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Quelle sopra formulate erano solamente alcune osservazioni di carattere generale, che ci pare possano essere considerate come ulteriori elementi per una discussione franca ed aperta a quanti interessa conoscere sempre più e meglio il recente passato della nostra economia e della nostra società.Abbiamo limitato queste brevi note, anche perché su un’altra serie di questioni — diciamo — più interne (quota novanta, movimenti migratori, salari, ecc. ...) s’è intrattenuto di recente Domenico Preti sull’ultimo numero di « Ricerche storiche » (n. 2, 1975), che esponendo precise valutazioni trova anche noi consenzienti.
Giuliano Muzzioli
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Movimento operaio
Storia del marxismo contemporaneo. I maggiori interpreti del pensiero marxista dopo Marx, « Annali », XV, 1973, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 1499, L. 22.000.L ’esigenza di una storia complessiva del marxismo si è fatta ripetutamente sentire negli anni vicini a noi. Non si può dire però che i tentativi finora compiuti di darvi risposta fossero molto soddisfacenti. Lavori pur diversissimi come quelli di Licht- heim e di Wright Mills si presentavano variamente e diremmo programmaticamente lacunosi, lasciando scoperti tanti aspetti della materia da rivelarsi al massimo punti di partenza stimolanti. L ’imponente storia documentaria di Fetscher non offriva molto di più che una collazione ragionata di materiali, e la stessa più recente opera di Vranicki, pur raggiungendo una notevole completezza, risentiva al suo interno di sensibili squilibri. Questo volume degli « Annali Feltrinelli », che si presenta come « una sorta di compendio o di manuale analitico di storia del marxismo » è certamente un’opera che entrerà definitivamente, e a buon diritto, a far parte degli strumenti di consultazione indispensabili ad ogni studioso della storia del pensiero politico contemporaneo e del movimento operaio: più completo, pur con le riserve di cui diremo, e più articolato di ogni altro precedente tentativo di sintesi della materia, esso ha il pregio
di risultare dalla collaborazione di un ampia staff di studiosi (una sessantina) quasi tutti variamente vicini al marxismo, ma portavoce di scuole e di tradizioni di ricerca assai diverse, e di presentare così una molteplicità di approcci che non può non risultare stimolante.Come avverte Aldo Zanardo nella sua lucida introduzione al volume, associare l’informazione analitica con quella complessiva obbligava ad una delimitazione dell’argomento, che è stata operata su diversi piani. Anzitutto il campo è stato circo- scritto al marxismo contemporaneo, cioè al marxismo successivo alle elaborazioni di Marx e Engels, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso fino ai giorni nostri. In secondo luogo, del marxismo contemporaneo viene esaminata « la zona teorica designabile come materialismo storico », cioè « la teoria della società borghese, particolarmente dell’economia e dell’organizzazione politico-statale; la teoria della via al socialismo e del socialismo; la teoria generale della società ». Sia questa che la precedente limitazione appaiono giuste, e non solo per criteri estrinseci, ma perché effettivamente rispondenti da un lato al rilievo specifico di un patrimonio teorico spesso valutato con le categorie di giudizio deformanti della fedeltà o della degenerazione rispetto al modello originale, dall’altro all’esigenza di privilegiare il terreno su cui prevalentemente il marxismo, per l’essenza che gli è propria, di punto
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d’incontro della teoria rivoluzionaria con la prassi del movimento operaio organizzato, ha dato i suoi frutti più importanti. Meno persuasiva può apparire a prima vista la delimitazione di ordine geografico, per cui il marxismo fatto oggetto d’indagine è solo quello di alcuni paesi, cioè là dove, dice Zanardo « è più avvertito come costitutivo dei suoi sviluppi internazionalmente importanti »: in tal modo però restano esclusi il marxismo di una serie di paesi europei periferici (Bulgaria, Polonia, Ungheria, Spagna) e, ancor più, gli sviluppi del pensiero marxista nel mondo ex coloniale, con il risultato che nessun contributo è dedicato a figure come Ho Chi Min o Ernesto Che Guevara. Si può però arrivare a giustificare la scelta effettuata considerando l’eccezionaiità di determinati apporti teorici, nel duplice senso che essi non appaiono se non in minima parte il coronamento di una tradizione di pensiero marxista che affondi le sue radici nell’humus culturale dei rispettivi paesi, e che comunque, per quanto importanti, risultano secondari all’interno di un discorso complessivo che non si muove sul piano teorico ma su quello dell’agitazione e della tattica rivoluzionaria. Più discutibile, e in effetti discussa da tutti i recensori dell’opera, è invece l’impostazione « per protagonisti », che porta a concentrare l’attenzione « sui grandi interpreti del maxismo ». A questo riguardo ci sembra che l’essenziale sia già stato detto da Giuseppe Vacca (su « Rinascita », a. XXXII, 1975, n. 30) e da Franco Andreucci (su « Studi storici », a XVI, 1975, n. 1). Ha osservato il primo che « specie da quando il movimento operaio ha dato vita a concrete esperienze di costruzione di una società nuova, ha tale rilevanza la < porzione > di teoria incorporata nella vita delle istituzioni, nelle forme di organizzazione, nella creazione di un nuovo senso comune, da rendere inadeguata la scelta di concentrare < sui grandi interpreti del marxismo > »; e in modo ancora più pertinente ha fatto notare il secondo: « Ciò che si perde, in sostanza, in questa storia del marxismo contemporanea dedicata alle singole personalità, sono i grandi nuclei cronologici,
geografici, culturali, che consentono la individuazione di altre zone di coagulo del marxismo i cui tempi di esistenza corrono lungo i ritmi diversi da quelli dei protagonisti e segnano a loro volta tappe che non necessariamente si conciliano con la periodizzazione adottata nel volume. Si tratta dei soggetti storici che scaturiscono dall’incontro tra il marxismo e la società, tra il marxismo e il movimento operaio, tra il marxismo e la cultura ».È un limite questo che si riflette anche nella sezione che pure ci sembra qualitativamente la più valida, quella sul marxi- sma della Seconda Internazionale; ad esempio, la grande corrente teorica del revisionismo tedesco viene ad essere impoverita, identificata com’è nel suo solo caposcuola, Eduard Bernstein, e senza alcun riferimento ad altri esponenti che certo non furono di secondo piano: basti citare per tutti il nome di Georg Vollmar. Ma è soprattutto del marxismo della Terza Internazionale che vanno perduti l’elaborazione collettiva e il legame con il movimento comunista organizzato che, in bene e in male, costituirono la sua caratteristica precipua. Già all’interno di un’impostazione per protagonisti si dovrebbe rilevare che lacuna grave è quella rappresentata dall’assenza di un saggio specifico su Zinovjev (di contro ai quattro su Trotskij e su Bucharin e ai due su Stalin): non va dimenticato che fu proprio il presidente dell’Internazionale comunista il primo teorico del marxismo-leninismo. Ma il problema è più generale: il marxismo della Terza Internazionale è difficilmente riconducibile alla sola elaborazione di alcune grandi figure e anche sul piano più strettamente teorico le argomentazioni dogmatiche e scolastiche di un Martynov o di un Molotov vi hanno un ruolo non scindibile dalle nitide elaborazioni di un Bucharin o di un Togliatti.Vi è poi una seconda osservazione da fare: nella prospettiva prescelta delle biografie intellettuali dei grandi interpreti, vanno fatalmente smarriti filoni collaterali che pure hanno avuto un’influenza indiretta grandissima sullo sviluppo del pensiero marxista. Facciamo due esempi per tutti: Sorel non può dirsi in alcun
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momento del suo itinerario veramente un marxista, e infatti il volume non vi dedica alcun saggio specifico. Ma può una storia del marxismo europeo nei primi anni del secolo essere scritta senza alcun riferimento all’esperienza anche teorica del sindacalismo rivoluzionario? E ancora: Henri De Man si propone decisamente come un superatore del marxismo; ma è lecito escludere l’esame della sua opera da una ricostruzione del dibattito marxista degli anni ’30? Esempi di questo genere si potrebbero moltiplicare. La sola eccezione che si è ritenuto di fare a questa concezione in qualche modo restrittiva del marxismo riguarda, non sappiamo perché, Marcuse. Ma se si ammette che Marcuse abbia qualche cosa a che fare con la storia del marxismo contemporaneo, non sarebbe stato a maggior ragione opportuno far convergere l’attenzione su altri filoni di pensiero, ad esempio sulla scuola di Francoforte, i cui sviluppi sono stretta- mente intrecciati, negli ultimi anni, a quelli del dibattito marxista?Queste osservazioni critiche relative alla- impostazione del volume non possono indurre a sottovalutare l’importanza dell’iniziativa opportunamente assunta dalla Fondazione Feltrinelli, né a sminuirne il valore qualitativo. Il livello complessivo dei saggi è infatti sempre o quasi sempre notevole: sono, è vero, relativamente pochi i contributi che offrono il frutto di ricerche ancora inedite e arricchiscono il panorama degli studi esistenti (fra questi sono da ricordare, e non certo per malinteso nazionalismo culturale, proprio alcuni saggi di autori italiani, come quello di Massimo L. Salvadori su Kautsky, quello di Franco De Felice su Togliatti, quello di Leonardo Paggi su Gramsci e anche, al di là di ogni possibile dissenso interpretativo quello di Ernesto Galli della Loggia su Varga); ma è importante la funzione cui il volume adempie di rendere accessibili al lettore italiano i risultati di studi e ricerche pubblicati all’estero (pensiamo ai saggi di Gustafsson su Bernstein, di Barón su Plechanov, di Tych su Rosa Luxemburg, e anche a quelli di Lòwy su Bucharin, benché il distillato che l’autore fa della sua più ampia biografia, pub
blicata nel 1969, risulti assai meno soddisfacente dell’originale e cada in alcune forzature poco convincenti del pensiero del leader bolscevico). Molte altre monografie, poi, hanno o il merito di mettere a fuoco alcuni problemi cruciali, sui quali l’indagine sarà da riprendere con criteri nuovi (ad esempio il saggio di Lelio Basso sulla teoria dell’imperialismo in Lenin), o quello, che non deve essere sottovalutato di costituire dei preziosi strumenti di informazione e di divulgazione ad un buon livello scientifico.
