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Anno VIII numero quattro giugno duemiladieci ...DI RITORNO DA VOLVIENDO DE... come nasce un progetto GRADI 124

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rivista di architettura

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Anno VIII numero quattro giugno duemiladieci

...DI RITORNO DA VOLVIENDO DE... come nasce un progetto

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124° - centoventiquattroapprofondimenti di ingegneria e architettura

c/o DAPT - Facoltà di IngegneriaVia Risorgimento 2 -40100 Bolognawww.centoventiquattro.it

Da un’idea di Luigi OrioliStefano BrunelliAntonio Bandini

Direttore ResponsabileAndrea Fattori

RedazioneStefano BrunelliLuigi OrioliAntonio BandiniRommel Armas MoralesLivio TalozziGabriele CocciaRiccardo Robustini

GraficaAndrea FattoriStefano Brunelli

Con il contributo diSara TomassiniEster BaiaCaterina MalandriGiulio DrudiLara Del MoroElena Bigelli

Comitato di redazioneRappresentanti del Consiglio di corso di Ing. Edile\Architettura

Comitato scientificoProf. PierPaolo Diotellevi preside della Facoltà di IngegneriaProf. Carlo Monti presidente C.d.L. Ing. Edile\ArchitetturaProf.Piero Secondini direttore D.A.P.T.Prof.Francesco Ubertini direttore D.I.S.T.A.R.T.Prof. Andrea Munari direttore D.I.C.A.S.M.Prof. Enzo Zanchini direttore D.I.E.N.C.A.Ing. Luigi Guardigli C.L.U.E.B.

2010 by CLUEBCooperativa Libreria Universitaria Editrice Bologna

ISBN 978-88-491-3380-6CB 4721

Registrazione presso il Tribunale Civile di Bologna7534 in data 19 04 2005

foto di copertina: Matteo Brucoli

02 Sommario

03 Editoriale

04 Bernalte&LeònBodega Viña Cuerva

10 Fernando MenisMagMa Arte y Congresos

16 Rojo Fernandez72 Viviendas VOP por Ciudad Real

20 SOMStefano Ceccotto

26 Arquitectura se mueveTaller de partecipaccion urbana

30 Glauco GresleriLe ‘‘ruine di Ceretolo’’

38 Gresleri\Le CorbusierRetroscena di una occasione mancata

42 Fotogramma da un corso di scrittura creativa instabileIntroduzione al corso di co.4 48 Fare ArchitetturaUna domanda a Renzo Piano

50 Scatti d’architettura contemporanea‘‘Gente di Via’’ progetto fotografico di Matteo Brucoli

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di ritorno da...

Dopo un lungo silenzio 124 ritorna. Tra le aule dell’università, tra i libri degli esami, su qualche tavolo di giovane professionista e sugli scaffali di poche piccole biblioteche. Ritorna con il suo punto di vista ormai consolidato ma mai scontato; spesso inedito ma mai banale. Ritorna come luogo di incon-tro, dibattito e confronto. Si riparte con una piccola ma tenace redazione, desiderosa di portare avanti il lavoro di investigazione e ricerca intrapreso nei numeri precedenti, con-vinti che la “forma rivista” continui ad essere uno strumento efficace per ap-profondire la passione ed allargare la curiosità sui temi dell’architettura e dell’ingegneria.I contenuti di questo numero nascono dall’ esperienza e dal confronto con la scuola di architettura spagnola. Si può che dire che 124 ha ripreso parola dopo e grazie ad un periodo di studio trascorso presso la Esquela Tecnica Superior De Arquitectura de Valencia. Questo numero nasce dunque “di ritorno” dalla Spagna e ne vuole essere una testimonianza diretta. E’ per questo che le pagine seguenti sono fatte di appunti di viaggio, di resocon-ti di conferenze, di riflessioni su laboratori. Di dialoghi con i professori e di confronti con gli studenti. In un clima di reciproco scambio. L’arch. Rojo Fer-nandez, l’arch. Fernando Menis, gli arch. Bernalte e Leon sono alcuni tra gli interlocutori più autorevoli. Interrogati a partire dall’esperienza concreta di un progetto realizzato si è attraversato il processo del “creare” e si è appro-fondito il percorso del “farsi reale”. Fino alla sorpresa del “gioco sapiente, ri-goroso, e magnifico dei volumi sotto la luce”. Con questo numero, 124 inizia un percorso di approfondimento delle regole e dei principi che sottostanno alla nascita di un progetto.Ma “di ritorno da” presuppone anche un luogo a cui si riapproda. Ed a Bolo-gna, per la rubrica “le pietre raccontano” siamo andati a scoprire la misterio-sa vicenda della monumentale architettura incompleta sulle colline di Ca-salecchio di Reno. La testimonianza diretta raccolta dal suo artefice, l’arch. Glauco Gresleri, è stato uno dei momenti che possono essere indicati come emblematici dello spirito e dello sguardo di 124: dal dialogo è emerso anche il contenuto di alcuni incontri con Le Corbusier a proposito di una nuova chiesa a Bologna, mai realizzata, che pubblichiamo come inedito spaccato di cronaca di un periodo storico in cui Bologna era un fervido luogo di di-battito architettonico.Chiude questo numero di 124 una nuova rubrica di fotografia di architettu-ra: qualche scatto per imparare a guardare.124 è tornata. Buona lettura.

