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Quelle sopra formulate erano solamente alcune osservazioni di carattere generale, che ci pare possano essere considerate come ulteriori elementi per una discussione franca ed aperta a quanti interessa conoscere sempre più e meglio il recente passato della nostra economia e della nostra società. Abbiamo limitato queste brevi note, anche perché su un’altra serie di questioni — diciamo — più interne (quota novanta, movimenti migratori, salari, ecc. ...) s’è in- trattenuto di recente Domenico Preti sull’ultimo numero di « Ricerche storiche » (n. 2, 1975), che esponendo precise valutazioni trova anche noi consenzienti. G iuliano Muzzioli 126 Rassegna bibliografica Movimento operaio Storia del marxismo contemporaneo. I maggiori interpreti del pensiero marxista dopo Marx, « Annali », XV, 1973, Mila- no, Feltrinelli, 1974, pp. 1499, L. 22.000. L ’esigenza di una storia complessiva del marxismo si è fatta ripetutamente sentire negli anni vicini a noi. Non si può dire però che i tentativi finora compiuti di dar- vi risposta fossero molto soddisfacenti. La- vori pur diversissimi come quelli di Licht- heim e di Wright Mills si presentavano variamente e diremmo programmaticamen- te lacunosi, lasciando scoperti tanti aspet- ti della materia da rivelarsi al massimo punti di partenza stimolanti. L ’imponente storia documentaria di Fetscher non of- friva molto di più che una collazione ra- gionata di materiali, e la stessa più re- cente opera di Vranicki, pur raggiungen- do una notevole completezza, risentiva al suo interno di sensibili squilibri. Questo volume degli « Annali Feltrinelli », che si presenta come « una sorta di compen- dio o di manuale analitico di storia del marxismo » è certamente un’opera che en- trerà definitivamente, e a buon diritto, a far parte degli strumenti di consultazione indispensabili ad ogni studioso della sto- ria del pensiero politico contemporaneo e del movimento operaio: più completo, pur con le riserve di cui diremo, e più arti- colato di ogni altro precedente tentativo di sintesi della materia, esso ha il pregio di risultare dalla collaborazione di un am- pia staff di studiosi (una sessantina) quasi tutti variamente vicini al marxismo, ma portavoce di scuole e di tradizioni di ri- cerca assai diverse, e di presentare così una molteplicità di approcci che non può non risultare stimolante. Come avverte Aldo Zanardo nella sua lu- cida introduzione al volume, associare l’in- formazione analitica con quella comples- siva obbligava ad una delimitazione del- l’argomento, che è stata operata su diversi piani. Anzitutto il campo è stato circo- scritto al marxismo contemporaneo, cioè al marxismo successivo alle elaborazioni di Marx e Engels, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso fino ai giorni nostri. In secondo luogo, del marxismo contempora- neo viene esaminata « la zona teorica desi- gnabile come materialismo storico », cioè « la teoria della società borghese, parti- colarmente dell’economia e dell’organizza- zione politico-statale; la teoria della via al socialismo e del socialismo; la teoria ge- nerale della società ». Sia questa che la precedente limitazione appaiono giuste, e non solo per criteri estrinseci, ma perché effettivamente rispondenti da un lato al rilievo specifico di un patrimonio teorico spesso valutato con le categorie di giudi- zio deformanti della fedeltà o della dege- nerazione rispetto al modello originale, dall’altro all’esigenza di privilegiare il ter- reno su cui prevalentemente il marxismo, per l’essenza che gli è propria, di punto

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Quelle sopra formulate erano solamente alcune osservazioni di carattere generale, che ci pare possano essere considerate come ulteriori elementi per una discussione franca ed aperta a quanti interessa conoscere sempre più e meglio il recente passato della nostra economia e della nostra società.Abbiamo limitato queste brevi note, anche perché su un’altra serie di questioni — diciamo — più interne (quota novanta, movimenti migratori, salari, ecc. ...) s’è in­trattenuto di recente Domenico Preti sull’ultimo numero di « Ricerche storiche » (n. 2, 1975), che esponendo precise valutazioni trova anche noi consenzienti.

Giuliano Muzzioli

126 Rassegna bibliografica

Movimento operaio

Storia del marxismo contemporaneo. I maggiori interpreti del pensiero marxista dopo Marx, « Annali », XV, 1973, Mila­no, Feltrinelli, 1974, pp. 1499, L. 22.000.L ’esigenza di una storia complessiva del marxismo si è fatta ripetutamente sentire negli anni vicini a noi. Non si può dire però che i tentativi finora compiuti di dar­vi risposta fossero molto soddisfacenti. La­vori pur diversissimi come quelli di Licht- heim e di Wright Mills si presentavano variamente e diremmo programmaticamen­te lacunosi, lasciando scoperti tanti aspet­ti della materia da rivelarsi al massimo punti di partenza stimolanti. L ’imponente storia documentaria di Fetscher non of­friva molto di più che una collazione ra­gionata di materiali, e la stessa più re­cente opera di Vranicki, pur raggiungen­do una notevole completezza, risentiva al suo interno di sensibili squilibri. Questo volume degli « Annali Feltrinelli », che si presenta come « una sorta di compen­dio o di manuale analitico di storia del marxismo » è certamente un’opera che en­trerà definitivamente, e a buon diritto, a far parte degli strumenti di consultazione indispensabili ad ogni studioso della sto­ria del pensiero politico contemporaneo e del movimento operaio: più completo, pur con le riserve di cui diremo, e più arti­colato di ogni altro precedente tentativo di sintesi della materia, esso ha il pregio

di risultare dalla collaborazione di un am­pia staff di studiosi (una sessantina) quasi tutti variamente vicini al marxismo, ma portavoce di scuole e di tradizioni di ri­cerca assai diverse, e di presentare così una molteplicità di approcci che non può non risultare stimolante.Come avverte Aldo Zanardo nella sua lu­cida introduzione al volume, associare l’in­formazione analitica con quella comples­siva obbligava ad una delimitazione del­l’argomento, che è stata operata su diversi piani. Anzitutto il campo è stato circo- scritto al marxismo contemporaneo, cioè al marxismo successivo alle elaborazioni di Marx e Engels, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso fino ai giorni nostri. In secondo luogo, del marxismo contempora­neo viene esaminata « la zona teorica desi­gnabile come materialismo storico », cioè « la teoria della società borghese, parti­colarmente dell’economia e dell’organizza­zione politico-statale; la teoria della via al socialismo e del socialismo; la teoria ge­nerale della società ». Sia questa che la precedente limitazione appaiono giuste, e non solo per criteri estrinseci, ma perché effettivamente rispondenti da un lato al rilievo specifico di un patrimonio teorico spesso valutato con le categorie di giudi­zio deformanti della fedeltà o della dege­nerazione rispetto al modello originale, dall’altro all’esigenza di privilegiare il ter­reno su cui prevalentemente il marxismo, per l’essenza che gli è propria, di punto

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d’incontro della teoria rivoluzionaria con la prassi del movimento operaio organiz­zato, ha dato i suoi frutti più importanti. Meno persuasiva può apparire a prima vista la delimitazione di ordine geografico, per cui il marxismo fatto oggetto d’inda­gine è solo quello di alcuni paesi, cioè là dove, dice Zanardo « è più avvertito co­me costitutivo dei suoi sviluppi interna­zionalmente importanti »: in tal modo pe­rò restano esclusi il marxismo di una se­rie di paesi europei periferici (Bulgaria, Polonia, Ungheria, Spagna) e, ancor più, gli sviluppi del pensiero marxista nel mon­do ex coloniale, con il risultato che nes­sun contributo è dedicato a figure come Ho Chi Min o Ernesto Che Guevara. Si può però arrivare a giustificare la scelta effettuata considerando l’eccezionaiità di determinati apporti teorici, nel duplice senso che essi non appaiono se non in mi­nima parte il coronamento di una tradi­zione di pensiero marxista che affondi le sue radici nell’humus culturale dei rispet­tivi paesi, e che comunque, per quanto importanti, risultano secondari all’interno di un discorso complessivo che non si muove sul piano teorico ma su quello dell’agitazione e della tattica rivoluziona­ria. Più discutibile, e in effetti discussa da tutti i recensori dell’opera, è invece l’impostazione « per protagonisti », che porta a concentrare l’attenzione « sui gran­di interpreti del maxismo ». A questo ri­guardo ci sembra che l’essenziale sia già stato detto da Giuseppe Vacca (su « Ri­nascita », a. XXXII, 1975, n. 30) e da Franco Andreucci (su « Studi storici », a XVI, 1975, n. 1). Ha osservato il pri­mo che « specie da quando il movimento operaio ha dato vita a concrete esperienze di costruzione di una società nuova, ha tale rilevanza la < porzione > di teoria in­corporata nella vita delle istituzioni, nelle forme di organizzazione, nella creazione di un nuovo senso comune, da rendere ina­deguata la scelta di concentrare < sui grandi interpreti del marxismo > »; e in modo ancora più pertinente ha fatto no­tare il secondo: « Ciò che si perde, in sostanza, in questa storia del marxismo contemporanea dedicata alle singole per­sonalità, sono i grandi nuclei cronologici,

geografici, culturali, che consentono la in­dividuazione di altre zone di coagulo del marxismo i cui tempi di esistenza corrono lungo i ritmi diversi da quelli dei prota­gonisti e segnano a loro volta tappe che non necessariamente si conciliano con la periodizzazione adottata nel volume. Si tratta dei soggetti storici che scaturiscono dall’incontro tra il marxismo e la società, tra il marxismo e il movimento operaio, tra il marxismo e la cultura ».È un limite questo che si riflette anche nella sezione che pure ci sembra qualita­tivamente la più valida, quella sul marxi- sma della Seconda Internazionale; ad esempio, la grande corrente teorica del re­visionismo tedesco viene ad essere impo­verita, identificata com’è nel suo solo ca­poscuola, Eduard Bernstein, e senza alcun riferimento ad altri esponenti che certo non furono di secondo piano: basti citare per tutti il nome di Georg Vollmar. Ma è soprattutto del marxismo della Terza In­ternazionale che vanno perduti l’elabora­zione collettiva e il legame con il movi­mento comunista organizzato che, in bene e in male, costituirono la sua caratteristi­ca precipua. Già all’interno di un’impo­stazione per protagonisti si dovrebbe rile­vare che lacuna grave è quella rappresen­tata dall’assenza di un saggio specifico su Zinovjev (di contro ai quattro su Trotskij e su Bucharin e ai due su Stalin): non va dimenticato che fu proprio il presidente dell’Internazionale comunista il primo teo­rico del marxismo-leninismo. Ma il pro­blema è più generale: il marxismo della Terza Internazionale è difficilmente ricon­ducibile alla sola elaborazione di alcune grandi figure e anche sul piano più stret­tamente teorico le argomentazioni dogma­tiche e scolastiche di un Martynov o di un Molotov vi hanno un ruolo non scindi­bile dalle nitide elaborazioni di un Bucha­rin o di un Togliatti.Vi è poi una seconda osservazione da fa­re: nella prospettiva prescelta delle bio­grafie intellettuali dei grandi interpreti, vanno fatalmente smarriti filoni collate­rali che pure hanno avuto un’influenza indiretta grandissima sullo sviluppo del pensiero marxista. Facciamo due esempi per tutti: Sorel non può dirsi in alcun

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momento del suo itinerario veramente un marxista, e infatti il volume non vi dedica alcun saggio specifico. Ma può una storia del marxismo europeo nei primi anni del secolo essere scritta senza alcun riferi­mento all’esperienza anche teorica del sin­dacalismo rivoluzionario? E ancora: Hen­ri De Man si propone decisamente come un superatore del marxismo; ma è le­cito escludere l’esame della sua opera da una ricostruzione del dibattito marxista degli anni ’30? Esempi di questo genere si potrebbero moltiplicare. La sola ecce­zione che si è ritenuto di fare a questa concezione in qualche modo restrittiva del marxismo riguarda, non sappiamo perché, Marcuse. Ma se si ammette che Marcuse abbia qualche cosa a che fare con la sto­ria del marxismo contemporaneo, non sa­rebbe stato a maggior ragione opportuno far convergere l’attenzione su altri filoni di pensiero, ad esempio sulla scuola di Francoforte, i cui sviluppi sono stretta- mente intrecciati, negli ultimi anni, a quel­li del dibattito marxista?Queste osservazioni critiche relative alla- impostazione del volume non possono in­durre a sottovalutare l’importanza dell’ini­ziativa opportunamente assunta dalla Fondazione Feltrinelli, né a sminuirne il valore qualitativo. Il livello complessivo dei saggi è infatti sempre o quasi sempre notevole: sono, è vero, relativamente po­chi i contributi che offrono il frutto di ri­cerche ancora inedite e arricchiscono il pa­norama degli studi esistenti (fra questi so­no da ricordare, e non certo per malinteso nazionalismo culturale, proprio alcuni sag­gi di autori italiani, come quello di Mas­simo L. Salvadori su Kautsky, quello di Franco De Felice su Togliatti, quello di Leonardo Paggi su Gramsci e anche, al di là di ogni possibile dissenso interpre­tativo quello di Ernesto Galli della Log­gia su Varga); ma è importante la funzio­ne cui il volume adempie di rendere ac­cessibili al lettore italiano i risultati di studi e ricerche pubblicati all’estero (pen­siamo ai saggi di Gustafsson su Bernstein, di Barón su Plechanov, di Tych su Rosa Luxemburg, e anche a quelli di Lòwy su Bucharin, benché il distillato che l’auto­re fa della sua più ampia biografia, pub­

blicata nel 1969, risulti assai meno sod­disfacente dell’originale e cada in alcune forzature poco convincenti del pensiero del leader bolscevico). Molte altre mono­grafie, poi, hanno o il merito di mettere a fuoco alcuni problemi cruciali, sui quali l’indagine sarà da riprendere con criteri nuovi (ad esempio il saggio di Lelio Bas­so sulla teoria dell’imperialismo in Lenin), o quello, che non deve essere sottovalu­tato di costituire dei preziosi strumenti di informazione e di divulgazione ad un buon livello scientifico.