Aldo Agosti
Luigi Catanelli Furio Rosi, Quaderni della Regione Umbria, Perugia, 1974, pp. 67, s.p. [«Testimonianze», n. 1]; Tito Marziali, Appunti storici sul movimento operaio nel folignate, Perugia, 1975, pp. 146, s.p. [ «Testimonianze », n. 2.]Nei programmi della Regione Umbria la pubblicazione di Quaderni dedicati alla storia del locale movimento operaio e socialista dovrebbe contribuire a superare la grave stasi nella quale da anni ristagna la ricerca e rimediare alla scarsità di studi che fa dell’Umbrio una regione dimenticata anche nel campo della produzione storiografica. Ma alla bontà delle intenzioni non hanno finora corrisposto i risultati auspicati.Particolarmente carente risulta il primo quaderno, uscito nel 1974 e dedicato alla figura di Furio Rosi. Esponente del sindacalismo rivoluzionario, Rosi fu protagonista di vivaci scontri con i riformisti all’interno della Federazione socialista di Perugia; processato più volte per reati di stampa, morì di tisi nel 1906, a soli trenta anni, dopo essere emigrato in Francia. Il ritratto delineato da Catanelli è piuttosto confuso e disorganica è la sud- divisione della materia; in fin dei conti il lavoro non è del tutto inutile in quanto è pur sempre il primo sull’argomento, ma il suo contributo scientifico non è certo dei più rilevanti.L’autore del secondo quaderno, uscito nel 1975, fu esponente di primo piano del movimento operaio umbro all’inizio del
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nostro secolo e dopo aver votato l’odg comunista al congresso di Livorno, costituì le prime sezioni del PCd’I in provincia di Perugia. Nelle sue pagine rivivono alcuni dei personaggi più significativi della sinistra umbra, attivi tra la fine del- l’800 e l’avvento del fascismo: dal repubblicano Domenico Benedetto Roncalli, animatore di vivaci campagne anticlericali, al socialista Ferdinando Innamorati, sindaco di Foligno nel primo dopoguerra. Emergono anche figure di militanti di base, inquadrate — come afferma Angelo Mazzoli nella breve presentazione — « in una luce di partecipazione collettiva ». D’altra parte il lavoro di Marziali può essere criticato per l’eccessivo rilievo dato alle vicende politico-amministrative e a quelle dell’anticlericalismo rispetto ai problemi sindacali, alle scadenze della lotta di classe che fin dai primi anni del secolo videro duramente impegnato il proletariato umbro. Così, se sbrigativa appare l’analisi della grande mobilitazione operaia ternana del 1906-7, del tutto insufficiente è quella del movimento contadino, che a partire dal 1901 aveva assunto un peso rilevante in tutta la regione.L ’augurio è che i prossimi volumi della collana rispondano in maniera più convincente alle esigenze sopra accennate. Ciò può avvenire solo se si garantisce un maggior grado di scientificità dei singoli lavori e una programmazione più organica che inserisca i vari contributi in una prospettiva storiografica di maggior respiro.
Francesco Bogliari
R. Puletti, Giuseppe Romita e la democrazia socialista (1900-1945), Parma, Guanda, 1974, pp. 357, lire 4.500.
Nel dibattito riaccesosi di recente sulla storia dell’antifascismo è stato sollecitato da più parti, e in particolare, con il consueto vigore polemico, da Giorgio Amendola, un contributo più vivo e fattivo dei socialisti, e in generale delle correnti non comuniste dell’opposizione al regime, alla propria storia. In questa prospettiva, una biografia di Giuseppe Romita, protagonista di quasi mezzo secolo di vicende so
cialiste e figura abbastanza emblematica della parabola del vecchio PSI durante il regime, poteva presentare non trascurabile interesse. Formatosi politicamente a Torino nei primi anni del secolo, esponente di primo piano della sezione del PSI, incarcerato per la sommossa dell’agosto 1917, Romita visse nel capoluogo piemontese la grande stagione rivoluzionaria del 1919-20 per assurgere poi a un ruolo preminente nel Partito socialista a livello nazionale, combattendo a fianco di Nenni la battaglia defensionista, e per conoscere negli anni della dittatura tutta la trafila del confino, della galera e infine del dignitoso silenzio cui furono costretti in Italia tanti dirigenti del vecchio socialismo prefascista. Massimalista con molte simpatie intellettuali per il riformismo, Romita non è stato certo un personaggio di grande rilievo teorico, ma un politico realizzatore, come dimostrano gli anni forse più intensi della sua biografia, quelli della ricostruzione del PSI alla vigilia del crollo del fascismo, della battaglia repubblicana, della catena di scissioni socialiste fra il 1947 e il 1949.Per la verità, questo libro di Ruggero Puletti non soddisfa che in minima parte la necessità di affrontare, sia pure dal punto di vista della ricostruzione biografica, i numerosi nodi storici che la vicenda di Romita mette in evidenza, e suscita non poche perplessità per il suo impianto prima ancora che per il suo contenuto. Fino al 1926, infatti, la vicenda del personaggio biografato annega nel mare della storia generale, politica ed economica, del paese, che diventa in tal modo ben più del semplice sfondo della ricostruzione. Non molto viene detto della formazione e delle prime esperienze politiche di Romita, e quel poco è quasi interamente desunto dalla testimonianza dei suoi familiari; manca ogni ricorso non solo alle testimonianze di protagonisti e alla memorialistica, ma alle fonti giornalistiche e archivistiche. Lo stesso si deve dire per il periodo 1922-1926, e per la battaglia dell’uomo politico tortonese all’interno del PSI. Dopo le leggi eccezionali, invece, l’impianto risulta bruscamente capovolto: la vita di Romita al confino è ricostruita
con grande minuzia attraverso l’uso di lettere sue e di suoi corrispondenti (alcune delle quali, come ad esempio una inedita di Carlo Rosselli, indubbiamente interessanti) e il fascino umano del personaggio emerge nel suo innegabile rilievo, ma lo sfondo, vale a dire il dibattito sull’autocritica e il rinnovamento del socialismo, a proposito del quale pure non mancano ormai gli studi, resta del tutto in ombra. In tal modo una valutazione più approfondita dell’atteggiamento di Romita, al quale non sembra estraneo un certo qual fatalismo che tradisce la sua formazione intellettuale, non viene nemmeno tentata: e qui, più che altrove, si avverte l’assenza di ogni prospettiva critica, l’impostazione non diciamo agiografica, ma di intera identificazione dell’autore con il personaggio biografato.Discutibile appare infine la decisione del- l’A. di arrestare il suo studio al 1945, lasciandone fuori tutte le vicende successive, vicende, come si è accennato, tutt’al- tro che prive di rilievo. L ’autore ha avuto ed ha a disposizione i taccuini dell’ex-mi- nistro dell’Interno, che costituiscono una fonte di notevole interesse, e si appresta a curarne la pubblicazione: sarebbe stato più opportuno che avesse utilizzato i risultati di questa sua ricerca per darci fin d’ora un profilo completo del personaggio di cui si è occupato.
Aldo Agosti
Fascismo
Pietro Grifone, Capitalismo di Stato e imperialismo fascista, con i contributi di Camilla Ravera e Giorgio Amendola; Milano, Mazzotta, 1975, pp. 155, lire 2.500.Scritto nell’autunno del 1936 e sequestrato nel maggio dell’anno successivo a Camilla Ravera nel corso di una perquisizione, il manoscritto che Grifone aveva redatto per la « scuola quadri » organizzata dal partito comunista tra i confinati di Ventotene è stato casualmente ritrovato dalla stessa Ravera, durante la fase di elaborazione del suo Diario di trentanni, nel fascicolo a lei intestato del Casellario politico centrale. L ’importanza dell’avveni
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mento va ben oltre la pur legittima curiosità filologica e, se vogliamo, « archeologica » suscitata tra gli addetti ai lavori; questo secondo « quaderno del confino » (primo in ordine di composizione) ripropone infatti questioni fondamentali e può essere letto tanto come opera schiettamente « tecnica » di analisi economica, quanto come esempio del metodo di studio e di ricerca portato avanti dai comunisti al confino.Sotto il primo aspetto il lavoro mostra una notevole organicità, sia nell’organizzazione della materia che nel vaglio critico delle fonti (ovviamente solo di provenienza ufficiale, come le relazioni della Banca d’Italia, gli annuari statistici, « Il Sole » e le pagine economiche dei quotidiani). Gli otto capitoli nei quali il volume è suddiviso esaminano monograficamente gli aspetti fondamentali dell’economia fascista. Parlando dell’agricoltura, Grifone sottolinea la decisiva funzione degli ammassi e dei consorzi nel processo di concentrazione monopolistica coordinato dallo stato a sostegno dei grandi agrari. Questi sono messi al sicuro dalla caduta della rendita, mediante la fissazione di un prezzo d’acquisto unico per i cereali, che se garantisce loro un notevole margine, « è per contro assai poco remunerativo per i contadini poveri e medi, specie del Mezzo- igorno e delle Isole, che producono ad un costo più elevato dei precedenti » (pp. 29- 30). D’altra parte lo sviluppo eccessivo della cerealicoltura a danno delle colture specializzate e il peggioramento delle condizioni di vita delle masse contadine — ammesso dagli stessi sindacati fascisti — smascherano come illusorie le promesse del regime circa l’ammodernamento tecnico-produttivo dell’agricoltura e il miglioramento dei redditi dei lavoratori della terra.Una linea di sviluppo monopolistica è rilevata anche nel settore del commercio estero, in cui l’intervento diretto dello stato si manifesta con una disciplina rigorosa delle esportazioni e delle importazioni, e in quello creditizio, che con la riforma bancaria del 1936 acquista un carattere unitario e fortemente accentrato. La costituzione della Banca d’Italia assi
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cura al capitale finanziario il controllo degli organi creditizi statali, ponendo allo stesso tempo fine alla disorganizzazione e alla frammentarietà esistenti precedente- mente nel settore; per cui, se a prima vista la banca potrebbe sembrare subordinata allo stato, « osservando le cose con minore superficialità, appare evidente che il controllo che lo stato esercita sulla Banca è qualche cosa che corrisponde perfettamente agli interessi di quest’ultima » (pp. 98-99).Per quanto riguarda la politica monetaria, Grifone nota come il fascismo non sia più in grado di mantenere la lira sull’alto livello (« quota 90 ») raggiunto faticosamente nel 1927: il progressivo assottigliarsi delle riserve auree iniziato nel 1929 conduce alla pesante svalutazione (40%) del 1936. Al momento in cui il libro viene scritto, « la posizione della moneta italiana è quella di un equilibrio instabile: un nonnulla potrebbe farla precipitare » (p. 127).Un’attenzione particolare è naturalmente dedicata alla struttura industriale, in cui il processo di concentrazione monopolistica assume un’evidenza forse ancora maggiore che negli altri settori. Del clima bellico instauratosi a partire dal 1935 beneficiano principalmente i grandi gruppi meccanici e siderurgici, oltre ai monopoli elettrici, chimici e minerari (in primo luogo il gigante Montecatini). Gravemente depressa risulta invece l’industria leggera, sacrificata dalle scelte della politica economica bellicistica. Ne deriva — nota acutamente Grifone, capace di cogliere il fenomeno fin dal suo primo manifestarsi — uno stato di tensione e contrasto tra i vari gruppi industriali, per cui si può dire che la guerra, « anziché aumentare la coesione della borghesia industriale italiana ha accresciuto il disorientamento e, in certi casi, l’aperto dissenso già da tempo esistente in seno ad essa » (p. 42).Questa sommaria esposizione dei temi affrontati nel volume ci permette di constatare come Grifone — con l’ausilio prezioso dei compagni di confino insieme ai quali discuteva i vari problemi — avesse già individuato i nodi decisivi dell’economia fascista nel momento in cui essa era
appena uscita dal suo primo impegno militare, quello etiopico. Già colta in tutte le sue molteplici implicazioni è la natura del rapporto stato-grande capitale, che si va configurando nel senso di una sempre più netta integrazione delle due entità: « Lo stato, nell’estendere il suo < controllo > e le sue attribuzioni economiche, lungi dal sovrapporsi come ente a se stante al di sopra delle organizzazioni capitalistiche viene per contro continuamente, ed in maniera sempre più organica e completa, integrandosi e fondendosi con il capitale finanzario. Il controllo che lo stato instaura non è infatti quasi mai qualche cosa di imposto, bensì è un controllo il più delle volte esplicitamente richiesto e sollecitato dalle organizzazioni monopolistiche » (p. 26).Momento fondamentale di questo processo è appunto la guerra, che mentre permette la definitiva compenetrazione del capitale finanziario con lo stato, apre ampi squarci nel complesso e contraddittorio tessuto del « consenso » verso il regime. La piccola e media industria, gran parte della borghesia commerciale e agraria, oltre naturalmente alla grande maggioranza delle classi lavoratrici non sono più disposte ad una fiducia incondizionata nel fascismo. Così il conflitto africano, che ancor oggi alcuni storici (in primo luogo Renzo De Felice) si ostinano a definire il « capolavoro politico » di Mussolini, si rivela in realtà il primo atto di un processo di disgregazione reso particolarmente drammatico dalla « profonda incrinatura nello stesso blocco agrario-capitalistico » (p. 27).Grifone, osservatore attento e smaliziato (il lavoro svolto dal 1931 al 1933 all’interno deirUfficio Studi dell’Associazione tra le Società per Azioni, centro nevralgico della struttura capitalistica italiana, gli aveva permesso di toccare con mano il funzionamento dei « meccanismi segreti » dell’economia fascista) coglie questi fenomeni nel loro momento genetico ed è in grado — per dirla con Labriola — di formulare previsioni « morfologiche », cioè di evidenziare le linee di tendenza che caratterizzeranno la politica economica del regime negli anni successivi.
