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Rassegna bibliografica Le guerre degli italiani di Massimo Baioni Innestandosi in parte sui risultati di ricerche già largamente note agli addetti ai lavori per il posto che occupano nel panorama della storiografia sulla prima guerra mondiale (tra le altre I vinti di Caporetto nella lettera- tura di guerra, Padova, Marsilio, 1967; Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970; Giornali di trincea 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977) e sul fascismo ( Intellettuali militanti e intellet- tuali funzionari, Torino, Einaudi, 1979; L ’educazione dell’italiano, Bologna, Cap- pelli, 1979), questo nuovo saggio di Mario Isnenghi {Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mon- dadori, 1989, pp. 381, lire 29.000) si segnala per l’originalità di alcuni approcci tematici e per il quadro di lettura complessiva che pro- pone. L’impianto agile e discorsivo del volu- me (le note sono ridotte al minimo essenzia- le), sostenuto dallo stile vivace e brillante dell’autore, ne fanno evidentemente un’ope- ra destinata ad un pubblico più vasto della cerchia ristretta degli specialisti. Peraltro, questa caratteristica generale si salda con l’affollamento di problemi e di riferimenti interpretativi che non consentono una lettu- ra distratta e rendono il libro denso di ri- chiami alla discussione storiografica. Nella breve premessa, Isnenghi esplicita il significato del titolo e chiarisce gli obiettivi che sono alla base della ricerca: non si tratta di una storia tradizionale degli avvenimenti o di un’analisi ravvicinata delle strategie mi- litari, bensì di un tentativo di vedere “come le diverse guerre dell’Otto e del Novecento, dal Risorgimento alle due guerre mondiali, dalle guerre coloniali alla Resistenza e alla Repubblica Sociale sono state vissute, rap- presentate, ricordate, raccontate” (p. 3). Dunque, una verifica dell’impatto che le guerre hanno determinato sulla mentalità collettiva e sui processi di formazione della coscienza nazionale. L’immagine dei conflit- ti militari che per un secolo hanno accompa- gnato la storia italiana costituisce così il filo unitario della riflessione di Isnenghi, che in questo excursus ha utilizzato una tipologia documentaria alquanto diversificata, sebbe- ne raccolta attorno alla medesima finalità di rappresentare l’evento bellico. Gli otto capi- toli con cui l’autore ha inteso ricoprire gli spazi di questo vasto immaginario collettivo affrontano il discorso di guerra, i proclami, detti e parole d’ordine, il canto, le immagini (pittura, fotografia, cinema, ecc.), la stam- pa, la letteratura, la memorialistica, l’arredo urbano. Una pluralità di voci scelte per deco- dificare, tramite una selezione condotta per campioni rappresentativi, lo spaccato di una “storia mentale” rivisitata in una prospettiva duplice: da un lato “la guerra al presente, cioè quale è proposta, rappresentata, vissuta dai contemporanei”, dall’altro “la guerra al passato, cioè le trasformazioni che la distan- za temporale e il mutare delle circostanze e dei criteri fanno subire all’immagine, pubbli- ca e privata, di ogni guerra” (p. 117). Italia contemporanea”, settembre 1990, n. 180

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Le guerre degli italianidi Massimo Baioni

Innestandosi in parte sui risultati di ricerche già largamente note agli addetti ai lavori per il posto che occupano nel panorama della storiografia sulla prima guerra mondiale (tra le altre I vinti di Caporetto nella lettera­tura di guerra, Padova, Marsilio, 1967; Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970; Giornali di trincea 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977) e sul fascismo (Intellettuali militanti e intellet­tuali funzionari, Torino, Einaudi, 1979; L ’educazione dell’italiano, Bologna, Cap­pelli, 1979), questo nuovo saggio di Mario Isnenghi {Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano, Mon­dadori, 1989, pp. 381, lire 29.000) si segnala per l’originalità di alcuni approcci tematici e per il quadro di lettura complessiva che pro­pone. L’impianto agile e discorsivo del volu­me (le note sono ridotte al minimo essenzia­le), sostenuto dallo stile vivace e brillante dell’autore, ne fanno evidentemente un’ope­ra destinata ad un pubblico più vasto della cerchia ristretta degli specialisti. Peraltro, questa caratteristica generale si salda con l’affollamento di problemi e di riferimenti interpretativi che non consentono una lettu­ra distratta e rendono il libro denso di ri­chiami alla discussione storiografica.

Nella breve premessa, Isnenghi esplicita il significato del titolo e chiarisce gli obiettivi che sono alla base della ricerca: non si tratta di una storia tradizionale degli avvenimenti o di un’analisi ravvicinata delle strategie mi­

litari, bensì di un tentativo di vedere “come le diverse guerre dell’Otto e del Novecento, dal Risorgimento alle due guerre mondiali, dalle guerre coloniali alla Resistenza e alla Repubblica Sociale sono state vissute, rap­presentate, ricordate, raccontate” (p. 3). Dunque, una verifica dell’impatto che le guerre hanno determinato sulla mentalità collettiva e sui processi di formazione della coscienza nazionale. L’immagine dei conflit­ti militari che per un secolo hanno accompa­gnato la storia italiana costituisce così il filo unitario della riflessione di Isnenghi, che in questo excursus ha utilizzato una tipologia documentaria alquanto diversificata, sebbe­ne raccolta attorno alla medesima finalità di rappresentare l’evento bellico. Gli otto capi­toli con cui l’autore ha inteso ricoprire gli spazi di questo vasto immaginario collettivo affrontano il discorso di guerra, i proclami, detti e parole d’ordine, il canto, le immagini (pittura, fotografia, cinema, ecc.), la stam­pa, la letteratura, la memorialistica, l’arredo urbano. Una pluralità di voci scelte per deco­dificare, tramite una selezione condotta per campioni rappresentativi, lo spaccato di una “storia mentale” rivisitata in una prospettiva duplice: da un lato “la guerra al presente, cioè quale è proposta, rappresentata, vissuta dai contemporanei”, dall’altro “la guerra al passato, cioè le trasformazioni che la distan­za temporale e il mutare delle circostanze e dei criteri fanno subire all’immagine, pubbli­ca e privata, di ogni guerra” (p. 117).

Italia contemporanea”, settembre 1990, n. 180

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In realtà, è proprio l’immagine a distanza, artefatta a scopo mitopoietico, quella che si dipana con maggiore insistenza nelle pagine del libro, poiché è prevalentemente sulle rie­laborazioni e sugli ‘aggiustamenti psicologi­ci’ operati a posteriori che si regge la diffu­sione propagandistica dell’ideologia nazio­nale.

Non è possibile naturalmente dar conto dettagliato in questa sede dell’ampio venta­glio di questioni affrontate nel volume, dei modi diversi cioè con i quali protagonisti e personaggi minori della storia politica e cul­turale della nazione hanno vissuto il mo­mento della guerra o ne hanno tratteggiato la versione postuma: richiamare gli aspetti più innovativi può forse aiutare a fissare meglio le caratteristiche del libro. In partico­lare, i capitoli dedicati alle immagini e al­l’arredo urbano, unitamente alle pagine sui canti di guerra, contengono gli spunti di ri­flessione più stimolanti in un settore presso­ché inesplorato dalla storiografia. In effetti, come emerge dalla ricostruzione complessi­va, la definizione dell’immaginario bellico e la sua gestione da parte della classe politica dirigente hanno trovato in queste manifesta­zioni apparentemente marginali un veicolo di diffusione molto resistente nel tempo.

Il canto, ad esempio, ha occupato un po­sto tutt’altro che trascurabile nell’ordine delle emozioni collettive e dei comportamen­ti che da esse sono scaturiti: rispetto ad altre espressioni culturali studiate da Isnenghi, es­so è indagato principalmente per l’impatto diretto che ha suscitato, seguito nell’evolu­zione che à&W Addio del volontario (1848), dove predominano ancora i temi della “par­tecipazione attiva e motivata alla guerra e la separazione dal mondo e dagli affetti di pri­ma” (p. 77), transita alla canzone d’autore d’inizio secolo, quando subentra una produ­zione in cui le sollecitazioni letterarie e pa­triottiche sono ormai sopravanzate dalle esi­genze di mercato, e approda infine alle due guerre mondiali e al fascismo. La guerra di

Libia costituisce un tornante decisivo anche per la canzone, che riflette un passaggio ideologico di tono nazionalista (A Tripoli) e assiste all’introduzione di un genere nazio­nal-popolare intriso di stereotipi ormai aper­tamente di destra sui quali il fascismo potrà innestare una visione esplicitamente gerar­chica dei rapporti tra i popoli. Esaltando il contenuto unitario e nazionale delle canzoni del 1915-1918, il regime potrà far passare come tali anche quelle (’O surdato ’nnamu- rato, La leggenda del Piave) che in realtà ri­velavano, ad una lettura meno superficiale, l’eco delle divisioni interne o sostavano sulla dimensione degli affetti familiari come pre­testo per estraniarsi dalla vita di trincea. La leggenda del Piave è forse la prova più sin­tomatica di questa forzatura: prima di di­ventare canzone plebiscitaria, espressione dell’unione di Popolo e Nazione, Esercito e Stato, essa rifletteva all’origine una situazio­ne ben più incerta, non priva di allusioni “scomode” e decisamente lontane dal con­cetto della guerra “collettivamente voluta e combattuta” (p. 98).

In effetti, l’intervento deformante della politica e dell’ideologia è un dato e insieme una chiave di lettura dai quali non è possibi­le prescindere. Quelle che vengono definite “immagini di guerra” non sfuggono a que­sta regola: la logica diacronica privilegiata dall’autore risponde al tentativo di “rispet­tare una progressione interna allo sviluppo delle varie tecniche della visione e alle pro­porzioni variabili della loro presenza rispet­to ai singoli conflitti” (p. 118). In questo senso, ciascuna guerra ha avuto un osserva­torio particolare che è mutato nel corso de­gli anni in relazione alla sua capacità di inci­dere sul piano della mobilitazione ideologi­ca. Dalla pittura per l’epoca risorgimentale — “esiste un’Italia della tavolozza e del pen­nello che sa interreagire utilmente con l’Ita­lia delle guerre di Indipendenza e delle av­venture garibaldine” (p. 118) — per finire ai manifesti truci e inquietanti del fascismo di

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Salò, i diversi generi che hanno modellato l’immaginario bellico (cartoline, fotografie, cinema, riviste illustrate) sono seguiti nelle tappe della loro interrelazione con il conte­sto politico e culturale. Quanto Isnenghi af­ferma a proposito della cartolina illustrata — “chi governa lo Stato e la Chiesa, l’Eser­cito e l’economia, impara presto a rispec­chiare se stesso e a usare a proprio vantag­gio questo nuovo mezzo di rappresentazione e comunicazione di massa. Si tratta di vede­re e far vedere le cose in un modo a prefe­renza di un altro: una città, un santo, un personaggio, una guerra, l’Italia stessa” (p. 132) — può essere inteso in realtà come il principio ispiratore che, con intensità varia­bile, ha guidato una concezione secolare del modo di foggiare la coscienza nazionale. In­fatti, la stessa preoccupazione di fondo è ravvisabile anche nella utilizzazione della fo­tografia, del cinema, della stampa, che delle guerre hanno sovente dovuto proporre un’immagine imposta, vincolata alla “neces­sità” di esaltare di volta in volta l’aspetto eroico o evasivo, il mito o la retorica, quasi mai la cruda normalità dell’evento. Un film quale Maciste Alpino, del 1916, non è altro che “il diretto equivalente filmico del micro­mondo evasivo che pullula nelle cartoline del filone popolare e grottesco o, poco più tardi, di quel giornalismo popolare che risol­ve la guerra con l’Austria e la Germania in una serie di fatti personali, di batoste gioco­se e di sonore legnate, di iperboliche rivisita­zioni di un atemporale teatro dei pupi” (p. 144). Ma le occasioni di raccordo tra le di­verse componenti esaminate nel libro sono molteplici, ed è da questo sforzo di compa­razione e di lettura intrecciata cui è invitato il lettore che emerge il quadro globale del­l’immagine di guerra, quale poi si é radicata nel tessuto mentale e culturale della nazione: tra alcuni film fascisti (Camicia nera, Vec­chia guardia) e i discorsi di guerra di Musso­lini si può riconoscere una convergenza so­stanziale laddove prevale il rifiuto di “colti­

vare la memoria delle divisioni” (p. 148), per puntare invece sul concetto dell’unità nazionale e dell’armonia sociale, annac­quando così la contrapposizione politico-i­deologica delle origini. Se Garibaldi e D’An­nunzio nella loro guerra ‘parlata’ avevano prospettato all’Italia mete di grandezza ri­manendo ancorati alla loro specifica collo­cazione di parte, Mussolini invece, per la di­versa natura del suo ruolo, abbandona la parte del capo-fazione e spinge la direzione dei suoi discorsi di guerra nel senso di una identificazione con la volontà nazionale.

Le linee di continuità che Isnenghi eviden­zia nel modo tutto ‘italiano’ di porsi di fron­te alla guerra, la persistenza nei decenni de­gli stilemi legati alla romanità, alla missione, al peso della retorica e del populismo nazio­nale, non cancellano le differenze, gli spo­stamenti interpretativi provocati dai singoli conflitti. Nell’ambito delle immagini di guerra, ad esempio, 1’ ‘asse visivo’ della me­moria nazionale conosce tra Otto e Nove­cento un riassestamento che è insieme politi­co e culturale; mentre, infatti, durante il Ri­sorgimento “la visione popolare contempo­ranea era stata di frequente garibaldina, se non addirittura repubblicana” (p. 134), mezzo secolo più avanti l’accento subisce una marcata deviazione in senso legalitario e monarchico. Allo stesso modo, nel sottoli­neare alcuni casi particolari, viene conferma­ta la ‘diversità’ della seconda guerra mondia­le: con i disastri militari che sgretolano le fondamenta del regime, diviene pressoché impossibile, al di là del rivestimento propa­gandistico sempre meno credibile, alimenta­re un immaginario bellico imperniato, come in precedenza, su miti e simboli politici. Nep­pure sul terreno ‘spontaneo’ della canzone riesce ad emergere un brano capace di cala­mitare la memoria o di riassumere il signifi­cato di un’esperienza sociale collettiva. Il ca­pitolo dedicato all’arredo urbano attesta tan­gibilmente l’esaurimento di quello che Geor­ge L. Mosse ha definito il “Mito dell’Espe­

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rienza della Guerra” (cfr. Le guerre mondia­li. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma- Bari, Laterza, 1990), esaurimento al quale il declino dell’idea nazionalista ha inferto un colpo determinante. Alle due “ondate mo­numentali” scaturite dal processo risorgi­mentale e dalla grande guerra, il secondo conflitto mondiale non ha fatto seguire un contributo altrettanto massiccio. La sconfit­ta militare, l’impossibilità di una celebrazio­ne comune e di una “rappresentazione inter­prete del volto del paese” (p. 350), hanno annegato la memoria pubblica in un “reti­cente e fuggevole omaggio cumulativo” (p. 351), mentre la stessa sublimazione della lot­ta partigiana, l’unica in grado di dare con­torni monumentali al ricordo storico, ha ri­sentito dell’assenza del “supporto istituzio­nale” e di “tutte le forme di legittimazione e di appoggio ufficiali di cui il suo precedente aveva potuto godere” (p. 352). Rimane il fatto che fino ad allora il “racconto pubbli­co cittadino”, nel quale tutto confluiva a parlare di guerra e dei personaggi legati alle vicende militari della storia nazionale, è sta­to un elemento importante, anche se sotter­raneo, dell’ “alfabetizzazione politica di massa” . L’operazione del “fare gli italiani” è passata giorno per giorno anche attraverso la definizione di un’immagine cittadina dove “la storia si fa arredo urbano e l’arredo ur­bano muta con il variare delle fasi storiche” (p. 321): piazze (quando ancora svolgevano una funzione sociale decisiva), vie, epigrafi, monumenti, musei della guerra e del Risor­gimento, diventano teatro di educazione po­litica e di dialettica culturale, costituiscono l’esempio visivo che l’unificazione nazionale

si salda con questa tendenza all’ “unifica­zione toponomastica” (p. 327). L’elemento epico e guerresco, in tale cornice, è stato sempre parte integrante, dal mito del Risor­gimento degli anni postunitari costruito sul­la rassicurante diarchia Garibaldi-Vittorio Emanuele II, al culto dei caduti del 1915- 1918, per approdare all’esasperazione belli­cista dell’ideologia fascista, quando l’etica ‘doveristica’ e la statolatria portate all’ec­cesso impongono l’egemonia su tutti i riti della coscienza nazionale. Questo spiega il radicamento dell’esperienza di guerra nella memoria di tante generazioni di italiani, l’impatto dirompente che i conflitti hanno avuto “nel coinvolgere — volente o nolente — l’individuo nel collettivo, la microstoria privata nella storia dei grandi gruppi sociali, dei popoli e degli Stati” (p. 4). Non si può non concordare, dunque, sul fatto che lo scavo in questa direzione sia da ritenere tra i più persuasivi per integrare la conoscenza della storia nazionale e per estendere il cam­po delle fonti solitamente utilizzate dagli storici. Il volume di Isnenghi, oltre a pro­porre una prima lettura globale, offre una griglia di suggerimenti tematici che meritano di essere raccolti in sede di sviluppo mono­grafico del lavoro di ricerca. La dinamica connessa ai fenomeni di autorappresentazio­ne nazionale, come il saggio di Isnenghi di­mostra, ha avuto un’importanza notevole nella vita politica e culturale, e questa con­sapevolezza può indurre la storiografia ad incentivare la discussione e lo studio intorno ad un filone di ricerca in gran parte ancora da approfondire.

Massimo Baioni

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Industria e polìtica a Firenze nell’Ottocentodi Domenico Preti

Il volume di Roberto Melchionda, Firenze industriale nei suoi incerti albori (Firenze, Le Monnier, 1988, pp. IX-452, lire 36.400), tratta deH’associazionismo imprenditoriale fiorentino nella seconda metà dell’Ottocen­to, e più in particolare delle vicende e dei personaggi legati alla nascita nel 1889, sul vecchio tronco della preesistente Associazio­ne commerciale, dell’unico organismo priva­to destinato nella Firenze di allora a rappre­sentare gli interessi delle categorie economi­che non agricole, e cioè l’Associazione indu­striale e commerciale.

Si tratta, per esplicita ammissione dell’au­tore, di una ricerca che, rivolta a compren­dere le ragioni dell’associazionismo indu­striale e il contributo da esso dato allo svi­luppo economico e sociale del paese, intende riscoprire e valorizzare un patrimonio ideale e culturale ritenuto assolutamente autono­mo rispetto a quella ‘contaminazione’ sto­riografica che lo vorrebbe cronologicamente subordinato alla nascita dell’associazioni­smo operaio, in risposta ad esso. Un patri­monio al quale l’attuale organizzazione de­gli industriali fiorentini possa e debba, al fi­ne, orgogliosamente ricollegarsi.

Inoltrandosi sulle vie maestre della sua ri­cerca così tracciate, l’autore palesa ben pre­sto le sue simpatie per una visione storiogra­fica che nella sostanza si rifà alla ben nota condanna del trasformismo (inteso come corruzione clientelare, come indebita mani­polazione politica o sindacale dello sviluppo economico deviato dalle leggi naturali del­l’economia) operata da Pareto e dalla italica scuola liberista. Muovendo da questa forte caratterizzazione ideologica, non stupisce che la ricostruzione dello scenario storico entro cui egli colloca lo sviluppo della pro­toindustria fiorentina finisca per assomiglia­re ad un Eden a cui avrebbe messo fine quel­

la sorta di peccato originale legato al mani­festarsi, verso la fine del secolo, del “ferri­gno concetto di lotta di classe”.

Il rimpianto per il bel tempo andato si ac­compagna così ad una esplicita rivalutazione storica del pensiero e dell’azione dei mode­rati toscani che arriva persino a prendere sul serio l’ideologia scopertamente padronale della “societas” mezzadrile e a guardare con simpatia, sottolineandone l’originalità, alla proposta avanzata dal Lambruschini nel 1871 di dar vita, in Toscana, anche alla “mezzadria industriale” . Cosa di meglio per i gruppi dominanti locali di una realtà nella quale “Non vi era ‘lotta’ di principio tra portatori e datori di lavoro, e le controversie e gli scontri, non frequenti e per lo più non violenti, raramente richiedevano mediazioni esterne all’azienda” (p. 21) e gli operai si “accontentavano” di salari di fame perché — diciamolo — la vita contadina era incom­parabilmente più dura e non c’era molto da scegliere. Cosa di meglio di una società nella quale l’egemonia moderata si dimostrava così potente e pervasiva da spingere alcuni suoi autorevoli esponenti ad incoraggiare e promuovere direttamente l’associazionismo operaio. Come è il caso del principe Tom­maso Corsini che sarà il fondatore e a lungo il presidente della Società di mutuo soccorso tra gli operai di Firenze, o di Antonio Civel- li, il più importante industriale grafico della Toscana, già acclamato nel 1889 presidente del locale Circolo dei tipografi, che conosce­remo come il più deciso fautore della nasci­ta, voluta dagli industriali e avvenuta nel 1893, della locale Camera del lavoro.

La difesa dello status quo e l’indiscussa egemonia politica e culturale che si esprìme in questa politica paternalistica che, al pari del filantropismo caritativo su base rigoro­samente privatistica così tipico del modo nel

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quale i moderati si ponevano di fronte alla cosiddetta questione sociale, appare chiara­mente rivolta all’integrazione, in chiave sub­alterna agli interessi dominanti, del nascente movimento operaio, assurgono qui al ruolo di pensiero progressivo che animerebbe il mutualismo di ispirazione mazziniana, di cui l’autore rivendica quella autonomia sto­rica suscettibile di “un originale sviluppo”, che la storiografia del movimento operaio ha il torto di avergli negato. Del resto di che pasta fossero fatti questi industriali progres­sisti lo si vedrà nel primo dopoguerra quan­do i loro veri interessi saranno messi in di­scussione. Allora, come si ricorda in un si­gnificativo inciso sin troppo fuggevole a proposito della parabola del già citato Crivel­li, il suo passato — come scrisse un agiogra­fo — di “liberale nel vero senso democratico della parola” , “non gli impedirà, secondo un itinerario tipico di industrialisti e pro­gressisti risorgimentali, di dare da senatore il suo sostegno al fascismo” , (pp. 29-30).