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Intervista con Javier Bernalte Bernalte &Leòn\associados

Bodega Viña Cueva

Javier Bernalte Patón nasce nel 1964, studia architettura presso l’ETSAM (Escola Superior d’Arquitec-tura de Madrid) si laurea nella stessa università nel 1989. Nel 2004 diventa professore all’ETSAM dove tuttora lavora come professore di progetto.

José Luís León Rubio nasce nel 1974, studia architettura presso l’ETSAM (Escola Superior d’Arquitec-tura de Madrid) si laurea nella stessa università nel1999. Lavora come professore alla Escuela Superior de Diseño “Pedro Almodóvar” di Ciudad Real.

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124 Nel lavoro della Bodega quali sono state le idee e le considerazioni da cui il progetto ha preso vita?

B&L Più che le considerazioni, a volte sono le circostanze che definiscono e marcano l’atteggiamento progettuale. In questo caso ci troviamo all’interno di una zona di impianti viticoli, con un vuoto scavato già esistente, ottenuto dalla demolizione di un vecchio edificio industriale dove i proprietari vole-vano costruire un impianto viticolo di maturazione delle uve. La configura-zione formale in pianta e la posizione all’interno del lotto appaiono quin-di imposte da questa conca già scavata. E’ sempre una buona cosa cercare di rendersi favorevoli i vincoli, per esempio considerando che la terra è un buon ‘’rifugio’’ per il vino. Non mettemmo nessuna obiezione alle richieste dei proprietari ma, al con-trario, le convertimmo in idee generatrici del progetto. Abbiamo già una straordinaria conca che protegge il vino! Come facciamo a coprirla per non perdere le capacità termiche? lo posso fare con un’altra conca riempita di terra!Il progetto così concepito, suppone la disposizione di un ‘’terreno tettonico’’ sopra il vuoto creato. Se dovessimo definirlo in due parole potremmo dire “massa su massa” con due accezioni ben definite: massa confinata o finita riferita al prisma architettonico, in relazione alla massa infinita della conca scavata nella terra. La forma, per il nostro modo di progettare, quasi mai viene prima rispetto ad altre variabili del progettare, lasciamo che sorga in modo non premeditato, come conseguenza di molte altre circostanze im-portanti. Il mezzo fisico, il sito, il programma, la tecnica, il cliente con le sue vicissitudini o anche il denaro, fanno parte di questo elenco di situazioni concrete che modulano e modellano la forma definitiva dell’architettura. In questo caso è doppiamente motivato, trattandosi di un edificio indu-striale dove la forma, ovviamente, deve essere correlata all’ordine funzio-nale e costruttivo. Per questo motivo la conca superiore non è altro che la risposta omotetica dell’inversione del vuoto esistente; un semplice guscio o copertura che rispetta i confini e la geometria esistente, risultando così come un’altra forma industriale pura. Se nel lotto abbiamo cilindri o cupole semisferiche come serbatoi di stoccaggio del vino, perché non creiamo un prisma teso per avvolgere i barili? Ci sedusse la primaria volontà formale dell’architettura industriale, quindi ci lasciammo sedurre e guidare da essa.

124 Il vostro metodo progettuale? Può raccontarcelo a partire da questo pro-getto?

B&L Ti dirò che, almeno per noi, non esiste né credo, debba esistere un meto-do universale capace di articolare risposte architettoniche a situazioni diver-se. Ogni progetto è un mondo così particolare ed unico, che mai può essere affrontato come quello precedente. Se facessimo così credo che avremmo perso la battaglia. Saremmo morti come architetti! Comunque, ciò non to-glie che quando si interpreta architettura, rimangano sempre dei valori co-stanti che appaiono con maggior o minor intensità nelle nostre opere. E’ evidente che prestiamo molta attenzione alle variabili del luogo, come se aspettassimo sempre che il contesto ci parli, si ‘’intrometta’’ e condizioni il nostro progetto, cercando di ‘’rispondergli’’ nella maniera migliore. Più che la manifestazione esterna della forma architettonica, ci interessa la spazialità materializzata attraverso la luce; la forma quasi sempre risulta dalla mani-festazione strutturale del solido dove si verificano questi successi spaziali,

1 accesso2 cantina antica3 nuova struttura 4 piazza 5 nuova cantina6 edificio esistente7 galleria interrata

