conseguenze dell’eventosismico del 1980. A quest’evento sono seguiti, negli annisuccessivi, diversi interventi di restauro edilizio, spessoefficaci, tuttavia rimasti episodici e dispersi sul territorio.Da questo punto di vista, comunque, va detto che unintervento di riqualificazione sistematica del patrimonioedilizio locale si presenta difficile per diverse ragioni,anche qualora si tentasse di mettere in opera una strate-gia più complessiva di recupero urbano: l’opera di re-cupero è resa difficile, in primo luogo, dall’alta percen-tuale di abitazioni in affitto presenti e dal frazionamentoproprietario, e poi anche dalle condizioni di illegalità dif-fusa del patrimonio insediativo prodotta dai numerosiabusi edilizi realizzati nel corso degli anni2.

L’altro elemento che storicamente contraddistinguein senso negativo l’immagine dei QS è rappresentato dal-la presenza, radicata e diffusa sul territorio, delle organiz-zazioni criminali di stampo camorristico. Nel corso degli

1 Si deve dire, comunque, che il fenomeno di disagio socio-ambientale presenta una elevata differenziazione interna ai QS: inprossimità dei due assi viari che delimitano il quartiere (Via Toledo eCorso Vittorio Emanuele) si registrano infatti condizioni migliori divivibilità, mentre nelle aree più interne si hanno le situazioni più gra-vi di degrado. In generale, le difficili condizioni in termini di lumino-sità e di densità abitativa sono particolarmente esasperate nei localifronte strada, i cosiddetti “bassi”, quasi un migliaio dei quali sonoancora destinati a uso abitativo (Ferradino, Sepe, 2001).

2 Difficoltà di questo tipo sono state riscontrate nell’iniziativapromossa dal Comune di Napoli con la costituzione di “Sirena”, unasocietà di trasformazione per il Centro Storico, alla quale partecipacon una quota azionaria del 49% anche l’associazione locale deicostruttori edili.

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FABIO AMATO - UGO ROSSI

anni Ottanta, alcune grandi e potenti famiglie camorristi-che erano in effetti arrivate a esercitare un’influenza pro-fonda sull’organizzazione sociale del quartiere (Gribaudi,1999). Tuttavia, negli anni seguenti, il loro potere è anda-to progressivamente riducendosi, in seguito sia alle durebattaglie combattutesi tra i vari clan per il controllo delterritorio sia alle operazioni di polizia eseguite all’iniziodegli anni Novanta, che hanno avuto entrambe l’effettodi indebolire i clan tradizionali privandoli spesso dei lorouomini di vertice. Questo non significa, comunque, cheoggi il fenomeno della delinquenza organizzata abbiaperso di importanza. Ciò che è cambiato rispetto al pas-sato è che la capacità di penetrazione da parte delle orga-nizzazioni criminali nella struttura sociale del quartieresembra essersi notevolmente indebolita: la scomparsa delcontrabbando di sigarette, un’attività-simbolo fino a po-chi anni fa, capace di offrire sostentamento a migliaia dipersone, è da questo punto di vista molto significativa delcambiamento che si è prodotto nella geografia criminaledella camorra organizzata. Oggi, infatti, i grandi giri diaffari sembrano essere proiettati più sui mercati interna-zionali (in particolare verso quelli dei paesi dell’Europadell’Est) che su quello locale, più rischioso e soprattuttomeno redditizio da un punto di vista finanziario.

Sebbene il fenomeno della criminalità abbia inciso,soprattutto nel passato, in maniera decisiva nella defini-zione dell’identità collettiva di questo quartiere, è anchevero che un’analisi più attenta rivela come i QS sianoattraversati da fenomeni e dinamiche sociali che non siesauriscono certamente nella sfera dell’economia illega-le e criminale. È stato per primo Giovanni Laino, in unlibro-inchiesta sui QS pubblicato ormai quasi vent’anni fa(Laino, 1984), a mettere l’accento sulle potenzialità e sul-le risorse locali di cui dispone quest’area. L’autore segna-lava, in particolare, l’esistenza di un fitto tessuto di pic-cole e piccolissime imprese artigiane, impegnate in mol-teplici comparti produttivi, tra i quali il tessile-abbiglia-mento appariva come quello decisamente prevalente(con una significativa presenza di produttori di borse,pellicce e scarpe) (Froment, 1998).

Il quadro complessivo che emergeva dall’inchiesta diLaino era dunque quello di un quartiere che, per quan-

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

to caratterizzato da una condizione di profonda e diffusamarginalità territoriale e sociale, si rivelava però anchericco di potenzialità e di risorse locali, in attesa soltantodi essere valorizzate e razionalizzate. Oltre al fitto tessutodi imprese artigiane e di attività commerciali presenti, iQS esprimevano, infatti, anche un livello apprezzabile divitalità della società civile locale, testimoniato dalla pre-senza di numerose associazioni, di teatri sperimentali, dicircoli ricreativi e dalla rete di solidarietà attiva assicura-ta dall’impegno di alcuni parroci del quartiere.

Va comunque detto, a questo riguardo, che il tessutoassociativo presente storicamente nell’area era fatto an-che di molte esperienze che in realtà svolgevano una fun-zione essenzialmente clientelare e di mediazione socialecon le formazioni politiche locali, a conferma anche diquanto è emerso dalla ricerca diretta da Carlo Trigilia(1995) sul fenomeno dell’associazionismo nel Mezzo-giorno. Quest’aspetto si è notevolmente ridimensionatodopo la crisi del sistema di potere della Prima Repubbli-ca, con la scomparsa di molte associazioni legate al cetopolitico dominante, anche se negli ultimi anni pare si stiaassistendo a un ritorno dei fenomeni di associazionismoclientelare e di voto di scambio, come si è visto in formeparticolarmente eclatanti in occasione della tornata elet-torale del maggio 2001.

Il carattere variegato e anche contraddittorio chepossono assumere i fenomeni associativi della società civi-le è rivelatore di quanto il capitale sociale locale possasvolgere un ruolo tipicamente ambivalente nei sistemiterritoriali deboli e marginali (Mohan, Mohan, 2002).Nel caso dei QS, infatti, da un lato, vi sono state alcuneesperienze della società civile organizzata che hanno con-tribuito in maniera decisiva a rafforzare il legame socialeall’interno del sistema territoriale: “facendo società”, perdirla con un’espressione oggi utilizzata da molti (Magna-ghi, 2000; Revelli, 1997); dall’altro lato, vi sono state inve-ce molte esperienze associative che hanno contribuitosoprattutto alla conservazione e al rafforzamento dell’or-dine urbano costituito.

Nelle prossime pagine, la nostra attenzione si con-centrerà sul primo gruppo di attori, esemplificato in par-ticolare dall’Associazione Quartieri Spagnoli e dal Teatro

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FABIO AMATO - UGO ROSSI

Nuovo. Queste due esperienze sociali e culturali co-stituiscono le componenti più significative della rete lo-cale di soggetti attivi sul territorio. Esse infatti si sono di-mostrate capaci di valorizzare quelle che Berque (1990)chiama le “prese” dell’ambiente locale e, in questo mo-do, di sviluppare meccanismi endogeni di produzione diterritorialità attiva. Come si vedrà nei paragrafi successividi questo lavoro, queste spinte al cambiamento presentinel milieu locale sono state poi, almeno in parte, ripresee valorizzate dalle politiche di intervento sperimentatenei QS durante la seconda metà degli anni Novanta.

1.1. La rete locale di intervento sociale: l’Associazione Quar-tieri Spagnoli

Le origini dell’Associazione Quartieri Spagnoli (d’o-ra in poi AQS) risalgono al 1978, con la formazione di unprimo gruppo di volontari impegnati in attività di assi-stenza sociale, che scelsero come propria sede di riunio-ne e di coordinamento delle iniziative un piccolo “basso”situato nel cuore dei Quartieri. L’esperienza essenzial-mente spontaneistica degli esordi, che si ricollegava almovimento delle scuole popolari e dell’educazione distrada degli anni Settanta (Farro, 1986), portò successi-vamente, nel 1986, alla costituzione dell’AQS.

L’associazione, nel giro di pochi anni, divenne unpunto di riferimento fondamentale per gli abitanti deiQS, grazie soprattutto al livello di radicamento territoria-le che essa riuscì a imprimere alla propria azione sociale.Un punto di svolta importante, in termini di visibilità e diriconoscimento dell’associazione all’interno della comu-nità locale, è rappresentato dalla creazione, nel 1990, diun centro polivalente, chiamato “Via Nova”, destinatosoprattutto ai giovani del quartiere. Il centro, nel quale ivolontari dell’associazione provvedevano a organizzare leattività più varie, di carattere sia ricreativo sia educativo,divenne presto un polo di aggregazione importante per ibambini e i ragazzi del quartiere, da sempre abituati a tra-scorrere il proprio tempo prevalentemente per strada.

Gli anni Novanta segnano per l’AQS l’inizio di unprocesso di istituzionalizzazione, che culmina, nellaseconda metà del decennio, con la partecipazione diret-

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

ta al Programma Urban. In una prima fase, che duraalmeno fino al 1994, l’AQS aderisce a diversi programmicomunitari di intervento sociale: ad esempio, nel 1994,partecipa all’Iniziativa Horizon, dalla quale ottiene ifinanziamenti per la costituzione di un “Parco del Lavo-ro” destinato ai giovani del quartiere in condizioni di pre-cariato lavorativo (Stanco, Stanco, Laino, 1994). In que-sti anni, l’AQS decide di aderire a diverse reti europee diaree e quartieri in crisi (a cominciare da quella di model-lo francese delle Regie di Quartiere), cercando di farconvergere tutte queste esperienze in un unico progettodenominato C.Ri.S.I. (Cantieri per la RiqualificazioneSociale Integrata) (Laino, 2001). E’ una fase importantedi sperimentazione delle nuove politiche sociali e terri-toriali, che oggi assume ancora più valore se si considerache in quegli anni gli enti e le amministrazioni localistentavano non poco a stabilire rapporti di comunicazio-ne diretta e di collaborazione attiva con le istituzioni co-munitarie europee.

Da queste esperienze scaturisce poi, negli anniseguenti, una lunga e sempre più ricca serie di progetti edi iniziative, come quelle dei Maestri di Strada, dei Nididi Mamma, dei laboratori di educazione territoriale, deitutor di affido per i minori, della gestione del RedditoMinimo di Inserimento a favore delle famiglie più biso-gnose.

Come si vede, il sostegno ai minori è una dellepreoccupazioni centrali che ha guidato l’attività dell’As-sociazione. Con i laboratori di educazione territoriale, adesempio, ha cercato di favorire l’aggregazione giovanileall’interno del quartiere, promuovendo attività di ricrea-zione e socializzazione come la ludoteca, i laboratori difotografia e di informatica, la pittura e così via. Con larete di operatori sociali per l’affido dei minori ha invecetentato di offrire un aiuto concreto alle famiglie in diffi-coltà, alcune delle quali erano beneficiarie del cosiddet-to reddito minimo di inserimento, creando dei percorsidifferenziati di sostegno ai bambini dalle storie personalipiù problematiche. Obiettivi simili hanno guidato, inol-tre, l’esperienza dei cosiddetti “nidi di mamme”. Questoprogetto, nato nell’ambito del Piano territoriale per l’in-fanzia e l’adolescenza, ha visto protagoniste una quaran-

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tina di donne, che, grazie anche al supporto offerto daesperti e mediatori culturali, hanno preso in cura un cen-tinaio di bambini, offrendo loro un importante serviziodi assistenza e a se stesse una preziosa opportunità di ri-scatto lavorativo e sociale.

Anche quando alcune di queste esperienze sono arri-vate a termine, perché non hanno più trovato il necessa-rio sostegno istituzionale (in seguito soprattutto al drasti-co ridimensionamento dei finanziamenti destinati alle po-litiche sociali, che si è avuto negli ultimi anni), l’impegnoper i bambini del quartiere è rimasto uno dei punti fermidelle attività dell’AQS. Nel 2002, ad esempio, sono statiavviati due progetti rivolti ai bambini stranieri e alle fami-glie di immigrati che oggi risiedono, in sempre maggiornumero, nel quartiere3. Più in generale, il patrimonio diconoscenze e di saperi pratici e progettuali accumulatodall’AQS in questi anni di attività è stato capace di sedi-mentare nella comunità locale una particolare sensibilitàculturale e professionale verso il problema del sostegno aiminori in difficoltà. In questo contesto è da ricordare l’e-sperienza dei Maestri di Strada, un programma di lotta al-la dispersione scolastica, che ha saputo proporsi come uncaso altamente innovativo di sperimentazione di un rap-porto diverso tra scuola e territorio (Rossi-Doria, 1999).

Queste esperienze, considerate nel loro insieme, van-no a comporre un modello di intervento sociale, ferma-mente radicato sul territorio e attento ai bisogni diffe-renziati della popolazione locale, che è stato capace inquesti anni di porsi come vera e propria alternativa al tra-dizionale sistema statale di protezione sociale, senza pre-tendere di supplire alle sue mancanze e cercando, inve-ce, di delineare un’idea diversa di assistenza e aiuto allefasce sociali più deboli. L’importanza di questa rete di in-

3 Oggi, secondo dati forniti dall’Associazione Quartieri Spagnoli,ben 161 bambini stranieri frequentano le scuole elementari e mediedella zona. Si tratta di un segno inequivocabile della crescente pre-senza straniera nel quartiere, in particolare di Srilankesi, Filippini eanche Latino-Americani e Cinesi. È interessante anche sottolinearecome si tratti di una presenza molto visibile, giacché gli immigratispesso risiedono nei locali terranei degli edifici (i cosiddetti “bassi”),un tempo occupati soltanto dalla popolazione locale.

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

tervento sociale è poi confermata dal fatto che il patrimo-nio di conoscenze e di saperi pratico-progettuali acquisi-ti nel corso del tempo dall’Associazione sono andati aconfluire, come si vedrà nel prossimo paragrafo, nell’e-sperienza del Pic Urban del 1995-1999, dando vita così aun interessante caso di apprendimento istituzionale dalbasso verso l’alto, che ha avuto l’effetto di mettere inmoto un meccanismo virtuoso di produzione endogenadi territorialità attiva.

1.2. I centri di iniziativa culturale: il Teatro Nuovo

Un altro tassello importante nelle vicende recenti diquest’area è rappresentato dalla riapertura, nel 1981, delTeatro Nuovo, uno storico teatro napoletano fondato nelSettecento, addirittura prima del prestigioso Teatro S.Carlo (esiste anche una strada nei QS chiamata Vico Lun-go Teatro Nuovo), che nel corso del tempo aveva attra-versato un processo di lento e inesorabile declino fino adiventare, negli ultimi anni, un cinema a luci rosse.

L’obiettivo che si posero fin dall’inizio i nuovi gesto-ri era quello di imprimere una svolta radicale all’imma-gine del Nuovo Teatro Nuovo (d’ora in poi, NTN), comefu poi chiamato, rivolgendosi a un pubblico colto ed esi-gente. In effetti, nel giro di breve tempo, il NTN è diven-tato un teatro sperimentale off conosciuto e apprezzato incittà, specie negli ambienti intellettuali più anticonfor-misti e radicali, che attendevano che fosse riempito ilvuoto lasciato dalla fine di alcune esperienze particolar-mente significative degli anni Sessanta e Settanta.

La presenza di questo teatro nel cuore dei QS, anchese in una posizione poco distante dalla centrale arteria divia Toledo, ha avuto un’importanza notevole per l’aper-tura dell’area verso l’esterno, non solo in termini stretta-mente culturali, ma anche per il fatto di aver portato sulluogo persone che altrimenti mai si sarebbero avventura-te, specialmente di notte, nei QS. Ciò, allo stesso tempo,ha significato anche rendere i residenti più avvezzi adaccogliere nel proprio quartiere i visitatori esterni e tem-poranei.

Il successo dell’iniziativa è testimoniato anche dall’a-pertura nel quartiere, nel 1991, di un altro teatro speri-

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mentale, la Galleria Toledo. Oggi i due teatri rappresen-tano gli unici teatri veramente sperimentali esistenti incittà e si può dire che insieme essi arrivino a prefigurareuna sorta di “distretto del teatro off”, che per quanto inuno stato ancora embrionale, potrebbe nel futuro ulte-riormente svilupparsi, sia nei QS sia in altre aree del Cen-tro Storico di Napoli.

2. Il nuovo contesto istituzionale locale

Uno dei punti di maggiore forza della nuova espe-rienza di governo locale a Napoli, negli anni Novanta, èrappresentato senza dubbio dalla ripresa della pianifica-zione urbanistica, con l’approvazione di una variante ge-nerale, di quattro varianti territoriali e di una di salva-guardia al PRG (De Lucia, 1997). La variante che inte-ressa direttamente i QS è quella per il Centro Storico,proposta nel 1996 e approvata nel 1999. Due sono le no-vità di maggior rilievo introdotte (Comune di Napoli,1999): in primo luogo, un’estensione notevole dei confi-ni del centro storico (dai 720 ettari del PRG del 1972 ai1917 attuali), tale da includere tutto il costruito antece-dente alla seconda guerra mondiale (Fig. 2); in secondo

Fig. 2 – Nuova delimitazione del Centro Storico secondo la variante disalvaguardia del 1995

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luogo, l’introduzione del metodo della classificazione ti-pologica degli edifici e degli spazi aperti, formulato te-nendo conto delle diverse parti costitutive l’organismourbano e dei relativi processi di trasformazione storica.

L’allargamento dei confini del Centro Storico e l’in-troduzione del metodo della classificazione tipologica de-vono essere visti come un segno di rottura, da parte deinuovi amministratori locali, con la politica urbanisticapraticata nel passato. Il problema della perimetrazionedel centro storico fu, infatti, al centro del duro conflittopolitico e istituzionale che si aprì, all’inizio degli anni Set-tanta, intorno all’approvazione del PRG, già approvato inConsiglio Comunale nel 1970. La questione si risolse nel1972 con il voto negativo del Consiglio Superiore deiLavori Pubblici, con il quale si disponeva la salvaguardiaconservativa di tutta la città storica. Questa decisione, for-mulata anche in seguito alla pressione esercitata sulle isti-tuzioni dalle forze che avversavano la proposta di PRGdella giunta democristiana, contrastava decisamente conl’indirizzo generale di intervento contenuto nella propo-sta originaria, nella quale si introduceva la distinzione trail centro antico, da destinare a un’opera di “risanamentoconservativo”, e il centro storico, di più recente fondazio-ne, destinato invece a interventi di “ristrutturazione urba-nistica” (Dal Piaz, 1985; De Lucia, Jannello, 1976).

Questa distinzione, come ha scritto Cesare de Seta(1990, p. 117), aveva l’effetto di stabilire una sorta di“negritudine” del centro storico, largamente inteso,comprendente le aree di fondazione seicentesca e sette-centesca, rispetto al centro antico greco-romano, facen-do ritenere che il primo fosse dotato soltanto di pochiepisodi architettonici e artistici degni di un certo inte-resse e che soltanto il secondo fosse da considerare divalore realmente pregevole e per questo da conservarenella sua originaria integrità. I QS, la cui fondazionerisale al XVI secolo, non solo rientravano a pieno titolonella prima categoria, ma anzi rappresentavano l’areadove maggiormente si appuntavano gli appetiti edilizidello schieramento sociale che appoggiava il nuovoPRG. I QS, infatti, erano considerati nel progetto di pia-no come area di primo intervento, lasciando così facil-mente prevedere “la demolizione a tappeto del vecchio

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tessuto urbano da sostituire con edilizia moderna e conl’immissione di nuovi motivi di interesse, e quindi dicongestione, nel tentativo di rendere appetibile e imme-diatamente utile l’operazione di risanamento” (De Lu-cia, Jannello, 1976, p. 48).

Intorno alla metà degli anni Ottanta, emerse unanuova proposta di intervento, avanzata dalla neo-costi-tuita “Società Studi Centro Storico” (SSCS), con la pub-blicazione di due volumi, il primo dei quali fu ambizio-samente intitolato “Il Regno del Possibile” (SSCS 1986 e1988)4. Il lavoro si richiamava esplicitamente alla meto-dologia di analisi e di intervento proposta in una prece-dente ricerca collettiva sul centro antico napoletano(Pane et al., 1971), che aveva ispirato anche l’imposta-zione dello stesso PRG, contestato anni prima. Questocomune impianto metodologico contribuiva dunque atracciare una chiara linea di continuità tra la proposta diPrg degli anni Settanta e il progetto di rigenerazione delCentro Storico, avanzato nel decennio successivo dallaSSCS.

Come ha sostenuto Leonardo Benevolo, il progettoavanzato dalla SSCS non era accettabile “né per il merito(propone interventi sbagliati e impraticabili), né per ilmetodo (conferma e accentua la divaricazione traamministrazione pubblica e operatori privati, che è pro-prio l’ostacolo da eliminare” (Benevolo, 1989, p. 10). Sulpiano metodologico, la linea di intervento sul patrimo-nio edilizio proposta dalla SSCS si basava infatti su unavalutazione qualitativa degli insediamenti (definita “giu-dizio storico-critico”: Di Stefano, 1986, p. 186), in buonaparte soggettiva e difficilmente riscontrabile da un puntodi vista scientifico. Era invece assente quel criterio tipo-logico e morfologico di classificazione degli insediamen-ti, che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, era statoalla base del successo dei piani di rivalorizzazione di

4 La Società Studi Centro Storico era espressione di un vastofronte di interessi, del mondo imprenditoriale e accademico: dallasocietà Mededil all’associazione dei costruttori edili napoletani fino aesponenti di punta del mondo accademico napoletano, di varia estra-zione politica e culturale. Sul dibattito seguito alla pubblicazione delRegno del Possibile, si vedano Lepore (1989) e Sommella (1989).

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numerosi centri storici in Europa (Cervellati, 1978; Bene-volo, 1993).

Sul piano operativo il piano di intervento propostodalla SSCS apriva la strada, come sosteneva ancora Bene-volo, a degli “sventramenti in piena regola” (Benevolo,1989, p. 11) in aree come i QS e la Sanità, uscite abba-stanza indenni dal sacco edilizio degli anni Cinquanta eSessanta. Proprio in riferimento ai QS si avanzò, infatti,una delle proposte che più preoccuparono Benevolo egli altri critici del progetto: quella di una parallela a viaToledo, con percorso inizialmente sotterraneo, che dove-va attraversare i QS e la zona di Montesanto. Si trattava diun intervento più volte riproposto nella storia urbanisti-ca di Napoli (Dal Piaz, 1985), la cui ultima apparizioneera avvenuta pochi anni prima nel tentativo di coglierel’“occasione” offerta dal sisma del 1980.

Il progetto della SSCS non ebbe mai alcun seguito efinì con l’essere dimenticato nel giro di pochi anni,soprattutto dopo che il sistema politico ed economicoche lo aveva sostenuto e appoggiato fin dall’inizio si dis-solse improvvisamente, nei primi anni Novanta, sommer-so dagli scandali nazionali e locali. Dopo due anni ditransizione, nel 1993, le elezioni municipali decretaronoil successo della coalizione di centro-sinistra, guidata dalsindaco Bassolino. Il nuovo corso di pianificazione urba-nistica intrapreso dalla giunta di centro-sinistra portòdunque all’adozione della variante per il Centro Storico(Comune di Napoli, 1999). Allargando i confini del Cen-tro Storico a tutti gli insediamenti realizzati prima dellaseconda guerra mondiale e introducendo il criterio tipo-logico-morfologico di classificazione degli edifici, le nuo-ve élite politiche intesero così porre fine alla lunga con-troversia politica e urbanistica che si era prodotta intor-no al destino di questo spazio urbano.

In termini generali, si può dire che il nuovo corso dipianificazione intrapreso a Napoli negli anni Novantarappresenti un’esperienza di “government” urbano cheriafferma con decisione la preminenza dell’interessepubblico nella politica urbanistica (Bolocan, Salone,1996; Campos Venuti, 1997), allo scopo di creare unospartiacque netto con quella che Vezio De Lucia defini-sce “l’urbanistica contrattata” (De Lucia, 1998), cioè

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un’idea e una pratica della pianificazione urbana che im-pone all’amministrazione locale un rapporto di subalter-nità con le strategie perseguite dagli attori economicipresenti sul territorio. Ciò ha portato, quindi, a tracciareuna linea netta di discontinuità con il modello di impren-ditorializzazione del governo urbano (Harvey, 1989) e di“neo-liberalizzazione” dello spazio pubblico (Peck,Tickell, 2002), che si era imposto a Napoli come altrovenel corso degli anni Ottanta, e di cui il progetto dellaSSCS aveva rappresentato l’espressione forse più com-piuta.

Sotto un profilo pratico, l’esperienza di governourbano condotta negli anni Novanta è riuscita a garanti-re alcuni interventi di rilievo nei QS. Quello più signifi-cativo, da un punto di vista simbolico, è stato senza dub-bio il recupero dell’area dismessa dell’ex Ospedale Mili-tare. L’intervento ha trasformato parte di quest’area inun parco urbano, chiamato “Parco dei Quartieri Spagno-li”, destinato agli abitanti e in particolare ai bambini delquartiere, i quali così hanno finalmente avuto la possibi-lità di usufruire di uno spazio pubblico aperto con fre-quenza quotidiana e al completo riparo dal traffico auto-mobilistico. Il progetto, ancora non terminato (si è ini-ziato da poco a lavorare alla costruzione di un complessosportivo polivalente), è stato ben accolto dagli abitanti,come dimostra l’alto numero di visitatori che si contanoogni giorno.

Al di là dei singoli interventi di recupero urbano, lanovità più significativa degli anni Novanta è rappresen-tata comunque dall’integrazione delle politiche ordina-rie e di piano, da una parte, con quelle “progettuali”,dall’altra. Non si è assistito cioè a quella divaricazione eopposizione tra “cultura della pianificazione” e “culturadel progetto”, che aveva caratterizzato il dibattito politi-co e urbanistico del decennio precedente. Così le inizia-tive promosse, ad esempio, dall’Assessorato alla Dignitàin sostegno dei ceti più deboli (il reddito minimo diinserimento, il coordinamento di area dei servizi socialie i laboratori di educazione territoriale) si sono trovatea interagire con quelle condotte nell’ambito della misu-ra “sociale” del Programma Urban. Di particolare signi-ficato è l’esperienza del Reddito Minimo di Inserimento,

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una misura di accompagnamento sociale che ha coin-volto circa quattrocento famiglie del quartiere. La mi-sura consisteva in una forma di sostegno monetario allefamiglie, scelte tra quelle che dimostravano di avere ilivelli di reddito più bassi e si impegnavano a investire icontributi ricevuti nel miglioramento delle proprie con-dizioni abitative e nell’avvio di nuove attività di lavoro.L’iniziativa ha avuto, alla fine, un successo parziale: infat-ti, da un lato, è apparsa a molti arbitraria la scelta dellefamiglie destinatarie della misura (la diffusa presenzanel quartiere di fonti di reddito non registrate rendespesso inevitabilmente arbitrarie attribuzioni di questotipo), generando non poco malcontento tra coloro chene sono rimasti esclusi; dall’altro lato, però, al di là deicontenuti assistenziali che una misura di questo tiporischia in molti casi di avere (Saraceno, 2002), si è trat-tato di un utile esperimento di “reddito di cittadinanza”,che ha avuto l’effetto di rafforzare il legame sociale trale istituzioni locali e le fasce più deboli della popo-lazione.

Un altro esempio di integrazione tra politiche di pia-no e politiche progettuali è rappresentato dagli interven-ti di recupero dell’edilizia residenziale e di quella di pro-prietà comunale promossi dal Comune di Napoli nei QS,insieme a una diffusa opera di arredo urbano che ha por-tato a un completo rinnovo dell’illuminazione e dellasegnaletica stradale, e quelli condotti nell’ambito dellamisura “urbanistica” del Programma Urban (vedi infra3.2.3). In quest’ottica va anche letta la decisione dell’am-ministrazione comunale di costituire, all’interno dei QS,un ufficio speciale di coordinamento delle iniziative perl’area, nell’ambito del più generale Servizio Interventinel Centro Storico. Quest’ufficio è stato istituito in primoluogo per coordinare le misure di intervento definite nel-l’ambito del Programma Urban, ma allo stesso tempo hafinito anche per svolgere una funzione essenziale dicoordinamento di tutte le politiche pubbliche realizzatein questi anni per la riqualificazione dei QS. Da questopunto di vista, si può dire che il caso dei QS può esserevisto come un interessante esempio di integrazione delmodello di “government” con quello di “governance”dello spazio urbano.

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3. Le reti sovralocali: l’esperienza del ProgrammaUrban

Se si guarda agli studi che compiono una ricognizio-ne generale del Programma Urban (Pasqui, 2002), si puòvedere come il caso dei QS appaia tra quelli consideratipiù significativi e coerenti dal punto di vista della spe-rimentazione di un nuovo approccio di politica urbana.Nel programma Urban per i QS, in effetti, sembranoessere presenti un po’ tutti gli ingredienti che in generesono indicati come componenti essenziali di un modellodi “governance” urbana: la multiscalarità degli attori mo-bilitati; il carattere integrato del programma di interven-to; il coinvolgimento degli attori non-istituzionali e lapartecipazione della società civile organizzata al pro-gramma di riqualificazione urbana (Rhodes, 1996; Go-verna, Salone, 2002; Le Galès, 2002).

3.1 La costruzione di reti istituzionali transcalari

Il principale elemento di interesse di Urban èrappresentato dalla multiscalarità territoriale del pro-gramma di intervento, un aspetto sul quale oggi si poneparticolare enfasi nel dibattito sulle politiche urbane eregionali (Brenner, 1999; Dematteis, 1999b; MacLeod,1999; Swyngedouw, 1997). Urban è, infatti, promosso daun soggetto sovra-nazionale, l’UE; è recepito da un sog-getto locale, come il Comune di Napoli nel nostro caso; èsottoposto quindi a un livello nazionale al momento dellacandidatura e durante tutta la fase di attuazione (il pro-gramma è stato coordinato in Italia dal Ministero deiLavori Pubblici) e, infine, è realizzato con la collabora-zione attiva di associazioni e altri attori, espressioni diret-te del livello micro-locale, vale a dire dell’area interessatadall’intervento.

Il rapporto di interconnessione che viene a crearsitra le diverse scale territoriali coinvolte è un aspettofondamentale del nuovo modo di governare le città e leregioni, che anche nel caso dei QS sembra aver sostan-zialmente funzionato, benché solo in una direzione (dal-l’alto verso il basso, ovvero dalla scala sovra-nazionale aquella micro-locale), ma non viceversa, confermando

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così un limite che sembra essere comune all’intera espe-rienza della governance europea (Atkinson, 2002).

Nel caso di Urban, il funzionamento del modello digovernance può essere dunque sintetizzato nella manie-ra seguente: l’UE, che ha fornito anche il sostegno finan-ziario più consistente all’iniziativa, ha provveduto a stabi-lire le “regole del gioco”, definendo le modalità di ade-sione al programma, lo spirito e gli obiettivi dell’inter-vento, e svolgendo poi durante la fase di attuazione unafunzione di sorveglianza e di controllo sui diversi pro-grammi nazionali. Il Ministero dei Lavori Pubblici hacoordinato le varie iniziative locali, preoccupandosisoprattutto di mantenere i rapporti con i referenti euro-pei. Infine, il Comune di Napoli, che aveva l’onere didare attuazione concreta al programma, ha cercato dirafforzare il proprio radicamento territoriale nell’areainteressata dall’intervento, sia intensificando le pratichedi comunicazione e di collaborazione con gli abitanti e lasocietà civile locale, sia consolidando la propria presenzafisica nell’area con l’apertura di un ufficio speciale dicoordinamento dell’iniziativa.

Ha funzionato meno, invece, il rapporto di inter-connessione dal basso verso l’alto, dal locale al globale.In linea teorica, infatti, rientrava nella filosofia di inter-vento di Urban la necessità di costituire, fra i vari sistemiterritoriali coinvolti nel programma, rapporti di comuni-cazione, supporto e coordinamento reciproci, fino a darevita a delle vere e proprie reti di città (Dematteis, 2001b),capaci di offrire di sé una rappresentazione unitaria allascala internazionale e globale. Invece, perlomeno nell’e-sperienza italiana, è mancato completamente questo pro-tagonismo globale delle società e delle istituzioni locali,che sono apparse piuttosto subalterne rispetto ai livelli“superiori” di decisione politica. Gli stessi responsabilidelle varie linee di intervento del Programma Urban peri QS si sono mostrati concordi nel giudicare insufficienti,o comunque troppo episodici, gli scambi di informa-zione, di competenze e anche di risorse avvenuti con lealtre città coinvolte nel Programma, specie quelle nonitaliane. D’altro canto, la stessa rete di città Urban creatain Italia, peraltro piuttosto tardivamente, sembra esserestata più un’operazione voluta dal Ministero dei Lavori

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Pubblici che il risultato di un vero processo di interazio-ne e di confronto tra i vari attori locali impegnati nel pro-gramma comunitario.

3.2 L’approccio integrato alla riqualificazione urbana

L’altra caratteristica essenziale del Programma Urbanè quella di ispirarsi a una logica multipla di “azione inte-grata”, a una logica di intervento cioè che punta al tempostesso all’integrazione degli attori mobilitati dal pro-gramma di riqualificazione, così come a quella dei vari set-tori di intervento attivati; e all’integrazione delle risorsefinanziarie mobilitate, così come a quella delle varie politi-che territoriali, progettuali e di piano, operative alla scalaurbana (Laino, 1999; Padovani, 2002).

Rispetto alle prime formulazioni dell’approccio inte-grato al tema della riqualificazione urbana, che sottolinea-vano soprattutto la dimensione inter-settoriale, e quindiinter-attoriale dell’intervento di recupero urbano5, con ilProgramma Urban si è cercato di mettere in collegamen-to non solo i vari settori di intervento individuati e i rela-tivi attori locali coinvolti, ma anche di prevedere un’inte-grazione tra le diverse fonti di finanziamento mobilitatein linea con l’indirizzo europeo. Nel caso di Napoli, ilpeso degli aiuti comunitari, attinti dai fondi europei (Fesre Fse), è rimasto limitato a poco più del 50% del fabbiso-gno complessivo, mentre il resto dei contributi previsti èvenuto in gran parte dalle amministrazioni nazionali (percirca il 40%) e in minima parte anche da fondi privati (il4% della spesa totale) (Comune di Napoli, 1994).

Per quanto riguarda il carattere inter-settoriale del-l’intervento, si deve dire che esso rappresenta senza dub-bio il tratto maggiormente distintivo dell’approccio inte-grato alla riqualificazione delle aree marginali. Per i QS,il Programma Urban è stato articolato essenzialmente intre strategie di intervento, denominate “misure”: la misu-ra 1 per l’avvio di nuove attività economiche, la misura 2

5 Per il caso di Napoli si ricordano gli studi promossi negli anni‘80 dalla Cgil napoletana e dal Daest di Venezia sul CS (Cgil e Daest,1982; Cgil et al., 1986).

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

per la formazione, l’occupazione locale e i servizi sociali,la misura 3 per le infrastrutture e l’ambiente (Comune diNapoli, Programma Urban, 1999).

Mentre il bilancio concernente le singole iniziative èsostanzialmente in attivo, se si confrontano i successi e ifallimenti conseguiti da ciascuna di esse, il punto deboledell’intero programma di intervento sembra risiedere so-prattutto nel coordinamento delle varie misure e, quindi,nella loro effettiva integrazione. Ad esempio, la misura 1e la misura 2 non sono state messe nella condizione dipoter realmente interagire tra loro, per mancanza soprat-tutto di una corretta sincronizzazione degli interventi(quando la misura 1 era arrivata di fatto a conclusione,con la chiusura del bando per le imprese artigiane, lamisura 2 stava per essere effettivamente attivata). Unaqualche relazione si è potuta venire a creare tra la misu-ra 3 e la misura 1, giacché le opere di recupero, manu-tenzione e arredo urbano hanno riguardato l’area dei QSdove sono maggiormente concentrate le iniziative arti-gianali e commerciali destinatarie degli incentivi eco-nomici previsti dalla misura 1.

3.2.a Il sostegno alle attività produttive: la misura 1

L’avvio di nuove attività economiche e il sostegno aquelle già esistenti nell’area potevano comportare, of-frendo incentivi alle imprese artigiane, il rischio di favo-rire quelle pratiche di rent seeking, di accaparramentoopportunistico delle risorse, che notoriamente caratteriz-zano universi produttivi poco innovativi come quellomeridionale (Becchi, 2002). In effetti, anche se questoaspetto non è mancato, la particolare procedura di finan-ziamento adottata ha fatto in modo che il fenomeno nonarrivasse mai a degenerare: il bando vincolava, infatti, ilfinanziamento offerto alle imprese al rispetto delle pro-cedure e delle verifiche di fattibilità previste nel progettoe nella domanda di contributo.

Così, le imprese che hanno ottenuto il finanziamen-to (circa una ventina, considerando ambedue i bandiemessi) hanno provveduto soprattutto a ristrutturare ipropri locali o talora anche a rinnovare alcuni macchi-nari per la produzione. Si tratta di un risultato che, per

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quanto parziale, ha comunque la sua importanza, se siconsiderano le dure condizioni di lavoro in cui prece-dentemente ci si trovava a operare nei piccoli laboratorimanifatturieri dei QS (Laino, 1984). Tuttavia, si deveanche dire che non si è stati in grado di raggiungere altriobiettivi di più largo respiro rispetto a quello del sempli-ce ammodernamento fisico di alcune aziende.

In particolare, inizialmente era stata avanzata, anchecon una certa determinazione, l’ipotesi di dare vita a unconsorzio delle imprese artigiane dei QS. Il progetto eranato in maniera del tutto spontanea, intorno al 1996,quando un gruppo di produttori di pelli si rivolse all’As-sociazione Quartieri Spagnoli per discutere la possibilitàdi regolarizzare, soprattutto sotto un profilo igienico esanitario, le imprese artigiane esistenti. In questa vicen-da, l’AQS giocò un ruolo decisivo di mediazione tra i variimprenditori, i quali naturalmente nutrivano aspettativemolto diverse tra loro dall’esperienza dell’associazione dipellettieri.

L’idea, infatti, di costituire un consorzio, di caratterestabile e duraturo, che raggruppasse tutte le imprese tes-sili presenti nei QS (quindi non solo i produttori di pel-li) non è riuscita mai a riscuotere un consenso unanimetra gli artigiani: i più piccoli tra loro (in genere, i conto-terzisti “mono-clientelari”, cioè coloro che lavorano perun’unica impresa committente) partecipavano all’asso-ciazione secondo una logica essenzialmente di rentseeking, ovvero per ottenere un accesso più agevolato aeventuali fondi di investimento messi in bando, mentre ipiù grandi e strutturati (in genere, imprese finaliste, talo-ra detentrici anche di un proprio marchio) erano pocoinclini a partecipare a un consorzio per evitare di dovercondividere con gli altri aderenti il proprio patrimoniodi risorse, relazioni e posizioni di mercato. Più disponibi-li, e in alcuni casi persino entusiasti, rispetto all’idea delconsorzio si mostravano gli imprenditori medio-piccoli(in genere, contoterzisti pluri-clientelari, dotati di unacerta autonomia dalle imprese committenti). Questi ul-timi, infatti, comprendevano come una coalizione del ge-nere fosse in grado di rafforzare la propria posizione con-trattuale nella filiera produttiva (ad esempio, centraliz-zando la ricezione delle commesse e, quindi, razionaliz-

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zandone la distribuzione tra i vari soggetti produttivi),rendendo possibile anche un miglioramento dei lororapporti con le banche e, in generale, una più efficacedifesa dei propri interessi.

L’idea di costituire un consorzio delle imprese arti-giane dei QS non si è mai più realizzata e sembra, peral-tro, piuttosto difficile che potrà esserlo in futuro, se nem-meno la mediazione dell’AQS prima e il supporto istitu-zionale del Programma Urban poi sono riusciti a offrirealle imprese locali le motivazioni giuste per sperimentareun percorso di questo tipo. Così, la situazione complessi-va dell’economia del quartiere non sembra essere muta-ta più di tanto in questi ultimi anni e, al di là di unamigliore condizione generale di cui ora possono goderele aziende, la prospettiva di distrettualizzazione del siste-ma produttivo locale resta senza dubbio ancora lontana.

3.2.b L’intervento per i ceti più deboli: la misura 2

La misura relativa a “Formazione, occupazione loca-le e servizi sociali” è quella che si è posta in maggiorecontinuità con il lavoro di intervento sociale svolto dal-l’AQS negli anni passati, come è testimoniato dalla circo-stanza che vede il responsabile della misura essere ancheuno degli attivisti di punta dell’associazione. Se ciò senzadubbio ha contribuito ad assicurare un chiaro valoreaggiunto di natura endogena all’azione istituzionale,parimenti si può dire che il fatto che l’azione si sia postain così stretta continuità con l’esperienza dell’AQS abbiacostituito al tempo stesso il punto di forza e quello didebolezza dell’iniziativa: da un lato, infatti, il compito diUrban è stato ovviamente molto facilitato dalla presenzadi un attore così radicato sul territorio come l’AQS; dal-l’altro lato, però, è stato anche difficile per gli abitantidel Quartiere e, in particolare, per i destinatari dellamisura poter cogliere con chiarezza l’elemento di discon-tinuità rappresentato da Urban, cosicché la visibilità delprogramma di intervento è rimasta alla fine piuttosto de-bole.

L’aspetto di continuità è bene evidenziato dall’espe-rienza del Progetto Sportello Lavoro, finalizzata all’o-rientamento, alla formazione e, nei casi più fortunati,

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anche all’inserimento lavorativo di giovani a rischio, tra i15 e i 30 anni, con gravi difficoltà a fare ingresso e a inte-grarsi stabilmente nel mercato del lavoro. Come l’espe-rienza del Parco del Lavoro condotta in precedenza dal-l’AQS, questo progetto aspirava infatti a stimolare i gio-vani che potevano contare sui percorsi formativi piùdeboli a intraprendere processi di apprendimento pro-fessionale e di socializzazione lavorativa in grado di valo-rizzare le loro specifiche vocazioni professionali. Il pro-getto ha coinvolto complessivamente 27 giovani e 26aziende, ottenendo alla fine risultati abbastanza inco-raggianti, giacché soltanto 10 dei 27 allievi originari han-no abbandonato precocemente le esperienze di tirociniomentre gli altri sono riusciti a portare a termine il pro-prio percorso formativo.

Tra gli obiettivi mancati, o perlomeno non ancorarealizzati (visto che esistono ancora residue possibilità checiò avvenga in futuro), vi sono senz’altro quelli dell’aper-tura di un job center e di un centro polifunzionale all’in-terno dei QS. Mentre per il job center non si è mai com-piuto alcun reale passo in avanti (sebbene si tratti di unservizio potenzialmente di grande utilità sociale per ilquartiere, considerata la grave situazione occupazionaleche lo affligge), il caso del centro polifunzionale sembraessere più problematico e controverso. Il progetto inizia-le prevedeva, infatti, che in questo centro trovassero ospi-talità sia attività socio-educative (come un consultorio perl’infanzia e un centro di aggregazione giovanile), sia lasede di un posto di polizia. A tutt’oggi, il centro ospitainvece soltanto il posto di polizia e delle altre attività nonvi è ancora traccia. Al di là degli esiti futuri, comunque,sembra piuttosto discutibile l’idea di collocare nella me-desima struttura un centro di aggregazione giovanile e unposto di polizia, per di più in un quartiere come i QS,dove i giovani, ma non solo, hanno da sempre un rappor-to difficile e conflittuale con le autorità costituite, e con leforze dell’ordine in modo particolare. Viene da chiedersi,a questo proposito, se questa vicenda non porti alla luceuna certa inclinazione paternalistica che sembra connota-re i nuovi indirizzi di politica territoriale, laddove essi insi-stono sull’obiettivo dell’integrazione della società civilelocale nei processi di riqualificazione urbana.

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UN SISTEMA TERRITORIALE MARGINALE TRA CAMBIAMENTO E CONTINUITÀ

3.2.c Il riassetto urbanistico: la misura 3

Gli interventi previsti per la misura 3 (“Infrastrutturee ambiente”), destinatari della quota più cospicua deifondi stanziati per Urban (il 50% del finanziamento com-plessivo, ovvero 21 miliardi di vecchie lire), interessavanoun’area di circa 20mila mq, compresa tra strade e piazzenon sempre contigue tra loro da un punto di vista terri-toriale.

L’intervento, consistito nell’arredo degli spazi urbanie nella sistemazione e ottimizzazione della rete locale diservizi e sottoservizi (illuminazione, segnaletica stradale,impianto fognario), è stato abbastanza circoscritto da unpunto di vista geografico. Esso ha infatti investito soprat-tutto la parte dei QS collocata a ridosso della centralearteria cittadina di via Toledo (anch’essa destinataria diun intervento di arredo urbano) e ha lasciato invecesostanzialmente invariata la situazione nella parte restan-te dell’area, quella peraltro storicamente più degradatada un punto di vista socio-ambientale (Fig. 3).