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In base a queste considerazioni, Capitalismo di stato e imperialismo fascista può essere senza dubbio considerato come la traccia preparatoria per II capitale finanziario in Italia, del 1940: in esso Grifone metterà ulteriormente a fuoco i risultati della prima indagine e li inserirà in una prospettiva di più lungo periodo, prendendo come noto le mosse dalle « tare d’origine » del capitalismo italiano. Nei quattro anni che separano i due « quaderni » eventi decisivi investono il paese, inserendolo sempre più drammaticamente nel contesto degli squilibri internazionali: la guerra di Spagna, il consolidarsi dell’alleanza con la Germania e lo stabilirsi di quella col Giappone, lo scoppio della seconda guerra mondiale. La struttura economica italiana non riceve però da questi avvenimenti spinte in senso contrario alla direzione di sviluppo già intrapresa. Si consolida invece ulteriormente — come Grifone aveva previsto — l’intervento della mano pubblica sul mondo produttivo e viene portato al massimo grado di intensità lo sforzo bellicistico verso il quale il governo aveva cominciato ad orientarsi già dal 1935-36, come risposta alle difficoltà determinate dalla crisi economica mondiale.Oltre che come lavoro di analisi — dicevamo all’inizio — lo scritto di Grifone può essere letto come esempio della metodologia e dei contenuti della ricerca comunista negli anni ’30, alla cui comprensione già II capitale finanziario in Italia aveva dato un importante contributo. Su questo punto insiste particolarmente Giorgio Amendola nell’introduzione, quando afferma che durante il ventennio la sinistra non comunista nel suo insieme (pur con le necessarie distinzioni che in questa sede non è possibile fare) era rimasta ferma « alla critica liberale dell’intervento statale» (p. 11). Azionisti, socialisti e liberali non comprendevano che l’estendersi di tale intervento « assumeva un nuovo significato, ed era ormai diventato la condizione per la valorizzazione del capitale nel suo insieme, e per la continuazione, dunque, nelle nuove condizioni, del processo di accumulazione » (ibid.). Un processo irreversibile dunque, che nei decen
ni successivi (compreso il secondo dopoguerra) assumerà forme molteplici e contraddittorie, ma non ritornerà a condizioni premonopolistiche (del resto in Italia l’intervento statale e la concentrazione produttiva avevano avuto una funzione decisiva fin dalla nascita dello stato unitario). Gli economisti della sinistra democratica rimasero invece legati a schemi che sostanzialmente — in maniera più o meno diretta — avallavano l’interpretazione crociana del fascismo come parentesi e dimostravano la mancata comprensione delle linee di tendenza lungo le quali si stava orientando il capitalismo mondiale dopo il 1929. È significativo che del loro bagaglio metodologico non facessero parte i concetti di « capitale finanziario » e « capitalismo monopolistico di Stato », chiavi indispensabili per comprendere l’effettiva natura dei fenomeni in atto. In altre parole, nell’ampio ventaglio di posizioni che andava dai liberali ai socialisti a Giustizia e Libertà, non solo erano pressoché sconosciute le opere di Lenin, ma nemmeno erano utilizzati gli strumenti analitici presenti in quelle di Hobson e Hilferding.In sostanza la pubblicazione dello scritto di Grifone viene a confermare quanto Sereni scriveva nel 1972: « I comunisti sono stati fin dall’allora [cioè dal ventennio fascista] senza dubbio i primi (e per lungo tempo, i soli) a sottolineare il carattere ed il contenuto di classe economicamente e storicamente condizionato del fascismo, in quanto nuova forma della reazione e dell’oppressione capitalistica: quando ancora tutte le altre forze, e gli altri partiti antifascisti, del fascismo contestavano, in varie forme, la sostanza classista, e ne trattavano, semmai, come di una sorta di antistorica escrescenza sul corpo della nazione » (« Critica marxista », 1972, n. 5,p. 18).Ciò non comporta una acritica esaltazione delle interpretazioni comuniste, ma la realistica constatazione che esse avevano ef- fettivametne individuato i problemi strutturali dell’economia nei loro nodi decisivi, pur coi limiti determinati dalla applicazione spesso meccanica delle tesi dell’Internazionale alla realtà italiana. Del resto
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è lo stesso Sereni a sottolineare alcuni punti carenti dell’analisi di Togliatti del 1935 (nelle Lezioni sul fascismo), come ad esempio l’assenza di un esplicito riferimento al capitalismo monopolistico di stato.AI di là comunque di queste insufficienze interpretative (che non vanno certo minimizzate, ma ricondotte al contesto in cui nacquero e che ne determinò i caratteri specifici), non si può che concordare con le recenti affermazioni di Lucio Villari, secondo cui per gli studiosi marxisti, « contrariamente a quanto accadeva agli altri antifascisti, comprendere il fascismo significava anzitutto addentrarsi nello studio sull’espansione del capitalismo italiano e sugli squilibri che ciò provocava tra le deboli strutture sociali, politiche e culturali del nostro paese » (in II capitalismo italiano del Novecento, Bari, 1975, p. 153).Per concludere vorremmo notare che fino ad oggi Capitalismo di stato e imperialismo fascista non ci sembra aver suscitato tra gli storici italiani un interesse .pari a quello provocato dalla riedizione del Capitale finanziario in Italia, avvenuta nel 1971. Essa diede occasione a tutta una serie di interventi (si veda la rassegna di S. Natale, Studi recenti sulla politica economica fascista, in « Rivista di storia contemporanea » 1973, n. 4, pp. 534-555), che prendendo le conclusioni di Grifone come punto di riferimento, le riesaminarono in maniera critica e le superarono dialetticamente, tanto nell’accettazione di determinate tesi che nel rifiuto di altre (ad esempio la negazione del fascismo come periodo di « stagnazione », recentemente confermata anche dal saggio di Castronovo nel IV volume della Storia d’Italia, Einaudi), dando così un decisivo contributo al progresso degli studi sull’economia del ventennio.Un fenomeno analogo non si è ancora verificato per questo secondo « quaderno del confino », che pure è uscito quasi contemporaneamente alla riedizione di un’altra importante opera scritta prima della caduta della dittatura da E. Sereni {La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino, Einaudi 1975) e nel
mezzo dell’infuocata polemica prò o contro De Felice. Qualche riferimento in più al lavoro di Grifone non sarebbe stato del tutto inutile nel ricordare che il fascismo, lungi dall’aver avuto origini « democratico-giacobine », fu sin dall’inizio regime reazionario e col passare degli anni andò accentuando il suo carattere di classe, tanto nelle scelte politiche quanto in quelle economiche.
Francesco Bogliari
Bino Bellomo, Lettere censurate. L’ottusità del potere, Milano, Longanesi, 1975, pp. 199, lire 1.000.
Segnaliamo questo libretto perché offre uno spiraglio sulla corrispondenza di guerra del 1940-42. Non più di uno spiraglio, purtroppo, perché il volume (inserito nella Serie nera dei Pocket di guerra di Longanesi, collana di vasta tiratura ma di scarsa scientificità) non presenta garanzie sufficienti di attendibilità. L’autore, ufficiale addetto alla censura militare di una zona imprecisata nel 1940-42, ha infatti estratto dalle 150-200 lettere quotidianamente viste per circa due anni (oltre un centinaio di migliaia in totale, sembra di capire) alcune centinaia di brani di diversa lunghezza raggruppati approssimativamente per argomento, privi di indicazioni soddisfacenti su date, mittenti e destinatari. Ne risulta un campione del tutto insufficiente per qualsiasi conclusione, tanto più che è evidente l’inclinazione dell’autore per i temi di maggior richiamo (si veda il capitolo su Le donne e i militari, di gusto provinciale e fumettistico). La lettura del volumetto è ugualmente di un certo interesse perché, si potrebbe dire quasi malgrado l’autore, dalle lettere riportate si ha una conferma e un’illustrazione di molti dati già noti, come la carenza di spirito patriottico nelle truppe e nel paese, le frequenti critiche a comandi e governo, la superficialità della propaganda fascista e la crisi del morale dei soldati. Nulla di più, purtroppo; eppure il materiale raccolto avrebbe meritato uno sfruttamento più organico e utilizzabile.
g- r.
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Giuseppe Aventi, Diario di Ventotene, prefazione di Sergio Solmi, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1975, pp. 86, lire 2.000.Questo opuscolo di Giuseppe Paganelli, pubblicato con il nome materno di Aventi, sotto cui aveva potuto continuare a scrivere sfidando la censura del regime, aggiunge poche notizie alla pur ricca memorialistica sul confino fascista, ma tali notizie hanno il pregio di cogliere stati d’animo, discussioni e reazioni dei confinati nei convulsi giorni dell’agosto 1939 che precedettero l’invasione tedesca alla Polonia.Il diario ha lo stile, il ritmo e l’arguzia del documente letterario, è il prodotto della fine cultura di chi, come l’autore è passato attraverso l’esperienza dell’antifascismo, senza militare nei partiti democratici, eppure « compromettendosi » con una coraggiosa e solitaria battaglia individuale, condotta attraverso la collaborazione a « Pegaso » a « Leonardo » a « Soiaria », con atteggiamento di rifiuto essenzialmente morale, che non esclude il sospetto di un volontario aristocratico isolamento. Dalla brillante penna dello scrittore prendono vita, nell’accecante calura estiva, i personaggi della colonia: profittatori del regime, i militi e soprattutto i vari gruppi politici. L ’attenzione, spesso assai critica dell’A. è volta soprattutto ai comunisti: non tanto per affinità politica, quanto per interesse morale: lo attirano il loro rigore, la chiusura dei loro gruppi, l’impegno nella discussione, affinata dai lunghi anni di clandestinità. Ne emerge con particolare vivezza la figura di Umberto Terracini, umanista colto, amante della musica, ancora isolato per la polemica sulla svolta dall’ufficialità del partito: « I comunisti qui relegati formano due gruppi ben distinti e, credo, bene ostili l’uno all’altro. Al centro dell’uno sta Umberto Terracini, al centro dell’altro Mauro Scoccimarro: nell’angusto spazio del confino, questi due gruppi si sfiorano, non comunicano e nemmeno si sfiorano: offrono uno spettacolo monotono e strano » (p. 18).L’elemento costante di queste brevi pagine, al di là degli episodi di colore, è comunque l’angoscia che pervade ugual
mente tutti i confinati di fronte all’incal- zare della guerra imminente: l’inquietudine dei democratici come Aventi e Co- lorni, la contraddizione angosciosa e problematica dei comunisti di fronte all’accordo russo-tedesco, il falso ottimismo dei fascisti, fino all’annuncio finale dell’attacco alla Polonia: « Tutto previsto. Ma tutto tanto rapido da stordire » (p. 81).
n. t.