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non spazi riciclati da linguaggi retorici, ma dalla applicazione di parametri strettamente funzionali. La luce (spesso anche l’aria e quindi la ventilazione) una fessura di luce, come quella mostrata nel magazzino, può essere una magnifica soluzione architettonica per separare “due mondi”, ma anche per materializzare le ombre di uno spazio orizzontale. Non è meno importante la capacità di ricircolo dell’aria, favorendo cicli di ventilazione ascendente verso i caminetti situati nella copertura. La sezione è quasi sempre la fonte del progetto in quanto si inseriscono molti significati spaziali e tende ad essere la più chiara ed esplicita manife-stazione del sistema costruttivo. Per questo ci interessa molto come ‘’germe generatore’’ del progetto. Di fronte alla scarsità di mezzi economici e tecnici, che incontriamo in Castilla la Mancha, cerchiamo di ingegnarci nella ricerca di quei sistemi costruttivi che, in un colpo solo, risolvano la sezione globa-le del progetto. Vedete, è molto difficile parlare di un progetto concreto e fisico... è un universo complesso e, soprattutto, nella nostra comprensione, trasversale.

124 Con questo progetto le soluzioni strutturali sono state affrontate fin dal principio o sono state risolte una volta raggiunta la forma finale?

B&L La domanda che fai riflette implicitamente i modi di riflettere e pensare delle scuole di architettura degli ultimi anni.Viviamo così assorti nella forma, io direi nella ‘’apparenza formale’’, che a volte tutto il processo progettuale si basa su di essa; non solo il programma funzionale e la sezione si sottomet-tono all’immagine ‘’renderizzata’’, ma i sistemi derivati dell’ordine strutturale e costruttivo soffrono indicibilmente per assumere questo corso formale im-posto, diventando in molte occasioni delle autentiche aberrazioni, per cer-care di mantenere la fedeltà al modello formale. Nel progetto della Bodega, come in molti altri, la forma non sorge nè prima né dopo della struttura, ma di volta in volta; per il programma, per il contesto, per il sistema costruttivo che materializza la struttura, per la luce e per la materia. Realmente nella testa dell’architetto si crea un cocktail simultaneo di tante e tante cose, e dire che tutte hanno la stessa importanza forse non è propriamente vero. In ogni progetto, alcune marcano una gerarchia rispetto alle altre, però tutte interagiscono tra loro, ponendo la propria identità al servizio di tutto il resto.

124 Che ruolo gioca in questo progetto la scelta dei materiali?

B&L La materialità dell’architettura va indissolubilmente associata alla pro-pria essenza. Quanta più affinità esiste col materiale, inteso come sistema costruttivo associato alla sua potenzialità fisica (proprietà meccaniche, ter-miche e acustiche), meglio ‘’suona’’ l’architettura. E se oltre a questa materia-lità, convive bene con il suo contesto... molto meglio. Si potrebbe dire quin-di, in termini metaforici, che l’orchestra suona bene, è regolata... e l’ultimo strumento che entra nello spartito lo fa rispettando gli altri. Ci interessa mol-to il ‘’suono ‘’ dell’architettura del luogo, forse perché abbiamo visto come si mal interpretano nella nostra città i ritmi e le cadenze locali, distruggendo quella sincera e semplice armonia consolidata dal tempo. Abbiamo un mot-to che quasi sempre funziona: utilizza o reinterpreta con una nuova tecnica la materia del sito e sbaglierai meno! Al di là del linguaggio architettonico impiegato, le opere che assimilano una materialità affine con il contesto, si inseriscono con maggiore naturalità. Nel caso della Bodega, utilizzammo la terra come materiale principale, compri-mendola tra una pelle interna di cemento compresso, e l’altra esterna di ac-ciaio. L’acciaio corten, che si autoprotegge attraverso l’ossidazione, marca e definisce l’apparenza esteriore offrendo al lotto un nuovo contenitore indu-

striale. Tra la sinfonia di depositi d’acciaio di distinte epoche, dipinti, galva-nizzati o inossidabili, appare uno zoccolo ossidato e modificato dal tempo, che allude ai processi di invecchiamento del vino che si succedono al suo interno.

124 Cosa pensa dell’architettura che cerca di essere nel contesto in cui è situata? E questo edificio che rapporto ha con l’ambiente in cui è collocato?

B&L Molte volte l’architettura deve reclamare la sua giusta impronta nel sito, necessaria per una rivitalizzazione nel tempo. Non sempre però gli archi-tetti operano con questa misura; sono rare le occasioni nelle quali il luo-go necessiti di una ‘’architettura protagonista’’, mentre, al contrario stiamo continuamente notando ‘’l’eccessivo artificio’’ che rivendica la sua condizio-ne eccentrica ed esclusiva. Credo che questo modo di lavorare ci allontani dall’essenza dell’architettura sincera. Quella che senza pretenderlo trasmet-te sensazioni rassicuranti, che quando ne discutiamo ci fa sorridere... a volte senza saperne il perché... o disegna un sorriso di complicità sul volto di colo-ro che partoriscono una bella idea. Non mi interessano le opere che ‘’adom-brano’’ l’attuale società, lasciandoci tutti a bocca aperta. Sono architetture che tendono a morire dopo la loro messa in scena, e che dopo qualche anno rimangono nel migliore dei casi, dimenticate, indifferenti o marcate per il loro snobismo di avanguardie passate. Quando terminammo il pro-getto La nave de Crianza, un amico, e buon architetto, dopo averla visitata mi disse: mi è piaciuta molto, soprattutto la concezione spaziale rotonda e la sua chiara e precisa materializzazione costruttiva... però che peccato che questo progetto non si trovi in un altro posto più chiaro, dove il progetto sarebbe stato più ‘’lucido’’! Evidentemente la mia risposta fu chiara: non si tratta di ‘’brillare’’ ma di rispondere a delle condizioni concrete di un conte-sto determinato. E’ questo quello che abbiamo fatto. La forma e l’apparenza del progetto della Bodega non ricerca né reclama protagonismo, ma si rap-porta con gli edifici preesistenti. Lì sta il segreto e l’essenza dell’architettura, nella sua espressione silenziosa, almeno in questo caso.