Aldo Agosti

Luigi Catanelli Furio Rosi, Quaderni della Regione Umbria, Perugia, 1974, pp. 67, s.p. [«Testimonianze», n. 1]; Tito Marziali, Appunti storici sul mo­vimento operaio nel folignate, Perugia, 1975, pp. 146, s.p. [ «Testimonianze », n. 2.]Nei programmi della Regione Umbria la pubblicazione di Quaderni dedicati alla storia del locale movimento operaio e so­cialista dovrebbe contribuire a superare la grave stasi nella quale da anni rista­gna la ricerca e rimediare alla scarsità di studi che fa dell’Umbrio una regione di­menticata anche nel campo della produ­zione storiografica. Ma alla bontà delle intenzioni non hanno finora corrisposto i risultati auspicati.Particolarmente carente risulta il primo quaderno, uscito nel 1974 e dedicato alla figura di Furio Rosi. Esponente del sin­dacalismo rivoluzionario, Rosi fu prota­gonista di vivaci scontri con i riformi­sti all’interno della Federazione socialista di Perugia; processato più volte per reati di stampa, morì di tisi nel 1906, a soli trenta anni, dopo essere emigrato in Fran­cia. Il ritratto delineato da Catanelli è piuttosto confuso e disorganica è la sud- divisione della materia; in fin dei conti il lavoro non è del tutto inutile in quan­to è pur sempre il primo sull’argomento, ma il suo contributo scientifico non è certo dei più rilevanti.L’autore del secondo quaderno, uscito nel 1975, fu esponente di primo piano del movimento operaio umbro all’inizio del

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nostro secolo e dopo aver votato l’odg comunista al congresso di Livorno, costi­tuì le prime sezioni del PCd’I in provin­cia di Perugia. Nelle sue pagine rivivono alcuni dei personaggi più significativi del­la sinistra umbra, attivi tra la fine del- l’800 e l’avvento del fascismo: dal repub­blicano Domenico Benedetto Roncalli, ani­matore di vivaci campagne anticlericali, al socialista Ferdinando Innamorati, sindaco di Foligno nel primo dopoguerra. Emer­gono anche figure di militanti di base, in­quadrate — come afferma Angelo Mazzoli nella breve presentazione — « in una luce di partecipazione collettiva ». D’altra par­te il lavoro di Marziali può essere criti­cato per l’eccessivo rilievo dato alle vi­cende politico-amministrative e a quelle dell’anticlericalismo rispetto ai problemi sindacali, alle scadenze della lotta di clas­se che fin dai primi anni del secolo videro duramente impegnato il proletariato um­bro. Così, se sbrigativa appare l’analisi della grande mobilitazione operaia terna­na del 1906-7, del tutto insufficiente è quella del movimento contadino, che a partire dal 1901 aveva assunto un peso rilevante in tutta la regione.L ’augurio è che i prossimi volumi della collana rispondano in maniera più convin­cente alle esigenze sopra accennate. Ciò può avvenire solo se si garantisce un mag­gior grado di scientificità dei singoli lavori e una programmazione più organica che inserisca i vari contributi in una prospet­tiva storiografica di maggior respiro.

Francesco Bogliari

R. Puletti, Giuseppe Romita e la demo­crazia socialista (1900-1945), Parma, Guanda, 1974, pp. 357, lire 4.500.

Nel dibattito riaccesosi di recente sulla storia dell’antifascismo è stato sollecitato da più parti, e in particolare, con il con­sueto vigore polemico, da Giorgio Amen­dola, un contributo più vivo e fattivo dei socialisti, e in generale delle correnti non comuniste dell’opposizione al regime, alla propria storia. In questa prospettiva, una biografia di Giuseppe Romita, protagoni­sta di quasi mezzo secolo di vicende so­

cialiste e figura abbastanza emblematica della parabola del vecchio PSI durante il regime, poteva presentare non trascurabi­le interesse. Formatosi politicamente a To­rino nei primi anni del secolo, esponente di primo piano della sezione del PSI, in­carcerato per la sommossa dell’agosto 1917, Romita visse nel capoluogo piemon­tese la grande stagione rivoluzionaria del 1919-20 per assurgere poi a un ruolo pre­minente nel Partito socialista a livello na­zionale, combattendo a fianco di Nenni la battaglia defensionista, e per conoscere ne­gli anni della dittatura tutta la trafila del confino, della galera e infine del dignitoso silenzio cui furono costretti in Italia tanti dirigenti del vecchio socialismo prefasci­sta. Massimalista con molte simpatie in­tellettuali per il riformismo, Romita non è stato certo un personaggio di grande ri­lievo teorico, ma un politico realizzatore, come dimostrano gli anni forse più inten­si della sua biografia, quelli della ricostru­zione del PSI alla vigilia del crollo del fa­scismo, della battaglia repubblicana, della catena di scissioni socialiste fra il 1947 e il 1949.Per la verità, questo libro di Ruggero Pu­letti non soddisfa che in minima parte la necessità di affrontare, sia pure dal punto di vista della ricostruzione biografica, i numerosi nodi storici che la vicenda di Romita mette in evidenza, e suscita non poche perplessità per il suo impianto pri­ma ancora che per il suo contenuto. Fino al 1926, infatti, la vicenda del personag­gio biografato annega nel mare della sto­ria generale, politica ed economica, del paese, che diventa in tal modo ben più del semplice sfondo della ricostruzione. Non molto viene detto della formazione e delle prime esperienze politiche di Ro­mita, e quel poco è quasi interamente de­sunto dalla testimonianza dei suoi fami­liari; manca ogni ricorso non solo alle te­stimonianze di protagonisti e alla memo­rialistica, ma alle fonti giornalistiche e ar­chivistiche. Lo stesso si deve dire per il periodo 1922-1926, e per la battaglia del­l’uomo politico tortonese all’interno del PSI. Dopo le leggi eccezionali, invece, l’impianto risulta bruscamente capovolto: la vita di Romita al confino è ricostruita

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con grande minuzia attraverso l’uso di let­tere sue e di suoi corrispondenti (alcune delle quali, come ad esempio una inedita di Carlo Rosselli, indubbiamente interes­santi) e il fascino umano del personaggio emerge nel suo innegabile rilievo, ma lo sfondo, vale a dire il dibattito sull’auto­critica e il rinnovamento del socialismo, a proposito del quale pure non mancano or­mai gli studi, resta del tutto in ombra. In tal modo una valutazione più appro­fondita dell’atteggiamento di Romita, al quale non sembra estraneo un certo qual fatalismo che tradisce la sua formazione intellettuale, non viene nemmeno tentata: e qui, più che altrove, si avverte l’assenza di ogni prospettiva critica, l’impostazione non diciamo agiografica, ma di intera iden­tificazione dell’autore con il personaggio biografato.Discutibile appare infine la decisione del- l’A. di arrestare il suo studio al 1945, la­sciandone fuori tutte le vicende successi­ve, vicende, come si è accennato, tutt’al- tro che prive di rilievo. L ’autore ha avuto ed ha a disposizione i taccuini dell’ex-mi- nistro dell’Interno, che costituiscono una fonte di notevole interesse, e si appresta a curarne la pubblicazione: sarebbe stato più opportuno che avesse utilizzato i ri­sultati di questa sua ricerca per darci fin d’ora un profilo completo del personaggio di cui si è occupato.

Aldo Agosti

Fascismo

Pietro Grifone, Capitalismo di Stato e imperialismo fascista, con i contributi di Camilla Ravera e Giorgio Amendola; Mi­lano, Mazzotta, 1975, pp. 155, lire 2.500.Scritto nell’autunno del 1936 e sequestra­to nel maggio dell’anno successivo a Ca­milla Ravera nel corso di una perquisizio­ne, il manoscritto che Grifone aveva re­datto per la « scuola quadri » organizzata dal partito comunista tra i confinati di Ventotene è stato casualmente ritrovato dalla stessa Ravera, durante la fase di ela­borazione del suo Diario di trentanni, nel fascicolo a lei intestato del Casellario po­litico centrale. L ’importanza dell’avveni­

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mento va ben oltre la pur legittima curio­sità filologica e, se vogliamo, « archeolo­gica » suscitata tra gli addetti ai lavori; questo secondo « quaderno del confino » (primo in ordine di composizione) ripro­pone infatti questioni fondamentali e può essere letto tanto come opera schiettamen­te « tecnica » di analisi economica, quanto come esempio del metodo di studio e di ricerca portato avanti dai comunisti al con­fino.Sotto il primo aspetto il lavoro mostra una notevole organicità, sia nell’organiz­zazione della materia che nel vaglio critico delle fonti (ovviamente solo di provenien­za ufficiale, come le relazioni della Banca d’Italia, gli annuari statistici, « Il Sole » e le pagine economiche dei quotidiani). Gli otto capitoli nei quali il volume è suddiviso esaminano monograficamente gli aspetti fondamentali dell’economia fasci­sta. Parlando dell’agricoltura, Grifone sot­tolinea la decisiva funzione degli ammassi e dei consorzi nel processo di concentrazio­ne monopolistica coordinato dallo stato a sostegno dei grandi agrari. Questi sono messi al sicuro dalla caduta della rendita, mediante la fissazione di un prezzo d’ac­quisto unico per i cereali, che se garanti­sce loro un notevole margine, « è per contro assai poco remunerativo per i con­tadini poveri e medi, specie del Mezzo- igorno e delle Isole, che producono ad un costo più elevato dei precedenti » (pp. 29- 30). D’altra parte lo sviluppo eccessivo della cerealicoltura a danno delle colture specializzate e il peggioramento delle con­dizioni di vita delle masse contadine — ammesso dagli stessi sindacati fascisti — smascherano come illusorie le promesse del regime circa l’ammodernamento tec­nico-produttivo dell’agricoltura e il miglio­ramento dei redditi dei lavoratori della terra.Una linea di sviluppo monopolistica è ri­levata anche nel settore del commercio estero, in cui l’intervento diretto dello stato si manifesta con una disciplina ri­gorosa delle esportazioni e delle importa­zioni, e in quello creditizio, che con la riforma bancaria del 1936 acquista un ca­rattere unitario e fortemente accentrato. La costituzione della Banca d’Italia assi­