Vista anche la scarsa disponibilità di risorse, si è deci-so così di concentrare l’intervento in un’area limitata, lapiù adatta probabilmente a svolgere la funzione di vola-no del processo di riqualificazione che il ProgrammaUrban ha cercato di innescare. Come si è detto già in pre-cedenza, infatti, in quest’area sono concentrate la mag-gioranza delle attività commerciali e artigianali, oltre aipochi centri culturali (i due teatri sperimentali) e allealtrettanto rare strutture alberghiere e di ristorazione giàpresenti nei QS. Senza dubbio, tutte queste attività han-no tratto beneficio dagli interventi di risistemazione e diabbellimento di piazze e strade eseguiti nell’ambito delProgramma Urban, potendosi finalmente trovare a ope-rare in un ambiente urbano meno degradato e inospitaledi quanto lo fosse nel passato. Ad esempio, il Teatro Nuo-vo ha conosciuto in questi ultimi due anni un boom dipubblico che, se certamente non è dovuto esclusi-vamente a Urban, è in parte spiegabile anche con esso: inparticolare, la nuova illuminazione notturna delle stradeoggi sicuramente facilita e invoglia l’accesso al teatro.Inoltre, altre attività sono sorte in quest’area dei QS, spe-cialmente sul versante della ristorazione e della ricettività

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Fig. 3 – Il degrado socio-ambientale dei Quartieri Spagnoli e l’area diintervento Urban

In alto la rappresentazione del degrado socio-ambientale dei QS all’iniziodegli anni Settanta. In nero si evidenziano i livelli più avanzati di degrado,mentre le condizioni medio-buone sono tratteggiate (fonte: Laino, 1984).In basso l’area di intervento Urban è segnalata in grigio (fonte: Comunedi Napoli, 1999). Dal confronto, emerge che gli interventi hanno interes-sato le aree più favorevoli.

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alberghiera. Ad esempio, all’unico albergo di qualità esi-stente in passato si sono aggiunti negli ultimi anni duenuovi hotel, destinati anch’essi a una fascia medio-alta diconsumatori.

Infine, l’ultimo segnale di valorizzazione dell’area èdato dall’aumento improvviso dei valori immobiliari chesi è registrato negli ultimi anni. Oggi, infatti, la valutazio-ne media delle abitazioni nella parte bassa dei QS si aggi-ra intorno ai 2.000 euro al metro quadrato, mentre pri-ma dell’intervento difficilmente si superavano i 1.000-1.500 euro. Questa ripresa del mercato immobiliare neiQS, a lungo profondamente depresso, non pare comun-que che debba necessariamente portare a un radicaleprocesso di gentrification, di sostituzione delle classi popo-lari che storicamente risiedono in questo quartiere conuna nuova popolazione di livello sociale medio-alto. Piut-tosto, sembra che si assista, come ritiene anche GiovanniLaino (intervista del giugno 2002), a una forma soft, blan-da e graduale, di gentrification, la quale difficilmentepotrà portare a una trasformazione profonda della com-posizione sociale dell’area. Quindi, anche se i QS sembrasiano diventati una zona dove un numero sempre cre-scente di persone sceglie di andare a vivere, si deve anchedire che le tipologie di nuovi residenti restano ancoraabbastanza limitate: intellettuali, giovani “alternativi”,artisti e così via.

Si può dire, in definitiva, che l’area dei QS interessa-ta dal Programma Urban sia cambiata in maniera abba-stanza significativa in questi ultimi anni, e che si sianoposte così le basi per l’avvio di un processo più diffuso eallargato di riqualificazione urbana, per quanto esso sem-bra essere per molti aspetti limitato a un effetto di terri-torializzazione di natura preminentemente esogena. Inparticolare, da questo punto di vista, può essere utile sof-fermarsi sugli episodi di insuccesso dell’intervento, i qua-li peraltro sembrano essere abbastanza limitati di nume-ro e non in grado dunque di mettere in discussione il giu-dizio complessivo che si può dare di questa misura e delProgramma Urban, più in generale.

I casi più significativi di insuccesso sono rappresenta-ti dalla ristrutturazione, fallita o mai iniziata, di due piaz-ze dei QS. In un primo caso, quello di Largo Barracche,

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l’intervento è stato infatti pure realizzato così come previ-sto, ma nel giro di pochi mesi l’immagine del degrado hapreso di nuovo il sopravvento nella visione d’insieme del-la piazza: i giochi dei bambini sono andati rapidamentedistrutti, l’immondizia ha preso nuovamente ad accumu-larsi un po’ ovunque, e in più un palazzo prospiciente lapiazza è stato sgomberato perché pericolante da un pun-to di vista statico, accrescendo ulteriormente la sensazio-ne di degrado e di abbandono generale. Se si considerache i progettisti di Urban si sono impegnati ad ascoltarei pareri degli abitanti prima di procedere alla sistemazio-ne della piazza, questo esito diventa ancor più significati-vo. Al campetto di calcio, inizialmente previsto su richie-sta dei ragazzi della zona, è subentrata l’idea del parcogiochi, sostenuta dagli altri abitanti per evitare il rischiodi disturbo della quiete pubblica. L’insegnamento che sipuò trarre da quest’esperienza è che, in realtà, non pote-va essere sufficiente ascoltare le richieste degli abitanti,ma bisognava rendere gli abitanti stessi ancor più prota-gonisti del processo di rinnovamento, magari coin-volgendo i bambini che abitualmente frequentano lapiazza nella costruzione materiale dei giochi.

Nel secondo caso, quello di Piazzetta S. Anna di Pa-lazzo, l’intervento previsto invece non è mai stato realiz-zato, o perlomeno si è bloccato sul nascere, producendocosì effetti paradossali: è stato disposto, infatti, lo sgom-bero delle piccole rivendite di alimentari che, da lungotempo, occupavano abusivamente lo spazio centrale del-la piazza, ma senza poi realizzare gli interventi dipedonalizzazione previsti. L’effetto paradossale che si èdeterminato è che ora quello stesso spazio è occupatoabusivamente dalle automobili parcheggiate, cosicchénel suo complesso la piazza oggi risulta essere socialmen-te meno fruibile di quanto lo fosse in passato.

Conclusioni

L’analisi sin qui condotta ha avuto come principaleobiettivo quello di mettere in evidenza il ruolo svolto dal-le varie componenti del milieu locale nella formazione enella costruzione attiva del sistema territoriale locale.

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Questo ruolo è stato certamente favorito, negli ultimianni, dall’adozione di un modello di intervento istituzio-nale fondato sull’idea del coinvolgimento attivo dellarete locale di attori nel processo di riqualificazione terri-toriale.

L’esperienza dei QS insegna, quindi, come le politi-che urbane e territoriali oggi debbano puntare a un livel-lo sempre più elevato e anche sofisticato di radicamentoterritoriale e sociale delle proprie strategie di intervento.Si tratta di un approccio di politica territoriale che daqualche anno ormai ha ricevuto un ampio riconoscimen-to istituzionale, in Italia come in Europa. Tuttavia, al di làdei suoi stessi successi e fallimenti, quest’approccio ponedei problemi che meritano qui di essere puntualizzati.

In primo luogo, bisogna sottolineare il problema del-la rappresentazione delle società e, in generale, dei siste-mi territoriali locali alla scala globale. Si è già detto, infat-ti, riferendosi al Pic Urban, come le relazioni tra i diversiattori locali impegnati in uno stesso programma di inter-vento siano in genere piuttosto deboli o, comunque,mediate da organismi istituzionali di livello “superiore”.Non si è manifestato, invece, almeno fino a questomomento, quel protagonismo globale delle società localiche, a livello continentale, ad esempio, dovrebbe esserein grado di dare sostanza e significato a espressioni come“Europa delle Regioni” o “Europa delle Città”, le qualioggi non sembrano essere molto più che astratte formu-le istituzionali. A questo proposito, è importante anchedire che sarebbe sbagliato imputare le responsabilità diquesto mancato protagonismo locale soltanto alle volon-tà egemoniche delle élites politiche nazionali, europee oglobali. I sistemi territoriali locali finora hanno dimo-strato, infatti, di voler offrire una rappresentazione col-lettiva e unitaria di sé soprattutto per motivi economici ecommerciali: per essere più competitivi rispetto ad altrearee geografiche o per ottenere alcune condizioni van-taggiose di mercato da un certo referente nazionale osovra-nazionale. Al contrario, è ancora assente, o comun-que stenta a farsi avanti con decisione, un protagonismocollettivo dei sistemi locali che si esprima nella direzionedi una prospettiva di “globalizzazione dal basso” fondatasulla costruzione di reti territoriali solidali e cooperative.

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L’altro problema che vogliamo sottolineare riguarda,invece, la questione del superamento delle condizioni dimarginalità territoriale e sociale nei sistemi locali deboli,come quello analizzato in questo contributo. Se è vero,infatti, che il radicamento territoriale delle politicheurbane permette di mobilitare e valorizzare il potenzialesociale di cui dispongono i sistemi territoriali, è anchevero che esse raramente riescono ad aggredire le ragionidi fondo che spiegano la loro stessa condizione di margi-nalità. Probabilmente, per raggiungere risultati in gradoveramente di trasformare la struttura economica e socia-le di questi sistemi territoriali, le politiche urbane e regio-nali dovrebbero porsi obiettivi più ambiziosi e di lungoperiodo rispetto a quelli che abitualmente si prefiggono:ad esempio, se si offrono incentivi alle imprese locali,bisogna anche indirizzare con decisione queste stesseimprese verso processi di regolarizzazione della forza-lavoro e di distrettualizzazione del sistema produttivo,capaci di ridurre il livello di incertezza e di frammenta-zione sociale di cui soffrono questi sistemi territoriali. Seinvece si persiste a operare con politiche “deboli”, di bre-ve periodo e dallo scarso valore normativo, difficilmentesi potrà porre rimedio alle ineguaglianze strutturali chedefiniscono l’attuale condizione di marginalità di questisistemi territoriali locali.

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La dimensione locale dello sviluppo sostenibile:il progetto del Parco napoletano delle Colline

Sergio Ventriglia

Le considerazioni che seguono trovano origine neimolti documenti e nelle numerose discussioni che hannoscandito la ricerca nazionale sui Sistemi Locali Territo-riali (SLoT) e sono rivolte ad indagare il tema della soste-nibilità territoriale dello sviluppo locale in contestimetropolitani.

Il significato della parola ecosistema nell’ambito delmodello d’indagine SLoT e la natura dei rapporti tra i si-stemi locali e l’ambiente sono le questioni affrontatepreliminarmente; l’individuazione di orizzonti di sosteni-bilità ambientale alle diverse scale e le forme eventuali didissidio tra organizzazione dello spazio economico localee tenuta degli ecosistemi consentono una breve riflessio-ne centrale; la descrizione di un progetto di parco terri-toriale urbano, contenuto nelle varianti al Prg di Napoliapprontate a metà degli anni Novanta e in corso di imple-mentazione – descrizione proposta all’interno del qua-dro teorico che assume il tema delle relazioni con l’eco-sistema locale come parte di uno scambio relazionale piùampio, da cogliere sia alla scala globale che in rapportoai contenuti di specifici milieu socio-economici – porta aconclusione questo contributo.

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SERGIO VENTRIGLIA

1. Ambiente e soggetti locali: conflitto o progetti?

Cosa significa assumere all’interno dell’approccioSLoT il tema delle relazioni con l’ecosistema locale? E’opportuno chiarire che non si tratta di mettere in discus-sione l’importanza dei rapporti tra società ed ecosistema,ma piuttosto di capire se questi possano e debbano esse-re regolati localmente, in che modo, e quale relazioneinstaurino con lo sviluppo locale: se tenda a prevalere,cioè, una dimensione progettuale piuttosto che l’indiffe-renza colpevole che ha condotto ai tanti conflitti ambien-tali degli ultimi decenni.

La prospettiva di considerare il rapporto con gliecosistemi locali in un’ottica geografica suggerisce diguardare all’esito di un’interazione che ha peculiarmen-te modellato la costruzione del territorio nei diversiangoli della terra: in quanto geografi quel che interessa èil rapporto coevolutivo delle società locali con gli ecosi-stemi territoriali per la produzione dello spazio, cioè leforme di organizzazione sociale e di cultura specifichedei vari ambienti locali.

Nell’ambito di questa ricerca il tema della sostenibi-lità suggerisce di considerare il milieu territoriale delsistema locale come risorsa non rinnovabile, da non ero-dere e distruggere, bensì da riprodurre e arricchire. Inquesta impostazione, la natura complessa e multidimen-sionale del milieu rimanda quindi ad una interpretazio-ne analoga di sostenibilità, in cui le diverse dimensioni(ambientale, sociale, economica, culturale, territoria-le…) devono essere compresenti.

In tal modo si rifugge, almeno in teoria, da approccialla sostenibilità puramente ambientalisti (che si spingo-no troppo oltre nella metafora della società come ecosi-stema) o puramente economicisti (che riconducono tut-to al problema di assicurare la permanenza della crescitaeconomica). Va piuttosto ricercato l’incrocio tra le diver-se dimensioni della sostenibilità che va riferita al milieuterritoriale, come insieme delle condizioni ambientali(in senso lato) locali.

Metodologie capaci di indicare strumenti correttiper leggere in chiave ecosistemica gli ambienti territoria-li locali appaiono sempre più necessarie: quello della pia-

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LA DIMENSIONE LOCALE DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE

nificazione vegetale urbana, in un contesto di uso inten-sivo e permanente dei suoli cittadini anche al di fuori del“costruito”, ci sembra, nell’esempio partenopeo, un ter-reno adeguato per sostenere necessità di questo tipo.Alcune utili indicazioni al riguardo penso che sianoemerse dal rapporto tra l’esperienza che ha portato allaredazione delle varianti al piano regolatore di Napoli e lacostruzione dell’Agenda 21 provinciale. E’ sembrata unapista utile da considerare, visto il tipo di documenti damettere a confronto, di natura diversa e solitamente nonin relazione tra loro, almeno stando alla storia recente ein fieri della programmazione strategica in Italia. Come èstato ricordato più volte durante i due anni di questaricerca, per esempio nel corso dei lavori che hanno por-tato al primo quaderno della ricerca, “nel momento incui le politiche di sostenibilità sembrano acquisire unamaggiore visibilità, e l’Agenda 21 Locale diventa anchein Italia un must, sia pure per azioni puramente simboli-che, ecco allora che si ritrova una maggiore interazionetra obiettivi di pura crescita occupazionale locale e disostenibilità dello sviluppo, sia nell’impostazione dei pat-ti territoriali (con ad esempio l’approntamento di proto-colli ambientali), sia nell’interessante tentativo, tuttora incorso, di integrare l’esperienza dei patti territoriali con lacostruzione dell’Agenda 21 provinciale, scegliendo diappoggiarsi sui tavoli di concertazione (allargandoli erisistemando i convitati) dei patti territoriali per costrui-re il Forum di A21” (Dansero, 2001, p. 17).

2. Geografia e SLoT

La descrizione dei sistemi locali territoriali come tan-ti nodi di una o molte reti è un contributo importantefornito alle scienze dello spazio dagli studi geograficicondotti negli ultimi anni in Italia, e in particolar modoa Torino: richiamarne in maniera sintetica i tratti distin-tivi appare utile per consentire di verificare la corrispon-denza della cornice teorica ai particolari del quadro piùoltre delineato. “Il sistema locale che ci interessa - scriveDematteis (1991) - non è una parte qualunque del siste-ma complessivo, ma un insieme dotato di una propria

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SERGIO VENTRIGLIA

identità che lo distingue dall’ambiente e da altri sistemi”.E’ la consapevolezza di questa identità che abilita i sog-getti del sistema a comportarsi autonomamente inmaniera collettiva, il suo non è un marchio di fabbrica,ossia la produzione di un bene specifico - reggiseni luca-ni o fisarmoniche emiliane che siano - bensì un marchiodi identità: la riproduzione di se stesso, che si realizza so-prattutto attraverso una specializzazione produttiva,garanzia di territorialità specifica nell’ambito delle rela-zioni economiche tra territori differenti.

La distinzione territoriale degli spazi economici loca-li può fare appello sia a quella “profondità temporale”dei luoghi tanto cara a Magnaghi (2000) sia essere il risul-tato dell’evoluzione contemporanea dei sistemi produtti-vi reticolari: in ogni caso, dal momento che è riconosciu-ta e riconoscibile, quel certo sistema locale la assumecome propria, ne fa il suo ambiente (milieu).

Il sistema locale territoriale così individuato si collo-ca dunque all’incrocio fra reti lunghe, che disciplinano iflussi finanziari e dell’informazione di stampo trans-nazionale, vocati all’organizzazione e al controllo topdown; e reti corte, che disegnano i saperi orizzontali, lepratiche sociali, i progetti di auto-organizzazione di tipobottom up. Dove il basso assume una significativa rile-vanza, in questo particolare dominio delle scienze, poi-ché intriso di geographicalness (Faggi, Turco, 1999).

L’analisi di un qualsiasi sistema locale territorialeprende dunque le mosse dall’esistenza di progetti di svi-luppo locale considerati come indizi di progettualitàterritorializzata: questa ipotesi di studio prefigura formedi auto-organizzazione di una rete locale di soggettiimpegnati nella valorizzazione delle componenti delmilieu. Quel che pare interessante segnalare è la distin-zione, da esplorare, tra azioni localizzate e azioni terri-torializzate: le prime stanno ad indicare poco più cheun’informazione spaziale, “avranno luogo” – alla lettera– qui piuttosto che lì; le seconde sono il frutto dell’inte-razione tra soggetti e risorse che condividono un terri-torio specifico. Questo modo di intendere la territo-rializzazione delle azioni riconosce un agire comune disoggetti territoriali che sono d’accordo nel valorizzarealcune specifiche risorse. E’ la qualità territoriale del

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progetto ad essere in gioco e a costituirne l’autenticotratto distintivo: ci sono attori che progettano di usareun territorio per valorizzarne le specificità e dunque perriprodurlo.

Stabilita l’ipotesi, occorre addentrarsi nel fraseggiodell’analisi, secondo due vie principali: da un lato, lecaratteristiche e l’ampiezza qualitativa e quantitativa del-la rete locale dei soggetti; dall’altro, la dotazione delmilieu, e dunque la selezione, in presenza di più risorse,di quella o quelle che meglio si configurano come “pre-se”, ossia di potenzialità espresse da un certo territorio.Nell’accezione qui condivisa, è dal momento in cui essevengono riconosciute e colte dalla soggettività socialelocale che si pongono come risorse del processo di svi-luppo. E’ su quest’ultimo aspetto che pare opportuno, anostro giudizio, attirare l’attenzione del ricercatore e affi-narne l’analisi: queste prese, specifiche dell’oggetto ter-ritoriale in gioco, ancorano progetti di sviluppo non per-ché esistono, ma se protagoniste del sistema di relazioniche le società sono capaci d’instaurare con il loro spaziodi vita e con i loro quadri naturali di riferimento.

Un aspetto che sembra proficuo approfondire è ilrapporto tra la sostenibilità locale e quella globale o quel-la di altri locali, in qualche modo collegati al locale diriferimento. Qui entra in gioco l’opportunità di guarda-re ad altre esperienze di intervento strategico nel domi-nio, nel mio caso, della pianificazione urbana in Europa(e in Italia, per esempio nel caso di Torino). Laddove illocale per risolvere i suoi problemi li scarica sull’esterno,ciò in prima istanza appare un’azione sostenibile, anchese finisce per tradire quei principi di equità sociale eambientale su cui una consapevole e non localistica visio-ne di sviluppo sostenibile dovrebbe basarsi (soprattuttose si condivide l’esigenza del ripristino di un capitale ter-ritoriale = entità complessa quale momento fondamenta-le e ineludibile del processo economico).

E’ a questo punto, ci sembra, che diventa possibiledare evidenza alla sostenibilità locale dei processi spazia-li in atto all’interno del sistema territoriale studiato, cer-cando di distinguere fra una sostenibilità “debole”, esitodi un processo che tenta di non distruggere risorse natu-rali e culturali, e sostenibilità “forte”, che mira invece

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SERGIO VENTRIGLIA

all’incremento delle risorse del milieu, attraverso la rein-terpretazione e la riattribuzione di valori.

3. Modello SLoT e interpretazioni ecosistemiche del-la città

La nozione di sostenibilità locale comporta una note-vole accentuazione della dose di pragmatismo operativo,soprattutto perché definizioni che abbiano senso a que-sta scala, e dunque a quella urbana, devono in tutti imodi attenuare la contraddittorietà insita nel propositodi fornire una patente di buona salute ambientale a ciòche appare per definizione insostenibile in senso stretto:le città, appunto, ecosistemi eterotrofi in costante squili-brio energetico nei confronti dell’ambiente esterno.Eppure, il tentativo appare obbligato, non foss’altro cheper scongiurare il rischio di far perdere alle città quelruolo di leadership culturale soprattutto nei confrontidel territorio circostante: interpretare gli spazi urbani intermini ecosistemici ha soprattutto il merito di evi-denziare gli aspetti connessi ai cicli naturali delle risorsee alle componenti biotiche e abiotiche che costituisconoil substrato della vita umana.

C’è una scala locale, certo, su cui riflettere, ma anchel’idea di sviluppo che si ha in mente merita attenzione.Ora, la descrizione dello sviluppo non come esso è, macome vorremmo che fosse mi sembra un modo utile perriassumere le caratteristiche della riflessione sullo svilup-po locale, che risente di questa opzione politico-normati-va, pur muovendo da considerazioni “realiste”, tendentiad evidenziare che lo sviluppo è un processo più com-plesso di quanto i modelli esogeni e funzionalisti tende-vano a far apparire.

Questa accentuazione normativa è ancora più fortenel dibattito sullo sviluppo sostenibile, che si presentasostanzialmente come un sistema integrato di obiettivi(ambientali, economici e sociali) cui tendere. Nell’ap-proccio SLoT, la sostenibilità dello sviluppo territorialecostituisce dunque l’orizzonte progettuale della ricerca,plasma non solo i criteri di valutazione dello sviluppo(come il VAT), ma la descrizione e l’interpretazione del

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sistema locale territoriale, l’individuazione degli attori edelle azioni, la sottolineatura degli esiti negativi.

In effetti, se i sistemi locali territoriali sono definibi-li, come detto, in base alle caratteristiche specifiche delmilieu locale e all’insieme delle relazioni che connettonofra loro i soggetti della rete locale e gli stessi con il milieu,questa interpretazione può applicarsi alle città se lettenon in rapporto alle funzioni e ai servizi che propongo-no ma in ragione della volontà di cambiamento e di inno-vazione che emerge dal gioco degli attori. In questa pro-spettiva le città si configurerebbero come potenziali“attori collettivi” in relazione alla capacità/possibilità deimeccanismi relazionali fra gli attori locali di far conver-gere su un’idea condivisa di cambiamento azioni e inte-ressi inizialmente orientati secondo tempi diversi e a sca-le spaziali differenti. Di conseguenza, uno SLoT urbanoè indicato dalla possibilità di rappresentare un’arena diconvergenza tra soggetti diversi, con interessi diversi e, allimite, conflittuali, in grado però di definirne l’identitàin termini progettuali: non per quel che sono, ma perquel che possono divenire.

La domanda che ci poniamo, a questo punto dellariflessione, è relativa al tipo di progetti di sviluppo su cuiil territorio delle città può davvero rifondare i caratteridel suo divenire. La lettura ecosistemica della città è unmodo, pensiamo, di prendere in considerazione ladimensione locale delle componenti ambientali del ter-ritorio, proprio laddove l’azione estrema di artificializza-zione le ha maggiormente aggredite, spesso fino a farlescomparire. Tra le difficoltà di una tale lettura non sem-bra esserci tanto l’impossibilità di ritrovare una naturalocale cancellata da secoli di storia delle società aggre-gate, del loro abitare insieme costruendosi lo spazio,quanto di tener presente che gli ecosistemi, pur presen-tando caratteri e comportamenti descrivibili a scala loca-le, restano dotati di caratteristiche che afferiscono allivello globale, la cui descrizione e comprensione nonpuò essere soddisfatta dalla sola rappresentazione in ter-mini di ecosistemi locali. Nell’ennesimo gioco di riman-di tra dimensione locale e scenario globale, le città noninterpretano al meglio il processo di globalizzazione inatto solo per quel che attiene al ruolo, che alcune pro-

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pongono, di nodi dei flussi finanziari e della comunica-zione: il copione ambientale le vede altrettanto protago-niste se pensiamo a una rete globale che connette idiversi ecosistemi locali, in primis quelli urbani, analogaalla rete a maglie lunghe che si estende su scala globalee connette differenti tipi di attori socio-economici.Anche in questo caso si utilizzerebbe il concetto di retein quanto possibilità astratta di dare forma a relazioni elegami tra soggetti, indipendentemente dai dati realidello spazio fisico.

Alla scala del singolo nodo urbano della rete, ossia,nella nostra ipotesi, del singolo SLoT, nasce dunque l’e-sigenza di avere una rappresentazione geografica accura-ta, in grado di individuare quella situazione più comples-sa e variegata che si cela nelle pieghe della definizione diecosistema locale: ad esempio, è improbabile che al sin-golo SLoT corrisponda un solo ecosistema, tanto che cisia perfetta coincidenza di confini. Data come del tuttoimprobabile una tale sovrapposizione, anche in ragionedelle diverse scale che possono caratterizzare gli ecosiste-mi, è più congruo pensare a diversi ecosistemi, o a loroparti – che dunque possono incrociare più SLoT - che sisovrappongono spazialmente e entrano in contatto consistemi parzialmente o totalmente regolati dall’uomo.Pensare dunque a una rete locale di componenti ambien-tali presenti all’interno dello SLoT (ecosistemi o parti diessi, zone umide, giardini e aree verdi, biotopi ecc.) incostante interazione permette di utilizzare l’espressionerete ecologica e dunque di descrivere spazi/ecosistemi inanalogia alla rappresentazione delle componenti socio-economiche degli SLoT. In questo modo è possibile arri-vare ad una descrizione del territorio studiato realmentebimodulare, che affronta cioè in maniera equilibrataaspetti socio-economici e componenti ambientali.

Partendo dalla scala globale, il singolo SLoT sarà de-scritto sia come nodo di una rete globale di attori socialied economici sia come nodo di una rete globale di ecosi-stemi. Passando alla scala locale, ossia adottando un pun-to di vista interno ad ogni singolo nodo, si ottengono rap-presentazioni diverse, in cui i nodi si rivelano a loro vol-ta essere reti i cui nodi connettono singoli soggetti socio-economici con singoli soggetti ambientali.

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LA DIMENSIONE LOCALE DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE

4. L’orizzonte locale della sostenibilità ambientale

Se estendiamo le considerazioni sul ruolo attivo degliecosistemi alla riflessione sulla sostenibilità ambientale,emerge che il delinearsi di un tale orizzonte non è piùsolo riconducibile ad un problema di impatto ambienta-le e della sua riduzione (ruolo passivo degli ecosistemi),quanto di un corretto uso dei servizi erogati dalle diversecomponenti ambientali degli ecosistemi.

Questo approccio mi pare sia stato rafforzato dallenumerose riflessioni sviluppate dal gruppo di ricerca tori-nese, in particolare quando si indicano i due possibilisignificati di valore aggiunto territoriale, forse ancor piùche nel lungo paragrafo dedicato alla sostenibilità am-bientale e culturale; anche se è poi qui che ci si prende ilrischio di definire in modo secco la sostenibilità ambien-tale “come quell’agire sociale che comporta un uso di‘servizi naturali’ con tasso di utilizzo minore o uguale aquello di erogazione” (e si scrive anche di ecosistemicome soggetti ambientali attivi).

Condivido l’idea di ipotizzare che solo alcunecomponenti (naturali e non, diverse da luogo a luogo)debbano essere considerate come invarianti, il chepotrebbe meglio sostenere le tesi di una sostenibilità for-te, come patrimonio da non intaccare, e che, anzi, sareb-be in qualche modo collegato con i principi organizzati-vi del sistema locale.

Una definizione coerente e appropriata di sostenibi-lità ambientale dovrebbe quindi partire dalla considera-zione dei servizi offerti da tali componenti e confrontarei tassi, con cui i servizi offerti sono richiesti dai soggettisociali, con i ritmi naturali di erogazione. Si potrebbequindi definire ambientalmente sostenibile quell’azioneche comporta un utilizzo, diretto e/o indiretto dei servizinaturali, con un tasso inferiore o uguale a quello propriodi erogazione da parte delle diverse componenti ambien-tali. Tale azione, nel suo essere sostenibile, non stravolgei cicli di utilizzo-smaltimento-rigenerazione che caratteriz-zano a livello planetario il consumo e la riproduzione del-le risorse ambientali (Bagliani, Ferlaino, 2002).

Le considerazioni sul ruolo attivo degli ecosistemi esulle differenti scale (globale–locale) che li caratterizza-

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no giocano un ruolo importante anche nella definizionedi procedure e nella scelta di indicatori che siano in gra-do di stimare la sostenibilità ambientale di una certa areao di una popolazione e che possano servire per analizza-re le problematiche che emergono quando si coniuganosviluppo locale e sostenibilità ambientale. Diventa quindiopportuna l’introduzione e l’applicazione di strumentidi analisi che utilizzino indicatori coerenti con unadescrizione centrata sul ruolo attivo degli ecosistemi eincludano nel formalismo di calcolo un bilancio in gradodi tenere conto delle differenze di utilizzo degli ecosiste-mi naturali tra la scala locale e quella globale.

Seguendo quanto esposto fino ad ora, si può affer-mare che uno sviluppo locale che sia ambientalmentesostenibile, oltre a migliorare la qualità e la salute del-l’ambiente locale (diminuzione d’impatto) risponda alrequisito fondamentale di portare ad una società localeche non utilizzi in eccesso i servizi della natura e non pro-vochi quindi erosione del capitale naturale, sia esso loca-lizzato all’interno o all’esterno della regione in questio-ne. Esistono numerose posizioni circa le modalità prati-che da attuare per raggiungere la sostenibilità ambienta-le a livello locale. Alcuni propongono la chiusura dei ciclia livello locale, altri sottolineano l’importanza di un ritor-no alle pratiche nate dal rapporto di coevoluzione tra lasocietà locale e la rete locale di ecosistemi; altri ancorapropongono riflessioni ed approfondimenti sulla realesostenibilità ambientale delle pratiche coevolutive o fan-no notare il pericolo di ricreare relazioni puramente sim-boliche che rischiano di esaurirsi nel riesumare e imbal-samare pratiche del passato.

Due differenti filoni interpretativi possono riassume-re quanto detto sinora: indicati con i nomi di bioregio-nalismo ed ecoregionalismo, essi pagano il prezzo diriduttività che ciascuna definizione comporta, ma ambi-scono a focalizzare i punti cruciali sottesi alla visionecaratterizzante dell’uno come dell’altro ambito. Nel bio-regionalismo vanno inquadrate tutte quelle proposte chepuntano, in maniera più o meno diretta, talora in modoimplicito, a chiudere a livello locale più cicli possibili, edunque, nel modello SLoT, a rinforzare le relazioni ver-ticali e indebolire quelle orizzontali; l’ecoregionalismo

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mira alla riduzione dell’uso eccessivo di servizi naturali,siano essi di origine locale o globale, indipendentementedal potenziamento delle relazioni verticali e dalla ridu-zione di quelle orizzontali (Bagliani, Ferlaino, 2002).

5. Parchi urbani a Napoli: tentativi di SLoT?

La città ecologica è un’immagine di sintesi:contraddittoria quanto si vuole, come s’è detto, assomi-glia comunque a una grande tela dove trovano posto letante proposte che continuano ad avanzare i tanti movi-menti di cultura urbanistica mobilitati per correggere lecarenze di una urbanizzazione realizzata in conflitto conla campagna. Movimenti, gruppi di persone, singoli indi-vidui solidarmente mossi dall’idea che la presenza dellanatura nel quadro urbano sia un’opzione ineludibile se sivuole pianificare un habitat di qualità: ecco dunquedisporre, nelle pieghe di una regolazione dell’evoluzioneurbana segnata dal tratto strategico della valorizzazioneambientale, interventi di piantumazione di essenze dimedio fusto lungo le strade come anche di riabilitazioneecosistemica di spazi dismessi d’ogni genere, in risposta auna crescente domanda sociale di verde e di riva-lorizzazione fondiaria.

A Napoli l’idea di pensare il recupero e l’espansionedel verde urbano quale opera pubblica a carattere metro-politano trova posto nel progetto della municipalità, tec-nicamente noto come Variante al Piano RegolatoreGenerale della città, che nel corso degli anni Novantaimpegna un nutrito gruppo di architetti e urbanisti neltentativo di indicare linee pubbliche di governo locale aquello spazio partenopeo che tanto spesso ci si compiacedi immaginare come vocazionalmente anarchico e caoti-co. La riqualificazione del sistema ambientale della gran-de area metropolitana è la cornice che accoglie il pro-getto dei grandi parchi territoriali a cui, per una sezionecollinare dell’area nord, prestiamo attenzione in questasede.

Lo facciamo perché, nella nostra ricerca di SLoT inquest’ampia cornice partenopea, appare davvero arduotrovarlo già “bello e fatto”, ma intriga senz’altro la possi-

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bilità di scommettere su forme embrionali o indiziarie –precondizioni favorevoli – in grado di costruire uno spa-zio sociale che funzioni come un sistema territoriale loca-le, senza cadere in ripescaggi di approcci deterministi daiquali la consapevolezza della “lunga durata” storica deiluoghi dovrebbe, crediamo, ormai definitivamente tute-larci. Il rischio c’è, soprattutto quando nel gioco provia-mo a calare le carte della sostenibilità dello sviluppo, ipo-tizzando un sistema locale coincidente con un’entità ter-ritoriale geo-ecologica, la cui maggiore estensione corri-sponde al progetto dei parchi territoriali urbani.

5.1 Uno scenario di cave tra uso funzionale e riuso ambien-tale.

Di ampiezza inferiore, ma strategico nel profilare anord-ovest il ripristino dell’integrità fisica dei luoghi, ilprogetto di riqualificazione della selva e delle cave rien-tranti nella circoscrizione di Chiaiano sembra poggiaresull’intenzione di dare visibilità e restituire significatoalla lunga durata di alcuni spazi rurali che sono nel tem-po entrati a far parte della cinta urbana. Un valore, quel-lo della tenuta temporale, che distingue questo straordi-nario anfiteatro di cave di tufo e sembra piuttosto dovu-to a quel corposo intreccio di relazioni funzionali, spessodi carattere informale, tra “natura” intesa come patrimo-nio locale di risorse per l’edilizia e l’agricoltura, e “citta-dini” che operano in qualità di attori economici signifi-cativi, appunto, alla grande scala dei quartieri urbani.

Il piano della municipalità, suscitato dalle intuizionie dalla capacità progettuale di un gruppo di giovaniarchitetti localmente radicati e direttamente impegnatinell’azione politica alla scala circoscrizionale, riconoscel’esistenza di potenzialità di milieu escluse in ragione diuna scena il più delle volte segnata dal conflitto tra formedi auto-organizzazione locale ed ecosistema, e ambiscepertanto a riprodurre quel rapporto coevolutivo tra siste-ma culturale e sistema ecologico locale che dovrebbeesprimere in maniera compiuta l’opzione forte dellasostenibilità territoriale delle azioni di sviluppo.

La pratica del recupero ambientale, ispirata al prin-cipio dell’unitarietà del paesaggio inteso come un unico

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organismo vivente, da gestire dunque globalmente macon attenzione specifica allo stato di salute di ogni suacomponente, muove dal riconoscimento di area protettadi interesse sovracomunale per la selva e le cave di Chiaia-no in seno alla variante al Prg di Napoli adottato nel gen-naio del 1999. Il piano di trasformazione delle cave esi-stenti in parco urbano è stato di recente ritenuto piena-mente compatibile con quanto previsto dalla variante pergli interventi in parti di territorio ove insistono rupi ecostoni: l’effettiva dismissione delle attività estrattive e lamessa in sicurezza delle cave è sancita dalla ridestinazio-ne di questi spazi a scenario per attività di spettacolo esportive. La risistemazione della viabilità di collegamentodei nuclei insediativi esistenti all’interno del parco, inuno con il ripristino della sentieristica di attraversamentopedonale, compone il quadro dell’idea-progetto, ispirataal modello di recupero naturalistico condotto in Germa-nia per l’intera regione mineraria della Ruhr.

Questo grande spazio di oltre duemila ettari com-prende sia porzioni del territorio comunale – l’area del-la circoscrizione di Chiaiano, come s’è detto – sia comu-ni dell’hinterland, e confina a meridione con il vastosistema craterico Agnano-Astroni dal quale emerge la col-lina dei Camaldoli, un insieme paesistico che delimital’occidente flegreo della metropoli partenopea e che,non a caso, è sottoposto a tutela dalla L. 431/85, notacome legge Galasso.

Al pari dell’insieme delle aree cittadine, e in partico-lare sintonia con quanto è accaduto soprattutto nellezone periferiche, anche questo spazio ha subito un caoti-co incremento edilizio, sostenuto intensivamente e local-mente dalla risorsa tufacea cui abbiamo già fatto cenno,con effetti considerevoli in termini di degrado ambienta-le: l’intero sistema territoriale ha conosciuto negli scorsidecenni profondi sbancamenti per lo sfruttamento delsottosuolo, vere e proprie prese aggressive nel configura-re filiere di cave a cielo aperto per l’estrazione del tufo.

Questo modo di intendere la risorsa ambientale loca-le, tipico della visione convenzionale e quantitativa delleeconomie occidentali fondate sulla crescita, spensierate evincenti fino all’inizio degli anni Settanta, ha senz’altrocompromesso e piegato parti non piccole del territorio

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chiaianese; e però, proprio la sua specifica configurazio-ne morfologica, di ripide pendici tufacee e versanti sco-scesi dove resiste la vegetazione tipica dei litorali medi-terranei umidi, e dove si nascondono le vecchie masseriedi collina, suggerisce – ha suggerito – di tentare un muta-mento di segno socio-economico a questa originale unitàmorfologica.

Realizzare il parco delle cave, nello scenario bello epiù vasto del parco delle colline, restituirebbe certo lacittà di Napoli alla bio-regione in cui è sorta, e in ciòdimostrerebbe la validità strategica della scelta di tutela-re il verde residuale in periferia come leva per suscitarel’interazione tra sistemi ambientali diversi, da leggere ascale necessariamente diverse (si pensi, per esempio,all’intero bacino idrografico nord-occidentale collegatoal sistema fluviale del Volturno). Quel che però piùimporta in questa sede è una dimensione forse più minu-ta, ma ben salda sull’idea di fondo dell’unitarietà delvalore intrinseco del territorio: l’identificazione dellecomponenti che strutturano la conformazione naturaledegli spazi e la diversificazione dei caratteri secondari delmanto vegetale conduce a una lettura “verde” dell’utiliz-zo dei suoli che ci sembra il bersaglio cui mirare per valu-tare, in una fase successiva della ricerca, i progetti nellospecifico del rapporto tra valore aggiunto territoriale esostenibilità dello sviluppo.

Ora, la costruzione di uno SLoT fondato sullacondivisione del progetto di una cintura verde dal confi-ne occidentale flegreo ai piccoli parchi pubblici giàattrezzati nell’area orientale di Barra-S. Giovanni aTeduccio presuppone un contesto politico-sociale e unapromozione culturale in grado di abilitare gli attori eco-nomici locali al ruolo di sostenitori attivi di un progettoa forte carica ambientale: un piano che attenua lo spes-sore degli sfruttamenti minerari e agricoli e del commer-cio a questi collegato a vantaggio di una tenuta dei luo-ghi che è il risultato di un coordinamento delle vecchiepratiche contadine e dei nuovi bisogni di fruizione socia-le allargata di un autentico polmone verde me-tropolitano.

Se leggiamo il territorio senza utilizzare la categoriadella sostenibilità (e nemmeno quella del VAT) non pos-

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siamo pensare di introdurla strumentalmente nelle azio-ni e nelle politiche. In altre parole “il problema dellasostenibilità può essere ricondotto alla sua essenzialitàculturale, cioè nel costruire immagini geografiche orien-tate alla sostenibilità che possano gradualmente imporsicome progetti condivisi che guidino le necessarie inno-vazioni sociali e territoriali” (Dematteis, 2001).

Nell’attesa - il biennio che inquadra questa ricercanazionale non restituisce, nel caso in questione, l’imma-gine compiuta di uno SLoT “in essere” - di dare riscontria scenari del genere che non siano sbrigativamente nega-tivi a motivo della resistenza di tanti piccoli interessi pri-vati contrari, o comunque ostili d’emblée, a progetti disegno marcatamente sociale, appare utile, a nostro giudi-zio, ricordare un fatto: l’attrezzatura di un’area verde difrontiera, nel suo attribuire centralità alle periferie e aicomuni dell’hinterland, appare una leva importante percoagulare energie locali disposte a mettersi in rete e dun-que a fare, crediamo noi, milieu. Non solo sul fronte del-la riqualificazione ambientale urbana specificamenteintesa quanto, piuttosto, su quello del riassetto del siste-ma di relazioni strategiche tra la città “propriamente det-ta” e il mosaico di comuni a nord, segnati tutti, è il casodi rammentarlo, da un forte degrado del tessuto edilizioe viario.

Su questo versante ritengo che la ricerca SLoT sia ingrado di dare un importante contributo, che aiuti adaccreditare quelle letture del territorio che i tanti e forsetroppi rapporti sullo stato dell’ambiente, A21, ecobilanciterritoriali ci stanno proponendo; letture che sembranomuovere dall’idea implicita di un “territorio-ecosistemasenza attori” (o con scarsa considerazione della loronatura politica), e che piuttosto dovrebbero dissodare lavia al processo di eco-ristrutturazione della società.

Inoltre, “l’attenzione al ruolo performativo e strate-gico delle immagini geografiche sembra su questo pianoun’importante garanzia intellettuale ed etica contro ilrischio di ridurre le osservazioni su VAT e sostenibilità aduna sfera puramente tattica, a partire cioè da decisionichiave assunte a priori senza poterle mettere in discus-sione per assumere invece un ruolo giustamente piùpragmatico e operativo” (Dansero, 2001).

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Un primo esempio di come correre questo rischiopuò essere interrogarsi su come l’idea di realizzare par-chi territoriali urbani possa diventare occasione di inno-vazione territoriale e di produzione di Vat senza porre indiscussione l’apparente doverosità della decisione diampliare i polmoni verdi delle aree urbane ‘ammalate dismog’.

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Il sistema locale dei Campi Flegrei tra spinte interne e strategie esterne

Rosario Sommella – Lida Viganoni*

Il sistema locale flegreo è tra quelli meglio identifica-bili nel quadro del sistema regionale campano, sia per iltramite di un approccio di geografia regionale, per lacomunanza di numerosi elementi di natura fisica e uma-na, sia per la sua visione di area-progetto, come emerge innumerosi esempi di programmazione elaborati dall’ester-no e, negli anni più recenti, anche dall’interno dell’area.

Il primo scopo di questo contributo è misurarsi conl’unitarietà di un territorio che contiene numerosi ele-menti di omogeneità, tanto da presentarsi come un siste-ma locale per antonomasia, per verificare l’effettività ter-ritorialità della progettualità che lo riguarda, soprattuttoper quanto attiene al Progetto Integrato (PI) per la valo-rizzazione dei beni culturali definito dalla Regione Cam-pania nell’ambito del Programma operativo regionale(Por) 2000-2006, che vede nell’area flegrea uno dei nodistrategici di un programma di sviluppo fondato sullavalorizzazione delle risorse locali, in particolare per quelche riguarda ambiente e beni culturali. Ancor prima,inoltre, il sistema aveva vissuto una fase di nuovo prota-gonismo dei suoi soggetti locali sfociata nell’elaborazio-

* Il lavoro è stato concepito in tutte le sue fasi con unità di inten-ti. Rosario Sommella ha scritto la prima parte, Lida Viganoni i para-grafi 3 e 4.

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ROSARIO SOMMELLA - LIDA VIGANONI

ne di un progetto di Patto Territoriale che, benché nonabbia trovato attuazione, merita attenzione per il suocontenuto innovativo di autorappresentazione e presa dicoscienza interna all’area.

Sulla base, dunque, di un doppio binario, di identi-ficazione dell’area in quanto tale e di definizione dell’a-rea come base territoriale di un progetto, proveremo averificare se quello flegreo possa essere considerato an-che come un effettivo sistema locale territoriale (SLoT),secondo la definizione che è stata data nell’ambito delprogetto di ricerca (Dematteis, 2001).

1. Le forme del milieu locale

Il territorio definito come sistema locale di sviluppodei Campi Flegrei dalla programmazione regionale coin-cide con quello di quattro comuni ad ovest del capoluo-go napoletano: Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Quar-to, per una superficie complessiva di circa 74 kmq e unapopolazione di oltre 150.000 abitanti all’ultimo censi-mento (Fig. 1).