124 Ci sono state particolari difficoltà nel percorso di progettazione?

B&L No, perché non c’è stato, in un certo senso, un processo progettuale, il pezzo è venuto in modo naturale, dalla propria massa, basata sulla logica costruttiva e strutturale e, naturalmente, dalla ottimizzazione dei materiali. Sono quelli che dettano le regole, non noi. Così, per esempio, per ‘’sanare’’ la conca esistente abbiamo utilizzato un cemento poroso, povero, che tra-smette l’umidità del terreno all’interno, creando in questo modo diverse fes-sure attraverso le quali può infiltrarsi l’acqua. Questo cemento poco trattato non comporta nessun rischio strutturale, semplicemente presuppone la conformazione della conca scavata, e per lo più porta con sé una proprietà igrometrica favorevole al vino. Basta visitare un’antica grotta di La Mancha, scavata direttamente nel terreno, per averne una prova! Sopra questa conca, ‘’povera e porosa’’, il guscio superiore manifesta il suo carattere strutturale attraverso un cemento ‘’resistente, compatto e depurato’’ marcato modular-mente dai pannelli delle casseforme. Il cappotto esterno d’acciaio si modula e si dimensiona partendo dal foglio del telaio industriale ottimizzando al massimo il materiale.Potremmo dire che, infine, sono i materiali quelli che definiscono l’apparen-za dell’oggetto. Noi lasciamo che parlino e optiamo per quel vocabolo che più ci interessa in ogni momento e situazione specifica.

124 Col senno di poi, ad edificio ultimato, c’è stato qualche pentimento, vi è

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venuto in mente che sarebbe stato meglio cambiare qualche cosa dal punto di vista formale o dei materiali?

B&L In questo caso no, anche se non sempre succede così. Trattandosi di una opera così essenziale e semplice dal punto di vista strutturale e costruttivo, intuimmo le sue connotazioni e sfumature già in fase di pianificazione del progetto. L’esecuzione non è stata altro che la constatazione della materia-lizzazione dell’idea iniziale.E’ stata molto interessante la ‘’localizzazione industriale’’ del processo co-struttivo. Ogni materiale entrava nella fase della costruzione marcando le sue proprie regole: primo il cemento, poi l’acciaio e per ultimo la terra. Fu certamente emozionante vedere come, con così pochi elementi, così poca spesa e spreco di energie, si può fare architettura. Così è l’architettura indu-striale! Sincera, elementare, logica, facile, precisa...Così abbiamo inteso fosse questo progetto...

124 Nella conferenza tenuta alla Facoltà di Architettura di Valencia parlò di ‘‘Architettura assente’’, potrebbe approfondire questo concetto?

B&L Effettivamente parlai di architettura assente a proposito di quella che parla di silenzio... quelle architetture che dialogano con il contesto senza adombrarlo, che sembrano assenti dal contesto ma per avvalorare il luogo. Architetture che sono private del loro “io”. In questo senso ci piacerebbe che le nostre opere si potessero confondere col contesto, come se fossero sem-pre state lì...che il tempo si fosse fermato in esse. Ci sono architetture per le quali non passa il tempo, che si assentano dal ciclo mediatico attuale. Occor-re scoprirle e percorrerle per ascoltare il loro maestoso silenzio.

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Fernando MenisNato nel 1951, a Santa Cruz di Tenerife, studia  architettura presso l’Università di  Barcellona. Nel 1981 fonda un team di lavoro con gli architetti Felipe Artengo Rufino e José María Rodríguez Pastrana Malagón. Dal luglio 2004 Menis porta avanti la sua attività in maniera indipendente con  studi a Tenerife e Valencia.

Intervista con Fernando Menis

MAGMA Arte y Congresos

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124 Quali sono stati i concetti principali presi in considerazione nel pro-gettare l’edificio?