Quest’ultima considerazione offre l’op­portunità per affrontare quello che secondo noi va considerato il principale nodo irrisol­to di questo lavoro, e cioè la questione della natura dell’industrialismo toscano e il suo rapporto con l’imperante modello mezzadri­le. Perché se può essere vero che l’Associa­zione industriale rappresenterà “una faccia meno elitaria [...] più largamente rappresen­tativa della imprenditorialità locale” (p. 11) è pur vero che quando non si tratta dei vec­chi nomi dell’aristocrazia fiorentina come i Ginori Lisci, i Cambray-Digny, i Niccolini, siamo in presenza di imprenditori territoria- lizzati (“quale benestante non possedeva al­lora un pezzo di terra?” (p. 15), commenta non a caso l’autore al loro riguardo) che sia­no essi i Pegna, fondatori dell’industria chi­mica locale, i Civelli già ricordati, l’indu­striale della paglia Cesare Conti, e tanti al­tri, i quali non saranno mai dei giacobini an­tiaristocratici ma rimarranno fortemente an­corati ai valori della società rurale e mezza­

drile toscana e ai primati storico culturali di Firenze, tutt’altro che disposti a sacrificarli sull’altare dello sviluppo industriale. Cosa meglio riassume questa spuria natura del­l’imprenditore toscano di quell’atteggiamen­to, segnalato dall’autore, che lo vedrà tenta­re “di conciliare l’industrialismo con il libe­rismo” (p. 184). E cosa meglio delle improv­vise simpatie industrialiste di un personag­gio come Ubaldino Peruzzi, vero simbolo della quintessenza del moderatismo, serve a comprendere un’opzione tattica che, al di là dei discorsi e delle dichiarazioni pubbliche, rientra nella sostanza in quella ben nota po­litica conservatrice del “cambiar tutto per non cambiare niente” , attaccata com’era ai miti del passato e ad una linea di sviluppo della realtà territoriale fiorentina legata al primato artistico e culturale della Firenze “Atene d’Italia” , il cui auspicato sviluppo terziarizzato ed artigianale si pone però in netto contrasto con le esigenze della crescita industriale, minandone le basi, tra l’altro, anche sul terreno della cultura scientifica e della organizzazione degli studi tecnico­scientifici che, a Firenze, non furono allora e sono rimasti a tutt’oggi, e forse non a ca­so, assolutamente carenti.

A ben guardare appare poi quantomai emblematico che la “svolta industrialista” del 1889 veda a capo della neonata Associa­zione industriale proprio uno dei maggiori rappresentanti dell’antica aristocrazia fio­rentina, quell’ “eclettico” marchese Carlo Ginori Lisci, erede della ben nota manifattu­ra di porcellane di Doccia che di lì a poco, nel 1896, quando le nuove condizioni del mercato imporranno un forte impegno per una riconversione produttiva all’azienda, ce­derà — con evidente delusione del nostro autore — la fabbrica proprio dell’antagoni­sta del Nord, la Ceramica Richard, contro cui il padre Lorenzo aveva combattuto per anni in difesa del primato qualitativo dei suoi prodotti. Un episodio che al di là del caso specifico si pone, pur nel contesto dello

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sviluppo industriale del periodo giolittiano, come un segnale non trascurabile di quella progressiva perdita di peso e di quel minor controllo dei toscani e fiorentini sugli inve­stimenti industriali e finanziari regionali che, avviatosi verso la fine del secolo, si consumerà tra i fasti del ruralismo fascista.

Illustrando i meriti di una classe dirigente che, sebbene liberista, non si dimostrò poi — a parere del nostro autore — così chiusa rispetto al problema della industrializzazio­ne se seppe, tra l’altro, partorire dal suo se­no una associazione in qualche modo “ereti­ca” , perché protezionista, ecc., si arriva ad alludere ad una continuità tra ieri ed oggi che risulta comunque tutt’altro che dimo­strata. Quel “variegato reticolo di imprese” che alla vigilia del decollo industriale di fine secolo costituirà “la forza elementare dell’e­conomia fiorentina” , appare in realtà — ca­ratterizzato com’era in buona parte dai mille mestieri e attività artigiane preindustriali de­stinati ad essere spazzati via dallo sviluppo industriale — assai lontano dall’assomiglia- re e dal prefigurare il modello di sviluppo

fondato sulla piccola impresa che si affer­merà in Toscana nel secondo dopoguerra; che farà perno — come è noto — su due presupposti allora inesistenti: sulla sconfitta e sullo sfaldamento del blocco sociale domi­nante, con la fine della mezzadria e la conse^ guente nascita di un significativo mercato di manodopera a basso costo e di modestissime pretese; sulla mutata domanda internaziona­le e la nuova collocazione del nostro paese nella divisione internazionale del lavoro. I successi del “modello toscano di sviluppo” che si è affermato negli anni cinquanta, lun­gi dal riconnettersi ai meriti della locale clas­se dirigente, come si potrebbe essere indotti a supporre leggendo questo volume, appaio­no invece strettamente legati proprio alla sua liquidazione. Alla fine cioè di un domi­nio culturale e materiale che prima con il li­bero scambismo, poi con l’adesione al fasci­smo, aveva sempre cercato ostinatamente di fermare le lancette della storia e con esse l’insopprimibile moto di emancipazione del­le masse popolari.

Domenico Preti

Il cappellano della culturadi Gianpasquale Santomassimo

L’appassionata ricerca di Luisa Mangoni su don Giuseppe De Luca, protagonista ‘som­merso’ e discosto della cultura italiana del Novecento {In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Ei­naudi, 1989, pp. XIII-420, lire 55.000) non vuole essere una biografia; l’intento è quello “di ricostruire una vicenda fatta di intrecci culturali espliciti o sotterranei” , con una narrazione strettamente aderente alle fonti prescelte (articoli, carteggi e produzione dia-

ristica), e che rinuncia volutamente all’uso di testimonianze. È un libro dalla scrittura densa e dalla lettura non facile — anche per­ché la casa Einaudi è purtroppo fuoruscita da tempo dalla civiltà delle note a pié di pa­gina, semplicemente indispensabili per opere di questo tipo — e che non concede molto alle legittime esigenze informative e alle pos­sibili curiosità del lettore meno specialistico (si dà per scontata, quantomeno, la cono­scenza del Don Giuseppe De Luca tra crona­ca e storia di Romana Guarnieri, esauriente

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per la parte biografica, e dei molti contributi apparsi in memoria del personaggio).

Le curiosità a cui alludevamo potrebbero riguardare soprattutto il ruolo ‘politico’ di De Luca, tanto sul versante dei rapporti con il fascismo (esemplificato dal carteggio con Bottai), quanto su quello di ‘consigliere’ ed amico di esponenti democristiani, o su quel ruolo di tramite tra cattolici-comunisti, par­tito comunista e gerarchia cattolica che gli era stato da taluni attribuito. Mangoni ridi­mensiona molto questi aspetti della vicenda di De Luca, o, quantomeno, sembra ritener­li secondari rispetto alla più autentica bio­grafia intellettuale del personaggio, nella quale la ‘politica’ entrava in effetti come elemento molto mediato, e nettamente su­bordinato alla vita religiosa (di qui anche un tono di polemica aperta contro la “tarantola dell’attivismo” della Chiesa di Pio XI e una riluttanza a farsi coinvolgere pienamente, in seguito, nella crociata anticomunista della Chiesa di Pio XII: due pontefici, del resto, sostanzialmente disistimati, e più il secondo del primo, pur nell’obbedienza indiscussa).

La ricerca prende le mosse dai primi anni trenta, quando per la verità la formazione di De Luca si era già compiuta, in termini ori­ginali ormai non suscettibili di grandi svolte: “prete romano”, come con apparente civet­teria ma con sostanziale verità si autodefini­va, De Luca si era nutrito di una rigorosa e severa cultura “inattuale”, che poneva al servizio “dell’intera tradizione della Chiesa di Roma, accogliendo le sollecitazioni del presente, ma respingendo l’idea stessa che esse potessero o dovessero intervenire nel­l’interpretazione e reinterpretazione di que­sta tradizione” (p. X).

Mangoni si muove con l’intento di riper­correre, attraverso De Luca, “più di una sta­gione del cattolicesimo organizzato e istitu­zionale in Italia, ma anche dell’atteggiarsi di strati consistenti della cultura italiana nei confronti di esso” (p. XII); la stagione esplorata con maggiore scavo analitico è co­

munque quella segnata dall’affermazione del regime fascista, che corrisponde ad una fase nuova della cultura cattolica, sebbene ancora nutrita dai fantasmi e dalle ossessio­ni del modernismo, nei confronti del quale De Luca mantenne sempre un atteggiamento di condanna sprezzante e a volte violenta, che forse nasceva, come ha notato Giovanni Miccoli (Ecclesia novantiqua, “L’Indice” , a. VI, novembre 1989, n. 9, pp. 5-6), dalla consapevolezza di un comune nodo irrisol­to, “un’originaria condivisione di esigenze e problemi che andava in qualche modo ri­scattata e cancellata con la perentorietà della negazione e dell’insulto” .

Ma il problema fortemente sentito da De Luca, al contrario di gran parte degli studio­si della sua generazione, non era tanto quel­lo di comprendere le trasformazioni della società negli ultimi due secoli, quanto di rie­vocare e valutare quel che l’umanità aveva perduto in termini di spiritualità e religiosi­tà. Di qui, all’interno della cultura cattolica fra le due guerre, quella sua “originalità tan­to più interessante quanto più s’affanna[va] in un onestamente ostentato [...] tradiziona­lismo o estremismo” (come notava Toffanin in una lettera del marzo 1931).

Di qui una rilettura dell’Ottocento, inin­terrotta e a tratti quasi ossessiva, che era di segno decisamente opposto non solo a quel­la della grande cultura laica, ma anche del cattolicesimo liberale, che a partire dal dete­stato Manzoni aveva teso a un adattamento della Chiesa al proprio tempo, anziché per­seguire il contrario, contaminando e monda- nizzando una spiritualità che avrebbe dovu­to fondarsi su valori immutabili ed eterni. Una posizione, come si vede, che avrebbe potuto facilmente riecheggiare gli echi estre­mi della reazione cattolica alla “modernità” (e i grandi reazionari dell’Ottocento france­se entravano in effetti a pieno titolo nella formazione più personale e autonoma di De Luca, con una rilettura originale), ma che fortunatamente virava verso un progetto

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culturale di smisurata ambizione e lungimi­ranza anziché verso una trincea di resistenza politica, grazie alla scelta dell’erudizione co­me terreno privilegiato e fondamentale di espressione e anche, sebbene possa apparire una contraddizione in termini, di interpreta­zione. La ‘restaurazione’ cattolica nella so­cietà europea — credo si debba usare questo termine, anziché ‘rinascita’, perché è l’unico appropriato — che De Luca riteneva neces­saria andava condotta riscoprendo e, ap­punto, restaurando tutti i fenomeni e i valo­ri religiosi accantonati, rimossi o negati da una tradizione ‘laica’ ormai divenuta auto­glorificazione di se stessa: tanto nell’Uma­nesimo (di qui le consonanze con il già cita­to Toffanin), quanto, soprattutto, nell’Ot­tocento.

Qui andavano riscoperte le vene occultate di ‘pietas’ esplicita e, soprattutto, implicita, che potevano manifestarsi anche sul terreno dell’ ‘empietà’, che era la sua faccia specula­re, “sentimento dell’assenza di Dio e non della sua sostituzione” . I protagonisti “ma­ledetti” del secolo precedente parlavano al cuore del credente assai più che lo sterile cattolicesimo borghese pacificato col mon­do, e i Nietzsche e i Tolstoj erano stati il ve­ro contraltare di Voltaire, avevano corroso alle radici le impalcature del pensiero otto­centesco, si erano posti quale “punto di par­tenza di una cultura che dalla insopprimibi- lità dell’esperienza religiosa prendeva co­munque le mosse” (p. 137).

Questa restauratici ad integrum della fede doveva fondarsi in primo luogo su un pro­getto culturale ad ampio raggio della Chiesa e del mondo cattolico, e per De Luca era proprio su questo terreno che la “rinascita cattolica” in atto mostrava la corda; essa sembrava “come fondarsi sul nulla, ignara del suo lungo passato, misconosciuto non solo dai laici ma anche dai cattolici stessi” (p. 30). De Luca nelle sue lettere e nei suoi appunti conduceva una analisi decisamente anticonformista del mondo cattolico, disso­

nante rispetto all’immagine che in seguito i protagonisti di quella vicenda hanno elabo­rato e consegnato alla storiografia. Notava la povertà di uomini capaci di un’articolata iniziativa culturale rispetto alla sovrabbon­danza di spirito organizzativo propria del mondo cattolico nel periodo a cavallo del Concordato: il gruppo milanese di Gemelli, legato a una “cultura di fine secolo”, segna­ta dalla lotta al positivismo e al socialismo, e che con la scelta del medievalismo ad ol­tranza si precludeva la possibilità di rintrac­ciare la ‘pietas’ dei secoli ‘annessi’ dalla cul­tura laica; i giovani fiorentini del “Fronte­spizio” (particolarmente vicini a De Luca nei primi anni trenta), raccolti attorno ai più anziani Papini e Giuliotti, le imprese edito­riali bresciane collegate alla Morcelliana, di­vise tra gli influssi di De Luca e di Montini, e poi i giovani fucini che crescevano sotto la tutela di Montini e Righetti.

Come nota l’autrice, era “di per sé signifi­cativo, [...] che i due centri più attivi, Mila­no e Firenze, avessero come animatori dei convertiti, formatisi culturalmente al di fuo­ri del mondo cattolico: la campagna antimo­dernista aveva prodotto guasti irreparabili fra gli intellettuali, coloro che il moderni­smo aveva maggiormente animato e coinvol­to” (p. 6); di qui il delinearsi di quella che a De Luca pareva una “generazione di stranie­ri” , per l’eccessiva sudditanza della cultura cattolica italiana a modelli esterni, soprat­tutto francesi (p. 155). Era invece il momen­to adatto (e irripetibile) per la creazione di una cultura autonoma, grazie all’occasione offerta ai cattolici dalla fine della questione romana e dal consolidarsi del regime fasci­sta. Si poneva finalmente fine alla scissione fra tradizione cattolica e tradizione italiana, e, soprattutto, si modificava fino a venir meno quella “atmosfera laica” che aveva dominato nel secolo precedente.

De Luca non nascondeva di essere netta­mente contrario alle ideologie democratiche, e aggiungeva, in una lettera a Papini del 13

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gennaio 1931: “se potessi e dovessi pencola­re da una parte, sarebbe certo verso alcune concezioni mussoliniane di politica sia inter­na che estera” (p. 67); ma dopo il Concor­dato non era più necessario prendere posi­zione, perché i problemi di collocazione del­la Chiesa erano risolti, e non c’era alcun bi­sogno di un intervento direttamente politico o partitico. Malgrado questo assunto, nel corso degli anni trenta (ma anche oltre, fino ai primi anni della guerra), si accentuava il filomussolinismo di De Luca, con il contor­no sgradevole di volgarità nei confronti de­gli ex-popolari (“E mai come in questi giorni sento la fierezza di essere italiano: mentre tutti codesti sgóccioli politici del pipì ancora non vedono”). Era “dovere strettissimo” dei cattolici coadiuvare l’opera di Mussolini, che era riuscito a portare “un popolo di lat­tughe” ai fasti di “uno splendore perduto” (De Luca a Minelli, 17 marzo 1933): “Siamo forse a un momento in cui il pensiero e l’arte dei cattolici possono avere una miracolosa efficacia in Italia, perché Mussolini è orien­tato verso di noi. Sapesse quant’io prego per Mussolini” (De Luca a Papini, 15 maggio 1933). Anche il suo sentimento antiborghese si inaspriva progressivamente, con una inne­gabile coincidenza, stranamente non sottoli­neata da Mangoni, con la “campagna anti­borghese” del fascismo.

Poco si dice del rapporto con Bottai negli anni della seconda guerra mondiale, già no­to attraverso anticipazioni di Renzo De Feli­ce e precedenti studi della stessa Mangoni (ma vedi ora il Carteggio 1940-1957, di Giu­seppe Bottai e don Giuseppe De Luca, a cu­ra di Renzo De Felice e Renato Moro, Ro­ma, Edizioni di storia e letteratura, 1990, pp. 330, lire 70.000).

Più nuova, anche se meno rilevante nella biografia di De Luca, la puntualizzazione relativa al suo rapporto con Croce, nutrito di ammirazione intellettuale e di diffidenza teorica (“l’ultimo Croce dei frammenti di etica mi piace un mondo, e mi giova — pare

incredibile — come a cristiano e a prete. Gentile, no — scriveva a Papini il 17 marzo 1931 —. [...] Solo, non vedo perché lei lo continui a credere un nemico pericoloso. Mi pare altrimenti pericoloso Croce. [...] Cri­sto, per lui, non par che esista e sia mai esi­stito! Questo è pauroso. Discepoli di Genti­le, son tornati; di Croce, non so”).

Croce restava comunque un termine di ri­ferimento imprescindibile, in positivo e in negativo; e in De Luca, come in Gramsci, maturava non a caso negli anni trenta l’am­bizione di dar vita a un Anti-Croce, non co­me opera autonoma, ma come progetto complessivo sul terreno dell’organizzazione della cultura e della ricerca storica (il “Giu­dizio” avrebbe dovuto essere nei sogni di De Luca il corrispettivo cattolico della “Criti­ca” crociana, impresa poi realizzata in realtà attraverso la propria attività editoriale, che Mangoni definisce felicemente “casa editrice come rivista”).

Giungiamo così alla parte più duratura e non effimera della vicenda culturale di don De Luca, quella segnata dalla fondazione e dallo sviluppo delle Edizioni di storia e lette­ratura e dal varo della grande impresa dell’ “Archivio italiano per la storia della pietà”: la prima una casa editrice coraggio­sa, rigorosa e disinteressata, che pubblicò le voci più affermate dell’alta cultura europea e offrì a giovani studiosi un’occasione altri­menti impensabile di pubblicare al di fuori delle logiche di mercato; la seconda l’impre­sa intellettuale di tutta una vita, verso la quale convergevano da sempre i cento rivoli della dissipazione culturale del prete lucano. Non so dire se vi sia un’enfasi eccessiva nel definirla, come fa Mangoni, “un’altra storia d’Europa” , ma indubbiamente essa era sto­ria altra rispetto a quella della cultura uffi­ciale di ascendenza idealistica o tardopositi- vistica, storia che recuperava campi e ambiti di storia ‘popolare’ preclusi alla ricerca e al­la sensibilità del recente passato storiografi- co. Ed era, insieme,- significativo e parados­

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sale che in questa impresa De Luca registras­se consensi e collaborazioni di studiosi ‘laici’ (per tutti il nome di Carlo Dionisotti, del quale è anche opportuno rileggere il profilo di De Luca pubblicato nel 1973 presso le stesse Edizioni di storia e letteratura che lo avevano visto tra i primi collaboratori) ac­canto alla freddezza se non al fastidio della Chiesa di Pio XII, che guardava a lui quasi come a un disertore dalla “battaglia del giorno”, ossia la lotta al comuniSmo ateo. Anche De Luca per la verità partecipava, sia pure in posizione defilata, a questa battaglia (e in seguito si opponeva alla “svolta a sini­stra” della Democrazia cristiana di Aldo Moro), ma riusciva a cogliere, su un terreno religioso, implicazioni precluse alla sensibili­tà ‘politica’ della gerarchia: “Il comuniSmo è più che un partito, è una religione. Una re­ligione, non la si combatte né con l’irreligio­ne né con la violenza, così anzi la si fa riar­dere più potentemente. Ma il comuniSmo è anche un partito e una politica, che non si spaventa né delle prove né della violenza. Bisogna scindere tra i due elementi: la forza religiosa dell’idea, la forza politica di chi questa idea ha monopolizzato. Questa biso­gnerebbe isolare e abbattere, nell’interesse stesso delle idee eccellenti, anzi ammirabili, che bisogna riconoscere nella predicazione comunista [...] Il comuniSmo ha imposto al mondo una politica, non più locale, ma mondiale. Le borghesie nazionali, irreligio­se, corrotte, lussuriose e crudeli, si ritrovano all’improvviso a fronte della concezione se­vera, anzi tragica della vita umana” (da un appunto del 21 aprile 1947 per il cardinale Brennan).

“Religiosità” senza religione quella dei

comunisti, “religione” esteriore senza alcu­na religiosità autentica quella delVestabli- shment borghese-cattolico dominante in Ita­lia: era questo uno degli spunti che emerge­vano nella riflessione di De Luca nel corso degli anni cinquanta.

Con Giovanni XXIII le cose cambiavano, e giungevano anche i primi, sospiratissimi, riconoscimenti ufficiali per l’operato di De Luca. Benché la scomparsa prematura del personaggio (assistito dallo stesso pontefice) impedisca ovviamente di trarre dalle sue car­te un bilancio compiuto e sereno di quel pontificato, Mangoni utilizza con grande acutezza gli spunti interpretativi, di innega­bile suggestione, presenti su quella svolta della Chiesa, che De Luca delineava in coe­renza con i propri antichi desideri ma, per la verità, senza grandi forzature, come l’auspi­cata “restaurazione” della Chiesa.

Restaurazione significava abbandono del terreno dell’agitazione e della competizione direttamente politica, della contaminazione con gli interessi dominanti, riscoperta e riap­propriazione della dimensione integralmente religiosa che, nell’ottica di De Luca, era an­che l’unica che consentisse una libera parte­cipazione politica del cattolico (al singola­re): compito che la personalità del pontefice, uomo della Chiesa di un tempo lontano, era la più indicata a promuovere. Era una lettu­ra del pontificato giovanneo ancora una vol­ta, per linguaggio e mentalità, dissonante ri­spetto alle idee correnti della cultura ‘laica’ dell’epoca, ma che a distanza di trent’anni appare molto più vicina al vero di tante in­terpretazioni dei contemporanei.

Gianpasquale Santomassimo

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Bismarck e il suo banchieredi Giampaolo Pisu

Nel saggio L ’ascesa della Germania a grande potenza, Milano, Ricciardi, 1971, Helmut Bohme annunciava in una nota l’imminente pubblicazione di uno studio sul più ricco uo­mo di Berlino e forse della Germania della seconda metà dell’Ottocento, il banchiere ebreo Gerson Bleichroder, proprietario della più grande banca privata tedesca.