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cura al capitale finanziario il controllo de­gli organi creditizi statali, ponendo allo stesso tempo fine alla disorganizzazione e alla frammentarietà esistenti precedente- mente nel settore; per cui, se a prima vista la banca potrebbe sembrare subor­dinata allo stato, « osservando le cose con minore superficialità, appare evidente che il controllo che lo stato esercita sulla Ban­ca è qualche cosa che corrisponde perfet­tamente agli interessi di quest’ultima » (pp. 98-99).Per quanto riguarda la politica moneta­ria, Grifone nota come il fascismo non sia più in grado di mantenere la lira sull’alto livello (« quota 90 ») raggiunto faticosa­mente nel 1927: il progressivo assotti­gliarsi delle riserve auree iniziato nel 1929 conduce alla pesante svalutazione (40%) del 1936. Al momento in cui il libro viene scritto, « la posizione della moneta italiana è quella di un equilibrio instabile: un nonnulla potrebbe farla pre­cipitare » (p. 127).Un’attenzione particolare è naturalmente dedicata alla struttura industriale, in cui il processo di concentrazione monopolisti­ca assume un’evidenza forse ancora mag­giore che negli altri settori. Del clima bel­lico instauratosi a partire dal 1935 bene­ficiano principalmente i grandi gruppi meccanici e siderurgici, oltre ai monopoli elettrici, chimici e minerari (in primo luo­go il gigante Montecatini). Gravemente depressa risulta invece l’industria leggera, sacrificata dalle scelte della politica econo­mica bellicistica. Ne deriva — nota acuta­mente Grifone, capace di cogliere il fe­nomeno fin dal suo primo manifestarsi — uno stato di tensione e contrasto tra i vari gruppi industriali, per cui si può dire che la guerra, « anziché aumentare la coe­sione della borghesia industriale italiana ha accresciuto il disorientamento e, in certi casi, l’aperto dissenso già da tempo esistente in seno ad essa » (p. 42).Questa sommaria esposizione dei temi af­frontati nel volume ci permette di con­statare come Grifone — con l’ausilio pre­zioso dei compagni di confino insieme ai quali discuteva i vari problemi — avesse già individuato i nodi decisivi dell’econo­mia fascista nel momento in cui essa era

appena uscita dal suo primo impegno mi­litare, quello etiopico. Già colta in tutte le sue molteplici implicazioni è la natura del rapporto stato-grande capitale, che si va configurando nel senso di una sempre più netta integrazione delle due entità: « Lo stato, nell’estendere il suo < con­trollo > e le sue attribuzioni economiche, lungi dal sovrapporsi come ente a se stan­te al di sopra delle organizzazioni capita­listiche viene per contro continuamente, ed in maniera sempre più organica e com­pleta, integrandosi e fondendosi con il ca­pitale finanzario. Il controllo che lo stato instaura non è infatti quasi mai qualche cosa di imposto, bensì è un controllo il più delle volte esplicitamente richiesto e sollecitato dalle organizzazioni monopoli­stiche » (p. 26).Momento fondamentale di questo proces­so è appunto la guerra, che mentre per­mette la definitiva compenetrazione del capitale finanziario con lo stato, apre am­pi squarci nel complesso e contradditto­rio tessuto del « consenso » verso il re­gime. La piccola e media industria, gran parte della borghesia commerciale e agra­ria, oltre naturalmente alla grande mag­gioranza delle classi lavoratrici non sono più disposte ad una fiducia incondizionata nel fascismo. Così il conflitto africano, che ancor oggi alcuni storici (in primo luogo Renzo De Felice) si ostinano a de­finire il « capolavoro politico » di Musso­lini, si rivela in realtà il primo atto di un processo di disgregazione reso partico­larmente drammatico dalla « profonda in­crinatura nello stesso blocco agrario-capi­talistico » (p. 27).Grifone, osservatore attento e smaliziato (il lavoro svolto dal 1931 al 1933 all’in­terno deirUfficio Studi dell’Associazione tra le Società per Azioni, centro nevral­gico della struttura capitalistica italiana, gli aveva permesso di toccare con mano il funzionamento dei « meccanismi segreti » dell’economia fascista) coglie questi feno­meni nel loro momento genetico ed è in grado — per dirla con Labriola — di formulare previsioni « morfologiche », cioè di evidenziare le linee di tendenza che caratterizzeranno la politica economica del regime negli anni successivi.

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In base a queste considerazioni, Capitali­smo di stato e imperialismo fascista può essere senza dubbio considerato come la traccia preparatoria per II capitale finan­ziario in Italia, del 1940: in esso Grifone metterà ulteriormente a fuoco i risultati della prima indagine e li inserirà in una prospettiva di più lungo periodo, pren­dendo come noto le mosse dalle « tare d’origine » del capitalismo italiano. Nei quattro anni che separano i due « quader­ni » eventi decisivi investono il paese, in­serendolo sempre più drammaticamente nel contesto degli squilibri internazionali: la guerra di Spagna, il consolidarsi del­l’alleanza con la Germania e lo stabilirsi di quella col Giappone, lo scoppio della seconda guerra mondiale. La struttura economica italiana non riceve però da questi avvenimenti spinte in senso con­trario alla direzione di sviluppo già in­trapresa. Si consolida invece ulteriormen­te — come Grifone aveva previsto — l’intervento della mano pubblica sul mon­do produttivo e viene portato al massimo grado di intensità lo sforzo bellicistico verso il quale il governo aveva comin­ciato ad orientarsi già dal 1935-36, come risposta alle difficoltà determinate dalla crisi economica mondiale.Oltre che come lavoro di analisi — dice­vamo all’inizio — lo scritto di Grifone può essere letto come esempio della meto­dologia e dei contenuti della ricerca co­munista negli anni ’30, alla cui compren­sione già II capitale finanziario in Italia aveva dato un importante contributo. Su questo punto insiste particolarmente Gior­gio Amendola nell’introduzione, quando afferma che durante il ventennio la sini­stra non comunista nel suo insieme (pur con le necessarie distinzioni che in questa sede non è possibile fare) era rimasta fer­ma « alla critica liberale dell’intervento statale» (p. 11). Azionisti, socialisti e li­berali non comprendevano che l’estender­si di tale intervento « assumeva un nuovo significato, ed era ormai diventato la con­dizione per la valorizzazione del capitale nel suo insieme, e per la continuazione, dunque, nelle nuove condizioni, del pro­cesso di accumulazione » (ibid.). Un pro­cesso irreversibile dunque, che nei decen­

ni successivi (compreso il secondo dopo­guerra) assumerà forme molteplici e con­traddittorie, ma non ritornerà a condizio­ni premonopolistiche (del resto in Italia l’intervento statale e la concentrazione produttiva avevano avuto una funzione decisiva fin dalla nascita dello stato uni­tario). Gli economisti della sinistra demo­cratica rimasero invece legati a schemi che sostanzialmente — in maniera più o meno diretta — avallavano l’interpreta­zione crociana del fascismo come paren­tesi e dimostravano la mancata compren­sione delle linee di tendenza lungo le quali si stava orientando il capitalismo mondia­le dopo il 1929. È significativo che del loro bagaglio metodologico non facessero parte i concetti di « capitale finanziario » e « capitalismo monopolistico di Stato », chiavi indispensabili per comprendere l’ef­fettiva natura dei fenomeni in atto. In altre parole, nell’ampio ventaglio di posi­zioni che andava dai liberali ai socialisti a Giustizia e Libertà, non solo erano pres­soché sconosciute le opere di Lenin, ma nemmeno erano utilizzati gli strumenti analitici presenti in quelle di Hobson e Hilferding.In sostanza la pubblicazione dello scritto di Grifone viene a confermare quanto Se­reni scriveva nel 1972: « I comunisti so­no stati fin dall’allora [cioè dal ventennio fascista] senza dubbio i primi (e per lun­go tempo, i soli) a sottolineare il carattere ed il contenuto di classe economicamente e storicamente condizionato del fascismo, in quanto nuova forma della reazione e dell’oppressione capitalistica: quando an­cora tutte le altre forze, e gli altri partiti antifascisti, del fascismo contestavano, in varie forme, la sostanza classista, e ne trattavano, semmai, come di una sorta di antistorica escrescenza sul corpo della na­zione » (« Critica marxista », 1972, n. 5,p. 18).Ciò non comporta una acritica esaltazione delle interpretazioni comuniste, ma la rea­listica constatazione che esse avevano ef- fettivametne individuato i problemi strut­turali dell’economia nei loro nodi decisivi, pur coi limiti determinati dalla applica­zione spesso meccanica delle tesi dell’In­ternazionale alla realtà italiana. Del resto

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è lo stesso Sereni a sottolineare alcuni punti carenti dell’analisi di Togliatti del 1935 (nelle Lezioni sul fascismo), come ad esempio l’assenza di un esplicito rife­rimento al capitalismo monopolistico di stato.AI di là comunque di queste insufficienze interpretative (che non vanno certo mi­nimizzate, ma ricondotte al contesto in cui nacquero e che ne determinò i ca­ratteri specifici), non si può che concor­dare con le recenti affermazioni di Lucio Villari, secondo cui per gli studiosi mar­xisti, « contrariamente a quanto accadeva agli altri antifascisti, comprendere il fasci­smo significava anzitutto addentrarsi nello studio sull’espansione del capitalismo ita­liano e sugli squilibri che ciò provocava tra le deboli strutture sociali, politiche e culturali del nostro paese » (in II capita­lismo italiano del Novecento, Bari, 1975, p. 153).Per concludere vorremmo notare che fino ad oggi Capitalismo di stato e imperiali­smo fascista non ci sembra aver suscitato tra gli storici italiani un interesse .pari a quello provocato dalla riedizione del Ca­pitale finanziario in Italia, avvenuta nel 1971. Essa diede occasione a tutta una serie di interventi (si veda la rassegna di S. Natale, Studi recenti sulla politica eco­nomica fascista, in « Rivista di storia con­temporanea » 1973, n. 4, pp. 534-555), che prendendo le conclusioni di Grifone come punto di riferimento, le riesamina­rono in maniera critica e le superarono dialetticamente, tanto nell’accettazione di determinate tesi che nel rifiuto di altre (ad esempio la negazione del fascismo co­me periodo di « stagnazione », recente­mente confermata anche dal saggio di Ca­stronovo nel IV volume della Storia d’I­talia, Einaudi), dando così un decisivo contributo al progresso degli studi sul­l’economia del ventennio.Un fenomeno analogo non si è ancora ve­rificato per questo secondo « quaderno del confino », che pure è uscito quasi con­temporaneamente alla riedizione di un’al­tra importante opera scritta prima della caduta della dittatura da E. Sereni {La questione agraria nella rinascita naziona­le italiana, Torino, Einaudi 1975) e nel

mezzo dell’infuocata polemica prò o contro De Felice. Qualche riferimento in più al lavoro di Grifone non sarebbe stato del tutto inutile nel ricordare che il fascismo, lungi dall’aver avuto origini « democrati­co-giacobine », fu sin dall’inizio regime reazionario e col passare degli anni andò accentuando il suo carattere di classe, tan­to nelle scelte politiche quanto in quelle economiche.

Francesco Bogliari

Bino Bellomo, Lettere censurate. L’ottu­sità del potere, Milano, Longanesi, 1975, pp. 199, lire 1.000.

Segnaliamo questo libretto perché offre uno spiraglio sulla corrispondenza di guer­ra del 1940-42. Non più di uno spiraglio, purtroppo, perché il volume (inserito nel­la Serie nera dei Pocket di guerra di Lon­ganesi, collana di vasta tiratura ma di scarsa scientificità) non presenta garanzie sufficienti di attendibilità. L’autore, uffi­ciale addetto alla censura militare di una zona imprecisata nel 1940-42, ha infatti estratto dalle 150-200 lettere quotidiana­mente viste per circa due anni (oltre un centinaio di migliaia in totale, sembra di capire) alcune centinaia di brani di di­versa lunghezza raggruppati approssimati­vamente per argomento, privi di indica­zioni soddisfacenti su date, mittenti e de­stinatari. Ne risulta un campione del tutto insufficiente per qualsiasi conclusione, tan­to più che è evidente l’inclinazione del­l’autore per i temi di maggior richiamo (si veda il capitolo su Le donne e i mili­tari, di gusto provinciale e fumettistico). La lettura del volumetto è ugualmente di un certo interesse perché, si potrebbe dire quasi malgrado l’autore, dalle lettere ri­portate si ha una conferma e un’illustra­zione di molti dati già noti, come la ca­renza di spirito patriottico nelle truppe e nel paese, le frequenti critiche a comandi e governo, la superficialità della propa­ganda fascista e la crisi del morale dei soldati. Nulla di più, purtroppo; eppure il materiale raccolto avrebbe meritato uno sfruttamento più organico e utilizzabile.

g- r.