Ad eccezione di Quarto, comune interno, snodo conla parte nord-occidentale dell’area metropolitana diNapoli, gli altri comuni, Pozzuoli e Bacoli, in particolare,costituiscono il cuore di quell’ ”Archiflegreo” che copre,con la sua cimosa costiera, la sezione occidentale delGolfo di Napoli (Sommella, Stanzione, 1991). Verso ove-st, ai tre comuni corrisponde anche la prima parte dellitorale campano, che prosegue verso nord con la pianaalluvionale formata dal Volturno e dal Garigliano.

La popolazione dell’area è in crescita, sebbene a rit-mi via via più contenuti, ma il grosso dell’incremento sideve al ritmo molto accelerato di Quarto, in fortissimaespansione dagli anni ’70 come nucleo di suburbanizza-zione napoletana (Tab. 1). Da questo punto di vista, icomuni costieri, Pozzuoli in particolare, hanno ricevutoflussi di popolazione da Napoli, ma molto più contenutirispetto alle altre zone periferiche del capoluogo. Il tra-sferimento è avvenuto in piccoli nuclei di edilizia di qua-lità relativamente più elevata, collegata all’attrattiva am-bientale dell’area flegrea.

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

Fig. 1 - Sguardo d’insieme ai Campi Flegrei

A. Limiti comunali; B. direttissima Napoli-Roma; C. ferrovie cumana ecircumflegrea; D. strade a scorrimento veloce; E. viabilità primaria; F. nuovoinsediamento di Monteruscello; G. principali insediamenti industriali; H. sitiarcheologici: A1. Recupero e valorizzazione del Rione Terra - Duomo, sistemamuseale archeologico e diocesano, A2. Tempio di Serapide, A3. Anfiteatro Fla-vio, A4. Villa di Cicerone, Mausoleo di Adriano e Stadio di Antonino Pio, A5.Parco archeologico delle necropoli; B1. Parco archeologico subacqueo, B2.Parco monumentale di Baia e Parco archeologico, B3. Castello aragonese; C1.Parco archeologico di Miseno, Teatro romano di Miseno, C2. Porto di Miseno;D1. Area archeologica in località Cappella; E1. Restauro e riqualificazione delcomplesso: Casina vanvitelliana, edificio dell’Ostrichina, giardino storico, can-neto ed antica lecceta; F1. Anfiteatro, F2. Parco archeologico di Cuma, F3.Restauro paesaggistico dell’area dell’ex lago di Licola; G1. Grotta di Cocceio,G2. Parco archeologico del Lago d’Averno; H1. Parco archeologico di Quarto.

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

I fattori alla base dell’individuazione unitaria deiCampi Flegrei vanno dalla morfologia, segnata dal vulca-nesimo ancora attivo (da cui la denominazione di “fle-grea”), alla posizione, alla continuità storica di alcunefunzioni: portuale, commerciale, strategica, ricreativa. Larelativa facilità di connotare l’area come un insieme uni-tario e le sue indubbie risorse ne hanno fatto spesso unluogo di eccellenza per la programmazione di interventicon prospettive d’interesse e di valore ben più ampie del-l’area stessa, scelta come perno di politiche di sviluppocon riferimenti estesi alla scala della metropoli parteno-pea e dell’intera regione. Siamo in presenza di un siste-ma locale le cui relazioni con l’esterno sono da semprestate molto estese e nella quale hanno spesso prevalsointeressi di natura esogena nella valorizzazione delle suerisorse. Cionondimeno, come cercheremo di dimostrare,l’area ha conservato una sua precisa individualità, seppu-re articolata nella molteplicità dei microinsiemi di cui ècomposta.

Dal punto di vista geomorfologico l’area, che sorgesu una caldera di circa 90 kmq, è instabile, con un gradodi sismicità qualificato come medio per i tre comunicostieri e basso per Quarto. Il paesaggio reca un’in-confondibile impronta vulcanica, evidente nelle diffuseforme crateriche dei rilievi conici e dei laghi che occu-pano il fondo dei crateri stessi, in prossimità della costa,e delle insenature litoranee. Il vulcanesimo è ancora inpiena attività con manifestazioni che attirano l’interesseturistico (fumarole, Solfatara di Pozzuoli, termalismo) econ deformazioni del suolo, cosiddette “a breve termi-ne”, che consistono in abbassamenti (subsidenza),intervallati da fasi di innalzamento, che si accompagnanoad un aumento considerevole dell’attività sismica e dellemanifestazioni vulcaniche (fumarole). Nella prima metàdel XVI secolo una fase di questo genere culminò conun’eruzione vulcanica (nascita del Monte Nuovo, sul lito-rale ad ovest del centro di Pozzuoli); più recentementenel territorio di Pozzuoli due crisi bradisismiche si sonomanifestate nei periodi 1969/72 e 1982/84, in entrambii casi con un rilevante innalzamento del suolo (intornoagli 1,8 m) ed epicentro nel litorale puteolano. L’attivitàdella caldera sottostante, la cui instabilità è all’origine di

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queste crisi, costituisce un rilevante fattore di rischio perun suo possibile sbocco in un’eruzione vulcanica. Inun’area abbastanza densamente popolata, anche se nonquanto quella vesuviana sul lato opposto dell’area urba-na napoletana, un primo elemento problematico diattenzione è pertanto quello della prevenzione delrischio e della protezione civile. In entrambe le crisi, difine anni ’60 e prima metà degli ’80, si sono posti pro-blemi di sgombero di edifici lesionati (nel centro storicodi Pozzuoli, in particolare), di approntamento di piani dievacuazione e di reinsediamento della popolazione, chenel caso degli eventi del 1982/84, portò alla costruzionedel megaquartiere di Monteruscello sorto in una piana allimite nord del comune di Pozzuoli1.

Dove non prevale il costruito, nel quadro di una tra-ma insediativa di forma “sparsa”, la vegetazione mediter-ranea e l’uso agricolo del suolo conferiscono un aspettopeculiare a luoghi già segnati da una geomorfologia ori-ginale. Altrove, a est e a nord del capoluogo, la dilatazio-ne senza controllo della conurbazione napoletana haannullato le differenze tra la città e il suo intorno, evi-denti solo per il crescere del degrado verso la periferia.Ad ovest invece, in prossimità dell’area flegrea, nono-stante la crescita edilizia e un diffuso abusivismo, la diffe-renza si vede ancora, e il paesaggio cambia in manieraevidente. Il mutare del paesaggio, in un assetto geo-morfologico originale, è il primo segno, per quanto pre-valentemente di natura fisica, di quell’unitarietà dell’a-rea flegrea cui fanno riferimento i progetti di sviluppoche la riguardano.

La storia ha poi marcato l’evoluzione dell’area, conimportanti insediamenti greci prima e romani poi. Lapossibilità di una portualità naturale, sia presso l’attualeRione Terra di Pozzuoli, sia nel territorio di Bacoli (fra-zioni di Baia e Miseno), oltre alla presenza di acque ter-mali, hanno creato quell’enorme potenziale estetico-pae-saggistico utilizzato, allora come più recentemente, per

1 La scelta di costruire questo nuovo insediamento fu adottata intempi rapidi anche perché l’emergenza coincideva con quella na-poletana, determinata dal terremoto del 1980.

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

fini residenziali, commerciali e strategico-militari (Som-mella, Stanzione, 1991, p. 120). Nel periodo di massimaespansione dell’Impero, per l’importanza che i portimilitari e commerciali della zona assumono per Roma,l’identità flegrea si lega a reti commerciali e militari mol-to ampie, esaltando un connotato di area strategica,dominata da interessi esterni, che le resterà proprio eche tuttora caratterizza i destini del sistema locale.

Allo stesso modo nasce un’altra prerogativa funzio-nale molto forte e radicata, quella dell’area flegrea comeluogo di svago. I resti archeologici, le infrastrutture por-tuali e viarie costruite nell’epoca greca e soprattuttoromana (la “Via Campana”, tra i territori di Pozzuoli eQuarto), costituiscono oggi i pilastri sui quali si basa, nelProgetto Integrato a titolarità regionale, la scelta dell’a-rea come “grande attrattore”.

Non è possibile qui riepilogare le fasi storiche dievoluzione dello spazio flegreo, che in parte restano lega-te alle vicende del vulcanesimo, protagonista dei momen-ti di stasi dovuti a fasi eruttive o al bradisismo. Con l’e-mergere del polo napoletano si conferma la valenza stra-tegica dell’area e, successivamente, anche quella ricreati-va. Nonostante lunghi secoli di decadenza, cioè, sembraquasi che le risorse ambientali conservino il loro valoredi richiamo, ancora una volta attirando l’interesse digrandi protagonisti: le corti, gli ambienti militari, l’ari-stocrazia napoletana. La corte borbonica valorizzerà, adesempio, il Lago Fusaro (con una piccola residenza dicaccia vanvitelliana), mentre i viaggiatori del Grand Tournon trascureranno il fascino dei resti archeologici, unitoa quello del paesaggio marino e di quello rurale, segnatidal vulcanesimo, anche nelle sue manifestazioni attivegodibili (solfatara e terme). Dalla fine del ‘700 emergeanche quel gusto per la villeggiatura che poi segnerà, inepoca contemporanea, lo sviluppo costiero dell’Archifle-greo.

La rilevanza della posizione geografica, vicina allametropoli napoletana in crescita, e la facilità di attracco,unitamente allo sviluppo demografico, saranno anchealla base di una politica che, dalla seconda metà dell’800,lo Stato unitario porterà avanti nell’area con una serie diinsediamenti che segnano in senso industriale lo spazio

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flegreo, sommando un’ulteriore funzione a quelle giàsedimentate nel tempo. Il processo d’industrializzazioneavviene sotto il segno del comparto metalmeccanico (aPozzuoli e a Baia), con un prevalere della produzionemilitare. Ai primi del ‘900, d’altra parte, si era insediatal’acciaieria dell’Ilva a Bagnoli, in territorio napoletano,porta d’ingresso da mare dell’area flegrea. Ne deriva unaconnotazione in senso operaio della zona, soprattutto traBacoli e Pozzuoli, che prosegue nel secondo dopoguerra.Al comparto delle cave, agli anni ’50 ancora attivo (per laproduzione di tufo e della tipica sabbia “pozzolana”), siaffianca l’intervento pubblico dell’IRI (Sofer a Pozzuoli,Selenia, poi Alenia, al Fusaro) e la grande industria pri-vata (l’Olivetti e la Pirelli, ancora nel territorio di Poz-zuoli). In loco si consolida il settore della piccola cantie-ristica navale (nautica da diporto), con presenze signifi-cative e marchi di qualità, prevalentemente nel comunedi Bacoli.

La funzione industriale segue le sorti della transizio-ne postfordista: crisi degli stabilimenti Sofer (costruzioniferroviarie e presenza di amianto), Pirelli Cavi, del grup-po Olivetti (che aveva costruito uno stabilimento assaioriginale per il ridotto impatto ambientale ad Arco Feli-ce di Pozzuoli). Oggi è ancora in produzione lo stabili-mento Alenia del Fusaro, mentre l’Olivetti, sfruttandol’attrattività della sua felice posizione, su un’altura difronte al mare, si è trasformata in una struttura plurifun-zionale che accoglie centri di ricerche ed imprese nel set-tore dei servizi.

La graduale più elevata rilevanza che viene accorda-ta alle risorse ambientali e culturali dell’area, già daglianni ’80 quando, a seguito della crisi sismica del1983/84, si definiscono progetti di riqualificazione chepuntano sullo spazio flegreo per un generale rilancio del-l’area metropolitana di Napoli (Sommella, Stanzione,1991), ha reso sempre meno compatibile la presenza del-l’industria, che però ancora connota in maniera rilevan-te il quadro sociale dell’area. Il graduale disimpegno delgrande capitale industriale lascia però la questione delriuso, in particolare del litorale ad ovest del centro stori-co di Pozzuoli (area Sofer-Pirelli), mentre continuano adoperare iniziative di natura endogena, come la cantieri-

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

stica, che ancora occupano porzioni di litorale sulle qua-li convergono interessi di valorizzazione archeologica,turistica e di sviluppo della portualità da diporto. La tra-sformazione dello stabilimento Olivetti si è allineata adun’altra importante presenza nello spazio flegreo, quelladella ricerca scientifica (con la presenza di alcuni centriCnr), a sua volta in parte collegata all’amenità dei luoghi,com’è noto fattore attrattivo per questo particolare com-parto.

Anche la funzione militare non ha cessato di conno-tare questo sistema locale. E’ in prossimità dell’area fle-grea che si stabilisce, dopo la seconda guerra mondiale,il comando Nato, tra Nisida, Bagnoli e Agnano, mentre lapresenza dei militari americani è stata rilevante nell’inse-diamento (“Strada degli Americani” tra Lago Patria el’Aeroporto di Capodichino) come nei siti ricreativi riser-vati alla Nato e alle branche dell’esercito italiano (stabili-menti balneari dell’Aeronautica e dell’Arma dei Carabi-nieri)2. Inoltre, su un’altura in posizione strategica traNapoli e Pozzuoli, sul territorio di quest’ultima, sorgel’Accademia Aeronautica.

Il fatto che anche la funzione militare non venga di-sgiunta da quella ricreativa conferma la continuità dellapercezione dell’area come luogo di svago. Nonostante lacrescita edilizia e demografica e lo sviluppo industriale,infatti, il sistema flegreo vive, nel secondo dopoguerra,una forte crescita del settore turistico legata agli stabili-menti balneari e delle seconde case. Il rapido degradoambientale però, conseguente all’abusivismo e alla scarsacura dell’ambiente marino, ha determinato ben prestoun’involuzione del settore. La media borghesia napoleta-na ha rapidamente abbandonato l’area preferendo altremete e la zona è rimasta legata a un turismo di natura piùpopolare e soprattutto, grazie all’elevata accessibilità daNapoli, a un forte pendolarismo.

Negli ultimi anni, mentre progrediva la crisi dell’in-dustria, i settori economici legati a questo pendolarismo

2 Da alcuni anni la presenza di militari Nato e delle loro famigliesi è molto ridotta. Per ragioni di sicurezza è stato costruito un villaggioresidenziale a Gricignano di Aversa, nel Casertano.

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sono cresciuti sino a diventare trainanti rispetto all’eco-nomia della zona: da un lato, con il pendolarismo diurnolegato alla balneazione, con la riqualificazione di alcunistabilimenti balneari e di ciò che resta del termalismo(legato solo a due siti), e dall’altro, soprattutto con unintensissimo flusso serale collegato alla presenza in zonadi un comparto della ristorazione molto esteso (congrande sviluppo del business delle cerimonie) e dei luoghidi ritrovo. Il settore alberghiero è rimasto fondato supoche aziende di qualità e molti piccoli hotel che vivonosu presenze brevissime. Anche il comune di Quarto, piùinterno e legato all’espansione residenziale e degli inse-diamenti produttivi, ha visto negli ultimi anni un notevo-le sviluppo della ristorazione e dello svago (agriturismi ediscoteche).

Si può affermare che oggi, il sistema dei quattro co-muni flegrei sia più che mai vissuto come distretto delpiacere o del loisir, in stretta dipendenza dal flusso pen-dolare proveniente da Napoli e dalle zone vicine. Ne con-segue una notevole pressione sulla rete viaria internaall’area, sulla quale si scarica un enorme flusso di auto-mobili provenienti dalle grandi infrastrutture stradaliesterne, che, pur migliorata con alcune realizzazioni suc-cessive agli eventi sismici degli anni ’80 (ma con scarsepossibilità di espansione, per questioni di impattoambientale), resta notevolmente appesantita quando altraffico interno si aggiunge il flusso diurno e notturnodei visitatori. Negli ultimi dieci anni, con il crescere del-la propensione alla fruizione dei beni culturali che si re-gistra anche in Campania, è notevolmente incrementatoil numero dei visitatori presso i siti archeologici dell’areache, tuttavia, si colloca ancora molto in basso nella gra-duatoria dei siti regionali, soprattutto se si considera lostraordinario patrimonio presente.

La zona è servita da più linee ferroviarie: quella del-le FS (direttissima Napoli-Roma) e due linee locali(cumana e circumflegrea), in potenziamento nel quadrodel forte impegno dell’istituzione regionale nel compar-to della mobilità su ferro. La buona dotazione su ferronon assorbe che in minima parte, però, il pendolarismolegato al loisir, che utilizza prevalentemente il mezzo pri-vato.

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

2. Interessi diversi per il milieu locale

Da quanto detto sinora, il sistema flegreo appareindividuato, in termini tradizionali, sulla base di una seriedi fattori costitutivi del milieu territoriale che si legano inmisura preponderante alle sue relazioni con l’esterno:nodo strategico, area industriale, giacimento di beni cul-turali e ambientali, area di svago. Gli attori, di conseguen-za, interessati allo sviluppo dell’area sono stati e restanosoggetti di grande rilevanza nazionale e internazionale(dalla Nato al Ministero dei Beni Culturali e Ambientali,ai grandi gruppi industriali) oltre a un soggetto diffusocostituito dai fruitori di questo spazio per motivi ricreativi.A seconda della natura dei soggetti, varia l’interesse peruna o per un’altra parte delle risorse del milieu locale; tut-tavia, la percezione dell’area si presenta complessivamen-te in maniera abbastanza unitaria, testimoniata, peraltro,da forme di rappresentazione che restano imperniate sul-la morfologia vulcanica, sugli aspetti storico-mitologici,sulla juissance dei luoghi. La stessa immagine internazio-nale dell’area è marcata da questo tipo di simbologia.

La rappresentazione locale, e quindi anche la perce-zione interna dell’area, sono apparse spesso legate adun’adattamento, da parte della società flegrea, a visioni eopportunità di sviluppo determinate dall’esterno. Un’in-dagine condotta nel corso degli anni ’80 (Maddaloni,1991) evidenziava, ad esempio, la passività degli ammini-stratori locali rispetto ad interventi emergenziali e pro-spettive di cambiamento largamente determinate in sedenazionale. La percezione interna del territorio flegreosembra in sostanza appiattita su visioni “forti”, storica-mente sedimentate, che legano l’area a flussi esterni eche garantiscono gran parte dello sviluppo, oppureintrecciata a forme culturali specifiche che hanno re-sistito all’omologazione contrapponendovi le specificitàrelazionali delle reti locali, tuttora assai vitali. Uno studiopiù approfondito del sistema locale flegreo, peraltro,necessiterebbe di maggiore attenzione alla sua segmen-tazione interna, in sistemi locali più piccoli e più coesi,come lasciano intravedere le differenze esistenti fra icomuni e all’interno dei comuni stessi (come nel casosoprattutto di Monte di Procida).

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Nel tempo, la società locale, tramontata la fase diforte sviluppo industriale, si è legata ad un ventaglioabbastanza ampio di attività, in misura maggiore ominore collegate alle funzioni prevalenti descritte sino-ra. Naturalmente una quota rilevante dell’economialocale si concentra nei servizi interni all’area, mentre èancora vitale la produzione agroalimentare, nell’ambitodella quale si segnala il comparto vitivinicolo, che seb-bene poco curato dal punto di vista della qualità gene-rale, offre marchi di pregio e attira l’interesse degliinvestitori locali, insieme a tutto ciò che è legato al loisir,alla cantieristica, all’edilizia e a piccole attività artigia-nali.

Della diversificazione degli interessi locali, e anchedella crescente consapevolezza da parte dei soggetti acostituirsi in soggetto collettivo ai fini di un progetto ètestimonianza la preparazione del Patto Territoriale fle-greo, di cui si dirà più avanti. Più complesso, anche per-ché in fase di attuazione, è valutare il rapporto tra il siste-ma locale flegreo e il Progetto Integrato a titolarità regio-nale, cioè, in ultima analisi, la territorialità del ProgettoIntegrato stesso. Quest’ultimo si concentra sulla valoriz-zazione dei beni ambientali e culturali, che come si èvisto costituiscono una parte importante di un milieulocale che si è però spesso rivelato insofferente ai vincoliche derivano dalle esigenze di salvaguardia di ambiente ebeni culturali.

All’origine della diversità dell’area rispetto ad altrezone intorno alla grande metropoli napoletana c’è, infat-ti, anche la particolarità di un territorio gravato da vin-coli numerosi, compresi quelli della sismicità e della pre-senza militare, che se da un lato non hanno impedito undiffuso microabusivismo, dall’altro hanno contribuito apreservare, appunto, questa evidente diversità.

Questo particolare connotato dell’area flegrea, com-plessa e diversa nello stesso tempo, ne fa oggi oggetto dimarcato interesse da parte della Regione Campania.Quest’ultima va ormai sempre più definendosi come l’at-tore esterno prevalente, interessato a imperniare neiCampi Flegrei una parte consistente del proprio tentati-vo di ridefinire lo sviluppo regionale a far leva sulle risor-se culturali ed ambientali.

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

3. La programmazione “dal basso”: il Patto Terri-toriale

Come si evince dalle considerazioni fin qui svolte,nell’area flegrea forte appare il contrasto tra potenzialitàdelle risorse disponibili per lo sviluppo ed effettivo impie-go delle stesse, fatto che, per molti aspetti, ha costituitoun limite obiettivo per il decollo economico e lamodernizzazione dell’area.

L’esigenza di attivare in loco processi visibili diriqualificazione economica e sociale in direzione di unosviluppo endogeno si è concretamente evidenziata inoccasione dei lavori per l’istituzione del Patto Territoria-le dei Campi Flegrei, che ha rappresentato non solo lostrumento con il quale si riteneva di poter dare sfogo alleambizioni progettuali dei soggetti locali, quanto, soprat-tutto, un momento significativo per la riprogettazionedello sviluppo dell’intera area.

Per quanto il Patto Territoriale dei Campi Flegreiabbia subito prima diverse battute d’arresto e, più tardi,sia stato del tutto accantonato, le fasi relative alla sua ela-borazione e i suoi contenuti risultano di notevole inte-resse, poiché evidenziano significative innovazioni.Nasce, in primo luogo, da una collaborazione dal bassoche ha visto la partecipazione e la concertazione tra i varisoggetti e attori del territorio, una “rete locale di sogget-ti” che si sono riconosciuti all’interno di un territoriolocale comune, del quale hanno colto lo specifico milieu,e in un progetto condiviso3.

3 I soggetti che hanno avviato, promosso e sottoscritto il Patto Ter-ritoriale “Campi Flegrei” sono: i cinque comuni di Pozzuoli, Bacoli,Quarto, Monte di Procida e Procida, la Provincia di Napoli, circa 140soggetti, pubblici e privati, tra i quali la Regione Campania, Istituti dicredito (quali Banco di Napoli e Monte Paschi), le Organizzazioni sin-dacali, la Camera di Commercio di Napoli, il Formez, il Cnr, impren-ditori privati, associazioni di categoria (Unione industriali della pro-vincia di Napoli, Api Napoli, Confcooperative, Coldiretti, Ascom, Asso-mitili, Federmediterraneo), Dipartimento di Urbanistica dell’Univer-sità di Napoli Federico II, Olivetti Ricerche, Consorzio Nauticon, Idis.Per tutti questi soggetti sono stati, nel Protocollo d’Intesa, specificati edefinitivamente assunti gli impegni, già elencati nei Documenti diIndirizzi. Per un dettaglio maggiore si veda Cofiri Sovis, 2000.

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L’area geografica di riferimento del Patto è delimita-ta dai comuni di Pozzuoli, Bacoli, Quarto, Monte di Pro-cida e Procida, legati tra loro da tradizioni storiche, carat-teristiche fisiche comuni, omogeneità sociale e vincoli diinterdipendenza economica; un insieme, dunque, dicondizioni fisiche, socio-economiche, culturali, valorialisedimentate sul territorio che rappresentano, nel con-tempo, “le prese” cui la rete locale dei soggetti può attin-gere per determinare i progetti di sviluppo, e i presup-posti, gli “indizi” tali da far supporre che l’area potrebbe,se supportata da opportuni interventi, comportarsi comeun sistema locale di sviluppo autosostenibile. Tali inter-venti sono ben identificati nelle linee-guida del Patto chemiravano alla valorizzazione delle “vocazioni” dell’areaflegrea attraverso interventi produttivi fondati sulle risor-se naturali del territorio e sull’incentivazione di un ter-ziario avanzato finalizzata alla realizzazione di una rete diservizi qualificati, essenziali per il rilancio dell’economiadell’area4.

In questo quadro si rimarcava anche la necessità diuna rinascita dei Campi Flegrei come meta turistica,sfruttando due fattori fondamentali, la specificità dellavalenza storico-culturale ed ambientale del sito e la col-locazione strategica dell’area nel bacino del Mediterra-neo. Nell’elaborazione delle linee guida del Patto taleopzione è proposta come ineludibile per la realizzazionedi un organico equilibrio tra “sviluppo moderno” e “tute-la attiva” del territorio che costituisca l’elemento di forzae di attrazione dei Campi Flegrei.

Dal processo di concertazione tra i vari attori locali edal confronto con i problemi esistenti, emerge un dise-gno del territorio in tutti i suoi aspetti: si individuanovalori e questioni critiche e si definiscono i principaliinteressi e obiettivi. Ne deriva una visione di sviluppolocale fortemente centrata su un disegno territorialerivolto ad esaltare il patrimonio di risorse endogene. L’o-rientamento del Patto, pur riconoscendo l’esigenza di

4 Nello specifico il Patto si articola in tre linee di intervento chepuntano sulle risorse che si ritiene possano generare effetti positivisull’occupazione e sulla crescita economica e civile dell’area, e cioè laRisorsa Mare, la Risorsa Verde e la Risorsa Scientifica e Culturale.

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

riorganizzare la struttura economica e produttiva esisten-te e la necessità di riqualificare il tessuto urbano e supe-rare la rigida cultura vincolistica dell’area, ruota intornoalla tutela e alla valorizzazione del suo patrimonioambientale e culturale. Il binomio ambiente e culturadiviene la “presa”, il valore capace di riaffermare l’iden-tità dei luoghi e di incentivare l’economia.

Dal punto di vista metodologico, il lavoro dei Grup-pi Operativi, specializzati nello studio dei vari settori -Risorsa mare, porti, diporto, industria collegata; Risorsaambiente, scienza e cultura; Agrindustria, artigianato,PMI; Servizi e Terziario avanzato; Risorsa turismo, attivitàricettive, balneazione, termalismo; Mercato del lavoro,emersione -, fotografa lo stato “effettivo” del sistema loca-le. Costituiti con il compito di esplorare il territorio e for-nire informazioni sulla popolazione, la domanda, i biso-gni e l’offerta esistente, i Gruppi Operativi hanno svoltoun lavoro che caratterizza fortemente il Patto, per l’at-tenzione che è stata accordata all’individuazione diobiettivi ecosostenibili e correttamente inseriti nella pia-nificazione urbanistico-territoriale. Attraverso la disami-na dei dati quantitativi relativi alle imprese flegree, han-no fornito un’analisi dei rami economici, in termini diconcorrenza, clienti, fornitori e possibili alternative disviluppo; hanno identificato le principali esigenze delleaziende, con particolare riguardo a quelle che avrebberopotuto trovare risposta negli obiettivi del Patto. Infine,hanno individuato le peculiarità territoriali che avrebbe-ro potuto rappresentare potenziali fattori di successoe/o competitività per i settori indagati. Si sono delineati,in questo modo, gli ambiti in cui lo sviluppo delle risor-se individuate avrebbero dovuto trovare spazio: il “terri-torio storico”, con la rete di nuclei, di percorsi, masserie,aree archeologiche; il “sistema ecologico e ambientale”,rappresentato dalla linea di costa, dal complesso deilaghi e dai rilievi morfologici, da preservare e valorizza-re; il “territorio della produzione”, dove sviluppare esostenere le attività industriali e artigianali e favorire lenuove vocazioni produttive dell’area; il “sistema infra-strutturale”, costituito dalla rete su ferro e dalle vie delmare da costruire o potenziare per migliorare l’accessi-bilità interna ed esterna.

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Nella costruzione del Patto, particolarmente forteappare, inoltre, il rapporto tra rete dei soggetti, milieulocale ed ecosistema. Tale rapporto, considerando lametodologia alla base della costruzione del Patto, puòidentificarsi nelle attività delle seguenti fasi: monitorag-gio/ascolto; programmazione/azione; attuazione.

Nel corso della prima fase si è agito per verificare leaspettative dei soggetti economici locali e il loro grado dicondivisione degli indirizzi programmati dal tavolo diconcertazione e dai Gruppi Operativi. Attraverso l’ema-nazione di un bando di pre-qualificazione, i soggettiimprenditoriali interessati sono stati chiamati a presenta-re delle idee-progetto. L’analisi delle proposte dovevacondurre essenzialmente al raggiungimento di tre obiet-tivi: elaborare una metodologia capace di consentire lafattibilità dei singoli progetti; indagare la loro compatibi-lità con il sistema “dei valori condivisi” elaborati dal pro-cesso di concertazione; elaborare il bando per la presen-tazione dei progetti da ammettere a finanziamento e, inparticolar modo, elaborare criteri per la selezione e valu-tazione degli stessi e per la suddivisione delle risorsefinanziarie tra i diversi settori.

Dalle idee-progetto sono emersi elementi di grandeinteresse, intorno ai quali si è sviluppato il successivolavoro. In primo luogo è emerso che gli attori economicilocali condividevano gli indirizzi del Patto, tanto che lagran parte delle 175 idee-progetto riguardavano iniziati-ve rivolte al terziario avanzato, alla creazione di ricettivitàturistica e a progetti nel campo dell’agriturismo e dell’a-groindustria.

Nella seconda fase, quella di programmazione/azio-ne, si sono definiti i programmi di intervento entro i qua-li promuovere le azioni di sviluppo delle vocazioni dell’a-rea. Tali programmi consistono nella definizione di unquadro delle opportunità del territorio, senza tralasciarel’obiettivo di riqualificazione urbana e territoriale defini-to in fase di concertazione. Così, per ogni comune, sonostati individuati, tenendo conto della normativa urbani-stica e dei vincoli, i “contenitori” entro i quali realizzaregli interventi di sviluppo.

La terza fase, quella di attuazione, è consistita nel-l’attivazione delle proposte imprenditoriali a seguito del-

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l’emanazione del bando vero e proprio, nella selezione evalutazione dei progetti e infine nella loro realizzazione5.

Nelle vicende legate alla realizzazione del Pattoemerge con chiarezza che i soggetti locali coinvolti ave-vano opportunamente colto in questo strumento il mez-zo per avviare nei Campi Flegrei un processo di sviluppoendogeno e autosostenibile, sfruttando tutte le risorsepresenti in loco. E’ peraltro questa l’opinione complessi-va che si ricava da una serie di interviste somministrate adinterlocutori che, a vario titolo, operano nell’area6. Prati-camente unanime il giudizio espresso sia sulla “bontà”del Patto sia sulle ragioni del suo “fallimento”.

Gli intervistati sottolineano che il Patto è statoconsiderato come uno strumento positivo e propositivo,in grado di coinvolgere tutti gli attori locali i quali, peral-tro, proprio grazie al Patto, hanno, per la prima volta,comunicato tra di loro in maniera ottimale, ridisegnandole linee di sviluppo dell’area, nell’ottica di salvaguardarele vocazioni esistenti orientandole verso uno svilupposostenibile.

Più complesse, invece, appaiono le ragioni del suofallimento. Il primo grande limite del Patto è individuatonella scarsa realizzabilità dei progetti, a causa delle nor-me urbanistiche che “ingessano” lo sviluppo locale; bastiricordare che solo 34 progetti, pari al 27% del totale,

5 Dopo tre anni di concertazione, le domande di finanziamentoper il Patto, pervenute entro la fine del 2000, sono state 127, per inve-stimenti complessivi pari a 282 miliardi di vecchie lire, un’occupazio-ne prevista di circa 1.200 unità, oltre la metà delle iniziative concen-trate nel settore del turismo, con proposte riguardanti la realizzazio-ne di ostelli, ristoranti, strutture ricettive, turismo nautico e termali-smo, una rilevante quota (23%) di progetti nell’ambito del settoremanifatturiero (soprattutto per l’ampliamento e la riconversione diattività preesistenti), una più modesta quota (13%) nei servizi (strut-ture sportive e per il tempo libero).

6 Il questionario è stato somministrato a: sig. Fulvio Bausan, Pre-sidente dell’Associazione degli albergatori flegrei; ing. Ermanno Cos-siga, segretario regionale CdU; arch. Francesco Escalona, re-sponsabile della prima fase del Patto e del Pit Campi Flegrei; Onore-vole Filippo Lucignano, Presidente del Consiglio comunale di Poz-zuoli; dott. Francesco Martusciello, titolare dell’impresa vinicola“Grotta del Sole”. Le interviste sono state eseguite dalla dott.ssa MariaRita Canfora, cui va il nostro ringraziamento.

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risultavano immediatamente cantierabili e nei comuni diBacoli e Monte di Procida la quasi totalità delle iniziativeproposte dagli imprenditori non era realizzabile senzaun ridisegno delle regole ambientali-urbanistiche. Inol-tre, a giudizio dei più, alla concertazione iniziale non hafatto seguito il riconoscimento di autonomia, intesacome “capacità di azione territoriale autonoma”, a tuttele parti coinvolte. Prevale insomma, nella seconda fase, laparte dirigistica: il partenariato è sempre meno coinvoltomentre le scelte restano appannaggio del coordinamentoe delle forze politiche. Non è inoltre garantita sufficienteassistenza a tutti i soggetti coinvolti nel partenariato la cuipartecipazione nella fase del monitoraggio/ascolto è sta-ta invece molto forte.

L’insieme di queste dinamiche, unitamente ai limitidella burocrazia, hanno, alla fine, lasciato poco spazioalla oggettiva concretezza del progetto. Da ultimo, il defi-nitivo abbandono del Patto, è causato dalla regionalizza-zione che ha investito la programmazione negoziata e dalcrescere del ruolo marcatamente accentratore dellaRegione Campania nella definizione degli interventi disviluppo locale sul territorio regionale.

4. La preminenza della strategia regionale: la sceltadei Progetti Integrati Territoriali.

In anni recenti la Regione Campania ha decisamen-te puntato su una programmazione regionale fortemen-te centrata sui Progetti Integrati (PI), che il Quadrocomunitario di sostegno (Qcs) definisce come “un com-plesso di azioni intersettoriali strettamente coerenti e col-legate tra loro che convergono verso un comune obietti-vo di sviluppo del territorio e giustificano un approccioattuativo e unitario”. Il Progetto Integrato rappresenta lostrumento attraverso il quale la Regione Campania faconvergere principi e risorse nazionali e comunitarie perla definizione di programmi indirizzati alla valorizzazio-ne dell’offerta territoriale regionale.

Oltre il 40% delle risorse del Por 2000-2006 è per-tanto destinato ai Progetti Integrati e, in quest’ambito,alla valorizzazione delle Risorse culturali (Asse II) è stata

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riservata una quota molto cospicua, a sottolineare lavolontà di puntare sul considerevole patrimonio di beniculturali di cui la regione dispone per innescare processidi sviluppo locale sostenibile in taluni specifici ambiti ter-ritoriali7.

L’Ente regionale ha identificato i Campi Flegreicome uno dei 6 grandi “giacimenti-attrattori”, ossia queisistemi archeologici, paesistici e architettonici che, per laloro importanza nazionale e internazionale e attraversoun processo di valorizzazione e riqualificazione, possonoelevarsi a motore dello sviluppo locale.

Come si legge nel Documento di OrientamentoStrategico (Dos), propedeutico alla definizione del Pro-getto Integrato per la valorizzazione delle risorse archeologiche,architettoniche e paesistiche dei Campi Flegrei, la finalità èquella di “conservare e valorizzare il patrimonio storico-culturale dei Campi Flegrei per creare condizioni favore-voli all’innesco di processi di sviluppo locale, favorendolo sviluppo di iniziative imprenditoriali collegate allavalorizzazione del Bene culturale nei settori dell’artigia-nato, del turismo, dei servizi e del restauro”. (Escalona,2003, p. 130). Ciò permetterebbe di dare impulso al set-tore turistico che presenta, allo stato attuale, un forte gaptra l’enorme potenzialità teorica del patrimonio esistentee il basso grado di valorizzazione dello stesso, in terminidi scarsa dotazione di servizi per la fruizione dei beni cul-turali e siti esistenti, di scarsa promozione delle risorse eper la presenza di un’offerta di servizi turistici e ricettiviinadeguata quantitativamente e qualitativamente.

7 Coerentemente con gli indirizzi del Qcs e dell’Accordo di Pro-gramma Quadro sui Beni culturali, la strategia regionale dell’Asse IIdel Por mira ai seguenti obiettivi: valorizzare il patrimonio culturale ecreare condizioni di uno sviluppo permanente del territorio, attraver-so la gestione della risorsa culturale che rompe il vecchio schema del“restauro–museificazione, degrado–intervento pubblico”, a favore diun nuovo circuito virtuoso basato su restauro–conservazione e valo-rizzazione–sviluppo delle attività economiche dirette e indotte (filieradei beni culturali); rendere la Campania più attraente e competitivaattraverso la diversificazione dell’offerta turistica, la creazione di retie poli di beni culturali, l’implementazione delle nuove tecnologielegate alla società dell’informazione per la fruizione e la promozione;sanare le situazioni di degrado territoriale e sociale.

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A partire dunque dall’enorme presenza di areearcheologiche dell’antico sistema imperiale, di beni mo-numentali e storico-culturali e dalla presenza di lidi eapprodi, l’“idea-forza” del PI è quella di innescare pro-cessi di sviluppo, grazie alla strutturazione di un itinera-rio di visita architettonico-archeologico-paesistico divalenza internazionale e, in parallelo, promuovendo losviluppo del sistema culturale, ricettivo e produttivo, instretto collegamento con il grande patrimonio esistente.

E’ importante ricordare che alcune delle caratteristi-che generali dei Progetti Integrati pongono direttive evincoli molto precisi. In primo luogo, come definito dalPor, devono rispondere ad alcuni principi fondamentali,come quelli della “concentrazione”, “integrazione”,“concertazione”. In quest’ottica il PI deve essere conce-pito come un “sistema”, ovvero come un insieme di pro-grammi complessi (urbani o territoriali) e di azioni “con-centrate” in quelle aree che registrano la presenza delprincipale patrimonio culturale e deve tenere in contoquanto già in corso di realizzazione o che sarà attuato daaltri PI in quell’area afferenti ad altri Assi del Por.

Dal punto di vista procedurale, il percorso di con-certazione dei Progetti Integrati a titolarità regionale pre-vede le seguenti fasi: individuazione dell’ambito di pro-getto; insediamento del tavolo di concertazione; elabora-zione di un documento strategico; sottoscrizione di unprotocollo d’intesa fra i soggetti del tavolo di concerta-zione.

Relativamente al PI dell’area flegrea sono state realiz-zate le prime tre fasi.

Il territorio di riferimento individuato comprendequattro comuni - Pozzuoli, Bacoli, Quarto e Monte diProcida - che hanno già maturato, come si è visto, espe-rienze nella progettazione di piani di sviluppo comuni8, eche sono riconosciuti come un unicum inscindibile entroil quale i valori architettonici, archeologici, paesistici enaturalistici interagiscono strettamente.

8 Il riferimento è soprattutto al Patto Territoriale, ma i quattrocomuni hanno realizzato anche un progetto per la nascita di un Par-co Letterario. I tre comuni costieri saranno inoltre interessati da altridue Progetti Integrati: sulla Portualità turistica e del Parco naturale.

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Gli interventi previsti dal PI nei 4 comuni sono nu-merosi. Nell’ottica di uno sviluppo sostenibile del territo-rio, attraverso l’individuazione di otto ambiti d’interven-to, si intende realizzare un sistema turistico-culturale chepresenta forti analogie con l’antico sistema territorialegreco-romano. Allo stato attuale della progettazione, gliinterventi si articolano in azioni rivolte al recupero del“Bene Culturale” e al recupero del paesaggio urbano edell’ambiente. L’azione centrale sarà quella rivolta aibeni culturali siti in Pozzuoli, mentre altri beni suscetti-bili di essere inseriti nei percorsi sono situati nelle loca-lità di Baia e Miseno (comune di Bacoli), nel comune diMonte di Procida, in località Lago del Fusaro, nel pro-montorio di Cuma, in località Lago d’Averno e nel comu-ne di Quarto (Fig. 1).

Nell’ambito del Progetto Integrato, saranno previsti,inoltre, contributi a sostegno della promozione di pro-getti imprenditoriali finalizzati alla realizzazione e ade-guamento delle strutture ricettive (alberghi, pensioni,agriturismo, bed & breakfast, campeggi). Aiuti finanziarisaranno poi concessi anche alle piccole imprese operan-ti nel settore dell’artigianato tradizionale, del restauro,nei servizi di accoglienza, assistenza e accompagnamen-to, nei servizi connessi alla gestione del patrimonio stori-co-culturale.

Il Tavolo di concertazione ha redatto e approvato il“Documento di Orientamento Strategico”9. Nella suaredazione, nella definizione quindi delle linee di svilup-po dell’area, gli attori istituzionali e amministrativi han-no tenuto conto della “voce” dei soggetti economici esociali, accettando gli indirizzi strategici emersi dalla con-certazione istituzionalizzata dal Patto Territoriale.

Su quest’ultimo punto restano tuttavia da svilupparealcune brevi considerazioni.

9 Il Tavolo ha visto la partecipazione, oltre che della RegioneCampania, che ha la titolarità del progetto, della Provincia di Napoli,dei 4 comuni flegrei coinvolti, della Soprintendenza ai Beni architet-tonici e ambientali di Napoli, della Soprintendenza ai Beni archeolo-gici di Napoli e Caserta, e del Commissario per l’attuazione dell’art. 4della legge 80/84.

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Va rilevato, infatti, che il Patto Territoriale aveva pro-dotto una sorta di idea di sviluppo “equilibrato e condi-viso”, coinvolgendo in maniera abbastanza ampia lasocietà civile, e, al contempo, aveva costruito un modellodi sviluppo che, a partire dall’ ”esistente” e attraverso unprocesso di autoidentificazione, tendeva a salvaguardaretutti i valori sedimentati nell’area, definendo un sistemaideale per la loro convivenza per farne un motore di svi-luppo, il che, peraltro, aveva consentito una più agevolemetabolizzazione del progetto da parte degli attori eco-nomici locali. A fronte di ciò, il PI, pur dichiarandoespressamente di tenere in conto “l’importante e vastolavoro di animazione e di concertazione” effettuato dalPatto, ne ha potuto acquisire solo un’idea molto parzia-le, dovendo, proprio per la natura dello strumento stes-so, concentrare la propria azione intorno ad una deter-minata idea-forza che, nel caso dei Campi Flegrei, è stataindividuata nella valorizzazione turistico-culturale.

Inoltre, mentre nella circostanza del Patto, la retelocale dei soggetti ha operato, attraverso la concertazio-ne dal basso, come “attore collettivo”, nella messa in valo-re di potenzialità del milieu, prefigurando peraltro unrapporto interattivo tra la rete locale stessa e le reti sovra-locali, nel caso del PI i soggetti locali sembrano sminuitial ruolo di attori piuttosto che di protagonisti della stra-tegia di sviluppo sostenibile dell’area che è definita dallaRegione.

Alcuni dei soggetti locali che abbiamo intervistatoritengono che il PI non rappresenti altro che l’interven-to dall’alto dell’Ente Regione che escluderà gli altri Entiterritoriali nel governo dell’iniziativa.

Il percorso sembra affetto da un vizio di forma: quel-lo cioè di non aver dato alle istanze ed alle proposteemerse dal territorio la giusta considerazione.

Siamo ancora convinti che lo sviluppo locale nonpossa che essere partecipato e debba quindi coinvolgere“la presenza attiva del partenariato sociale e l’assunzionedi responsabilità dirette da parte di soggetti locali, sianoessi pubblici o privati, che devono diventare artefici del-lo sviluppo del loro territorio e sentirsi responsabili delraggiungimento degli obiettivi”(De Rita, Bonomi, 1998,p.99).

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IL SISTEMA LOCALE DEI CAMPI FLEGREI TRA SPINTE INTERNE E STRATEGIE ESTERNE

Bibliografia

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Un sistema locale territorialedelle aree interne: l’Alta Irpinia

Ornella Albolino

Il contributo si propone di indagare la presenza diun Sistema Locale Territoriale (SLoT) in un’area internadella Campania, l’Irpinia, un territorio che, fino a pochidecenni or sono, si inscriveva a pieno titolo nelle regionidell’osso meridionale. La particolare combinazione diingenti risorse pubbliche investite qui, soprattutto nellafase di ricostruzione seguita al sisma del 1980, una mas-siccia opera di infrastrutturazione, nonché una notevolevitalità dell’imprenditoria locale, hanno consentito diindividuare la presenza di una “via irpina allo sviluppo”,una direttrice interna che, attraversata da due importan-ti assi autostradali, si proietta verso la Puglia e la Basilica-ta (Sommella, 1997 e 1998; Viganoni, 1999; Sommella,Viganoni, 2001a) (Fig. 1).

L’ambito territoriale di riferimento coinvolge la Co-munità Montana Alta Irpinia (Cmai), i cui limiti ammi-nistrativi coincidono in gran parte con la regione omoni-ma. L’area occupa la periferia orientale della provincia diAvellino e ha sempre rappresentato la naturale cernieratra il Tirreno e l’Adriatico1.