FM Situato in un eccezionale contesto, in una zona di forte sviluppo turistico, il Magma Arte&Congresos appare come un punto di riferi-mento tra edifici anonimi. Il paesaggio semi desertico che lo circonda e la presenza del mare sono i punti di partenza concettuali dell’edificio. L’occasione di costruirlo suppone l’opportunità di restituire un pezzo di paesaggio ad una zona di edificazione estremamente artificiale. Le sue rocce di cemento, che sembrano fuoriuscire dal terreno sottostante, sono state composte dal materiale estratto dallo stesso lotto. Il MAGMA si mimetizza con l’originale paesaggio naturale circostante, avvalorandolo e dialogando con esso, stabilendo una intima relazione tra la costruzione e il suo paesaggio. Oltre a ciò, abbiamo ritenuto molto importante che il MAGMA nascesse con la vocazione di convertirsi in ca-talizzatore turistico e culturale di tutta la regione, dovendo rispondere ad una moltitudine di eventi a scala internazionale. Quindi è stata anche l’occasione per investigare come l’architettura possa essere capace di rivitalizzare luoghi e processi economici, cosa che ci ha accompagnato per tutta la durata dell’esecuzione.Quello che caratterizza la sua formazione è l’innesto dell’edificio nel suo contesto assieme alle condizioni tecniche del programma. Il MAGMA è collocato all’interno di un paesaggio semi desertico di roc-cia calcarea tra il mare e la montagna di Adeje e Arona, e proprio dal-la reinterpretazione di queste forme del luogo che nasce tale edificio. Questa lettura dà luogo ad una volumetria che potremmo definire pie-trosa, che sembra emergere dal suolo per accogliere i differenti servizi del programma e si relaziona con la sinuosità della copertura, immagi-nata come il mare in movimento. La sua superficie ondulata, attraverso numerosi studi e aggiustamenti, risponde alle necessità tecniche di una buona acustica, ossia è disegnata seguendo la traiettoria delle onde so-nore.

124 Ci può parlare del suo metodo di lavoro esemplificandolo nel pro-getto del MAGMA?

FM Il metodo di lavoro utilizzato nello studio MENIS Arquitectos è in-timamente legato alla mia traiettoria personale e si poggia su di una grande passione per il lavoro manuale. Questo implica un modo caratteristico, carico di emozione, di approccio al progetto: un processo continuo di aggiunta e rimozione che passa sotto il rigore della ragione e, a seconda delle necessità del program-ma, attraverso la razionalità costruttiva e la fattibilità economica. Ogni progetto deriva da un lungo e complesso processo di approssimazio-ne e revisione del suo contenuto, ed il risultato può intendersi come la conseguenza di una sovrapposizione di influenze, di certe visioni della modernità e di una serie di condizioni economiche e costruttive. D’al-tro canto, la materia come fonte di ispirazione ed il senso comune nel trattare il suo potenziale nel contesto in cui si inserisce costituiscono il quadro nel quale vengono combinate ragione ed emozione, due ca-tegorie costanti in tutta la mia ricerca. Il progetto del MAGMA è stato l’opportunità per approfondire ulteriormente questa ricerca, oltre che per perfezionare il nostro metodo di lavoro, che ha saputo adattarsi ad

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un progetto di grande scala.

124 Nell’ideazione dell’edificio la parte strutturale è stata risolta una volta definiti gli aspetti formali?

FM Le condizioni strutturali sono state prese in considerazione fin dal-la concezione della forma, dalla genesi del progetto: se non avessimo fatto così, non avremmo mai ottenuto il risultato che vedete. Tuttavia, rivendichiamo una certa libertà nel momento del concepimento del-la soluzione formale per permetterci di rispondere alle nuove esigenze che sorgono durante il processo, soprattutto quando questo significa continuare ad appassionarci nella ricerca che unisce l’espressività for-male alla fattibilità tecnica. Il MAGMA ha subito cambiamenti in modo organico durante tutto il periodo della sua costruzione. Questo continuo cambiamento è stato principalmente frutto delle modifiche introdotte nel programma: si è passati da un mero centro congressi ad un edificio capace di ospitare le più diverse manifestazioni culturali, con la conseguente modifica di spazi e superfici. Inizialmente il progetto era formato da una serie di muri che suddividevano tutto lo spazio del Palazzo, ma più tardi, già nel processo costruttivo, questi si svilupparono fino a convertirsi in modu-li chiusi, le rocce che ora vediamo. Anche nel disegno della copertura, composta inizialmente da forme concave e convesse diseguali, si adot-tò, durante la costruzione, una nuova idea che attraverso l’impattante formazione, migliorava la capacità acustica dell’edificio. Per questo fu necessaria sin dal principio la riflessione formale assieme agli ingegneri e ai responsabili tecnici della costruzione, così come la realizzazione di tantissimi modelli di cartone, tela metallica, legno, carta e pasta d’argil-la, per comprovarne il corretto funzionamento.

124 Le strutture, generalmente, adottano soluzioni geometricamente ortogonali, potrebbe dirci come funziona una struttura di forma così organica, sinuosa e di luci così ampie?