Seconda guerra mondialeEnzo Collotti, Teodoro Sala, Le potenze dell’Asse e la Jugoslavia. Saggi e documenti 1941-1943, Milano, Feltrinelli, 1975, lire 3.200.Ha notato recentemente Leo Valiani che « nella storia degli Sloveni e dei Croati, vicini all’Italia da tempi remoti [...] si ha relativamente poco in italiano e quel poco è costituito, in buona parte, da traduzioni di opere straniere » (pref. a B. Salvi, Il movimento nazionale e politico degli Sloveni e dei Croati, Trieste, 1971, p. 7). Certo non si può dimenticare la presenza, nella nostra cultura, di una genealogia illustre — Mazzini, Tommaseo, Salvemini, Anzillotti — che ha sentito in termini assai precisi il significato e l’opportunità della conoscenza del vicino popolo balcanico e dell’analisi dei nostri rapporti con esso; ma resta la constatazione che questi rapporti non hanno rappresentato sinora un interesse notevole per gli studi italiani, proporzionale al peso che hanno avuto nella nostra storia. La pubblicistica relativamente abbondante stampata in Italia durante questo secolo, contingente e prevalentemente nazionalista, è stata invece spesso strumento di disinformazione e di diseducazione riguardo a questo nostro fondamentale rapporto internazionale. La storiografia jugoslava è molto più attenta e impegnata su questi temi.I saggi che Enzo Collotti e Teodoro Sala hanno dedicato ad alcuni aspetti dell’occupazione italiana della Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, in particolare ai rapporti che intercorsero tra le potenze dell’Asse, hanno così un signifi
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cato che oltrepassa l’ambito della ricerca accademica e professionale. I saggi sono stati presentati alla Conferenza storica internazionale di Belgrado che, nell’ottobre 1973, affrontò il tema « La Jugoslavia e il Terzo Reich », ma non sono occasionali e si collegano a precedenti e più ampi studi degli Autori, e a un consapevole interesse dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione.Collotti analizza la penetrazione economica nazista nel regno jugoslavo ed il ruolo del regime hitleriano nella disgregazione di quello stato. Oltre alla letteratura sull’argomento e le collezioni di fonti diplomatiche, utilizza in particolare i giornali « Sùdost Echo » e « Siidost Wirtschaft ». Dimostrata l’inconsistenza delle tesi <giu- stificazioniste >, l’A. coglie la chiara e costante presenza di mire aggressive germaniche verso la Jugoslavia perlomeno dal 1938. Il Reich intendeva mantenere il settore balcanico estraneo al conflitto, ma attuava pur sempre una « penetrazione senza guerra », con l ’obiettivo di isolare la Jugoslavia dal mercato mondiale e di predisporla a subire gli interessi tedeschi. Dopo il 1938 questo processo si intensifica, sia per la politica di Stojadinovich che per la rivitalizzazione di tematiche asburgiche di espansionismo balcanico. Forse questo punto può essere sottolineato più di quanto non faccia Collotti (p. 15), col rilievo che non si trattò solo di sfruttamento di queste tematiche da parte del gruppo dirigente nazista, ma anche del- l’inserimento in esso di quella forza storicamente individualizzabile, almeno in certa misura, che fu il nazismo austriaco. L ’espansione puntava alla ristrutturazione dell’Europa sud orientale in funzione della sicurezza economica del Reich; la neutralità del settore, nota Collotti, era intesa a Berlino come collaborazione e, dopo le vittorie militari del 1940, come progressivo inserimento nel « Nuovo Ordine ». Quando la guerra in Grecia e le ambizioni su Salonicco gettarono il governo di Belgrado nella braccia tedesche, entrò in crisi la linea sino allora portata avanti. Collotti fa un’analisi assai matura di questo momento politico.Solo entro questi limiti, si precisa, può
dirsi che la disgregazione della Jugoslavia non fu voluta dal Reich. Ora però essa divenne necessaria per l’egemonia tedesca nel Donauraum, dove lo stato croato, satellite modello, doveva costituire un sostanziale prolungamento del Reich verso sud. Si realizza qui un caso particolarmente probante del rapporto tra la potenza industriale tedesca e i territori dell’est e del sud-est, destinati a fornire materie prime, prodotti agricoli e manodopera ed a sottostare a drastici criteri di limitazione del possibile incremento del loro livello di industrializzazione; il che era giustificato con l’argomento della difesa che la Germania assicurava all’Europa e della stabilità sociale che garantiva la ideologia del « sano ceppo contadino », della società anticomunista fondata sulla piccola proprietà tutelata. Collotti offre una felice scelta di notazioni sull’immagine nazista dei croati (p. 45) e ricordo solo che la teoria della piccola proprietà contadina in funzione anticomunista era già stata largamente applicata dai governi conservatori dell’Europa centro-orientale. L ’andamento della guerra trasformò questo programma in attività di sfruttamento totale.È in questo contesto che avviene, in Jugoslavia, 1’incontro tra l’imperialismo nazista e le analoghe spinte italiane. I tedeschi seguivano con attenzione questa potenziale concorrenza, e a loro si deve « il quadro a tutt’oggi più completo dei tentativi di penetrazione italiana » in questo settore, cioè una circostanziata relazione stesa dall’ambasciatore von Hassel nel gennaio 1941 per incarico del Mitteleuro- paeisches Wirtschaftstag, che Collotti traduce e pubblica in appendice (ma a p. 106 è stata ripetuta la stampa di ben cinque righe).È un documento molto importante: von Hassel non solo è assai competente ma è pure sostenitore convinto della penetrazione tedesca nei Balcani, esponente di quei circoli conservatori che, pur ostili a Hitler, di fatto rappresentavano una variante del tradizionale imperialismo germanico. Emergono da questo rapporto due dati fondamentali e una precisa linea politica: i dati sono la coscienza tedesca del
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la propria superiorità nei confronti dell’alleato e l’individuazione del carattere particolare della spinta italiana nei Balcani, cioè che la sua debolezza strutturale la sollecitava ad avvalersi largamente dell’espansione militare e a garantirsi politicamente. Da qui un’abile proposta di linea politica duttile che, neocolonialista ante litteram, invitava ad accettare le richieste italiane di zone d’influenza, a concedere politicamente per erodere economicamente. Si può anche pensare che la duttilità caldeggiata da von Hassel rifletta l’ancora fluida situazione balcanica del momento: c’è un fugace riferimento ad una possibile convergenza locale d’interessi italiani e sovietici (p. 112).È Sala a portarci nel vivo di questi rapporti italo-tedeschi. Con lo spoglio della stampa economica fascista del tempo (« Il Sole ») e di esauriente documentazione archivistica, l’A. ricostruisce il dibattito sulla Croazia che si apre in Italia nel 1941, e ne individua significati e modulazioni fondamentali, quale l’attenzione preminente accordata all’intreccio esportazione di servizi - credito - lavori pubblici e l’evidentissimo disinteresse per l’industrializzazione. Sarebbe interessante sapere qualcosa del modello che sottostava a questi orientamenti, cui forse non era estranea la recente esperienza di gestione in Africa Orientale. Il modo di presenza nei Balcani era però condizionato non solo dalle strutture dell’imperialismo italiano e dallo stretto rapporto, in esso, tra economia e regime politico {aspetti che la recente ricerca storica ha messo in luce e che Sala evidenzia bene) ma anche, si nota, dal tipo di « partenza », per così dire, della presenza italiana, prima fallimentare in Grecia e poi subalterna nelle operazioni contro la Jugoslavia. Comunque, questo è punto fondamentale, lo stato fascista che opera in Croazia è un regime in certa misura evoluto, non più solo nazionalista e repressivo, ma anche corporativo e autarchico, « banchiere » e « imprenditore » (p. 52), un sistema in cui finanza e industria sono strettamente intrecciate al potere politico. I finanzieri (come Volpi di Misurata) e TIRI hanno un ruolo importante, ma la spinta italiana
(della cui articolazione troviamo qui larga documentazione ed elencazione) documenta implacabilmente il costante intreccio tra presenza politico-militare e pene- trazione economica che si manifesta, per esempio, nel continuo aumento delle competenze attribuite ai comandi militari, nei tentativi di ulteriore estensione della zona di occupazione, nella tendenza a contrapporre un blocco italiano-cetnico a quello tedesco-ustacha. Inevitabilmente si arriva alla « pura rapina » dove si rivela maestro, come apprendiamo da gustosi particolari, il prefetto di Fiume, Temistocle Testa.I progetti di espansione avevano ovviamente necessità di alleanze. All’inizio i tedeschi tennero atteggiamento distaccato nel contrasto tra italiani e croati, e talora furono anche acquiescenti verso l’esigenza italiana di « prerequisiti » allo sviluppo capitalistico, riservandosi così libertà d’azione; poi l’andamento della guerra li rese intransigenti e portò i croati a cercare sempre più il loro appoggio che, almeno militarmente, era più efficiente. (Sono una testimonianza di tragedia i documenti sulla situazione croata all’inizio del 1943, pubblicati a pp. 180 sgg.) Del ruolo obiettivo che l’Italia fascista svolgeva in questa situazione ci informa un altro documento notevole, qui pubblicato; una relazione stesa dalla Siidosteuropa Gesell- schaft, nel marzo 1943, sulla influenza italiana nell’industria balcanica; ritroviamo le valutazioni di base già espresse da von Hassel e, in più, l’attestazione che lo scontro concorrenziale era ormai nettamente risolto a vantaggio della Germania. Veramente è sfuggito agli autori che il documento di von Hassel e questo della SOEG hanno ampi brani in comune (cfr. le pagg. 102-109 con le pagg. 134-141), per cui il secondo è da considerarsi una riutilizzazione e, in parte, prosecuzione del primo, ma ciò poco toglie all’interesse di esso e non muta la valutazione che ne viene data.Sala chiude con un interessante quesito: in che misura il venir meno del progetto italiano in Croazia contribuì alla caduta del fascismo e a progetti di restaurazione del potere conservatore in Italia? Ag
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giungerei, rifacendomi alle considerazioni da cui sono partito, in che misura questa esperienza ha realmente influito nell’evoluzione dei nostri rapporti col vicino popolo balcanico?