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Giuseppe Aventi, Diario di Ventotene, prefazione di Sergio Solmi, Milano, All’in­segna del pesce d’oro, 1975, pp. 86, li­re 2.000.Questo opuscolo di Giuseppe Paganelli, pubblicato con il nome materno di Aven­ti, sotto cui aveva potuto continuare a scrivere sfidando la censura del regime, aggiunge poche notizie alla pur ricca me­morialistica sul confino fascista, ma tali notizie hanno il pregio di cogliere stati d’animo, discussioni e reazioni dei confi­nati nei convulsi giorni dell’agosto 1939 che precedettero l’invasione tedesca alla Polonia.Il diario ha lo stile, il ritmo e l’arguzia del documente letterario, è il prodotto della fine cultura di chi, come l’autore è passato attraverso l’esperienza dell’antifa­scismo, senza militare nei partiti democra­tici, eppure « compromettendosi » con una coraggiosa e solitaria battaglia individua­le, condotta attraverso la collaborazione a « Pegaso » a « Leonardo » a « Soiaria », con atteggiamento di rifiuto essenzialmen­te morale, che non esclude il sospetto di un volontario aristocratico isolamento. Dalla brillante penna dello scrittore pren­dono vita, nell’accecante calura estiva, i personaggi della colonia: profittatori del regime, i militi e soprattutto i vari gruppi politici. L ’attenzione, spesso assai critica dell’A. è volta soprattutto ai comunisti: non tanto per affinità politica, quanto per interesse morale: lo attirano il loro rigo­re, la chiusura dei loro gruppi, l’impegno nella discussione, affinata dai lunghi anni di clandestinità. Ne emerge con partico­lare vivezza la figura di Umberto Terraci­ni, umanista colto, amante della musica, ancora isolato per la polemica sulla svolta dall’ufficialità del partito: « I comunisti qui relegati formano due gruppi ben di­stinti e, credo, bene ostili l’uno all’altro. Al centro dell’uno sta Umberto Terracini, al centro dell’altro Mauro Scoccimarro: nell’angusto spazio del confino, questi due gruppi si sfiorano, non comunicano e nem­meno si sfiorano: offrono uno spettacolo monotono e strano » (p. 18).L’elemento costante di queste brevi pa­gine, al di là degli episodi di colore, è comunque l’angoscia che pervade ugual­

mente tutti i confinati di fronte all’incal- zare della guerra imminente: l’inquietu­dine dei democratici come Aventi e Co- lorni, la contraddizione angosciosa e pro­blematica dei comunisti di fronte all’ac­cordo russo-tedesco, il falso ottimismo dei fascisti, fino all’annuncio finale dell’attac­co alla Polonia: « Tutto previsto. Ma tut­to tanto rapido da stordire » (p. 81).

n. t.

Seconda guerra mondialeEnzo Collotti, Teodoro Sala, Le po­tenze dell’Asse e la Jugoslavia. Saggi e do­cumenti 1941-1943, Milano, Feltrinelli, 1975, lire 3.200.Ha notato recentemente Leo Valiani che « nella storia degli Sloveni e dei Croati, vicini all’Italia da tempi remoti [...] si ha relativamente poco in italiano e quel poco è costituito, in buona parte, da tra­duzioni di opere straniere » (pref. a B. Salvi, Il movimento nazionale e politico degli Sloveni e dei Croati, Trieste, 1971, p. 7). Certo non si può dimenticare la presenza, nella nostra cultura, di una ge­nealogia illustre — Mazzini, Tommaseo, Salvemini, Anzillotti — che ha sentito in termini assai precisi il significato e l’op­portunità della conoscenza del vicino po­polo balcanico e dell’analisi dei nostri rap­porti con esso; ma resta la constatazione che questi rapporti non hanno rappresen­tato sinora un interesse notevole per gli studi italiani, proporzionale al peso che hanno avuto nella nostra storia. La pub­blicistica relativamente abbondante stam­pata in Italia durante questo secolo, con­tingente e prevalentemente nazionalista, è stata invece spesso strumento di disinfor­mazione e di diseducazione riguardo a questo nostro fondamentale rapporto in­ternazionale. La storiografia jugoslava è molto più attenta e impegnata su questi temi.I saggi che Enzo Collotti e Teodoro Sala hanno dedicato ad alcuni aspetti dell’oc­cupazione italiana della Jugoslavia duran­te la seconda guerra mondiale, in parti­colare ai rapporti che intercorsero tra le potenze dell’Asse, hanno così un signifi­

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cato che oltrepassa l’ambito della ricerca accademica e professionale. I saggi sono stati presentati alla Conferenza storica in­ternazionale di Belgrado che, nell’ottobre 1973, affrontò il tema « La Jugoslavia e il Terzo Reich », ma non sono occasionali e si collegano a precedenti e più ampi stu­di degli Autori, e a un consapevole inte­resse dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione.Collotti analizza la penetrazione economica nazista nel regno jugoslavo ed il ruolo del regime hitleriano nella disgregazione di quello stato. Oltre alla letteratura sull’ar­gomento e le collezioni di fonti diploma­tiche, utilizza in particolare i giornali « Sùdost Echo » e « Siidost Wirtschaft ». Dimostrata l’inconsistenza delle tesi <giu- stificazioniste >, l’A. coglie la chiara e co­stante presenza di mire aggressive ger­maniche verso la Jugoslavia perlomeno dal 1938. Il Reich intendeva mantenere il settore balcanico estraneo al conflitto, ma attuava pur sempre una « penetrazione senza guerra », con l ’obiettivo di isolare la Jugoslavia dal mercato mondiale e di pre­disporla a subire gli interessi tedeschi. Dopo il 1938 questo processo si intensi­fica, sia per la politica di Stojadinovich che per la rivitalizzazione di tematiche asburgiche di espansionismo balcanico. Forse questo punto può essere sottolineato più di quanto non faccia Collotti (p. 15), col rilievo che non si trattò solo di sfrut­tamento di queste tematiche da parte del gruppo dirigente nazista, ma anche del- l’inserimento in esso di quella forza sto­ricamente individualizzabile, almeno in certa misura, che fu il nazismo austriaco. L ’espansione puntava alla ristrutturazione dell’Europa sud orientale in funzione del­la sicurezza economica del Reich; la neu­tralità del settore, nota Collotti, era in­tesa a Berlino come collaborazione e, do­po le vittorie militari del 1940, come pro­gressivo inserimento nel « Nuovo Ordi­ne ». Quando la guerra in Grecia e le ambizioni su Salonicco gettarono il go­verno di Belgrado nella braccia tedesche, entrò in crisi la linea sino allora portata avanti. Collotti fa un’analisi assai matura di questo momento politico.Solo entro questi limiti, si precisa, può

dirsi che la disgregazione della Jugoslavia non fu voluta dal Reich. Ora però essa divenne necessaria per l’egemonia tedesca nel Donauraum, dove lo stato croato, sa­tellite modello, doveva costituire un so­stanziale prolungamento del Reich verso sud. Si realizza qui un caso particolar­mente probante del rapporto tra la po­tenza industriale tedesca e i territori del­l’est e del sud-est, destinati a fornire ma­terie prime, prodotti agricoli e manodo­pera ed a sottostare a drastici criteri di limitazione del possibile incremento del loro livello di industrializzazione; il che era giustificato con l’argomento della dife­sa che la Germania assicurava all’Europa e della stabilità sociale che garantiva la ideologia del « sano ceppo contadino », della società anticomunista fondata sulla piccola proprietà tutelata. Collotti offre una felice scelta di notazioni sull’immagine na­zista dei croati (p. 45) e ricordo solo che la teoria della piccola proprietà contadina in funzione anticomunista era già stata largamente applicata dai governi conser­vatori dell’Europa centro-orientale. L ’an­damento della guerra trasformò questo programma in attività di sfruttamento to­tale.È in questo contesto che avviene, in Ju­goslavia, 1’incontro tra l’imperialismo na­zista e le analoghe spinte italiane. I tede­schi seguivano con attenzione questa po­tenziale concorrenza, e a loro si deve « il quadro a tutt’oggi più completo dei ten­tativi di penetrazione italiana » in questo settore, cioè una circostanziata relazione stesa dall’ambasciatore von Hassel nel gennaio 1941 per incarico del Mitteleuro- paeisches Wirtschaftstag, che Collotti tra­duce e pubblica in appendice (ma a p. 106 è stata ripetuta la stampa di ben cinque righe).È un documento molto importante: von Hassel non solo è assai competente ma è pure sostenitore convinto della penetrazio­ne tedesca nei Balcani, esponente di quei circoli conservatori che, pur ostili a Hi­tler, di fatto rappresentavano una va­riante del tradizionale imperialismo ger­manico. Emergono da questo rapporto due dati fondamentali e una precisa linea po­litica: i dati sono la coscienza tedesca del­

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la propria superiorità nei confronti del­l’alleato e l’individuazione del carattere particolare della spinta italiana nei Bal­cani, cioè che la sua debolezza strutturale la sollecitava ad avvalersi largamente del­l’espansione militare e a garantirsi poli­ticamente. Da qui un’abile proposta di linea politica duttile che, neocolonialista ante litteram, invitava ad accettare le ri­chieste italiane di zone d’influenza, a con­cedere politicamente per erodere econo­micamente. Si può anche pensare che la duttilità caldeggiata da von Hassel rifletta l’ancora fluida situazione balcanica del momento: c’è un fugace riferimento ad una possibile convergenza locale d’inte­ressi italiani e sovietici (p. 112).È Sala a portarci nel vivo di questi rap­porti italo-tedeschi. Con lo spoglio della stampa economica fascista del tempo (« Il Sole ») e di esauriente documentazione ar­chivistica, l’A. ricostruisce il dibattito sul­la Croazia che si apre in Italia nel 1941, e ne individua significati e modulazioni fondamentali, quale l’attenzione premi­nente accordata all’intreccio esportazio­ne di servizi - credito - lavori pubblici e l’evidentissimo disinteresse per l’indu­strializzazione. Sarebbe interessante sape­re qualcosa del modello che sottostava a questi orientamenti, cui forse non era estranea la recente esperienza di gestione in Africa Orientale. Il modo di presenza nei Balcani era però condizionato non solo dalle strutture dell’imperialismo italiano e dallo stretto rapporto, in esso, tra eco­nomia e regime politico {aspetti che la recente ricerca storica ha messo in luce e che Sala evidenzia bene) ma anche, si nota, dal tipo di « partenza », per così dire, della presenza italiana, prima falli­mentare in Grecia e poi subalterna nelle operazioni contro la Jugoslavia. Comun­que, questo è punto fondamentale, lo sta­to fascista che opera in Croazia è un re­gime in certa misura evoluto, non più solo nazionalista e repressivo, ma anche corporativo e autarchico, « banchiere » e « imprenditore » (p. 52), un sistema in cui finanza e industria sono strettamente intrecciate al potere politico. I finanzieri (come Volpi di Misurata) e TIRI hanno un ruolo importante, ma la spinta italiana

(della cui articolazione troviamo qui lar­ga documentazione ed elencazione) docu­menta implacabilmente il costante intrec­cio tra presenza politico-militare e pene- trazione economica che si manifesta, per esempio, nel continuo aumento delle com­petenze attribuite ai comandi militari, nei tentativi di ulteriore estensione della zona di occupazione, nella tendenza a contrap­porre un blocco italiano-cetnico a quello tedesco-ustacha. Inevitabilmente si arriva alla « pura rapina » dove si rivela mae­stro, come apprendiamo da gustosi parti­colari, il prefetto di Fiume, Temistocle Testa.I progetti di espansione avevano ovvia­mente necessità di alleanze. All’inizio i tedeschi tennero atteggiamento distaccato nel contrasto tra italiani e croati, e talora furono anche acquiescenti verso l’esigen­za italiana di « prerequisiti » allo svilup­po capitalistico, riservandosi così libertà d’azione; poi l’andamento della guerra li rese intransigenti e portò i croati a cer­care sempre più il loro appoggio che, al­meno militarmente, era più efficiente. (So­no una testimonianza di tragedia i docu­menti sulla situazione croata all’inizio del 1943, pubblicati a pp. 180 sgg.) Del ruolo obiettivo che l’Italia fascista svolgeva in questa situazione ci informa un altro do­cumento notevole, qui pubblicato; una relazione stesa dalla Siidosteuropa Gesell- schaft, nel marzo 1943, sulla influenza italiana nell’industria balcanica; ritrovia­mo le valutazioni di base già espresse da von Hassel e, in più, l’attestazione che lo scontro concorrenziale era ormai netta­mente risolto a vantaggio della Germania. Veramente è sfuggito agli autori che il documento di von Hassel e questo della SOEG hanno ampi brani in comune (cfr. le pagg. 102-109 con le pagg. 134-141), per cui il secondo è da considerarsi una riutilizzazione e, in parte, prosecuzione del primo, ma ciò poco toglie all’interesse di esso e non muta la valutazione che ne viene data.Sala chiude con un interessante quesito: in che misura il venir meno del progetto italiano in Croazia contribuì alla caduta del fascismo e a progetti di restaurazio­ne del potere conservatore in Italia? Ag­

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Rassegna bibliografica 137

giungerei, rifacendomi alle considerazioni da cui sono partito, in che misura questa esperienza ha realmente influito nell’evo­luzione dei nostri rapporti col vicino po­polo balcanico?