FM Effettivamente, la decisione di eliminare i pilastri, ha rafforzato l’idea che il Palazzo dei Congressi fosse formato unicamente da moduli (rocce di cemento), che liberassero lo spazio interno tramite l’utilizzo di travi a grande luce. Le fondamenta sono rafforzate in modo da scaricare tutto il peso del solaio su questi moduli laterali, senza nessun pericolo. Dato che le luci da coprire erano così ampie, la sezione doveva avere una altezza altrettanto considerevole. Tali considerazioni si tradussero nella creazione di uno spazio d’entrata molto accogliente, come se si trattasse di una caverna. Lo spazio d’ingresso si stringe, ed entrando nel grande salone dei con-gressi, si apre un ampio spazio di maggiore intensità. In aggiunta, il gio-

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co di inclinazione delle travi provoca un certo movimento ed equilibrio nel tetto. Per quanto riguarda la copertura, un doppio sistema di catene metalliche rende possibile la sua organicità: una struttura principale, che si sviluppa nella direzione trasversale dell’edificio e che unisce le distinte parti nelle quali la copertura è suddivisa, ed una secondaria di travi metalliche di minore dimensione. In termini strutturali, le prime assorbono tutti gli sforzi che si producono sulla copertura mentre le ca-tene sono indipendenti dalla forma definitiva. La struttura secondaria è conformata alla superficie ondulata ed assolve a sua volta a due funzio-ni strutturali: alcune che si appoggiano sui cordoli superiori delle travi metalliche principali e le altre appese ai cordoli inferiori delle stesse. L’impiego del cemento ha permesso, oltre all’esperienza di un progetto realizzato in cantiere, di modellare precisamente ogni parte come un gioco, e di ottenere il risultato finito attraverso la texture delle cassefor-mi (liscio, ruvido, tagliato). L’impiego di materiali locali, inoltre, ha reso efficace l’inserimento e la materializzazione con il paesaggio.Per il rivestimento della copertura, tanto per l’esterno quanto per l’inter-no, sono stati utilizzati pannelli di fibra vegetale che oltre ad adattarsi alla sua morfologia, assimilavano i colori del contesto paesaggistico.

124 Quali difficoltà o problemi avete incontrato nell’iter progettuale?

FM Come abbiamo accennato prima, oltre alla nascita di nuove idee per tutto il periodo del processo (le rocce o la nuova morfologia della copertura), il progetto si è mosso attraverso il continuo adeguamento tra ciò che era richiesto dal programma e quello che serviva per la sua realizzazione. Questo è stato inevitabile, ed ha comportato alcune dif-ficoltà in determinati momenti, però è proprio la stretta collaborazione tra i differenti gruppi di progettazione, l’unica cosa che può garantire il successo in progetti di queste dimensioni.

124 Che cosa è stato preso in considerazione per stabilire la relazione tra forma e materiale?

FM Come sempre la scelta del materiale è stata legata alle proprietà intrinseche dello stesso, alle sue potenzialità rispetto alla forma e, in questo caso, alla sua capacità di ottenere la massima interazione tra l’e-dificio ed il suo ambiente circostante.

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Begoña Fernández-Shaw è diplomato alla Scuola di Architettura di Madrid e nel 1987  ha conseguito un Master in Architettura presso la Cornell University, Ithaca, NY. Dal 2001 è membro dell’organizzazione di Europan/Spagna.

Luis Rojo de Castro si è diplomato alla Scuola di Architettura di Madrid nel 1987 e dal 1992 è professore associato di Progettazione Architettonica presso la Scuola stessa. Ha ricevuto una borsa di studio Fulbright nel 1987/89 ed ha conseguito un Master in Architettura alla Graduate School of Design dell’Univer-sità di Harvard nel 1989. Rojo è stato Visiting Professor presso il Dipartimento di Architettura della Graduate School of Design, dell’Università di Harvard tra il 1994 e il 1998, insegnando Option Studios in Architettura. Dal 1999 è Visiting Professor presso il Dipartimento di Teoria e Storia della Facoltà di Architettura dell’Università di Navarra

Intervista con Rojo\Fernandez

72 Viviendas VOP Ciudad Real

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124 Potrebbe raccontarci qual è il tema principale del progetto e quali sono state le riflessioni iniziali per la sua ideazione?

RF Il progetto 72 Viviendas VPO a Ciudad Real è iniziato come un concorso d’architettura, è stato per noi una occasione di ricercare un equilibrio tra innovazione e rigore. Le Viviendas Sociales, che in italiano sarebbero il cor-rispettivo dell’edilizia popolare, sono condizionate da un grande numero di norme restrittive, che devono essere prese in considerazione nella fase della progettazione. Tali norme devono essere rispettate al fine di creare determi-nati standard di vita, e da un punto di vista economico, devono corrispon-dere ad investimenti e costi limitati. Nella problematica degli alloggi sociali si delinea una riflessione propria e caratteristica dell’architettura: quella tra restrizioni programmatico-funzionali, tecniche, normative, ecc. e libertà, re-alizzata attraverso gli strumenti della manipolazione architettonica. Questo conflitto si rende evidente nell’edilizia sociale dove, grazie all’ecces-so di norme e vincoli, emerge la necessità di operare all’interno del sistema per ottenere soluzioni e risultati che vadano al di là di esso, che permettano di ottenere un valore aggiunto dal punto di vista architettonico, che sposti-no l’equilibrio che si crea portandolo in un ‘‘luogo inaspettato’’.