1 La Comunità Montana Alta Irpinia, istituita nella seconda metàdegli anni Settanta, non comprende l’intera regione dell’Alta Irpinia,che si protende verso la Baronía e l’Arianese a nord e in direzione diBagnoli Irpino e del Solofrano a sud-ovest.

Esaminando un progetto come l’Iniziativa Comuni-taria (IC) Leader II, l’analisi pone l’accento sulla “risco-perta” centralità del territorio e, più in dettaglio, sullepotenzialità del milieu, attivate da una rete di attori loca-li in grado di dialogare con i livelli sovralocali.

La nuova relazione tra territorio/soggetti/azioneemerge nell’intervento che andremo a considerare maispira, anche se con caratteristiche e contenuti diversi,l’ampia progettualità che agisce diffusamente sul terri-torio.

L’obiettivo è di provare ad indagare l’emergere diforme di territorialità attiva, evidenziando la presenza diprocessi di auto-organizzazione in un’area per moltiaspetti ancora marginale, un territorio dominato dadipendenza esogena e territorialità passiva (Governa,2001, pp.43-44), sottolineando il ruolo attivo del capitalesociale nei processi di sviluppo locale in atto.

Il percorso seguito si fonda sull’analisi dell’interazio-ne tra gli attori, le componenti del milieu e il progettostesso (Sommella, 2003), cui si affianca la conoscenzadiretta dell’area, integrata da interviste somministrate adalcuni attori privilegiati.

1. La Comunità Montana Alta Irpinia e l’IniziativaComunitaria Leader II

L’analisi dell’intrecciarsi tra le dinamiche di sviluppoche interessano l’area e le caratteristiche di un progettoha rappresentato il punto di partenza per evidenziare lapresenza di uno SLoT, o almeno i caratteri e gli elemen-ti che conducono alla sua formazione2.

Un tema, ampiamente dibattuto, riguarda la scalaterritoriale di riferimento. È chiaro che, se non esiste il“territorio perfetto” come base territoriale di un sistema

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ORNELLA ALBOLINO

2 SLoT non è solo un’entità territoriale ben delimitata ma soprat-tutto “un aggregato di soggetti in interazione reciproca i quali in fun-zione degli specifici rapporti che intrattengono con un certo ambien-te o milieu locale, si comportano, in certe circostanze, come un atto-re collettivo” (Governa, 2001, p. 31).

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UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE DELLE AREE INTERNE: L’ALTA IRPINIA

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locale, allo stesso modo è impensabile, almeno in questocaso di studio, considerare limiti amministrativi che nedefiniscano i confini. Il territorio considerato, “un rita-glio areale sub-provinciale” sembra, tuttavia, “pertinente”rispetto alle categorie concettuali di riferimento (Demat-teis, 2001, p. 17; Governa, 2001, pp. 40-41). L’ambito ter-ritoriale coinvolto nel progetto presenta una dimensionesovracomunale e subregionale, risultato dell’aggregazio-ne realizzata sulla base di caratteri di omogeneità geo-morfologica e produttiva, ma anche di esigenze, di diffi-coltà, di prospettive che il singolo Comune da solo non èin grado di affrontare e che, d’altro canto, possono nonessere percepite da un ente sovralocale come la Regione,una dimensione mediana, “l’ambito adeguato in cui èpossibile agire per promuovere efficacemente l’integra-zione tra politiche di pianificazione, programmazione,inclusione sociale, innovazione e decentramento ammi-nistrativo, che nelle applicazioni pratiche ha prodottobuoni risultati anche sul piano della governance” (Camma-rota, 2000, p.4).

Nel territorio della Comunità Montana Alta Irpiniaemergono diverse logiche di tipo cooperativo e negozia-le: si assiste alla nascita e al consolidamento di aggrega-zioni – anche non istituzionalizzate – volte alla realizza-zione di azioni e progetti che si fondano su una fitta tra-ma di relazioni fra i diversi livelli territoriali. I partena-riati attivati danno vita a numerosi strumenti integrati disviluppo locale e a varie forme di programmazione nego-ziata: dal Contratto d’area del “Cratere”, strumento inno-vativo perché nasce ad hoc per il completamento dellearee industriali istituite con la ricostruzione post-sismica,ai Patti Territoriali, “generalisti” e “specializzati”, dal Lea-der II al Distretto Industriale del tessile-abbigliamento diCalitri ai Pit in fase di attuazione. Si tratta di strumentiattualmente in itinere che, nonostante gli indiscutibililimiti, mostrano interessanti episodi di concertazione ecoesione sociale. A questi si affiancano il Parco Lettera-rio, intitolato a Francesco De Sanctis (Albolino, 2003) eil progetto Ecosert, esperienze caratterizzate da radica-mento territoriale, che si propongono di pervenire a for-me di sviluppo sostenibile attraverso il turismo ecologicoe culturale.

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UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE DELLE AREE INTERNE: L’ALTA IRPINIA

Il progetto che abbiamo considerato è il Leader II,Piano di Azione Locale (Pal) Terre d’Irpinia, per il quale èreferente il Gruppo di Azione Locale Cilsi (Centro di Ini-ziativa Leader per lo Sviluppo dell’Irpinia).

Diverse le motivazioni che hanno condotto a talescelta: innanzitutto le caratteristiche dell’IC, che si pro-pone l’attuazione di forme innovative di sviluppo localenelle zone rurali; la flessibilità dello strumento; l’analisi ela progettazione messe a punto da un gruppo di lavoroche opera in questa realtà da circa vent’anni e che hasaputo coinvolgere attivamente un’articolata rete di atto-ri locali. Il progetto, inoltre, è il punto d’arrivo di unaserie di iniziative che sovvertono completamente i princi-pi che hanno guidato gli interventi per lo sviluppo diquest’area nel periodo post-sismico.

Interessato dal Leader II è l’intero territorio dellaCmai (Fig. 2), una terra di miti e leggende punteggiata diminuscoli e preziosi centri protetti da rocche e castelli3.Racchiusa tra il complesso dei Monti Picentini e i fiumiCalore, Ùfita e Ofanto, presenta un paesaggio tipico del-le aree sub-appenniniche, alternando dorsali rocciose averdi e ondulate colline, tra fitte foreste di latifoglie esempreverdi e ampie valli di origine tettonica4. I suoi cor-si d’acqua costituiscono un inestimabile patrimonio perl’intero territorio. L’Ofanto e la sua valle, in particolare,rappresentano un elemento vivo e vitale intorno al qua-le, nel corso dei secoli, si è costruita l’identità territorialedi buona parte di questi luoghi. Tutta l’area è caratteriz-zata da una ricca idrografia: numerosi i torrenti e i laghi,questi ultimi di piccole dimensioni e spesso artificiali. Trai principali sono gli invasi nati dalle dighe di Conza della

3 La Cmai si estende su una superficie di circa 754 kmq (mon-tuosa per il 96%, a eccezione dell’area collinare di Villamaina) e riu-nisce 17 comuni: Acquilonia, Andretta, Bisaccia, Cairano, Calitri,Conza della Campania, Guardia Lombardi, Lacedonia, Lioni, Monte-verde, Morra de Sanctis, Rocca S. Felice, S. Andrea di Conza, S. Ange-lo dei Lombardi, Teora, Torella dei Lombardi, Villamaina.

4 La geomorfologia dell’area è ampiamente trattata nell’operadi Pescatori Colucci, Cozzo, Barra, 1995. Si vedano anche il volumedi Ruocco, 1976, e le Guide “rosse” e “verdi” del Touring Club Ita-liano.

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ORNELLA ALBOLINO

Campania e di S. Pietro. Il lago di Conza, un bacino arti-ficiale delimitato dalla poderosa diga sull’Ofanto, pre-senta caratteristiche tali da condurre all’istituzione diun’oasi naturalistica del WWF5. Anche il lago di S.Pietro,nella parte della diga ribattezzata Aquilaverde (dal nomedei tre comuni che vi si affacciano, Aquilonia, Lacedoniae Monteverde) è un’oasi d’azzurro immersa nel verde,attrezzata ad area pic-nic, meta gradita dei turisti delleregioni limitrofe.

Un cenno a parte merita la famosa Mefite di Ansan-to, la “spelonca orribile e vorago”, che da millenni affa-scina e impressiona i visitatori, un laghetto ribollente,caratterizzato da piccoli vulcani di fango e terribili esala-zioni gassose. Nei pressi della Mefite sono ubicate le sor-genti minerali sulfuree di San Teodoro a Villamaina,dove le acque minerali alimentano le Terme omonime,significativa potenzialità in termini di turismo termale6.Suggestivi e oggetto di recupero, valorizzazione e pro-mozione sono pure i percorsi legati ai mulini ad acqua,un tempo diffusi nella zona.

La Cmai è un territorio storicamente caratterizzato,come la maggior parte delle aree interne meridionali,da situazioni di grave disagio: arretratezza economica,degrado ambientale e architettonico e soprattutto spo-polamento. Investita negli ultimi quarant’anni dapreoccupanti fenomeni di contrazione demografica, l’a-rea conta circa 42.000 residenti, facendo registrareun’ulteriore riduzione rispetto al decennio precedente(Tab. 1).

5 Le aree protette da associazioni ambientaliste e da leggi nazio-nali e regionali sono state incluse nei Siti di Importanza Comunitariaindividuati nella provincia di Avellino, focalizzando l’attenzione suipreoccupanti fenomeni di dissesto idrogeologico.

6 Nel comune di Villamaina, le terme di San Teodoro rappresen-tano, da qualche anno, una significativa risorsa economica: a partiredalla filiera termale, il dinamismo degli amministratori locali ha giàrealizzato un progetto che consente l’entrata del comune nel Pit cheinteressa l’area.

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UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE DELLE AREE INTERNE: L’ALTA IRPINIA

Tab.1 - Popolazione residente nella Comunità Montana Alta Irpinianel periodo 1981-2001

Comuni Pop. Res. Pop. Res. Pop.Res. Var.%1981 1991 2001 91-01

Andretta 2.828 3.021 2.295 -24,03Aquilonia 2.705 2.469 2.074 -16,00Bisaccia 4.781 4.952 4.382 -11,51Cairano 870 556 411 -26,08Calitri 6.618 6.467 5.849 -9,56Conza della Campania 1.506 1.473 1.457 -1,09Guardia Lombardi 3.014 2.361 2.029 -14,06Lacedonia 3.776 3.163 3.010 -4,84Lioni 5.866 6.400 6.106 -4,59Monteverde 1.201 1.023 920 -10,07Morra de Sanctis 2.358 1.871 1.408 -24,75Rocca S. Felice 1.168 1.220 903 -25,98S. Andrea di Conza 2.262 2.042 1.930 -5,48Sant’Angelo dei Lombardi 5.170 4.795 4.236 -11,66Teora 2.568 2.242 1.571 -29,93Torella dei Lombardi 3.036 3.029 2.202 -27,30Villamaina 1.158 1.051 1.005 -4,38TOTALE 50.885 48.135 41.788 -13,18Fonte: Elaborazione su dati Istat

Montemarano

Casalbore

MelitoIrpino

Montecalvo Irpino

Napoli Forino

Salerno

QuindiciSerino

Solofra Montella

Mercogliano

MonteforteIrpino

Taurano

Avella

Avellino

IrpinaVolturara

Irpina

Lapio

Cervinara

Mirabella

MontemilettoAltavilla

Eclano

Bonito

Benevento

Frigento

Lioni

Calabritto

Senerchia

Bagnoli Irpino

Caposele

C.za

CampaniaConza della

Morra De Sanctis

dei Lombardi

NuscoTeora

Rocca

Sant'Angelo

FeliceSan

Torella dei Lombardi

VillamainaGuardia Lombardi

S.A.

di

Cairano

CalitriAndrettaAndretta

0 12 Km

Potenza

SturnoCarife

Vallata

Flumeri

Zungoli

Lacedonia

Bisaccia

Aquilonia

Monteverde

Ariano Irpino

Greci

Savignano Irpino

FoggiaN

Fig. 2 – La provincia di Avellino e la Comunità Montana Alta Irpi-nia (in grigio i comuni afferenti).

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Si tratta di un ambito territoriale che rientra a pienotitolo in quella che è definita la cosiddetta “Italia mino-re”, fatta di tanti piccoli centri, custodi di un patrimoniodi cultura e tradizioni, spesso spazzato via dall’emigrazio-ne (Serico-gruppo Cresme, 2001). Anche in quest’area siè assistito, così, al depauperamento socio-economico dinumerosi comuni, un processo che è proseguito inesora-bile e pressoché ininterrotto fino al terribile sisma che hadevastato questi luoghi nel 1980.

É un territorio dalla connotazione prevalentementerurale, accompagnata da una significativa componenteartigiana, e anche industriale7; presenta, sebbene inmodo non uniforme, diffusi elementi di arretratezza, siadal punto di vista tecnologico che organizzativo, situazio-ne aggravata da elevati indici di senilizzazione e di dipen-denza; nell’area, inoltre, l’attività agricola è prevalenteed occupa una quota ancora consistente della popolazio-ne attiva. La cerealicoltura e i vigneti sono le coltivazionipiù diffuse, affiancate dal castagno e dal nocciolo, coltu-re che, dopo un periodo di forte crisi, già da qualchetempo registrano una netta ripresa, attribuibile alla note-vole richiesta di un prodotto di qualità destinato all’in-dustria dolciaria; la conduzione aziendale prevalente èquella della piccola impresa di proprietà contadina, gesti-ta dal coltivatore diretto che si avvale della collaborazio-ne dei familiari e occasionalmente di lavoratori avventizi.

2. L’interazione tra la rete locale dei soggetti e ilmilieu

Con le azioni del Pal un partenariato, che lungo ilcammino ha acquisito crescente solidità, ha realizzato unprogetto che si presenta notevolmente radicato e condi-viso, recuperando valori, tradizioni, cultura che rafforza-no l’identità territoriale, progetto che ha dimostrato la

7 Dopo il 1980 l’area in questione è interessata dall’istituzione dinumerosi Nuclei Industriali, creati ai sensi dell’art.32 della legge219/81, che ha definito le principali linee guida per la ricostruzionepost-sismica (Sommella, 1997; Plansud, 1998 e 2000).

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UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE DELLE AREE INTERNE: L’ALTA IRPINIA

sua capacità di integrarsi e interagire con le politiche cheprocedono nella stessa direzione.

Compongono il Gruppo di Azione Locale (Gal) Entipubblici e, in maggioranza, privati. Ne fanno parte, laCmai e sette dei suoi diciassette comuni: Bisaccia, Conzadella Campania, Lacedonia, Lioni, Morra de Sanctis,Rocca San Felice, Torella dei Lombardi; sul fronte priva-to, la Federazione provinciale coltivatori diretti, la CiaProvinciale (Confederazione Italiana Agricoltori), la CnaRegionale (Confederazione Nazionale dell’Artigianato),al cui rappresentante è stata affidata la Presidenza, il Cre-sm Campania (Centro di Ricerche Economiche e Socialiper il Meridione).

La composizione del partenariato sociale e istituzio-nale evidenzia che non si tratta di una rappresentazionefittizia, nata al solo scopo di assolvere un “obbligo buro-cratico” necessario ad accedere ai finanziamenti, com’èuso abbastanza frequente. La nutrita presenza di attoridella comunità locale sembra garanzia dell’applicazionedei principi della governance, consentendo, al contempo,un utilizzo più efficace ed efficiente delle risorse, mentrela concertazione, che caratterizza il Gal, rappresenta unabuona base per la costruzione di capitale sociale (Cam-marota, 2002).

L’azione sinergica della Cmai, della Provincia (entiche però non riescono ancora ad esprimere pienamenteil ruolo di impulso e coordinamento che gli compete), dialcuni sindaci, amministratori, associazioni locali (note-vole la crescita dell’associazionismo sociale e culturale) eprofessionisti, che ha prodotto l’interesse partecipe dellecomunità locali (coinvolte ancora parzialmente), è statain grado, in quest’ultimo decennio, di scuotere la rasse-gnazione, la diffusa ostilità verso le attività consortili, l’in-differenza, spesso diffidenza, verso “le novità” (anchequando in realtà è solo riscoperta di ciò che è parte inte-grante dell’identità di queste terre), se non addirittural’isolamento e l’abbandono in cui versano molti centricostretti all’immobilismo e al degrado.

Finora il Cresm Campania, prima, il Gal, poi, hannosvolto un attivo ruolo di promozione e guida nellaprogettualità dell’area. Avvalendosi dell’azione di sogget-ti attivi e preparati, coinvolgendo amministratori dinami-

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ci e aperti all’innovazione, “spronando” la vitalitàimprenditoriale e la cultura d’impresa latente in quest’a-rea, sono stati in grado di progettare e realizzare gli inter-venti previsti, denotando capacità tecnica, abilità e flessi-bilità, facendo da anello di congiunzione con le retisovralocali: la Provincia, la Regione e, in primo luogo,l’Unione Europea, soggetto i cui interventi a favore del-l’integrazione erano ben poco noti in quest’area (quasisconosciuti ai non addetti ai lavori), stimolando, al con-tempo, i territori comunali a riproporsi in chiave nuovaperché non più, o almeno non solo, aree in attesa di unintervento statale o dell’attenzione di una grande impresa,ma soggetti attivi del loro sviluppo socio-economico.

Nei processi concertativi la componente dei legamisociali e la relativa stabilità che caratterizza la rete locale(Dematteis, 2001) – i soggetti/attori, principali prota-gonisti dei processi in atto, vivono e “agiscono” da oltreventi anni nella comunità locale – hanno svolto un ruoloessenziale: le modalità di azione degli attori locali eviden-ziano la volontà di ricostituire e intensificare i rapporti difiducia su cui si fonda la costruzione di capitale sociale.

Ribadendo la centralità di forme di sviluppo endoge-no e sostenibile, tentando di restituire valore, dignità ecapacità di agire al territorio e alla sua comunità, si è ini-ziato lentamente (con fatica e con risultati non sempreconfortanti) a riannodare quei legami sociali, ispirati allafiducia e alla reciprocità dei rapporti, nella convinzioneche questa fosse la sola strada possibile per tentare diridurre gli effetti perversi dell’assistenzialismo clientela-re.

La concertazione dal basso, che ha attivato risorselocali materiali e immateriali, e soprattutto l’integrazionetra capitale sociale e territorio, ha dato il primo impulsoa processi virtuosi di cambiamento sociale e di sviluppoeconomico che si propongono di frenare il diffuso spo-polamento e, in particolare, l’emigrazione di manodope-ra giovane e qualificata.

Tassello fondamentale in questo quadro è il cetopolitico locale. La crescita della coscienza e dell’agirelocale “intimorisce” una classe politica non ancora pron-ta a comprendere e soprattutto ad accettare che pro-muovere, “regolare e accompagnare il cambiamento, sti-

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UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE DELLE AREE INTERNE: L’ALTA IRPINIA

molando la partecipazione delle comunità locali” è ilruolo essenziale dell’azione politica (Cammarota, 2002).Invece molta parte del ceto dirigente, non di rado, agiscenella convinzione che il comportamento degli attori loca-li, l’attivismo e il loro protagonismo leda interessi conso-lidati di gestione del potere, comportamento ben pocovirtuoso cui si affiancano i ritardi, gli sprechi e le ineffi-cienze nella gestione dei fondi di cui dispone. Appareevidente, dunque, che il nuovo ruolo di impulso e coor-dinamento che connota diverse amministrazioni non sitraduce ancora in una “capacità istituzionale”, intesacome carattere peculiare, generale e diffuso degli entilocali territoriali.

Dall’analisi del progetto emerge il ruolo e il valoreche è stato attribuito al patrimonio di risorse territorialima soprattutto si pone in risalto la presenza di un sistemalocale territoriale che si fonda sull’interazione tra la retelocale (e la sua capacità di rapportarsi attivamente allereti sovralocali) e le potenzialità del milieu, le cui com-ponenti sono le “prese” del progetto, gli elementi fonda-mentali per produrre una strategia organica di sviluppo(Governa, 1999).

L’identificazione (e quindi la sua rappresentazionesoprattutto dall’esterno) del territorio della Cmai constereotipi come quello di “civiltà contadina, terremoto,ricostruzione” rischia di penalizzare gravemente la com-plessità del milieu locale. L’obiettivo delle nuove politi-che in atto si concentra sulla volontà di investire sullepotenzialità del territorio trasformando in risorsa “il risul-tato” di isolamento e limitata industrializzazione, vale adire un patrimonio ambientale che in molte sue parti èintatto e di incomparabile bellezza.

La valorizzazione dell’attività agricola e forestale, set-tore ignorato dalle politiche adottate dopo il terremoto,ha rappresentato la prima base per innescare processi disviluppo eco-compatibile, promuovendo un’agricolturache si fonda sulle produzioni enogastronomiche locali,molte delle quali tipiche, e sulle produzioni biologiche.La provincia di Avellino è oggi uno dei territori dovenumerosi sono i riconoscimenti e i marchi di tutela evalorizzazione nazionale e, soprattutto in Alta Irpinia,agisce attivamente l’organizzazione Slow Food. Il proget-

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to ha investito molto sulla possibilità e sull’opportunità,considerata la struttura degli ordinamenti colturali, diattivare processi di miglioramento e specializzazione chefacciano perno sulla presenza di filiere che mostrano, alivello di prodotto finale, forti elementi di connessione esinergia (le filiere lattiero-casearia, del grano, dell’olio,della vite).

Innegabili le potenzialità insite nel patrimonio stori-co-architettonico di notevole pregio e spesso in degrado,che però è oggetto sempre più frequentemente di politi-che volte alla sua riqualificazione e valorizzazione. É chia-ro che si tratta di potenzialità che conducono alla valo-rizzazione del territorio in chiave turistica, un turismo diélite, culturale, religioso, enogastronomico e congressua-le, peculiarità che, attraverso politiche adatte, possonorappresentare un significativo strumento di sviluppolocale per questa terra. Il binomio ambiente-culturadiviene così l’elemento portante capace di dar vita a un“progetto” di sviluppo che rafforzi l’identità locale(Dematteis, 2001, p.16).

Il milieu locale, nella sua natura “soggettiva”, è, dun-que, da considerare come insieme di “prese”, risorse daimpiegare perché effettivamente percepite, riconosciutee considerate tali dalla società locale. Risorse che, com’èaccaduto nel territorio dell’Alta Irpinia, in alcune fasi operiodi storici perdono tale riconoscimento: lo riacqui-stano se divengono oggetto di politiche di valorizzazionee di sviluppo endogeno. In quest’ambito territoriale glisforzi concentrati sull’industrializzazione hanno per lun-go tempo impedito di considerare l’enorme valore delpatrimonio ambientale e storico-culturale di queste terre.Alla luce di tali considerazioni, in una visione che comin-cia lentamente e faticosamente ad affermarsi possiamoapplicare a questa regione la definizione di milieu come“capitale territoriale”, che non va compromesso, pena ildeterioramento del sistema locale (Dansero, 2001).

Le risorse immateriali, fatte di saperi codificati econtestuali, che sono oggetto di intensa valorizzazione,divengono lo strumento per riappropriarsi delle proprieradici identitarie “proiettando”, però, le antiche tradizio-ni nel futuro (come nel caso delle botteghe artigianenate con il Pal): comincia così a diffondersi un tessuto

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produttivo di piccole e medie imprese efficienti che, incontrotendenza rispetto alle tradizionali caratteristichedell’area, mostra una notevole propensione all’innova-zione culturale e gestionale oltre che tecnologica di pro-cesso e di prodotto, dando vita a strutture associative ditrasformazione con una gestione comune dei serviziessenziali.

Lentamente, la consapevolezza che la coesione è uningrediente essenziale per la riuscita dei progetti,accompagnata dalla convinzione che il Gal non era unanonimo canale dispensatore di finanziamenti ma unsoggetto attivo, e sempre presente, attraverso la consu-lenza, il supporto, l’assistenza tecnica, ha rappresentato ilprincipale impulso nella fase di start up. Il tutto è statoamplificato dall’intervento diretto delle amministrazionicomunali (anche se non di tutte) che, non solo hannogarantito la disponibilità di aree nei Pip ma hanno mes-so in campo gli strumenti a loro disposizione per agevo-lare le iniziative imprenditoriali. Un processo lento macostante che ha condotto al crescere del governo localedel progetto.

3. Il Piano di Azione Locale Terre d’Irpinia

Il progetto si è concentrato, fin dal principio, sullarealizzazione di azioni integrate, mirate a promuovere lavalorizzazione del ricco patrimonio ambientale, culturalee storico-architettonico, delle risorse materiali e immate-riali del milieu8. In tal modo si è tentato di dar vita ainterventi, ispirati ad elevati standard di qualità e innova-zione, in grado di investire sullo sviluppo di iniziativeconsortili ma, soprattutto, capaci di trovare fondamentoe legittimazione nella collettività (Governa, 2001).

8 In Alta Irpinia il Leader II ha preso il via nel 1996 e si è con-cluso ufficialmente il 31 dicembre 2000 (Gruppo di Azione Locale Cil-si, 1999-2001). Così come prevede la normativa, il Gal che ne ha pro-mosso la realizzazione, arricchito dall’ingresso di nuovi soci, è in atte-sa dell’approvazione del Leader plus, un nuovo progetto che consen-tirebbe il completamento e l’ampliamento delle azioni già messe incampo.

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Primo passo del lungo cammino è stato uno studioapprofondito del territorio, al fine di ricostruire la trama– in tanti punti bruscamente interrotta – del tessutosocio-economico locale, orientandolo verso forme di svi-luppo endogeno e duraturo.

La fase iniziale di animazione e sensibilizzazione delterritorio è servita per saggiare la capacità del gruppo digenerare fiducia nelle azioni del Gal e in un progetto chesolo se condiviso era destinato a realizzarsi. Le numeroseazioni previste dal Pal, altrettanti nodi della rete Leader,sono diffuse in maniera capillare sul territorio di riferi-mento, articolandosi lungo i seguenti assi:

• Supporto tecnico allo sviluppo rurale• Turismo rurale• Piccole imprese, artigianato e servizi zonali• Valorizzazione in loco e commercializzazione di

prodotti localiL’intero percorso è stato rafforzato da un’intensa

attività di formazione professionale e da uno stretto col-legamento col mondo della scuola, partner attivo e vei-colo privilegiato di informazioni, e completato dall’atti-vità di Cooperazione Transnazionale.

L’azione-pilota, vale a dire il primo nodo della reteturistica Leader, motivata dalla volontà di dare immedia-ta visibilità al progetto, ha riguardato il centro storico diRocca San Felice, piccolo nucleo medievale stretto intor-no al suo castello. L’azione realizzata consiste nella crea-zione di un Ristorante-Museo all’interno del borgo, alle-stito in un locale dell’Amministrazione comunale. L’atti-vità avviata associa alla ristorazione di piatti tipici elabo-rati prevalentemente con prodotti locali e alla venditadegli stessi, la gestione del Museo civico del comune, cheespone attrezzature e strumenti della tradizione alimen-tare locale. La realizzazione di un ricettario tipico e lapromozione delle attività del Pal completano l’iniziativain questione.

Le linee guida dello sviluppo turistico del territoriosono state portate avanti attraverso numerose iniziative:dalla creazione di un Ufficio per la promozione turisticadell’area Leader alla ristrutturazione del Castello Ducaledi Bisaccia, le cui maestose sale, come quelle del CastelloCandriano a Torella dei Lombardi, sono oggi destinate

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ad eventi culturali. In particolare, nel Castello di Bisacciaè stato allestito il “Caffè Letterario”, divenuto punto diincontro di interessanti manifestazioni culturali legate,soprattutto, al Parco Letterario “Francesco De Sanctis”.

Un ruolo guida, nei percorsi del Pal, è stato attribui-to all’attività formativa, nella consapevolezza che solo ali-mentando il rapporto formazione–territorio è possibiledare nuova linfa vitale a queste terre, investendo in unarisorsa essenziale come il capitale umano. La funzioneche il sistema formativo scolastico e di formazione pro-fessionale gioca nella definizione di percorsi di sviluppolocale, integrato e sostenibile è essenziale: inscindibile illegame tra crescita del capitale sociale e investimenti incapitale umano e di conseguenza in infrastrutture eco-nomiche e sociali che, favorendo lo scambio e la circola-zione di informazione, alimentano “comportamenti civi-ci virtuosi” (D’Antonio, 2001, p. 34).

Sicuramente uno dei principali elementi di frenoallo sviluppo di questo territorio è il diffuso atteggiamen-to di sfiducia che caratterizza una certa fascia della popo-lazione giovanile. Gli interventi di formazione professio-nale, ma soprattutto il dialogo che questo Gal, e primaancora il gruppo del Cresm Campania, ha avviato con leistituzioni scolastiche è non solo un elemento nuovo maanche fondamentale per il radicamento territoriale delleiniziative realizzate. Il coinvolgimento del mondo dellascuola, oltre a garantire un’ampia partecipazione dellasocietà civile alla progettazione e alla realizzazione delleiniziative, ha contribuito alla visibilità dell’intero proget-to.

L’attività di formazione professionale relativa allarete turistica ha previsto la realizzazione di due corsi: Ani-matori Turistici e Guide Turistiche ai Beni Culturali, conl’obiettivo di formare professionalità in grado di attivaree promuovere circuiti turistici tradizionali e innovativi.Inoltre, in entrambi i casi sono stati accuratamente inda-gati gli strumenti che la legislazione nazionale pone incampo per favorire la possibilità concreta di creareimpresa, formando competenze necessarie all’organizza-zione di visite didattiche, soggiorni vacanza, eventi turi-stici e alla tutela e valorizzazione del patrimonio cosid-detto “minore”.

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Le iniziative relative ai settori artigianato e agricoltu-ra si sono sviluppate su numerosi fronti. Innanzitutto, l’o-pera di animazione e sensibilizzazione nei confronti deipiccoli imprenditori locali, agevolata dalla intermedia-zione delle associazioni di categoria che è proseguitacostantemente. Contemporaneamente il Gal ha realizza-to, attraverso un’indagine sul campo e presso Enti e Isti-tuzioni, una rilevazione qualitativa e quantitativa delleimprese agricole e artigiane esistenti nell’area. L’attivitàin questione ha rappresentato la premessa alla nascitadell’Agenzia Informaimprese, che svolge anche attività diorientamento per i giovani, e uno sportello telematiconel comune di Lacedonia.

Inizialmente le azioni previste erano orientate allapromozione e al sostegno per la conversione all’agricol-tura biologica e in questa fase è emersa anche la necessitàdi adottare le opportune certificazioni di qualità.Successivamente l’iniziativa è però evoluta in altra dire-zione portando alla nascita del Consorzio ProduttoriAgricoli Irpini (CoPAI). La consapevolezza - recente-mente acquisita - delle potenzialità di sviluppo del setto-re zootecnico e caseario e la possibilità di accedere a nuo-vi mercati superando modalità artigianali e semi-som-merse sono gli elementi che hanno rappresentato leprincipali motivazioni all’associazionismo9. Il CoPAI è ilrisultato della scelta di investire in un progetto sinergicoe complessivo, piuttosto che procedere attraverso eroga-zioni “a pioggia” a favore delle piccole imprese agricoledell’area: “diffondere” finanziamenti avrebbe garantitoun più ampio consenso all’iniziativa, producendo, però,risultati a breve termine.

Altri due corsi di formazione professionale, quello diRestauratore di beni librari e quello di Operatori della

9 A giocare un ruolo fondamentale è stato anche il valore del le-game sociale, dei vincoli familiari, in altre parole la speranza di garan-tire in tal modo il “passaggio generazionale”. I figli “istruiti” si rifiuta-no di continuare il mestiere dei padri. La struttura moderna e inno-vativa, la possibilità di svolgere un’attività interessante e remunerativa,gestita secondo criteri di elevata tecnologia produttiva hanno fatto sìche nel CoPAI siano state coinvolte anche le nuove generazioni. Sul-l’esperienza del CoPaI si veda l’interessante lavoro di Celano, 2001.

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tessitura con tecniche tradizionali, hanno rappresentatola fase iniziale delle azioni programmate nell’ambito del-l’artigianato. Nelle sale del Castello Ducale di Bisacciaalcuni giovani, la maggior parte dei quali dell’Alta Irpi-nia, con l’aiuto del Gal, hanno dato vita a laboratori dipietra e ceramica, legno, restauro del libro, fotografia etessitura con tecniche tradizionali. In tal modo, graziealle botteghe, hanno potuto avviare un’attività redditiziasvolgendo un lavoro che si fonda sulla creatività e sullapassione e che consente loro di “restare a casa”10.

Il Leader è sicuramente una delle prime iniziativecomunitarie che, per le sue caratteristiche, coniuga lepolitiche bottom up ai processi di sviluppo relativi allezone rurali. L’attenzione particolare nei confronti di areegeneralmente caratterizzate da gravi situazioni di disagiosi concretizza, attraverso la Cooperazione Transnaziona-le, nell’elaborazione di strategie per la produzione dibeni e servizi che garantiscano un rinnovato impulso allosviluppo rurale, attraverso la creazione di una rete diattori che agiscono ad una scala ben più ampia11.

10 Non è ancora possibile quantificare in termini precisi l’occu-pazione raggiunta; è certo, tuttavia, che il fermento prodotto dall’ini-ziativa ha indotto molti giovani a porsi diversamente di fronte al lorofuturo. Gli esempi d’imprese e attività di successo e la crescentedomanda di competenze professionali necessarie alla definizione del-le nuove politiche di pianificazione territoriale, che spesso sono acqui-site all’esterno, costituiscono lo stimolo adatto. La maggior parte deigiovani che ho incontrato ha manifestato il desiderio e la volontà dinon lasciare il proprio paese. Se per alcuni il lavoro in fabbrica è giàuna prospettiva importante, altri vi hanno volontariamente rinuncia-to credendo nelle possibilità di una propria attività imprenditoriale.Altri, meno giovani, che dopo aver lavorato fuori sono ritornati, sonooggi spesso un punto di riferimento nella comunità rispetto alla nuo-va visione del territorio.

11 I due progetti riguardano la creazione di una rete dicommercializzazione di prodotti locali e una serie d’iniziative in gra-do di consolidare il rapporto tra scuola e ambiente rurale. Va ancherilevato che la Cooperazione Transnazionale non è obbligatoria nellarealizzazione dei Pal di Leader II: la presenza di ben due progetti dicui il Gal Cilsi è stato capofila evidenziano l’intenzione degli attori delprogetto di non trascurare un aspetto fondamentale come la messa inrete di esperienze, azioni, progetti, soluzioni innovative, dialogandocostantemente con i soggetti e le realtà territoriali che presentanocaratteristiche socioeconomiche e culturali simili.

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4. Il valore aggiunto territoriale

In un contesto, come quello irpino, caratterizzatogeneralmente da forme di territorialità passiva, l’azionesinergica che deriva dall’attivazione di un progetto radi-cato attribuisce valore aggiunto al territorio e al proget-to: nelle strategie poste in atto si delinea il concetto diautonomia del locale che si accompagna ai primi indizidi territorialità attiva, producendo valore aggiunto terri-toriale (VAT) (Dematteis, 2001; Governa, 2001; Sommel-la, 2003).

Nel nostro caso di studio il VAT, prodotto dalle inizia-tive realizzate dalla rete dei soggetti locali, emergesoprattutto in termini di radicamento: i progetti conside-rati, risultato dell’interazione tra reti corte e lunghe conle componenti del milieu, hanno attribuito valore al ter-ritorio proprio in virtù delle specificità e potenzialità cheil progetto (ma il riferimento è in senso lato a tutte le atti-vità intraprese) è stato in grado di mobilitare (Dematteis,2001).

Il VAT che questo intervento evidenzia è direttaconseguenza di un processo che ha saputo coniugare lavalorizzazione delle specificità ambientali al patrimoniodi cultura e saperi codificati, nella prospettiva consape-vole che tale relazione può innescare processi virtuosi disviluppo locale duraturo e sostenibile. Si tratta di un’a-zione territorializzata perché risultato dell’attività di unarete locale che impiega attivamente, valorizzandole,risorse e peculiarità territoriali: “il progetto usa il territo-rio; contemporaneamente lo valorizza, lo riproduce”(Dematteis, Governa, 2001, p. 8). Le aree marginali, inol-tre, possono rappresentare il laboratorio privilegiato perla realizzazione di politiche di sviluppo endogeno ispira-te alla sostenibilità nonché al concetto di VAT nel suosignificato “forte” (Dematteis, 2001; Sommella, Viganoni,2001).

In Alta Irpinia, il radicamento e il successo delleiniziative, hanno sicuramente dato rinnovato vigore allerelazioni sociali fondate sulla fiducia e al nuovo rapportotra la comunità locale e il territorio. In quest’area, soprat-tutto nell’ultimo decennio, sono emersi numerosi fattoriin grado di attivare capitale sociale territoriale (Loda,

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2003): l’interessante dinamismo imprenditoriale endoge-no che nasce dal potenziamento e dalla valorizzazionedelle risorse locali e si fonda, talvolta, su forme consorti-li dai caratteri assolutamente innovativi; un nuovo ruolodi coordinamento delle istituzioni locali; la possibilità diaccedere a numerosi finanziamenti sia nazionali cheeuropei (la novità consiste nell’utilizzo di tali fondisecondo standard qualitativi e quantitativi elevati).

Ad accrescere il valore aggiunto contribuisce il pro-cesso di integrazione tra i vari progetti che insistono sulterritorio e che evidenzia, al contempo, la capacità disaper utilizzare al meglio le opportunità offerte dai varistrumenti che coinvolgono e attivano i diversi livelli ter-ritoriali. Un processo in itinere che annovera tra i punti didebolezza la difficoltà alla circolazione di informazioni eil coinvolgimento diffuso delle comunità locali ai fini diun progetto integrato e complessivo.

5. La nuova rappresentazione del territorio

L’immagine e soprattutto le “prospettive per il futu-ro” che connotano l’area evidenziano segnali di cautoottimismo, temperati dalla consapevolezza che i proble-mi strutturali dell’economia irpina vanno risolti in frettae adeguatamente12.

“Il Pal Terre d’Irpinia è uno dei volti della provinciache cambia, una storia da raccontare perché il fermentonon si fermi e le idee non cedano il passo al disimpe-gno”13. É inutile sottolineare che l’attività svolta e gli ele-menti che hanno portato ad evidenziare in questi luoghila presenza di uno SLoT necessitano di un lungo percor-so se s’intende dar seguito a quel processo che, avendo

12 La rappresentazione emerge dai questionari somministrati adattori privilegiati dei processi di sviluppo in atto, come il Sindaco diMorra De Sanctis, il Presidente del Cresm, il Vice Presidente della Pro-vincia, un amministratore della Comunità Montana. Ho rivolto, però,numerose domande anche alla gente comune, le cui impressioni, sen-sazioni, aspirazioni restituiscono l’immagine più vera dell’Alta Irpinia.

13 È quanto afferma uno dei giornalisti chiamati al Convegnoconclusivo del Leader per dare una “valutazione” dell’esperienza.

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iniziato da poco a farsi strada, si propone di stimolare efar emergere le spinte dal basso. Un processo dinamico,che non avrà solide basi se non saranno coinvolti stratisempre più ampi della società civile e non saranno effet-tivamente affrontate le ragioni vere dell’arretratezza diquesti luoghi.

Intanto in un territorio da sempre identificato con lestereotipate categorie della marginalità, prima, e dell’in-tervento post-sismico, poi, emergono nuove forme diautorappresentazioni locali che si traducono in autorap-presentazioni collettive di tipo progettuale, “altamenteperformative” perché profondamente radicate nelle“prese” del milieu14. Si tratta di descrizioni del territorioche incorporano il concetto di sostenibilità e di VAT ingrado di costruire una nuova immagine condivisa dal-l’interno prima che dall’esterno (Dansero, 2001)15.

L’autorappresentazione e la nuova visione strategicadel territorio che tenta di affermarsi ai differenti livelliterritoriali pone l’accento sulla volontà di investire nellepotenzialità del territorio, sulle risorse locali materiali eimmateriali (con un’attenzione particolare al capitaleumano), privilegiando settori a più alto valore aggiuntocome l’agroalimentare (biologico, di qualità e ricono-sciuto), e il turismo culturale, enogastronomico, religio-so e rurale e garantire in tal modo lo sviluppo socio-eco-nomico dell’area, evitando soprattutto l’emigrazione“qualificata”.

In Alta Irpinia, il Piano di Azione Locale ha datomaggiore visibilità a una classe dirigente che, come rilevaBonomi, pratica “la cultura dolce dell’accompagnamen-

14 Spesso, proprio le aree considerate periferiche e marginali, for-se anche in virtù del fatto che non presentano rappresentazioni terri-toriali “vincolanti”, sono in grado di produrre nuove forme di auto-rappresentazione, espressione, come in questo caso, di strategie di svi-luppo che producono condivisione e i primi processi di territorializ-zazione endogena (attiva) e positiva (Sommella, Viganoni, 2001). Sultema anche gli interventi di Dematteis, 2001; Governa, 2001; Guarra-si, 2001.

15 Si pensi al ruolo di Legambiente e di altre associazioniambientaliste nei progetti in atto nell’area: “soggetti trasversali” la cuipresenza è indice, se non garanzia, della volontà di introdurre ele-menti di sostenibilità.

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UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE DELLE AREE INTERNE: L’ALTA IRPINIA

to” ed è espressione “del modello del glocale, del modellodelle preesistenze e dei saperi contestuali” (Bonomi,2000, pp. 36-37). Questo concetto richiama immediata-mente un altro elemento essenziale: le strategie attuateevidenziano la volontà di promuovere la stretta e costan-te interconnessione tra la dimensione locale e quella glo-bale, realizzata nel continuo dialogo tra reti corte e lun-ghe, per evitare forme di chiusura caratterizzate da con-servazione, esasperato individualismo, “autoesaltazione”che distruggono, anziché produrre, il capitale sociale econducono all’implosione del sistema.

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Relazioni verticali, capitale sociale e sviluppo locale:il distretto conciario di Solofra

Mirella Loda

Nel dibattito sullo sviluppo locale da una decina d’an-ni a questa parte l’attenzione degli osservatori si è spostata,com’è noto, dallo studio dei fattori mercantili a quello deifattori non mercantili. Un interesse particolare hanno de-stato recentemente le diverse forme di cooperazione che siinstaurano fra operatori economici (o fra imprese edorganismi istituzionali ecc.) ed in generale il costituirsi direti di attori locali, in cui si tende a riconoscere lo stru-mento principe in grado di attivare il potenziale di svilup-po endogeno, o di implementare gli obiettivi di Agenda 21.

L’analisi dei fattori non mercantili presenta tuttavianumerose difficoltà, sia sul piano della concettualizzazio-ne, sia su quello del rilevamento empirico. Tali difficoltàsono ben esemplificate dai risultati spesso altamente for-malizzati ma scarsamente significativi delle analisi di rete,come pure dalla messa in campo di concetti come“milieu”, come “sistema territoriale”, che scontano tuttal’indeterminatezza concettuale e la difficilissima opera-zionalizzazione di categorie come “tradizione”, “cultura”(o i concetti derivati di “cultura politica”, “cultura ammi-nistrativa”)1, alle quali necessariamente rimandano.

1 Sui problemi di definizione del concetto di “cultura” in rela-zione all’analisi del rapporto fra cultura ed economia si veda Di Mag-gio (1994).

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MIRELLA LODA

A queste difficoltà non sfugge neanche il filone di ri-cerca impostato sul concetto di “capitale sociale”, che, si-stematizzato per la prima volta da James Coleman2, hasuscitato interesse in Italia specialmente dopo che il notolibro di Putnam sul rendimento istituzionale delle Regio-ni italiane (Putnam, 1993) ne faceva la chiave di volta perspiegare l’arretratezza delle regioni meridionali rispettoa quelle del centro-nord. A partire da quel momento si èavviato un ampio dibattito esteso a tutte le scienze socia-li, che ha mostrato i limiti del concetto, ma anche le suepotenzialità ed i molteplici agganci con la tematica dellosviluppo locale3.

Allo stato attuale sono tuttavia ancora poco numero-si gli studi mirati a sondare la traducibilità in termini ope-rativi del concetto di capitale sociale: nelle pagine cheseguono illustreremo gli esiti di una ricerca sul distrettoconciario di Solofra (AV), che si propone di verificare inche misura il concetto di capitale sociale consenta dicogliere alcune dinamiche cruciali di quella realtà,inquadrandole nella più generale problematica dello svi-luppo locale.

2 Peraltro Coleman mostra innanzitutto il carattere complesso edifficilmente inquadrabile dal punto di vista disciplinare di questoconcetto: “Social capital is a more general term. As a concept in socialscience, it falls neither within the main body of economics nor withinthe main body of sociology. It contains components from each thatare foreign to the other. The term ‘capital’ as a part of the conceptimplies a resource or factor input that facilitates production…Theother half of the concept, ‘social, refers in this context to aspects ofsocial organization, ordinarily informal relationships, established fornoneconomic purposes, yet with economic consequences” (Coleman,1994, p. 175). Cfr. anche Coleman (1988). Le origini del concetto ven-gono ricondotte alle riflessioni di Lyda Judson Hanifan sulle ragionidell’arretratezza della Virginia occidentale all’inizio del ‘900. Il con-cetto è stato da lui impiegato per la prima volta in uno scritto del1916, cfr. Putnam (2001), p. 17.