Elio Apih

Enzo Collotti, Il « Litorale Adriatico » nel Nuovo Ordine europeo, Milano, Van­gelista, 1974, pp. 148, lire 2.500.Il volume raccoglie una serie di scritti che l’autore, nel corso di vari anni, ha dedi­cato ad aspetti e problemi dell’occupa­zione tedesca dell’Italia nord-orientale tra il 1943 e il 1945, argomento al quale, come ad altri della storia giuliana, è sen­sibile e attento, anche per esperienza di­retta dell’ambiente. Vari di questi saggi hanno già visto la luce in questa rivista (nei numeri 86, 91, 103) e non costitui­scono pertanto una novità editoriale. Lo è invece il primo e più ampio di essi — nato come conferenza a Trieste — sintesi in cui Collotti raccoglie i nodi storici es­senziali della questione e li inquadra nei solidi parametri della sua conoscenza del mondo nazista. Il che è necessario per superare le ottiche localistiche. Data que­sta premessa tuttavia l’A. ritiene che que­sti avvenimenti non rappresentino più di un episodio della generale vicenda euro­pea di quelli anni, e l’affermazione non mi trova del tutto d’accordo perché la breve vita del « Litorale Adriatico », credo, segni anche la fine dell’antica spin­ta germanica alle rive adriatiche, fatto storico di ampia portata.Peraltro la sintesi che Collotti ci offre della politica nazista nelle provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana è ricca di puntualizzazioni che ritengo definitive e di suggestive aperture problematiche. Il discorso è sobrio ed essenziale. Viene ribadito che l’assunzione dell’amministrazione civile in questi ter­ritori non era certo una soluzione provvi­soria, dettata da necessità militari, ma era destinata ad un avvenire di più lon­tana scadenza, e intanto operava imme­diatamente come azione di distacco dallo stato italiano (e anche dalla Jugoslavia);

lungo questa linea si arrivò sino al pro­getto di creare una particolare moneta per questa « Zona d’operazioni ». Altro punto fermo è il chiarimento del reale significato della cosiddetta componente austriaca di questa politica, che non può essere considerata altro che strumento di egemonia germanica (ebbe però una sua particolare dinamica che si intrawede an­che qui a pp. 22-25); l’analisi della stru­mentalizzazione di motivi vetero-asburgici permette a Collotti di cogliere, come si­nora non era stato fatto, le caratteristi­che assai interessanti della locale propa­ganda nazista, che si mosse proponendo un ampio arco di approcci, rivalutando il passato in gretti termini localistici e pre­sentando prospettive economiche ai po­tenziali collaborazionisti. Fu costruita in­somma « una specie di frontiera di ca­rattere anche psicologico nei confronti del resto d’Italia e del neofascismo repubbli­cano » (p. 26). Particolare interesse acqui­sta qui l’intensa campagna denigratoria che fu svolta nei riguardi del fascismo e dell’amministrazione italiana, campagna che favorì anche singolari prese di posi­zione ideologiche, che sarebbe bene fos­sero oggetto di ulteriore studio (« Il par­tito fascista era semplicemente lo stru­mento della formazione del potere [...] mentre il nazionalsocialismo vede al cen­tro dei suoi pensieri il popolo pervaso dalla sua concezione totale del mondo », (p. 29).Sempre rigorosa è la ricostruzione di Col­lotti delle linee politiche fondamentali se­guite qui dai nazisti. Si evidenzia il mo­tivo profondo della valutazione privile­giata fatta agli sloveni nel noto princi­pio della vitalizzazione del mondo rurale in funzione antibolscevica, che avrebbe dovuto realizzarsi in tutta l’Europa sud­orientale. Si propone all’attenzione degli studiosi il possibile effetto sulle vicende del movimento operaio locale delle ini­ziative attuate di demagogia sociale. Ma è particolarmente interessante, e nuova, l’analisi del tentativo di realizzare l’auto­difesa della popolazione contro il bolsce­vismo, strategia di guerra totale che, di fatto, avrebbe portato alla disgregazione completa del tessuto nazionale e sociale

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e, così, al distacco della popolazione dal movimento partigiano.È ancora da segnalare l’ultimo dei saggi di questa raccolta, un’analisi dei compiti repressivi degli Einsatzkommandos, ha contribuito al chiarimento dei problemi giuridici connessi all’istruttoria, presso la Corte d’Assise di Trieste, per i noti eccidi effettuati nella Risiera. Sono solide pa­gine dove si coglie la funzione civile della ricerca storica, e ricordano certi magistrali scritti di Salvemini.

Elio Apih

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Piero Bevilacqua, L’ideologia dell’uma­no nella memorialistica della seconda guer­ra, in «Angelus Novus», 1974, pp. 105-137.Muovendo dal rilievo che la guerra « si comporta come estremo catalizzatore ma­teriale che spinge il rapporto degli intel­lettuali con il proprio tempo sociale e storico alle espressioni più radicali e chia­rificatrici » (p. 105), il saggio di Bevilac­qua sottolinea come — a differenza dalla letteratura sulla Grande Guerra che ten­deva al recupero nel dopoguerra dei ter­mini ideologici e dell’ottica precedenti la esperienza bellica — la letteratura rela­tiva alla seconda guerra sia invece fondata « sull’esperienza della guerra in quanto tale, mentre l’ottica che la guida e l’orien­ta è nel nuovo rapporto intellettuale- società emergente dopo il conflitto » (p. 112): non in una posizione di riflesso, dunque, ma di giudizio e di critica sulla esperienza trascorsa.In conseguenza di ciò, la guerra costitui­rebbe — oltre al resto — anche uno sti­molo alla « fondazione di nuove figure in­tellettuali le quali trasformano la loro esperienza militare o di prigionia nel pre­zioso materiale su cui fondare un proprio ruolo intellettuale: quello dello scrittore, del memorialista, del testimone » (p. 113). In questo senso, sarebbe proprio l’esigen­za, sentita dagli intellettuali, di ricucire le lacerazioni prodotte dagli eventi bellici e una « disponibilità » sociale politica e culturale da parte degli stessi intellettuali a un’opera di ricostruzione e rigenerazio­ne della società a produrre e a intensifi­

care l’interesse all’appropriazione « in ter­mini conoscitivo-morali dei nuovi dati della situazione reale e dei materiali sto­rici di quanto è accaduto » (p. 115) e a stimolare, anche nella letteratura, la ri­cerca del documento per far luce in se stessi, per informare, per ricostruire e per fondare nuovi valori sociali e culturali. L ’interesse per il documento e per la me­morialistica come elemento costitutivo e rispettivamente come « genere » della nuo­va cultura diventa una specola privile­giata per valutare — come fa il Bevilac­qua — alcuni aspetti essenziali del rap­porto intellettuale-società nel secondo do­poguerra e per considerare la portata e i limiti dell’« uso ideologico » della guer­ra nella definizione di questo rapporto. (« Certo è [...] che la memorialistica di guerra nellTtalia post-resistenziale è un frutto < costruito > consapevolmente dalla politica culturale degli intellettuali anti­fascisti su un terreno di naturale sponta­neità [...]. E in ogni caso, spontaneità della testimonianza e disegno ideologico consapevole si sono incontrati con natura­lezza in quel luogo comune che era insie­me un bisogno conoscitivo di tipo im­mediato, documentario e testimoniale so­cialmente diffuso, e un progetto di rifon­dazione letteraria, di rinnovamento socio­logico del rapporto intellettuale - società per un intervento culturale più esplicito e diretto sul reale » (p. 123).In quest’ottica, il saggio del Bevilacqua— preciso e documentato nel riferimento ai testi e alla produzione critica relativa— analizza coerentemente alcuni esempi significativi del genere documentario e me- morialistico, talvolta spingendo al limite (forse per evidenza di tesi) la sottolinea­tura dell’aspetto intenzionale e program­matico di una politica culturale sottesa alla scelta di un genere e di una prospet­tiva di discorso (della memorialistica), che forse contengono implicitamente una serie di elementi operanti in questa dire­zione. Si legga quanto scrive l’A., ad esempio, su Revelli, Rigoni Stern e Mo­scioni Negri: « [...] solo in queste nuove forme [la letteratura] può assolvere la funzione sociale di cemento ideologico di una strategia della politica culturale, di

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forma di recupero della < funzione > degli intellettuali, e al tempo stesso di ricon­ferma dell’assetto < umano > del tempo presente » (p. 125).La lettura dei testi comporta, successiva­mente, una serie di puntualizzazioni e di distinzioni. Se l’ideologia e la funzione umanitaria e umanistica (populistica e vo­lontaristica) appaiono alì’A. come degli elementi-base del genere memorialistico, vengono distinti i gradi in cui tale ideo­logia e tale funzione si esplicitano nei diversi testi: nel linguaggio tutto reale­fenomenico, « oggettivo » di Revelli; nel­la ricerca di valori archetipici e « na­turali », eterni, pre-storici di Rigoni Stern (che nella cultura contadina vede un ger­me di salidarietà al di là delle divisioni politiche e storiche); nei richiami etico­religiosi a un « umanitarismo » eticamen­te eletto, talvolta incarnato in miti let- terario-umanistici e come tali ideologica­mente giustificati di Primo Levi.Il saggio di Bevilacqua si presenta, dun­que, come una polemica e stringente let­tura in chiave di critica politica dell’ideo­logia sottesa alla letteratura memoriali­stica relativa alla seconda guerra mon­diale (e non mancano riferimenti a molti altri esempi, anche al di fuori di quelli citati, di questa produzione): una critica serrata al ruolo rivestito dagli intellettuali che — attraverso questa produzione — si erano fatti portatori di quell’ideologia « dell’umano », che era al fondo della loro opera con tutte le sue contraddizioni e ambiguità, di quel mito « umanita­rio » — cioè — di cui oggi è possibile, secondo l’A., definire chiaramente anche la natura «tradizionale». (« [ ...] il va­lore testimoniale dello scrittore di guer­ra [...] fa sì che l’essere intellettuale si presenti, illusoriamente, come uno dei momenti più alti e più efficaci dell’essere sociale »; p. 137). È una prospettiva le­gittima di lettura, soprattutto se con­dotta coerentemente come è il caso di questo saggio, che pur necessita — come ci si può attendere dalla continuazione di questo studio — di ulteriori puntualizza­zioni delle diverse motivazioni individuali e collettive, culturali, sociali e storico­sociologiche delle singole testimonianze

e soprattutto di ulteriori distinzioni tra i diversi gradi e modi di esistere delle scritture tra il documentario e l’elabora­zione letteraria, oltre che — successiva­mente — di un puntuale confronto tra queste scritture (qui assunte a osservato- rio privilegiato: un angolo di visuale) e l’elaborazione materiale del documento in scritture letterarie più complesse (roman­zo, racconto, ecc.).

Elvio Guagnini

Resistenza

Delmo Maestri, Resistenza italiana e impegno letterario, Torino, Paravia, 1975,pp. 186.