Elio Apih
Enzo Collotti, Il « Litorale Adriatico » nel Nuovo Ordine europeo, Milano, Vangelista, 1974, pp. 148, lire 2.500.Il volume raccoglie una serie di scritti che l’autore, nel corso di vari anni, ha dedicato ad aspetti e problemi dell’occupazione tedesca dell’Italia nord-orientale tra il 1943 e il 1945, argomento al quale, come ad altri della storia giuliana, è sensibile e attento, anche per esperienza diretta dell’ambiente. Vari di questi saggi hanno già visto la luce in questa rivista (nei numeri 86, 91, 103) e non costituiscono pertanto una novità editoriale. Lo è invece il primo e più ampio di essi — nato come conferenza a Trieste — sintesi in cui Collotti raccoglie i nodi storici essenziali della questione e li inquadra nei solidi parametri della sua conoscenza del mondo nazista. Il che è necessario per superare le ottiche localistiche. Data questa premessa tuttavia l’A. ritiene che questi avvenimenti non rappresentino più di un episodio della generale vicenda europea di quelli anni, e l’affermazione non mi trova del tutto d’accordo perché la breve vita del « Litorale Adriatico », credo, segni anche la fine dell’antica spinta germanica alle rive adriatiche, fatto storico di ampia portata.Peraltro la sintesi che Collotti ci offre della politica nazista nelle provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana è ricca di puntualizzazioni che ritengo definitive e di suggestive aperture problematiche. Il discorso è sobrio ed essenziale. Viene ribadito che l’assunzione dell’amministrazione civile in questi territori non era certo una soluzione provvisoria, dettata da necessità militari, ma era destinata ad un avvenire di più lontana scadenza, e intanto operava immediatamente come azione di distacco dallo stato italiano (e anche dalla Jugoslavia);
lungo questa linea si arrivò sino al progetto di creare una particolare moneta per questa « Zona d’operazioni ». Altro punto fermo è il chiarimento del reale significato della cosiddetta componente austriaca di questa politica, che non può essere considerata altro che strumento di egemonia germanica (ebbe però una sua particolare dinamica che si intrawede anche qui a pp. 22-25); l’analisi della strumentalizzazione di motivi vetero-asburgici permette a Collotti di cogliere, come sinora non era stato fatto, le caratteristiche assai interessanti della locale propaganda nazista, che si mosse proponendo un ampio arco di approcci, rivalutando il passato in gretti termini localistici e presentando prospettive economiche ai potenziali collaborazionisti. Fu costruita insomma « una specie di frontiera di carattere anche psicologico nei confronti del resto d’Italia e del neofascismo repubblicano » (p. 26). Particolare interesse acquista qui l’intensa campagna denigratoria che fu svolta nei riguardi del fascismo e dell’amministrazione italiana, campagna che favorì anche singolari prese di posizione ideologiche, che sarebbe bene fossero oggetto di ulteriore studio (« Il partito fascista era semplicemente lo strumento della formazione del potere [...] mentre il nazionalsocialismo vede al centro dei suoi pensieri il popolo pervaso dalla sua concezione totale del mondo », (p. 29).Sempre rigorosa è la ricostruzione di Collotti delle linee politiche fondamentali seguite qui dai nazisti. Si evidenzia il motivo profondo della valutazione privilegiata fatta agli sloveni nel noto principio della vitalizzazione del mondo rurale in funzione antibolscevica, che avrebbe dovuto realizzarsi in tutta l’Europa sudorientale. Si propone all’attenzione degli studiosi il possibile effetto sulle vicende del movimento operaio locale delle iniziative attuate di demagogia sociale. Ma è particolarmente interessante, e nuova, l’analisi del tentativo di realizzare l’autodifesa della popolazione contro il bolscevismo, strategia di guerra totale che, di fatto, avrebbe portato alla disgregazione completa del tessuto nazionale e sociale
e, così, al distacco della popolazione dal movimento partigiano.È ancora da segnalare l’ultimo dei saggi di questa raccolta, un’analisi dei compiti repressivi degli Einsatzkommandos, ha contribuito al chiarimento dei problemi giuridici connessi all’istruttoria, presso la Corte d’Assise di Trieste, per i noti eccidi effettuati nella Risiera. Sono solide pagine dove si coglie la funzione civile della ricerca storica, e ricordano certi magistrali scritti di Salvemini.
Elio Apih
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Piero Bevilacqua, L’ideologia dell’umano nella memorialistica della seconda guerra, in «Angelus Novus», 1974, pp. 105-137.Muovendo dal rilievo che la guerra « si comporta come estremo catalizzatore materiale che spinge il rapporto degli intellettuali con il proprio tempo sociale e storico alle espressioni più radicali e chiarificatrici » (p. 105), il saggio di Bevilacqua sottolinea come — a differenza dalla letteratura sulla Grande Guerra che tendeva al recupero nel dopoguerra dei termini ideologici e dell’ottica precedenti la esperienza bellica — la letteratura relativa alla seconda guerra sia invece fondata « sull’esperienza della guerra in quanto tale, mentre l’ottica che la guida e l’orienta è nel nuovo rapporto intellettuale- società emergente dopo il conflitto » (p. 112): non in una posizione di riflesso, dunque, ma di giudizio e di critica sulla esperienza trascorsa.In conseguenza di ciò, la guerra costituirebbe — oltre al resto — anche uno stimolo alla « fondazione di nuove figure intellettuali le quali trasformano la loro esperienza militare o di prigionia nel prezioso materiale su cui fondare un proprio ruolo intellettuale: quello dello scrittore, del memorialista, del testimone » (p. 113). In questo senso, sarebbe proprio l’esigenza, sentita dagli intellettuali, di ricucire le lacerazioni prodotte dagli eventi bellici e una « disponibilità » sociale politica e culturale da parte degli stessi intellettuali a un’opera di ricostruzione e rigenerazione della società a produrre e a intensifi
care l’interesse all’appropriazione « in termini conoscitivo-morali dei nuovi dati della situazione reale e dei materiali storici di quanto è accaduto » (p. 115) e a stimolare, anche nella letteratura, la ricerca del documento per far luce in se stessi, per informare, per ricostruire e per fondare nuovi valori sociali e culturali. L ’interesse per il documento e per la memorialistica come elemento costitutivo e rispettivamente come « genere » della nuova cultura diventa una specola privilegiata per valutare — come fa il Bevilacqua — alcuni aspetti essenziali del rapporto intellettuale-società nel secondo dopoguerra e per considerare la portata e i limiti dell’« uso ideologico » della guerra nella definizione di questo rapporto. (« Certo è [...] che la memorialistica di guerra nellTtalia post-resistenziale è un frutto < costruito > consapevolmente dalla politica culturale degli intellettuali antifascisti su un terreno di naturale spontaneità [...]. E in ogni caso, spontaneità della testimonianza e disegno ideologico consapevole si sono incontrati con naturalezza in quel luogo comune che era insieme un bisogno conoscitivo di tipo immediato, documentario e testimoniale socialmente diffuso, e un progetto di rifondazione letteraria, di rinnovamento sociologico del rapporto intellettuale - società per un intervento culturale più esplicito e diretto sul reale » (p. 123).In quest’ottica, il saggio del Bevilacqua— preciso e documentato nel riferimento ai testi e alla produzione critica relativa— analizza coerentemente alcuni esempi significativi del genere documentario e me- morialistico, talvolta spingendo al limite (forse per evidenza di tesi) la sottolineatura dell’aspetto intenzionale e programmatico di una politica culturale sottesa alla scelta di un genere e di una prospettiva di discorso (della memorialistica), che forse contengono implicitamente una serie di elementi operanti in questa direzione. Si legga quanto scrive l’A., ad esempio, su Revelli, Rigoni Stern e Moscioni Negri: « [...] solo in queste nuove forme [la letteratura] può assolvere la funzione sociale di cemento ideologico di una strategia della politica culturale, di
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forma di recupero della < funzione > degli intellettuali, e al tempo stesso di riconferma dell’assetto < umano > del tempo presente » (p. 125).La lettura dei testi comporta, successivamente, una serie di puntualizzazioni e di distinzioni. Se l’ideologia e la funzione umanitaria e umanistica (populistica e volontaristica) appaiono alì’A. come degli elementi-base del genere memorialistico, vengono distinti i gradi in cui tale ideologia e tale funzione si esplicitano nei diversi testi: nel linguaggio tutto realefenomenico, « oggettivo » di Revelli; nella ricerca di valori archetipici e « naturali », eterni, pre-storici di Rigoni Stern (che nella cultura contadina vede un germe di salidarietà al di là delle divisioni politiche e storiche); nei richiami eticoreligiosi a un « umanitarismo » eticamente eletto, talvolta incarnato in miti let- terario-umanistici e come tali ideologicamente giustificati di Primo Levi.Il saggio di Bevilacqua si presenta, dunque, come una polemica e stringente lettura in chiave di critica politica dell’ideologia sottesa alla letteratura memorialistica relativa alla seconda guerra mondiale (e non mancano riferimenti a molti altri esempi, anche al di fuori di quelli citati, di questa produzione): una critica serrata al ruolo rivestito dagli intellettuali che — attraverso questa produzione — si erano fatti portatori di quell’ideologia « dell’umano », che era al fondo della loro opera con tutte le sue contraddizioni e ambiguità, di quel mito « umanitario » — cioè — di cui oggi è possibile, secondo l’A., definire chiaramente anche la natura «tradizionale». (« [ ...] il valore testimoniale dello scrittore di guerra [...] fa sì che l’essere intellettuale si presenti, illusoriamente, come uno dei momenti più alti e più efficaci dell’essere sociale »; p. 137). È una prospettiva legittima di lettura, soprattutto se condotta coerentemente come è il caso di questo saggio, che pur necessita — come ci si può attendere dalla continuazione di questo studio — di ulteriori puntualizzazioni delle diverse motivazioni individuali e collettive, culturali, sociali e storicosociologiche delle singole testimonianze
e soprattutto di ulteriori distinzioni tra i diversi gradi e modi di esistere delle scritture tra il documentario e l’elaborazione letteraria, oltre che — successivamente — di un puntuale confronto tra queste scritture (qui assunte a osservato- rio privilegiato: un angolo di visuale) e l’elaborazione materiale del documento in scritture letterarie più complesse (romanzo, racconto, ecc.).
Elvio Guagnini
Resistenza
Delmo Maestri, Resistenza italiana e impegno letterario, Torino, Paravia, 1975,pp. 186.