124 Quali sono state le vicissitudini e le problematiche incontrate una volta cominciata la progettazione vera e propria?

RF Diciamo che questo progetto ha sofferto sin dal suo inizio per molte ca-sualità aneddotiche, che hanno reso il suo racconto simile ad un romanzo letterario, ma non per questo meno vero.

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Quando ci riferirono di aver vinto il concorso, dissero che il nostro progetto era molto bello, ma non conforme alle normative comunali e che, pertanto, dovevamo rifarlo praticamente tutto in modo che rientrasse nelle nuove re-strizioni. Per esempio: gli edifici non potevano avere una altezza maggiore di 7,15 metri ed era obbligatorio l’utilizzo di una copertura a falde inclinate... é chia-ro che l’architetto deve avere diciamo... un carattere ottimista, e sapere che la manipolazione dei parametri architettonici, le forme, le relazioni, i limiti e le condizioni al contorno, hanno la capacità di ritrasformare le proprie qua-lità, la propria percezione o il suo significato. Pertanto adottammo come strategia diretta, l’analisi delle possibilità spa-ziali ambientali e ornamentali delle molteplici imposizioni formali, dimen-sionali e funzionali. Per esempio: se l’altezza massima doveva essere di 7,15 metri e la copertura doveva essere a doppia falda inclinata di massimo 45°, e prendendo questi riferimenti dimensionali, ci siamo trovati di fronte ad un solido con una forma precisa, il cui potenziale figurativo potevamo utilizza-re a nostro vantaggio. Oltre a queste norme, il programma di 72 viviendas esigeva una densità alta, predicata nella ripetizione funzionale, con almeno due o tre camere da letto ciascuna, stabilendo anche il numero di abitazioni, la dimensione di ciascun piano, la sua altezza ecc... Volevamo uniformità e continuità negli strumenti del disegno, che dessero coesione all’insieme, realizzando, ad esempio, tutte le finestre della stessa dimensione 2,40X2,40 , o usando un solo materiale per i pannelli di rivesti-mento esterno (pannelli prefabbricati di cemento colorato) , compresa la copertura, e mantenendo la sezione costante del volume.

124 Come è nata la trama della texture delle facciate?

RF La struttura dell’ornamento è basata su di un modulo che si ripete in di-verse scale. Nella pianta del piano terra il motivo lineare è più denso, nel primo piano si raddoppia e nella copertura quadruplica la sua scala (si fà cioè meno den-so nel la trama del disegno). La ragione di queste scelte va ricercata nella qualità del materiale del pannello, solido e massiccio; i solchi sovrapposti possono tagliare i pannelli ed includere le finestre.

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foto di: Carlos Lozano

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L’architetto Stefano Ceccotto lavora nello studio SOM come Urban Designer .SOM, una delle aziende leader mondiali di design urbano, di ingegneria e di architettura di esterni ed interni, è largamente riconosciuta per la costruzione di installazioni architet-toniche sofisticate e tecnologiche e per la loro dedizione alla qualità della progettazione. Il portfolio aziendale vanta alcuni dei più importanti prodotti dell’architettura dell’ultimo secolo, tra cui le Sears Tower e la John Hancock Tower di Chicago e la Burj Khalifa tower di Dubai negli Emirati Arabi Uniti, che è il grattacielo più alto del mondo. E’ presente in diversi paesi del mondo con sedi a New York, Chicago, San Francisco, London, Hong Kong, Shang-

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Intervista con Stefano Ceccotto

S.O.M. Connection

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124 Potrebbe raccontarci com’è strutturato un grande studio come SOM, quali sono le figure e le dinamiche che vengono a crearsi all’interno di esso?