3 Gli effetti positivi, in chiave strettamente economica, di azionicooperative fra imprenditori sono al centro della teoria dei costi ditransazione (Williamson, 1975). Su un terreno più generale si situanole argomentazioni della teoria dei giochi (dilemma del prigioniero),sottolineando gli effetti positivi di un comportamento cooperativo intempi medio-lunghi (Schrader, 1990).

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RELAZIONI VERTICALI, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO LOCALE

La ricerca si inserisce nel solco di un precedente stu-dio comparativo (Loda, 2001b) sulle diverse modalità diapplicazione della normativa sui reflui industriali (leggeMerli, n. 319/1976) in quattro sistemi produttivi locali(fra cui i distretti conciari di Solofra e di S. Croce sul-l’Arno-PI), nonché sulla relazione fra modalità di appli-cazione e andamento del sistema produttivo. Quello stu-dio aveva evidenziato alcune significative differenze diapplicazione tra i sistemi locali che prefiguravano piùgenerali diversità nel modo di regolazione, solo provviso-riamente concettualizzabili in termini di diversità di “cul-tura amministrativa” (per quanto riguarda Solofra, di“cultura amministrativa particolaristica”). La presentericerca imperniata sul concetto di capitale sociale va inte-sa quindi anche come approfondimento di quello studioper quanto concerne l’analisi del contesto socio-cultura-le in cui le diverse modalità di applicazione della leggeMerli si inserivano.

Più precisamente la ricerca si propone di fornirerisposta ai seguenti interrogativi:

I) in che misura le dinamiche “recenti” di quel di-stretto conciario sono interpretabili come sedimen-tazione di capitale sociale;

II) in che misura la gestione di relazioni verticali4

(gestione dei reflui industriali, controllo del ciclo delleacque) si configura come un’esperienza collettiva decisi-va per tale sedimentazione;

III) in che misura l’eventuale sedimentazione dicapitale sociale costituisce una variabile strategica per iprocessi di crescita economica e di sviluppo del distretto.

1. Il contesto solofrano

Il distretto conciario di Solofra – come ufficialmentedelimitato dalla Regione Campania5 – comprende icomuni di Solofra, Serino, Montoro Superiore e Monto-

4 Per una definizione di relazioni verticali si veda Dematteis, Lan-za (1991, p. 2).

5 Con deliberazione n. 59 del 2 giugno 1997 in applicazione del-la legge 317 del 1991.

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MIRELLA LODA

ro Inferiore, tutti compresi nella provincia di Avellino,per complessivi 114 kmq ed una popolazione residente di34.500 abitanti (al 1993)6. Il fulcro del distretto è rappre-sentato dal comune di Solofra, in cui la concia delle pel-li, grazie all’abbondanza di acqua di ottima qualità e alleforeste di castagni da cui estrarre tannino, venne intra-presa fin dal ‘500, inizialmente come attività collateraleall’allora ben più rilevante lavorazione dell’oro, che per-veniva alla cittadina avvolto in involucri di pergamena(Bricchetti, 1984). L’espansione su vasta scala del settoreconciario si verifica nel corso dell’800 e soprattutto del‘900, ma il vero e proprio decollo industriale si situaattorno agli anni Sessanta e Settanta del ‘900, grazie allaforte espansione della domanda interna ed internazio-nale ed alla concomitante imposizione di normative am-bientali negli altri paesi europei produttori (Francia,Germania, Belgio), che determina l’abbandono da partedi quei paesi di importanti quote di mercato ed un forteaumento della quota italiana sul mercato internazionaledella concia delle pelli7. Attualmente nel distretto, spe-cializzato nella concia ovi-caprina al cromo, operanocomplessivamente 570 aziende manifatturiere, di cui cir-ca 300 nel settore conciario8 e lavorazione pelli, con3.500 addetti: le aziende sono interconnesse da intensirapporti di subfornitura e configurano un’integrazionesistemica.

L’intenso sviluppo del dopoguerra ha tuttavia provo-cato un forte impatto sulle risorse ambientali, e special-mente sulle risorse idriche, che giocano un ruolo decisi-vo nel ciclo produttivo conciario. Ciò nonostante l’indu-stria conciaria italiana ha potuto operare sino alla metà

6 Dati forniti dalla Regione Campania, Assessorato all’Industria.7 In quegli stessi anni la costruzione della superstrada che colle-

ga Avellino a Salerno, completata in soli 4 anni fra il 1964 ed il 1968,consentì di cogliere appieno la congiuntura positiva.

8 Nel solo comune di Solofra si contano 157 aziende conciariesedi di processo chimico (oltre a 61 laboratori chimici). Si tratta perlo più di piccole e medie aziende (la dimensione media è di 12,6addetti) che hanno realizzato un’elevata divisione del lavoro (consen-tita dalle caratteristiche tecniche del ciclo produttivo conciario). Ildistretto realizza un fatturato di circa 3.000 miliardi di lire (al 2001),di cui circa 2.500 attraverso l’esportazione.

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RELAZIONI VERTICALI, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO LOCALE

degli anni Settanta in un sostanziale vuoto legislativo perciò che riguarda le normative antinquinamento. Un pri-mo importante segnale in direzione della tutela dellarisorsa idrica giunge solo con l’approvazione della leggeMerli: la legge, che stabiliva severi parametri per la pre-senza di inquinanti nei reflui, a seguito di numerose pro-roghe divenne definitivamente operativa a partire dal30.6.1980.

La legge Merli9, com’è noto, mise di fatto fuori leggela quasi totalità delle aziende operanti nei distretti con-ciari, imponendo alle imprese, ma anche alle forze sin-dacali e agli enti locali, la ricerca di soluzioni per un pro-blema che fino a quel momento era stato ignorato. I tem-pi e le modalità con cui il problema è stato affrontato10

variano però grandemente da un distretto conciarioall’altro.

Nel distretto conciario di Santa Croce il problemaambientale era stato percepito ed affrontato anche se informa embrionale già nei primi anni Settanta. In quellasede l’approvazione della legge Merli innescò peraltrouna complessa serie di interazioni dalle quali, pur attra-verso conflitti e contraddizioni, scaturì tempestivamenteuna gestione consortile degli interventi di disinquina-mento e, per questa via, un vero e proprio nuovo modo

9 La legge Merli è stata abrogata espressamente all’art. 63 deldecreto legislativo 11.5.1999 n. 152 recante “Disposizioni sulla tu-tela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva91/271/CEE”.

10 A tutt’oggi non possiamo considerare la legge Merli piena-mente applicata, poiché sia il distretto conciario di Solofra che quellodi S. Croce sull’Arno operano in deroga alla legge Merli per quantoriguarda i parametri relativi ai cloruri e ai solfati, grazie a provvedi-mento rispettivamente della Prefettura di Napoli (1997) e del Consi-glio Regionale della Toscana (1991). Va peraltro ricordato che l’ap-provazione della legge Galli (L. 36/1994), che regolamenta la gestio-ne delle acque attraverso i servizi idrici, e più recentemente il cosid-detto nuovo “testo unico sulle acque” (decreto legislativo 11.5.1999, n.152, recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamentoe recepimento della direttiva 91/271/CEE”) hanno comportato unrovesciamento della filosofia di fondo della legge Merli. Ma, in attesadella complessa riorganizzazione necessaria per l’applicazione dellanuova normativa, la legge Merli continua a rappresentare l’unico rife-rimento normativo per le amministrazioni.

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di regolazione del sistema locale improntato ad una col-laborazione pubblico-privato11.

Nel caso di Solofra l’applicazione della legge Merliha conosciuto invece tempi e modi più incerti. La deci-sione iniziale di concepire e realizzare i depuratori entroil PS312, spostando l’asse decisionale ed operativo dallivello locale a quello centrale (Cassa per il Mezzogior-no), è stata certamente la causa principale dei gravissimiritardi nella realizzazione delle opere. Un altro snododecisivo per intendere i tempi e i modi di applicazionedella normativa sui reflui industriali a Solofra va tuttaviaricercato in fattori di ordine culturale in senso lato, e piùprecisamente nell’impasse generata localmente dall’in-treccio fra lo spiccato individualismo che orienta l’azio-ne dell’imprenditoria solofrana da un lato, e una gestio-ne della cosa pubblica ancora complessivamente parti-colaristica da parte della Pubblica Amministrazione dal-l’altro.

La soluzione consortile, attraverso cui venne realiz-zato il depuratore chimico-fisico a Solofra, dette i primirisultati nella seconda metà degli anni Ottanta, con unadecina d’anni di ritardo rispetto al distretto conciario diS. Croce. In altra sede abbiamo discusso come tale ritar-do – per quanto incamerato come vantaggio economicoimmediato da parte di singole aziende – si traducesse inuno svantaggio relativo per il sistema produttivo solofra-no considerato nel suo complesso in confronto a quellodi S. Croce, e come per converso la tempestività e la capa-cità di produrre soluzioni anticipatorie rispetto alla nor-mativa conferissero a quest’ultimo distretto un maggiorepotenziale innovativo (Loda, 2001b).

In questa sede vorremmo invece approfondire ladiscussione riguardo alle ragioni che, nel caso di Solofra,hanno a lungo ostacolato una definitiva soluzione del

11 Al riguardo è molto interessante la ricostruzione di quelle vi-cende effettuata dall’ex sindaco di S. Croce Alfio Puccini (cfr. Pucci-ni, 2000). Per una rilettura di quelle vicende alla luce della teoria del-la scuola della regolazione cfr. Floridia (1994).

12 Si tratta del Piano di Risanamento del Golfo di Napoli impo-stato urgentemente dalla Cassa per il Mezzogiorno dopo che un’epi-demia di colera aveva colpito nel 1972 la città di Napoli.

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RELAZIONI VERTICALI, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO LOCALE

problema. Al riguardo un primo filone argomentativopoteva essere individuato, come abbiamo visto, sulla sciadel concetto di “cultura amministrativa”. In base alleinformazioni e alla documentazione raccolte sul campo,le modalità di applicazione della legge Merli adottate dal-la Pubblica Amministrazione locale potevano esseredescritte nei termini di “cultura amministrativa particola-ristica”, intesa come forte permeabilità di settori crucialidell’amministrazione locale alle esigenze di gruppi del-l’imprenditoria conciaria, che portò inizialmente a per-seguire una semplice politica dei “pannicelli caldi”13 e aduna certa tolleranza verso comportamenti illeciti. In que-sto senso la posizione non sufficientemente autonomadella sfera politico-amministrativa rispetto a particolarisettori o gruppi di interesse ostacolava la ricerca di so-luzioni ottimali per il distretto nel suo complesso. A S.Croce, invece, il radicamento di una cultura amministra-tiva più chiaramente orientata verso forme di coopera-zione estesa produceva soluzioni di tipo proattivo14.

In realtà tale schema interpretativo pone moltepliciproblemi. Innanzitutto il ricorso alla categoria concet-tuale di “particolarismo” incorre nella difficoltà di defi-nire adeguatamente l’ampiezza dell’universo pertinente“relativamente al quale” stabilire le dimensioni dell’unitàcui sono attribuiti orientamenti particolaristici. Senzatale definizione “popolazionale”, come ha osservatoAntonio Mutti (1996, pp. 503-505), si rischia di caderenelle trappole di una concezione dualistica (particolari-stica/universalistica) dell’azione. Quale dovrebbe essereinfatti l’universo pertinente rispetto al quale l’azione del-la Pubblica Amministrazione solofrana in applicazionedella Merli poteva essere definita particolaristica? La

13 Le espressioni fra virgolette contenute nel testo e nelle note, senon altrimenti specificato, sono tratte dalle interviste.

14 Con riferimento alle imprese, Dansero definisce “proattivi” glistrumenti “volti alla promozione di una nuova modalità di approccioimprenditoriale all’ambiente, teso ad anticipare le norme per guada-gnare un vantaggio competitivo nei confronti delle imprese chedovranno adeguarsi in seguito. In sintesi essi inducono l’industria afarsi parte attiva di un processo di eco-ristrutturazione dell’econo-mia”, cfr. Dansero (1996), p. 50.

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comunità solofrana in senso stretto? La comunità cheinsiste sulla più ampia area distrettuale, in gran partesituata a valle degli impianti produttivi e quindi più espo-sta all’impatto ambientale da questi prodotto? L’universoimprenditoriale conciario?

In secondo luogo un siffatto schema interpretativopresenta il problema di rimandare necessariamente acategorie esplicative di tipo culturale che, come tali,affondano le loro radici nelle inestricabili vicende stori-che di epoche remote. Per questa via si è incamminato adesempio Robert Putnam (1993), il quale propone unalettura del contesto socio-politico meridionale nei termi-ni di eccesso di individualismo e carenza di “civicness”(come forma specifica di capitale sociale), a loro voltariconducibili all’esperienza gerarchica ed autocratica delMezzogiorno nel periodo normanno, contrariamenteall’esperienza dei liberi comuni vissuta dalle regioni cen-tro-settentrionali. Si tratta di una linea interpretativa che,nell’intento di risalire il corso della storia, lascia necessa-riamente sullo sfondo il momento presente, svalutandol’azione degli attori e non consentendo in definitiva dicogliere e concettualizzare eventuali momenti di cambia-mento (su questo punto torneremo più diffusamente nelprossimo paragrafo).

Proprio queste ragioni limitano fortemente la forzainterpretativa dello schema logico basato sulla categoriadella “cultura amministrativa particolaristica”, quantomeno nella sua applicazione al caso solofrano. Se infattiil confronto con S. Croce, relativamente all’applicazionedella legge Merli, aveva messo in luce la persistenza nellacultura amministrativa solofrana di elementi riconducibi-li ad un modello particolaristico, numerose informazioniraccolte durante la ricerca sul campo – quali ad esempioil sedimentarsi di profili di eccellenza professionale nellaPubblica Amministrazione, oppure la crescente doman-da di interlocutori istituzionali qualificati dal parte del-l’imprenditoria locale – fornivano segnali che sfuggivanoa quello schema interpretativo, dando piuttostol’impressione che la realtà solofrana fosse attraversata inquella fase da importanti correnti di trasformazione eche le vicende recenti stessero giocando al riguardo unruolo decisivo.

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RELAZIONI VERTICALI, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO LOCALE

Tali trasformazioni, più che in termini di culturaamministrativa cui il concetto di particolarismo comun-que rimanda15, potevano essere utilmente concettualizza-te in termini di capitale sociale, a patto di intenderlo insenso più dinamico e meno storicamente condizionato diquanto avesse fatto Putnam.

2. Gli obiettivi della ricerca

Il dibattito apertosi in Italia nell’ultimo decenniooffre numerose indicazioni per un approfondimento delconcetto di capitale sociale e per un recupero della ver-sione originaria del concetto proposta da James Cole-man. A partire dalla teoria della scelta razionale16 emer-ge un approccio particolarmente interessante al concettodi capitale sociale, che dovrebbe essere caratterizzato daquattro aspetti: il capitale sociale andrebbe consideratocome risorsa collettiva anziché come risorsa individuale(Bagnasco, 1999; Piselli, 1999); il capitale sociale dovreb-be essere valutato in termini situazionali (cioè relativa-mente al contesto storico-territoriale) e non relativamen-te a valori assoluti (Piselli, 1999); il capitale socialedovrebbe essere concepito come fattore dinamico (cioèmodificabile attraverso l’azione politica) e non comedotazione fissa di disponibilità alla cooperazione (Ba-gnasco, 1999; Trigilia, 1999); infine il capitale sociale do-vrebbe venir concepito come capacità degli attori socialidi realizzare progetti pratici (Piselli, 1999).

15 Il problema del rimando al complicatissimo concetto di cultu-ra si ripropone a nostro avviso anche adottando l’ipotesi che la realtàsolofrana possa rappresentare un esempio di quelle forme che Anto-nio Mutti definisce di “particolarismo più debole e inclusivo che, purfissando necessariamente dei confini con l’esterno al fine di distin-guere un’associazione o una comunità dall’altra, non rifiuta il con-fronto, e quindi la relativa apertura, con ciò che sta al di là di tali con-fini. Le comunità identificanti degli attori rivelano un’attitudine aldialogo e alla cooperazione con altre comunità, anche con quellegovernate da norme e standard più generali” (Mutti, 1996, p. 509).

16 Per una rassegna del dibattito sul capitale sociale e unapprofondimento rispetto all’approccio teorico e metodologico adot-tato in questo studio ci permettiamo di rimandare a Loda (2003).

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Una volta precisato il quadro teorico, si tratta tuttaviadi chiarire come il concetto di capitale sociale così defi-nito possa essere tradotto in termini operativi per l’anali-si di un caso concreto, e di verificare sino a che puntoesso consenta di cogliere elementi essenziali per le dina-miche di sviluppo della realtà considerata.

Ritornando al caso di Solofra, nel paragrafo prece-dente abbiamo visto come la questione dei reflui indu-striali abbia costituito negli ultimi vent’anni uno snodocruciale attorno al quale si sono strutturate le dinamichefondamentali per quel sistema territoriale. Abbiamo vistoinoltre come le difficoltà del sistema locale a produrresoluzioni tempestive e coordinate al problema dei refluiindustriali si sia tradotto in uno svantaggio economicocomplessivo per Solofra rispetto al distretto di S. Croce, ecome quelle difficoltà venissero ricondotte dagli osserva-tori ad uno spiccato individualismo e a tendenze partico-laristiche della Pubblica Amministrazione. Al tempo stes-so abbiamo notato come una concezione culturalista à laPutnam del capitale sociale, se anche fosse riuscita a“spiegare” le origini di una cultura amministrativa parti-colaristica, non avrebbe però consentito di concettua-lizzare nello stesso quadro teorico i molteplici segnali dicambiamento che pure il sistema territoriale nel suocomplesso mostrava.

Orientandoci invece verso un concetto dinamico esituazionale di capitale sociale, i segnali odierni di cam-biamento del sistema solofrano divengono concettual-mente conciliabili con un contesto ancora segnato da ele-menti particolaristici, ed anzi divengono l’elementonodale su cui appuntare l’attenzione per cogliere aspetticruciali di quel sistema territoriale.

Riprendendo gli interrogativi I, II e III formulati inapertura, abbiamo quindi costruito uno schema di anali-si che puntava a verificare se l’insieme delle azioni edinterazioni attivate negli ultimi venti anni per risolverel’impatto del ciclo produttivo sulle risorse idriche confi-gurassero un’esperienza collettiva di rilievo in grado di:

- rinforzare negli attori locali la capacità di “far rete”ed in generale l’orientamento verso forme di coopera-zione estesa (interrogativo I: formazione recente di capi-tale sociale);

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RELAZIONI VERTICALI, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO LOCALE

- attivare orientamenti maggiormente sensibili ad unagestione sostenibile della risorsa idrica (interrogativo II:gestione tendenzialmente “sostenibile” di risorse verticali);

- agevolare la capacità del sistema locale di porsicome soggetto autonomo in relazione a percorsi di svi-luppo (interrogativo III: capitale sociale come risorsastrategica per la “autorganizzazione” del sistema locale).

Si è poi ritenuto che un utile indicatore in grado dirilevare la capacità degli attori locali di “far rete” potesseessere individuato nell’eventuale predisposizione da par-te del sistema locale di progetti strategici: essi presuppon-gono infatti la capacità degli attori locali di individuareun obiettivo comune e di coordinarsi per il suoraggiungimento. Sul piano metodologico il funziona-mento della rete attivata per la predisposizione e/oimplementazione di piani strategici diviene la cartina ditornasole in grado di rilevare l’aumento (o la diminuzio-ne) di capitale sociale17 rispetto alle prime fasi di attua-zione della legge Merli.

L’analisi della rete è stata condotta considerandonegli aspetti strutturali (densità, intensità, durata), maanche ricostruendo la storia della sua formazione, cer-cando di cogliere il significato dell’esperienza preceden-temente acquisita dagli attori nella rete che ha gestito ireflui industriali, sia direttamente (es. soggetti attivi inentrambe le reti), sia indirettamente (sensibilizzazione sutematiche ecologiche, relazioni fiduciarie fra gli attori).Si è inoltre cercato di rilevare le concezioni di sviluppoche orientano l’azione degli attori, soprattutto dal puntodi vista del ruolo assegnato a fattori quali l’autorganizza-zione e del rapporto fra obiettivi economici e risorseambientali (relazioni verticali).

La ricerca è stata condotta attraverso una serie diinterviste a soggetti attivi nella predisposizione e nell’im-

17 In questo modo si è privilegiato un indicatore “visibile” ed “in-terno” alla dinamica politico-amministrativa. Forme di cooperazioneed autorganizzazione rilevanti per lo sviluppo locale possono tuttaviaessere pensate anche all’esterno di tale dinamica (cfr. i contributi diMarina Marengo e Giulia De Spuches al seminario SLoT di Torinodell’ottobre 2001).

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plementazione dei piani e ad osservatori privilegiati18. Siè inoltre esaminato il materiale prodotto per la pre-parazione dei piani nonché i piani strategici stessi19.

3. Gli esiti della ricerca

Come abbiamo visto, l’applicazione della legge Mer-li e la gestione dei reflui industriali è stata a Solofra piùlenta e difficoltosa che a S. Croce. Tuttavia, date le lun-gaggini connesse alla trattazione del problema solofranonell’ambito di un piano comprensoriale molto più ampio(PS3), nonché per la pressione rappresentata dalleminacce di chiusura degli impianti produttivi da partedella magistratura, gli imprenditori solofrani si trovarononella necessità di dar vita ad un consorzio (il Codiso20)per la costruzione e la gestione di un impianto di depu-razione a Solofra. Quel consorzio può considerarsi unbuon esempio di associazionismo obbligato, in quanto lasua costituzione è stata sollecitata dai motivi suddetti(oltre che dagli incentivi previsti dalla Merli bis21 per leiniziative consortili), ma il suo funzionamento è stato ini-

18 Sono stati intervistati: il dott. Bianchino, sindaco di MontoroInferiore; il geom. Amedeo Guadagno, presidente dell’Irno Service; ilprof. Guarino, sindaco di Solofra; l’ing. Francesco Maselli, presidentedella Provincia di Avellino e del Comitato di distretto; il dott. Gaeta-no Morrone, membro del Gruppo Tecnico di controllo per l’Alto Sar-no; il dott. Massimo Piano, dirigente della ditta Patrizia e presidentedell’Associazione Conciatori; l’ing. Andrea Raimo, responsabile tecni-co del Codiso; il dott. Scacchi dirigente della ditta Albatros e vicepre-sidente dell’Associazione Conciatori di Solofra.

19 L’analisi degli esiti dell’azione, che costituiscono normalmen-te un elemento di rilievo nelle analisi di rete, non ha potuto essereaffrontata poiché i piani in questione non sono stati ancora im-plementati. Tale analisi non è peraltro decisiva dal punto di vista degliinterrogativi di fondo di questo studio, per i quali la costituzione ed ilfunzionamento della rete di predisposizione dei piani strategici costi-tuiscono un esito significativo in sé.

20 Consorzio Disinquinamento di Solofra. All’amministrazionedel Codiso partecipavano per il 51% il Comune di Solofra, per il re-stante 49% l’Associazione Conciatori. In seguito il Codiso è stato tra-sformato da società consortile in SpA.

21 Si tratta della l. 650/1979.

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zialmente appesantito da un orientamento dell’impren-ditoria locale formulato dagli osservatori in termini dispiccato individualismo (che già aveva fatto fallire altritentativi di esperienza consortile22), e di scarsa fiducia neiconfronti della Pubblica Amministrazione23.

Tuttavia, nonostante la partenza difficile e le nume-rose difficoltà di percorso, il Codiso rappresenta ormaiuna realtà associativa funzionante da 17 anni, attraversola quale i conciatori solofrani non solo hanno risolto ilproblema immediato della propria regolarizzazionerispetto ai dettami della legge Merli, ma hanno anche ini-ziato a dibattere più in generale, e soprattutto da unaprospettiva collettiva, il problema dell’impatto ambienta-le del ciclo produttivo nonché le prospettive future deldistretto conciario. Questa interpretazione – che confer-ma l’ipotesi di fondo espressa al punto a) del precedenteparagrafo – si evince da un’analisi della rete locale attivanella pianificazione strategica.

Fra le varie forme possibili di pianificazione strategi-ca, il sistema solofrano è risultato attivo nella predisposi-zione di un Progetto integrato di distretto, cioè di un Pro-getto Integrato24 esteso ai comuni rientranti nel distrettoindustriale, così come esso è stato individuato e delimita-to dalla Regione Campania in base alla L. 317/1991, isti-

22 Al riguardo viene citato in particolare il fallito tentativo di or-ganizzare in forma consortile l’acquisto delle materie prime. E’ sinto-matico di un rapporto particolarmente circospetto nei confronti del-l’ambiente esterno all’azienda (altri imprenditori, Pubblica Ammini-strazione ecc.) anche il fatto che gli imprenditori solofrani percepi-scano “l’ambiente in cui opera l’azienda” come familiare (nel senso diconosciuto), ma come più cattivo e nemico di quanto accada ai lorocolleghi di S. Croce, cfr. Loda (2001b), p. 148.

23 I rilievi mossi nei confronti della Pubblica Amministrazionelocale riguardavano specialmente la tendenza a sostenere per ragionipolitico-clientelari una gestione burocratizzata, inefficiente e quindiantieconomica del Codiso.

24 I Progetti Integrati definiscono com’è noto una metodologiaper interventi finanziabili con i fondi strutturali della UE. Tali progettipossono essere impostati su base territoriale oppure tematica (di filie-ra). Il Progetto Integrato di distretto costituisce un Progetto Integra-to su base tematica (sviluppo industriale), che assume tuttavia unavalenza territoriale in quanto applicato ai comuni rientranti nel di-stretto.

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tutiva dei distretti industriali. Su questo settore si è per-tanto concentrata la nostra attenzione. Le prime iniziativeper la realizzazione di un piano di distretto sono stateintraprese dall’ex sindaco di Solofra25 il quale, in base adaspettative di consistenti finanziamenti, aveva incaricatol’Agenzia Arpa (Agenzia per la Ricerca e la ProduzioneAvanzata) di Napoli di realizzare uno studio preliminare(A.R.P.A., 2000). Da quello studio era emerso inizialmen-te un “Programma di distretto”, una sorta di “libro deisogni” contenente tutte le possibili linee di intervento sucui operare per lo sviluppo territoriale del distretto. Suquella base si è costituita una rete di soggetti, il Comitatodi distretto26, che è riuscita a definire, con molto anticiporispetto agli altri distretti individuati dalla Regione Cam-pania, il citato Progetto integrato di distretto, ed il “Do-cumento Strategico” che ne rappresenta la prima declina-zione operativa27. Esso costituisce il “precipitato di unanno di lavoro, di discussioni, di confronti, di approfondi-menti, di confronti con altri soggetti, non solo locali, inte-ressati in qualsiasi modo al territorio (società di servizi,Asi, Asl ecc.) oltre che all’Arpac28 e alla stessa Regione”.

25 Si tratta di Aniello De Chiara, figura cruciale nella storia re-cente di Solofra, la cui scomparsa improvvisa e in condizioni dram-matiche nella primavera del 2001 ha originato un importante avvi-cendamento nella gestione politica del comune, che ha contribuitoad accentuare il clima di rapida trasformazione della realtà locale pre-cedentemente descritta.

26 Il Comitato di distretto di Solofra si compone attualmente deiseguenti soggetti: Ing. Francesco Maselli (Presidente della Provinciadi Avellino e Presidente del Distretto Industriale di Solofra); il sinda-co del comune di Solfora; il sindaco del comune di Montoro Supe-riore; il sindaco del comune di Montoro Inferior; il sindaco del comu-ne di Serino; Dr. Costantino Capone (Cciaa. Avellino); Dr. MassimoDe Piano (Unione Industriali di Avellino e Presidente dell’Associazio-ne Conciatori); Dr. Aldo Scacchi (Unione Industriali di Avellino evicepresidente dell’Associazione Conciatori); Dr. Lucio Fierro (CnaAvellino); Dr. Giovanni Guardabascio (A.P.I. Avellino); Sig. RaffaeleLieto (Cgil Avellino); Sig. Antonio Festa (Uil Avellino); Sig. EnricoFerrara (Cisl Avellino); Sig. Michele Cavaliere (Ugl Avellino).

27 Il Comitato di distretto in questione può essere assimilabile aquelle che Störmer definisce “reti di progetto”, distinguendole dallereti finalizzate allo scambio di informazioni e dalle associazioni dicategoria (Störmer, 2002).

28 Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente in Campania.

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Il Documento strategico ha selezionato una serie diprogetti prioritari, sia di parte pubblica che di parte pri-vata, che verranno attivati (secondo un ordine non anco-ra fissato al momento della ricerca) in ragione dei tetti dispesa stabiliti dalla Regione. Fra gli interventi previsti daldocumento viene attribuito un valore strategico ai se-guenti progetti:

1) utilizzo per la produzione conciaria delle acque aciclo chiuso;

2) creazione di un impianto di cogenerazione29;3) investimenti per la formazione di capitale umano;4) misure per la internazionalizzazione e informatiz-

zazione del distretto.

La scelta operata dalla Regione Campania di conge-lare le proposte di investimento elaborate dal Comitatosolofrano sino alla definizione dei documenti da parte ditutti gli altri distretti della regione, e soprattutto il forteassottigliarsi delle aspettative circa l’entità dei finanzia-menti a disposizione di ciascun distretto, hanno tuttaviafatto sì che le aspettative iniziali si stemperassero inun’atmosfera di notevole incertezza: “Noi siamo statitenuti al palo dalla Regione. Due anni fa avevamo pron-to un piano per 80-90 miliardi di lire di investimenti soloconsiderando quelli dei privati! Ora si parla di 50-60miliardi di finanziamento pubblico in cinque anni, perun distretto che ne fattura 3.000 all’anno e quando unamacchina per conceria costa minimo 100 milioni”.

Dal punto di vista degli interrogativi della nostraricerca è tuttavia altamente significativo proprio il fattoche, nonostante svanissero le aspettative di un rientro eco-nomico immediato, non sia venuto meno l’impegno deisoggetti coinvolti nel Comitato di distretto, che continua-no a riunirsi con frequenza regolare all’incirca una voltaal mese. Dall’analisi delle interviste condotte presso i sog-getti attivi nella rete emergono alcuni elementi che ciconsentono di cogliere appieno come il senso del loro

29 L’impianto produrrebbe energia elettrica utilizzando i rifiutidel processo produttivo. Questa voce potrebbe risultare non finanzia-bile con i fondi strutturali della UE, in quanto l’intervento previstonon viene ritenuto fonte di energia alternativa.

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impegno nel Comitato, nonostante l’assottigliarsi dellerisorse finanziarie, sia rilevante per gli interrogativi allabase della nostra ricerca, in quanto conferma il maggioreorientamento verso forme di cooperazione estesa e l’au-mentata capacità di autorganizzazione degli attori locali.

Innanzitutto le interviste mettono in evidenza che isoggetti coinvolti hanno riconosciuto nel Comitato untavolo fondamentale di dialogo e di mediazione fra gliinteressi e le forze in campo, in vista di uno sviluppo com-plessivo del sistema territoriale, che viene percepito daciascun gruppo rappresentato nel Comitato come unvalore aggiunto in sé30.

Ben al di là della logica e soprattutto degli angustimargini finanziari di manovra consentiti dalla normati-va nazionale e regionale sui distretti industriali, il Comi-tato solofrano si sta quindi trasformando in un impor-tante momento di riflessione ed autorganizzazione delsistema locale. In quella sede gli attori stanno affinandovisioni dello sviluppo economico e territoriale ormaimolto distanti dalla logica intrappolata fra attendismo,individualismo e clientelismo tradizionalmente associa-ta al contesto meridionale31. Si stanno invece sperimen-

30 “Non è più come prima, non c’è solo individualismo. C’è un’in-versione di tendenza, si cerca l’effetto sistema. Le aziende hannoimmaginato di fare un progetto che riguardasse l’intero sistema pro-duttivo [l’interlocutore si riferisce alla progettata richiesta di una cer-tificazione ambientale di distretto e alla progettazione di un ciclo inte-grato delle acque a scopi produttivi, M.L.], non la singola azienda.Questo dimostra che c’è un cambiamento di sensibilità, di atteggia-mento”. “Adesso bisogna guardare al sistema complessivamente. Ildistretto deve muoversi come un’entità unica, non come la sommato-ria di 600 imprese che tra di loro non parlano, ma devono essere 600imprese che hanno relazioni, e la forza del sistema è data dalla effica-cia delle relazioni interne che riescono ad instaurare”.

31 “Ci sono le potenzialità per uscire dal torpore, da questa condi-zione marginale del Mezzogiorno, che se vogliamo è un po’ retaggiostorico, frutto di una visione del meridionalismo legata più alla con-cezione centralista dello stato che non alla capacità di auto-promozio-ne dei soggetti locali, quindi allo sviluppo locale, che adesso è esplosa.E’ diventata coscienza comune perché probabilmente è cambiato l’ap-proccio alle questioni dello sviluppo”. “Sapere che oggi lo svilupponasce dal basso ci ha un po’ tutti scossi. Abbiamo preso coscienza chepossiamo fare anche da soli, valorizzando le nostre potenzialità, lenostre risorse e non aspettando che siano gli altri a farlo per noi”.

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tano i percorsi più impegnativi, ma anche più solidi ver-so i quali l’esperienza della contrattazione programma-ta ed in particolare dei patti territoriali stanno avviandomolte realtà del Mezzogiorno (Salone, 1999; Loda,2001a)32.

Le interviste mettono inoltre in evidenza come per ilsistema territoriale solofrano, che fino alla stesura delpiano di distretto non si era cimentato nell’elaborazionedi piani strategici, l’esperienza del Codiso, ed in genera-le le interazioni inizialmente connesse alla comune esi-genza di trovare una soluzione al problema idrico edambientale, abbiano giocato al riguardo un ruolo moltosignificativo (sedimentazione di capitale sociale)33.

Il rilievo di quell’esperienza discende innanzituttodalla partecipazione diretta di alcuni soggetti ad entram-be le reti, fatto che ha agevolato il consolidarsi di molte-plici rapporti interpersonali ed una certa consuetudineal confronto ed alla mediazione fra interessi diversi. Al dilà della ristretta cerchia dei soggetti direttamente coin-volti, l’esperienza complessivamente positiva del Codisoha poi contribuito ad intensificare in una cerchia piùallargata il senso di identificazione con la realtà localenel suo carattere sistemico e, per questa via, la disponibi-

32 “Giudico estremamente positiva la stagione dei patti soprat-tutto per noi, perché ha aiutato moltissimo a far crescere l’amor pro-prio e la fiducia in se stessi. Ha attivato un circolo virtuoso all’inter-no del corpo sociale, anche con qualche vizio certamente, che haconsentito di affrontare con maggior cognizione di causa e anchecon maggior esperienza questa fase iniziale dei fondi strutturali…aldi là del dato strettamente legato alla produttività dei patti territoria-li sia in termini economici che occupazionali. Sotto l’aspetto cultura-le è stata importantissima la stagione dei patti, più che sotto l’aspet-to economico”. “I patti hanno anche fatto emergere un po’ di som-merso. Hanno dato fiducia al piccolo, al microimprenditore, che hamagari solo se stesso e la moglie o il figlio, invogliandolo ad attivareun investimento che magari da due unità lo porterà a dieci, a cinque.Ma che attiva un processo mentale che qui era sconosciuto: quello divoler crescere, perché qui eravamo abituati ad accontentarci di quel-lo che avevamo”.

33 “C’è stato un momento cruciale, la costituzione del consorzioper il disinquinamento di Solofra, il Codiso, con tutte le vicende adesso legate. Quello è un esempio di associazionismo, o comunque dicooperazione tra le imprese, per affrontare un problema comune”.

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lità ad azioni cooperative34. A questo orientamento piùconsapevole e complessivamente meno scettico e stru-mentale nei confronti di azioni collettive ci sembranoascrivibili anche le nuove iniziative di tipo associazionisti-co recentemente sorte a Solofra35, pur in un contesto atutt’oggi meno strutturato in senso consortile del di-stretto di S. Croce36.

Dalle interviste emerge ancora come il futuro desti-no del Codiso rappresenti un terreno cruciale e delicatosul quale si stanno giocando i rapporti fra il sistema loca-le solofrano e le istanze operanti a più ampia scala, primifra tutti gli altri comuni inseriti nel comprensorio AltoSarno e la Regione Campania37. Da un lato i risultati tec-nici conseguiti a Solofra con l’attività consortile di depu-razione stanno consentendo di portare a soluzione unavecchia tendenza dei comuni situati a valle a “scaricare”sul distretto conciario l’intera responsabilità per l’inqui-namento idrico, per alleggerire quella delle proprie pro-duzioni conserviere. Dall’altro lato il Codiso, passato dasocietà consortile a Spa, rappresenta ormai una strutturaeconomicamente redditizia ma anche strategicamente

34 “Noi siamo molto più forti all’esterno che al nostro interno.All’interno discutiamo… però quando poi siamo fuori ci sentiamoforti, ci sentiamo spalleggiati dal potere che tiene questo paese”.

35 Fra le iniziative più interessanti vanno menzionate La SocietàConsortile “Ulisse”, finalizzata alla stesura di un contratto di pro-gramma, e soprattutto la “Solofra Leather System”, che annovera fra isoci fondatori anche l’Istituto Tecnico Statale “Gregorio Ronca” diSolofra ed individua fra i primi obiettivi “il raggiungimento del “Mar-chio di Qualità” inteso come sinonimo di lavorazione di pellami delsistema di produzione del distretto di Solofra con impatto ambientalezero” (dalla nota informativa del 3 aprile 2002). Esiste anche un’asso-ciazione che raggruppa una decina di imprese per la partecipazione afiere e l’acquisto di materiale all’estero. Negli ultimi anni alcuneaziende hanno peraltro provveduto ad allestire internamente unminiimpianto per la depurazione ed il riciclo delle acque. Si tratta diuna soluzione che alcuni osservatori considerano interessante dalpunto di vista tecnico ed economico, in quanto consentirebbe di tara-re il livello di depurazione sulle specifiche esigenze delle singoleaziende.

36 E’ quanto si evince dal confronto con le iniziative consortili esi-stenti attualmente a S. Croce, cfr. Salvi, 2001.

37 “Non è più come prima, che si aspettava. In un mese saremoandati venti volte a Napoli, a Roma”.

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cruciale di cui gli imprenditori non cedono volentieri ilcontrollo. La gestione integrata del ciclo delle acque(dalla fase acquedottistica a quella depurativa) ad operadi un unico organismo, così come prevista dalla attualenormativa di settore, non ha infatti trovato sinora ap-plicazione.

I tentativi della Regione Campania di risolvere laquestione spostando il distretto solofrano dall’Ato38 1(Avellino) all’Ato 3 (Salerno) – al di là dell’irritazioneper il mancato riconoscimento dell’appartenenza diSolofra all’Irpinia e non alla regione salernitana, che fadi questa soluzione un facile bersaglio politico – si scon-trano con delicate questioni di carattere economico epolitico. Prima di tutto col passaggio alla gestione unicadell’Ato l’Associazione Conciatori teme di perdere unastruttura tecnicamente efficiente, economicamente red-ditizia, e soprattutto improntata a criteri aziendalisticiper cadere in una gestione burocratica. Come si vede, rie-merge qui una problematica già discussa in merito allacontrapposizione all’interno del Codiso fra imprenditorida un lato e rappresentanti del Comune dall’altro. Inquesto caso tuttavia la scala del confronto tecnico e so-prattutto politico39 si allarga sino a coinvolgere l’ente Re-gione, costringendo i soggetti coinvolti ad articolare leproprie esigenze entro un sistema più complesso di grup-pi di interesse. In secondo luogo la gestione unica della

38 Ambito territoriale ottimale. Secondo la normativa attuale gliimpianti di erogazione e depurazione debbono essere gestiti da ununico Ato. Alcuni osservatori lamentano che il distretto solofranoabbia perduto l’occasione di istituire un proprio Ato, soluzione adot-tata per esempio dal distretto conciario di Arzignano (VI). Al riguar-do è difficile sottrarsi all’impressione che la costituzione della SocietàIrno Service, il 30.9.1999, alla quale è stata demandata la gestione deiservizi comunali (fra cui quella del metano civico, e dal 2001 dell’ac-quedotto comunale), configurasse un tentativo di dar vita ad un orga-nismo che potesse svolgere localmente una gestione unica del ciclodelle acque. Allo stato attuale la presenza di questa società, pur nonavendo raggiunto l’obiettivo primario, consentirà probabilmente per-lomeno di elevare la forza contrattuale del sistema locale di fronte allepressioni della Regione.

39 Al momento attuale il confronto non è agevolato dalla diffe-rente coloritura politica degli enti territoriali, di sinistra quello re-gionale, di centro-destra quello solofrano.

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risorsa idrica consentirebbe di controllare interamente(insieme alle informazioni sui consumi di energia e digas, già disponibili al momento attuale) il ciclo produtti-vo, riducendo gli spazi per comportamenti illeciti di eva-sione o elusione fiscale. Questa situazione può esempli-ficare a nostro avviso la valenza non necessariamentepositiva del capitale sociale: nel caso specifico la maggio-re forza contrattuale che l’accumularsi di capitale socialeha conferito all’imprenditoria locale può declinarsi nellacapacità di ritardare la realizzazione di misure che ope-rano nell’interesse collettivo.

Un ultimo, significativo elemento che emerge dalleinterviste è come, a differenza di quanto riscontratoanche solo alcuni anni or sono, si possa parlare oggi diuna diffusa consapevolezza della centralità della tematicaambientale, ed in particolare della risorsa idrica. Tutti gliinterlocutori intervistati indicano spontaneamente que-sto terreno come un campo decisivo su cui si giocheran-no le sorti future del distretto40. Uno degli obiettivi prio-ritari per il distretto viene infatti indicato nel riciclo del-le acque, per le quali sono attualmente in atto trattativecol Ministero dell’Ambiente41.

In generale si osserva anche un’accresciuta propen-sione ad abbandonare la logica del disinquinamento aposteriori, per orientarsi verso soluzioni che prevenganol’impatto ambientale42.

E’ tuttavia importante precisare come la centralitàassegnata al tema ambientale sia anche espressione di

40 “Qui noi dobbiamo risolvere problemi ambientali che ci perse-guitano da anni. Non possiamo pensare di continuare a sprecare15.000 m3 di acqua al giorno”.

41 La proposta del Ministero dell’Ambiente consiste nel realizza-re un impianto di riciclo delle acque a Mercato S. Severino, a valle deldistretto. Oltre alle difficoltà tecniche per ricondurre le acque a Solo-fra, la realizzazione del progetto appare difficilmente finanziabile conle risorse a disposizione del distretto, di cui il comune di Mercato S.Severino non fa parte.

42 “Per abbattere l’inquinamento ci vogliono venti miliardi all’an-no, per risolvere definitivamente ce ne vogliono duecento. Megliospenderne duecento”; “qui non sentiamo tanto la mancanza dell’ac-qua, siamo fortunati, perché di acqua ce ne sta tanta, ma fino a quan-do? Qui bisogna fare i piani a dieci, venti, trent’anni”.

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preoccupazioni molto concrete, specialmente nei sogget-ti più vicini al mondo imprenditoriale, per i quali la cen-tralità del problema idrico si collega a fattori di ordineeconomico. Al riguardo la realizzazione di investimentiche riducano l’impatto della produzione conciaria sulciclo delle acque viene invocata sia per scongiurare ilpericolo di esaurimento di una risorsa decisiva per la con-cia, sia per adeguare la produzione a dettami di compati-bilità ecologica ai quali risulta sempre più sensibile ladomanda di mercato, specialmente nelle fasce medio-alte. E’ sintomatico che il Comitato di distretto stia attual-mente discutendo l’opportunità di avviare le procedureper la richiesta di una certificazione ambientale didistretto, procedure alquanto complesse ed impegnativeper le quali infatti si è registrata una battuta d’arresto neldistretto di S. Croce. Per quanto non esistano al momen-to attuale patti volontari e di tipo negoziale fra le aziendecon finalità ambientali, si potrebbe comunque conclude-re che i solofrani ed in particolare gli imprenditori, stia-no perdendo quella “sorta di abitudine ad assumere laidentità di inquinatori”.

4. Capitale sociale: approccio razionale o normativo?

Gli esiti della ricerca illustrati nel paragrafo prece-dente forniscono una complessiva conferma delle ipotesidi lavoro iniziali. Innanzitutto il fatto che a Solofra l’e-sperienza di applicazione della legge Merli e di gestionedei reflui industriali abbia agevolato nel corso degli ulti-mi venti anni il sedimentarsi di un’accresciuta capacità didialogo fra i soggetti attivi nel sistema locale e di dispo-nibilità verso forme di azione cooperativa fornisce unaverifica empirica del carattere dinamico del capitale so-ciale. Dalla ricerca empirica risulta altresì confermato ilrapporto tra il sedimentarsi di capitale sociale ed unagestione tendenzialmente sostenibile delle relazioni ver-ticali, nonché il carattere di risorsa strategica del capitalesociale in quanto supporto alla capacità di autorganizza-zione del sistema locale.