Quinto volume di una « Collana interdisciplinare di documenti e modelli d’analisi » diretta da I. Vergnano, questa antologia •— commentata e introdotta da Delmo Maestri, che è anche autore di una post-fazione e dell’apparato bio-bi- bliografico — ha il merito di non essere una raccolta generica di testi ma di costituire una scelta e di presentare — scoperti — i punti di vista che hanno so- vrainteso alla stessa. La prospettiva, scarnamente enunciata nell’Introduzione, si chiarisce via via nel lavoro di antologizza- zione e nel commento ai testi presentati (romanzi e racconti: testimonianze narrative ordinate cronologicamente sia rispetto ai contenuti sia rispetto alle date di pubblicazione dei testi, dall’immediato dopoguerra fino a Memoria della Resistenza di Spinella, Rosso al vento di Benedetti e alla Storia della Morante), oltreché nel lucido saggio finale che tende a mettere in rilievo le diverse fasi dell’intervento narrativo con al centro eventi dell’antifascismo e della Resistenza. Dunque, da una premessa introduttiva sintetica in cui, per pochi efficaci punti di riferimento (l’ultima lettera di Giaime Pintor; il discorso inaugurale dell’anno accademico 1943-44 di Concetto Marchesi; due articoli di Gentile del 1943 e del 1944; le memorie di Pietro Chiodi, Banditi, pubblicate nel 1946 e ristampate recentemente), vengono presentati atteg
giamenti diversi relativi al rapporto intellettuali-impegno civile-guerra di liberazione, l’A. fa muovere un’antologia dei modi in cui, nella narrativa italiana del dopoguerra, avviene la « penetrazione » e la « elaborazione culturale e letteraria » degli eventi e dei temi della lotta antifascista e resistenziale.Qualche cenno al saggio finale (Per una storia della narrativa della Resistenza) permette qui di raccogliere brevemente le direttrici che sono alla base dell’antologia e i criteri di lettura che si ritrovano nelle note e nelle presentazioni — sobrie e precise — ai testi dei diversi scrittori considerati.Al di là delle possibili apologizzazioni di tutti i prodotti culturali e letterari maturati da quelle esperienze ed eventi storici e politici e al di là delle accuse che — per altro verso — sono state mosse agli stessi di aver mancato ad appuntamenti e ad analisi « classisti e rivoluzionari », l’A. sostiene la necessità di « fissare il preciso stratificarsi di un mancato culturale con le sue risposte e la nuova tradizione letteraria » che ne è derivata (p. 151). D’altra parte, individuate una distinzione e una scollatura tra attività letteraria e culturale specifica e intervento politico, militare e civile, giustificate da una situazione storica e da una tradizione intellettuale tipiche della cultura italiana, e chiarita quindi la ragione in base alla quale condurre un discorso intorno a una narrativa ra/l’antifascismo e sulla Resistenza anziché ¿e//’antifascismo e della Resistenza, l’A. mette in rilievo il particolare significato rivestito da « questa letteratura di riflessione, e non d’immediata partecipazione »: « ... la Resistenza appare non come realtà e misura totale da proseguire in senso rivoluzionario e nella stessa direzione di lotta, ma come una fase importante, ma limitata, un preambolo per costruire, proseguendone lo spirito in condizioni diverse, una società rinnovata e pacifica » (p. 153).L ’A. è ben conscio, peraltro, della necessità di sciogliere le formule e di vedere nettamente le sfumature e distinzioni di rilievo oltre l’enunciato di una tendenza comune. Nel saggio finale e nell’antologia,
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il Maestri sottolinea le diverse fasi in cui si è venuta svolgendo questa narrativa. Nella prima fase, quella corrispondente all ’immediato secondo dopoguerra, « la Resistenza non si presenta né come occasione irripetibile, né come culmine e preparazione di un atto rivoluzionario poi tradito e dimenticato, ma come momento di costruzione di una società diversa, da organizzarsi civilmente dopo la distruzione del fascismo, ed anzi già nella lotta ricco di germi fecondi per il miglioramento dell’uomo » (p. 157). È necessario, però, distinguere — secondo l’A. — all’interno di questa fase, l’elementare dialettica umanità-antiumanità di Vittorini; il senso di necessità di un’azione collettiva e popolare espressa nelle pagine di « semplificata concentrazione didascalica » della Vigano; la « seduzione dell’arcaico » di Carlo Levi, che scopre « nell’Antifascismo quel momento di ricostruzione nazionale ed umana che deve fare giustizia delle distorsioni della storia di cui il fascismo è stato l’ultimo autorevole sostegno » (p. 158); 1’« adesione più problematica » di Italo Calvino, ottenuta attraverso filtri e modi « stratificati e complessi » del racconto in cui emerge la contraddizione tra valore positivo e liberatorio della storia e « inconsapevolezza delle masse »; la solitudine e il malessere dei personaggi di Pavese; le esigenze di interiorizzazione di Petroni. L ’incrinarsi di « certezze » e di « entusiasmi » si manifesta, secondo il Maestri, non solo in opere in cui agiscono « tradizioni precedenti, memoriali ed intimistiche », ma anche in romanzi di più vasto respiro e intenzioni, dove l’arco dell’indagine sul processo storico preparatorio degli eventi resistenziali si allarga ai precedenti e dove pure emerge (per sollecitazioni ideologiche operanti nella cultura di sinistra) l’esigenza di « solide strutture oggettive » (ad esempio, in Cronache di poveri amanti e in Terre del Sacramento).Più tardi, nella seconda fase considerata dall’A. — intorno a quel 1956 che segna la crisi definitiva del neorealismo — la situazione iniziale sembrerebbe capovolgersi nei suoi presupposti: « [ . . .] da lotta entusiastica che distrugge il fascismo e
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prepara una società nuova, la Resistenza appare ora conclusa in sé, momento irripetibile, eccezionale o insignificante non importa, nel corso della nostra storia » (p. 163). Anche in questo caso, le presenze di scrittori sono assai dissimili e diverse quanto a premesse e prospettive: dal Cassola in cui la Resistenza è un « sobbalzo eccezionale » che poi lascia il posto al ritorno deludente al quotidiano; al Bassani in cui una « luce di memoria » resta l’unica ottica degli eventi; a Fe- noglio che ricorda con pungente nostalgia il « tempo eccezionale » della Resistenza in cui erano esplose « la libertà, la democrazia, un’inaspettata farraginosa solidarietà fra gli uomini » (p. 165).Gli anni sessanta, con le complesse esperienze e manifestazioni di integrazione, e di rifiuto e contestazione dell’integrazione e dei compromessi, segnano — nel profilo del Maestri — una fase ulteriore, quella di una narrativa che si svolge sullo sfondo dei « tentativi di integrazione neocapitalistica », delle « rabbiose accuse della neoavanguardia », dell’« attacco alla contestazione studentesca alle residue illusioni di quella intellettualità che aveva aderito o si era formata nel clima neorealistico » (p. 167).Caratterizzata da una nostalgia repressa e disillusa, presente ma rassegnata, o da un desiderio di reazione e di ripresa attualizzante, l’attività narrativa legata ai temi dell’antifascismo e della Resistenza segna un momento di intensificazione — sotto- lineato dall’A. del profilo — tra la fine degli anni sessanta e gli esordi degli anni settanta (M. Spinella, G. Petroni, A. Benedetti, E. Morante), con una serie di « riesami sereni o accorati o avvolti di ironica tristezza, consapevoli di ciò che non ha potuto essere o ha deluso o non ha saputo resistere ai passaggi del tempo » (p. 168).La conclusione, che « la vicenda del motivo resistenziale mostra come la coscienza sociale e letteraria degli scrittori ha dovuto spesso fare i conti con questo momento, per le conseguenze vicine e lontane, per il suo proporsi come contrasto e rimorso, non solo problemi storico-politici, ma un’onda di impeti, di ri
sentimenti e di ragioni validi anche per il nostro oggi » (p. 170), trova d’altra parte puntuale riscontro nell’impostazione dell’antologia, i cui limiti, peraltro, sono gli stessi enunciati dall’A. come caratteristica costruttiva del volume, l’attenersi — cioè — alla narrativa con l’esclusione di altre forme di testimonianza letteraria e non letteraria e l’esclusione di quella produzione deW’antifascismo e della Resistenza che pure hanno costituito uno stimolo e un esempio operante per la nuova cultura del dopoguerra in tutte le sue fasi.
Elvio Guagnini
Livio Zeno, Kitratto di Carlo Sforza, Firenze, Le Monnier, 1975, pp. 546, lire 9.000.
Questa biografia attenta scrupolosa e apologetica di Carlo Sforza ripropone all’attenzione dei lettori la figura di uno degli esponenti più prestigiosi dell’antifascismo all’estero ed uno dei protagonisti della storia politica italiana nei primi anni dopo la liberazione.L ’A., che fu addetto alla segreteria particolare di Sforza, negli anni in cui questo ultimo detenne il ministero degli Esteri sotto il governo De Gasperi, si avvale di una vasta documentazione edita ed inedita (quest’ultima ristampata in gran parte in appendice, fra cui citiamo in particolare i carteggi con Croce e con De Gasperi) e di una profonda conoscenza del personaggio, di cui tratteggia più che un ritratto una miniatura particolareggiata nei dettagli, ma piuttosto sfumata nel quadro generale degli avvenimenti di cui Sforza fu se non sempre protagonista, certo partecipe spettatore. Ne emerge una personalità lineare, costruita (o autoco- struitasi) secondo i modelli culturali dell’alta borghesia fin de siècle: gli studi, le tradizioni familiari, il curriculum diplomatico, lo stile composto ed elegante, gli snobismi.Zeno ripropone, con un taglio non rigorosamente cronologico, le tappe di questa biografia, dall’inizio della carriera diplomatica nel 1896, alla nomina a segretario aggiunto alla conferenza di Algesi-
ras, a sottosegretario agli Esteri nel 1919, fino alla nomina a ministro l’anno successivo. In tale veste — come si sa — egli ebbe il merito di stipulare con la Jugoslavia il trattato di Rapallo che poneva fine alla lunga polemica sui confini orientali.Nominato ambasciatore a Parigi e dimessosi all’avvento del fascismo, Sforza emigrò, in seguito alle violenze fasciste nel 1927, dopo molte esitazioni e non senza aver manifestato un certo distacco aristocratico verso 1’« emigrantismo » (ISML; fondo a Prato, carteggi Sforza, b. 4). Ma anche nell’emigrazione, in cui per la tradizione familiare e il prestigio politico di cui godeva nell 'establishment liberale di mezza Europa, volle e seppe assumere un ruolo rappresentativo nell’Alleanza Nazionale e presso molti membri della Società delle Nazioni: con un atteggiamento conseguente di conservatore illuminato, amico di sovrani e pervicacemente ostile ai movimenti popolari e in particolare ai comunisti.Tuttavia il volume di Zeno, così attento ai particolari psicologici, ai dettagli di cronaca, ai pettegolezzi mondani, ci pare non ponga in giusto rilievo da una parte gli scontri all’interno del movimento antifascista, dall’altra il carattere (e i limiti) della produzione pubblicistica di Sforza, che in quegli anni, si impegnava ma con una forza polemica e morale ben diversa da quella di Salvemini, nell’imporre all’opinione pubblica il volto dell’antifascismo militante.Ancora più evanescente si fa in questa opera la figura di Sforza, durante il soggiorno americano, nei primi anni della guerra mondiale, nel periodo in cui, sospinto dagli entusiasmi degli emigrati alla conferenza di Montevideo e blandamente sostenuto dal Dipartimento di Stato parve assumere la direzione della linea politica antifascista laica e repubblicana. Ci pare che Zeno scivoli con una certa ambiguità sui rapporti con la « Mazzini Society », ma anche su quelli con ex fascisti e sindacalisti passati solo all’ultimo momento sulla frontiera dell’antifascismo, come Generoso Pope o Antonini. È un problema questo della « Mazzini Socie
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ty » che andrebbe totalmente riproposto e ristudiato su documentazioni più ampie ed attendibili di quelle ora a disposizione, comunque anche in questo caso la figura di Sforza non acquista un ruolo chiaro. Tralasciamo la cronaca minuta degli avvenimenti, seguiti con attenzione apprezzabilissima, per gli anni che vanno dalla Resistenza al suo secondo ministero degli Esteri, ci pare tuttavia che alcuni altri problemi restino ancora una volta insoluti, o che siano risolti in modo personalistico, come ad esempio per il contrasto Churchill-Sforza, che investe nodi di politica estera ben più ampi che non le insofferenze reciproche.Nonostante l’affettuosa rievocazione del personaggio, rivisitato in questi ultimi anni, in una dimensione essenzialmente federalistica ed europeistica, grava — nonostante le puntuali citazioni e le difese d’ufficio — sulla sua statura politica, la pesante ombra della guerra fredda, il legame sempre più gravido di ipoteche fra Italia e Stati Uniti, in cui De Gasperi, Sforza e l’ambasciatore a Washington Tarchiani, avranno una responsabilità determinante nel legare l’Italia ad un ruolo subalterno all’economia e alla politica americana.