Quinto volume di una « Collana interdi­sciplinare di documenti e modelli d’ana­lisi » diretta da I. Vergnano, questa an­tologia •— commentata e introdotta da Delmo Maestri, che è anche autore di una post-fazione e dell’apparato bio-bi- bliografico — ha il merito di non essere una raccolta generica di testi ma di co­stituire una scelta e di presentare — sco­perti — i punti di vista che hanno so- vrainteso alla stessa. La prospettiva, scar­namente enunciata nell’Introduzione, si chiarisce via via nel lavoro di antologizza- zione e nel commento ai testi presentati (romanzi e racconti: testimonianze nar­rative ordinate cronologicamente sia ri­spetto ai contenuti sia rispetto alle date di pubblicazione dei testi, dall’immediato dopoguerra fino a Memoria della Resisten­za di Spinella, Rosso al vento di Bene­detti e alla Storia della Morante), oltre­ché nel lucido saggio finale che tende a mettere in rilievo le diverse fasi dell’in­tervento narrativo con al centro eventi dell’antifascismo e della Resistenza. Dunque, da una premessa introduttiva sintetica in cui, per pochi efficaci punti di riferimento (l’ultima lettera di Giaime Pintor; il discorso inaugurale dell’anno accademico 1943-44 di Concetto Marche­si; due articoli di Gentile del 1943 e del 1944; le memorie di Pietro Chiodi, Banditi, pubblicate nel 1946 e ristampate recentemente), vengono presentati atteg­

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giamenti diversi relativi al rapporto intel­lettuali-impegno civile-guerra di liberazio­ne, l’A. fa muovere un’antologia dei modi in cui, nella narrativa italiana del dopo­guerra, avviene la « penetrazione » e la « elaborazione culturale e letteraria » de­gli eventi e dei temi della lotta antifa­scista e resistenziale.Qualche cenno al saggio finale (Per una storia della narrativa della Resistenza) permette qui di raccogliere brevemente le direttrici che sono alla base dell’anto­logia e i criteri di lettura che si ritro­vano nelle note e nelle presentazioni — sobrie e precise — ai testi dei diversi scrittori considerati.Al di là delle possibili apologizzazioni di tutti i prodotti culturali e letterari ma­turati da quelle esperienze ed eventi sto­rici e politici e al di là delle accuse che — per altro verso — sono state mosse agli stessi di aver mancato ad appunta­menti e ad analisi « classisti e rivoluzio­nari », l’A. sostiene la necessità di « fis­sare il preciso stratificarsi di un mancato culturale con le sue risposte e la nuova tradizione letteraria » che ne è derivata (p. 151). D’altra parte, individuate una distinzione e una scollatura tra attività letteraria e culturale specifica e intervento politico, militare e civile, giustificate da una situazione storica e da una tradizione intellettuale tipiche della cultura italia­na, e chiarita quindi la ragione in base alla quale condurre un discorso intorno a una narrativa ra/l’antifascismo e sulla Resistenza anziché ¿e//’antifascismo e della Resistenza, l’A. mette in rilievo il particolare significato rivestito da « que­sta letteratura di riflessione, e non d’im­mediata partecipazione »: « ... la Resisten­za appare non come realtà e misura totale da proseguire in senso rivoluzionario e nella stessa direzione di lotta, ma come una fase importante, ma limitata, un preambolo per costruire, proseguendone lo spirito in condizioni diverse, una so­cietà rinnovata e pacifica » (p. 153).L ’A. è ben conscio, peraltro, della neces­sità di sciogliere le formule e di vedere nettamente le sfumature e distinzioni di rilievo oltre l’enunciato di una tendenza comune. Nel saggio finale e nell’antologia,

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il Maestri sottolinea le diverse fasi in cui si è venuta svolgendo questa narrativa. Nella prima fase, quella corrispondente al­l ’immediato secondo dopoguerra, « la Re­sistenza non si presenta né come occasio­ne irripetibile, né come culmine e pre­parazione di un atto rivoluzionario poi tradito e dimenticato, ma come momento di costruzione di una società diversa, da organizzarsi civilmente dopo la distru­zione del fascismo, ed anzi già nella lotta ricco di germi fecondi per il migliora­mento dell’uomo » (p. 157). È necessa­rio, però, distinguere — secondo l’A. — all’interno di questa fase, l’elementare dia­lettica umanità-antiumanità di Vittorini; il senso di necessità di un’azione colletti­va e popolare espressa nelle pagine di « semplificata concentrazione didascalica » della Vigano; la « seduzione dell’arcaico » di Carlo Levi, che scopre « nell’Antifasci­smo quel momento di ricostruzione nazio­nale ed umana che deve fare giustizia delle distorsioni della storia di cui il fa­scismo è stato l’ultimo autorevole soste­gno » (p. 158); 1’« adesione più proble­matica » di Italo Calvino, ottenuta attra­verso filtri e modi « stratificati e comples­si » del racconto in cui emerge la contrad­dizione tra valore positivo e liberatorio della storia e « inconsapevolezza delle masse »; la solitudine e il malessere dei personaggi di Pavese; le esigenze di inte­riorizzazione di Petroni. L ’incrinarsi di « certezze » e di « entusiasmi » si mani­festa, secondo il Maestri, non solo in ope­re in cui agiscono « tradizioni precedenti, memoriali ed intimistiche », ma anche in romanzi di più vasto respiro e intenzioni, dove l’arco dell’indagine sul processo sto­rico preparatorio degli eventi resistenziali si allarga ai precedenti e dove pure emer­ge (per sollecitazioni ideologiche operanti nella cultura di sinistra) l’esigenza di « so­lide strutture oggettive » (ad esempio, in Cronache di poveri amanti e in Terre del Sacramento).Più tardi, nella seconda fase considerata dall’A. — intorno a quel 1956 che segna la crisi definitiva del neorealismo — la situazione iniziale sembrerebbe capovol­gersi nei suoi presupposti: « [ . . .] da lotta entusiastica che distrugge il fascismo e

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prepara una società nuova, la Resistenza appare ora conclusa in sé, momento irri­petibile, eccezionale o insignificante non importa, nel corso della nostra storia » (p. 163). Anche in questo caso, le presen­ze di scrittori sono assai dissimili e diver­se quanto a premesse e prospettive: dal Cassola in cui la Resistenza è un « sob­balzo eccezionale » che poi lascia il posto al ritorno deludente al quotidiano; al Bassani in cui una « luce di memoria » resta l’unica ottica degli eventi; a Fe- noglio che ricorda con pungente nostalgia il « tempo eccezionale » della Resistenza in cui erano esplose « la libertà, la de­mocrazia, un’inaspettata farraginosa soli­darietà fra gli uomini » (p. 165).Gli anni sessanta, con le complesse espe­rienze e manifestazioni di integrazione, e di rifiuto e contestazione dell’integrazione e dei compromessi, segnano — nel profilo del Maestri — una fase ulteriore, quella di una narrativa che si svolge sullo sfon­do dei « tentativi di integrazione neoca­pitalistica », delle « rabbiose accuse della neoavanguardia », dell’« attacco alla con­testazione studentesca alle residue illusio­ni di quella intellettualità che aveva ade­rito o si era formata nel clima neoreali­stico » (p. 167).Caratterizzata da una nostalgia repressa e disillusa, presente ma rassegnata, o da un desiderio di reazione e di ripresa attua­lizzante, l’attività narrativa legata ai temi dell’antifascismo e della Resistenza segna un momento di intensificazione — sotto- lineato dall’A. del profilo — tra la fine degli anni sessanta e gli esordi degli anni settanta (M. Spinella, G. Petroni, A. Be­nedetti, E. Morante), con una serie di « riesami sereni o accorati o avvolti di ironica tristezza, consapevoli di ciò che non ha potuto essere o ha deluso o non ha saputo resistere ai passaggi del tem­po » (p. 168).La conclusione, che « la vicenda del mo­tivo resistenziale mostra come la co­scienza sociale e letteraria degli scrittori ha dovuto spesso fare i conti con questo momento, per le conseguenze vicine e lontane, per il suo proporsi come con­trasto e rimorso, non solo problemi sto­rico-politici, ma un’onda di impeti, di ri­

sentimenti e di ragioni validi anche per il nostro oggi » (p. 170), trova d’altra parte puntuale riscontro nell’impostazione del­l’antologia, i cui limiti, peraltro, sono gli stessi enunciati dall’A. come caratteristica costruttiva del volume, l’attenersi — cioè — alla narrativa con l’esclusione di altre forme di testimonianza letteraria e non letteraria e l’esclusione di quella produ­zione deW’antifascismo e della Resistenza che pure hanno costituito uno stimolo e un esempio operante per la nuova cultura del dopoguerra in tutte le sue fasi.

Elvio Guagnini

Livio Zeno, Kitratto di Carlo Sforza, Fi­renze, Le Monnier, 1975, pp. 546, li­re 9.000.

Questa biografia attenta scrupolosa e apo­logetica di Carlo Sforza ripropone all’at­tenzione dei lettori la figura di uno degli esponenti più prestigiosi dell’antifascismo all’estero ed uno dei protagonisti della storia politica italiana nei primi anni dopo la liberazione.L ’A., che fu addetto alla segreteria parti­colare di Sforza, negli anni in cui questo ultimo detenne il ministero degli Esteri sotto il governo De Gasperi, si avvale di una vasta documentazione edita ed ine­dita (quest’ultima ristampata in gran par­te in appendice, fra cui citiamo in parti­colare i carteggi con Croce e con De Ga­speri) e di una profonda conoscenza del personaggio, di cui tratteggia più che un ritratto una miniatura particolareggiata nei dettagli, ma piuttosto sfumata nel qua­dro generale degli avvenimenti di cui Sforza fu se non sempre protagonista, certo partecipe spettatore. Ne emerge una personalità lineare, costruita (o autoco- struitasi) secondo i modelli culturali del­l’alta borghesia fin de siècle: gli studi, le tradizioni familiari, il curriculum diplo­matico, lo stile composto ed elegante, gli snobismi.Zeno ripropone, con un taglio non rigo­rosamente cronologico, le tappe di que­sta biografia, dall’inizio della carriera di­plomatica nel 1896, alla nomina a segre­tario aggiunto alla conferenza di Algesi-

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ras, a sottosegretario agli Esteri nel 1919, fino alla nomina a ministro l’anno succes­sivo. In tale veste — come si sa — egli ebbe il merito di stipulare con la Jugo­slavia il trattato di Rapallo che poneva fine alla lunga polemica sui confini orien­tali.Nominato ambasciatore a Parigi e dimes­sosi all’avvento del fascismo, Sforza emi­grò, in seguito alle violenze fasciste nel 1927, dopo molte esitazioni e non senza aver manifestato un certo distacco aristo­cratico verso 1’« emigrantismo » (ISML; fondo a Prato, carteggi Sforza, b. 4). Ma anche nell’emigrazione, in cui per la tra­dizione familiare e il prestigio politico di cui godeva nell 'establishment liberale di mezza Europa, volle e seppe assumere un ruolo rappresentativo nell’Alleanza Na­zionale e presso molti membri della So­cietà delle Nazioni: con un atteggiamento conseguente di conservatore illuminato, amico di sovrani e pervicacemente ostile ai movimenti popolari e in particolare ai comunisti.Tuttavia il volume di Zeno, così attento ai particolari psicologici, ai dettagli di cronaca, ai pettegolezzi mondani, ci pare non ponga in giusto rilievo da una parte gli scontri all’interno del movimento anti­fascista, dall’altra il carattere (e i limiti) della produzione pubblicistica di Sforza, che in quegli anni, si impegnava ma con una forza polemica e morale ben diversa da quella di Salvemini, nell’imporre all’o­pinione pubblica il volto dell’antifascismo militante.Ancora più evanescente si fa in questa opera la figura di Sforza, durante il sog­giorno americano, nei primi anni della guerra mondiale, nel periodo in cui, so­spinto dagli entusiasmi degli emigrati alla conferenza di Montevideo e blandamente sostenuto dal Dipartimento di Stato par­ve assumere la direzione della linea poli­tica antifascista laica e repubblicana. Ci pare che Zeno scivoli con una certa am­biguità sui rapporti con la « Mazzini So­ciety », ma anche su quelli con ex fasci­sti e sindacalisti passati solo all’ultimo mo­mento sulla frontiera dell’antifascismo, come Generoso Pope o Antonini. È un problema questo della « Mazzini Socie­

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ty » che andrebbe totalmente riproposto e ristudiato su documentazioni più ampie ed attendibili di quelle ora a disposizione, comunque anche in questo caso la figura di Sforza non acquista un ruolo chiaro. Tralasciamo la cronaca minuta degli avve­nimenti, seguiti con attenzione apprezza­bilissima, per gli anni che vanno dalla Resistenza al suo secondo ministero degli Esteri, ci pare tuttavia che alcuni altri problemi restino ancora una volta inso­luti, o che siano risolti in modo persona­listico, come ad esempio per il contrasto Churchill-Sforza, che investe nodi di po­litica estera ben più ampi che non le in­sofferenze reciproche.Nonostante l’affettuosa rievocazione del personaggio, rivisitato in questi ultimi an­ni, in una dimensione essenzialmente fede­ralistica ed europeistica, grava — nono­stante le puntuali citazioni e le difese d’ufficio — sulla sua statura politica, la pesante ombra della guerra fredda, il le­game sempre più gravido di ipoteche fra Italia e Stati Uniti, in cui De Gasperi, Sforza e l’ambasciatore a Washington Tarchiani, avranno una responsabilità de­terminante nel legare l’Italia ad un ruolo subalterno all’economia e alla politica americana.