In realtà, a seguito del ritrovamento del­l’Archivio Bleichroder a New York, il com­pito di scrivere la storia della Banca Blei­chroder e delle vicende politico-sociali, in­terne e internazionali, della Germania bi- smarckiana, venne assunto, per il primo aspetto, da Davide Landes e per il secondo da Fritz Stern, la cui opera viene ora pubbli­cata in Italia da Mondadori nell’agile e scor­revole traduzione di Giuseppina Panzieri Saija e Davide Panzeri (L ’oro del Reich. Bi­smarck e i suoi banchieri, Milano, Monda- dori, 1989, pp. 761, lire 47.000). Come è no­to, alle intraprese della Banca Bleichroder, Landes ha dedicato solo alcuni finissimi sag­gi, ma non ci ha ancora dato, per quanto è a conoscenza di chi scrive, la storia completa di essa. Nella nostra lingua, della ricerca di Landes, si è letto tempo fa un saggio su / Bleichroder e i Rotschild: il problema della continuità nell’azienda famigliare (in Aa.Vv., Studi sulla famiglia e l’impresa, To­rino, Einaudi) nel quale lo storico america­no, tracciando un ritratto in parallelo delle due dinastie, i Bleichroder e i Rotschild, ad­ditava nei secondi un esempio inimitabile di coesione e di continuità negli affari e nei rapporti sociali, un vivo senso della famiglia e una orgogliosa superiorità nei confronti del potere, e nei primi l’esempio opposto.

Landes condannava severamente il com­portamento dei Bleichroder per il progressi­vo smarrimento del senso della propria ori­gine e della propria identità: la ricchezza te­

nacemente accumulata e considerata come valore supremo di accesso ai ranghi sociali più alti e come motivo di riconoscimento della propria personalità, aveva fatto perde­re ai Bleichroder la consapevolezza della ap­partenenza alla propria razza e ad una co­munità diversa da quella dei gentili.

Con gli studi di Landes e ora con questo affascinante e appassionato saggio di Stern, la figura umana di Gerson Bleichroder riac­quista tutta la sua dimensione di protagoni­sta nelle vicende economico-sociali, culturali e politiche, interne e internazionali, della so­cietà tedesca dell’Ottocento, uscendo final­mente da un oblio nel quale preconcetti raz­ziali e atteggiamenti storiografici poco incli­ni a scrutare l’operare quotidiano degli indi­vidui l’avevano relegata. E il primo a tentare questa operazione di occultamento dei rap­porti di Gerson Bleichroder con le personali­tà più eminenti dell’aristocrazia tedesca, è stato proprio colui che per trent’anni man­tenne un quotidiano e continuo dialogo con il banchiere Bleichroder, cioè Bismarck.

Il saggio di Stern è infatti la ricostruzione minuziosa e puntuale di questo rapporto, le cui parti, provenienti da realtà e ambienti diversi, quasi si completano e armonizzano in una leale collaborazione di scambi reci­proci, di favori, di interessi, legati al mondo della finanza, del potere, della politica inter­na e internazionale. Si tratta però di un rap­porto voluto e vissuto da ottiche e prospetti­ve diverse, e per di più situato in un contesto socio-culturale profondamente intriso di at­teggiamenti e fermenti culturali antisemiti, che, ad ogni momento, sembrano metterne in discussione l’esistenza. Se Bismarck lo va­luta dall’ottica della fredda politica e della brutale necessità dei servizi che una grande banca può rendere al potere statale e suo personale, Bleichroder assapora e vive la

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quotidiana frequentazione dell’uomo più potente della Germania con l’animo teso al riconoscimento e alla completa assimilazio­ne di sé nel mondo dei gentili.

Il banchiere Bleichròder, nell’arco di una vita durata più di ottant’anni, vive fino al­l’estremo questa “angoscia dell’assimilazio­ne”, mai completamente realizzatasi nella gerarchica società tedesca. Penetrando con sottile e palpabile analisi nella psicologia tormentata e irrequieta di Bleichròder, Stern conduce il lettore a scrutare e a tocca­re con mano l’operare dei due uomini in una società profondamente cambiata dal­l’introduzione di forme avanzate di struttu­re capitalistiche e nello stesso tempo ancora tenacemente attaccata a forme preindustria­li di rapporti produttivi e a valori etico-so­ciali di stampo medioevale. Ed è proprio a questi aspetti ormai divenuti anacronistici ma fortemente coltivati dalla società tedesca che si rivolge, per ottenere il riconoscimento di sé, la complessa personalità di Bleichrò­der, quant’altre mai dotata di rara predi­sposizione naturale a far propria la raffina­ta tecnica delle operazioni finanziarie e a padroneggiare i mille rivoli dell’andamento dei prestiti bancari, come ben sapeva Marx. Mentre, per altro verso, la mentalità aristo­cratica e conservatrice di Bismarck si viene nutrendo e orientando verso il mondo del denaro e della moderna società industriale della quale il banchiere ebreo gli svela mec­canismi e principi di funzionamento. Sicché in questo incontro di potere e finanza, di nobiltà e borghesia, di mondo agrario e mondo industriale, il consigliere finanziario di Bismarck facilita efficacemente, come scrive Stern, la sopravvivenza di un ordine sociale precapitalistico. Ma, anche qui, con una diversa ottica prospettica da parte di Bleichròder e Bismark: se quel mondo intri­so di valori etico-sociali sorpassati e pervaso da profonde trasformazioni in senso capita­listico, specie nel settore delle imprese e del­la organizzazione bancaria, accoglieva e fa­

ceva convivere insieme ideali e forme orga­nizzative del passato in quanto le riconosce­va come risultato naturale di trasformazioni avvenute al suo interno, non per questo era disposto ad accogliere e a riconoscere come risultato di un analogo naturale processo di assimilazione chi, pur avendo contribuito a formarlo e a determinarlo, considerava per tanti versi estraneo a quell’ethos e a quella comunità.

La non ammissibilità alla comunità dei gentili, pur tra tante onorificenze che essa gli conferisce per i suoi servizi decisivi in momenti di particolare crisi delle vicende e degli affari della politica tedesca e di quella di Bismarck in primo luogo, costituisce un dato inesplicabile e incomprensibile per Ger- son Bleichròder, ma il suo rifiuto di valutare razionalmente l’atteggiamento chiuso ed esclusivista della società tedesca comporterà momenti drammatici e irrisolte tensioni nel­la sua determinata e sofferta aspirazione a far parte di quella comunità.

Quel rapporto e quella frequentazione tra Bleichròder e Bismarck alla fine rivelano non solo la fragilità e la diversità delle ri­spettive motivazioni ma sono anche la spia di un sistema, di un mondo e di una società meno ordinati e più instabili di quanto si creda. In questo ampio e vasto mondo euro­peo e mondiale, Stern ripercorre l’azione fi­nanziaria di Bleichròder, e la sua fama e fi­gura di banchiere internazionale ne risaltano in tutta la loro importanza e nettezza. Non mancando di sottolineare, infatti, le opera­zioni a cui prese parte, dalla raccolta di fon­di per la sistemazione dell’indennità di guer­ra dovuta dalla Francia alla Prussia, agli in­vestimenti in Russia, in Turchia, in Egitto, in Italia e soprattutto in Romania e di indi­care i settori di intervento, e dedicando in particolare pagine di squisita sensibilità alla condizione degli ebrei in Germania, alla cul­tura antisemitica e al crescere, rafforzarsi, organizzarsi di forze decisamente orientate a condurre a fondo la lotta agli ebrei.

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Nel quadro di queste vicende, la persona­lità di Bleichròder, pur avendo costituito in vari momenti un punto di riferimento per l’assistenza e l’aiuto dati agli ebrei persegui­tati, si avvia ancora di più a smarrire la propria consapevolezza di appartenenza ad un altro mondo e a perdere quasi compieta- mente la capacità di cogliere le condizioni storiche della sua vita. Sicché l’ambivalenza e l’insicurezza che avevano caratterizzato 1’esistenza operosa di Bleichròder nella so­cietà tedesca sono ancor più rese opache e

tristi dalla polemica libellista antisemita, si­no al punto da apparire ormai espressione concreta di “cittadini senza patria” . Così la sua fine, non segnata dall’accettazione nel mondo dei gentili, e quella della sua azien­da, avviata a inarrestabile decadenza per dissipazione e indolenza dei suoi eredi, ric­chi ma privi di considerazione di sé, prean­nunciavano una tragedia destinata a ripeter­si in forme più alte e drammatiche in un tempo a noi più vicino.

Giampaolo Pisu

Diario di un collaborazionistadi Guido Valabrega

La recente pubblicazione di Adam Czernia- ków, Diario (1939-1942). Il dramma del ghetto di Varsavia (Roma, Città Nuova, 1989, pp. 385, lire 28.000), mette a disposi­zione il testo degli appunti che Adam Czer- niaków, preposto dalle forze di occupazione germanica a capo del Consiglio ebraico (Ju- denrat) di Varsavia, scrisse tra il settembre 1939, allorché fu designato per quella tragica incombenza, ed il 23 luglio 1942, giorno in cui si suicidò dopo aver ricevuto l’ordine di preparare per il campo di sterminio i primi novemila delle centinaia di migliaia di ebrei rinchiusi nel ghetto della capitale polacca.

Per quanto scritte in maniera allusiva e sintetica, si tratta di annotazioni di grande interesse storico giacché recano una testimo­nianza diretta dal vertice di quell’ammini- strazione-fantoccio e delineano i problemi gravissimi, insolubili di fronte ai quali quo­tidianamente si trovava, i criteri burocratici ai quali pure faceva riferimento, i rapporti tra le autorità tedesche (i padroni) ed i servi strumentalmente sfruttati come una sorta di

paravento, di interposta persona rispetto al­la massa di infelici concentrata nel quartiere ebraico. Sono altresì recate notizie ed indi­cazioni su molti esponenti dello stesso Ju- denrat e, in genere, su numerosi maggiorenti israeliti.

Su questi punti, quale importante integra­zione della biografia e della carriera dello stesso Czerniaków (ed a conferma d’una continuità nel gruppo dirigente ebraico e della non casualità della successiva scelta del capo del Judenrat) è da ricordare subito co­me nel momento dello sfascio dell’ammini­strazione pubblica a Varsavia, a metà del settembre 1939, e dopo la fuga dalla città di molti esponenti israeliti, si costituì un Comi­tato ebraico di emergenza, di cui il Czernia­ków era autorevole componente. Tanto è ve­ro che il sindaco della capitale polacca lo nominerà presidente della Comunità: è in ta­le veste che il 4 ottobre venne fermato dagli occupanti tedeschi ed incaricato di scegliere 24 persone per un nuovo Consiglio della Co­munità (cfr. pp. 34-39).

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L’elemento di maggiore importanza di questa pubblicazione, dunque, non concer­ne, a nostro avviso, i dati sulla persecuzione degli ebrei varsaviesi e di altri centri polac­chi colà rinchiusi: di essa infatti moltissimo si sa grazie a svariate fonti, documentazioni e testimonianze. In proposito sia consentito ricordare almeno gli archivi clandestini del ghetto organizzati dallo storico Emmanuel Ringelblum e reperiti dopo la guerra: del Ringelblum, anch’egli vittima dello stermi­nio, fu pubblicata una raccolta di osserva­zioni storico-biografiche che resta probabil­mente la più seria ed illuminante deposizio­ne su quegli anni di martirio: si veda la re­censione di Notes from the Warsaw Ghetto (“Il Movimento di Liberazione in Italia”, lu­glio-settembre 1959, n. 56), un libro che venne stampato in Italia da Mondadori nel 1962 con il titolo Sepolti a Varsavia.

Piuttosto, anche secondo l’accentuazione contenuta nella nota all’edizione italiana del volume di Ringelblum, il contributo di mag­giore rilievo questo Diario lo reca alla di­scussione ingrata e pur necessaria e da molti anni in corso circa il senso dell’apporto delle istituzioni amministrative ebraiche impian­tate dai nazisti al controllo, allo sfruttamen­to ed all’eliminazione fisica degli ammini­strati. Sorti dunque per permettere la gestio­ne più ordinata e metodica d’un processo di depauperamento disumano e feroce, gli Ju- denrat e la problematica ad essi connessa in­ducono ad approfondire un capitolo signifi­cativo del collaborazionismo ebraico: in che cosa consistette, se le responsabilità furono univoche o meno, se vi erano eventualmente alternative e quali.

S’accennava ad un dibattito. Proprio per meglio inquadrare il contributo conoscitivo recato dai diari di Czerniaków giova ricor­dare che tale confronto d’idee ha due risvol­ti fondamentali: per un verso è essenzial­mente storico-scientifico, per un altro è poli­tico e si riferisce alle conseguenze ideologi­che e concrete che possono derivare dalla

constatazione del cedimento durante la se­conda guerra mondiale di larga parte dei di­rigenti israeliti o quanto meno della loro in­capacità a valutare l’evolversi delle situazio­ni pur trovandosi a disporre di dati ed infor­mazioni di prima mano. È comunque noto che specie dopo il 1967 in Israele v’è una tendenza diffusa a ridimensionare le respon­sabilità dei capi ebrei durante la persecuzio­ne in Europa con la trasparente finalità d’e­vitare il radicalizzarsi d’una critica che po­trebbe puntare ad un ripensamento della po­litica dei responsabili del movimento sioni­stico di ieri e di settori dei ceti dirigenti israeliani di oggi: si veda in proposito l’in­tervento sintomaticamente contradditorio pronunciato nell’aprile scorso a Tel-Aviv da Yehuda Bauer del Centro internazionale di studi sull’antisemitismo in occasione del­l’anniversario dello sterminio.

Lasciando da parte in questa sede la que­stione dei collaborazionisti ebrei in senso proprio, che come delatori, spie, manuten­goli della Gestapo e banditi non furono po­chi neanche a Varsavia, è evidente che per il Czerniaków si tratta d’un altro genere di collaborazionismo, analogo in modo im­pressionante, ad esempio, a quello dell’inge- gner Efraim Barash, capo dello Judenrat di Bialystok (al riguardo, di grande rilevanza è l’opera curata da Nachman Blumenthal, Conduct and actions o f a Judenrat, Gerusa­lemme, Edizioni Yad Vashan, 1962, che rac­coglie molti protocolli originari e ordinanze del Consiglio ebraico di quella città tra il 1941 e il 1943.

Da tale documentazione emerge come il Barash ed i suoi colleghi si fossero illusi che nella dimostrazione delle capacità imprendi­toriali e di lavoro degli ebrei consistesse l’u­nica garanzia della salvezza: la convenienza derivante dalla produttività delle fabbriche del ghetto avrebbe, cioè, indotto i tedeschi a procrastinare lo sterminio sino alla libera­zione. Da ciò lo sforzo dei dirigenti ebrei di Bialystok per istituire rapporti intensi con i

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settori dell’amministrazione germanica inca­ricati dello sfruttamento del lavoro, sino al­l’organizzazione d’una mostra dei prodotti dell’attività economica ebraica, l’impegno a far funzionare le aziende a qualsiasi costo, il conferimento di ogni proprietà ebraica agli occupanti tedeschi, la coercizione per im­porre ai lavoratori il massimo rendimento con un supersfruttamento senza limiti, la di­sponibilità a non fare nulla per impedire che la macchina nazista eliminasse gli elementi deboli, malati, improduttivi.

Del pari a Varsavia, nel cui Judenrat sva­riati erano i rappresentanti delle associazioni industriali ed artigiane (ricordiamo l’avvo­cato Lucjan Alberg, presidente del Consi­glio per l’industria, il proprietario d’azienda Abraham Gepner, presidente dell’Associa­zione dei commercianti ebrei, Edward Ko- bryner, già giudice della Camera di commer­cio, il rappresentante degli artigiani ebrei, Leopold Kupczykier, padrone d’una fabbri­ca dolciaria, l’ingegner Abraham Sztolc- man, già segretario dell’Unione dei commer­cianti ebrei di Varsavia, Samuel Winter, commerciante in granaglie) e dove, tra gli al­tri, l’industriale tedesco Walter Toebbens trasse guadagni enormi, non diverso era il miraggio. Ad esempio, così testimonia il Czerniaków in data 10 ottobre 1941: “La mattina in Comunità. Poi nelle officine in via Prosta. Discorso con l’imprenditore Toebbens e con il dott. Lautz [direttore d’u­na fabbrica di spazzole], Toebbens domina sulle officine, ha introdotto la disciplina. Entrambi desiderano che il Consiglio ebrai­co badi agli operai (alimentazione, carbone, scarpe, bagni ecc.) dato che il salario pagato non copre le esigenze” (p. 257).

Con i sistemi che qui si intravedono, no­nostante il dilagare della miseria, delle ma­lattie e degli indescrivibili disagi, il capo del­lo Judenrat di Varsavia può annotare T11 luglio 1942: “A dicembre del 1941 l’esporta­zione [di prodotti ebraici per l’amministra­zione tedesca fuori dal ghetto] arriva a due

milioni di zloti. A giugno [del 1942] a 12 mi­lioni di zloti” (p. 355).

In queste scelte di sfruttamento ad oltran­za Czerniaków giunse al punto, dopo che i tedeschi in pieno inverno avevano fatto spie­tatamente requisire tutte le pellicce, di deci­dere l’ulteriore fornitura di 1500 giacche di montone in cambio della liberazione dal car­cere del ghetto di circa 200 prigionieri, mi­nacciati di pena capitale: fu una scelta per la quale “bisognerà lottare e sputare sangue” (p. 293). Ma fu pure una deliberazione viva­cemente contestata nei circoli della resisten­za clandestina: ed anche di queste valutazio­ni critiche che provengono da ambienti dello stesso ghetto, singolarmente lungimiranti stante l’inutilità conclusiva del divisamente produttivistico, occorre tenere conto per un giudizio sullo Judenrat ed il suo capo. Sulla questione specifica così interveniva il foglio clandestino del Bund (partito socialista non sionista) “Der Vekker” (“La Sveglia”) il 18 gennaio 1942 sotto il titolo “Lo Judenrat di Varsavia compra giacche di pelliccia”: “Comprare delle giacche di pelliccia per i te­deschi significa armare i soldati tedeschi. E10 si fa volontariamente. In piena guerra to­tale, mentre Hitler e Goebbels annunziano che prima di perdere la guerra debbono ster­minare il popolo ebreo, in un simile periodo11 sentimento deve scomparire davanti al ra­gionamento politico. Lo Judenrat salverà forse duecento ebrei, ma al tempo stesso compra per i tedeschi armi per mezzo delle quali saranno forse sterminate duemila per­sone. Questo è un crimine politico anche se le intenzioni sono le migliori” (in Piero Mal­vezzi, Le voci del ghetto di Varsavia 1941- 1942, Bari, Laterza, 1970, p. 325).

In altre parole, accanto a capi di Judenrat avventurieri, profittatori o megalomani co­me Monik (Moshe) Merin a Zaglembia in Alta Slesia o Mordechai Chaim Rumkowski a Lodz, accanto ad esponenti ebrei filo-nazi­sti di antica data come Manfred Reifer di Cernovzy, troviamo un buon numero di pre­

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sidenti di formazione liberal-conservatrice come appunto Czerniaków, Barash e poi Adolf Rothfeld a Lvov, Gens a Vilna, Elkes a Kaunas, burbanzosi, ultramoderati e fau­tori da sempre, addirittura sotto il profilo professionale, del principio del rispetto del­l’autorità, dell’efficienza, dell’ordine e della disciplina. Costoro, al livello delle vicissitu­dini degli ebrei, magari illudendosi da prin­cipio di cogliere un’occasione di affermazio­ne personale, si ritrovarono immersi nell’im­mane catastrofe comportandosi nel medesi­mo modo miope, meschino ed incapace che contraddistinse larga parte dei ceti dirigenti della Polonia, dei paesi baltici, della Roma­nia ecc., corresponsabili — quanto meno per la colossale imprevidenza — della rovina dei loro paesi.

Non è un caso quindi, ma corrisponde ad una precisa ispirazione politica se due tra i peggiori provvedimenti del Czernia­ków furono il sistema di tassazione fondato sul criterio del “trattamento uguale per tut­ti” ovvero sulla tassazione indiretta pagata allo stesso modo dai ricchi e dai poveri, nel pieno rispetto — pur all’interno delle mura del ghetto — del principio della libera ini­ziativa, e l’istituzione d’una politica ebrai­ca che rapidamente rivaleggiò in brutalità e soverchierie con nazisti ed agenti po­lacchi.

In rapporto con queste ultime problemati­che, tra le molte figure di collaboratori che circondano Czerniaków, è forse il caso di dedicare qualche parola a due tra i più noti. L’uno è l’ingegner Marek Lichtenbaum, vi­cepresidente dello Judenrat, che subentrerà a Czerniaków dopo il suicidio, e che si as­sunse insieme ai due figli l’impresa della co­struzione dei muri perimetrali del ghetto. Fu un affare che destò echi assai ostili tra la po­polazione tanto che il Czerniaków si vide co­stretto ad istituire una commissione per veri­

ficare la situazione finanziaria della Comu­nità: uno dei suoi componenti, lo storico Ignacy Schiper, doveva presto rivelare che sotto il profilo economico era impossibile descrivere la confusione della situazione che si era trovato di fronte, ma che, in sintesi, era lecito concludere che “i soldi della Co­munità erano stati sprecati ed i suoi beni sperperati” (cfr. la testimonianza di M. Len- ski nel suo libro, La vita degli ebrei nel ghet­to di Varsavia, Gerusalemme, Edizioni della Shoà, s.d., pp. 66-67).

L’altro personaggio su cui è opportuno ri­chiamare l’attenzione è il colonnello Jozef Andrzej Szerynski, un ebreo convertito, già alto funzionario presso i comandi della poli­zia della capitale e di Lublino, che fu incari­cato di organizzare e dirigere nel ghetto il Servizio d’ordine ebraico (Ordnung Dienst). Indubbiamente larga parte della colpa di avere fatto di tale corpo paramilitare uno strumento di violenza e rapacità odiato e te­muto dall’intera popolazione, ricade preci­samente su di lui. Arrestato per un traffico di pellicce, rimase vari mesi in carcere nono­stante l’intenso impegno del Czerniaków per la sua liberazione. Tornato al proprio posto, restò ferito nell’agosto 1942 ad opera d’un attacco della resistenza partigiana del ghetto e si suiciderà nel gennaio 1943. La resistenza condannò a morte pure il suo successore, l’avvocato Jacub Lejkin, giustiziato nell’ot­tobre 1942.

In definitiva, nonostante le numerose om­bre che si sono in parte cercate di rievocare, anche se di scorcio, complessivamente è for­se accettabile il giudizio conclusivo che del capo del Judenrat di Varsavia dà il prefatore Israel Gutman: “era un uomo dai buoni propositi” . Ma si sa che le vie dell’inferno sono lastricate proprio di buoni propositi.