Tali risultati ci inducono a svolgere alcune considera-zioni di carattere teorico e metodologico circa la rilevan-

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za del concetto di capitale sociale per la ricerca sullo svi-luppo locale, ed in particolare a favore di un approcciodinamico e situazionale al concetto. Riteniamo utile svol-gere queste considerazioni alla luce degli esiti, con esseparzialmente discordanti, di un’altra ricerca condotta re-centemente sulla dotazione di capitale sociale nello stes-so distretto solofrano (Pendenza, 2000).

In base ad un’indagine campionaria condotta fra gliimprenditori43, Pendenza deduce che nel distretto esisteuna forte dotazione di capitale sociale inteso nel senso direlazioni cooperative informali fra gli imprenditori, unadebole dotazione di capitale sociale inteso nel senso direlazioni cooperative organizzate, mentre sarebbe deltutto assente la fiducia istituzionale e disposizionale, chel’autore definisce “capitale civico”, distinguendola dalledue forme precedenti considerate “capitale sociale” insenso proprio (ibidem, p. 17). Sulla base di questi risul-tati l’autore conclude che “i Solofrani faticano a ‘cristal-lizzare’ le loro intense e presenti relazioni focalizzate. Sesi esclude la locale associazione degli imprenditori, lepoche occasioni di azione organizzata del passato sonotutte fallite” (ibidem, p. 18).

Se l’autore fornisce in tal modo una conferma“scientifica” alla diffusa convinzione circa il caratteremarcatamente individualista e refrattario all’azione orga-nizzata dell’imprenditore solofrano, riteniamo che laconcezione di capitale sociale posta a base della ricercaimpedisca di valutare appieno i molteplici segnali di cam-biamento oggi presenti in quel contesto, riducendo laforza interpretativa di quella categoria concettuale.

Con l’obiettivo di elevare la cooperazione a categoriaesplicativa autonoma dello sviluppo e del mutamento so-ciale (ibidem, p. 15), Pendenza la considera “sia come ri-sorsa che sostiene transazioni economiche vantaggiose,sia come una forma di legame sociale” (ibidem, p. 15). Inquesto modo l’autore si riallaccia soprattutto al filoneche intende la cooperazione come risorsa normativa,cioè come la conseguenza di rapporti fiduciari che pro-

43 Risultano comprese nel campione 50 imprese solofrane su ununiverso di 157, cfr. Pendenza (2000, p. 145).

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cedono da e al tempo stesso rafforzano un senso di iden-tità comunitario. Dell’approccio sviluppato a partire dal-la teoria della scelta razionale, che considera all’oppostol’agire cooperativo nella sua dimensione rischiosa (equindi la fiducia come conseguenza di una cooperazionecondizionata riuscita), l’autore ritiene che veicoli unavisione eccessivamente parziale.

Se pure l’autore inquadra efficacemente alcuni limi-ti dell’approccio incentrato sulla scelta razionale, quellonormativo prescelto lo conduce necessariamente – comesi deduce anche dalla prefazione di Vittorio Cotesta – a“risalire alla cultura e alle identità particolari che fonda-no l’azione cooperativa o l’azione defezionistica” (Cote-sta, 2000, p. XIII). In questo senso, nonostante l’autore siproponga di recuperare la concezione di capitale socialeoriginaria di Coleman, ci pare che si riaffaccino una seriedi difficoltà tipiche di un approccio culturalista à la Put-nam, e nello specifico la difficoltà di inserire nell’analisiuna dimensione temporale controllabile. In effetti l’au-tore non riesce a concettualizzare nel proprio schemalogico i molteplici segnali di cambiamento offerti dallarealtà solofrana, che egli pure coglie e lucidamentediscute nel capitolo conclusivo. A tal proposito non è uncaso che nel lavoro non si menzioni l’importante espe-rienza associativa rappresentata dal Codiso, né quelle –ancorché in forma embrionale al momento della ricerca– del Comitato di distretto.

Pendenza riferisce inoltre il capitale sociale al siste-ma d’interazioni fra gli imprenditori (in particolare airapporti di subfornitura), ed il capitale civico alle intera-zioni fra imprenditori e mondo esterno (nella fattispeciela Pubblica Amministrazione). In questo modo non èperò del tutto chiaro come l’autore possa ricondurreentrambe le categorie alla stessa matrice normativa cen-trata sul nesso fiducia-fede, o viceversa come, dalla stessamatrice normativa, possa scaturire un orientamento disegno opposto a seconda che si considerino le relazioniinterne al sistema economico (capitale sociale) oppurequelle fra il subsistema economico e quello amministrati-vo entro il sistema territoriale complessivo (capitale civi-co). Questa aporia segnala a nostro avviso come rimangaaperto l’interrogativo di fondo circa l’individuazione del-

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la variabile esplicativa autonoma del mutamento socialee dello sviluppo.

Il capitale sociale viene rilevato da Pendenza (conscelta metodologicamente coerente con l’approccio teo-rico prescelto) attraverso un’indagine presso gli impren-ditori tesa a rilevare il grado di fiducia e la disponibilitàverso l’azione cooperativa. Per quanto l’autore si sforzi diinquadrare tale disponibilità come risorsa complessivadel distretto, essa continua ad apparirci prima di tuttocome risorsa individuale per il singolo imprenditore, erimane alquanto oscuro attraverso quali meccanismi ilcapitale sociale inteso come risorsa individuale fruibileper obiettivi economici possa originare capitale socialenel senso normativo di legami sociali (ai quali il capitalecivico di Pendenza è in definitiva riconducibile).

Se invece ci poniamo dal punto di vista del sistematerritoriale nel suo complesso, diviene importante sotto-lineare la valenza del capitale sociale come risorsa in gra-do di elevare la capacità di dialogo e di interazione, siaall’interno del sistema economico, sia fra le diverse com-ponenti del sistema territoriale, quindi fra imprenditori,parti sociali, Pubblica Amministrazione ecc. In questaprospettiva, ci sembra metodologicamente più adeguatala scelta di individuare nei meccanismi di istituzione e difunzionamento del Comitato di distretto un indicatoresignificativo delle dinamiche relative al capitale socialenel sistema territoriale solofrano, e nell’esperienza digestione del ciclo delle acque un possibile momento diaccumulazione accelerata.

La fiducia, come abbiamo visto, viene intesa secondola prospettiva da noi adottata come esito dell’azionecooperativa riuscita, e non viceversa. Questo non equiva-le tuttavia ad “attribuire al caso la genesi insieme dellacooperazione e della fiducia da essa derivante” (Cotesta,2000, p. XIII), ma piuttosto ad individuare la variabileesplicativa autonoma del mutamento sociale e dello svi-luppo proprio nella “cooperazione condizionata”, dovel’attributo “condizionata” ci induce a risalire la china del-le specifiche scelte politiche che hanno agevolato ladisposizione a cooperare, e che rimangono invece inombra se si segue la catena cooperazione-fiducia-fede.Per questa via diviene possibile fissare un punto fermo su

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cui articolare l’azione politica, nonostante l’impossibilitàdi risolvere per via teorica la questione del salto fra l’in-dividuo pre-sociale e quello sociale, alla quale in definiti-va il problema delle origini della disponibilità alla fiduciarimanda. Citando Carlo Trigilia potremmo riassumere lenostre osservazioni ricordando che il problema crucialedell’analisi sul capitale sociale non riguarda la sua ori-gine, ma le condizioni del suo impiego ai fini dello svi-luppo, quindi l’interrogativo di come debba essere con-cepita un’azione politica che consenta di accumularecapitale sociale (Trigilia, 1999, pp. 431-432). Abbiamo giàvisto come l’esperienza della contrattazione programma-ta, dei patti territoriali ed in generale le ipotesi sviluppa-te a partire dalle concezioni di sviluppo endogeno stianofornendo numerose indicazioni al riguardo.

Un altro ordine di considerazioni riguarda la possi-bilità di concepire il capitale sociale come variabile stra-tegica per il futuro sviluppo del distretto. Che il capitalesociale inteso come sistema di relazioni fiduciarie fra isoggetti economici costituisca una risorsa per lo sviluppoè già stato concettualizzato dalla teoria economica in ter-mini di abbassamento dei costi di transazione. L’aspettosu cui più recentemente si è appuntata l’attenzione deglistudiosi riguarda invece il capitale sociale come risorsacollettiva nella forma di rete di relazioni in grado di apri-re spazi di autorganizzazione al sistema locale entro ilgioco di interazione fra questo ed i livelli territoriali supe-riori (tendenzialmente a scala globale).

Con riferimento alle tematiche dello sviluppo localediviene decisivo stabilire se tale autorganizzazione sia omeno in grado di concepire, contrattare ed implementa-re progetti di sviluppo che rafforzino la connessione frail sistema locale e gli altri sistemi territoriali. Trigilia hasottolineato al riguardo l’importanza che a tal fine entri-no in azione attori “esterni” al sistema locale (Trigilia,1999, p. 436). Ritornando al caso di Solofra, ci pare cheun interessante ruolo in tal senso venga assunto nella faseattuale dalla Provincia. L’azione della Provincia di Avelli-no si sta effettivamente configurando come momento diraccolta e soprattutto di verifica, coordinamento e razio-nalizzazione delle varie progettualità strategiche sorte alivello locale, nonché come snodo fra la progettualità

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locale e le scale territoriali superiori. Da tre anni è statoistituzionalizzato presso la Provincia una tavolo di con-certazione per tutto quanto era riconducibile alla pro-grammazione negoziata, nel quale i soggetti coinvolti sisono impegnati a non sottoscrivere patti territoriali ostrumenti di programmazione negoziata senza il vagliopreventivo del tavolo di concertazione. In questo modo,pur non essendo ufficialmente competente per esamina-re i piani strategici locali, la Provincia ha “costretto” i sog-getti locali a confrontare preventivamente le proprie pro-poste di piano con gli altri soggetti locali. Il tavolo con-sente a ciascun soggetto coinvolto di esprimere valutazio-ni sulle singole proposte avendo una conoscenza del datocomplessivo, e permette alla Provincia di svolgere unafunzione di orientamento ed indirizzo44.

In un quadro normativo che legittima i sindaci o i va-ri soggetti locali ad attivarsi liberamente in qualsiasi dire-zione, il tavolo di concertazione non ha impedito che sicreasse una “eccessiva effervescenza di iniziative locali”. Inprovincia di Avellino sono infatti attivi ben cinque Pattiterritoriali generalisti, un Protocollo aggiuntivo, tre Pattispecializzati per Agricoltura, un Patto specializzato per ilTurismo per circa 470 miliardi di lire di incentivi, per n.285 iniziative produttive, con una previsione di nuovaoccupazione a regime di n. 767 unità e con l’interessa-mento di n. 67 comuni (Provincia di Avellino, 2002, p. 1).Ma è particolarmente significativo in questo contesto ilconsiderevole sforzo recentemente intrapreso dalla Pro-vincia per effettuare una ricognizione ed un coordina-mento delle progettualità locali, di cui il citato report suidati della programmazione negoziata in Irpinia rappre-senta il primo passo45. Altrettanto sintomatica della nuovafilosofia associata al ruolo della Provincia è la critica rivol-ta dallo stesso documento alla logica che tende a snatura-

44 “Prima i soggetti locali erano abituati a chiedere la firma dellaProvincia sui piani già pronti. Ora debbono confrontarsi con il tavolodella concertazione…Tant’è che abbiamo detto anche alcuni no. Nonabbiamo sottoscritto alcuni patti che non ci convincevano, che anda-vano in contraddizione, che si sovrapponevano”.

45 “E’ come se avessimo i pezzi di un puzzle sparsi sul tavolo. Dob-biamo ricomporli in un disegno unitario che abbia una sua logica”.

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RELAZIONI VERTICALI, CAPITALE SOCIALE E SVILUPPO LOCALE

re l’originaria funzione dei Progetti Integrati come stru-menti di indirizzo metodologico, trasformandoli “nell’en-nesimo strumento finanziario” (ibidem, p. 2).

Un ultimo ordine di considerazioni è relativo al ruo-lo giocato, nell’accumulazione di capitale sociale regi-strato a Solofra, dalla gestione delle risorse ambientali.Adottando lo schema interpretativo proposto da Putnam,si poteva argomentare che la gestione della risorsa idricaera stata inizialmente meno efficiente (meno sostenibile)a Solofra rispetto a S. Croce per la minor dotazione di“civicness” del distretto campano, ma sarebbe impossibi-le spiegare in quei termini il cambiamento in atto negliultimissimi anni, come se il distretto di Solofra fosse afflit-to da una sorta di condanna perenne alla gestione dissi-patoria della risorsa idrica.

Viceversa, se teniamo presenti i risultati dello studiodi Pendenza circa l’elevata dotazione di capitale socialefra gli imprenditori solofrani, dobbiamo dedurre chesarebbe errato collegare necessariamente una maggioredotazione di capitale sociale ad una gestione più sosteni-bile delle risorse ambientali: la forte presenza di capitalesociale inteso nel senso di relazioni informali fra gliimprenditori non ha infatti impedito negli anni passatiuna gestione fortemente dissipatoria della risorsa idrica.In realtà, nello schema logico ego-centrico ed in definiti-va aziendalista adottato dall’autore, i due fattori (capita-le sociale e gestione delle risorse ambientali) rimangonodel tutto slegati l’uno dall’altro.

Se però fuoriusciamo sia dalla prospettiva culturali-sta di Putnam, sia da quella aziendalistica di Pendenza, econsideriamo le dinamiche di fondo che stanno attraver-sando negli ultimi anni il distretto solofrano, allora i duetermini appaiono “oggettivamente” collegati fra di loro.Allo stato attuale dei fatti, e con riferimento al contestosolofrano, possiamo quindi affermare che l’accumulazio-ne di capitale sociale stia passando fondamentalmenteattraverso l’implementazione di piani di sviluppo orien-tati a principi di sostenibilità ambientale, e che, vicever-sa, la gestione delle risorse ambientali in chiave di soste-nibilità stia fungendo da importante fattore di accumula-zione per il capitale sociale, inteso come risorsa collettivamobilitabile ai fini dello sviluppo.

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Queste affermazioni vanno peraltro interpretate allaluce dei vantaggi che una corretta gestione delle risorseambientali può assicurare in prospettiva al sistema pro-duttivo: il nesso osservato a Solofra fra capitale sociale egestione delle risorse orientata a modelli sostenibili pog-gia infatti interamente sul rilievo che i due fattori hannoassunto nel quadro del conseguimento di obiettivi eco-nomici. Questo non equivale a ripristinare una visionedello sviluppo ancorata all’idea di un primato degli obiet-tivi economici su quelli ecologici. Anzi, anche per questavia si perviene a rilevare la centralità della variabile poli-tica, dalla quale dipende, in ultima istanza, la definizionedel quadro giuridico all’interno del quale gli obiettivieconomici possono essere conseguiti. Da essa dipendeinfatti se il sistema territoriale potrà tollerare (e pertantopremiare) comportamenti predatori delle risorse (inquesto caso gestione sostenibile delle risorse e capitalesociale si scolleranno sino a confliggere, almeno parzial-mente)46, oppure se verranno premiati percorsi di svilup-po che, collegando il più possibile i due fattori, ne valo-rizzino il comune carattere di bene pubblico.

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46 Per queste ragioni ci appare molto problematica la recentedecisione di associare al decreto per l’emersione fiscale delle impreseuna “causa estintiva dei reati ambientali”, cfr. l’art. 2 della Legge n.383/2001 (“Legge Tremonti”).

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Parte IIPolitiche e progetti per lo sviluppo localenella provincia di Foggia e nel Materano

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Istituzioni intermedie e sistema locale provinciale: il caso della Fiera di Foggia

Maria Gabriella Rienzo

Il caso di studio sul ruolo dell’Ente Fiera come istitu-zione intermedia in provincia di Foggia dall’inizio delNovecento al secondo conflitto mondiale costituisce un’i-nedita prospettiva per identificare le caratteristiche delsistema locale territoriale (SLoT) della Capitanata attra-verso l’analisi di uno degli attori locali che hanno inter-pretato e gestito sul territorio le politiche governative diprogrammazione economica.

La ricerca condotta sulla Fiera di Foggia come istitu-zione intermedia si propone di interpretare le relazionitra società e organizzazione produttiva provinciale, attra-verso una griglia che metta in evidenza i particolari mec-canismi di funzionamento della struttura economicalocale, non nell’ottica dominante del sistema delle im-prese, ma attraverso indicatori come l’ambiente, il terri-torio e i soggetti che vi operarono e che danno il sensodella specificità dell’economia provinciale.

Lo studio del ruolo svolto sul territorio provincialedalla Fiera di Foggia costituisce, inoltre, un osservatorioprivilegiato per mettere a fuoco gli elementi extra eco-nomici, che mediarono le esigenze di identità, di moder-nizzazione e il processo di territorializzazione del sistema(Conti, 1999, p. 146).

In questa prospettiva il lavoro si propone anche ditentare una verifica della sostenibilità delle modalità di

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MARIA GABRIELLA RIENZO

sviluppo del sistema locale territoriale. L’analisi storicadelle origini e dell’evoluzione del sistema economico lo-cale, la ricognizione e ricostruzione delle tendenze dibase che accompagnarono e segnarono l’andamento del-l’economia provinciale indicano come l’attuale stato delterritorio sia il prodotto delle trasformazioni che hannosegnato il suo percorso costitutivo e come il processo disviluppo e territorializzazione si sia configurato storica-mente, implicando rapporti via via più complessi tra unaserie di fattori di base (Conti, Ferri, 1997).

Tra questi è opportuno rilevare innanzitutto la di-somogeneità dei caratteri strutturali dell’ambiente a cau-sa della ripartizione del territorio in cinque aree di diver-sa caratterizzazione fisica. La vasta estensione del territo-rio provinciale e la scarsa disponibilità e accessibilità difonti energetiche nelle zone periferiche ha comportatonecessariamente la limitata produttività di alcune areerispetto ad altre. Il difficile assetto idrogeologico ha de-terminato e continua a determinare siccità, paludismo eproblemi di approvvigionamento idrico.

Un altro fattore che ha giocato un ruolo determi-nante è stato, nel tempo, la modesta funzionalità struttu-rale dell’unità territoriale, il suo insufficiente livello diadeguamento al progresso tecnico, scientifico, sanitario etecnologico.

Su questo sfondo il senso di identità locale è statoincapace di agire come elemento di omogeneizzazionedelle vocazioni produttive e come fonte di aggregazionedei soggetti.

Allo stesso tempo i vincoli imposti dal capitale so-ciale e istituzionale, cioè dalle politiche nazionali e loca-li, e le diverse modalità di reazione ad essi da parte del-la società, dei ceti produttivi e delle classi dirigenti loca-li hanno impedito la costruzione di un coordinamentoper la realizzazione di iniziative concrete a favore del-l’ambiente e del suo sviluppo sostenibile. Le componen-ti sociali e istituzionali si sono rivolte così ad una disor-ganica rincorsa allo sfruttamento dei finanziamenti piùappetibili.

La griglia in cui si articola lo studio si costituisce diquattro punti relativi a:

• le ragioni della scelta e dell’individuazione della

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ISTITUZIONI INTERMEDIE E SISTEMA LOCALE PROVINCIALE:

provincia di Foggia come unità territoriale di base con-figurabile in SLoT;

• il milieu locale e i caratteri strutturali dell’ambiente;• il ruolo del territorio nel processo di sviluppo loca-

le, a partire dall’inizio del XX secolo al secondo conflittomondiale;

• il coordinamento degli interventi di programma-zione economica e territoriale esercitato dalla Fiera diFoggia come istituzione intermedia nell’arco di tempoesaminato, quello che in termini contemporanei po-trebbe definirsi governance territoriale.

1. La scala provinciale

La scelta dell’ambito di riferimento dell’analisi èricaduta su un’entità territoriale di ampia scala, quellaprovinciale, che tende ad autoorganizzarsi e a compor-tarsi, attraverso le sue istituzioni intermedie, come sog-getto collettivo di processi di sviluppo locale.

L’attenzione prestata da economisti, sociologi e stori-ci dell’economia (Trigilia, 1986; Bagnasco, 1988; Brusco,1989; Poni, 1990; Guenzi, 1997; Becattini, 2000) al ruoloesercitato in Italia dalle istituzioni intermedie, cioè daquelle strutture periferiche, enti locali, consorzi, banche,che hanno sostenuto i sistemi produttivi locali, favoren-done lo sviluppo, ha già dato risultati significativi, met-tendo a fuoco le caratteristiche di fondo dell’ambienteeconomico, sociale e istituzionale nei diversi contesti.

Il dibattito, che ha ormai acquisito spessore interna-zionale, tende a ridimensionare il ruolo dello Stato nel-l’economia a favore delle forme locali di governance e ri-valuta, quale specificità del modello italiano di sviluppo,a partire dal secondo dopoguerra, l’ampio protagonismodelle realtà sociali, economiche e istituzionali periferichee il modesto intervento di programmazione economicacentrale, contrariamente a quanto ritenuto finora (Arri-ghetti, Seravalli, 1997).

L’attenzione alle istituzioni intermedie quali chiavedi lettura di un territorio esprime un nuovo approcciodella storia dei sistemi economici, sempre più teso acogliere la complessità dei fattori istituzionali, culturali e

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sociali, oltre che economici, che hanno influito sullo svi-luppo delle economie locali. In quest’ottica le istituzioniintermedie sono la rappresentazione della specificità deisistemi locali territoriali, per la loro funzione di media-zione tra il governo centrale e l’azione collettiva locale edi strumento strategico per rispondere alle esigenze dif-ferenziate del territorio.

Teoricamente le istituzioni intermedie indirizzano lepolitiche statali ai bisogni delle economie locali, orien-tando i finanziamenti verso obiettivi circostanziati perevitare gli sprechi ma non sempre ciò si realizza. In taleottica il lavoro sulla Fiera di Foggia mette a fuoco il ruo-lo dell’ente nel definire le prospettive di sviluppo dell’a-gricoltura provinciale in una delicata fase di passaggiodell’economia e della società, gli anni tra l’inizio del XXsecolo e il secondo conflitto mondiale, segnati da profon-da modernizzazione e insieme forte continuità con il pas-sato (Masella, Salvemini, 1989).

Nonostante la marginalità del contesto territorialefoggiano, segnato dai già rilevati disomogenei caratteristrutturali dell’ambiente fra le sub-aree di cui è compostala provincia, dallo scarso coordinamento dei soggettilocali e da ben definite gerarchie territoriali ed econo-miche al suo interno (Camera di Commercio, 2000-2003), il caso di studio in esame presenta la maggior par-te delle categorie identificabili a definizione di unoSLoT, con alcune specificità:

- una rete locale dei soggetti pubblici e privati ben de-finita (istituzioni intermedie, operatori economici locali,società civile), pur con grosse differenziazioni al suo in-terno tra le istituzioni, i maggiori operatori e le autoritàpolitiche da un lato, che orientano lo sviluppo e, dall’al-tro, la società civile e gli operatori economici medio-pic-coli che si pongono in modo critico nei confronti dei pro-getti, ma esprimono una debole progettualità strategica;

- un territorio geomorfologicamente ripartito in areedi diversa caratterizzazione fisica e diversa identità, in re-lazione alle risorse ambientali e alle reti locali dei sog-getti che vi operano e che lo definiscono, che contribui-sce a disarticolare ulteriormente l’azione collettiva;

- il valore aggiunto territoriale (da valutare), creatodalle relazioni tra gli enti e il territorio di loro compe-

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ISTITUZIONI INTERMEDIE E SISTEMA LOCALE PROVINCIALE:

tenza e dalle politiche, che si distribuisce in modo diver-so fra le aree e alimenta una sperequata distribuzionedello sviluppo sul territorio.

Il territorio provinciale si estende su una superficiedi 7.189 kmq e comprende attualmente 64 comuni. Lastruttura produttiva della provincia, tra l’inizio del XXsecolo e il secondo conflitto mondiale, rifletteva i carat-teri delle condizioni ambientali e insediative, segnate dauna sperequata pressione della popolazione sulle risorse.

Le risorse costitutive del milieu (agricoltura, pascolo,pesca, beni ambientali e archeologici) erano sottoutiliz-zate per le difficili condizioni ambientali, per l’inadegua-ta dotazione infrastrutturale e per le politiche di trasfor-mazione del territorio che avevano contribuito a disarti-colarlo.

La costituzione fisica della provincia di Foggia si dif-ferenzia tuttora in cinque aree di diversa caratterizzazio-ne: la zona centrale pianeggiante o appena collinosa, rac-chiusa ad occidente dai colli della Daunia e dal sub-appennino e ad est dal massiccio montuoso del Gargano,la pianura costiera nord-orientale che ne raccoglie leacque, impaludate nei laghi di Lesina e Varano, una zonaintermedia per la conformazione insieme montuosa epiana del territorio, disposta sulle pendici occidentali delGargano e su quelle orientali del rilievo argilloso delsubappennino dauno con le sue aree interne, la zonamontuosa calcarea del promontorio del Gargano e lavasta pianura cerealicola dell’alto Tavoliere, solcata daifiumi Fortore a nord e Cervaro, Carapelle e Ofanto a sud(Presutti, 1909).

La scala provinciale si configurava come una rete dimicrosistemi, rappresentati dagli enti e dal territorio diloro competenza su cui si esercitava contemporanea-mente il ruolo dei centri urbani, delle aree rurali e dellearee montane. Tra queste tre diverse aree erano attiverelazioni interprovinciali.

La struttura insediativa era costituita da centri urba-ni densamente popolati (centri mercantili, centri sede diservizi politici o amministrativi) e centri rurali medio-pic-coli o con caratteri di agro-towns, come Cerignola e SanSevero. I centri urbani più dinamici esercitavano a loro

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volta una maggiore forza d’attrazione sulle zone limitro-fe o esterne, attirando i finanziamenti dello Stato e deigrandi gruppi industriali e finanziari nazionali e svilup-pando una maggiore dotazione infrastrutturale.

La città capoluogo, Foggia, era insieme una cittàrurale e di servizi burocratico-amministrativi che eserci-tava un ruolo dinamico, da un lato contrastando le ten-denze centrifughe dei grossi centri rurali e, dall’altro,potenziando la sua funzione urbana rispetto al territorioper assicurare i servizi sociali (scuole, ospedali, case) epubblici (acqua, illuminazione, trasporti, arredo urbano,edilizia pubblica) (Massafra, Salvemini, 1999, p.14). Lecampagne, diventate progressivamente la continuazionesemiperiferica delle città, assunsero nell’arco di tempoesaminato funzioni più propriamente urbane.

Foggia, come altri centri intermedi, costituiva uno deinodi delle relazioni intrascalari, tra i soggetti e il territo-rio di loro competenza, e di quelle transcalari, tra l’eco-nomia e le istituzioni intermedie e lo Stato e il mercato.

2. Il processo di sviluppo territoriale

Lo sviluppo dell’entità territoriale provincia di Fog-gia dall’inizio del XX secolo al secondo conflitto mon-diale, si configura come un coacervo di innovazione econservazione, di intervento pubblico e privato. Neldisordinato percorso della crescita economica provincia-le la disomogenea distribuzione dello sviluppo è ricon-ducibile a marcate differenze ambientali, a diversi regimidi proprietà della terra, agli effetti del contesto istituzio-nale e sociale ma, soprattutto, al percorso involutivo del-le politiche statali, passate dai programmi innovativi dimodernizzazione dei primi anni del Novecento, allamobilitazione industriale bellica, alla svolta tecnocraticadel regime fascista degli anni Trenta, alle grandi realizza-zioni industriali della ricostruzione del secondo do-poguerra, che subordinarono definitivamente l’econo-mia provinciale, regionale e meridionale alle logiche d’e-spansione del sistema economico nazionale.

Nell’ambito di tale processo hanno assunto crescen-te rilievo, da un lato, la dimensione endogena dei sog-

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ISTITUZIONI INTERMEDIE E SISTEMA LOCALE PROVINCIALE:

getti economici locali, depositari della sedimentazionedei saperi, ma di debole progettualità strategica e, dal-l’altro, le istituzioni intermedie, teoricamente delegatead attivare complementarietà e a rideterminare gli equi-libri tra i soggetti nell’uso degli incentivi allo sviluppoma, praticamente, non coordinate tra loro e incapaci dimettere in atto progetti volti a rendere gli incentivi allosviluppo pienamente vantaggiosi per l’azione collettiva.

Un punto di partenza per l’analisi storica della situa-zione provinciale all’inizio del Novecento sono senzadubbio gli atti dell’Inchiesta parlamentare, redatta tra1907 e 1908 dal giurista molisano Enrico Presutti. L’in-chiesta rappresenta uno spaccato su molti aspetti dellaprovincia d’inizio secolo: le condizioni delle campagne edella classe contadina, i rapporti di produzione e la natu-ra dei contratti agrari e le strutture sociali dalle situazioniabitative ai luoghi dell’associazionismo e dell’istruzione.

L’inizio del XX secolo è senza dubbio un momentodi netta cesura nel processo di sviluppo locale, in cui ilcambiamento strutturale dell’economia e della societàper effetto dello sviluppo economico nazionale e inter-nazionale, si rifletté sull’organizzazione produttiva, sugliassetti sociali e politici del territorio provinciale, influen-zandolo in maniera differente nelle sue sub-aree e avvian-dolo alla trasformazione.

Le funzioni economiche tradizionali del territorioruotavano intorno al tradizionale conflitto tra pastoriziae agricoltura, avvicendatesi in situazioni congiunturalidifferenti. L’equilibrio tra le esigenze dell’economiapastorale degli allevatori abruzzesi e quelle degli agricol-tori della Capitanata era stato mantenuto, sin dal XVIsecolo dalla Fiera di Foggia che consentiva la naturalemediazione commerciale tra le due contrapposte dina-miche economiche.

All’inizio del XX secolo il sistema locale si configuròin una nuova geografia economica che segnò l’assoluta edefinitiva preminenza dell’agricoltura cerealicola sull’at-tività pastorale a seguito di tre ordini di fattori: il drasticocalo del prezzo della lana, l’aumento del prezzo del gra-no e la riduzione dei suoi costi di produzione per l’intro-duzione delle macchine e lo sporadico ricorso a mano-dopera stagionale (Presutti, 1909).

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Nell’ambito del settore agricolo una posizione disecondo piano fu rivestita da viticoltura, olivicoltura,agrumicoltura e coltivazione di ortaggi, che rimaseroproduzioni limitate a talune zone. Nel complesso si defi-nirono aree avanzate e dinamiche nell’introduzione delprogresso tecnico e nell’orientamento al mercato, qualila grande pianura cerealicola del Tavoliere e aree margi-nali, tra cui le zone pianeggianti, in cui persistevano lemasserie a cerealicoltura estensiva e le aree interne aridosso del Gargano e del Subappennino dauno, storica-mente sedi di un turismo religioso ed archeologico discarsa ricaduta sul territorio, almeno fino all’inizio delXX secolo (Monte S. Angelo).

Le attività industriali e manifatturiere della provinciarimasero a lungo legate al processo di trasformazione deiprodotti agricoli mentre i legami più rapidi con il merca-to nazionale e internazionale, per il perfezionamento delsistema di comunicazioni, stimolarono le attività del set-tore terziario, in particolare dei servizi assicurativi, com-merciali e bancari. La difficoltà di accesso al credito daparte delle classi contadine e la scarsità di capitali daimpiegare in agricoltura continuarono, però, a rappre-sentare, in particolare nelle zone interne, un ostacolostrutturale per le attività produttive, spesso oggetto disfruttamento usuraio.

Le difficoltà di trasformare i tradizionali assetti pro-duttivi dell’agricoltura provinciale e il sistema di potereda essi rappresentati si tradussero in programmi di redi-stribuzione dei latifondi che attestarono l’incapacità diaffrontare una vera modernizzazione.

L’avvento del fascismo vide contrapporsi allatradizionale classe agraria una borghesia urbana in asce-sa che sposò gli ideali della ruralizzazione e della bonifi-ca integrale, proposti dal regime, e tentò di trasformarela provincia di Foggia in un polo di agricoltura capitali-stica. Gli operatori economici provinciali cercarono, allostesso tempo, di adeguarsi al procedere dello sviluppoinserendosi nei settori emergenti della realizzazione del-le infrastrutture (diffusione dell’energia elettrica e del-l’acqua potabile) ed entrando così a far parte dei grandicircuiti del finanziamento statale, gestiti da finanzieri eindustriali nazionali e stranieri.

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ISTITUZIONI INTERMEDIE E SISTEMA LOCALE PROVINCIALE:

In questa fase di ascesa politica della media borghe-sia urbana le istituzioni intermedie esercitarono un ruo-lo chiave nel fornire servizi al territorio, determinando ipercorsi delle ferrovie e dell’acquedotto, mediando tragli interessi locali nell’attuazione delle scelte politicheper lo sviluppo regionale, contrattando con lo Stato gliinvestimenti pubblici e le politiche commerciali (Massa-fra, Salvemini, 1999, p.17).

Tra la seconda metà degli anni Venti e i primi anniTrenta la rivalutazione della lira a “quota novanta” avviòuna crisi economica che si protrasse fino alle conseguen-ze della recessione del 1929. La crisi colpì i generi diesportazione, come i prodotti dell’agricoltura specializ-zata (olio, vino, mandorle) e il patrimonio zootecnico eindusse ad abbandonare i progetti di modernizzazione ericonversione colturale a favore della produzione cereali-cola che, sostenuta dalla battaglia del grano, registrò unconsiderevole aumento in provincia di Foggia.

Il fascismo cercò di arginare gli effetti della crisi e ladelusione per il crollo delle politiche di trasformazioneterritoriale attraverso un programma di opere pubblicheche dovevano servire, al tempo stesso per ridurre la disoc-cupazione e il malcontento delle masse.

3. Fiera di Foggia e sistema locale territoriale

Le sfide della modernizzazione prima e poi dellaglobalizzazione dell’economia hanno messo a dura provala resistenza dei sistemi locali, enfatizzando non solo lacapacità di adeguamento al nuovo del tradizionale tessu-to economico, sociale e culturale ma soprattutto il ruolodelle istituzioni intermedie che hanno gestito, anche sein maniera disorganica, lo sviluppo economico decen-trato.

La Fiera di Foggia, come istituzione intermedia, harisentito dei limiti del sistema locale territoriale proprioper la forte compartimentazione esistente tra le istituzio-ni, frutto delle tensioni politiche. Il ruolo della politicaquale elemento che incide nella determinazione del pro-cesso di sviluppo, nel caso della provincia di Foggia, nonsolo ha agito come elemento di separazione negli am-

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bienti economici e non ha creato un clima di integrazio-ne tra istituzioni amministrative e imprenditorialità loca-le, ma ha precluso la possibilità di cooperazione tra le isti-tuzioni stesse, frapponendo ostacoli alla realizzazione diprogrammi di sviluppo o deviandoli, in senso funzionalea particolari interessi politici. In provincia di Foggia lafunzione regolatrice delle istituzioni intermedie si è scon-trata, quindi, con la loro incapacità di realizzare il coor-dinamento e la complementarietà strategica, necessariper ottimizzare i risultati degli interventi di programma-zione economica e territoriale.

La Fiera di Foggia, come istituzione intermedia, haindubbiamente esercitato, sin dalle origini, un importan-te ruolo di mediazione nello sviluppo economico di Capi-tanata, collegando la specificità delle risorse, i soggettieconomici locali, i caratteri del territorio con operatorieconomici e mercati esterni, a sostegno e promozionedel sistema produttivo locale.

Gli storici hanno sottolineato la differenza tra fiera emercato nelle società di ancien régime, a partire dal carat-tere essenzialmente rurale delle fiere per la loro localiz-zazione generalmente esterna alle città; dal diverso gene-re di popolazione che vi affluiva, quasi esclusivamenteuomini rispetto alle donne che popolavano i mercati; dalsuo coincidere con occasioni di ritualità religiosa. La fie-ra era un momento di incontro tra consumatori, produt-tori e intermediari per il controllo di uno spazio, un mo-mento di scadenze contrattuali, di formazione del prez-zo, di organizzazione del credito, il luogo in cui si massi-mizzava “la trasparenza, la concorrenza, l’informazionedegli attori sociali” (Salvemini, Visceglia, 1990, p. 67).

La fiera è la spia del modo in cui lo Stato controllaval’attività commerciale e gli equilibri politici, gestiva il go-verno dello spazio e del territorio, sosteneva l’attivitàagricola. Essa è l’indicatore dei grandi circuiti commer-ciali e dei loro soggetti, del carattere redistributivo o diconsumo della commercializzazione, dei cambiamentiintervenuti nella geografia dei traffici, dei nodi del mer-cato meridionale. E’ la sede in cui si compongono glisquilibri del territorio e del suo contesto di riferimentoistituzionale ed economico, attraverso l’avvicinamentoideale dei luoghi di produzione a quelli di consumo.

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La fiera foggiana di maggio operava su due diversicircuiti commerciali paralleli, il mercato del bestiame edelle merci, cui facevano riferimento acquirenti locali, eil mercato laniero, lattiero-caseario, delle carni e dellepelli, collegato all’industria armentaria, inserito in un cir-cuito più ampio ad elevata specializzazione e commercia-lizzazione per destinazioni lontane (de Meo, 1989, pp.5-6). La fiera era quindi la vetrina dei prodotti della pasto-rizia mentre il commercio granario era “liberamente con-trattato” nella città di Foggia (Salvemini, Visceglia, 1990,p. 67). La lana acquistata alla Fiera di Foggia venivaimbarcata a Manfredonia, diretta ai porti dell’Adriaticosettentrionale mentre a Manfredonia arrivavano, direttea Foggia, le merci estere. L’Adriatico era dunque il pun-to di sbocco della fiera foggiana.

All’inizio del XX secolo la Fiera di Foggia sembrònon registrare in positivo gli effetti delle grandi trasfor-mazioni in atto nell’economia e nella società. Il declinodel grande circuito dell’industria armentaria provocò unafase di stagnazione nella sua attività mercantile ed essacontinuò ad esercitare senza particolari stimoli il tradizio-nale mercato del bestiame, cercando di contrastare glieffetti della stabilizzazione del commercio al dettaglio edei nuovi circuiti distributivi all’ingrosso. Il nuovo secolonon tardò a rivelarsi iniziatore di un generale riassetto delsettore commerciale attraverso la sua razionalizzazioneintorno a nuove gerarchie territoriali e infrastrutturali.

L’appuntamento fieristico ebbe finalmente una datafissa, il 25 maggio, per consentire una più regolareprogrammazione delle attività e rafforzare la sua capacitàdi attrazione sul territorio di riferimento. La Fiera fu,inoltre, utilizzata come richiamo per valorizzare il patri-monio zootecnico provinciale, attraverso l’organizzazio-ne di esposizioni provinciali zootecniche a ridosso dell’i-nizio dell’appuntamento fieristico.

La riformulazione di ruoli e gerarchie, in atto all’ini-zio del XX secolo, aveva provocato la crisi della grandeproprietà agraria latifondista, che cercava di mantenereil proprio status astenendosi dagli investimenti nelmiglioramento agricolo e orientando i propri capitalinell’acquisto di quote del debito pubblico, che appariva-no nell’immediato di più facile ed elevata redditività.

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Emergeva intanto una media borghesia urbana cherappresentò uno stimolo alla modernizzazione dell’agri-coltura, perseguendone il progresso tecnico per orien-tarla al mercato, attraverso la costituzione dei consorziagrari e delle cattedre ambulanti di agricoltura per la dif-fusione delle conoscenze tecnico-agrarie e di banche perinserirsi nella rete del finanziamento pubblico. Ad operadi questo ceto sociale la grande pianura cerealicola delTavoliere fu la sede dei più importanti cambiamenti delsistema produttivo locale, con la nascita di imprese ditipo capitalistico di grandi dimensioni, l’introduzionedella meccanizzazione, di fertilizzanti e concimi chimici,frutto di più consistenti investimenti di capitale.

La crescita demografica produsse, inoltre, un note-vole aumento del proletariato agricolo e operaio che siaddensava in situazioni di vita estremamente precarie neigrossi centri. I caratteri della società locale si andarono,così, evolvendo in relazione a nuovi ritmi e stili di vita e adiversi luoghi della sociabilità e dell’istruzione.

Di conseguenza la fiera di inizio secolo offriva largospazio ai prodotti del progresso tecnico, concentrandopresso di sé uno dei più importanti mercati di macchineagricole del Mezzogiorno. Il suo ruolo in quel momentoindicava l’esigenza di mediazione tra innovazione e con-servazione, tra la difesa degli interessi agricoli da partedella media proprietà che cercava, nella modernizzazio-ne dell’agricoltura, l’affermazione del proprio ruolosociale e l’immobilismo della grande proprietà agrariache manteneva saldo il proprio status di fronte alle sfidedello sviluppo capitalistico.

La rete locale dei soggetti esprimeva, quindi, scarsocoordinamento all’interno delle gerarchie territoriali edeconomiche. L’iniziale modello dell’impresa familiare edelle sue relazioni verticali con le amministrazioni localie le autorità politiche cede il passo a un sistema di rela-zioni orizzontali tra i soggetti economici man mano chel’intreccio tra politica e affari si fa più intenso (Salvemi-ni, 1993, p.109). A questo elemento erano da aggiungeregli effetti destabilizzanti dell’azione politica che fecero sìche i progetti fossero sostenuti non da un efficace coor-dinamento tra istituzioni e imprenditorialità, ma dallamaggiore o minore forza di negoziazione dei diversi

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gruppi di potere, producendo in questo modo una disor-ganica gestione dello sviluppo.

Di conseguenza, il ruolo delle istituzioni intermedie,come centri di aggregazione sociale e professionale,divenne cruciale come luogo di contrattazione con loStato di investimenti pubblici e di scelte politiche per losviluppo locale. Nella loro funzione di gestire la pro-grammazione di infrastrutture e servizi sociali esse diven-nero i principali erogatori di risorse e il terreno privile-giato di ascesa politica delle classi medie (Massafra, Sal-vemini, 1999, p.17).

Le leggi speciali dell’inizio del XX secolo produsserouna successione di progetti di bonifica e valorizzazionedella Capitanata, ispirati a criteri di profilassi sanitaria edi recupero idrogeologico del territorio, fino a culmina-re nel progetto di bonifica integrale, ideato dai tecnicinittiani e adottato dal regime fascista. Attraverso tali pro-getti lo Stato indirizzava risorse finanziarie e agevolazionifiscali ai settori strategici del Mezzogiorno (trasporti, elet-trificazione, approvvigionamento idrico) per risolvere, aldi fuori della legislazione ordinaria, i nodi dell’arretra-tezza meridionale.

La congiuntura bellica del 1915-18 non significò perla fiera molto di più che fornire cavalli all’esercito inguerra ma il fascismo, che aveva inserito il Tavoliere neipiani della politica agricola nazionale, seppe cogliere nel-la Fiera la capacità di trasformarsi in un funzionale stru-mento di propaganda e vetrina dei prodotti del regime.Le Feste del grano e i raduni delle massaie rurali diederovoce sul territorio alla “battaglia del grano” e alla politicaautarchica, ma proprio per la sua importanza strategicala Fiera andava ristrutturata e potenziata.

Così il fascismo avviò una regolamentazione giuridi-ca del settore (r.d.l. 16 dicembre 1923, n. 2740, e legge n.454 del 1934) che pose le fiere alle dipendenze del gover-no centrale e istituì gli enti-fiera nell’ambito del ministe-ro delle Corporazioni per meglio gestire, a livello locale,la razionalizzazione dell’economia.

La Fiera di Foggia divenne, quindi, sede di eventiche esaltavano l’ideologia ruralistica del regime (Cola-pietra, Vitulli, 1989, p.316). L’arricchimento del calen-dario fieristico e l’espansione degli spazi commerciali

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organizzati rispondevano all’esigenza di rendere piùincisivo il controllo territoriale da parte dello Stato, mo-dificandone struttura e funzioni. La coincidenza degliappuntamenti nei mesi di maggio e novembre sottoli-neava la concentrazione delle attività fieristiche neglispazi lasciati liberi dal lavoro dei campi, in particolaredalla mietitura di giugno e luglio, ma in momenti chefossero comunque congeniali alla commercializzazionedei prodotti.

La politica agricola del regime trovò espressione, dal1923 al 1925, nelle Mostre campionarie agricole-indu-striali, organizzate dall’Unione provinciale degli indu-striali e dei commercianti. Non a caso il r.d.l. 29 luglio1925, n. 1313, disponeva provvidenze per la propaganda,la dimostrazione e la sperimentazione agraria per l’attua-zione dei provvedimenti che promuovessero l’aumentodella produzione granaria. Il successivo r.d.l. 3 gennaio1926, n. 32, introduceva disposizioni di meccanica agra-ria per il progresso della coltivazione del frumento e isti-tuiva tre succursali della Scuola agraria di Roma di cuiuna a Foggia.