Nanda Torcellan

Secondo dopoguerraJ oyce e Gabriel Kolko, I limiti della po­tenza americana. Gli Stati Uniti nel mon­do dal 1943 al 1934, Torino, Einaudi, 1975, pp. XVI-903, lire 15.000.Giunge in Italia con tre anni di ritardo, in una traduzione per la verità alquanto esecrabile, questo importante contributo dei Kolko alla storia dei rapporti interna­zionali postbellici. L ’editore Einaudi, che pure ha avuto il merito di presentare in traduzione altri volumi di Gabriel Kolko, non ha però ritenuto di pubblicare quello che costituisce l’avvio e la premessa del discorso sviluppato sul dopoguerra, The Politici of War. The World and U.S. Foreign Policy (New York, 1968). In questo precedente lavoro G. Kolko ana­lizzava, con analoga apertura mondiale,

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la definizione progressiva di una politica americana nei confronti del mondo post­bellico a partire dal 1943 e sosteneva che alla imprecisione e incertezza delle scelte « politiche » corrispondeva però una assai attenta predisposizione di quelle « eco­nomiche », cioè del ruolo dominante che il capitalismo americano avrebbe svolto nel contesto mondiale dopo la fine della guerra.I due volumi (e in particolare quest’ulti­mo) hanno ricevuto nel mondo accademi­co americano un’accoglienza assai critica, in alcuni casi al limite del linciaggio scientifico. Non ultima ragione di questo accanimento, accanto al contenuto dissa­cratorio delle tesi dei Kolko nei confronti dell’interesse americano, la particolare co­struzione del volume, che volutamente prescinde in larga misura dalle ricostru­zioni storiografiche preesistenti e utilizza al contrario massicciamente fonti archivi­stiche inedite e memorialistiche. Da que­sto punto di vista, anche un pacato, per quanto severo critico ha dovuto ricono­scere che il libro «offre una elencazione definitiva delle fonti di base disponibili per lo studio della politica estera ameri­cana dal 1945 al 1954 » (cfr. W. F. Kim- ball, The Colà War Warmed Over, in «The American Historical Review», 1974, n. 4, p. 1123). Inoltre, la dichiarata osti­lità al criterio interpretativo liberal — che tende a ridurre le colpe del sistema a quelle degli uomini o meglio di alcuni uomini ai vertici della pubblica ammini­strazione — pone questa come più in ge­nerale le altre opere dei Kolko fuori del- l ’establishment culturale americano. Per­ché qui l’imputato è il sistema america­no: una società dominata dalla forza espansionistica del grande capitale inter­no che determina i caratteri e gli obietti­vi della politica estera. Non è difficile d’altra parte rintracciare nella tesi dei Kolko — anch’essa esplicitamente dichia­rata — l’eco del dibattito politico sul Vietnam e la collocazione radicai degli autori; e la convinzione o forse soltanto la speranza che proprio il conflitto per­manente tra il sistema americano e le forze del cambiamento in tutto il mondo, ma specialmente nel Terzo, abbia provo­

cato una « profonda crisi del sistema so­ciale » (p. 892) interno americano e aper­to la strada a un’epoca di profondi e im­prevedibili sconvolgimentt sociali nel mondo intero.Il merito principale dei Kolko — e an­che l’acquisizione interpretativa più con­vincente — consiste nell’aver preso le mosse, per uno studio delle relazioni in­ternazionali del dopoguerra, dagli obiet­tivi della potenza chiave, gli Stati Uniti appunto, e di aver analizzato le diverse situazioni locali come funzioni dell’espan­sione americana. Questa impostazione non offre soltanto gli evidenti vantaggi di un’ottica planetaria, consentendo di stu­diare comparativamente realtà nazionali diverse (ed è questa una non piccola cor­rezione delle tendenze provinciali con cui ancora oggi si studia la storia del do­poguerra, per esempio in Italia) ma ap­proda a una revisione sistematica dello stesso concetto di guerra fredda — in­tesa come confronto bilaterale tra URSS e USA — quale chiave privilegiata di comprensione delle vicende internazionali postbelliche. Più volte, paradossalmente, i Kolko affermano che, anche se l’URSS non fosse esistita, gli Stati Uniti non avrebbero mutato in modo significativo gli obiettivi della loro politica estera: in realtà i rapporti con l’URSS furono sol­tanto uno degli aspetti della volontà ege­monica americana a livello mondiale, spe­cialmente nella fase iniziale, e finirono per assumere un ruolo cruciale solo come effetto indotto a mascheratura ideologica (prevalentemente a fini interni) di più generali esigenze di espansione economi­ca e controllo politico mondiale. Ridotte a una formula, tali esigenze consistevano in una riforma del capitalismo mondiale e nella sconfitta della Sinistra (col quale termine si devono intendere le forze so­ciali interessate e in lotta per mutamenti radicali piuttosto che le loro rappresen­tanze politiche, generalmente — nella mi­sura in cui accettavano la leadership so­vietica — disposte a agire come fattori di equilibrio e riaggiustamento e non di ro­vesciamento dei rapporti di produzione esistenti): obiettivi, l’uno e l’altro, defi­niti in funzione delle aspettative e delle

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necessità del big business americano. Di contro alle politiche commerciali restri- zioniste e < egoistiche > del periodo fra le due guerre, i massimi responsabili ame­ricani (spesso fisicamente coincidenti con gli esponenti dei consigli di amministra­zione delle grandi aziende industriali e delle banche) si fanno assertori della mas­sima liberalizzazione degli scambi inter­nazionali; che comporta libertà di accesso per tutti alle materie prime e ai mercati internazionali, come condizione per una espansione economica controllata e diret­ta dagli USA (la regola soffre significative eccezioni: la speciale tutela assicurata a certe merci americane, in primo luogo i prodotti agricoli). Corollario di questa im­postazione (che inizialmente è vista come l’unica opportunità di evitare una grave crisi di riconversione prevista negli USA dopo la fine della guerra), le politiche economiche dei singoli paesi devono es­sere armonizzate al fine di evitare con­trolli statali sul commercio, nazionalizza­zioni, pretese di « pieno impiego »; di la­sciare insomma piena libertà al mercato. Esemplari al riguardo i rapporti con la Gran Bretagna, di cui va intaccata l’area privilegiata di scambi definita dal Com­monwealth, sconfitta e rimpiazzata defini­tivamente la leadership sul resto del mon­do capitalistico, in particolare europeo, contrastato e fortemente condizionato l’uso di politiche economiche interne miranti a un controllo statale sulle risorse e al < pieno impiego >.Dentro l’arco cronologico studiato, i Kol- ko individuano una periodizzazione in tre fasi: la prima, sostanzialmente di prepa­razione, ma già definita quanto agli scopi e agli obiettivi da perseguire, è segnata appunto, in Europa, e anche nel Vicino Oriente, dal confronto con la Gran Bre­tagna, dalla divaricazione crescente rispet­to all’URSS a partire dalla questione te­desca, da una politica di aiuti in merci e capitali già consistente e, nell’Estremo Oriente, da politiche differenziate nei confronti rispettivamente della Cina e del Giappone; la seconda, che si apre con la elaborazione e il lancio del Piano Mar­shall, ribadisce la priorità attribuita allo scacchiere europeo, segna un coinvolgi­

mento più deciso degli USA negli affari internazionali in funzione di guida del capitalismo europeo e quindi mondiale, con la riqualificazione di Germania e Giap­pone quali supporti cruciali del nuovo or­dine, e individua il tentativo di gestirlo ricorrendo in prima istanza alla propria potenza economica; di fronte al fallimento del Piano Marshall e alla recessione ame­ricana dell’autunno ’48-giugno ’49, la stra­da è aperta al riarmo ancor prima del possesso sovietico della bomba atomica (agosto 1949), con il duplice scopo di sostenere la domanda interna (le spese militari salgono rapidamente da 12-14 mi­liardi del 1947-’49 a 44,1 miliardi di dol­lari nel 1952) e rianimare lo sviluppo economico; in questo contesto, la guerra di Corea è l’occasione sfruttata per giusti­ficare (sul piano interno come su quello internazionale) una simile svolta. L ’inter­vento militare diretto in Estremo Oriente e l’avvio di una politica (ancora modesta quantitativamente) di aiuti ai paesi sotto- sviluppati (il cosiddetto Punto Quattro) dovevano a loro volta preparare, per ri­solvere il problema cruciale dell’approv­vigionamento delle materie prime, quel­l’allargamento dell’area di intervento mili­tare ed economico degli Stati Uniti ai pae­si del Terzo Mondo (indice insieme se­condo i Kolko, del fallimento, ma anche della drammatica pericolosità ■—- non con­sapevole appunto dei propri « limiti » —) che sarebbe culminata nell’intervento in Indocina.Dare conto in tal modo della ricchezza e anche della complessità del lavoro dei Kolko è certamente riduttivo: può essere tuttavia sufficiente per sottolineare l’im­portanza del contributo e le novità inter­pretative rispetto non solo alla storiogra­fia americana, ma in generale a tutta la storiografia sui rapporti internazionali postbellici. Porre l’accento sulle tendenze espansionistiche del capitalismo america­no fin dal periodi di guerra consente agli autori di svelare il contenuto ideologico delle giustificazioni addotte dai massimi dirigenti americani per le scelte di poli­tica estera e di superare in modo convin­cente le aporie e le contraddizioni della stessa storigrafia revisionista americana. È

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senza dubbio questo il terreno fecondo sul quale dovranno misurarsi le ricostru­zioni successive, anche approfondendo e magari correggendo la molteplicità di spun­ti forniti. È nell’ambito di questo giudi­zio largamente positivo che riteniamo di dover però sottolineare alcuni motivi di perplessità.Una prima considerazione riguarda il ta­glio seguito dagli autori nella loro rico­struzione: la verifica di un assunto che talvolta pecca di « economicismo », è ri­cercata in un’analisi assai dettagliata di tutte le situazioni locali in cui gli Stati Uniti sono coinvolti; ma gli autori non sempre riescono a padroneggiare una ma­teria così vasta, sia per alcune inesattezze0 fraintendimenti di fatto (è il caso di al­cuni giudizi sull’Italia), sia per l’esage­rato rilievo assegnato ad alcune vicende nell’economia complessiva del lavoro (ad esempio la dettagliata ricostruzione delle vicende anche militari connesse alla guer­ra di Corea), sia infine per la scarsa niti­dezza di alcune sezioni pur di grande importanza per l’assunto (è il caso, ad esempio, dei rapporti con i vari paesi europei nella fase di progettazione e di lancio del Piano Marshall).Ci sembra in sostanza che il lavoro non sia riuscito a superare, nonostante tutto,1 limiti della storia diplomatica e che la ragione di ciò vada ricercata nella man­canza di una più precisa ed esauriente analisi della fisionomia del capitalismo americano, delle sue articolazioni interne, delle diverse strategie economiche che si fronteggiano.Sembra sommaria, a questo riguardo, l’in­dicazione dei Kolko circa le due linee esistenti nel mondo economico america­no: quella della grande industria e della grande banca, rappresentata dal Diparti­mento di stato, e quella degli interessi agricoli, rappresentata dal Dipartimento dell’agricoltura e dal Congresso; la prima fevorevole e la seconda moderatamente ostile ai programmi di aiuti e di prestiti all’estero e alla liberalizzazione del com­mercio internazionale (anche se poi, al momento della recessione del 1948-49, i Kolko registrano le forti resistenze degli industriali all’esportazione di capitali in

Europa e le loro richieste di protezioni tariffarie). I dubbi che solleva un’impo­stazione di questo genere si riflettono sul­l’analisi del processo di formazione delle decisioni di politica estera; si ha l’impres­sione, talvolta, che la tesi « economicista » venga ribaltata in quella dell’autonomia delle scelte deH’amministrazione e dello stato.Una seconda osservazione riguarda la tesi dei limiti della potenza americana. Non c’è dubbio che i Kolko tocchino qui un problema reale, quello dello squilibrio tra le pretese egemoniche via via sempre più ambiziose deH’imperialismo americano e la inadeguatezza delle risorse economiche e politiche in grado di soddisfarle. In par­ticolare, i Kolko sottolineano con grande lucidità l’obbligatorietà e la non casua­lità — date certe premesse, su cui i mas­simi dirigenti americani concordano — delle scelte di appoggiare i più screditati arnesi reazionari, specialmente nell’Estre­mo Oriente, e la sottovalutazione del peso delle lotte di massa che si oppongono a queste scelte.Sul piano economico, i Kolko illustrano la precarietà e lo scarso realismo di una riforma del capitalismo mondiale sotto l’egida americana (con riferimento all’Eu­ropa occidentale) l’acutezza delle contrad­dizioni intercapitalistiche e i costi sociali delle scelte adottate dalle classi dirigenti. Ma passano sotto silenzio, e quindi non spiegano, l’altra faccia di questa realtà, e cioè la sostanziale stabilità e la grande capacità di sviluppo del sistema posto in essere proprio nel decennio postbellico di cui trattano.