Guido Valabrega

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Italia repubblicana

Fausto Vicarelli, L a q u e s t io ­n e e c o n o m ic a n e lla so c ie tà i ta ­lian a . A n a l is i e p r o p o s te , Bolo­gna, Il Mulino, 1987, pp. 412, lire 40.000.

Il volume raccoglie saggi scientifici e scritti divulgativi pubblicati da Vicarelli — uno dei pochi economisti italiani au­tenticamente “keynesiani” — a partire dalla seconda metà degli anni settanta, secondo un pro­getto delineato dallo stesso au­tore poco prima della sua pre­matura scomparsa, nel 1986. Un primo blocco di scritti af­fronta la questione della crisi at­traversata dalle economie indu­striali occidentali negli anni set­tanta, strette tra stagnazione e inflazione del periodo post­shock petrolifero. Su tale tema — insistendo sulla centralità ri­vestita dalla crisi di accumula­zione del capitale “in un mo­mento storico in cui si presenta­va indispensabile per permettere alla struttura industriale di ri­spondere in termini di efficienza produttiva agli shocks esterni che andava subendo” — appro­priata si conferma la critica di Vicarelli alle teorie che indivi­duano nei meccanismi di ade­guamento automatico del livello dei salari (la “scala mobile”) la fonte primaria di accelerazione del trend inflazionistico; in real­tà Vicarelli dimostra come essa abbia anzi svolto nel corso della crisi una funzione di “pavimen­to” nei confronti della caduta della domanda aggregata indot­ta dall’adozione di politiche economiche restrittive: politiche assai sterili in relazione al conte­nimento dei prezzi, e purtroppo

molto efficaci nell’abbassare il livello dell’attività produttiva. In tale contesto, infatti, la pre­scrizione monetarista nei con­fronti dell’inflazione — stabili­re rigidamente il tasso di cresci­ta della quantità di moneta e ri­spettarlo qualunque sia il tasso di crescita dei prezzi — opera sui prezzi solo dopo aver bloc­cato la produzione, annullato gli incentivi agli investimenti e aumentato ulteriormente la di­soccupazione. (S tru ttu ra d e g li s c a m b i in te r n a z io n a li e in f la z io ­n e m o n d ia le , 1975; L e e c o n o ­m ie in d u s tr ia li tra s ta g n a z io n e e in f la z io n e : q u a li v ie d i u sc ita d a lla c ris i, 1981). Sempre sul medesimo tema dei caratteri dell’accumulazione di capitale, spicca, per il cospicuo rilievo anche teorico, il saggio del 1981 N o te in te m a d i a c c u m u la z io n e d i c a p ita le in I ta lia . 1 9 4 7 -1963 , acuta e critica rassegna dei modi di concepire l’accumulazione prevalsi nel nostro paese tra la Ricostruzione e la crisi dei primi anni sessanta, assai utile ad in­quadrare storicamente le scelte di politica economica del perio­do. Al di là tuttavia di questi saggi “classici”, due appaiono i contributi più originali forniti da Vicarelli alla riflessione sto­rica sui caratteri dello sviluppo industriale italiano. Il primo ri­guarda il ruolo giocato dal “vin­colo esterno” nel processo di sviluppo (I l p r o c e s s o d ’in teg ra ­z io n e re a le -f in a n z ia r ia d e l l ’e c o ­n o m ia ita lia n a n e lla C e e , 1973; L ’e q u ilib r io e s te rn o : un v in co lo a llo s v i lu p p o ? , 1985): a tale proposito, Vicarelli — ripren­dendo un’osservazione avanza­ta da Hicks — sottolinea come alla base dell’elevato sviluppo degli anni cinquanta e sessanta

stesse non solo il “dollar stan­dard”, ma una sorta di “labour standard”, ossia un’estrema sta­bilità dei salari nominali dovuta (nell’interpretazione di Kindle- berger) alla relativa abbondan­za di manodopera. Il venir me­no di queste condizioni ha posto negli anni settanta la questione dell’equilibrio esterno in un contesto nuovo, “simile per molti versi a quello che caratte­rizzò la situazione dei principali paesi europei all’indomani del secondo conflitto mondiale”, quando l’affidamento alle ma­novre sul cambio dell’onere del­l’aggiustamento esterno creò l’illusione che ciascun paese, utilizzando la propria autono­mia interna, potesse affrancarsi dai rapporti di interdipendenza e “perseguire con più immedia­tezza i propri obiettivi di lotta alla stagflazione”. Il secondo pilastro teorico deriva dall’insi­stenza di Vicarelli sull’impor­tanza di indagare le interazioni tra struttura finanziaria e svi­luppo economico, anche attra­verso il recupero di strumenti di analisi propri della tradizione marxista (Hilferding): tanto più in un contesto come quello ita­liano, in cui storicamente “gli intermediari finanziari hanno svolto un ruolo decisivo nel pro­muovere, orientare e condizio­nare l’accumulazione del capi­tale” e “solo verso la fine degli anni cinquanta l’aumento del­l’autofinanziamento da un lato e una relativa espansione del mercato dei capitali dall’altro hanno creato le condizioni per una possibile disintermediazio­ne delle banche” (C a p ita le in d u ­s tr ia le e c a p ita le f in a n z ia r io ,1979). Gli innumerevoli spunti di analisi confluiscono, infine,

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in una lucida lezione di metodo, all’insegna di un empirismo che valorizza i reciproci legami tra teoria economica, analisi istitu­zionale e prospettiva storica.

Stefano Battilossi

Antonio Pedone (a cura di), La questione tributaria. Analisi e proposte, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 470, lire 48.000.

I saggi contenuti in questo volume hanno il pregio di met­tere a fuoco da diverse angola­ture un problema centrale della politica economica italiana e al tempo stesso di rilanciare, con la forza delie cifre e dell’analisi scientifica, la denuncia di quello che è uno degli aspetti più scan­dalosi della storia nazionale de­gli ultimi decenni. Il fatto che i dati tecnici e quantitativi e l’a­nalisi economica attuale preval­gano largamente su ogni tentati­vo di ricostruzione critica anche del passato più recente non im­pedisce che da questi saggi emerga efficacemente, se non l’evoluzione storica del proble­ma, quanto meno il suo straor­dinario rilievo nell’Italia con­temporanea.

In realtà, i nodi storici della questione tributaria, almeno per quanto riguarda l’ultimo ventennio, sono tutti ben pre­senti. A cominciare — non per­ché sia più importante, ma per­ché è esemplare dell’intreccio perverso tra disinteresse e misti­ficazione che vi è attorno al pro­blema fiscale — dalla mancanza di rilevazioni ufficiali o ufficio­se sulla distribuzione del reddito nelle diverse categorie sociali prima e dopo il prelievo tributa­rio. Col risultato che lo studio

di Anna Marenzi sulla distribu­zione del carico fiscale comples­sivo nell’anno campione 1984 deve basarsi non sulla lettura critica di dati contabili certi, ma su stime e ipotesi di complessa elaborazione, dalle quali co­munque emerge il dato signifi­cativo che l’andamento delle imposte, lungi dall’essere pro­gressivo, è, nell’insieme, “tra proporzionale e regressivo”. Anzi, in alcuni settori portanti appare “progressivo per le pri­me classi di reddito, proporzio­nale per quelle centrali [...], re­gressivo per le classi superiori” (p. 232).

L’elenco potrebbe continuare con la crescente (e quanto volu­ta?) disfunzione dell’ammini- strazione finanziaria, da cui di­scende l’abnorme dilatazione dell’evasione fiscale, che, già elevatissima secondo i calcoli precedenti il 1986, balza a livelli drammatici con la rivalutazione della contabilità nazionale, ef­fettuata dall’Istat in quell’anno, raggiungendo addirittura il 60 per cento del dichiarato Irpef (in particolare, per i redditi di impresa e lavoro autonomo, co­me risulta dall’aggiornamento delle stime riportato in appendi­ce nel saggio di Luigi Bernardi, si arriverebbe a più del doppio dell’imponibile dichiarato, al- l’incirca la metà dell’intero get­tito Irpef).

Per contro, esenzioni e detra­zioni accordate al lavoro dipen­dente risultano inferiori rispetto a quasi tutti gli altri paesi, come documenta il confronto interna­zionale operato da Salvatore Tutino. Tanto che nel 1986, a fronte di una quota del 46 per cento del prodotto interno lor­do attribuita dai nuovi dati del­

la contabilità nazionale al lavo­ro dipendente, quest’ultimo si accollava ben il 70 per cento del gettito globale dell’Irpef.

Accanto a questi dati signifi­cativi, che riflettono le fasi più recenti del processo, altri spunti presentano un interesse storico più diretto e consentono di met­tere a fuoco le tendenze generali e i cambiamenti di maggior ri­lievo verificatisi nell’ultimo ventennio. In primo luogo, la crescita e la sensibile modifica­zione della composizione del prelievo tributario, soprattutto dopo la riforma del 1973-1974. La pressione fiscale, sostanzial­mente stabile in rapporto al Pii, anche dopo la metà degli anni settanta, e nettamente più bassa in Italia rispetto a tutti i princi­pali paesi occidentali, registra una forte impennata a partire dalla fine del decennio, portan­dosi nella media Ocse e anche al di sopra (benché, come emerge dalla comparazione internazio­nale di Giuseppe Peleggi, la re­visione del 1986 l’abbia ricon­dotta di nuovo lievemente al di sotto). Motivo determinante di questa crescita il drenaggio fi­scale da inflazione, gravante so­prattutto sui redditi da lavoro dipendente, di fronte al quale l’Italia, a differenza di tutti gli altri paesi, eccetto il Giappone, si è ben guardata dall’adottare provvedimenti di indicizzazione o quanto meno di contenimen­to. Con la conseguenza, come scrive Salvatore Tutino, che “nel primo decennio d’applica­zione dell’Irpef, a fronte del più forte incremento del reddito lordo reale, si è realizzata in Ita­lia una crescita del prelievo fi­scale medio sei volte superiore e, conseguentemente, si è venu-

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to a determinare il più elevato scarto fra reddito lordo e reddi­to netto disponibile” (p. 221).

Ciò significa che, dopo aver tenuto artificialmente bassa la pressione tributaria per tutta la prima fase di espansione della spesa sociale, fra la fine degli anni sessanta e la prima metà di quelli settanta, creando le pre­messe di una crescita inconteni­bile del debito pubblico, i vari governi hanno fatto ricadere so­prattutto su stipendi, salari e pensioni l’ulteriore lievitazione della spesa, determinata dall’e- stendersi delle funzioni dello Stato sociale. Così evasione fi­scale, indebitamento pubblico e fiscal drag sui salari si configu­rano come tasselli necessari di una stessa strategia, costante- mente perseguita a danno della giustizia sociale e degli interessi delle grandi masse popolari. Di fronte a questa realtà, il recupe­ro della capacità impositiva de­gli enti locali e la sua concentra­zione in alcuni settori essenziali, come suggerisce lo studio di Franco Osculati e Giancarlo Pola, è sicuramente un corretti­vo importante — anche, oltre­tutto, per rilanciare quelle auto­nomie locali, mortificate dalla riforma del 1973-1974, con con­seguenze particolarmente nega­tive per tutte le forze sostenitrici di una finanza democratica — ma ben lontano dal bilanciare le carenze di accertamento e di im­posizione presenti a livello cen­trale.

Ancora una volta l’individua­zione dello spessore storico del problema rinvia alla sostanza politica e non tecnica delle solu­zioni da approntare. A meno di non contentarci di continuare a elaborare studi scientifici che

documentano a posteriori la fondatezza delle periodiche de­nunce avanzate in sede politica. Nel frattempo torna a calare la coltre di silenzio, gli autori delle denunce, come il ministro Gua­rino nel 1987, vengono rispediti a casa e si ricomincia da capo.

Mario G. Rossi

Filippo Cavazzuti, La regola e l’arbitrio. Finanza pubblica e fi­nanza privata in Italia, Bolo­gna, II Mulino, 1988, pp. 121, lire 10.000.Paolo Bosi, I tributi nell’eco­nomia italiana. Aspetti istitu­zionali e di politica economica, Bologna, Il Mulino, 1988 (nuo­va ed.), pp. 158, lire 15.000.

Contro la retorica dello “spontaneismo concorrenziale” dominante negli anni ottanta, Cavazzuti — docente di scienza delle finanze e senatore della si­nistra indipendente — riaffer­ma con questo suo agile pam­phlet il principio che il grado di realizzazione di obiettivi social­mente rilevanti quali la piena occupazione, la solidarietà, l’u­guaglianza, l’efficienza, la con­correnza, la trasparenza, dipen­de dal “sistema delle regole e dall’azione discrezionale eserci­tata tramite politiche economi­che ed istituzionali che vogliono consapevolmente governare i si­stemi economici”. Sebbene ri­volto in primo luogo a delineare i possibili scenari futuri (soprat­tutto in funzione dell’unifica­zione dei mercati europei del 1992) di un sistema finanziario pubblico “trasparente” e di si­stemi finanziari privati “regola­ti”, il saggio ha modo di affron­tare con chiarezza alcuni nodi

cruciali della storia economica dell’Italia contemporanea. L’a­nalisi di Cavazzuti identifica in­fatti i principali ostacoli sulla via della democratizzazione del sistema finanziario italiano da un lato nell’organizzazione bu­rocratica dell’amministrazione pubblica, che frappone ostacoli alla traduzione in atto delle de­cisioni di politica economica (da cui i ritardi di gestione e la man­canza di trasparenza della fi­nanza pubblica); dall’altro, in un sistema tributario e contri­butivo storicamente iniquo e complesso, che — a causa delle difficoltà e delle incongruenze nell’attuazione della riforma del 1973-1974 (di cui lo studio di Bosi costituisce un’ordinata e critica esposizione) — ha inne­scato quella sfasatura tra entra­te e spese posta all’origine del­l’abnorme gonfiamento del de­bito pubblico dell’ultimo quin­dicennio. In realtà, avverte Ca­vazzuti, per parlare di “spesa pubblica” occorre ragionare su una pluralità di pubbliche am­ministrazioni che svolgono compiti diversi, spesso non coordinati, ma contrapposti se non conflittuali, dotate di pro­pri bilanci che solo le conven­zioni classificatorie elaborate dall’Istat e dalla Ragioneria ge­nerale dello Stato riescono a ri­durre a un unico bilancio. La questione storica di fondo, che l’autore individua con precisio­ne, sta proprio nella inadegua­tezza dell’apparato amministra­tivo dello Stato a gestire le nuo­ve funzioni dell’intervento pub­blico in economia: poiché “il passaggio da uno stato ‘autori- tativo’ ad uno stato che gestisce in prima persona molti servizi ha anche, purtroppo, mantenu-

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to rimpianto amministrativo introdotto in Italia nel corso dell’altro secolo [...] Dunque uno stato concepito per svolgere ben poche funzioni [...] si è tro­vato negli ultimi decenni a gesti­re con le stesse regole ammini­strative (tra cui quelle dell’as­senza di ‘responsabilità’ dei di­rigenti e di ‘trasparenza’ delle procedure) funzioni a cui non è assolutamente preparato.” Ca- vazzuti condivide quindi piena­mente il giudizio di Sabino Cas- sese, per cui “la Costituzione passa sugli apparati ammini­strativi senza toccarli”. Analo­gamente, l’unico strumento le­gislativo — fatalmente inade­guato — in grado di operare sull’insieme dei sistemi finan­ziari privati è rappresentato an­cora oggi dalla legge bancaria del 1936: “come la crisi della banca mista in Italia aprì un vuoto nel meccanismo di finan­ziamento delle imprese e ‘pro­dusse’ la legge bancaria del 1936 e la creazione degli istituti di credito speciale, appositamente orientati verso l’intermediazio­ne oltre il breve termine, così la lunga fase di instabilità econo­mica iniziata negli anni settanta ha determinato un vasto proces­so di innovazione finanziaria, [...] come risposta della ‘finan­za’ all’inflazione, alle crisi pe­trolifere, alle mutazioni dei prezzi relativi e nei te r m s o f tra ­d e , alle oscillazioni dei cambi, ai debiti esteri, alle innovazioni tecnologiche ed alle mutate con­dizioni della distribuzione del reddito.” È appunto l’inadegua­tezza dei poteri amministrativi previsti dalla legge del 1936 ad originare l’attuale conflitto di potere strisciante tra una banca centrale (ente regolatore della

concorrenza sul mercato crediti­zio e garante della stabilità del sistema) che cerca di estendere l’operatività del sistema banca­rio verso una crescente “poli- funzionalità settoriale” (model­lo tedesco), depotenziando la Consob e la concorrenza degli intermediari finanziari di origi­ne non bancaria, e questi ultimi, operanti — nei settori mobilia­re, assicurativo e creditizio — in concorrenza col sistema banca­rio. La via d’uscita a questa si­tuazione, conclude Cavazzuti, non può che risiedere in una rottura decisa col passato, cioè in un intervento pubblico non incardinato nell’ordinamento amministrativo dello Stato e che consenta occasioni di “parteci­pazione e controllo” dei cittadi­ni, secondo la lezione di Hirsch­man, estromettendo l’ossessiva mediazione dei partiti.

Stefano Battilossi

P iero Roggi, S c e lte p o l i t ic h e e te o r ie e c o n o m ic h e in I ta lia n e l q u a ra n te n n io r e p u b b lic a n o , Torino, Giappichelli, 1987, pp. 163, lire 15.000.

Sotto il fin troppo esplicito influsso del suo nume tutelare, Amintore Fanfani, questo scrit­to di Piero Roggi — povero nel­la grafica quanto scarno nei contenuti — integra il discorso avviato dalla casa editrice Giap­pichelli con l’analogo volume di Tommaso Fanfani. Il lavoro si caratterizza per lo sforzo — a tratti affannato, più spesso qua­si scolastico — di fornire una vernice di coerenza e di dignità teorica alle posizioni di politica economica espresse nei suoi do­cumenti programmatici dal par­

tito democristiano nell’intero arco del quarantennio repubbli­cano. In primo piano, dunque, stanno la “cultura economica” democristiana, da un lato, e i “programmi economici” dei go­verni, dall’altro: sull’onda di questa scelta, l’indagine si limi­ta al gioco dei parallelismi car­tacei, senza nessuna considera­zione né sulla particolare for­ma-partito democristiana, né sulla effettiva incidenza e realiz­zazione dei programmi stessi. L’autore ricorre a formulazioni linguistiche originali o altiso­nanti, che però si riferiscono a fatti di ben poca consistenza, una volta che le si consideri con occhio minimamente avvertito. Così il “modello” degasperiano di “politica economica tempera­ta” starebbe ad indicare l’ardita innovazione escogitata dai go­verni centristi, una “terza via” tra liberismo e pianificazione: che però nei fatti non va oltre il compromesso, assai elastico e poco innovativo, tra difesa del­la stabilità monetaria e modera­ta politica dei lavori pubblici, nella precedenza assegnata al ri­sparmio rispetto agli investi­menti. Protagonista attivo della realizzazione di quel compro­messo sarebbe non l’influsso keynesiano, bensì l’empito so­ciale del “solidarismo cattolico” — incarnato dal Piano case fan- faniano, alfiere della “solidarie­tà tra proprietari e lavoratori promossa dall’intervento dello Stato”, e da Cassa del Mezzo­giorno e Riforma agraria, che caratterizzerebbero “l’unico pe­riodo veramente riformatore della nostra storia recente”. Davvero perciò si stenta a capi­re il motivo per cui, beneficiata da tanti arditi sperimentalismi,

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l’economia italiana arrivi al 1959 con una lunga fase di re­cessione, visto anzi che i consu­mi avevano fatto registrare un forte aumento — a detta del­l’autore — “sospinti da un’ac­centuata crescita delle spese sta­tali in corsi per disoccupati e cantieri di lavoro”! Ma ecco dunque, alla fine degli “eccel­lenti” anni cinquanta, giungere il boom economico a raccoglie­re i frutti del sostegno fornito dal governo alla domanda ag­gregata per tutto il decennio precedente. Tuttavia, arrivato all’improvviso, altrettanto im­provvisamente il boom scompa­re, proprio mentre con gli anni sessanta si apre l’era del centro- sinistra e della “politica econo­mica programmata” — che regi­strano entrambi l’instancabile protagonismo del celebre areti­no — i cui obiettivi strategici peraltro l’autore espone con grande parsimonia, limitandoli all’incremento del reddito gene­rale del paese e all’eliminazione degli squilibri territoriali. Del resto se l’onda del benessere si arresta, prosegue Roggi, le cau­se risiedono — oltre che nella crisi petrolifera — nella rag­giunta piena occupazione e ne­gli aumenti salariali che blocca­no la spinta imprenditoriale agli investimenti. Inizia qui, dallo “Schema Carli” del 1964, la “conversione” della cultura eco­nomica democristiana alla “po­litica dei redditi” dei governi di centro-sinistra, che lega gli au­menti salariali agli incrementi di produttività e lo sviluppo degli investimenti al mantenimento del livello dei profitti (il Piano Pieraccini, 1967; il Progetto 80 del ministero del Bilancio, 1969). La fase della stagflazione

anni settanta guida dunque l’o­rizzonte teorico della De di Pic­coli e Forlani alla conquista del­la centralità dell’impresa e del mercato, che si rifletterebbe nel­l’assoluta precedenza assegnata dai governi andreottiani di cen­tro-destra alla competitività in­ternazionale delle imprese ita­liane, minacciata dall’inflazione e dagli effetti della crisi petroli­fera: quella che Roggi definisce, con formula ricca di singolari assonanze leniniste, la “Nuova politica economica” . Con i nuo­vi economisti — Prodi, An­dreatta, sotto l’alto patronato teorico di Modigliani — tra­monta così nel partito democri­stiano, alle soglie degli anni ot­tanta, l’egemonia della tradizio­nale politica economica di so­stegno alla domanda aggregata: la favola si conclude dunque con un tradimento! Tuttavia l’autore non manca di sottoli­neare i pregi dell’incoerenza: “cambiare idea in politica eco­nomica vuol dire anche avere idee di ricambio”; e d’altra par­te — conclude Roggi in perfetto stile ecumenico — il “deposito” della De è “riccamente assorti­to”. Insomma, c’è posto per tutti — per Keynes, per Ricar­do, per Fanfani, naturalmente.

Stefano Battilossi

Umberto Colombo, Giuseppe Lanzavecchia, Daniele Maz- zonis, Scienza e tecnologia ver­so il X X I secolo. Scenario per il progetto Pirelli, Milano, Comu­nità, 1988, pp. 276, lire 35.000.