La successione dei provvedimenti amministrativi sot-tolineava l’impegno governativo nella piana del Tavolie-re attraverso la battaglia del grano, la bonifica integrale ela riorganizzazione fondiaria. La Fiera rifletté la trasfor-mazione in corso, soprattutto nella zona della grandeazienda cerealicola a partire dal 1920, con l’adozione diun nuovo profilo merceologico che vedeva in primo pia-no il mercato delle macchine agricole e quello dei conci-mi chimici e dei fertilizzanti.

Gli anni Trenta videro l’impegno di un gruppo dinotabili di regime, tra cui il podestà Alberto Perrone, nelristrutturare la Fiera, dislocando il quartiere fieristico inun’area periferica della città, riorganizzandone lo spazio.L’amministrazione destinò alla Fiera “oltre 250.000 mq.di superficie, dotandola di servizi, mentre l’amministra-zione provinciale al suo interno provvide alla creazionedi una rete stradale e l’Acquedotto pugliese all’attivazio-ne dell’approvvigionamento idrico ed elettrico (ArchivioFiera di Foggia, 1939).

La prima fiera dopo la ristrutturazione si tenne nel1936 e, nonostante fosse dedicata esclusivamente al be-

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stiame e alle macchine agricole, riscosse un notevole con-senso sul territorio. Il primo vero e proprio appun-tamento fieristico, nel maggio del 1937, fu celebrato inpompa magna dalle autorità di regime, decisi a renderela Fiera portavoce della politica autarchica e punto diriferimento ideale sul territorio per le altre istituzioni.

A tale scopo l’organizzazione delle manifestazioni fuaffidata ad un comitato di cui facevano parte le perso-nalità politiche ed economiche più rappresentative dellacittà e provincia di Foggia: il Podestà, il presidente dellaProvincia, esponenti del partito nazionale fascista e delConsiglio delle corporazioni, a loro volta espressione deiceti sociali dominanti. Il comitato provvide all’adegua-mento strutturale del quartiere fieristico, costruendostrutture in ferro e in muratura per le esposizioni e appo-siti padiglioni stabili per ospitare il Consorzio per la boni-fica della Capitanata, l’Ente provinciale per il turismo, ilConsorzio agrario, l’Unione industriali, il Banco di Napo-li ecc. (Archivio Fiera di Foggia, 1937).

Il successo ripetutosi alla Fiera del 1938 indusse leautorità a richiedere al ministero delle Corporazioni lacostituzione dell’Ente Fiera di Foggia. Lo Stato con ilregio decreto 14 aprile 1939, n. 771, istituì quindi in Fog-gia un ente autonomo, denominato “Fiera di Foggia”,per l’organizzazione della Fiera nazionale dell’agricoltu-ra e zootecnia, della Fiera nazionale del bestiame e delmercato-concorso “riproduttore ovino razza gentile diPuglia”.

Il Comune insieme alla Provincia, al Banco di Napo-li, alla Camera di Commercio, si rese garante del patri-monio dell’ente. Il nuovo quartiere fieristico sorse al cen-tro di un nodo stradale strategico ai margini del centrocittadino.

Nel 1939 la Fiera del Progresso autarchico dell’agri-coltura italiana, oltre ad esprimere chiaramente nel tito-lo la stretta funzionalità dell’ente alla politica agricola delfascismo, risentì pesantemente del clima di riarmo del-l’epoca. Essa fu inaugurata dal ministro, Giuseppe Tassi-nari, sottosegretario alla bonifica integrale e allievo diArrigo Serpieri, e dalle più alte cariche cittadine e pro-vinciali. Il programma comprendeva il mercato zootecni-co e delle macchine agricole, rassegne di bovini ed equi-

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ni e una mostra-concorso di ovini (Archivio Fiera di Fog-gia, 1939).

Gli ambiziosi programmi fieristici, sostenuti dal nuo-vo presidente Giovanni Barone, subentrato ad AlbertoPerrone nel 1938, spaziavano tra un ampio spettro dimanifestazioni: dalle mostre zootecniche alle esposizionidi prodotti tipici e di macchine agricole, ma soprattuttosu varie velleitarie manifestazioni propagandistiche comei Raduni delle massaie rurali e le Feste del grano, per l’e-saltazione della ruralità e dell’autarchia alimentare.

Sin dalle prime manifestazioni fieristiche erano stateevidenti le potenzialità economiche della Fiera e la suarispondenza, al di là dei vincoli imposti dal regime, alleautonome esigenze di sviluppo del territorio provinciale.Essa era riuscita ad acquisire riconoscimento a livellonazionale e internazionale, mantenendo al tempo stesso,un forte legame con la città di Foggia.

L’Ente Fiera aveva non solo ridato vita ad una tradi-zione del passato, ma esibiva lo spaccato delle potenzia-lità economiche del territorio provinciale e, attraverso iprogetti autarchici di politica economica, esprimeva leesigenze dell’agricoltura di Capitanata: l’urgenza dellatrasformazione fondiaria e dell’allargamento del merca-to, la necessità di fornire sostegno al settore industrialeemergente.

La Fiera del maggio 1940 affiancò al tradizionalemercato zootecnico e delle macchine agricole una rasse-gna bovina ed equina e una serie di mostre (la mostracunicola, della lana, del grano, dei vini, del cotone, dellacellulosa, della bonifica, dell’artigianato agricolo) oltread attività collaterali quali un convegno per la feconda-zione artificiale degli animali, un concorso ippico, festecampestri (Archivio Fiera di Foggia, 1940).

La requisizione del quartiere fieristico per disposi-zioni del ministero della Guerra, il 14 giugno 1940, infer-se un grosso colpo alle speranze di crescita dell’econo-mia provinciale. Le autorità militari entrarono in posses-so di una struttura pienamente efficiente mentre l’entefu costretto a spostarsi e a realizzare la manifestazionepresso la villa comunale (Archivio Fiera di Foggia, 1940).

Nonostante le difficoltà, la Fiera del 1941 incre-mentò ulteriormente il suo calendario: mercato zootec-

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nico e mercato delle macchine agricole, rassegna bovinaed equina, mercato-concorso nazionale del coniglio,mercato-concorso ovino. Tra le mostre ed esposizioniebbero luogo quella apistica, dell’artigianato rurale, deivini, del cane da pastore e da caccia. Tra i convegni svol-ti sono da segnalare quello internazionale sulla moder-nizzazione dei semi, il convegno nazionale per lo studiodella trazione animale, il convegno agenti federconsorzied altri (Archivio Fiera di Foggia, 1941).

Nel 1942, nonostante il procedere del conflitto, laFiera realizzò i tradizionali mercati zootecnici e dellemacchine agricole. L’espansione delle sue capacità diplo-matiche e organizzative sul versante orientale dell’Adria-tico consentì l’afflusso di cavalli dalmati, montenegrini ecroati al settore equino nazionale. Furono tenute comun-que la rassegna cunicola, la mostra dell’artigianato rura-le, il premio del colono e del Tavoliere. Il regio decreto 6febbraio 1942, n. 157, approvava il nuovo statuto dell’en-te e ulteriori successivi statuti furono approvati con d.p.r.22 febbraio 1949, n. 225, e con d.p.r. 24 febbraio 1956, n.261 (Archivio Fiera di Foggia, 1942).

La Fiera del 1943 fu l’ultima realizzata prima della di-struzione della città ad opera dei bombardamenti, men-tre cadevano così definitivamente le speranze da partedel sistema economico locale di rendere lo spazio fieri-stico un attivo strumento di sostegno e potenziamentodel suo sviluppo.

Conclusioni

Visto attraverso l’angolo di visuale della Fiera di Fog-gia il cambiamento del tessuto economico provincialenel corso della prima parte del Novecento confermacome le gerarchie che segnano l’attuale geografia del ter-ritorio provinciale si siano disegnate sulla crescita disor-ganica degli insediamenti e delle loro funzioni. I proget-ti e le politiche di trasformazione succedutisi nell’arco ditempo esaminato, in relazione alle dinamiche endogeneed esogene dello sviluppo locale, hanno espresso scarsacapacità di territorializzazione, nel senso di funzionalitào coincidenza con il milieu locale.

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Proprio l’esigua considerazione delle potenzialitàdel territorio attesta che si può forse parlare di un caso disottrazione di valore territoriale. I progetti sono stati dinatura esogena, perseguendo soprattutto obiettivi dipolitica estera e militare e, piuttosto che adeguarsi aicaratteri del territorio, hanno esasperato i conflitti tra lediverse aree. L’incompatibilità dei progetti con l’ambien-te ha sconvolto gli equilibri ambientali e gli assetti urba-nistici, ha trascurato le vocazioni locali di sviluppo met-tendo in crisi i settori tradizionali dell’agricoltura, mani-fattura e artigianato.

Ne è scaturita una corsa all’accaparramento dellecommesse pubbliche che, per mancanza di coordina-mento negli ambienti imprenditoriali locali, ha reso glioperatori incapaci di competere con la concorrenza deigrandi gruppi finanziari e industriali, nazionali ed esteri,spianando la strada ai loro investimenti. Lo sviluppo capi-talistico dell’agricoltura ha accelerato, inoltre, la proleta-rizzazione dei contadini provocando spopolamento,depauperamento e desertificazione di alcune aree, lottaper il lavoro, emigrazione della popolazione.

In quest’ottica la Fiera di Foggia rappresenta l’enne-sima occasione mancata per l’economia provinciale: purcostituendo un importante nodo del commercio meri-dionale la sua connotazione politica e la specificità delsuo sistema locale di sviluppo impedirono che essa riu-scisse ad esprimere appieno le potenzialità e i valori delterritorio.

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Lineamenti per una definizione dei sistemi locali territoriali in Capitanata: il caso di Manfredonia

Luigi Longo - Rosario Sommella*

1. Un territorio di piani e progetti

La provincia di Foggia, terza per estensione in Italiacon una superficie di oltre 7.000 kmq e con una popola-zione di circa 690.000 abitanti, rappresenta una realtàterritoriale molto differenziata al suo interno e articolatain diverse aree sub-provinciali abbastanza omogenee,basi delle sue rappresentazioni tradizionali: quella pia-neggiante del Tavoliere, quelle montane del Subappen-nino dauno (diviso in settentrionale e meridionale), ilpromontorio del Gargano. L’organizzazione del territo-rio è imperniata, tradizionalmente, sulla cosiddetta “pen-tapoli” della pianura, costituita dai centri di Foggia, Luce-ra, San Severo, Cerignola e Manfredonia.

Per la sua posizione, la Capitanata è da considerarsicome una vera e propria area-cerniera delle comunica-zioni tra la Puglia, la Campania, la Basilicata e il Molise.La provincia è superiore a queste ultime due regioni pernumero di abitanti e pari, o di poco superiore, per ric-chezza prodotta.

* La stesura del par. 1 è di R. Sommella, quella del par. 2 di Lui-gi Longo.

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LUIGI LONGO - ROSARIO SOMMELLA

La rilevanza che emerge sul piano delle dimensioninon si conferma, però dal punto di vista della crescitaeconomica (Amoruso, Rinella, 1998); la provincia, infat-ti, si colloca in posizione abbastanza periferica rispettoagli assi e alle direttrici di sviluppo che interessano il Mez-zogiorno, in primo luogo per la sua marginalità rispettoalla direttrice adriatica, che qui s’interrompe per ri-prendere nell’area barese.

Cionondimeno, per le dimensioni, la posizione e lepotenzialità di sviluppo, quella foggiana resta una realtàterritoriale fondamentale alla scala del Mezzogiornocontinentale (Mercurio, 1999), nella quale, fin dalla for-mazione dello Stato unitario, hanno trovato attuazionegrandi progetti di sviluppo, finalizzati al suo decollo eco-nomico e che hanno contribuito alla definizione di un’i-dentità provinciale strutturata (Bevilacqua, 1988; Masel-la, Salvemini, 1989): dalla bonifica integrale del Tavolie-re alla costruzione di grandi infrastrutture di comunica-zione, prima ferroviarie e poi stradali, e dalla riformaagraria agli interventi della Casmez e alla politica dei polidi sviluppo industriale.

Negli ultimi anni il territorio della Capitanata è statointeressato da una serie di piani e progetti predispostidagli enti locali e da vari soggetti pubblici e privati nel-l’ambito dell’utilizzo degli strumenti della programma-zione negoziata e dei fondi comunitari, dai Patti Territo-riali ai Programmi di Iniziativa Comunitaria Leader II eUrban, dal Contratto d’Area di Manfredonia al Program-ma di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibiledel Territorio (Prusst). Ancora oggi, come dall’inizio del-la sua storia recente, la provincia si presenta come un’a-rea-laboratorio di politiche di intervento sul territorio,cui si va aggiungendo, più recentemente, la dimensioneregionale dei Progetti Integrati.

Nel complesso, tutti i programmi che oggi interessa-no la Capitanata fanno riferimento, in maniera più omeno marcata, alle risorse locali e allo sviluppo sosteni-bile, pur agendo, in linea di massima, secondo logicheche spesso si rivelano settoriali. Un’analisi complessivadelle politiche che interessano lo spazio provinciale, edella territorialità espressa nei progetti non è possibilequi per carenza di spazio. In questo contributo, ci soffer-

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LINEAMENTI PER UNA DEFINIZIONE DEI SISTEMI LOCALI TERRITORIALI IN CAPITANATA

Patto del Fortore: comuni di Apricena, Carlantino, Casalnuovo Monterotaro, Ca-salvecchio di Puglia, Chieuti, Lesina, Poggio Imperiale, S. Paolo di Civitate, S.Severo, Serracapriola, Torremaggiore. Patto Prospettiva Subappennino: Accadia,Alberona, Anzano di Puglia, Ascoli Satriano, Biccari, Bovino, Candela, Carlan-tino, Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia, Castelluccio di Sauri,Castelluccio Valmaggiore, Castelnuovo della Daunia, Celenza Valfortore, CelleS. Vito, Deliceto, Faeto, Lucera, Monteleone di Puglia, Motta Monte Corvino,Orsara di Puglia, Panni, Pietramontecorvino, Rocchetta S. Antonio, RosetoValfortore, S. Marco La Catola, S. Agata di Puglia, Troia, Volturara Appula, Vol-turino. GAL Monti Dauni: Alberona, Biccari, Carlantino, Casalnuovo Montero-taro, Casalvecchio di Puglia, Castelnuovo della Daunia, Celenza Valfortore,Motta Monte Corvino, Pietramontecorvino, Roseto Valfortore, S. Marco LaCatola, Volturara Appula, Volturino. GAL Meridaunia: Monteleone di Puglia,Troia, Deliceto, Accadia, Anzano di Puglia, Bovino, Orsara di Puglia, Castel-luccio Valmaggiore, Celle S. Vito, Faeto, S. Agata di Puglia, Rocchetta S. Anto-nio, Candela. Patto di Foggia: intera provincia di Foggia. Patto per l’agricoltura:intera provincia di Foggia. Patto per la pesca: Manfredonia, Lesina, Ischitella,Cagnano Varano, Mattinata, Isole Tremiti, Vieste, Poggio Imperiale, Monte S.Angelo. Patto del Gargano (protocollo d’intesa): Cagnano, Carpino, Ischitella,Peschici, Rodi, Vico del Gargano. GAL Piana del Tavoliere: Cerignola, Ortano-va, Stornara. Contratto d’Area di Manfredonia: Manfredonia, Monte S. Angelo,Mattinata. Patto del Nord barese-ofantino: Trinitapoli, Margherita di Savoia. PattoAscoli-Candela.

Fig. 1 – Sintesi dei progetti in provincia di Foggia

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meremo brevemente sulla segmentazione della provinciache emerge dal quadro della programmazione di fineanni ’90, per poi concentrare l’attenzione sul Contrattod’Area di Manfredonia, in quanto strumento che“accompagna [...] il territorio nello sforzo per superarela crisi che lo ha colpito e nel ridisegnare il proprio svi-luppo”1 e come caso di studio rilevante per verificare laterritorialità di un progetto che ha una spiccata dimen-sione locale.

Il lavoro sul caso foggiano si poneva, infatti, nellaprospettiva di ipotizzare l’esistenza di sistemi locali terri-toriali (SLoT) in Capitanata, sulla base dei progetti ela-borati nell’ambito della programmazione economica eterritoriale. La carta della progettualità e della program-mazione provinciale è stata confrontata con le rappre-sentazioni geografiche tradizionali della Capitanata econ quelle che, più recentemente, emergono da propo-ste e studi che provano a dare una rappresentazioneinnovativa della provincia (Mercurio, 1999; Contò,2002). Un primo livello di analisi ha cercato, quindi, dievidenziare da un lato le gerarchie interne e i rapportitranscalari dei vari perimetri e, dall’altro, il livello di inte-grazione/disintegrazione del territorio provinciale e ilquadro dei conflitti che emerge fra le varie sub-aree e alloro interno.

Dall’insieme dei progetti s’individua una partizionesostanzialmente ricalcata su quella tradizionale, solo piùarticolata nel profilarsi di una divisione in tre parti dellapiana, settentrionale, centrale e meridionale, mentre siconfermano nel Gargano, nel Subappenino settentriona-le e in quello meridionale le altre realtà omogenee dellaprovincia2. Sostanzialmente, emerge una geografia dellaprovincia fondata su due assi principali di sviluppo, quel-lo storico, longitudinale, a prevalente indirizzo agricolo-

1 Dalla delibera Cipe del 21/3/1997; la documentazione com-pleta sul Contratto d’Area di Manfredonia è reperibile sul sito inter-net www.comune.manfredonia.fg.it.

2 Più complesse potrebbero essere ipotesi di partizione che ten-gano conto anche delle relazioni della provincia con quelle delleregioni confinanti e che indaghino sulle microscale dello sviluppolocale.

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industriale, che si snoda tra i centri di San Severo, Luce-ra, Foggia, Manfredonia e Cerignola, ed una direttricetrasversale più moderna, con un orientamento industria-le più marcato, che sembra delinearsi da Manfredoniaverso Foggia, Cerignola e il confine con la Basilicata e ilMelfese (comune di Ascoli Satriano). Resta marginale ilruolo della gran parte delle aree subappenniniche, men-tre l’area garganica, Parco Nazionale, segue una suatraiettoria di sviluppo fondata su ambiente e turismo.

Il sovrapporsi di diverse geografie della provincia,pur brevemente delineata, testimonia della conflittualitàfra le reti locali di soggetti interessati ai progetti3 e richie-derà un ulteriore approfondimento. In generale, il pro-blema resta quello dell’integrazione e/o della competiti-vità all’interno della pentapoli provinciale, cui va aggiun-ta, per la sua crescente importanza, S. Giovanni Rotondo.Le sei città, infatti, concentrano oltre il 60% del redditoprovinciale e il 56% degli abitanti.

Nei vari esempi forniti dalla recente progettualitàritroviamo la possibilità di riscontrare e valutare alcunedelle categorie che teoricamente definiscono un sistemalocale territoriale (SLoT): a) la rete locale dei soggetti,ovvero i soggetti pubblici e privati che formano i proto-colli d’intesa per promuovere Patti Territoriali, Prusst,Contratto d’Area ecc.; b) il milieu locale, e quindi il ter-ritorio, e il paesaggio di zone con caratteristiche peculia-ri come il Gargano, il Subappennino, il Tavoliere, in rela-zione con la rete dei soggetti locali; c) il valore aggiuntodella territorialità, cioè il progetto come tentativo di atti-vare una sinergia tra la rete dei soggetti locali e la messain valore di specifiche patrimonialità locali.

Più complesso è verificare l’esistenza di un sistematerritoriale locale nelle connessioni tra le “territorialitàsoggettive” delle reti di attori che operano localmente e

3 Una visione generale di ricomposizione può essere quella dise-gnata dal Prusst della Capitanata, che ha “la funzione di ordinare sulterritorio gli interventi previsti da altre iniziative avviate sulla basedegli strumenti della programmazione negoziata (Patti Territoriali,Contratti d’Area) ovvero di affiancare, anche in termine di finanzia-mento, le predette iniziative” (art.3 del bando allegato al D.M.8.10.1998, n.195).

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il milieu. Il problema diventa delicato soprattutto nellaprospettiva di ri-fondare un progetto locale che s’inseri-sca in un percorso-progetto di riequilibrio, di riqualifica-zione, di ripensamento di uno sviluppo attento alle risor-se umane e naturali, alle relazioni (individuali e sociali)e al vivere i luoghi come crescita e autodeterminazionedella libera dignità umana.

Una carta dei possibili SLoT della Capitanata potràessere meglio definita nel momento in cui si andranno avalutare i piani di “area vasta”, la pianificazione territo-riale dei cinque grandi comuni della pentapoli (ai qualiandrà aggiunta l’emergente S. Giovanni Rotondo) equella regionale, in modo da cominciare a ri-comporre ilmosaico delle trasformazioni territoriali, economiche esociali della Capitanata. Per il momento una priorità èstata data allo studio del caso di Manfredonia, a partiredal “Contratto d’Area”, che nelle sue linee evolutive rias-sume, in parte, le vicende recenti dei sistemi locali terri-toriali della Capitanata.

La scelta di lavorare sull’ipotesi di Manfredoniacome sistema locale territoriale deriva inoltre dalla possi-bilità di confrontare l’esistenza di un sistema definito daun progetto, coincidente con il Contratto d’Area, con levisioni alternative espresse all’interno della società civile,recuperando quanto emerge dalle proposte dei soggettiche a Manfredonia si pongono criticamente rispetto aglieffetti prodotti dal Contratto stesso.

2. Contratto d’area e sviluppo locale a Manfredonia

Gli elementi che ci consentono di ragionare su alcu-ni connotati del sistema locale di Manfredonia, al fine diuna verifica di talune condizioni del modello SLoT(Dematteis, 2001), si basano su alcuni connotati speci-fici.

In primo luogo, vi è la coincidenza con l’area indivi-duata per l’applicazione del Contratto d’Area, ma secon-dariamente anche con una possibile visione alternativa disoggetti locali. Si configura cioè in questo caso di studiouna dialettica tra modelli di sviluppo diversamente radi-cati nel territorio: quello in atto, rappresentato dal Con-

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tratto d’Area, fondato sulla valorizzazione di opportunitàe risorse esistenti (disponibilità di spazi, costo della ma-nodopera, agevolazioni di vario tipo) e una proposta al-ternativa, seppure non strutturata secondo una precisaforma-progetto, che prospetta la possibilità di ri-costruireun “progetto locale” nel senso descritto da Magnaghi(2000), basato sulla memoria dei luoghi e sull’apportodei movimenti e di parti della società civile, fra cui le don-ne, protagoniste della lotta condotta contro i danniall’ambiente e alla salute provocati dall’ex stabilimentoEnichem di Manfredonia4. Sullo sfondo, la governance delprocesso di trasformazione dell’area industriale condottadalle istituzioni, viste come portatrici e mediatrici d’inte-ressi.

I tre comuni oggetto del Contratto, Manfredonia,Monte S. Angelo e Mattinata, sono compresi nell’area delParco Nazionale del Gargano e hanno una popolazioneresidente al censimento 2001 pari a 78.413 abitanti, dicui 57.864 a Manfredonia. Alla stessa data gli occupaticensiti sono 20.430 (15.990 a Manfredonia). Manfredo-nia, Mattinata e Monte S. Angelo occupano rispettiva-mente l’82°, il 175° e il 187° posto nella graduatoriaregionale dei comuni pugliesi in base al valore aggiuntoprodotto per abitante (anni 1995-2001)5.

All’origine della stipula del Contratto d’Area c’è ilprocesso di deindustrializzazione conseguente alla chiu-sura (nel 1993), dopo una crisi iniziata alla fine deglianni ’80, dello stabilimento Enichem-Agricoltura di Mac-chia-Monte S. Angelo, cuore del polo di sviluppo indu-striale di Manfredonia, creato nel quadro delle politiche

4 “Come donne e come madri, essendo produttrici di vita non ciriconosciamo in una mera logica di profitto capace di monetizzarequalunque rischio, ma chiediamo che si sostituisca la logica quantita-tiva di progresso con quella qualitativa ridefinita socialmente ed eco-logicamente. Noi riteniamo che tutti insieme dobbiamo riscoprire unatteggiamento “al femminile” verso la natura, che sia di cura e rispet-to e non di rapina e conquista” (da un documento del Comitato Don-ne di Manfredonia del 1988).

5 Con un valore pari , rispettivamente, a 20.8 milioni, 15.2 milio-ni e 14.4 milioni di lire (Osservatorio regionale banche-imprese dieconomia e finanza, Il Sistema Puglia, rapporto annuale 2002).

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d’industrializzazione del Mezzogiorno degli anni ’60. Sistima che la chiusura dell’Enichem abbia comportatouna perdita di posti di lavoro tra le 3-5 mila unità, consi-derando l’indotto.

La crisi della produzione chimica non è stata solofrutto della congiuntura economica, ma è stata determi-nata in misura rilevante dalle note vicende di protestapopolare verificatesi a Manfredonia tra la fine degli anni’80 e l’inizio dei ’90.

La contestazione contro la fabbrica fu portata avantida un vasto movimento cittadino, che protestava controuna lunga storia di incidenti e inquinamento ambientalei quali, oltre a provocare seri danni all’ambiente, avevanoanche gravemente colpito la situazione della salute, conla diffusione di malattie riconducibili alla produzionechimica. La contestazione arrivò anche a prefigurare unavera e propria messa in discussione del modello di svi-luppo rappresentato dal polo industriale chimico, conuna diffusa presa di coscienza nella società civile dell’a-rea, nonostante la prevedibile perdita di posti di lavoro.E’ per questo motivo che ci sembra utile confrontare bre-vemente le vicende dell’attuazione del Contratto d’Areacon le visioni di uno sviluppo alternativo derivate daquella protesta.

Il Contratto per l’Area di Manfredonia (Rosa, Gu-glielmetti,1998), sottoscritto nel marzo 1998, ha comeobiettivi, coerentemente con la normativa:

- dare rapida attuazione alle nuove iniziative im-prenditoriali per qualificare e valorizzare il territorio;

- rendere agibili ed utilizzare le aree dismesse o nonutilizzate;

- definire tra le parti sociali e le istituzioni condizio-ni capaci di favorire l’insediamento di nuove iniziativeproduttive, sia in tema di infrastrutture che di program-mazione delle risorse locali, stimolando una politica delsistema creditizio che ne renda meno oneroso e piùconveniente il ricorso agli operatori;

- qualificare e valorizzare le risorse umane e pro-fessionali disponibili nell’area, favorendo l’occupazionefemminile nell’ambito di un sistema di pari opportu-nità;

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- attivare fonti finanziarie complementari, quali lerisorse comunitarie, nazionali, regionali e locali atte adefinire progetti rivolti all’occupazione giovanile e alreinserimento della manodopera espulsa dal mondo pro-duttivo a causa della crisi dell’area in questione;

- favorire insieme alle condizioni per nuove iniziati-ve industriali, azioni comuni per la nascita di un indottoche permetta il consolidamento dell’integrazione tragruppi e piccole imprese, attraverso processi di terziariz-zazione di attività complementari (art.1 dell’accordo frale parti sociali, allegato n.1 del Contratto d’Area di Man-fredonia del 3.3.1998).

Gli strumenti per raggiungere gli obiettivi sono:a. finanziamenti pubblici sia per la realizzazione

degli investimenti privati, sia per l’approntamento delleinfrastrutture principali delle aree industriali;

b. iniziative utili a migliorare la corrispondenza tra ladomanda e l’offerta di lavoro (osservatorio del mercatodel lavoro);

c. deroga ai contratti di formazione e lavoro;d. agevolazioni-deroga sui rapporti di lavoro (ap-

prendistato, assunzioni a tempo determinato, flessibilitàdell’orario di lavoro):

e. protocollo di legalità per assicurare “… nell’areaed in tutto l’hinterland, un clima sociale favorevole econdizioni ambientali sicure” (allegato n. 3 del Con-tratto).

In sintesi si è concertata “…un’azione rivolta, da unlato, ad assicurare una soddisfacente gestione degliurgenti problemi occupazionali e, dall’altro, a predi-sporre le condizioni per il riavvio di un permanente svi-luppo, mediante un programma di interventi fondato sutre linee: di sostegno al mercato del lavoro, di rafforza-mento del comparto infrastrutturale e della fornituradei necessari servizi di pubblica utilità, di avvio delladeindustrializzazione dell’area mediante la promozionedi nuove iniziative imprenditoriali” (art. 1 del Contrat-to).

Il Contratto prevedeva inizialmente 7 iniziative indu-striali per un investimento di 62 miliardi di lire ed un’oc-

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cupazione stimata in 370 unità. Tali iniziative risultavanofinanziate con fondi della L. 488/92 e della Sovvenzioneglobale dell’Ue.

L’attività di promozione svolta da Manfredonia Svi-luppo (consorzio per la promozione, con la collaborazio-ne dell’Enisud, di attività imprenditoriali) ha portato,inoltre, all’individuazione di una serie di iniziative che,unite a quelle derivanti dal “gemellaggio” tra l’Associa-zione Industriali della Capitanata e quelle di Vicenza eTreviso, sarebbero poi state oggetto di un secondo proto-collo aggiuntivo.

Il Contratto è stato firmato il 4 marzo 1998 presso laPresidenza del Consiglio del Ministri ai sensi della L.662/96, art. 203 e ai sensi della delibera CIPE del 21 mar-zo 1997, che indica le modalità e i criteri “per la realizza-zione di un ambiente economico favorevole all’attivazio-ne di nuove iniziative imprenditoriali ed alla creazione dinuova occupazione”. E’ stato siglato dai rappresentantidel Governo, dai Sindacati dei Lavoratori, dalle Associa-zioni degli Imprenditori, dagli Amministratori Locali. Leparti hanno contestualmente provveduto a nominare ilResponsabile Unico del Contratto d’Area, nella personadel Sindaco di Manfredonia.La stipula del Contratto èstata quindi la formalizzazione di una lunga fase di con-certazione avutasi tra le parti sociali; infatti, proprio lacoesione delle stesse ha creato quei presupposti di sicu-rezza necessari affinché il Governo rendesse disponibiligli ingenti capitali per la riuscita del Contratto stesso.

Obiettivo del Contratto è quello di insediare nuoveattività produttive nell’area, anche all’interno dell’exstabilimento Enichem, avvalendosi della dotazione infra-strutturale già presente, e di dare un’alternativa occupa-zionale principalmente a coloro che avevano perso illavoro in seguito alla chiusura dello stabilimento. Fannoparte del Contratto l’accordo fra le amministrazioni, l’in-tesa con le parti sociali, il protocollo di legalità.

Le iniziative imprenditoriali interessate sono circa 70(primo e secondo protocollo). Gli investimenti previstierano all’incirca pari a 1.300 miliardi di lire, di cui 800 dicontributi. L’occupazione prevista, a regime, è di circa4.000 unità. A tutt’oggi le aziende con personale assuntosono 41 con 936 occupati.

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Un notevole impulso alla riuscita è stato dato dal Pro-tocollo d’Intesa (del 10/3/1998) per lo sviluppo di unpartenariato d’impresa tra l’area di Treviso e Vicenza equella di Foggia, stipulato per invogliare le imprese delNord-Est, già allora attratte da opportunità di investimen-to all’estero, a guardare con attenzione ai particolari van-taggi localizzativi previsti per l’area di Manfredonia: i con-tributi finanziari, le maggiori condizioni di flessibilità dellavoro, l’accelerazione dei tempi amministrativi, la garan-zia del controllo del territorio, la presenza di manodoperaqualificata e “cultura” industriale e le prospettive d’inter-nazionalizzazione di uno spazio in posizione strategicarispetto al Mediterraneo orientale e all’area balcanica.

Le associazioni imprenditoriali hanno assunto gli im-pegni, nel citato protocollo, nella comune convinzioneche il gemellaggio rappresentasse “uno strumento strate-gico per il rilancio dell’economia meridionale in termininon assistenziali e, al contempo, sinergici alle necessità disviluppo e di delocalizzazione produttiva del sistema del-le aree settentrionali rappresentate”. Non era estraneaall’accordo la situazione di saturazione del sistema pro-duttivo dei distretti industriali veneti. I progetti indu-striali assistiti da Unindustria Treviso nell’ambito delContratto d’Area sono attualmente 16 (il 39% delleaziende insediate ad oggi) di cui 6 hanno già attivato gliimpianti produttivi, mentre la restante parte dovrebbeentrare in funzione entro l’anno.

Le attività produttive previste sono le più disparate,dalle materie plastiche all’abbigliamento e alla compo-nentistica meccanica, mentre non compaiono attività inqualche modo riconducibili alle risorse locali, come lapesca.

I problemi tuttora aperti per la realizzazione di quan-to preventivato si riscontrano nelle carenze infrastruttu-rali che ancora affliggono il comprensorio (per la situa-zione del porto e dei collegamenti ferroviari e aerei), nel-la riconversione delle attrezzature dell’ex Enichem, nellarealizzazione delle opere di urbanizzazione primaria pre-viste nel comune di Manfredonia e nella bonifica del sitoEnichem. Si è registrato, inoltre, il ritardo dell’istituzioneregionale nel formulare la valutazione sui vincoli di natu-ra ambientale compresi nelle nuove varianti urbanisti-

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che, mentre scarsa attenzione è stata rivolta alla crisi deirifornimenti idrici nell’area6.

In sintesi, a tutt’oggi, il Contratto d’Area di Manfre-donia è un progetto gestito da protagonisti istituzionali,in parte nazionali, in parte locali, con un ruolo impor-tante di coordinamento svolto dalle imprese (Fig. 2). Iltipo di sviluppo che ne deriva è fortemente influenzatodall’esterno, poco radicato nel milieu locale e sostanzial-mente teso alla valorizzazione della posizione geoecono-mica e geopolitica di Manfredonia, per mezzo di un pia-no d’insediamenti produttivi (Rinella, 1999; Rinella,Lusi, 2001). Non sembra possibile, quindi, parlare di unosviluppo locale di tipo sistemico (Garofoli, 1999) né di“sentieri incrociati dello sviluppo italiano” (Corò, 1999),né è verificabile una produzione di valore aggiunto terri-toriale nel senso inteso da questa ricerca e secondo i cri-teri della sostenibilità. La governance del progetto è gesti-ta con forme poco attente al coinvolgimento dal bassodei soggetti locali nella fase di proposta (secondo lo sche-ma: deciso-concertato-negoziato); la stessa raccolta delleinformazioni sui progetti presentati dalle imprese si èrivelata difficoltosa.

Fig. 2 – Manfredonia: la rete dei soggetti interessati al Contratto d’Area

SOGGETTI ISTITUZIONALI NAZIONALI: Presidenza delConsiglio dei Ministri (Comitato di Coordinamento delleiniziative per l’occupazione), Ministero del Lavoro e dellaPrevidenza Sociale, Ministero dell’Industria, del Commercioe dell’Artigianato.SOGGETTO ISTITUZIONALE DEL SISTEMA LAVORO:Cgil-Cisl-Uil.SOGGETTI ISTITUZIONALI DEL SISTEMA IMPRESA: As-sociazioni Industriali di Capitanata, di Treviso e di Vicenza.ENTI LOCALI: Regione Puglia, Provincia di Foggia, Comu-ni di Manfredonia, Monte S. Angelo, Mattinata.ENTI INTERMEDI (TECNICI): Asi, Manfredonia Sviluppo,Acquedotto Pugliese, Asl Foggia2, Enel, Vv.Ff., Sovrinten-denza Archeologica della Puglia.

6 I problemi citati sono desunti dalla relazione semestrale, al31/12/2001, del Responsabile Unico del Contratto d’Area.

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La rete dei soggetti, pubblici e privati, che si costitui-sce attraverso gli strumenti dei Patti Territoriali, Accordidi Programma, Contratti d’Area ecc. è intesa come uninsieme che si muove in quanto “attore collettivo”. Nelcaso del Contratto d’Area di Manfredonia il motore del-l’agire sono l’impresa (con i suoi aspetti produttivi, finan-ziari, organizzativi) e il mercato. Si tratta, quindi, di unattore collettivo, con una specifica strategia economica,politica, sociale e culturale, di ispirazione marginalista,che trova nell’Asssociazione Industriali della Capitanataun forte soggetto egemonico, dominante e di coordina-mento. Peraltro, il modello di “progetto locale” propostoper la provincia di Foggia, per il tramite delle opportunitàgarantite dalla programmazione negoziata, trova inizio dielaborazione da parte del Centro Studi dell’Associazionedegli Industriali di Capitanata, sin dagli anni Novanta.

Quale significato, quindi, dare alle rete dei soggetti?I soggetti sono dati o si costituiscono e costruisconosecondo un progetto locale? Per usare la metafora dellarete possiamo ipotizzare da un lato una forte rete diimprese che esprime progettualità, strategia e orienta letrasformazioni territoriali e, dall’altro, una debole retedella società civile e dell’associazionismo, in forte crisi.Lo sviluppo territoriale, con il suo ambiente, la sua storia,il suo paesaggio, le sue risorse umane e naturali, comeinteragisce con la rete dei soggetti in modo da creare“valore aggiunto territoriale”, se il modello di sviluppoproposto è ancorato ad una logica di semplice valorizza-zione, tesa al mercato in misura preponderante?

Le lotte popolari di Manfredonia, che ebbero inizioin maniera determinante nel 1988 e le cui vicende sonorintracciabili nelle cronache, sono alla base di quella dif-fusa consapevolezza civile e sociale che ha prodotto l’at-tuale “Coordinamento per la Valorizzazione e la Salva-guardia del Territorio” di Manfredonia.

I soggetti che compongono il Coordinamento appar-tengono, in particolare, al mondo ambientalista, al mon-do della scuola, ad associazioni di tutela della salute e del-l’ambiente (come Medicina Democratica e il Tribunaledei Diritti del Malato) e ad una rete di “soggettività fem-minile” collegata all’associazione femminile “Bianca Lan-cia”.

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Il passaggio dalla prima fase di lotta (per la chiusuradell’Enichem e per un modello di sviluppo alternativo) aquella attuale è stato “garantito” dalla resistenza e dalpensiero femminile: le donne hanno avuto un ruolo nelriconoscimento di Manfredonia come “area di crisi” (dacui è derivato il Contratto d’Area); hanno svolto la batta-glia vinta alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sen-tenza di Strasburgo del 19/2/19987; hanno assunto unpeso determinante nel condurre la vertenza contro l’E-nichem per il riconoscimento delle sue responsabilità edelle sue colpe nel disastro ambientale del 1976 (cadutasul territorio di 30 tonnellate circa di anidride arseniosa)e nei numerosi decessi che ne sono stati ritenuti direttaconseguenza (per l’elevata incidenza dei tumori nellazona, come è stato rilevato da un rapporto dell’Organiz-zazione Mondiale della Sanità); sono coinvolte nel costi-tuendo processo di Agenda 21 di Manfredonia; sono pro-tagoniste attive nel costruire, a partire dalla propria ”sog-gettività”, una proposta di salvaguardia e valorizzazionedel territorio.

Il Coordinamento ha prodotto un documento didenuncia sul Contratto d’Area che riguarda, tra l’altro:gli aspetti dell’inquinamento prodotto dai nuovi insedia-menti; la mancata bonifica del territorio inquinato dal-l’Enichem; l’assenza della VIA per alcuni insediamentiprevisti; la incompatibilità di alcuni insediamenti (peresempio l’Isosar, un megaimpianto per lo stoccaggio e ladistribuzione di Gpl) con le normative del Parco Nazio-nale del Gargano; la mancanza di tutela e di pianificazio-ne di aree sottoposte a vincolo di “Sito di Importanza Co-munitaria” (Sic) e “Zona di protezione Speciale” (Zps);la mancata tutela di aree archeologiche rilevanti.

Il Coordinamento lamenta che “il Contratto d’Area,lo strumento che avrebbe dovuto agevolare lo sviluppoindustriale ordinato, si sta tuttavia risolvendo, per il mo-do in cui viene gestito, in un meccanismo che, anzichésalvaguardare le risorse locali e sfruttarne correttamente

7 La sentenza condanna “la Nazione italiana al risarcimento perdanni […] a 40 donne” in rappresentanza del “movimento cittadinodelle donne” che ha lottato per la tutela della salute e la salvaguardiadell’ambiente.

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le potenzialità, si propone di assicurare esclusivamente laformazione di nuovi posti di lavoro, a discapito della esi-genza di proteggere altri interessi costituzionalmentegarantiti e di tutelare le vocazioni più autentiche del ter-ritorio. I responsabili del Contratto, trascurando che l’at-tribuzione a Manfredonia degli enormi incentivi finan-ziari rappresenta una forma di risarcimento per i danniche il territorio ha subito per effetto di una industrializ-zazione selvaggia ed irresponsabile, non hanno voluto osaputo comprendere che, per evitare di incorrere neglierrori del passato, occorreva orientare il processo di rein-dustrializzazione nella direzione di un modello di svilup-po che tenesse soprattutto conto delle gravi emergenzeambientali ereditate da industrie la cui incompatibilitàera già sperimentata, e favorisse in via esclusiva l’insedia-mento di attività dall’impatto sostenibile, in conformitàdella ininterrotta evoluzione legislativa del settore. Cosìnon è stato. Industrie insalubri e inquinanti sono stateinsediate nella stessa area su cui sorgevano gli impiantichimici che hanno lasciato in eredità migliaia di tonnel-late di rifiuti pericolosi, avvelenato i suoli e le falde acqui-fere, violentato le risorse marine.” (Coordinamento perla Valorizzazione e la Salvaguardia del Territorio, 2000 e2002).

Il documento citato testimonia, in sintesi, della conti-nuità di una rete di soggetti deboli (Fig. 3), che faticaoggi a trovare le forze e ad aggregare il consenso per pro-durre un progetto a partire dal milieu locale, basato sul-le risorse marine e del litorale, che coniughi soggettivitàumana e soggettività naturale e che recuperi criticamen-te la storia recente, economica e ambientale, di Manfre-donia. La rete è imperniata sul movimento che, undecennio fa, ha mobilitato l’intera popolazione dellacittà, spiazzando i partiti e il sindacato, ponendo al cen-tro della discussione la difesa del diritto alla salute, allasalvaguardia dell’ambiente e al lavoro, che si oppone auna valorizzazione delle risorse locali di Manfredonia im-prontata su logiche di profitto esterne, poco attente allasostenibilità locale, prima rappresentate dal polo chimi-co, oggi dal Contratto d’Area.

Questa resistenza si legittima anche al di là dellapredisposizione di un progetto alternativo, per quanto

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sia auspicabile che proprio dalla contrapposizione nascail consenso per un approccio di progetto locale sosteni-bile (Magnaghi, 2000; Bettini et al., 2002). “Manfredoniaè un concentrato di problemi ambientali aperti e da risol-vere, un reale e vivente laboratorio di ecologia applicata”(Nebbia, 2002)

Fig. 3 – Manfredonia: la rete dei soggetti deboli

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Tra la Murgia e il Basento: le potenzialità di unSistema Locale Territoriale interprovinciale einterregionale

Aldo di Mola – Luigi Stanzione*

Lo sviluppo economico, socio-culturale e territorialedella Basilicata sembrerebbe far perno su fulcri collocatiai margini della regione stessa e, in alcuni casi, sulle rela-zioni che si stabiliscono con aree extraregionali.

Alla base di tali relazioni vanno posti la configurazio-ne della rete viaria, gli impulsi che derivano da impor-tanti localizzazioni produttive, nonché i ruoli espressi daalcune realtà urbane. In particolare, ciò vale soprattuttoper il Vùlture-Melfese, il Metapontino e il Materano(Viganoni, 1997, pp. 21-22, e 1999).

Per ciò che concerne quest’ultima area, e soprattut-to la città di Matera, notevoli appaiono i processi di cre-scita economica, imputabili sia alla diffusione dell’indu-stria, sia a quella del terziario avanzato, nonché al conso-

* Per quanto l’indagine sia il risultato di una stretta collaborazio-ne fra i due autori, la stesura dei paragrafi 1, 2 e 3 è da attribuirsi a A.di Mola, mentre quella dei paragrafi 4, 5 e 6 a L. Stanzione. La pre-messa è di entrambi. Per ciò che concerne gli aspetti metodologici, ilnostro lavoro fa riferimento a quanto collettivamente discusso e mes-so a punto dal gruppo di ricerca. In particolare, a fronte delle carat-teristiche dell’area di studio prescelta, si sono utilizzati come stru-menti interpretativi soprattutto i concetti di: reti di soggetti locali(intesi come reti socio-territoriali), entità territoriali intermedie, auto-progettazione e autorganizzazione, governance (Sommella, 2003).

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ALDO DI MOLA - LUIGI STANZIONE

lidamento di un emergente comprensorio turistico, ingrado di attrarre un crescente numero di visitatori, grazieal patrimonio paesaggistico-naturalistico e storico-cultu-rale.

Le aperture più significative avvengono verso la Mur-gia pugliese, in direzione dei limitrofi comuni baresi –parzialmente sottratti all’influenza dell’area metropolita-na del capoluogo regionale – e dei centri del basso taran-tino che scontano una certa marginalità nei confrontidelle dinamiche del litorale ionico. Ciò che ci sembra dipoter cogliere, anche in prima approssimazione, è che lacittà dei Sassi esprime attualmente una centralità di ruo-li e funzioni urbane che, per molti aspetti, prescinde daivincoli posti dalle campiture amministrative regionali eprovinciali.