Nicola Gallerano

P. A . A l l u m , Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1975, pp. 549, lire 9.000.

La fusione tra la moderna sociologia poli­tica e i metodi classici della storiografia meridionalistica fanno del libro di Percy Allum un’opera di storia politica e sociale destinata a rappresentare un punto di ri­ferimento per chiunque voglia definire le contraddizioni strutturali e sovrastruttu-

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rali del mezzogiorno d’Italia. Lo studioso inglese, nel tracciare le linee di fondo del suo saggio, non si limita ad una docu­mentazione rigorosa ed ampia, fatta di note biografiche dei personaggi del mondo politico ed economico degli ultimi tren- t’anni, di stralci di sentenze, di elenchi di consigli di amministrazione, di fonti statistiche, di documenti « ufficiali », ma porta alla luce il comportamento di uo­mini, settori e classi sociali mettendo a confronto, con estrema dialettica, le di­verse posizioni, così come esse emergono dal giudizio dei protagonisti.Allum ricorre spesso alla ricerca « sul campo » per mostrare il comportamento e il ruolo che le clientele e i boss hanno nei partiti e nella società meridionale. Dalle interviste-campione, riportate con dovizia nel libro, risulta chiaro il quadro di una struttura politica che ripropone, ai vari livelli, gli schemi gerarchici di un modello rigidamente piramidale. Man ma­no che si scende verso la base della pira­mide cresce il numero dei notabili, ma diminuisce il loro potere effettivo. Defi­nendo nel dettaglio la vita politica napo­letana di questi ultimi trenta anni, Allum non intende limitarsi alla denuncia del « bossismo » come fenomeno. Appare te­so, al contrario, alla ricerca delle cause strutturali che permettono il riprodursi di simili schemi e scale di valori.La critica ai luoghi comuni sulla storia di Napoli e dei napoletani (pur presenti in certa storiografia) è netta ed inequivoca­bile: i meccanismi che regolano il sistema e le istituzioni politiche cittadine sono da ricercarsi nella estrema disgregazione dei rapporti economico-sociali. A Napoli — sostiene l’A. -—■ tali rapporti convivono in maniera contraddittoria formando un tessuto apparentemente omogeneo. Ac­canto alla moderna industria sopravvivo­no attività che sarebbe riduttivo definire marginali; basti pensare al fenomeno del lavoro a domicilio o del commercio al minuto che consentivano e tuttora con­sentono livelli minimi di sussistenza per decine di migliaia di napoletani. Di que­sta fusione tra moderno ed antico risente la vita della società napoletana in tutte le sue manifestazioni. I modelli adottati

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Gemeinschaft und Gesellschaft (comunità e società) corrispondono, quindi, alla ne­cessità di analizzare i diversi momenti della vita napoletana, senza che si defi­nisca mai schematicamente il predominio di un modello sull’altro. Si legge infatti nell’Introduzione: «[...] la tendenza al passaggio da un [modello] ad un altro [non] implica che questo passaggio sia tranquillo e regolare: poiché i due tipi si contrappongono polarmente, essi si tro­vano in conflitto tra di loro ed i passaggi tenderanno quindi ad assumere il carattere di salti qualitativi irregolari ed incerti » (p. 6). Solo alla luce di questa attenta analisi delle contraddizioni della società napoletana e meridionale in generale si può comprendere il rapporto che è inter­corso negli ultimi trent’anni tra i diversi gruppi sociali e il ceto politico. Allum riconduce allo sviluppo squilibrato della economia italiana i fenomeni del pater­nalismo e del « bossismo » politico e la subalternità ad essi delle classi più eco­nomicamente indifese.Con la fine delle seconda guerra mon­diale — sostiene lo studioso inglese ri­prendendo la tesi esposta nel saggio II Mezzogiorno e la politica nazionale — si assiste ad un consolidamento del « siste­ma meridionale » che, abbandonando la originaria matrice agraria, analizzata da Gramsci e Sereni, trova nuova fonte di riproduzione nella politica di intervento pubblico operata dai governi centristi a partire dal 1947.Allum, riprede le note tesi di A. Ora­ziani sul « dualismo geografico », sostenen­do come la politica meridionalistica dei go­verni centristi abbia favorito, da una par­te, il potenziamento dell’industria setten­trionale, trasformando il sud in un’area di consumo, dall’altra, i vecchi gruppi di notabili meridionali che potevano così gestire ampi spazi per il controllo del mercato del lavoro. In base a questa ana­lisi si possono spiegare le fortune politi­che ed economiche di personaggi come Gava e Lauro che si trovano a mano­vrare i fondi delle « provvidenze » gover­native. Il tramonto laurino coincide, in­fatti, con l’avvento in economia dei ten­tativi di programmazione che, sottraendo

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la politica di assetto territoriale ai vecchi gruppi locali della speculazione edilizia, favoriscono le grosse immobiliari control­late dalle finanziarie nazionali.La storia della vita politica e sociale a Napoli negli ultimi trent’anni appare quin­di strettamente collegata con le vicende nazionali. Il riemergere nel dopoguerra dei vecchi gruppi di potere è il frutto delle scelte del partito democristiano che non esita a ricorrere all’appoggio delle forze più eterogenee, salvo a mettere in atto, successivamente, la loro liquidazione come avvenne, appunto, per il PMP. È importante sottolineare come il saggio di Allum si venga ad inserire direttamen­te nel dibattito sul significato della co­siddetta « centralità democristiana » che dal periodo degasperiano rappresenta, sia pure sotto forme diverse, la costante della politica di tale partito. Il giudizio sul rapporto tra DC e potere ha degli ele­menti in comune con le ipotesi sostenute dalla Menapace: la DC tende ad iden­tificare se stessa con le strutture istituzio­nali; fa coincidere il suo rafforzamento con il predominio del modello delle de­mocrazie occidentali; al contrario, ogni qualvolta si mette in moto un processo inverso, essa prospetta la crisi istituzio­nale.Il sistema politico meridionale — sostie­ne Allum — è direttamente funzionale alla perpetuazione della gestione demo- cristiana del potere. I notabili, con il loro apparato clientelare, consentono il con­trollo di settori sociali che, sottratti alla Gemeinschaft, finirebbero con l’incrinare l’assetto interclassista sul quale si basa l’edificio politico democristiano. Come l’uso spregiudicato degli avversari per­mette l’allargamento di tale controllo, co­me dimostrano l’alleanza tra Gava e Lau­ro in occasione delle elezioni amministra­tive nel 1954 a Castellammare di Stabia e l’adesione di sette consiglieri monarchi­ci alla DC nel 1961. Pur entrando nel me­rito di questioni estremamente attuali, Potere e società a Napoli nel dopoguerra non può essere definito schematicamente un pamphlet politico. Se si escludono le critiche dei settori direttamente interes­sati, bisogna ricordare che tale obiezione

è stata avanzata da fonti autorevoli che hanno creduto di ravvisare nel saggio un metodo di indagine storiografica poco at­tendibile. Pur riconoscendo al libro una netta presa di posizione sul piano poli­tico, che l’A., peraltro, ammette esplici­tamente, va detto che esso si distacca dal filone della pubblicistica tradizionale per ricostruire organicamente lo sviluppo del­la società napoletana, dal dopoguerra ad oggi, attraverso la definizione del com­portamento dei diversi gruppi sociali e del condizionamento che ciascuno di essi esercita sugli altri.La stessa analisi del rapporto subalterno tra ceti intellettuali meridionali e potere politico viene ricondotta a cause profon­damente strutturali, quali i problemi ine­renti la loro collocazione sul mercato del lavoro. Come sostiene anche Sylos-Labini, nel mezzogiorno si è avvertito, più che in altre zone del paese, la crescita ab­norme del pubblico impiego e il pro­cesso di terziarizzazione dell’economia. È accaduto così — sostiene Allum — che molte energie siano rimaste ingabbiate negli schemi della Gemeinschaft, ripropo­nendo per l’intellettuale il ruolo di me­diatore tra classi subalterne e potere po­litico. Ci sembra opportuno precisare la distinzione che l’A. evidenzia, rifacendosi all’analisi gramsciana, tra i « creatori d’al­ta cultura » e « gli intellettuali in senso largo [...] persone tutte che hanno rice­vuto un’istruzione superiore e svolgono un lavoro di tipo non commerciale » (p. 99). Complessivamente positivo è il giudizio del comportamento del proleta­riato industriale napoletano come elemen­to di superamento della Gemeinschaft. L ’A., nell’analizzare le caratteristiche, tie­ne presente la specificità del processo di industrializzazione meridionale. Pur senza addentrarsi in un’indagine prettamente economica, viene analizzata l’influenza che sulla classe operaia napoletana esercitano fattori come la provenienza contadina di gran parte degli occupati o il richiamo costante a modelli di comportamento pro­pri dei settori più disgregati definiti, ge­nericamente, « sottoproletariato ».Uno degli aspetti più interessanti propo­sti dalla metodologia di Allum è dato

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dall’analisi originale condotta sui sinda­cati e sui partiti di massa. Essi non ven­gono definiti sul piano degli aspetti ideo­logici « ufficiali ». Lo studioso inglese si addentra in un’attenta analisi della loro composizione sociale al fine di verificare, all’interno delle loro strutture, l’eventuale riproposizione degli schemi sia della Ge­meinschaft che della Gesellschaft. Avvie­ne, così, che la stessa organizzazione sin­dacale divenga strumento per il riaffer­marsi del sistema politico clientelare, ogni qualvolta si presenti la possibilità di uti­lizzare in funzione elettorale l’influenza esercitata sui settori organizzati. In tal modo si verifica l ’osmosi tra il tradizio­nale sistema clientelare, tipico della Ge­meinschaft e l’organizzazione di massa, espressione di rapporti sociali più evoluti. I settori coinvolti in tali operazioni, come appare dagli esempi riportati da Allum, appartengono al pubblico impiego e ai servizi, dove nel contesto napoletano, è più immediato il rapporto tra potere poli­tico e società. In ultima analisi, quindi, il discorso dello studioso inglese ci riporta alla struttura economica, sulla quale si basa il « sistema meridionale ».Nei confronti dei moderni partiti di mas­sa l’analisi dell’autore è quanto mai arti­colata. Efficacia della struttura organizza­tiva, influenza elettorale, composizione so­ciale degli iscritti sono i diversi piani sui quali si sviluppa il discorso. Si vuole, cioè, definire se la costituzione dei partiti di massa abbia rappresentato un reale elemento di novità e di rottura nel tradi­zionale trasformismo meridionale. Netto è

il giudizio sul carattere elettoralistico del­l’apparato organizzativo della DC. La sua attività, pertanto, opera unicamente in funzione del successo dei vari notabili, ad ognuno dei quali corrisponde un feudo elettorale. Più complessa è l’analisi del PCI, dove predominano rapporti pro­pri della Gesellschaft; la presenza del pro­letariato industriale favorisce il processo di partecipazione politica. Il PCI, quindi, secondo Allum, costituisce l’unica strut­tura organizzativa capace di proporre mo­delli di comportamento tipici di una so­cietà industrialmente evoluta. In questo l’A. sembra riprendere le valutazioni di S. Tarrow (Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, 1972) secondo il quale il PCI avrebbe proposto nel mez­zogiorno schemi organizzativi e valori so­cio-politici propri delle zone più industria- lizzate del paese. Questo processo — ed in ciò Allum dissente da Tarrow — è da considerarsi positivo ai fini di un rinno­vamento della società meridionale. La classe operaia, attraverso le sue strutture di massa, esprime una capacità d’aggrega­zione che sembra essere assente negli al­tri settori della complessa stratificazione sociale napoletana. Il suo ruolo progres­sivo nel rapporto con le istituzioni emer­ge ripetutamente e fornisce un ottimo ter­reno di ricerca per chiunque voglia defi­nire, alla luce degli avvenimenti che van­no dal dopoguerra ad oggi, i complessi problemi dei rapporti socio-politici nella società meridionale.

Gloria Chianese