Il volume raccoglie un rap­porto commissionato dalla Pi­relli contestualmente all’avvio del progetto di questa impresa

di riconvertire l’area industriale urbana della Bicocca a Milano in “polo tecnologico integrato”. Parallelamente al progetto di ri­strutturazione architettonica degli edifici industriali è stato commissionato ad un prestigio­so gruppo di scienziati “un rap­porto sulle prospettive della scienza e della tecnologia a livel­lo mondiale, delle quali si do­vrebbe tener conto nel realizza­re il progetto Bicocca”.

Dopo una premessa di Um­berto Colombo, coordinatore del Comitato scientifico pro­mosso dalla Pirelli, vengono sviluppati temi relativi all’orga­nizzazione attuale della ricerca scientifica. Nel primo capitolo dedicato a scienza e tecnologia si mostra come tra scienza e tec­nica, superati prima gli steccati del periodo ottocentesco e poi le derivazioni della prima metà del Novecento, si sia sostanzial­mente arrivati ad una situazione dove i confini tra le due discipli­ne risultano sempre più labili e come ciò renda sempre più dif­ficile una distinzione tra i due comparti. Questa situazione si deve soprattutto alla realizza­zione delle tecnologie intelligen­ti che prescindendo “dalle capa­cità e dalla creatività dell’uomo intervengono anche direttamen­te ed autonomamente su alcuni problemi chiaramente formula­ti” (p. 21).

Segue poi un ampio capitolo molto tecnico dedicato alle scienze (chimica, fisica e biolo­gia) ed alle tecnologie (elettroni­ca, informatica, telecomunica­zioni, automazione, tecnologie di processo, biotecnologie, ma­teriali e trasporti) che sono alla base della rivoluzione tecnolo­gica.

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L’argomento del terzo capi­tolo riguarda le risorse materia­li: vengono fissati dei criteri per una periodizzazione storica che prenda le mosse dal loro uso nel corso dei secoli; molto schema­ticamente si è individuato un primo periodo caratterizzato dalla raccolta delle risorse già esistenti in natura e dalla loro lavorazione; a questo segue un secondo periodo di moltiplica­zione delle risorse attraverso la coltivazione, l’allevamento e la trasformazione della materia ed infine un terzo periodo, l’attua­le, dove le conoscenze scientifi­che consentono “l’invenzione e la conseguente esplosione delle risorse”, sempre che esistano le capacità inventive di metterle in luce.

L’ultimo capitolo affronta il tema molto attuale relativo alle conseguenze della rivoluzione tecnologica vista soprattutto at­traverso l’ottica imprenditoria­le: l’informatizzazione dellaproduzione non ha messo fuori gioco solo delle quote di mano­dopera più o meno professiona­lizzata, ma anche numerose im­prese irrimediabilmente inserite in settori in liquidazione (ad esempio siderurgia) o riconosci­bili per marcate rigidità struttu­rali (ad esempio aziende parti­colarmente specializzate); l’av­venire sembra essere di quelle aziende flessibili e meno rigida­mente specializzate.

Questo ‘status’ sarà senz’al­tro agevolato dall’informatizza- zione che renderà disponibili tutti gli elementi conoscitivi utili in grado di far assumere all’im­presa le decisioni più adeguate rispetto ad una determinata scelta, favorendo le imprese che operano nei servizi: esse finiran­

no per assumere le decisioni un tempo proprie del settore pri­mario e secondario.

Giorgio Pedrocco

Angelo Dina, Roberto Ben­nati, Aldo Enrietti, Alberto Merini, Emilio Rebecchi, II r o b o t f a t t o a m a n o . I n n o v a z io ­n e te c n o lo g ic a e re s is te n ze a! c a m b ia m e n to n e l l ’o r g a n iz z a z io ­n e p r o d u t t i v a d e l C o m a u , Tori­no, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 204, lire 18.000.

Il volume si apre con una pa­noramica di Aldo Enrietti sui mutamenti organizzativi del comparto delle macchine uten­sili della Fiat dal 1974 — anno in cui la Fiat Mts (Macchine speciali Torino) costituì con al­cune imprese del gruppo Mo­rando reduci dall’impresa di Togliattigrad la Comau (Con­sorzio macchine utensili) — al 1987, quando la Comau risulta ormai un gruppo perfettamente internazionalizzato ed in grado di operare nei settori dell’im­piantistica più sofisticata come quello della robotica.

L’orizzonte produttivo inizia­le per il costituendo consorzio era stato suggerito nel 1974 alla Fiat dall’esperienza della realiz­zazione dell’impianto automo­bilistico costruito negli anni precedenti a Togliattigrad in Unione sovietica: si trattava cioè di fornire ai clienti impianti meccanici “chiavi in mano” uni­ficando a monte progettazione, acquisti e razionalizzando la di­visione del lavoro produttivo consorziando “istituzionalmen­te” una serie di imprese che ave­vano concorso autonomamente alla realizzazione dell’impresa.

Le successive modificazioni della ragione sociale avvenute tra il 1974 e il 1986 dipendono da un lato dalla crescita dell’e­gemonia Fiat all’interno del consorzio e dall’altro dall’inter­nazionalizzazione dello stesso consorzio attraverso combina­zioni con imprese straniere co­me la Bosch per inserirsi nel­l’avveniristico campo dei r o b o t .

Di rilievo, anche se le notizie sono sommarie, il capitolo dedi­cato alla dinamica degli addetti che vedono nel complessivo de­clino dell’occupazione (da 3.901 a 3.179 unità) una prevedibile forte caduta del numero degli operai (da 2.469 a 1.781) e una relativa stasi quantitativa di im­piegati e di dirigenti (rispettiva­mente da 1.354 a 1.309 e da 79 a 89). Interessanti anche i dati re­lativi alla ripartizione delle quo­te delle diverse qualifiche nel corso degli anni: in sintonia con l’andamento dell’occupazione operaia diminuiscono gli impie­gati tecnici e aumentano quelli addetti genericamente ai “servi­zi vari”, segno di una articola­zione nuova delle funzioni che deriva dall’informatizzazione del lavoro impiegatizio che sten­ta ad essere classificato secondo i criteri correnti.

Il saggio di Angelo Dina, P ro g e tta z io n e e p r o d u z io n e d i s is te m i a u to m a tic i, steso proba­bilmente con l’obiettivo di ap­profondire gli aspetti operativi di Comau, risulta per l’estrema frammentarietà delle informa­zioni ed il ricorso ad una termi­nologia tecnicistica riservato al­la lettura di pochi esperti.

L’ultima ricerca che appare nel volume (Alberto Merini, Emilio Rebecchi, O r g a n iz z a z io ­n e d e l la v o r o e s o g g e t t iv i tà d e i

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la v o r a to r i) presenta invece i ri­sultati di un’indagine sociopsi­cologica tra i lavoratori Co- mau. L’indagine commissiona­ta dalla Fiom ad un gruppo di medici dell’istituto di psichia­tria “P. Ottonello” di Bologna riaffronta, attraverso la crea­zione di piccoli gruppi di ope­rai e di tecnici, il problema del­l’organizzazione del lavoro po­nendo ai partecipanti ai gruppi queste due elementari doman­de: cosa pensano i lavoratori del modo in cui è organizzato il loro lavoro e come desiderereb­bero che fosse organizzato. Si trattava quindi per i gruppi di affrontare i problemi dell’orga­nizzazione del lavoro non solo dal punto di vista ambientale, ma anche da quello professio­nale. Emerge ancora una volta come la Fiat, assumendo la ge­stione dell’impresa, abbia so­stanzialmente svuotato la pro­fessionalità dei lavoratori creando un grosso disorienta­mento non solo dal punto di vista politico-sindacale, ma an­che professionale; inoltre si colgono, leggendo i frammenti di discorsi operai, evidenti se­gnali di difficoltà per la perdita di capacità contrattuale dei la­voratori, determinata da un la­to da fattori oggettivi (il decen­tramento produttivo) e dall’al­tro dall’intervento diretto Fiat. Riemergono dei dati che con le grandi lotte dell’autunno caldo erano completamente scompar­si, e che dagli estensori della ri­cerca sembrano completamente sottovalutati, la paura reale di partecipare all’attività sindaca­le (che qui viene superficial­mente scambiata con una sorta di “colpa persecutoria”), la ca­pillare politica di ritorsioni

che la Fiat stava già allora at­tuando e che non a caso sarà de­nunciata nel 1989 con l’esplo­sione del caso Molinaro per ini­ziativa di un soggetto extrasin­dacale, il Pei, mentre il sindaca­to rimarrà tutto sommato alla finestra.

Giorgio Pedrocco

Sergio Mellina, L a n o s ta lg ia n e lla va lig ia . E m ig r a z io n e d i la ­v o r o e d isa g io m e n ta le , Vene­zia, Marsilio, 1987, pp. 327, lire26.000.

L’autore, psichiatra, affronta il tema di un corso integrativo di storia dei movimenti sindaca­li, tenuto presso la facoltà di scienze politiche dell’università statale di Milano nell’anno ac­cademico 1983-1984. Il libro è centrato sulla psicopatologia dell’emigrazione economica per un “approccio interdisciplina­re” alla materia e per offrirne un nuovo impianto problemati­co; si fonda sull’esperienza pro­fessionale dell’autore, sull’ana­lisi medica di numerosi casi cli­nici e rimanda al percorso indi­viduale di degenti in manicomio che hanno vissuto l’esperien­za migratoria con riferimento particolare al secondo dopo­guerra.

In rilievo è la stretta connes­sione tra il disagio psichico e lo sfruttamento del lavoratore emigrante, tra il disturbo men­tale e la solitudine, la nostalgia di chi è sradicato dal proprio ambiente originario e proiettato in un contesto diverso e conflit­tuale di cui perde o non acquista il senso e nel quale si muove la­cerato, privo di diritti sociali, politici, affettivi.

L’autore si contrappone alle tesi di alcune scuole psichiatri- che che nell’alienazione mentale vogliono trovare l’origine della scelta emigratoria, richiama cri­ticamente gli studi scientifici americani che avrebbero dimo­strato i nessi tra l’emigrazione e la malattia mentale per ribadire “la figura dell’emigrante tarato in partenza”. Per l’autore la sofferenza psichica è indotta dalla povertà e dalla marginali­tà sociale, è “il punto finale di un percorso fallito” che rimarca uno scacco irrisolto dell’esisten­za; egli pone il problema del “come capita di ammalarsi an­dando a lavorare all’estero”, e con ciò dà rilevanza al malesse­re, alla precarietà, alla lonta­nanza, allo sfruttamento, tutti come problemi individuali lega­ti alla realtà sociale. “L’indeci­frabile volto della follia” legato al doloroso sentimento della lontananza, della frustrazione, della perdita, la migrazione e la malattia mentale come “due moduli dell’esistere povero” ri­chiedono di necessità il riferi­mento alla realtà storico-econo- mico-sociale; “la mera fenome­nica clinica” è insufficiente.

Come perciò la storia dell’e­migrazione è storia delle classi subalterne, per l’autore la psi­copatologia dell’emigrazione è “la rappresentazione ultima di come la dura realtà dell’emigra­zione entri nella dimensione del­la malattia mentale”. Diventa così decisiva la comprensione delle ragioni politiche, econo­miche e sociali che spingono al­l’esodo, delle cause di condizio­ni umane e lavorative al limite, di un mercato dell’occupazione che si modifica e si sposta di continuo tra diversi e nuovi poli

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di attrazione, delle cause e degli effetti dell’ignoranza del ruolo produttivo sostenuto dagli emi­granti per l’accumulazione della ricchezza.

Con ciò l’autore ribadisce la tesi delle masse emigranti come esercito industriale di riserva, “volano dell’economia dei paesi più ricchi”, l’impossibilità di una neutralità scientifica rispet­to all’emigrazione e alle patolo­gie psichiche che ne sono con­nesse. In tale direzione si richia­ma all’intervento della medicina e della psichiatria iniziato quan­do massicci flussi immigratori di stranieri sono apparsi di mi­naccia potenziale agli indigeni, e alla legislazione americana che già negli ultimi decenni dell’Ot­tocento imponeva controlli per sbarrare l’ingresso ai malati mentali coinvolgendo gli epilet­tici e i sospettati di comporta­menti anomali.

“In altri ospedali psichiatrici ho incontrato altri ex emigrati ed ho potuto verificare in tutto il suo spessore la dolorosa fram­mentazione sociale di un breve arco di vita lavorativa della po­vertà che si era concluso con la follia. Più tardi ho imparato a riconoscere che le radici lontane di questo tipo di follia, sono ra­dici politiche, economiche, so­ciali, etiche, spesso erose già fin dall’origine dal cancro dell’indi­genza” (p. 22). “Noi, medici della migrazione, ci imbattiamo spesso in gente cui non è stata resa giustizia; che è stata resa infelice e sconfitta da un sogno di lavoro infranto, per cause ex­trapersonali. Noi psichiatri ci troviamo spesso di fronte a per­sone che hanno ormai perso la coscienza del loro fallimento, essendone state travolte” (p.

178). Non sono queste conside­razioni marginali nel contesto del libro, ma i presupposti uma­ni e culturali che connettono il lavoro nelle sue parti ed hanno orientato lo sforzo documenta­rio dell’autore che chiarisce così anche la propria scelta di campo rispetto alle questioni sociali della malattia e dell’emigra­zione.

Franca Modesti

P iergiorgio Corbetta, Artu­ro Parisi, Hans M.A. Scha- dee, Elezioni in Italia, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 562, lire60.000.

L’ultimo lavoro nato nel­l’ambito dell’Istituto Cattaneo è un contributo di notevole ri­lievo agli studi elettorali italia­ni. L’ “esplicita continuità” (p. 8) con la prima ricerca del Cattaneo — coordinata da Giorgio Galli e pubblicata sul finire degli anni sessanta — e la caratteristica di “approdo di un itinerario intellettuale” (p. 7), gli danno una connotazione di sistematicità alquanto origi­nale nell’attuale panorama po­litologico e ne fanno un punto di riferimento ineludibile per successive sintesi sulla storia elettorale del secondo dopo­guerra.

Il lavoro è articolato in quat­tro sezioni. Nella prima, che ha per oggetto le caratteristiche si­stemiche delle elezioni svolte dal 1946 al 1983, si privilegia un approccio sincronico e tipo­logico individuando quattro consultazioni segnate da forte discontinuità; le elezioni di “mobilitazione” del 1948 e 1976, con l’accentuarsi del bi­

polarismo Dc-Pci, e le elezioni di “smobilitazione” del 1963 e 1983, caratterizzate da “scelte espressive più che strumentali” (p. 57).

Nella seconda sezione si esa­mina, attraverso un approccio diacronico, la vicenda elettorale dei singoli partiti lungo l’arco temporale 1968-1983, valoriz­zando la lettura del voto come “risposta ad una proposta” e mettendo quindi a confronto la singola proposta avanzata dal partito per ogni elezione con la specifica risposta dell’elettora­to. Emerge così un più preciso identikit dei partiti e un quadro ricco sia di nuove suggestioni che di conferme ad ipotesi già note.

Nella terza sezione, invece, si affrontano aspetti del sistema partitico elettorale più diretta- mente comparabili con gli omo­loghi delle altre ‘democrazie’ occidentali, mentre nella quarta— dedicata alle ultime consul­tazioni politiche del 1987 — si fornisce una sorta di aggiorna­mento e verifica delle ipotesi e del modello costruiti nelle tre sezioni precedenti.

Gli autori si pongono, tra l’altro, l’esplicito scopo di sot­toporre a puntuale verifica em­pirica l’ampia serie di interpre­tazioni avanzate sul versante politico-elettorale del “caso ita­liano”, svolgendo in particolare— accanto ad un continuo chia­rimento terminologico e concet­tuale — un puntiglioso con­fronto con le analisi dei partiti e dei media frequentemente ba­sate su considerazioni impres­sionistiche.

Il metodo adottato si svilup­pa con linearità attraverso suc­cessive fasi: si pone un quesito teorico; si sintetizzano le rispo­

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ste fornite dalla letteratura poli­tologica — non solo italiana — e dalla pubblicistica; si confron­tano queste risposte con la veri­fica empirica svolta. Si affron­tano in questo modo alcune questioni di notevole rilevanza, tra cui è possibile appena ricor­dare la presunta staticità del comportamento elettorale ita­liano dalla fine degli anni cin­quanta all’inizio degli anni set­tanta, che risulta ad uno sguar­do più ravvicinato alquanto ri­dimensionata; la nozione di spazio politico, che è ridefinita in ambito italiano attorno all’a­nomalo posizionamento della De, capace di alimentare inter­scambi di voto con tutti i partiti lungo il c o n tin u u m sinistra/cen- tro/destra e quindi di occupare il c e n tro secondo una modalità ‘diffusiva’; la presunta dissolu­zione del legame tra voto e ap­partenenza di classe, da più par­ti invocata come esito necessita­to dello sviluppo delle società industriali avanzate e sostan­zialmente smentita dalla verifi­ca svolta sulle ultime consulta­zioni italiane; l’ipotesi di un nuovo ciclo elettorale, di “smo­bilitazione”, che inizia alla fine degli anni settanta a partire dal venir meno del dualismo Dc-P- ci, un bipolarismo che pur at­traverso diversi passaggi ha contraddistinto trenta anni del­la storia repubblicana.

Le verifiche empiriche, su cui fanno perno molte delle novità o delle conferme interpretative sono condotte incrociando l’ap­proccio ecologico — con la tra­dizionale ripartizione in zone geopolitiche formulata dal Cat­taneo — con la considerazione del voto per comuni distinti se­condo classi di ampiezza demo­

grafica, e affiancandovi l’analisi dei “flussi” elettorali, vale a dire dei reali interscambi di voti che si sviluppano tra i partiti nella dina­mica elettorale, una tecnica sulla cui validità non vi è uniformità di opinioni all’interno della comu­nità scientifica, ma che dagli au­tori è applicata solo su un ristret­to campione di città, senza che le conclusioni siano estese meccani­camente ad ambiti più vasti.

Riccardo Vigilante

Lamberto Mercuri, L ’e p u ra ­z io n e in I ta lia 1 9 4 3 -1 9 4 8 , Cu­neo, L’Arciere, 1988, pp. 275, lire 32.000.

Questo volume inaugura la collana “L’altra storia” diretta da Aldo Alessandro Mola es­sendo l’epurazione, della quale viene qui tracciato un quadro generale, uno degli argomenti meno studiati in Italia contra­riamente agli altri paesi europei che pure subirono l’invasione durante la seconda guerra mon­diale. Già negli anni ottanta il compianto Enzo Enriques Agnoletti denunciava lo scarso interesse della storiografia ita­liana “per l’epurazione dei fa­scisti dalle leve di comando del­lo Stato, uno dei nodi fonda- mentali del passaggio dal fasci­smo al postfascismo [...] come se si volesse liberarsi dal tema con poche osservazioni o col si­lenzio” (E p u r a z io n e e s ta m p a d i p a r t i to 1 9 4 3-1946 , Napoli, E.S.I., 1982, p. 6). Lo scarso in­teresse era dovuto, senza dub­bio, anche alle difficoltà prati­che di consultare le fonti archi­vistiche esistenti sull’argomento codificate dal Dpr del 30 set­

tembre 1963. Esso, è noto, sta­biliva che i documenti di carat­tere riservato relativi alla politi­ca estera e interna e quelli relati­vi a situazioni puramente priva­te di persone, divenissero con­sultabili cinquant’anni dopo la loro data, mentre i documenti dei processi penali settant’anni dopo la loro conclusione. Il fat­to poi che il decreto in questione precisasse che “per motivi di studio” la consultazione dei do­cumenti di carattere riservato poteva essere autorizzata dal di­rettore dell’Archivio di Stato competente, non sollecitava cer­to gli studiosi ad intraprendere una ricostruzione organica della storia delle sanzioni contro il fa­scismo. Anche per questo moti­vo, quindi, le riflessioni offerte dall’autore in questo volume hanno una rilevante importanza storiografica. Esso infatti, pur non colmando la lacuna esisten­te sull’epurazione, è un contri­buto originale “al dibattito civi­le, giacché illumina il lettore, giovane e meno giovane, sulle ragioni profonde del mancato avvento di quella ‘democrazia compiuta’ la cui realizzazione torna ad essere riproposta da quanti non si rassegnano ‘alla finzione della democrazia’”. L’autore, noto studioso dei pro­blemi del secondo dopoguerra, prendendo in esame una vastis­sima documentazione, italiana e straniera, a stampa e di archivio reperita presso i ministeri degli Interni, degli Esteri, della Mari­na, presso la Presidenza del consiglio, l’Alto commissariato per l’epurazione e, all’estero, presso il National Archives di Washington e il Foreign Office di Londra, evidenzia come, sia “la ricostruzione” che “la Re­

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pubblica” risultarono profon­damente condizionate dai modi nei quali venne compiuto il pas­saggio dal regime fascista alla democrazia. Nei primi capitoli analizza il rapporto tra il perso­nale politico italiano e gli an­gloamericani, i quali nelle pro­vince conquistate cominciarono subito una certa attività epurati- va sospendendo molti funziona­ri e rinchiudendo in campi di in­ternamento un buon numero di fascisti ritenuti pericolosi. Tut­tavia il comportamento degli al­leati non fu esente da contraddi­zioni sia perché, pur avendo previsto nei loro piani la defa­scistizzazione delle leggi italia­ne, premessa necessaria ed indi­spensabile all’epurazione, in ef­fetti essa non fu un problema primario nei piani dell’occupa­zione militare; sia per il “cauto favore” con cui videro la Resi­stenza deprecando, a volte, un mutamento di cose troppo radi­cale nel nostro paese. A questo proposito è forse utile ricordare l’atteggiamento personale di Churchill avverso al movimento partigiano che egli reputava mosso da quel “vento del nord” che gli faceva caldeggiare per l’Italia una “restaurazione” piuttosto che una “liberazione”. Tuttavia, se i primi provvedi­menti organici del governo Ba­doglio sulla defascistizzazione dell’amministrazione dello Sta­to apparvero nella “Gazzetta Ufficiale” del 29 dicembre 1943, la legislazione di questo perio­do, come dice Roberto Batta­glia, fu così tumultuosa che per regolare le attività di un solo or­gano e cioè dell’Alto commissa­rio per le sanzioni contro il fa­scismo furono emanati ben un­dici decreti (G iu s tiz ia e P o li t ic a ,

in D ie c i a n n i d o p o . 19 4 5 -1 9 5 5 , Bari, Laterza, 1955, p. 333). Se­condo l’autore, dunque, il falli­mento del processo epurativo era già implicito nelle sue origi­ni e il momento decisivo va ri­cercato, in accordo con Claudio Pavone {A u to n o m ie lo c a li e d e ­c e n tr a m e n to n e lla R e s is te n za , in R e g io n i e S ta to d a lla R e s i­s te n z a a lla C o s t i tu z io n e , Bolo­gna, Il Mulino, 1975, pp. 49- 65); Marcello Flores { L ’E p u r a ­z io n e , in L ’I ta lia d a lla L ib e r a ­z io n e a lla R e p u b b lic a . Atti del Convegno internazionale orga­nizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 413-467); Roberto Battaglia {S to r ia d e lla R e s is te n za ita lia n a - 8 s e t te m b r e 1943-25 a p r ile 1 945 , Torino, Einaudi, 1964) e David W. Ellwood (L ’a lle a to n e m ic o . L a p o l i t i c a d e l l ’o c c u ­p a z io n e a n g lo -a m e r ic a n a in I ta ­lia 1 9 4 3 -1 9 4 6 , Milano, Feltri­nelli, 1977), che però non cita, nelle deliberazioni legislative del secondo governo Bonomi il quale svolse un ruolo di accele­ratore dei tempi di ricostruzione del vecchio apparato statale. L’autore evidenzia inoltre la sperequazione relativa ai sog­getti epurabili e alla gravità dei reati creata da quei numerosi decreti legge, sopra ricordati, che smussarono progressiva­mente l’iniziale severità e sotto- linea la responsabilità avuta nel­l’intera vicenda dalla burocra­zia “padrona dei Ministeri e in grado di far sparire le carte” (p. 105). Nell’ultima parte del li­bro, in cui esamina il comporta­mento della magistratura non esente da gravi responsabilità, secondo anche i commenti di Di Vittorio, Neppi Modona, Cala­mandrei ecc., sostiene che la

principale responsabile della si­tuazione era la classe politica antifascista la quale, lasciando agli organi inquirenti un margi­ne troppo ampio di discreziona­lità, permise di fatto che andas­se perduta una grande occasio­ne di adeguamento delle istitu­zioni alle attese dei cittadini e specialmente di coloro che, a prezzo della vita, si erano impe­gnati per la democratizzazione del paese. Nell’appendice Mer­curi ha riportato venti testimo­nianze secondo l’ordine crono­logico con cui gli sono state ri­lasciate da autorevoli protago­nisti dei fatti narrati e vissuti in campi politici diversi come, tra gli altri, Riccardo Bauer, Leo Valiani, Giulio Andreotti, Car­lo Ludovico Ragghiami, Um­berto Terracini e Max Salva- dori.