Nanda Torcellan
Secondo dopoguerraJ oyce e Gabriel Kolko, I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1943 al 1934, Torino, Einaudi, 1975, pp. XVI-903, lire 15.000.Giunge in Italia con tre anni di ritardo, in una traduzione per la verità alquanto esecrabile, questo importante contributo dei Kolko alla storia dei rapporti internazionali postbellici. L ’editore Einaudi, che pure ha avuto il merito di presentare in traduzione altri volumi di Gabriel Kolko, non ha però ritenuto di pubblicare quello che costituisce l’avvio e la premessa del discorso sviluppato sul dopoguerra, The Politici of War. The World and U.S. Foreign Policy (New York, 1968). In questo precedente lavoro G. Kolko analizzava, con analoga apertura mondiale,
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la definizione progressiva di una politica americana nei confronti del mondo postbellico a partire dal 1943 e sosteneva che alla imprecisione e incertezza delle scelte « politiche » corrispondeva però una assai attenta predisposizione di quelle « economiche », cioè del ruolo dominante che il capitalismo americano avrebbe svolto nel contesto mondiale dopo la fine della guerra.I due volumi (e in particolare quest’ultimo) hanno ricevuto nel mondo accademico americano un’accoglienza assai critica, in alcuni casi al limite del linciaggio scientifico. Non ultima ragione di questo accanimento, accanto al contenuto dissacratorio delle tesi dei Kolko nei confronti dell’interesse americano, la particolare costruzione del volume, che volutamente prescinde in larga misura dalle ricostruzioni storiografiche preesistenti e utilizza al contrario massicciamente fonti archivistiche inedite e memorialistiche. Da questo punto di vista, anche un pacato, per quanto severo critico ha dovuto riconoscere che il libro «offre una elencazione definitiva delle fonti di base disponibili per lo studio della politica estera americana dal 1945 al 1954 » (cfr. W. F. Kim- ball, The Colà War Warmed Over, in «The American Historical Review», 1974, n. 4, p. 1123). Inoltre, la dichiarata ostilità al criterio interpretativo liberal — che tende a ridurre le colpe del sistema a quelle degli uomini o meglio di alcuni uomini ai vertici della pubblica amministrazione — pone questa come più in generale le altre opere dei Kolko fuori del- l ’establishment culturale americano. Perché qui l’imputato è il sistema americano: una società dominata dalla forza espansionistica del grande capitale interno che determina i caratteri e gli obiettivi della politica estera. Non è difficile d’altra parte rintracciare nella tesi dei Kolko — anch’essa esplicitamente dichiarata — l’eco del dibattito politico sul Vietnam e la collocazione radicai degli autori; e la convinzione o forse soltanto la speranza che proprio il conflitto permanente tra il sistema americano e le forze del cambiamento in tutto il mondo, ma specialmente nel Terzo, abbia provo
cato una « profonda crisi del sistema sociale » (p. 892) interno americano e aperto la strada a un’epoca di profondi e imprevedibili sconvolgimentt sociali nel mondo intero.Il merito principale dei Kolko — e anche l’acquisizione interpretativa più convincente — consiste nell’aver preso le mosse, per uno studio delle relazioni internazionali del dopoguerra, dagli obiettivi della potenza chiave, gli Stati Uniti appunto, e di aver analizzato le diverse situazioni locali come funzioni dell’espansione americana. Questa impostazione non offre soltanto gli evidenti vantaggi di un’ottica planetaria, consentendo di studiare comparativamente realtà nazionali diverse (ed è questa una non piccola correzione delle tendenze provinciali con cui ancora oggi si studia la storia del dopoguerra, per esempio in Italia) ma approda a una revisione sistematica dello stesso concetto di guerra fredda — intesa come confronto bilaterale tra URSS e USA — quale chiave privilegiata di comprensione delle vicende internazionali postbelliche. Più volte, paradossalmente, i Kolko affermano che, anche se l’URSS non fosse esistita, gli Stati Uniti non avrebbero mutato in modo significativo gli obiettivi della loro politica estera: in realtà i rapporti con l’URSS furono soltanto uno degli aspetti della volontà egemonica americana a livello mondiale, specialmente nella fase iniziale, e finirono per assumere un ruolo cruciale solo come effetto indotto a mascheratura ideologica (prevalentemente a fini interni) di più generali esigenze di espansione economica e controllo politico mondiale. Ridotte a una formula, tali esigenze consistevano in una riforma del capitalismo mondiale e nella sconfitta della Sinistra (col quale termine si devono intendere le forze sociali interessate e in lotta per mutamenti radicali piuttosto che le loro rappresentanze politiche, generalmente — nella misura in cui accettavano la leadership sovietica — disposte a agire come fattori di equilibrio e riaggiustamento e non di rovesciamento dei rapporti di produzione esistenti): obiettivi, l’uno e l’altro, definiti in funzione delle aspettative e delle
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necessità del big business americano. Di contro alle politiche commerciali restri- zioniste e < egoistiche > del periodo fra le due guerre, i massimi responsabili americani (spesso fisicamente coincidenti con gli esponenti dei consigli di amministrazione delle grandi aziende industriali e delle banche) si fanno assertori della massima liberalizzazione degli scambi internazionali; che comporta libertà di accesso per tutti alle materie prime e ai mercati internazionali, come condizione per una espansione economica controllata e diretta dagli USA (la regola soffre significative eccezioni: la speciale tutela assicurata a certe merci americane, in primo luogo i prodotti agricoli). Corollario di questa impostazione (che inizialmente è vista come l’unica opportunità di evitare una grave crisi di riconversione prevista negli USA dopo la fine della guerra), le politiche economiche dei singoli paesi devono essere armonizzate al fine di evitare controlli statali sul commercio, nazionalizzazioni, pretese di « pieno impiego »; di lasciare insomma piena libertà al mercato. Esemplari al riguardo i rapporti con la Gran Bretagna, di cui va intaccata l’area privilegiata di scambi definita dal Commonwealth, sconfitta e rimpiazzata definitivamente la leadership sul resto del mondo capitalistico, in particolare europeo, contrastato e fortemente condizionato l’uso di politiche economiche interne miranti a un controllo statale sulle risorse e al < pieno impiego >.Dentro l’arco cronologico studiato, i Kol- ko individuano una periodizzazione in tre fasi: la prima, sostanzialmente di preparazione, ma già definita quanto agli scopi e agli obiettivi da perseguire, è segnata appunto, in Europa, e anche nel Vicino Oriente, dal confronto con la Gran Bretagna, dalla divaricazione crescente rispetto all’URSS a partire dalla questione tedesca, da una politica di aiuti in merci e capitali già consistente e, nell’Estremo Oriente, da politiche differenziate nei confronti rispettivamente della Cina e del Giappone; la seconda, che si apre con la elaborazione e il lancio del Piano Marshall, ribadisce la priorità attribuita allo scacchiere europeo, segna un coinvolgi
mento più deciso degli USA negli affari internazionali in funzione di guida del capitalismo europeo e quindi mondiale, con la riqualificazione di Germania e Giappone quali supporti cruciali del nuovo ordine, e individua il tentativo di gestirlo ricorrendo in prima istanza alla propria potenza economica; di fronte al fallimento del Piano Marshall e alla recessione americana dell’autunno ’48-giugno ’49, la strada è aperta al riarmo ancor prima del possesso sovietico della bomba atomica (agosto 1949), con il duplice scopo di sostenere la domanda interna (le spese militari salgono rapidamente da 12-14 miliardi del 1947-’49 a 44,1 miliardi di dollari nel 1952) e rianimare lo sviluppo economico; in questo contesto, la guerra di Corea è l’occasione sfruttata per giustificare (sul piano interno come su quello internazionale) una simile svolta. L ’intervento militare diretto in Estremo Oriente e l’avvio di una politica (ancora modesta quantitativamente) di aiuti ai paesi sotto- sviluppati (il cosiddetto Punto Quattro) dovevano a loro volta preparare, per risolvere il problema cruciale dell’approvvigionamento delle materie prime, quell’allargamento dell’area di intervento militare ed economico degli Stati Uniti ai paesi del Terzo Mondo (indice insieme secondo i Kolko, del fallimento, ma anche della drammatica pericolosità ■—- non consapevole appunto dei propri « limiti » —) che sarebbe culminata nell’intervento in Indocina.Dare conto in tal modo della ricchezza e anche della complessità del lavoro dei Kolko è certamente riduttivo: può essere tuttavia sufficiente per sottolineare l’importanza del contributo e le novità interpretative rispetto non solo alla storiografia americana, ma in generale a tutta la storiografia sui rapporti internazionali postbellici. Porre l’accento sulle tendenze espansionistiche del capitalismo americano fin dal periodi di guerra consente agli autori di svelare il contenuto ideologico delle giustificazioni addotte dai massimi dirigenti americani per le scelte di politica estera e di superare in modo convincente le aporie e le contraddizioni della stessa storigrafia revisionista americana. È
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senza dubbio questo il terreno fecondo sul quale dovranno misurarsi le ricostruzioni successive, anche approfondendo e magari correggendo la molteplicità di spunti forniti. È nell’ambito di questo giudizio largamente positivo che riteniamo di dover però sottolineare alcuni motivi di perplessità.Una prima considerazione riguarda il taglio seguito dagli autori nella loro ricostruzione: la verifica di un assunto che talvolta pecca di « economicismo », è ricercata in un’analisi assai dettagliata di tutte le situazioni locali in cui gli Stati Uniti sono coinvolti; ma gli autori non sempre riescono a padroneggiare una materia così vasta, sia per alcune inesattezze0 fraintendimenti di fatto (è il caso di alcuni giudizi sull’Italia), sia per l’esagerato rilievo assegnato ad alcune vicende nell’economia complessiva del lavoro (ad esempio la dettagliata ricostruzione delle vicende anche militari connesse alla guerra di Corea), sia infine per la scarsa nitidezza di alcune sezioni pur di grande importanza per l’assunto (è il caso, ad esempio, dei rapporti con i vari paesi europei nella fase di progettazione e di lancio del Piano Marshall).Ci sembra in sostanza che il lavoro non sia riuscito a superare, nonostante tutto,1 limiti della storia diplomatica e che la ragione di ciò vada ricercata nella mancanza di una più precisa ed esauriente analisi della fisionomia del capitalismo americano, delle sue articolazioni interne, delle diverse strategie economiche che si fronteggiano.Sembra sommaria, a questo riguardo, l’indicazione dei Kolko circa le due linee esistenti nel mondo economico americano: quella della grande industria e della grande banca, rappresentata dal Dipartimento di stato, e quella degli interessi agricoli, rappresentata dal Dipartimento dell’agricoltura e dal Congresso; la prima fevorevole e la seconda moderatamente ostile ai programmi di aiuti e di prestiti all’estero e alla liberalizzazione del commercio internazionale (anche se poi, al momento della recessione del 1948-49, i Kolko registrano le forti resistenze degli industriali all’esportazione di capitali in
Europa e le loro richieste di protezioni tariffarie). I dubbi che solleva un’impostazione di questo genere si riflettono sull’analisi del processo di formazione delle decisioni di politica estera; si ha l’impressione, talvolta, che la tesi « economicista » venga ribaltata in quella dell’autonomia delle scelte deH’amministrazione e dello stato.Una seconda osservazione riguarda la tesi dei limiti della potenza americana. Non c’è dubbio che i Kolko tocchino qui un problema reale, quello dello squilibrio tra le pretese egemoniche via via sempre più ambiziose deH’imperialismo americano e la inadeguatezza delle risorse economiche e politiche in grado di soddisfarle. In particolare, i Kolko sottolineano con grande lucidità l’obbligatorietà e la non casualità — date certe premesse, su cui i massimi dirigenti americani concordano — delle scelte di appoggiare i più screditati arnesi reazionari, specialmente nell’Estremo Oriente, e la sottovalutazione del peso delle lotte di massa che si oppongono a queste scelte.Sul piano economico, i Kolko illustrano la precarietà e lo scarso realismo di una riforma del capitalismo mondiale sotto l’egida americana (con riferimento all’Europa occidentale) l’acutezza delle contraddizioni intercapitalistiche e i costi sociali delle scelte adottate dalle classi dirigenti. Ma passano sotto silenzio, e quindi non spiegano, l’altra faccia di questa realtà, e cioè la sostanziale stabilità e la grande capacità di sviluppo del sistema posto in essere proprio nel decennio postbellico di cui trattano.