Nello stesso tempo i centri della collina, che costitui-scono la prima cintura della città di Matera, e quelli chesi affacciano sulla Valle del Basento intrattengono econsolidano intensi rapporti con il capoluogo. In molticasi si tratta di rapporti di dipendenza – soprattutto per icomuni più piccoli – ma in altri gli scambi avvengono sul-la base di specializzazioni produttive, come quelle dell’a-rea collinare (filiere dell’olivicoltura e della cerealicoltu-ra), mentre quelli basentani poggiano sulle attività mani-fatturiere e su alcuni servizi alle imprese.

Inoltre, la pervasiva presenza del distretto del mobi-le imbottito, le consolidate relazioni di stampo sociale eculturale, il circuito turistico, incentrato sul comunepatrimonio storico-naturalistico, sembrerebbero delinea-re alcune precondizioni favorevoli alla formazione di ununico sistema locale territoriale appulo-lucano.

Emergono, dunque, relazioni bifronte imperniate suMatera – sostenute da una relativamente fitta rete dicollegamenti – e che poggiano anche su significative inte-razioni tra soggetti rappresentativi delle istituzioni e deltessuto sociale, in ambito economico e culturale.

È necessario osservare, invece, che dall’analisi deipiù recenti documenti della programmazione negoziata(Accordi di programma, Patti Territoriali, Pit), si mani-festa, come si dirà più avanti in dettaglio, una certa ten-denza alla frammentazione territoriale. Ciò appareimputabile allo scarso coordinamento tra i piani e le ipo-

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TRA LA MURGIA E IL BASENTO: LE POTENZIALITÀ DI UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE

tesi di sviluppo e alla debole attenzione, da parte di alcu-ni soggetti istituzionali, per le reali capacità delle com-ponenti del territorio di tessere reti e di organizzarsi insistemi che superino le maglie del découpage amministra-tivo.

1. Fisionomia del sistema territoriale

L’area di studio (Fig. 1), posta a cavaliere tra la regio-ne Basilicata e la Puglia, più precisamente tra la sezionemeridionale delle Murge e il corso del fiume Basento, èarticolata in tre sottosistemi:

- area murgiana pugliese: include i comuni di Gravi-na in Puglia, Altamura, Santeramo in Colle, Laterza eGinosa;

- Materano: oltre al comune capoluogo, ricompren-de i centri di collina di Irsina, Grassano, Grottole, Miglio-nico, Pomarico e Montescaglioso;

- Val Basento: include i centri di Ferrandina, Pisticcie Bernalda e quello, più interno, di Salandra.

Il territorio, nel suo complesso, è attraversato daimportanti assi di comunicazione viaria che dalla città diMatera consentono, a nord, i collegamenti con l’areametropolitana di Bari (S.S. 99 e 96), con Taranto ad est(S.S. 7 Appia) e con Potenza ad ovest (S.S. 407 Basenta-na). Quest’ultimo costituisce un raccordo sia con la Sta-tale Ionica, sia con il corridoio tirrenico (Reggio Cala-bria-Salerno-Napoli).

Del tutto carenti, invece, appaiono le infrastrutturedi trasporto ferroviario. Matera e Bari sono collegate dauna tratta, non elettrificata, a scartamento ridotto, men-tre la rete ferroviaria nazionale non raggiunge Matera egarantisce esclusivamente, attraverso lo snodo di Meta-ponto, i collegamenti con Roma, Taranto e Reggio Cala-bria.

Il sistema accoglie una popolazione residente che nel2001 era pari a circa 300.000 abitanti, concentrati soprat-tutto nei comuni pugliesi, in particolare Altamura, e inquelli lucani di Matera, Pisticci, Bernalda e Montesca-glioso (Tab. 1).

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ALDO DI MOLA - LUIGI STANZIONE

Fig. 1 – L’area di studio

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TRA LA MURGIA E IL BASENTO: LE POTENZIALITÀ DI UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE

Tab. 1 – Popolazione residente. Andamento intercensuale 1971-2001

1971 1981 1991 2001 Var. %1971-2001

Bernalda 10.753 11.748 12.037 11.928 10,9Ferrandina 8.814 9.157 9.427 9.340 6,0Grassano 6.755 6.261 6.065 5.791 -14,3Grottole 3.190 3.163 3.006 2.607 -18,3Irsina 8.263 7.242 6.558 5.726 -30,7Matera 44.513 50.712 54.919 57.075 28,2Miglionico 2.783 2.617 2.718 2.632 -5,4Montescaglioso 8.377 9.240 10.104 10.098 20,5Pisticci 16.463 17.685 18.311 17.820 8,2Pomarico 5.020 5.019 5.018 4.452 -11,3Salandra 3.488 3.515 3.663 3.109 -10,9Altamura 45.600 51.346 57.874 62.951 38,1Gravina in Puglia 32.299 36.226 39.261 41.988 30,0Santeramo in Colle 20.198 22.417 24.435 26.050 29,0Ginosa 17.373 20.284 21.907 22.099 27,2Laterza 11.674 13.448 14.505 14.883 27,5Totale 245.563 270.080 289.808 298.549 21,6Fonte: elaborazione su dati Istat

Questi stessi centri si segnalano nell’intervallo 1971-2001 per un consistente incremento della popolazione.Si osserva, inoltre, che le percentuali di decremento, cheriguardano essenzialmente le aree più interne della pro-vincia di Matera, nell’arco del trentennio, sono imputa-bili parzialmente a trasferimenti di residenza dai centri dicollina verso il capoluogo provinciale (Tab. 2).

Nel complesso il sistema locale, nello stesso interval-lo di tempo, cresce di circa 53.000 unità, con un incre-mento prossimo al 22%.

La struttura dell’economia del settore agricolo siconnota, nel complesso, per la presenza di differenti con-testi produttivi in relazione alle caratteristiche orografi-che, pedoclimatiche e morfologiche.

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ALDO DI MOLA - LUIGI STANZIONE

Tab. 2 – Iscrizioni e cancellazioni da e per Matera (1988-2002)

Iscrizioni Cancellazioni SaldoBernalda 195 129 66Grassano 169 58 111Grottole 204 55 149Ferrandina 216 92 124Irsina 142 31 111Miglionico 159 76 83Montescaglioso 227 131 96Pisticci 183 136 47Pomarico 139 74 65Salandra 119 23 96Comuni lucani 1.753 805 948Altamura 358 425 -67Ginosa 107 99 8Gravina 155 121 34Laterza 107 98 9Santeramo 154 139 15Comuni pugliesi 881 882 -1Totale 2.634 1.687 947Fonte: elaborazione su dati Istat

L’area può essere suddivisa in due insiemi omogenei.Da un lato, troviamo il paesaggio tipicamente collinare epianeggiante della Murgia materana e pugliese, domina-to da colture cerealicole, olivicole, viticole e dalla pre-senza di ovini (prevalentemente nelle zone collinari piùinterne), bovini (in special modo nel Laertino) ed equi-ni (nel Santeramano). Dall’altro, spostandoci verso lezone pianeggianti e costiere, in particolar modo sul ver-sante lucano, si dispiega quello che può essere conside-rato un “distretto agroindustriale”. Il clima decisamentemite e la presenza di sufficienti risorse idriche hannoconsentito lo sfruttamento dei terreni per la produzionedi ortive a pieno campo, frutteti, olivi e vite. La produ-zione lorda vendibile per ettaro, imputabile prevalente-mente al comparto ortofrutticolo, è stimata in circa 2.600euro e supera di gran lunga quella delle aree interne.Rilevante è la propensione dei produttori ad associarsiper le fasi di commercializzazione che, se da un lato haconsentito di accedere ai canali della distribuzione orga-

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TRA LA MURGIA E IL BASENTO: LE POTENZIALITÀ DI UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE

nizzata, sia nazionali che esteri, dall’altro, ha stimolatouna crescente tendenza a ottenere prodotti di alta qualitàche utilmente potranno essere collocati nei circuiti Doce Dop (Inea, 1999).

Anche il settore della trasformazione consta dinumerose aziende e di un discreto numero di addetti. Gliimpianti si concentrano per lo più nelle fasi di primalavorazione e nella conservazione dei prodotti agricoli.

Inoltre, in agro di Bernalda, si registra la presenza diun centro di ricerca di grande interesse, il ConsorzioMetapontum Agrobios, la cui importanza nel campo del-la sperimentazione si estende ben oltre i confini regionali.

I progressi e lo sviluppo dell’area dal punto di vistarurale trovano stimolo e sostegno anche nell’emergentecomparto turistico, il quale, oltre che sulle attrattiveambientali e culturali, può contare anche sull’offerta diprodotti eno-gastronomici locali tipici.

La struttura produttiva dell’area si caratterizza per lapresenza di un’industria manifatturiera scarsamentediversificata. Di fatto – settore del mobile imbottito a par-te – solo la presenza di alcuni comparti, concentrati pre-valentemente nei comuni di maggiore dimensione, èdegna di rilievo sia dal punto di vista delle unità localiche del numero addetti.

In dettaglio, il manifatturiero tradizionale assume unacerta consistenza nell’attività molitoria e nella produzionedi pasta e di prodotti da forno, facendo rilevare, accanto aimprese a capitale locale, la presenza di stabilimenti di im-portanza nazionale come, ad esempio, quello della Baril-la. Diversamente il comparto del tessile e, solo marginal-mente, le attività di concia e di trasformazione delle pellifanno registrare un contenuto numero di addetti.

Inoltre, l’industria e i prodotti della lavorazione dellegno, in parte riconducibile alla filiera del mobile imbot-tito, si segnala per la presenza di oltre mille addetti, distri-buiti in unità locali di media e piccola dimensione.

Il comparto della fabbricazione di prodotti chimici edi fibre sintetiche, concentrato nell’area della Val Basen-to, appare severamente ridimensionato rispetto all’im-portanza che assumeva negli anni Settanta, contandooggi solo alcune centinaia di addetti rispetto ai circa due-mila dell’epoca. Al contrario, la fabbricazione di articoli

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in gomma e di materie plastiche, con poco meno di mil-le unità, denota una positiva tendenza, anche per la pre-senza di aziende del Gruppo Ciminelli che realizzanocomponentistica per autoveicoli.

Al traino del settore edile, risultano fiorenti l’attivitàestrattiva di materiale di cava e quella della realizzazionedi laterizi da costruzione, e la fabbricazione di prodotti inmetallo (tondini d’acciaio e reti metalliche elettrosalda-te), che occupano nel complesso oltre duemila addetti.

Per quel che concerne il terziario, il territorio sisegnala per una discreta diffusione delle attività di servi-zio, con un’incidenza media lievemente al di sopra deivalori del Mezzogiorno e in linea con il riferimentonazionale. Si tratta di servizi che riguardano l’infrastrut-turazione sociale, la distribuzione commerciale e il con-sumo finale dei privati. Con particolare riguardo al ter-ziario avanzato, i centri di Matera e di Altamura svolgonoun ruolo “di servizio” che in molti casi supera i confinidella stessa area di studio. Matera, specialmente, mostrauna discreta dotazione di servizi alle imprese e di attività,pubblico-private, che afferiscono alla ricerca e allo svi-luppo tecnologico. Con riferimento ai primi è da sottoli-neare la presenza di Datamedia che effettua indagini diopinione e di mercato per conto di istituzioni pubblichee imprese private alla scala nazionale; in relazione allaricerca e all’alta formazione, invece, il polo universitariopresidia l’istruzione in campo umanistico e tecnico-scien-tifico1. Si segnala, infine, la presenza dell’Agenzia spazia-le italiana, di Telespazio e del Cnr (servizi di geodesia),nonché quella del Parco scientifico e tecnologico Basen-tech, (che svolge soprattutto attività di supporto e consu-lenza ai locali enti di sviluppo) e della Snia (che effettuaricerche a nel campo delle fibre tessili). Tali istituzionitendono a configurare una rete di centri di eccellenza dirilievo cui si affianca un tessuto di piccole imprese spe-

1 Sono attualmente operativi i Corsi di Laurea in Scienze dellaFormazione Primaria, Operatore dei Beni Culturali e Conservazionee Trasmissione delle Memorie Storiche; due scuole di specializzazioneper la formazione degli insegnanti e per la ricerca archeologica, que-st’ultima di rilevanza internazionale e, con riferimento al secondoindirizzo, Corsi di Laurea in Agraria e Ingegneria.

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TRA LA MURGIA E IL BASENTO: LE POTENZIALITÀ DI UN SISTEMA LOCALE TERRITORIALE

cializzate in servizi informatici, nonché l’importante at-tività di formazione che da alcuni anni il distretto del mo-bile imbottito ha messo in campo per la qualificazione ditecnici e maestranze.

2. Un passo indietro

Ripercorrendo a ritroso nel tempo le vicende di talearea, si osserva che, sin da epoche molto antiche, la sto-ria economica e quella politica hanno prodotto specifi-cità locali, conoscenze contestuali e capacità di auto-rap-presentazione che fanno pensare ad un unico sistematerritoriale.

Non è difficile, infatti, individuare percorsi storici,sedimentati, che permettono di ricostruire intensi rap-porti tra i territori lucani e quelli pugliesi contermini.Senza voler risalire a Orazio che, come ci ha ricordatoPasquale Coppola (1997, p. 464), “appariva indeciso neldefinirsi lucanus an apulus”, osserviamo che, già nel pri-mo secolo dopo il Mille, frequentemente i distretti ammi-nistrativi feudali abbracciavano terre comprese tra Luca-nia e Puglia tratteggiando una sorta di sutura tra le dueregioni (Contea di Montescaglioso e Conversano). Ma èsoprattutto in epoca federiciana che le relazioni econo-miche tra le due aree diventano più intense, testimonia-te anche dalla presenza di aziende agricole di proprietàcuriale (le massarìae), disseminate lungo i territori chesegnano oggi il confine tra Puglia e Basilicata. Succes-sivamente, dopo lunghi periodi di infeudamento, dovutoa un “baronaggio virulento ed esoso” (Cilento, 1977, p.265) che impoverirà la regione da un punto di vista eco-nomico e sociale, bisognerà aspettare il XV secolo perassistere a una complessiva ripresa. Le attività mercantililucane con i vicini centri pugliesi (Bitonto, Giovinazzo eTaranto) determinarono un infittirsi delle relazioni discambio che, con il successivo dispiegarsi dell’epoca rina-scimentale, favorì una rinnovata vivacità economica. Nel-la stessa città di Matera cominciava ad affermarsi un nuo-vo ceto di imprenditori commerciali, assai vicino a quel-lo che ormai caratterizzava la regione contermine (GiuraLongo, 1966, p. 23).

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Tuttavia, a partire dal 1663, anno in cui la città deiSassi diviene capoluogo della ‘Provincia di Basilicata’, sidelinea uno spartiacque amministrativo che trova il suocompimento nel XIX secolo, quando molta parte dell’at-tuale regione Basilicata viene attribuita al Dipartimentodel Bradano.

Appare piuttosto evidente, quindi, che nel corso del-la storia orientamenti politici differenti hanno volta pervolta privilegiato una diversa “collocazione” del Matera-no: appendice pugliese, quando venivano riconosciuti icaratteri di affinità sostenuti soprattutto da legami eco-nomici; capoluogo lucano, quando con maggior forza siafferma un’identità regionale lucana (Coppola, 1997, pp.465 e segg.).

Tuttavia, al di là di alcune affascinanti esercitazionigeopolitiche, anche recenti, la Basilicata non si frantumae non scompare dal novero delle regioni italiane (Cop-pola, 1997). D’altro canto, le relazioni esterne di talunearee tendono a rafforzarsi ulteriormente, ponendo cosìun problema di coordinamento territoriale che, a nostrogiudizio, potrebbe risolversi in maniera assai positiva,ipotizzando forme di governance a scala locale ma sovra-regionale. I tratti di un tale disegno sembrerebberoemergere, negli ultimi decenni, da alcune dinamichesostenute da attori capaci di modificare gli assetti econo-mici, sociali e territoriali delle aree in questione.

3. Percorsi di sviluppo recenti

Proprio in relazione all’area investigata, già a partiredagli anni Sessanta, prendono corpo ipotesi e azioni chepuntano al superamento della frammentazione dei terri-tori contermini attraverso l’infittirsi di relazioni orizzon-tali di carattere economico e culturale.

Il piano di sviluppo del polo chimico della Val Basen-to, ad esempio, sosteneva fortemente la necessità dell’in-tegrazione tra i comprensori industriali materani epugliesi. Il documento più importante prodotto neglianni Settanta, ovvero il Piano Regolatore Territoriale del“Nucleo industriale della Val Basento”, adottava una visio-ne complessiva di riorganizzazione sociale, economica e

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territoriale dell’intero comprensorio: “così da dar luogo auna ben definita regione socio-economica appulo-lucana…”2, superando dunque il mero intento di organizzazio-ne infrastrutturale degli insediamenti industriali.

Va sottolineato che, alla fine degli anni Ottanta, l’im-palco auspicato dal Piano trovava conferma in intensirapporti di pendolarismo e fenomeni di trasferimento diresidenza tra Matera e il resto dell’area. Era possibileindividuare, dunque, un “sistema materano ristretto”(esclusivamente comuni lucani), e un “sistema materanoallargato” (esteso ai comuni della cintura pugliese delcapoluogo lucano) (Cuoco, 1990).

In tempi ancora più vicini, con il declino dell’indu-stria chimica, gli attuali piani del consorzio della ValBasento, che tengono conto anche della presenza di nuo-vi insediamenti produttivi, ridisegnano un quadro pro-grammatico di sviluppo e un sistema territoriale di forma“stellare”, incentrato su Matera e che include proprio l’a-rea oggetto della nostra analisi.

Nel contempo, la crescente specializzazione produt-tiva dell’area nel comparto del mobile imbottito3 innerva

2 Il Consorzio, oggi denominato “Consorzio per lo sviluppo indu-striale della provincia di Matera”, include i seguenti comuni: Bernal-da, Calciano, Craco, Ferrandina, Garaguso, Grassano, Grottole, Irsina,Matera, Miglionico, Montalbano Jonico, Montescaglioso, Nova Siri,Pisticci, Policoro, Pomarico, Rotondella, Salandra, Scanzano, S. Mau-ro Forte, Tricarico e Tursi in Provincia di Matera; Altamura, Santera-mo in Colle e Gravina di Puglia in Provincia di Bari; Ginosa e Laterzain Provincia di Taranto.

3 A partire dal numero di addetti che (alla data del Censimentointermedio dell’industria) opera nelle aziende della filiera produttivadel distretto - più precisamente, 5.173 addetti alla fabbricazione dimobili - si può determinare il coefficiente di specializzazione pro-duttiva. Per l’area individuata il coefficiente in questione è pari a 7; sesi considera il numero di addetti alla fabbricazione di poltrone e diva-ni (4.651) l’indice di specializzazione produttiva relativo al compartoammonta a oltre 33 unità (Tab. 3). Ciò equivale a dire che l’area inquestione fa registrare una presenza di addetti al comparto 33 voltesuperiore a quella media nazionale. Attualmente, alcune stime del-l’occupazione, comprensive dell’indotto generato dal distretto delmobile imbottito, attribuiscono all’area un numero di addetti chesupera le 11.000 unità; si desume, dunque, che il valore del coeffi-ciente di specializzazione possa aumentare sensibilmente.

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il sistema da noi individuato, da un lato, conquistandospazi proprio nella Val Basento e, dall’altro, interessandoulteriori ambiti territoriali, nella parte più interna dellaprovincia di Bari e verso il Tarantino.

“Il triangolo del salotto può essere definito, oggi,come la somma dei Sistemi locali del lavoro di Matera,Bari-Murgia, Gravina, Bari-Centro” (Viesti, 2000, p. 97). Icapisaldi del distretto restano Altamura, Santeramo eMatera, insediamenti industriali separati da pochi chilo-metri. L’industria più importante, la Natuzzi, oggi quota-ta a Wall Street, con un numero di dipendenti che rag-giunge circa 5.000 unità e un fatturato che supera i 780milioni di euro, rappresenta il leader mondiale nella pro-duzione di divani imbottiti in pelle e presidia una note-vole quota del mercato nord-americano e di quello euro-peo. Seguono, anche se a distanza, la Nicoletti (più di600 dipendenti e 105 milioni di euro) e la Calia Salotti(500 dipendenti e circa 100 milioni di euro). Di parientità, per addetti e fatturato, risultano la Softline e laInterline.

Attualmente, l’area si caratterizza per la presenza dinumerosissime imprese minori, oltre 500, localizzateprincipalmente tra Altamura, Gravina in Puglia e Matera;parte di tali imprese, promuovendo un marchio proprio,ha conquistato i mercati internazionali, mentre la restan-te, attraverso rapporti di fornitura, opera lungo la filierache fa capo alle aziende leader.

È interessante osservare che nel distretto si coniugaoggi altissima tecnologia produttiva e know-how di tipoartigianale. La competitività si fonda anche sui bassi costidi produzione ottenuti attraverso il “sommerso” e i con-tratti di formazione lavoro.

Si assiste a una forte dilatazione della presenza disalottifici e di aziende collegate che interessa sul versantepugliese anche Ginosa e Laterza, e su quello lucano coin-volge, a seguito della riconversione del polo produttivodella Val Basento, le aree attrezzate previste dal Piano delconsorzio di sviluppo industriale di Matera.

Le attività in questione hanno favorito l’instaurarsi dirapporti tra produttori, tra questi e soggetti istituzionalilocali, piuttosto stretti (reti corte); ma si infittisconoanche importanti relazioni esterne: con il governo cen-

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ALDO DI MOLA - LUIGI STANZIONE

trale4 e con mercati internazionali (reti lunghe e “lun-ghissime”).

Tale pervasiva dinamica si configura come il risultatodi azioni sostenute da soggetti diversi (istituzione del “Di-stretto del mobile imbottito”, Accordo di programma trala Natuzzi SpA e il Governo nazionale, piano di riconver-sione dell’area industriale della Val Basento) e che, purnon definendo visioni strategiche unitarie, compongono,tuttavia, un sistema localizzato d’imprese dotato di fortilegami con il territorio e con il contesto sociale e cultu-rale di riferimento.

4. Ambiente, cultura e sostenibilità territoriale

All’interno del comprensorio individuato, prendeavvio negli ultimi dieci anni una “circolazione” turisticaorientata ai beni culturali e ambientali, presenti tanto interritorio lucano quanto in quello pugliese. I punti diforza del distretto sono rappresentati dal circuito dellechiese rupestri paleocristiane, dalla rete museale, dalpatrimonio naturalistico murgiano, dai reperti paleonto-logici, nonché naturalmente dai Sassi, oggi in piena fasedi valorizzazione e ripatrimonializzazione, e dal centrostorico di Matera che include numerosi edifici di pregio.

Tale significativa offerta incontra un limite nell’esi-guità delle strutture ricettive, che solo di recente stannoraggiungendo un più adeguato livello quali-quantitativo,grazie soprattutto alla diffusione della formula bed &breakfast in pieno centro e dell’agriturismo nelle imme-diate periferie.

4 Alla fine degli anni Novanta, si realizzava il piano degli investi-menti previsto dal contratto di programma stipulato tra il Ministerodel bilancio e la Industrie Natuzzi SpA. Alla base dell’accordo era pre-vista la realizzazione di nuovi impianti di produzione, uno dei qualiubicato a Quarrata (Prato), e gli altri localizzati nelle aree industrialidi Matera, Santeramo, Laterza e Ginosa, con un impegno complessi-vo di circa 600 miliardi di vecchie lire, di cui circa la metà a carico del-lo Stato, ed una previsione di occupazione aggiuntiva di circa 3.000nuove unità.

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Nel contempo, il polo universitario di Matera (sedestaccata dell’Ateneo lucano) consolida il proprio radica-mento nel territorio della Basilicata, estendendo ormai ilraggio d’azione a parte delle province di Bari e di Taran-to. Tale fenomeno assume consistenza sia per il crescentenumero di iscritti pugliesi5, sia per le iniziative che in mol-ti casi ricevono impulso dalla collaborazione fra univer-sità, istituzioni pubbliche e soggetti privati lucani e puglie-si (soprintendenze Bas, uffici scolastici provinciali, im-prenditori, rappresentanti di ordini professionali, media).

Un analogo fermento, alimentato dagli scambi tra idue sottoinsiemi, si riscontra in alcuni tratti delle relazio-ni sociali: piccole specializzazioni relative allo svago e altempo libero, ad esempio, fanno dei centri pugliesi polidi attrazione per i giovani e i giovanissimi (discoteche,pub, parchi di divertimento), mentre Matera accoglie unpubblico di adulti alla ricerca di iniziative di stampo cul-turale (concerti, dibattiti, mostre, eventi collegati all’edi-toria). La sensazione è che, accanto al proliferare delleiniziative imprenditoriali nel comparto dei salotti, si stiaradicando il “salotto culturale”, rafforzando la già diffusaattenzione per le componenti culturali e ambientali del-le potenzialità territoriali specifiche.

Nei confronti della sostenibilità ambientale, i proces-si fin qui descritti rappresentano, dunque, percorsi a bas-so impatto o tendenti all’ecosostenibilità6. Non che man-chino, tuttavia, elementi di criticità: tra i progetti attual-mente in cantiere per il rilancio del polo della Val Basen-to spicca, ad esempio, la paventata realizzazione di unanuova centrale elettrica alimentata con olio combustibileo, in alternativa, con il compostaggio e la gassificazionedei rifiuti. Anche nel caso della seconda ipotesi, il rischio

5 Attualmente nel solo polo umanistico gli iscritti pugliesi rappre-sentano il 25% del totale degli immatricolati, percentuale che sfiora il30% nel Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria.

6 Va sottolineato, a tal proposito, che nel recente dibattito politi-co-economico sono emerse voci, soprattutto da parte imprenditorialeche hanno sostenuto la necessità di integrare la filiera produttiva delmobile imbottito con attività conciarie. Tali posizioni hanno trovatoforte opposizione tanto presso i maggiori produttori quanto nell’al-veo della società civile e politica.

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di impatto non potrebbe contenersi al di sotto di unacomunque preoccupante soglia di criticità, in quanto lazona interessata presenta condizioni naturali di scarsacircolazione dell’aria e, inoltre, appare assai probabilel’utilizzo delle acque del fiume per il raffreddamentodegli impianti.

In secondo luogo, gli stessi programmi volti alla va-lorizzazione del patrimonio culturale e ambientale ri-schiano di incorrere in una contraddizione, dal momen-to che, in assenza di collegamenti alternativi, i flussi turi-stici vengono interamente sostenuti dalla rete stradale,generando un impatto crescente che incide negativa-mente soprattutto sui Sassi e sul centro storico di Matera.

Al di là di tali considerazioni, va detto che la città sicandida oggi a costituire un polo propulsivo tanto nelleattività immediatamente produttive, quanto in campoculturale, giocando anche su un’immagine dei Sassi che,nel corso del tempo, si è trasformata da simbolo della“vergogna dell’umanità” a emblema della operosità e delnecessario forte radicamento territoriale dell’agire uma-no. Tutto ciò trova riscontro in un diffuso senso di appar-tenenza alle tradizioni locali, che si esprime anche attra-verso il proliferare di numerose associazioni e aggrega-zioni di stampo sociale e culturale, il cui raggio di azionesi estende all’intero territorio da noi individuato7.

Un’ulteriore considerazione appare necessaria pertentare di comprendere il ruolo che la dimensione cul-turale esplica all’interno del sistema descritto.

Nell’indagine relativa ai patrimoni culturali, acco-gliendo l’ipotesi di Dematteis (1998, p. 26), “i geografidovrebbero considerare i sistemi di relazioni sociali entrocui si formano i valori, nelle loro articolazioni spazio-ambientali, situandoli entro contesti territoriali specifici, adiverse scale, cioè in un sistema di differenze e interdipen-denze rappresentabili nello spazio”. Nel caso qui in esa-me, il patrimonio culturale, formato nel suo complessoda componenti materiali (eredità costruita) e immateria-

7 Nella sola città di Matera i comitati di quartiere e le associazio-ni sportive, turistiche, solidaristiche, di volontariato e culturali sonocirca duecento.

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li (tradizioni, conoscenze e saperi contestuali), rappre-senta oggi un riferimento identitario, un forte collanteper l’intera area. Su questo codice genetico locale (Ma-gnaghi, 1998) si innestano nuovi saperi e nuovo saper fa-re produttivo che permeano e tengono insieme, attraver-so soggetti e azioni, un territorio di frontiera, articolato,ma che, anche per le ragioni fin qui tratteggiate, risultaannodato in un unico sistema reticolare.

5. La rete locale dei soggetti e le azioni

Gli attori che animano i processi descritti ricopronoruoli pubblici e istituzionali, ma in molti casi sono ancherappresentanti della società civile ed espressione di per-corsi ancora embrionali, che, tuttavia, presuppongonoatteggiamenti cooperativi e stimolano effetti “imitativi”con il conseguente moltiplicarsi delle iniziative. Non sitratta, quindi, di un vero attore collettivo, ma di proget-tualità collettive implicite e diffuse. I soggetti in questio-ne comprendono l’associazionismo culturale, i principaliesponenti del mondo della produzione (distretto delsalotto, ma anche singoli imprenditori), nonché gli attoriistituzionali (Regione, Province, Cciaa, Università ecc.).

Dal momento che i contesti territoriali individuatihanno prodotto o sono oggetto di programmi di svilup-po locale, è apparso interessante cercare di capire se esi-ste e quale sia il grado di componibilità dei diversi dise-gni e, soprattutto, quale sia l’attenzione riservata dai pia-nificatori e dai soggetti coinvolti alle relazioni con l’e-sterno delle singole campiture d’intervento.

Come è noto, alla fine degli anni Novanta, tutte le re-gioni del Mezzogiorno sono state investite da piani e pro-getti tendenti al riequilibrio economico e sociale tra areeche presentano sensibili differenziali di sviluppo. Con-clusasi la stagione dell’intervento straordinario, prendo-no corpo e si diffondono iniziative e interventi ricondu-cibili al modello così detto della programmazione nego-ziata. Le linee di questa nuova progettualità sono guida-te dai concetti di partenariato pubblico-privato e di sussi-diarietà e, quanto meno negli enunciati, da un’auspica-bile particolare attenzione per la coerenza territoriale

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delle azioni. Nel nostro caso, sull’area di studio si con-centrano, si intersecano, non sempre in maniera coordi-nata, Patti Territoriali, Accordi di programma, Prusst, epiù di recente i Progetti Integrati Territoriali (Pit).

Nell’arco degli ultimi quattro anni hanno avutoparticolare rilievo il Patto Territoriale di Matera, il PattoMurgiano e quello che ricomprende i comuni tarantinidi Laterza e Ginosa. Si tratta di programmi di caratteregeneralista che tendono a non concentrare gli investi-menti su specifici settori, quanto piuttosto a favorire ladistribuzione di risorse in direzione di tutti i compartiproduttivi già presenti.

È certamente difficile poter esprimere una valutazio-ne complessiva di tali esperienze, sia in quanto nel con-testo nazionale hanno trovato differenti modalità diattuazione sia, e a maggior ragione, poiché non possonoconsiderarsi ancora concluse. Va detto, tuttavia, che la“febbre pattizia” ha, in alcuni casi, coinvolto estensioniterritoriali talvolta di portata provinciale, ingenerando ilsospetto che i programmi abbiano nascosto sempliciaggregazioni politiche senza reale attenzione alle poten-zialità presenti nella dimensione territoriale locale.

I risultati attuali inducono a credere che talvolta sitratti di un partenariato poco efficace, se non fittizio, chespesso provoca la “mortalità precoce” delle iniziative o unestenuante lento avanzamento dell’erogazione dei fondi.

Neppure nella fase della programmazione integrataterritoriale questo limite sembra essere stato superato deltutto, laddove non è stato realizzato uno dei principaliobiettivi posto a fondamento di tale nuova fase: l’integra-zione delle progettualità preesistenti.

Bisogna tuttavia tener presente che si tratta di pro-grammi ancora in fase di avvio8 e che, quindi, i nostri

8 Le campiture dei Pit sono state definite nell’ambito dei Por giàa partire dall’anno 2000, mentre gli accordi di programma tra leRegioni e i soggetti responsabili della definizione e dell’attuazione deiprogetti sono, per la maggior parte, ancora in fase di contrattazione.Tale lentezza procedurale se, da un lato, è giustificata dalla comples-sità dell’iter di avvio delle procedure, dall’altro, lascia intravvedere uninsoddisfacente livello di intesa tra soggetti locali che in alcuni casi sisono ritrovati in aggregazioni nelle quali stentano a riconoscersi.

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ragionamenti si basano sull’analisi di proposte e docu-menti non del tutto definitivi. Ad ogni modo, almenocon riferimento alla nostra area di studio, l’attuale fasedella programmazione integrata, nelle sue linee genera-li, non sembrerebbe tendere pienamente alla definizionedi scenari di intervento attenti agli interessanti percorsidi sviluppo espressi dal territorio nel suo complesso.Nondimeno, in alcuni casi, si è osservata una certa pro-pensione a non sottovalutare le traiettorie disegnate, inmaniera esplicita, da soggetti “forti”, quali il Distretto delmobile imbottito e il Consorzio industriale di Matera, e,in forma implicita, ma non meno significativa, da istitu-zioni ed esponenti del mondo culturale e civile (Univer-sità, associazionismo ecc.).

Con maggiore dettaglio, va osservato che l’area è inte-ressata da cinque Progetti Integrati Territoriali (quattro lu-cani e uno pugliese) che, ad eccezione di quello che ri-guarda la città di Matera e di quello incentrato sui comunibradanici, investono marginalmente il territorio in esame,in quanto solo alcuni comuni di frangia dei Pit rientranonella campitura del sistema da noi delineato (Fig. 2).

Particolare interesse, ai fini del nostro discorso, susci-ta il Progetto integrato di sviluppo urbano di Matera checandida decisamente la “città di frontiera” a diventare ilcentro ordinatore, dal punto di vista economico, cultura-le e politico, di un’area che guarda, da un lato, ai territo-ri murgiani, dall’altro, all’entroterra collinare bradanico,senza trascurare azioni d’integrazione con i distretti inve-stiti dai progetti di reindustrializzazione della Val Basen-to e con gli ambiti di diffusione delle produzioni delmobile imbottito.

Le principali linee di intervento concordate per larealizzazione di tale programma riguardano:

- il miglioramento e il potenziamento delle infra-strutture di trasporto, sia verso l’esterno, sia all’internodella città, anche attraverso la realizzazione di interventidi mobilità integrata;

- la riqualificazione del tessuto edilizio urbano, conparticolare attenzione per il centro storico;

- il potenziamento dell’offerta culturale e di svago,con la realizzazione di nuovi spazi e il miglioramento del-la fruibilità di quelli esistenti;

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- gli interventi tecnico-logistici a supporto delle atti-vità culturali (network città dell’Unesco, centri di archivia-zione e documentazione storica, strutture museali ecc.);

- il monitoraggio e la prevenzione ambientale eterritoriale (risanamento ambientale Parco della Murgia,sistema a rete di monitoraggio ambientale delle zone in-dustriali, degli impianti di trattamento e smaltimento deirifiuti ecc.);

- i progetti di formazione (da attuarsi sia nella regio-ne che altrove) e di orientamento dei giovani per l’occu-pabilità;

Fig. 2 – La programmazione integrata territoriale

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- i miglioramenti della dotazione infrastrutturale perl’industria, l’artigianato e i sistemi locali.

Con particolare riferimento all’Università, infine, gliestensori del documento sottolineano l’importanza dellacrescita del polo materano in termini di iscritti, anche diprovenienza extraregionale (pugliese), e il forte contri-buto in termini di offerta formativa (otto corsi di laureaafferenti alle facoltà di lettere, ingegneria e agraria). Siimpegnano, nel contempo, a sostenere la dotazione deiservizi e la logistica dell’importante istituzione.

Per ciò che concerne la rete di soggetti che ha contri-buito alla realizzazione del piano, attraverso confronti edibattiti, si segnala la presenza della Camera di Commer-cio, la Provincia di Matera (con cui il Comune stipuleràdelle vere e proprie intese per l’attuazione dei progetti)e altri soggetti pubblici e privati, che costituirono, già nel1999, un tavolo di concertazione per la formulazione delPit (Comune di Matera, 2001).

Per l’area Pit Bradanica, si osserva che essa gravitainteramente sul nodo urbano e industriale di Matera erappresenta un territorio di cerniera fra il Metapontino asud-est e il Vulture-Melfese e Alto Bradano a nord-ovest,definendosi, inoltre, come spazio baricentrico tra laPuglia e la Val Basento.

L’obiettivo generale del progetto si individua “nell’e-sigenza di elevare il grado di apertura e funzionalità del-l’area bradanica verso i sistemi locali contermini, al finedi sviluppare complementarità e sinergie di carattereproduttivo, ambientale e urbano” (Pit Bradanica, 2002).Tale esigenza è motivata nello stesso piano dalla difficoltàdi individuare una specifica identità autocentrata eautopropulsiva, dalla sostanziale debolezza dei compartiproduttivi, da uno scarso grado di accessibilità all’area eda una condizione demografica fortemente segnata dallospopolamento.

Per quanto riguarda il Pit Montagna Materana, vasubito rilevato che il piano si incentra su un territorio arischio, soprattutto in riferimento al fenomeno dello spo-polamento e alla conseguente scarsa consistenza demo-grafica. L’idea forza della proposta di piano si imperniaessenzialmente su due comparti, quello agricolo, cheresta il settore produttivo fondamentale per l’area, per

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quanto ancorato a gestioni aziendali di tipo familiare, equello turistico-culturale, per il quale si prevede il soste-gno all’agriturismo, la promozione di eventi culturali e lavalorizzazione delle risorse ambientali.

Proprio quest’ultimo aspetto rappresenta un puntodi forza non secondario per “agganciare” il territorio del-la Montagna Materana alle linee di sviluppo previste dalPit urbano di Matera. Per quanto non del tutto esplicita-ta, assume, a nostro giudizio, possibilità di realizzazione econsistenza un’ipotesi volta ad integrare forme diverse diturismo non stagionali, sia dal punto di vista logistico(strutture di accoglienza che possono sopperire allecarenze del capoluogo), sia da quello della completezzadell’offerta turistica, associando percorsi naturalistici(Parco Gallipoli Cognato, Piccole Dolomiti Lucane, oasiLipu, foresta demaniale ecc.) a itinerari culturali e archi-tettonici (Comunità Montana Collina Materana, 2002).

Il Pit Metapontino appare sostanzialmente rivolto altentativo di integrazione di due distinte sub-aree, quellacostiera e quella collinare interna (Comunità MontanaBasso Sinni, 2002). Anche in questo caso, i principali set-tori di intervento sono l’agricoltura e il turismo. Tuttavia,proprio in relazione a quest’ultimo comparto, emerge lanecessità di rafforzamento delle relazioni tra i comuni diBernalda e Pisticci con il Materano, mentre lo sviluppodegli altri centri appare tradizionalmente legato alla spe-cializzazione agricola, anche nel senso della trasforma-zione industriale. Si osserva, dunque, che, al di là delledichiarazioni degli estensori del piano, la concreta possi-bilità di integrazione delle due sub-aree appare pococonvincente.

Ancora più complessa si mostra la composizioneterritoriale dell’area Pit murgiana, che comprende dueforti sub-sistemi produttivi a diversa specializzazione:quello più propriamente murgiano, caratterizzato da unaforte concentrazione di imprese manifatturiere (mobileimbottito e indotto), che fa perno sull’asse Santeramo-Altamura, e quello di Gravina, maggiormente specializ-zato nel comparto agroalimentare. L’idea forza del pianoè orientata al consolidamento delle due vocazioni pro-duttive corrispondenti ai due sistemi (Comitato Pit Mur-gia, 2002).

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Per ciò che attiene il nostro discorso, dall’analisi delpiano emerge una scarsa apertura nei confronti dell’areamaterana, nonostante alcuni richiami alla necessità di in-trattenere relazioni con il capoluogo di provincia lucano.Tali riferimenti riguardano principalmente le infrastrut-ture a supporto della filiera del mobile imbottito e i col-legamenti tra aree contermini di interesse naturalistico eculturale, entro le quali sviluppare capacità di attrazioneturistica.

Inoltre, vengono individuate alcune importanticarenze nel settore terziario, soprattutto nel campo deiservizi alle imprese e dell’istruzione superiore (Univer-sità) che, di fatto, vengono in parte colmate proprio dal-l’offerta di Matera. Tuttavia, l’intento del piano non sem-brerebbe essere quello della valorizzazione delle sinergiee della complementarità, quanto piuttosto quello dirafforzare la dotazione interna in ossequio a una affer-mazione di autonomia, non priva, a nostro giudizio, diaccenti campanilistici.

Un’ultima osservazione va fatta in relazione ai comu-ni di Laterza e Ginosa che, pur appartenendo alla pro-vincia di Taranto hanno chiesto ed ottenuto, l’uno sin dasubito e l’altro assai di recente, di far parte del Pit Mur-gia. I rappresentanti dei due centri, infatti, facendoappello alla sostanziale omogeneità dell’area murgianabarese e tarantina, accomunata dalla presenza dell’indu-stria manifatturiera del mobile imbottito e da tradizioniagricole relative alla produzione di olio d’oliva, uva,cereali, ortaggi ecc., hanno ritenuto necessario superarevincoli di carattere burocratico (e politico), che li vede-vano “assegnati” dalla Regione Puglia a un distretto nelquale non si riconoscevano.

Conclusioni

Dall’analisi complessiva dei progetti e delle azioni,emerge, a nostro giudizio, che in questa fase si delineanonell’area due tendenze che in certi casi generano con-flitto e in altri, invece, appaiono portatrici di atteggia-menti maggiormente cooperativi. Da un lato, la costanteriduzione dei trasferimenti dal governo centrale agli enti

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locali ha generato una maggiore suscettività dei soggettia prodursi nella intercettazione di risorse aggiuntive, ali-mentando una crescente proliferazione di strumenti diprogrammazione. Non sembrerebbero sfuggire a questalogica neppure molti dei Programmi Integrati Territoria-li presi in esame. In particolare, mentre si avverte da par-te lucana una più marcata esigenza di tenere insieme glielementi di un sistema interregionale che ha consolidatovocazioni e complementarità, da parte pugliese l’atteg-giamento appare più incerto. Per un verso, il Pit Murgiasembra far quadrato intorno alla proposta di rafforza-mento delle proprie centralità urbane, non ri-conoscendo su un piano formale l’ampiezza del raggiod’azione delle funzioni di servizio e lo spessore del ruoloculturale espresso da Matera. Per l’altro, alcune azioni,provenienti dal mondo della produzione e da quello del-la società civile, promuovono il consolidamento dellerelazioni tra le due sub-aree.

La sensazione complessiva che si ricava dall’analisi èche alcuni progetti, soprattutto istituzionali, attraverso glistrumenti della programmazione concertata, tendano aframmentare il territorio, escludendo scenari di realecoerenza tra le proposte e alimentando processi di svi-luppo locale vicini a un modello che si potrebbe definire“banale”, ovvero volti, nella migliore delle ipotesi, a crea-re nuova occupazione e incentivi alle attività economi-che, all’interno di aree rigidamente marcate dai confiniamministrativi. Si coglie, in definitiva, una scarsa coeren-za tra risorse potenziali disponibili e progetti, dove il limi-te principale di questi ultimi sta proprio nella poca atten-zione alla capacità di “fare sistema” del territorio e degliattori complessivamente intesi.

Nel contempo – e questa è la seconda tendenza – inmaniera quasi spontanea il sistema locale si autoalimen-ta, cresce e si rafforza, ignorando quasi del tutto le cam-piture amministrative e prefigurando un processo che,nella sua più alta espressione, tende verso un modello diapertura del locale verso l’esterno.

Nell’ultimissimo periodo, tuttavia, anche alcuni se-gnali di tipo istituzionale sembrerebbero indicare l’avviodi un’inversione di tendenza. A tal proposito appareparticolarmente interessante il progetto “Edotto”, pro-

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mosso dai due parchi scientifici tecnologici lucano epugliese (Basentech e Tecnopolis) e da alcune societàprivate, finanziato con risorse pubbliche nazionali ecomunitarie. L’iniziativa, finalizzata alla qualificazionedelle competenze nell’indotto del mobile imbottito, haincontrato il favore degli imprenditori lucani e pugliesi,per i quali appare necessario un incremento di competi-tività del sistema produttivo del distretto per far frontealla crescente concorrenza internazionale, ma anchedegli attori istituzionali locali.

Vi è da segnalare, inoltre, un documento di intesa,sottoscritto dai presidenti delle Province di Bari e Mate-ra, che, proprio sulla base di risorse comuni ai due terri-tori (industria salotti e beni culturali e ambientali), sipone come obiettivo da raggiungere quello del sostegnoinfrastrutturale alle iniziative in campo (strade e collega-menti in genere). In analoga direzione va l’attuazionedel nuovo piano del Consorzio di Sviluppo Industriale diMatera, nonché gli accordi raggiunti tra dipartimentiuniversitari, enti locali, soprintendenze per la realizzazio-ne a breve di significative iniziative culturali, fortementeauspicate anche dalla società civile dei due sottoinsiemiappulo-lucani.

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