Nicla Capitini Maccabruni

Giampaolo Fissore, L a cu ltu ra o p e ra ia n e i g io rn a li d i f a b b r ic a a T o rin o 194 3 -1 9 5 5 , Torino, Provincia di Torino - Assesso­rato alla cultura (Quaderno di cultura e documentazione n. 4), 1987, pp. 221, s.i.p.

La ricerca condotta da Giam­paolo Fissore sui giornali di fabbrica, tradottasi in questo bel volume voluto dall’assesso­rato alla Cultura della provincia di Torino, si raccomanda alla lettura di chi voglia conoscere più da vicino la realtà del mon­do operaio in un grande centro industriale negli anni cinquan­ta. Anche se giustamente l’auto­re muove dalle prime esperienze di stampa clandestina collegata alla fabbrica a partire dalla fase

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resistenziale, riconoscendo in essa l’antecedente necessario delle esperienze successive, non va taciuto che questa stampa fi­no a tutti gli anni quaranta è il prodotto di soggetti politici e sindacali (le federazioni o le or­ganizzazioni territoriali dei par­titi, i sindacati di categoria) che interpretano la fabbrica, ma non ne sono l’espressione diret­ta. È ovvio che anche questa stampa più eterodiretta presen­ta motivi di interesse indubbi per la ricostruzione storica del periodo, ma certamente non rende che in modo molto margi­nale la voce degli operai. Non così sarà la vera e propria fiori­tura di giornali di fabbrica che a partire dal 1951-1952 fino alla metà degli anni cinquanta, con qualche eccezione che si spinge di qualche anno più avanti, ve­drà quasi ogni fabbrica di un certo rilievo dotarsi di uno stru­mento di informazione, con margini di autonomia molto più ampi. Nascono attorno alle te­state dei veri e propri comitati di redazione che si sforzano di dare volto e spessore alla speci­ficità di ogni fabbrica. Fissore analizza con attenzione la strut­tura di questi giornali a partire dagli esperimenti meglio riusci­ti, che presentano maggiore continuità e ricchezza di conte­nuti oltre che un buon livello tecnico. Arricchisce il quadro un buon numero di testimo­nianze e soprattutto un ricco materiale iconografico che ren­de con efficacia il clima esisten­te nelle fabbriche e nella città. Un lavoro, insomma, che supe­ra la particolare angolazione con cui viene avvicinato il mon­do operaio anche grazie ad un confronto ravvicinato con una

nutrita bibliografia e che pre­senta notevoli potenzialità di fruizione, non ultima quella di un uso didattico del materiale presentato. Esso ripropone an­che alcune domande di fondo a cui non è facile dare risposta: ad esempio, quali siano le ragioni di una fioritura così intensa di stampa operaia e per converso quali le ragioni del suo rapido declino. Indubbiamente gioca la necessità di ricorrere a strumen­ti che contrastino il senso di ac­cerchiamento che il movimento operaio patisce in questa fase. Nel quadro di un periodo carat­terizzato dall’accentramento politico ed organizzativo una maggiore apertura all’espressio­ne dal basso sul piano politico culturale può essere visto come un utile contrappeso. La brevità della stagione va imputata pro­babilmente a due ordini di ra­gioni: una più immediata, che l’autore suggerisce, e che risale allo stravolgimento che ristrut­turazione produttiva e repres­sione padronale inducono nella struttura organizzativa azienda­le coinvolgendo le redazioni dei giornali di fabbrica. Ma proba­bilmente pesa anche un fattore di ordine più generale ed è la ra­pida obsolescenza dello stru­mento giornale di fronte alla ra­pida trasformazione delle forme della comunicazione di massa. Se il giornale operaio può con­trastare con una certa efficacia il predominio della stampa di altra ispirazione, esso risulta spiazzato dall’affermarsi pro­prio in quegli anni della televi­sione. Si apre qui un problema nella gestione della comunica­zione a cui il movimento ope­raio non riuscirà a dare risposte adeguate, visibile segnale (è il

caso di dirlo) della svolta ‘epo­cale’ che il paese conosce negli anni cinquanta.

Claudio Dellavalle

Giuseppe Avolio, L ’utopia del­l ’unità - l ’azione della sinistra per una nuova società, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 172, lire20.000.

Nella memorialistica sugli an­ni della Repubblica spicca la narrazione di quest’uomo poli­tico e sindacalista, proveniente dal Mezzogiorno, ora noto co­me presidente della Confcolti- vatori. Queste pagine sono utili anzitutto come fonti per la sto­ria del movimento operaio e contadino in Campania (pp. 20- 22, 25-31, 38-44). Più inediti i dati su alcune vicende interne del “primo Psiup” e del Psi dal 1945 al 1963: Avolio fu un espo­nente della cosiddetta corrente bassiana, che ebbe parte rile­vante nel mondo socialista, in varie vesti, sia quando Lelio Basso fu segretario del Psi (1947-1948), sia nel lungo perio­do di opposizione interna con­tro la maggioranza filosovieti­ca, e infine durante e dopo il congresso di Venezia (1957), che rivendicò l’autonomia del partito. Le pp. 99-109 sono un breve e denso saggio sul pensie­ro dello stesso Basso, questa volta in stile non memorialisti- co. La storia del “secondo Psiup” (1963-1972), del quale Avolio fu importante esponen­te, è altresì molto documentata (pp. 67-88). Una lettera inedita di Fernando Santi (p. 76) testi­monia della convergenza dei so­cialisti di vario schieramento,

Rassegna bibliografica 605

tra di loro e con la posizione uf­ficiale del Pei, contro l’ala filo- brezneviana del Psiup (Vec­chietti-Valori) a proposito della liquidazione della cosiddetta primavera di Praga (agosto 1968).

L’ultima parte del libro è di attualità politica, e sarà in futu­ro citata come una delle fonti del sincero interesse anche di al­cuni socialisti iscritti al Psi per la “fase costituente” avviata dalla svolta del Pei ai giorni no­stri. Il libro è utile, sempre a li­vello di fonte, anche per i mol­tissimi nomi annotati, per varie informazioni su di essi e per in­trecci di vicende umane e politi­che. Quando si scriveranno note biografiche o vere monografie su alcuni di questi uomini della politica e della cultura, sociali­sti, comunisti, ma anche demo- cristiani, si dovrà partire anche da qui. L’autore, talvolta aspro nella lotta politica, appare per­vaso qui da una sorta di benevo­lo ecumenismo di sinistra, che lo porta a “smussare gli angoli” e ad esprimere giudizi talvolta a nostro avviso perfino troppo benevoli su alcune persone; tra­lasciando i viventi, segnaliamo per esempio una sopravaluta- zione di Guido Mazzali, espo­nente socialista milanese (p. 49).

Emanuele Tortoreto

Nicola Tranfaglia (a cura di), C ris i so c ia le e m u ta m e n to d e i va lo r i. L ’I ta l ia n e g li a n n i se s ­sa n ta e s e t ta n ta , Torino, Tirre- nia Stampatori, 1989, pp. 294, lire 25.000.

Il volume raccoglie una serie di lezioni, tenute da vari studio­

si, all’interno del corso universi­tario di Storia contemporanea condotto da Tranfaglia nell’an­no accademico 1988-1989. Oltre agli interventi del curatore tro­viamo quelli di Luigi Bonanate, Gian Carlo Jocteau, Paride Ru- gafiori, Sergio Scamuzzi, Elisa- betta Benenati, Maurilio Gua­sco, Giovanni De Luna, Lidia De Federicis, Luisa Passerini, Gianni Rondolino, Peppino Or­toleva, Marco Revelli. Gli argo­menti spaziano dai problemi economici a quelli internaziona­li, dalla crisi dei partiti e dei sin­dacati all’emergere di nuove soggettività e al ricomporsi del­la struttura sociale, dall’analisi delle trasformazioni di alcune istituzioni ‘forti’, come la magi­stratura o la chiesa, a quella sul ruolo dei media, cinema e tele­visione, in questa congiuntura storica.

Il volume si apre con un inter­vento di Tranfaglia sul sessan­totto e gli anni settanta nella po­litica italiana, per chiudersi, alla fine di uno stimolante percorso di ricerca con due saggi, di Or­toleva e di Revelli, sulle due ‘ge­nerazioni’ che caratterizzano gli avvenimenti politici e sociali ita­liani dell’ultimo ventennio: quella del sessantotto, contrap­posta a quella del setttantasette.

Alcune rapide osservazioni proprio su questi interventi, pur tenendo conto che essi rimanda­no a lavori già effettuati o in corso. Le tesi di Tranfaglia sulla nascita del sessantotto e il suo legame con l’esaurirsi dell’espe­rienza politica del centro-sini­stra sono note. Certo è che que­sta chiave interpretativa sembra in contraddizione con quanto lo stesso Tranfaglia afferma nella premessa del libro. Sottolinean­

do l’assenza dell’aggettivo poli­tico nel titolo del volume affer­ma che: “è nostra convinzione che la caratteristica centrale del­la crisi che stiamo ancora attra­versando sia proprio quella di una ‘rivoluzione’ che avviene malgrado la paralisi o meglio l’immobilismo del sistema poli­tico” (p. 9). Questa affermazio­ne, che personalmente mi sento di condividere in pieno, appare però sminuita dall’attenzione, in alcuni casi esclusiva, rivolta agli attori politici p a r ex ce llen ce , partiti, sindacati, nelle loro di­namiche di potere e di elabora­zione di strategie. Indubbiamen­te Tranfaglia parla di una pro­fonda cesura che, a metà degli anni settanta, introduce a una fase di totale divaricazione tra l’agire politico e le trasforma­zioni nel sociale e nell’economi- co. Quello che però mi sembra non messo sufficientemente in luce è la preesistenza di pulsioni, comportamenti, rivendicazioni che poi, in Italia, hanno la loro prima grande manifestazione pubblica nel movimento del set- tantasette. Questa centralità de­gli strumenti di analisi di tipo politico, a mio parere, risalta anche nell’approccio al proble­ma del terrorismo e del suo rap­porto con il sessantotto e i movi­menti sociali conflittuali. Quello che qui posso solamente accen­nare è che non bastano le pur corrette analisi sulle differenze politiche abissali, tra la scelta della lotta armata e quella del movimento del sessantotto. Sen­za altre categorie interpretative, sociologiche, antropologiche e psicologiche, si perde l’intreccio estremamente profondo tra una parte della cultura dei movimen­ti e la violenza armata. Nessuna

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derivazione meccanica, cara a tanti ‘contestatori pentiti’, ma il problema di un patrimonio cul­turale e comportamentale co­mune esiste realmente e come tale andrebbe studiato.

Saltando alla parte conclusiva del libro, un problema di fonda- mentale importanza per la sto­riografia contemporanea viene affrontato: l’utilizzo e quindi la chiarificazione concettuale della categoria “generazione”. Orto­leva lo affronta direttamente, mentre Revelli lo fa in modo obliquo, cogliendo alcune delle novità nei comportamenti dei partecipanti al movimento del settantasette. Non è questa però la sede per affrontare un nodo teorico di tale portata, rispetto al quale, questo libro offre sicu­ramente spunti di riflessione fe­condi, che si inseriscono in un più ampio dibattito.

Marco Grispigni

Diego Novelli e Nicola Tran- faglia (a cura di), Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Garzanti, 1988, pp. 402, lire 26.000.

Il volume riunisce, con i saggi introduttivi di Diego Novelli e Nicola Tranfaglia, le storie di vita di diciotto ex terroristi già appartenenti a Prima linea, uno dei gruppi terroristici della se­conda generazione composto per lo più da giovanissimi, e alle Brigate rosse. Raccolte nel se­minario svolto da Tranfaglia dall’agosto 1985 al dicembre 1987 nel carcere torinese delle “Nuove”, le testimonianze si propongono di ricostruire le esperienze politiche dapprima compiute da alcuni tra gli attori

del partito armato e “le ragioni che hanno contribuito al passo definitivo in direzione della vio­lenza organizzata” (p. 227).

Taluni nodi e non poche que­stioni restano insoluti o sono la­sciati tra parentesi dai partecipi alla lotta armata, sebbene i loro interventi aiutino a far capire il clima socioculturale all’origine del fenomeno terroristico, non­ché i legami e le ascendenze che i militanti nell’area dell’Auto­nomia avevano con il movimen­to operaio, con l’ideologia e le parole d’ordine dei gruppi di estrema sinistra formatisi nei primi anni settanta. Diego No­velli (sindaco di Torino dal 1975 al 1985, e attualmente deputato del Pei alla Camera) ammette di essersi rifiutato, al verificarsi delle prime gesta delle Brigate rosse, “sbagliando (come tanti comunisti), di considerare di si­nistra gli autori di quelle opera­zioni”, aggiungendo anzi di ave­re continuato a definirle come giornalista “le cosiddette Briga­te rosse” che “di rosso non han­no proprio niente” (p. 41).

Il rosso invece si addiceva a frange e gruppi politicamente cresciuti nel partito comunista, nel fronte variegato delle orga­nizzazioni sindacali confederali e degli stessi lavoratori cattolici o socialisti. La tecnica di azione sul sociale adottata dai gruppi extraparlamentari e dell’auto­nomia operaia costituisce alme­no alPinizio la radicalizzazione di una prassi di attacco che si ri­volgeva contro i tradizionali bersagli dei partiti e movimenti di sinistra, cioè contro i fascisti, il padronato sordo ai costi so­ciali assai elevati della tumul­tuosa crescita economica degli anni sessanta, e le forze reazio­

narie genericamente intese. Ha sostenuto Marco Fagiano (espo­nente fino al termine del 1976 di Lotta continua, poi passato al­l’area dell’Autonomia, che a Torino si identifica nel giornale “Senza Tregua”): “I riferimenti politici diventavano: la mino­ranza operaia, i cortei interni che spazzavano i reparti di Mi- rafiori, le ‘ronde proletarie’ nei quartieri, gli espropri nei grandi magazzini [...]. L’immagine di cosa intendo credo possa essere rappresentata dal corteo di10.000 studenti a Torino, du­rante il quale vennero incendiati l’Associazione monarchica e l’Hôtel Suisse di via Sacchi. La pratica della violenza era diretta contro i fascisti e quindi l’ap­provazione, la legittimazione, sembravano naturali” . Dai cor­tei armati si trascorre nel 1977 “ai discorsi più progettuali, che affiancavano alla spontaneità un livello più organizzato dove prendevano corpo operazioni dirette contro obiettivi che veni­vano scelti in quella fase a ri­dosso delle grandi mobilitazio­ni. [...] Si cercava di legare l’o­perazione del piccolo gruppo al­le tensioni sociali esistenti” (pp. 292-293).

Accanto agli stravolgimenti di un antifascismo svuotato del­le idealità originarie e piegato a copertura della lotta armata contro un nemico sempre e ri­tualmente tacciato di fascista si affaccia con Vescalation terrori­stica il referente marxista-leni­nista. Le Brigate rosse si rifan­no in particolare al leninismo, da esse riletto come ideologia di lotta armata finalizzata ad ab­battere lo stato imperialistico delle multinazionali, comin­ciando con il colpire quei diri­

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genti politici e industriali, gior­nalisti, magistrati, alti funzio­nari o servitori subalterni dello Stato che assolvano con intelli­genza, senso del dovere, con di­gnità compiti e ruoli scelti o lo­ro assegnati. Così va dato atto alle masse lavoratrici di non avere ceduto alle scorciatoie il­lusorie dell’attacco al cuore del­lo Stato e di avere respinto s lo ­g a n s metodi e obiettivi della lot­ta armata.

Bisogna infine apprezzare, senza dimenticare le responsa­bilità del passato, l’esigenza di recupero espressa da Fagiano e da molti altri suoi compagni per i quali la dissociazione ha significato “il rifiuto di logiche totalitarie” e la conquista tor­mentata di una nuova consape­volezza di sé e degli errori com­messi. Il seminario condotto al­le “Nuove” da Nicola Tranfa- glia e il libro che ne è scaturito in collaborazione con Diego Novelli testimoniano di una vo­lontà di confronto e di socializ­zazione dei giovani ex terroristi che va correttamente interpre­tata e favorita.

Giancarlo Bergami

Giuseppe Fiori, V ita d i E n r ic o B e rlin g u e r , Bari, Laterza, 1989, pp. 532, lire 30.000.

Con questo volume Giuseppe Fiori, già autore di una V ita d i G ra m sc i (Bari, Laterza, 1966) e di Emilio Lussu (I l c a v a lie re d e i R o ss o m o r i. V ita d i E m ilio L u s ­su , Torino, Einaudi, 1987), ha completato una trilogia di uo­mini della Sardegna che, diversi tra loro ma uniti da un fine co­mune, hanno svolto un ruolo

importante nella storia del no­stro paese. Basandosi su una ricca e variegata quantità di fonti archivistiche e bibliografi- che, di numerose testimonianze di protagonisti delle vicende narrate in cui l’analisi prevale sul racconto, di un diario inedi­to di una zia di Enrico Berlin­guer, Ines Siglienti, usate con equilibrio e con la rara capacità dello scrittore di razza, che tutti gli riconoscono, Fiori collega il ‘personale’ di Berlinguer con i dibattiti, i contrasti, le posizioni politiche che si intrecciarono con la sua esperienza storica dalla quale non emerge però la complessità dei problemi che erano all’origine di quei dibatti­ti, di quei contrasti e di quelle posizioni politiche. I primi capi­toli riguardano l’infanzia e l’a­dolescenza di Enrico e ci intro­ducono nella Sardegna degli an­ni quaranta, la cui agricoltura arrivò al collasso nel novembre del 1943 quando l’isola, separa­ta sia dai tedeschi che occupava­no l’Italia centrosettentrionale, Roma compresa, sia dagli an­gloamericani che avevano libe­rato il Mezzogiorno, doveva ba­dare a se stessa e ai “più di150.000 soldati non sardi che vi si trattenevano come ingabbia­ti” . E fu appunto, nei primi giorni di gennaio del 1944 che avvennero a Sassari i “tumulti per fame” di cui fu ritenuto “istigatore e maggiore responsa­bile” Berlinguer, segretario del movimento comunista giovani­le, che venne arrestato. Era fi­glio di Mario, noto penalista, discendente da una famiglia del­la piccola nobiltà agraria e pro­fessionale sarda, il quale, ex de­putato dell’Unione amendolia- na nel 1924 e leader del Pda,

era rimasto in contatto con l’ambiente romano dove viveva­no numerosi suoi parenti ed amici che si incontravano ogni venerdì nel salotto della sorella (zia Ines), sposata all’avvocato Stefano Siglienti (zio Fanuccio), vice direttore del Credito fon­diario sardo. A quegli incontri settimanali partecipavano an­che noti intellettuali il cui anti­fascismo, seppure “nutrito più di dignitosa estraneità che di so­lerte opposizione al regime”, costituiva però l’elemento natu­rale in cui crescevano i ragazzi Berlinguer che si ritrovavano a Roma durante le vacanze estive. Enrico trascorse la fanciullezza in una casa “marcata dal dolo­re” per la grave malattia della madre che perse a 14 anni e che rese difficile la sua formazione: scarso rendimento scolastico fi­no alla terza liceo; passione per il gioco delle carte ed amicizie “con uomini fatti, dal passato di confino e di galera”.