Nicola Gallerano
P. A . A l l u m , Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1975, pp. 549, lire 9.000.
La fusione tra la moderna sociologia politica e i metodi classici della storiografia meridionalistica fanno del libro di Percy Allum un’opera di storia politica e sociale destinata a rappresentare un punto di riferimento per chiunque voglia definire le contraddizioni strutturali e sovrastruttu-
rali del mezzogiorno d’Italia. Lo studioso inglese, nel tracciare le linee di fondo del suo saggio, non si limita ad una documentazione rigorosa ed ampia, fatta di note biografiche dei personaggi del mondo politico ed economico degli ultimi tren- t’anni, di stralci di sentenze, di elenchi di consigli di amministrazione, di fonti statistiche, di documenti « ufficiali », ma porta alla luce il comportamento di uomini, settori e classi sociali mettendo a confronto, con estrema dialettica, le diverse posizioni, così come esse emergono dal giudizio dei protagonisti.Allum ricorre spesso alla ricerca « sul campo » per mostrare il comportamento e il ruolo che le clientele e i boss hanno nei partiti e nella società meridionale. Dalle interviste-campione, riportate con dovizia nel libro, risulta chiaro il quadro di una struttura politica che ripropone, ai vari livelli, gli schemi gerarchici di un modello rigidamente piramidale. Man mano che si scende verso la base della piramide cresce il numero dei notabili, ma diminuisce il loro potere effettivo. Definendo nel dettaglio la vita politica napoletana di questi ultimi trenta anni, Allum non intende limitarsi alla denuncia del « bossismo » come fenomeno. Appare teso, al contrario, alla ricerca delle cause strutturali che permettono il riprodursi di simili schemi e scale di valori.La critica ai luoghi comuni sulla storia di Napoli e dei napoletani (pur presenti in certa storiografia) è netta ed inequivocabile: i meccanismi che regolano il sistema e le istituzioni politiche cittadine sono da ricercarsi nella estrema disgregazione dei rapporti economico-sociali. A Napoli — sostiene l’A. -—■ tali rapporti convivono in maniera contraddittoria formando un tessuto apparentemente omogeneo. Accanto alla moderna industria sopravvivono attività che sarebbe riduttivo definire marginali; basti pensare al fenomeno del lavoro a domicilio o del commercio al minuto che consentivano e tuttora consentono livelli minimi di sussistenza per decine di migliaia di napoletani. Di questa fusione tra moderno ed antico risente la vita della società napoletana in tutte le sue manifestazioni. I modelli adottati
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Gemeinschaft und Gesellschaft (comunità e società) corrispondono, quindi, alla necessità di analizzare i diversi momenti della vita napoletana, senza che si definisca mai schematicamente il predominio di un modello sull’altro. Si legge infatti nell’Introduzione: «[...] la tendenza al passaggio da un [modello] ad un altro [non] implica che questo passaggio sia tranquillo e regolare: poiché i due tipi si contrappongono polarmente, essi si trovano in conflitto tra di loro ed i passaggi tenderanno quindi ad assumere il carattere di salti qualitativi irregolari ed incerti » (p. 6). Solo alla luce di questa attenta analisi delle contraddizioni della società napoletana e meridionale in generale si può comprendere il rapporto che è intercorso negli ultimi trent’anni tra i diversi gruppi sociali e il ceto politico. Allum riconduce allo sviluppo squilibrato della economia italiana i fenomeni del paternalismo e del « bossismo » politico e la subalternità ad essi delle classi più economicamente indifese.Con la fine delle seconda guerra mondiale — sostiene lo studioso inglese riprendendo la tesi esposta nel saggio II Mezzogiorno e la politica nazionale — si assiste ad un consolidamento del « sistema meridionale » che, abbandonando la originaria matrice agraria, analizzata da Gramsci e Sereni, trova nuova fonte di riproduzione nella politica di intervento pubblico operata dai governi centristi a partire dal 1947.Allum, riprede le note tesi di A. Oraziani sul « dualismo geografico », sostenendo come la politica meridionalistica dei governi centristi abbia favorito, da una parte, il potenziamento dell’industria settentrionale, trasformando il sud in un’area di consumo, dall’altra, i vecchi gruppi di notabili meridionali che potevano così gestire ampi spazi per il controllo del mercato del lavoro. In base a questa analisi si possono spiegare le fortune politiche ed economiche di personaggi come Gava e Lauro che si trovano a manovrare i fondi delle « provvidenze » governative. Il tramonto laurino coincide, infatti, con l’avvento in economia dei tentativi di programmazione che, sottraendo
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la politica di assetto territoriale ai vecchi gruppi locali della speculazione edilizia, favoriscono le grosse immobiliari controllate dalle finanziarie nazionali.La storia della vita politica e sociale a Napoli negli ultimi trent’anni appare quindi strettamente collegata con le vicende nazionali. Il riemergere nel dopoguerra dei vecchi gruppi di potere è il frutto delle scelte del partito democristiano che non esita a ricorrere all’appoggio delle forze più eterogenee, salvo a mettere in atto, successivamente, la loro liquidazione come avvenne, appunto, per il PMP. È importante sottolineare come il saggio di Allum si venga ad inserire direttamente nel dibattito sul significato della cosiddetta « centralità democristiana » che dal periodo degasperiano rappresenta, sia pure sotto forme diverse, la costante della politica di tale partito. Il giudizio sul rapporto tra DC e potere ha degli elementi in comune con le ipotesi sostenute dalla Menapace: la DC tende ad identificare se stessa con le strutture istituzionali; fa coincidere il suo rafforzamento con il predominio del modello delle democrazie occidentali; al contrario, ogni qualvolta si mette in moto un processo inverso, essa prospetta la crisi istituzionale.Il sistema politico meridionale — sostiene Allum — è direttamente funzionale alla perpetuazione della gestione demo- cristiana del potere. I notabili, con il loro apparato clientelare, consentono il controllo di settori sociali che, sottratti alla Gemeinschaft, finirebbero con l’incrinare l’assetto interclassista sul quale si basa l’edificio politico democristiano. Come l’uso spregiudicato degli avversari permette l’allargamento di tale controllo, come dimostrano l’alleanza tra Gava e Lauro in occasione delle elezioni amministrative nel 1954 a Castellammare di Stabia e l’adesione di sette consiglieri monarchici alla DC nel 1961. Pur entrando nel merito di questioni estremamente attuali, Potere e società a Napoli nel dopoguerra non può essere definito schematicamente un pamphlet politico. Se si escludono le critiche dei settori direttamente interessati, bisogna ricordare che tale obiezione
è stata avanzata da fonti autorevoli che hanno creduto di ravvisare nel saggio un metodo di indagine storiografica poco attendibile. Pur riconoscendo al libro una netta presa di posizione sul piano politico, che l’A., peraltro, ammette esplicitamente, va detto che esso si distacca dal filone della pubblicistica tradizionale per ricostruire organicamente lo sviluppo della società napoletana, dal dopoguerra ad oggi, attraverso la definizione del comportamento dei diversi gruppi sociali e del condizionamento che ciascuno di essi esercita sugli altri.La stessa analisi del rapporto subalterno tra ceti intellettuali meridionali e potere politico viene ricondotta a cause profondamente strutturali, quali i problemi inerenti la loro collocazione sul mercato del lavoro. Come sostiene anche Sylos-Labini, nel mezzogiorno si è avvertito, più che in altre zone del paese, la crescita abnorme del pubblico impiego e il processo di terziarizzazione dell’economia. È accaduto così — sostiene Allum — che molte energie siano rimaste ingabbiate negli schemi della Gemeinschaft, riproponendo per l’intellettuale il ruolo di mediatore tra classi subalterne e potere politico. Ci sembra opportuno precisare la distinzione che l’A. evidenzia, rifacendosi all’analisi gramsciana, tra i « creatori d’alta cultura » e « gli intellettuali in senso largo [...] persone tutte che hanno ricevuto un’istruzione superiore e svolgono un lavoro di tipo non commerciale » (p. 99). Complessivamente positivo è il giudizio del comportamento del proletariato industriale napoletano come elemento di superamento della Gemeinschaft. L ’A., nell’analizzare le caratteristiche, tiene presente la specificità del processo di industrializzazione meridionale. Pur senza addentrarsi in un’indagine prettamente economica, viene analizzata l’influenza che sulla classe operaia napoletana esercitano fattori come la provenienza contadina di gran parte degli occupati o il richiamo costante a modelli di comportamento propri dei settori più disgregati definiti, genericamente, « sottoproletariato ».Uno degli aspetti più interessanti proposti dalla metodologia di Allum è dato
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dall’analisi originale condotta sui sindacati e sui partiti di massa. Essi non vengono definiti sul piano degli aspetti ideologici « ufficiali ». Lo studioso inglese si addentra in un’attenta analisi della loro composizione sociale al fine di verificare, all’interno delle loro strutture, l’eventuale riproposizione degli schemi sia della Gemeinschaft che della Gesellschaft. Avviene, così, che la stessa organizzazione sindacale divenga strumento per il riaffermarsi del sistema politico clientelare, ogni qualvolta si presenti la possibilità di utilizzare in funzione elettorale l’influenza esercitata sui settori organizzati. In tal modo si verifica l ’osmosi tra il tradizionale sistema clientelare, tipico della Gemeinschaft e l’organizzazione di massa, espressione di rapporti sociali più evoluti. I settori coinvolti in tali operazioni, come appare dagli esempi riportati da Allum, appartengono al pubblico impiego e ai servizi, dove nel contesto napoletano, è più immediato il rapporto tra potere politico e società. In ultima analisi, quindi, il discorso dello studioso inglese ci riporta alla struttura economica, sulla quale si basa il « sistema meridionale ».Nei confronti dei moderni partiti di massa l’analisi dell’autore è quanto mai articolata. Efficacia della struttura organizzativa, influenza elettorale, composizione sociale degli iscritti sono i diversi piani sui quali si sviluppa il discorso. Si vuole, cioè, definire se la costituzione dei partiti di massa abbia rappresentato un reale elemento di novità e di rottura nel tradizionale trasformismo meridionale. Netto è
il giudizio sul carattere elettoralistico dell’apparato organizzativo della DC. La sua attività, pertanto, opera unicamente in funzione del successo dei vari notabili, ad ognuno dei quali corrisponde un feudo elettorale. Più complessa è l’analisi del PCI, dove predominano rapporti propri della Gesellschaft; la presenza del proletariato industriale favorisce il processo di partecipazione politica. Il PCI, quindi, secondo Allum, costituisce l’unica struttura organizzativa capace di proporre modelli di comportamento tipici di una società industrialmente evoluta. In questo l’A. sembra riprendere le valutazioni di S. Tarrow (Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, 1972) secondo il quale il PCI avrebbe proposto nel mezzogiorno schemi organizzativi e valori socio-politici propri delle zone più industria- lizzate del paese. Questo processo — ed in ciò Allum dissente da Tarrow — è da considerarsi positivo ai fini di un rinnovamento della società meridionale. La classe operaia, attraverso le sue strutture di massa, esprime una capacità d’aggregazione che sembra essere assente negli altri settori della complessa stratificazione sociale napoletana. Il suo ruolo progressivo nel rapporto con le istituzioni emerge ripetutamente e fornisce un ottimo terreno di ricerca per chiunque voglia definire, alla luce degli avvenimenti che vanno dal dopoguerra ad oggi, i complessi problemi dei rapporti socio-politici nella società meridionale.
Gloria Chianese