Soltanto gli studi universitari, intrapresi nel 1940, riaccesero i suoi interessi culturali e riporta­rono l’equilibrio nella sua vita disordinata. Forse fu una nuova concezione della lotta politica più che “l’impegno esclusivo” dello studio di cui parla Fiori, a impedirgli di intervenire sul pri­mo numero del periodico pub­blicato dal “Comitato unitario di concentrazione antifascista” che uscì alla macchia il 3 giugno 1943 per iniziativa di suo padre, e a fondare, nel novembre, quel movimento giovanile comunista che la questura ritenne respon­sabile dei “tumulti per fame”, per i quali venne arrestato. I cento giorni di detenzione nel carcere di San Sebastiano (uscì il 23 aprile 1944) lo riconferma­

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rono nel proposito “di fare del lavoro nel partito”, come disse a Togliatti che incontrò fugge­volmente nel giugno a Salerno dove era suo padre nominato da Badoglio “Alto commissario aggiunto per la punizione dei delitti fascisti” e che, per la morte a Sassari dell’altra sorella (zia Lidia), si trasferì definitiva­mente a Roma nel settembre. Enrico cominciò allora il pro­prio apprendistato politico e burocratico come segretario na­zionale del Fronte della gioven­tù che rappresentò al Festival della Federazione giovanile co­munista internazionale di Berli­no nell’agosto del 1951. Fiori segue il suo cursum honorum e ne evidenzia sia le qualità uma­ne: fede negli ideali comunisti, concezione alta della politica, lealtà verso gli avversari e i compagni di partito; sia le diffi­coltà che incontrava mano a mano che si avvicinava al verti­ce del partito. Infatti, nono­stante la posizione centrista as­sunta di fronte agli avvenimenti internazionali ed al polarizzarsi del contrasto nel partito fra una sinistra ed una destra facenti ca­po rispettivamente a Pietro In- grao e a Giorgio Amendola, do­po l’ottavo Congresso (1957), quando uscì dalla Fgci, non en­trò a far parte del quadro diri­gente rinnovato. Gli venne affi­data, invece, la direzione della scuola di partito alle Frattoc- chie e, successivamente, la se­greteria regionale di Cagliari. Con la sua nomina a vicesegre­tario del partito (15 febbraio 1969) e subito dopo a segretario generale, a cui Fiori dedica la maggior parte del libro, la bio­grafia diventa storia del Pei vi­sta però dal vertice, secondo

l’ottica del suo segretario che ha saputo coniugare impegno politico con capacità di analisi e intuizioni tali da renderlo pro­tagonista della vita politica ita­liana nei drammatici anni set­tanta e nei primi anni ottanta dei quali l’autore fornisce una cronaca ampia e docunrentata secondo la prassi del migliore giornalismo anziché quella del­la storiografia professionale. La narrazione e la ricostruzione degli avvenimenti, di alcuni dei quali Fiori svela retroscena ine­diti, gli servono per mettere a fuoco la personalità del suo eroe: un “comunista atipico” che non ha potuto mai dare prova di sé nel governo del pae­se, un fine che ha tenacemente perseguito sia con il “compro­messo storico” che con “la que­stione morale” dopo che l’as­sassinio di Moro e la morte di La Malfa interruppero quella breve stagione di comunicazio­ne e di intesa con i comunisti. Appare perciò evidente l’inten­to dell’autore di sottolineare l’irreperibilità e la linearità di una vita improvvisamente inter­rotta il 9 giugno 1984: Berlin­guer fu infatti colpito da un ic­tus cerebrale mentre pronuncia­va un discorso in difesa della democrazia e delle istituzioni democratiche “ferite dai tagli alla scala mobile per decreto del governo Craxi”, l’uomo che per timore del “sorpasso comuni­sta” aveva fatto vivere mesi di grande tensione all’ “antisocia­lista settario”, ripetutamente fi­schiato I’l l maggio 1984 alla festa in onore di Craxi, segreta­rio e presidente del Consiglio dei ministri.

Nicla Capitini Maccabruni

Franco Pedone, Novant’anni di pensiero e azione socialista attraverso i congressi del Psi 1984-1987, vol. VI, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 500, s.i.p.

Il sesto volume di questa nota opera racconta altri due con­gressi del Psi, il 43°, Verona 1984, e il 44°, Rimini 1987. Le date sono recentissime; vi è con­tinuità fisica e politica di quasi tutti i protagonisti degli eventi di allora e di oggi; vi è il manca­to oggettivo scioglimento di molti problemi (lo documenta­no, non foss’altro, le tesi con­gressuali, pubblicate rispettiva­mente alle pp. 17-101 e 228- 289). Pedone riesce tuttavia a si­stemare questi elementi ‘anti­storici’, adottando lo stesso uti­le stile dei primi cinque volumi, che parlavano invece di con­gressi antichi o comunque ridi­segnati dal tempo.

Ma se la narrazione e i reso­conti sono obiettivi, ogni giudi­zio del lettore trasborda inevita­bilmente dall’uso storiografico al giudizio politico. L’assenza di un vero dibattito congressua­le emerge dalla ripetitività an­che lessicale dei discorsi, non­ché dalla genericità di molte motivazioni e proposte. Anche questi atti congressuali, dun­que, come gli altri documenti politici, sono fonti su cui è ne­cessario esercitare rapidamente la critica fondata su fatti, ad in­cominciare da quelli coevi com­piuti dallo stesso Psi e soprat­tutto dal suo segretario.

Emanuele Tortoreto

Fulvio De Giorgi, La storio­grafia di tendenza marxista e la

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s to r ia lo c a le in I ta lia n e l d o p o ­g u erra . C ro n a c h e , vol. I, Mila­no, Vita e pensiero, 1989, pp. XIV-180, lire 28.000.

L’interesse della storia di ten­denza marxista per la storia lo­cale (“quell’ambito — scrive l’autore — che si colloca al di sotto del livello nazionale, ma al di sopra dell’individuo o della famiglia”, di cui si può far sto­ria come di una cellula di un or­ganismo più complesso o inda­gandolo in se stesso, “nella sua vita interna, nelle dinamiche storico-sociali endogene”) è l’occasione per una puntuale e profonda riflessione storiogra­fica, che è qualcosa di più di una “cronaca culturale” di un quarantennio, come De Giorgi definisce il suo lavoro.

L’intero dibattito storiografi- co, non solo l’opera degli storici maggiori, è qui proiettato sullo sfondo della vicenda complessi­va, culturale, politica e sociale dell’Italia repubblicana. Ne vien fuori un ottimo esempio di “storia sociale della storiogra­fia”, di una “storia della storio­grafia dal basso”. Nell’ambito di questo percorso di ricerca e sempre assumendo il fulcro pro­blematico della storia locale, De Giorgi individua tre periodi: gli anni 1945-1956, di grande fiori­tura delle ricerche di storia loca­le (si pensi all’attività della rivi­sta “Movimento operaio” e alla pubblicazione della ricerca di Ernesto Ragionieri su Sesto Fio­rentino); il 1956-1958, dell’eclis­se del tema, a vantaggio della storia delle strutture e dello Sta­to; e, infine, il ritorno alla sto­ria locale, a partire dagli anni settanta, nell’ambito della crisi del marxismo e, più in generale, della ‘ragionestorica’.

In quest’ultima fase, la gran­de fortuna della storia locale, non solo nella forma della mi­crostoria, è dovuta per l’autore alla possibilità che essa offrireb­be alla storiografia di cui tratta per una “indolore fuoriuscita di sinistra dal marxismo” . È una fase questa, di nuova attenzione per la storiografia sociale (si pensi da un lato a “Quaderni Storici”, dall’altro a “Movimen­to operaio e socialista”). All’in­terno di questa scansione crono­logica De Giorgi distingue due filoni principali. Il primo, “so­cialista” o ra d ic a i, caratterizza­to da un’attenzione forte per le classi subalterne, per la loro vita e la loro cultura, assume la di­mensione locale come costituti­va; il secondo, “comunista”, esprimerebbe prevalentemente una storiografia ‘dall’alto’, in cui la storia locale non è che “ve­rifica empirica, nel piccolo, del­lo schema generale”.

Gli scenari più recenti, entro i quali si delinea una nuova eclis­se della storia locale, tra “rimo­zione” del marxismo e più gene­rale crisi dello storicismo, sono scenari di “ragione storica de­bole”, fondata sul lavoro sto­riografico come professione, ma “con un secco deficit etico politico”, commenta De Giorgi; scenari — aggiungiamo noi — tra i quali non è difficile scorge­re i segni non equivoci di nuove ideologie.

Saverio Russo

Claudio Tonel (a cura di), T ries te e la su a s to r ia , Trieste, Dedalo, 1989, pp. XV-206, lire20.000.

Frutto del quarto seminario tenutosi nell’estate 1985 presso

l’Istituto di studi comunisti Emilio Sereni, questo volume raccoglie contributi articolati su un arco di tempo limitato e svolti intorno ad un tema speci­fico: i rapporti tra i comunisti e le altre forze democratiche (par­titi ed associazioni) dagli anni dell’immediato secondo dopo­guerra fino alla nascita, nel 1975, di una delle più note liste civiche d’Italia (la “Lista del Melone”). In questo caso la ri­flessione è condotta in larga parte da intellettuali ed uomini politici non comunisti, che non di rado sono stati protagonisti di primo piano delle vicende narrate: un segnale positivo in una città in cui — stando alle stesse parole di uno dei relatori (Fabio Marchetti, C a tto lic i e c o m u n is ti a T ries te : 1945-1975) — la cultura della separatezza e della contrapposizione frontale è tuttora quella che meglio at­tecchisce. La paura di aprire un confronto troppo radicale, tut­tavia, serpeggia: non per nulla anche in questa circostanza il dibattito svoltosi nel corso del seminario non è trascritto, bensì sunteggiato da Claudio Tonel (pp. V-XV) che ribadisce con forza il punto di vista dei comu­nisti triestini, con un corredo di accuse e difese che hanno il sa­pore d’altri tempi.

A metà strada tra la testimo­nianza e l’impegno per una rico­struzione storica più complessa, le relazioni svelano comunque scenari nuovi e spesso inesplo­rati. Penso soprattutto al con­tributo di Marchetti ed a quello, quasi complementare, di Stelio Spadaro, C o m u n is ti e c a tto l ic i a T ries te : 1 9 4 5 -1 9 7 5 : per concor­de giudizio di entrambi, quel rapporto conosce nella Trieste

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del secondo dopoguerra, ritmi e modalità diverse rispetto al re­sto d’Italia. Della sensibilità e della preoccupata attenzione verso la “questione cattolica” presente nelle elaborazioni di Gramsci e di Togliatti, nulla viene ereditato dai comunisti giuliani: è una storia di “reci­proche sordità” — scrive Spa- daro — che ha radici profonde nella stessa cultura di tipo laico e liberale largamente diffusa tra tutti gli strati sociali del centro urbano (pp. 64-65).

Il mondo cattolico con la re­te delle sue organizzazioni e sotto la guida di un’imponente figura vescovile acquista rilievo infatti — osserva giustamente Marchetti — solo nel corso del secondo conflitto mondiale e soprattutto a partire dal 1945 quando esso diventa “punto di riferimento e guida nella città” anche sul terreno della lotta an­ticomunista e della battaglia patriottica e nazionale: di certo non si tratta di un fenomeno isolato nell’Italia d’allora, sin­golare è semmai la profondità del divario con la precedente realtà della presenza cattolica a Trieste. Il ruolo di prestigio co­sì acquisito segna per lungo tempo anche l’identità del mondo cattolico locale: solo attraverso una lunga serie di la­cerazioni interne esso sarà in grado di affrontare nuovi per­corsi (F. Marchetti, p. 23 e passim).

Al riguardo è significativo il fatto che il primo grave colpo alla monolitica unità cattolica sia stato inferto non tanto da problematiche di carattere reli­gioso od ecclesiale (sono gli an­ni del concilio Vaticano II) quanto piuttosto dalla mai ri­

solta “questione nazionale”: nel 1965, la Curia giunge a sconfes­sare apertamente l’operato del­la De per aver accettato — nel quadro degli accordi per la for­mazione del centro-sinistra a Trieste — l’ingresso di un espo­nente politico sloveno nella Giunta comunale (v. allegato n. 2 di p. 46). Sullo sfondo di que­sta realtà sociale, politica e cul­turale “da trincea” (le voci di­verse sono poche: cfr. l’espe­rienza della rivista “Trieste”, ri­cordata, forse in modo troppo riduttivo, da Giorgio Cesare), la tardiva nascita, nel 1965, del centro-sinistra nella città giulia­na viene indicata come un mo­mento decisivo di svolta.

Nel suo saggio, I l C e n tro -s i­n is tra a T r ie s te , Guido Bùtteri, che in quegli anni fu segretario provinciale della De, parla di “strategia alternativa” rispetto alla linea della tradizione libe- ral-nazionale volta a “perpetua­re lo scontro nazionalistico”. Si tratta di una valutazione capace di accendere ancora polemiche nel “pianeta comunista” (ricor­do la premessa di Tonel al volu­me): alcune sollecitazioni a non formulare solo sentenze di con­danna e di rifiuto (v. la relazio­ne di Spadaro) aprono tuttavia la strada ad un giudizio più equilibrato, sulla scorta di quanto la storiografia locale più avveduta ha già da tempo messo in evidenza (cfr. Giam­paolo Valdevit, D e m o c r a z ia c r is tia n a e q u e s tio n e n a z io n a le : d a l “b lo c c o n a z io n a le ” a l c en ­tro -s in is tra , in Aa.Vv., N a z io ­n a lism o e n e o fa sc ism o n e lla lo t ­ta p o l i t ic a a l c o n f in e o r ie n ta le 194 5 -1 9 7 5 , Trieste, Editoriale Libraria, 1977).

Anna Maria Vinci

Claudio Tonel (a cura di), S to r ia e a t tu a li tà d i T rie s te n e lle r if le s s io n i d e i c o m u n is ti , s.l., Salemi, 1985, pp. XII-464, lire12.000.

A partire dal 1981 e fino al 1986 si sono svolti con scadenza annuale, presso l’Istituto di stu­di comunisti Emilio Sereni di Cascina (Pisa), cinque seminari sulla società triestina ed in par­ticolare sulla storia del partito comunista a Trieste dalla sua fondazione al secondo dopo­guerra. Ne è stato promotore Claudio Tonel, dirigente comu­nista giuliano e già vicepresi­dente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, che non solo è riuscito a coinvolge­re militanti, studiosi ed espo­nenti di prestigio del partito (o comunque afferenti all’area co­munista), ma anche ad aprire un dibattito a più voci, con in­terlocutori di diverso orienta­mento ideologico.

La pubblicazione di ben sette volumi, che fanno perno su quella iniziativa, rappresenta già di per sé un evento politico­culturale col quale il confronto è d’obbligo, qualunque sia la valutazione storiografica che si voglia poi formulare sul com­plesso dell’opera.

Il libro che qui si presenta completa, secondo le afferma­zioni del prefatore Claudio To­nel, la “trilogia” interamente dedicata al partito comunista a Trieste: segue infatti a C o m u n i­s t i a T ries te . U n ’id e n ti tà d i f f ic i ­le , Roma, Editori riuniti, 1983 ed a D a lla L ib e ra z io n e a g li a n n i ’80 . T rie s te c o m e p r o b le m a n a ­z io n a le , s.l., Salemi, 1984, che in questa sede possono essere solo brevemente richiamati. Da un semplice esame degli indici

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appare tuttavia subito evidente che nessuna organica ripartizio­ne di argomenti, né secondo un ordine temporale né secondo una gerarchia di problematiche, è stata decisa in rapporto alle tre pubblicazioni. Esse rifletto­no innanzitutto il lavoro semi­nariale che sta a monte, senza la preoccupazione di giungere ad una sistematica ricostruzio­ne degli eventi: a maggior ra­gione, perciò, la mancata tra­scrizione del dibattito svoltosi nel corso delle giornate di stu­dio si avverte come un’assenza ingiustificata.

L’impegno — si sottolinea nella premessa al terzo volume (p. 4) — è di spezzare con l’aiu­to della ricerca storica e dell’a- gire politico quel processo di “pietrificazione” del passato che nella città giuliana, da più parti, continua ad essere ali­mentato: “[a Trieste] ci si trova— scrive Claudio Magris con felice intuizione (Itaca e oltre, Milano, Garzanti, 1982) — in un ‘collage’ in cui niente si è trasferito al passato [...] in cui tutto è presente, aperto e acer­bo [...]: impero asburgico, fa­scismo e Quarantacinque”.

In realtà, sono i grossi nodi problematici irrisolti, soprav­vissuti a vicende quanto mai la­ceranti, a creare la sensazione del “non-tempo triestino”. La cultura della convivenza tra ita­liani e sloveni, ad esempio, re­sta ancora pura ipotesi verbale: essa non può nascere del resto— suggerisce Tonel (p. 3) — sul terreno di una memoria offu­scata.

La relazione di Fausto Mon- falcon, Aspetti del neofascismo a Trieste nel dopoguerra, resti­tuisce appunto il clima di quella “guerra di religione” che, ap-

appena voltate le spalle all’e­sperienza nazifascista, spacca la città in due schieramenti contrapposti. Da una parte stanno “i difensori dell’Italia­nità e della Patria”, cui si ag­gregano ex collaborazionisti ed ex fascisti, passati indenni at­traverso i processi di epurazio­ne, e le nuove leve di giovani neofascisti: di tale violenta for­za d’urto (da far pesare sul ta­volo delle trattative di pace) non pochi democratici sono in­sieme pronubi e vittime. Sul­l’altro versante si pongono “gli slavo-comunisti”, “Panti-Ita- lia” : non c’è (e non si cerca) lo spazio per voci diverse, come quella pur flebile ed isolata dell’antifascismo democratico ancora operante (p. 239).

Il contributo di Franco Del Campo e Stelio Spadaro, I co­munisti e le organizzazioni cul­turali della sinistra a Trieste: dalle separatezze alla cultura della convivenza, ricorda — attraverso una rassegna delle iniziative culturali promosse dai comunisti e dalla minoran­za slovena — la storia di altre lacerazioni: principalmentequella provocata nel 1948 dalla risoluzione dell’Ufficio infor­mazioni del Cominform con la recisa condanna del partito co­munista jugoslavo. Sul piano locale non si trattò — sosten­gono gli autori (pp. 176-177) — di approvare una decisione che riguardava un paese lonta­no: “allora, la spaccatura a si­nistra passò dentro i circoli, le famiglie, gli amici, mise in contraddizione e toccò le con­vinzioni più profonde, sul pia­no politico-ideologico e su quello emotivo”. Nel saggio affiora (p. 181) tuttavia anche

il dubbio (che potrebbe rivelar­si una feconda ipotesi di ricer­ca) che tale contrapposizione non sia stata un semplice “af­fare delle sinistre”, ma abbia inciso a largo raggio, appro­fondendo vieppiù in quegli an­ni arroventati il solco di divi­sione tra italiani e sloveni nella Venezia Giulia.

Con l’articolo di Sergio Ranchi e Marina Rossi Contri­buto per una storia de “Il La­voratore": dalla conquista del suffragio universale alla crisi del riformismo austro-marxista (1907-1914), la macchina del tempo si sposta ancora all’in- dietro per far capire come il travaglio della questione nazio­nale sia componente essenziale della storia giuliana fin dal tar­do Ottocento. Con un lavoro di ricerca molto attento e pre­ciso, gli autori ricostruiscono i percorsi culturali, i convinci­menti ideologici, le battaglie e le contraddizioni dei socialisti triestini di inizio secolo alla ri­cerca di soluzioni e di idee da opporre alla marea montante dei nazionalismi.

Nelle relazioni (Silvano Ba- cicchi, Mezzo secolo di parteci­pazioni statali nella Venezia Giulia-, Mario Colli, Come si è arrivati alla costituzione della regione autonoma Friuli Vene­zia Giulia) che si occupano del problematico rapporto tra Trieste e la realtà statuale ita­liana e delle vicende relative al declino economico del territo­rio giuliano, i temi del dibatti­to politico prevalgono sullo sforzo d’analisi storica: non ci sarebbe ovviamente nulla da obiettare se esse non fossero a volte troppo succubi del noto adagio “heri dicebamus” e se non usassero strumentalmente

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— come in qualche momento avviene — i frutti di una ben più articolata ricerca storiogra­fica ai fini di proposte politiche date per buone in partenza. In­teressanti infine, per quanto tutti già editi, i documenti rac­colti alla fine di ogni saggio.

Anna Maria Vinci

Claudio Tonel (a cura di), T ries te c o s ì c o m ’è , Trieste, De­dalo Libri, 1988, pp. 244, lire20 . 000 .

Il volume comprende, per la maggior parte, i saggi discussi al quinto seminario organizzato nel 1986 presso l’Istituto di stu­di comunisti Emilio Sereni. I contributi sono raggruppati in­torno a tre aree tematiche di­stinte: impressioni su Trieste a trent’anni dal ritorno allTtalia; la cultura della convivenza tra italiani e sloveni nella Venezia Giulia; Trieste vista “dall’ester­no” e cioè dagli altri della re­gione, gli udinesi, i camici, i pordenonesi, i goriziani. L’o­biettivo di provocare la discus­sione “fuori dai miti, dalla re­torica e dai luoghi comuni” mi pare sia stato messo a segno in questo caso più e meglio che negli altri: della “storia e della cronaca di Trieste” emergono infatti interpretazioni assai dif­ferenziate che mettono a nudo anche motivi di scontro poli­tico.

Sulle cause del decadimento economico della città, ad esem­pio, a partire dagli anni del go­verno militare alleato e fino ai giorni nostri, tra il sindacalista Roberto Treu, P e rc h é se m p re è tu t to p iù d if f ic i le e l’imprendi­tore Federico Pacorini, L a s p e ­

ra n za le n ta m e n te s i f a re a ltà il dissenso è evidente: suscita po­lemiche soprattutto il ruolo gio­cato dall’imprenditoria privata in rapporto all’iniziativa indu­striale delle partecipazioni sta­tali ed in relazione alle politiche governative messe in atto per ri­sanare l’economia giuliana. Se ne traggono utili informazioni e si viene a conoscenza dei pro­getti per il futuro sui quali i punti di contatto tra i due rela­tori sembrano essere più nume­rosi: l’unico rammarico è che l’intera vicenda non venga com­misurata con le trasformazioni economiche (si veda, ad esem­pio, la ristrutturazione del set­tore della cantieristica e della navalmeccanica) che negli anni cinquanta e sessanta si verifica­no su scala ben più ampia di quella regionale. Il rischio della “lamentazione localistica”, no­nostante il gran parlare di una dimensione nazionale ed inter­nazionale del “problema Trie­ste”, è infatti sempre in aggua­to anche per gli osservatori più attenti e guardinghi.

Spregiudicata, d’altro canto, la relazione di Giuseppe Petro­nio, In te lle t tu a li f u o r i d a lla s t o ­ria?: essa prende di mira senza mezzi termini non solo il “mito della triestinità” di cui per anni si è fatta portabandiera la ben nota “Lista del Melone” — ali­mentando “fumose brume cul­turali” associate ad un profon­do qualunquismo politico —, ma anche quella visione nostal­gica e decadente della realtà triestina che le bellissime pagine di Claudio Magris hanno reso famosa in Italia ed all’estero (p. 19).

Petronio, usando volutamen­te espressioni non più di “gri­do” (ma ancora ricche di molte

potenzialità), sottolinea invece innanzitutto l’importanza di una storia della cultura che spieghi fenomeni non puramen­te e semplicemente letterari ed in secondo luogo l’urgenza di una “politica culturale” che apra discussioni e confronti ai più diversi livelli della società locale: solo così Trieste potrà li­berarsi dal “pesante cadavere” e dagli evanescenti spettri del suo passato.

I rapporti tra italiani e slove­ni, visti da angolature diverse ed interpretati con strumenti metodologici inconsueti, costi­tuiscono il tema centrale della seconda parte del libro: una ri­lettura psicoanalitica dell’in­comprensione e dell’odio ali­mentato nel tempo tra le due et­nie (Paolo Fonda, L ’a llu c in a ­z io n e n e g a tiv a o v v e r o il v is su to d e l p e r ic o lo ) precede una testi­monianza quanto mai originale sui valori (ma anche sui pregiu­dizi e sulle incrostazioni di un vecchio modo di sentire) intor­no ai quali, oggi, si costruisce l’identità nazionale degli slove­ni in Italia (Ivan Vere, C o m e e sse re s lo v e n i o g g i in I ta lia ) .

Sulla questione nazionale e sui problemi legati a “nazioni e nazionalismi” (p. 113) si soffer­ma invece Stelio Spadaro, C o ­m e esse re ita lia n i o g g i a T rie s te , tentando una riflessione più ar­ticolata sulla base del dibattito teorico ormai molto avanzato sull’argomento. Nel passaggio da considerazioni generali all’a­nalisi del particolare caso giu­liano l’autore, tuttavia, lascia in sospeso non pochi interroga­tivi: i modi e i termini in cui, ad esempio, viene recuperata nel secondo dopoguerra dalle forze democratiche locali e dai comu­

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nisti, l’eredità del socialismo austro-marxista che sulle tema­tiche del nazionalismo aveva fornito contributi spesso di alto livello (si pensi, nell’ambito del­la cultura italiana, all’opera di Angelo Vivante). Allo stesso modo andrebbe riconsiderato il significato e la valenza di una categoria come quella dell’ “in­ternazionalismo” (p. 128 e sgg.) negli anni della guerra fredda, segnati dal consolidarsi dell’e- gemonia staliniana sui partiti comunisti fratelli.

Dell’ultima parte del volume si può dire che alcune relazioni (Gianfranco Ellero, U n a c a p i­ta le r i f iu ta ta e Tito Maniacco, I l F r iu li p u ò s ta r e se n z a T ries te , m a T rie s te n o n p u ò s ta r e se n z a il F riu li) , con il loro puntiglioso rendiconto dei disagi e delle in­comprensioni nei rapporti tra Trieste (emblema del modo di vivere cittadino) ed il Friuli (mi­tico simbolo della campagna), fanno pensare all’urgente ne­cessità di una cultura della con­vivenza estesa a tutte le diverse “isole” regionali. Tale scelta è d’obbligo perché — osserva acutamente Vere — “il futuro conosce solo due possibilità: o barriere sempre più insormon­tabili o superamento degli stec­cati a tutti i livelli” (p. 162).

Anna Maria Vinci

Claudio Tonel, R a p p o r to co n T ries te , Trieste, Dedalo Libri, 1987, pp. X-306, lire 25.000.

Con questo volume, Claudio Tonel raccoglie una numerosa serie di interventi pubblici dei massimi dirigenti del Pei sulla “questione triestina” dal 1941

al 1986. Nella Trieste “città aspra... e maliosa” dei Saba, degli Svevo, degli Slataper c’è il rischio — argomenta l’autore — che tutto si trasfiguri in mito ed immagine letteraria. Non che la letteratura sia incapace di “leggere” la storia, tutt’altro: certe angolature prospettiche, certi scorci di realtà spesso sono colti solo dall’occhio del poeta. Il rischio, tuttavia, è che ogni cosa diventi passione e soffe­renza individuale: “fare sto­ria”, significa invece — secon­do Tonel — ripensare e risco­prire un passato di travagli e difficoltà collettive, ritrovare un ordine nel succedersi degli eventi, stabilire una gerarchia di cause, darsi e dare delle spie­gazioni razionali, al di là del rancore. Tutto ciò per modifi­care il presente e per suscitare anche a Trieste, inguaribilmen­te malata di nostalgia, la “vo­glia di futuro”.

Tale impegno politico che di­venta anche interpretazione del passato rappresenta un po’ il fi­lo rosso che percorre tutti i vo­lumi fin qui esaminati: in que­sto, alcuni nodi vengono al pet­tine, anche a causa — direi — di una lettura troppo riduttiva e meccanicistica del pensiero gramsciano. Sembra infatti che, senza scegliere, l’autore resti fermo ad un bivio: da una parte il desiderio di condurre a fondo e con spirito critico la ricerca e l’analisi sul movimento operaio e sull’organizzazione comunista a Trieste; dall’altra la convin­zione di dover studiare gli errori e le sconfitte del passato come “prezzi inevitabili” sulla strada della vittoria e del progresso di quella stessa forza politica.

D’altro canto, nel ripercorre­

re sinteticamente la storia del partito comunista a Trieste dal periodo resistenziale, attraverso il concitatissimo dopoguerra e fino agli anni sessanta, Tonel pubblica gli interventi (per altro tutti già editi) dei più alti espo­nenti del Pei (di Togliatti in particolare, ma anche di Lon- go, Scoccimarro, Berlinguer, Lama...) come esempi di una li­nea politica assolutamente coe­rente e di una visione sempre limpida degli eventi: un con­fronto con altre ipotesi storio­grafiche o anche una lettura più attenta delle stesse fonti citate, avrebbe in realtà suggerito maggior prudenza. Un solo esempio: l’autore cita la presa di posizione molto netta dei mi­nistri comunisti del governo Bonomi sull’ “indiscutibile ita­lianità di Trieste” fin dai primi giorni del maggio 1945 (p. 39). Tale indicazione, tuttavia, si so­vrappone ad altre, più volte ri­petute (si vedano i documenti in allegato) dai vertici del Pei, per una strettissima cooperazione con le forze di liberazione jugo­slave al fine di realizzare anche nella Venezia Giulia nuove for­me di democrazia popolare: ne conseguivano — come il dibat­tito storiografico ha già messo in rilievo — direttive politiche che si prestavano in loco a let­ture ambivalenti. Tant’è che i comunisti giuliani da anni or­mai abituati (p. 40) a riconosce­re (al di là di ogni costrizione) alle forze antifasciste jugoslave un ruolo egemone ed attratti dal fascino di quella esperienza politico-militare, finiscono con Faccettare di buon grado anche le rivendicazioni annessioniste avanzate da Tito per Trieste e la Venezia Giulia.

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Poco produttivo quindi pen­sare alla storia del partito co­munista a Trieste dal 1945 al 1948 come ad una singolare anomalia: nel fuoco delle trava­gliate vicende giuliane del se­condo dopoguerra, la dimensio­ne locale è strettamente connes­sa, infatti, a quella nazionale (la tanto discussa “doppiezza” del­la linea togliattiana trova qui un importante banco di prova), su un orizzonte segnato da proble­matiche di carattere internazio­nale. Allo stesso modo, sulle gravi lacerazioni aperte dalla nota risoluzione del Cominform nel giugno 1948, la citazione (p. 63) del giudizio lucido e critico di Alessandro Natta sembra in realtà chiudere perentoriamente un percorso di ricerca appena iniziato: la condanna, per quan­to necessaria, per la violenza di quell’atto, infatti, non basta più. Resta il problema di capir­ne le conseguenze sia all’interno della vita del partito comunista in sede locale (e nazionale) sia all’esterno, nel quadro più am­pio della “questione di Trieste” in quegli anni.

Se dunque rievocare il passa­to per agire correttamente nel presente rappresenta una scelta non certamente contestabile per il suo significato etico e politi­co, rimane da valutare a quale presente serva una rievocazione così “addomesticata”.

Anna Maria Vinci

Il cinquantesimo del 10 giugno 1940 sui quotidiani italiani

A partire dall’estate 1989, in coincidenza con il cinquantesi­

mo dell’inizio della seconda guerra mondiale, la maggior parte dei quotidiani italiani ha ospitato servizi rievocativi (te­stimonianze, ritratti del ‘come eravamo’, interviste e messe a punto di storici e protagonisti) che hanno avuto un seguito nel­la primavera di quest’anno (sul passaggio dellTtalia dalla non belligeranza all’intervento) e presumibilmente si prolunghe­ranno sino al 1995. La ricorren­za, va da sé, sprigiona forti ca­pacità di richiamo, a loro volta accentuate dalla congiuntura internazionale (i rivolgimenti nei paesi ex comunisti dell’Eu­ropa orientale) e dal riflesso di episodi ‘interni’ che hanno avu­to una discreta risonanza gior­nalistica (valga per tutti il riferi­mento agli infelici esiti della commissione ministeriale d’in­chiesta sulle stragi naziste di Leopoli). Si tratta comunque di un materiale relativamente ab­bondante, i cui contenuti an­dranno dettagliatamente esami­nati, classificati e posti a con­fronto, oltre che con i servizi ospitati dai periodici, con quan­to diffuso dagli altri mezzi di comunicazione di massa.

In attesa di ricomporre il quadro complessivo, sembra utile soffermarsi in modo speci­fico sulla data dell’intervento italiano e fornire una prima in­dicazione circa gli echi che la ri­correnza ha sollevato sui quoti­diani. Il presupposto è natural­mente quello di verificare se e in qual misura l’occasione sia stata messa a profitto per valu­tazioni di ordine generale o, quantomeno, per richiamare al pubblico dei lettori il rilievo della data entro il percorso complessivo delle vicende na­

zionali in questo secolo. Sotto questo profilo, l’attenzione è stata molto limitata tanto nel numero che nella collocazione e nella qualità dei testi. Taluni quotidiani (come “Avvenire”, T “Avanti!”, “Il Manifesto”) non vi hanno nemmeno fatto cenno; altri (da “Il Giornale” a “Il Messaggero”, da “l’Unità” a “Il Popolo”, da “Il Sole-24 ore” a “L’Osservatore roma­no”, da “La Repubblica” a “La Gazzetta del mezzogiorno”) hanno confinato la ricorrenza nelle pagine interne, non di ra­do segnalandola più con note di cronaca (e di colore) che con contributi intesi a fornire un in­quadramento storico dell’avve­nimento; altri quotidiani anco­ra, una netta minoranza (citia­mo a titolo di esempio “Il Gior­no”, “Il Resto del carlino”, “Secolo d’Italia”) hanno sotto- lineato l’anniversario con mag­giore evidenza, senza tuttavia addentrarsi in riflessioni di par­ticolare impegno. Giano Acca­me ha affacciato sul “Secolo d’Italia”, senza tuttavia formu­lare risposte, il problema della mancata risposta degli italiani all’appello mussoliniano (evo­cato nei termini della lotta delle nazioni giovani contro la ‘plu­tocrazia’); Guglielmo Zucconi e Arrigo Petacco hanno ripropo­sto su “Il Giorno” e “Il Resto del carlino” la dicotomia/con- trapposizione tra le velleità del­l’imperialismo fascista e la pas­sività dell’opinione pubblica. Quest’ultimo filo conduttore lo si ritrova del resto in altri quo­tidiani e costituisce una sorta di leit motiv che, almeno in parte, può spiegare il disimpegno della stampa. Il 10 giugno 1940 trova posto solo come controprova

Rassegna bibliografica 615

delle sciagurate ambizioni mus- soliniane e dei lutti infiniti che queste avrebbero recato al pae­se. L’omogeneità delle titola­zioni è in proposito esemplare: “Quella tragica illusione di vin­cere senza sparare” (Marco Nozza, “Il Giorno”); “Una de­cisione precipitosa, un interven­to tragico e disastroso” (Dome­nico Sassoli, “Il Popolo”); “L’abbaglio del facile trionfo” (Mario Cervi, “Il Giornale”); “La grande illusione perduta” (Aurelio Lepre, “Il Mattino”). Tutti o quasi, come si vede, ri­chiamano una immagine nella quale, accanto alla ‘grande sto­ria’ della follia fascista, trova posto la ‘piccola storia’ di un popolo che, per ignoranza e as­senteismo, si lascia prendere al laccio da quei miraggi e si ac­cinge a scontare, come mai avrebbe creduto, la illusoria prospettiva della grande poten­za. In definitiva, ma su ciò i quotidiani non fanno altro che riflettere la convinzione comu­ne, una guerra che ebbe la sola paternità del duce e che fu a contraggenio combattuta da un popolo profondamente estra­neo alle motivazioni del conflit­to. Si dirà, ed è vero, che que­sto luogo comune rientra appie- na in quei canoni della oleogra­fia nazionale che dipingono la partecipazione alla prima guer­ra mondiale come “compimen­to del risorgimento” e la resi­stenza armata del 1943-1945 co­me moto spontaneo di tutto un popolo che scende in campo contro la dominazione nazifa­scista. Ma proprio per questo la ricorrenza del 10 giugno 1940 poteva essere una occasione fruttuosa per scalfire i più abu­sati luoghi comuni. Special­

mente in un periodo in cui il te­ma della identità nazionale for­nisce facili, e facilmente mani­polabili, spunti alle improvvisa­zioni di politici, studiosi e gior­nalisti. (m.l.)

Libri ricevuti

Pietro Alberghi, II fascismo in Emi­lia Romagna. Dalle origini alla marcia su Roma, Modena, Mucchi, 1989, pp. 675, lire 90.000.

Yves Amiot, I diamanti delle Ar- gonne, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. 167, lire 9.000.

Gaetano Andrisani, Appunti sui Borbone. L ’esilio di Pio IX , Firen­ze, Edizioni “Città di vita”, 1988, pp. 382, lire 40.000.

Giuseppe Aragno, Siete piccini per­ché siete in ginocchio. Il “Fascicolo dei lavoratori”. Prima Sezione Na­poletana del P.S.I. (1893-1894), Roma, Bulzoni, 1989, pp. 125, lire13.000.

Archivio di Stato-Caltanisetta, Il Cholera morbus a Caltanisetta. Isti­tuzioni e società (1837). Mostra do­cumentaria, a cura di Claudio Tor- risi, Caltanissetta, Tipo-litografia Bartolozzi, 1988, pp. 131, sip.

Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di comunità, 1989 (I ed. 1963), pp. 340, lire 42.000.

Carlo Alberto Augeri, Testo, segni e mentalità. La letteratura nella sto­riografia delle “Annales”, Lecce, Milella, 1988, pp. 161, sip.

Giuseppe Avolio, L ’utopia dell’uni­tà. L ’azione della sinistra per una nuova società, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 172, lire 20.000.

Carrol Baker, Una storia romana, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. 252, lire 20.000.

Piero Baroni, Obiettivo Mediterra­neo, Reverdito editore, 1989, pp. 221, lire 22.000.

Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario Ilio Barontini, Livorno, Edi­trice Nuova Fortezza, 1988, pp. 271, lire 30.000.

Barrington Moore jr, Riflessioni sulle cause sociali delle sofferenze umane e su alcune proposte per eli­minarle, Milano, Edizioni di comu­nità, 1989 (I ed. 1974), pp. 236, lire30.000.

Adolfo Battaglia, Roberto Valca- monici, Nella competizione globa­le. Una politica industriale verso il 2000, Laterza, 1989, pp. XXI-462, lire 25.000.

Silvio Bertoldi, La chiamavamo pa­tria, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 286, lire 26.000.

Sergio Bozza, 90 uomini in fila alli­neati sul mirino della "37”, Milano, Greco & Greco, pp. 233, lire15.000.

Gian Piero Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spetta­tore cinematografico, Marsilio, pp. XXVIII-404, lire 50.000.

Aurelio Bruzzo, Economia e inter­vento pubblico. Analisi critica delle recenti tendenze neoliberiste, Pado­va, Cedam, 1988, pp. 103, lire 11.500.

Mario Capanna, Arafat. Intervista al presidente dello Stato palestine­se, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 191, lire 22.000.

Guido Carli, Pensieri di un ex go­vernatore, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1988, pp. VIII-212, lire25.000.

Maurizio Caselli, L ’inquinamento atmosferico, Roma, Editori Riuni­ti, 1989, pp. 169, lire 10.000.

616 Rassegna bibliografica

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Centro studi finanziari e assicurati­vi, Professione risparmio, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. VI-290, li­re 28.000.

Raffaele Colapietra, Fucino ieri, L’Aquila, Ente nazionale di svilup­po agricolo in Abruzzo, 1989 (I ed. 1977), pp. 347, sip.

Ornella Confessori, 1 cattolici e la “Fede nella libertà”. “Annali Cat­tolici” / "Rivista Universale” “Ras­segna Nazionale”, Roma, Studium, 1989, pp. 245, lire 22.000.

La Cooperazione di consumo a Massa Marittima 1867-1900, s.l., Coop La Proletaria, 1987, pp. XV-213, sip.

Paolo Corsini (a cura di), La sini­stra in Europa. Cultura e progetti per gli anni ’90, Milano, Angeli, 1989, pp. 127, lire 15.000.

Marco De Andreis, Paolo Miggiano (a cura di), L ’Italia e la corsa al riarmo. Un Contro-Libro bianco della Difesa, Milano, Angeli, 1987, pp. 333, lire 25.000.

Luigi De Rosa (a cura di), La sto­riografia italiana degli ultimi ven- t ’anni; Vol. I, Antichità e medioe­vo, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp.VII-386, lire 30.000; Vol. II, Età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 554, lire 30.000; Vol. Ili, Età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 452, lire 30.000.

Giovanni Di Capua, I professorini alla Costituente, Roma, Ebe, 1989, lire 30.000.

Marcello Di Falco, Il risparmio bruciato, Soverina Mannelli (CZ),

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Carlo Francovich, Storia della mas­soneria in Italia. Dalle origini alla rivoluzione francese, Firenze, La Nuova Italia, 1989 (I ed. 1974), pp.VIII-517, lire 38.500.

Mimmo Franzinelli, Padre Gemelli per la guerra, Ragusa, Ed. La Fiac­cola, 1989, pp. 98, lire 15.000.

Claudia Damiani, Europa addio, Milano, Il Mandarino, 1989, pp. 364, lire 10.000.

Pier Virgilio Dastoli, 1992: Europa senza frontiere?, Bologna, Il Muli­no, 1989, pp. 179, lire 15.000.

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Silvia Giannini, Imposte e finanzia­menti delle imprese, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 199, lire 20.000.

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Witold Kula, Riflessioni sulla sto­ria, Venezia, Marsilio, 1990, pp. XXXIV-234, lire 32.000.

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Michele Vovelle, Immagini e imma­ginario nella storia. Fantasmi e cer­tezze nelle mentalità dal Medioevo al Novecento, Roma, Editori Riuni­ti, 1989, pp. 334, lire 38.000.

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620 Rassegna bibliografica

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STORIA CONTEMPORANEASommario del n. 3, giugno 1990

Saggi

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Note e discussioni

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Recensioni

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Note e segnalazioni

Spoglio dei periodici italiani 1989a cura di Franco Pedone

È stato effettuato lo spoglio dei seguenti pe­riodici (sono riportati la sigla, il titoto per esteso, la sede della redazione e il luogo di edizione): AE, “Affari esteri” (Roma); A, “Africa” (Roma); AS, “Analisi storica” (Lecce-Brindisi); AAC, “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Roma-Bologna); AFBr, “An­nali della Fondazione Giacomo Brodolini” (Milano); AFB, “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso” (Roma); AFE, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino); AIG, “Annali dell’Istituto storico italo-ger- manico” (Trento); AUL, “Annali dell’Istitu­to Ugo La Malfa” (Roma); ASI, “Annali di storia dell’impresa” (Milano); Ba, “Balcani­ca” (Roma); Be, “Belfagor” (Bari-Roma); BMS, “Bollettino del Museo del Risorgimen­to” (Milano); CC, “Civiltà cattolica” (Città del Vaticano); Ci, “Civitas” (Roma); C, “Clio” (Napoli); Co, “Comunità” (Milano); CM, “Critica marxista” (Roma); Cst, “Criti­ca storica” (Napoli-Firenze); DD, “Demo­crazia e diritto” (Roma); IM “Incontri meri­dionali” (Messina-Catanzaro); IC, “Italia contemporanea” (Milano); JEEH, “The Journal of European Economie History” (Roma); Me, “Meridiana” (Roma); MC, “Mondo cinese” (Milano); MOS, “Movi­mento operaio e socialista” (Genova); Mu, “Il Mulino” (Bologna); NS, “Nord e sud” (Napoli); NA, “Nuova antologia” (Firenze); NRS, “Nuova rivista storica” (Roma); Pa, “Padania” (Ferrara); PP, “Passato e presen­te” (Firenze); PEM, “Il pensiero economico

moderno” (Pisa); PeP, “Il pensiero politico” (Perugia); Poi, “Polis” (Bologna); PD, “Po­litica del diritto” (Bologna); PI, “Politica in­ternazionale” (Firenze); P, “Il Politico” (Pa­via); Po, “Il Ponte” (Firenze); PS, “Problemi del socialismo” (Roma); QC, “Quaderni co­stituzionali” (Bologna); QSoc, “Quaderni di sociologia” (Milano); QdS, “Quaderni di sto­ria” (Bari); QS, “Quaderni storici” (Genova- Bologna); RSR, “Rassegna storica del Risor­gimento” (Roma); RS, “Ricerche storiche” (Firenze-Napoli); R, “Risorgimento” (Mila­no); RSC, “Rivista di storia contemporanea” (Torino); RSdC, “Rivista di storia della Chie­sa” (Roma); RSE, “Rivista di storia economi­ca” (Torino); RSPI, “Rivista di studi politici internazionali” (Firenze); RISP, “Rivista ita­liana di scienza politica” (Bologna); RSI, “Rivista storica italiana” (Napoli); SeS, “So­cietà e storia” (Milano); So, “Sociologia” (Roma); SD, “Sociologia del diritto” (Mila­no); SC, “Storia contemporanea” (Bologna); SPE, “Storia del pensiero economico” (Mila­no); SS, “Storia della storiografia” (Milano); SRI, “Storia delle relazioni internazionali” (Firenze); SU, “Storia urbana” (Milano); SE, “Studi emigrazione” (Roma); SSt, “Studi storici” (Roma).Lo spoglio non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece inclusi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano ancora stati presi in considerazione.

Italia contemporanea”, settembre 1990, n. 180

622 Rassegna bibliografica

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