SC Noi ci consultiamo a vicenda, questa è la cosa fondamentale. Come organizzazione di massima abbiamo questa: progettisti, project ma-nagers e tecnici. All’interno di SOM ci sono una serie di dipartimenti cor-rispondenti a diversi aspetti del progetto: Urban Design (che affronta gli aspetti legati alla scala urbana), Architectural Design (che tratta gli aspetti più legati all’architettura dell’edificio), Structural Design (che progetta e ve-rifica le componenti strutturali), Interior Design (architettura degli interni) ed infine Technical (che sviluppa i progetti architettonici fino alla scala di dettaglio costruttivo). Il contatto col cliente è poi gestito dai project mana-gers, i quali si occupano anche di preparare l’agenda del team progettuale, decidendo il numero di componenti in funzione della difficoltà e grandezza del progetto. Per un progetto come ad esempio Denver Union Station, il processo si è articolato nelle seguenti fasi. Gara: il concept che va in gara è sviluppato dall’Urban Design team. Vinta la gara, elaboriamo il progetto in termini di architettura urbana, a livello di schematic design. Completata questa fase, si passa a sviluppare i singoli temi architettonici che sono contenuti nel pro-getto: i padiglioni, uno per uno, le coperture, una per una, ecc. Qui, neces-sariamente, il progetto richiede uno studio strutturale, quindi subentra un altro team di SOM formato da ingegneri. Questi ultimi preparano il progetto strutturale, prescrivono materiali e tecnologie da impiegare, ecc. Un ultimo team (technical), prende infine in mano il disegno di tutti i dettagli costrut-tivi in modo che vengano forniti al general contractor, il quale produce il relativo computo metrico estimativo. Io studio l’organizzazione degli spazi pubblici e la connessione tra le parti della città con lo scopo di imprimere un indirizzo su come fare l’architettura contenuta nell’UD concept. Sempre nel progetto di Denver Union Station, l’elemento « urbano » è la piazza, mentre l’elemento « architettonico » è la Train Hall. Quest’idea è nata quando abbiamo fatto « riemergere » la stazio-ne per motivi di costi, nel senso che, non riuscendo a realizzarla interrata, l’abbiamo portata a livello e abbiamo deciso di fare un’architettura che fac-cia sentire, diciamo così, questa « emersione ». Abbiamo fatto un workshop, ossia ci siamo dati un tempo limitato per elaborare le idee e produrre una presentazione pubblica. Se mostrassi l’idea iniziale prodotta, vedreste quan-to sia diversa da quella che poi venne sviluppata successivamente, dopo essere stata rielaborata dall’architectural design, anche se l’input c’è non è cambiato dalla prima fase - UD concept.In questa prospettiva, un urban designer (oltre ad essere un architetto) deve avere nozioni di ingegneria, di strutture, di regolamenti, cioè anche di plan-ning. Un Planner è quello che in Italia si chiama un « urbanista », cioè quello che scrive lo zoning e le discipline regolamentari della città, con cui poi si farà l’architettura - noi ne abbiamo di bravissimi, sempre all’interno di SOM. Tutto questo lavoro di squadra è organizzato da uno o piu’ Associates, De-rek Moore nel caso di Denver, ed infine coordinato da uno o più Partners: Marilyn J. Taylor per Urban Design, Roger Duffy per Architectural Design e Anthony Vacchione per Project Management. Il Partner prende le decisioni finali sulla base dello studio elaborato dal team e determina le linee guida per il disegno sia urbano che architettonico.

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124 Com’è possibile riuscire ad avere sotto controllo progetti di tale com-plessità?

SC Un progetto non è mai complesso. Io tendo a concepire progetti appa-rentemente complessi come una serie di progetti semplici, questo è il mio approccio “fenomenologico”, diciamo così, all’architettura. Comincio dall’i-nizio, risolvo i problemi uno per uno e così forse arrivo a una soluzione. Se affrontassi frontalmente il magma complesso di problemi irrisolti che ogni progetto sembra porre ad un primo approccio, sarà molto difficile riuscire a sbrogliare la matassa. Un progetto e’ –alla fine- la risposta ad una serie di istanze, che vanno individuate con precisione: in questa operazione consi-ste il passo iniziale del processo progettuale. Da qui in poi il gruppo di lavo-ro utilizzerà le competenze specifiche di ogni professionista per rispondere alle domande iniziali.

124 In progetti di tali dimensioni, cosa significa attuare scelte ecosostenibili?

SC Ecosostenibilità non è impiegare tout court materiali ecosostenibili, ben-sì elaborare un progetto che funzionerà con il minimo dispendio energetico nel lungo termine.

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Un esempio tipico di progetto ecosostenibile: durante il recupero delle oasi nel deserto tra l’Algeria e la Tunisia, condotto dall’UNESCO, i pozzi acquife-ri, svuotati dalla sabbia, si sono riempiti d’acqua in pochissimo tempo. Per-ché ? Perché erano fatti bene, tenendo conto delle caratteristiche specifiche dell’ambiente locale e della particolare funzione (immagazzinare acqua di condensa) per cui questi pozzi sono stati costruiti. Ecco un progetto ecoso-stenibile, ossia che funziona autonomamente anche a distanza di centinaia di anni se ben mantenuto.Non è perché un edificio ha i pannelli solari che è ecosostenibile, e vice-versa. Avremo progetti ecosostenibili come questi pozzi quando ci sarà un tornaconto economico nel breve termine per il sustainable design. Questo perché il costo di un edificio sostenibile (in genere) è più alto di un edificio –diciamo così- ordinario. Occorre dunque che ci sia un settore economico dedicato alla ricerca –anche finanziaria- della sostenibilità. Occorre che l’e-cologia diventi una scelta culturale e politica, non solo un marchio su certi materiali edilizi –il quale peraltro dovrebbe essere necessario e non opzio-nale, nella mia opinione.In fondo, tutti dovremmo essere ecologisti, cioè solo un pazzo potrebbe pensare di costruire degli edifici che intenzionalmente abusino l’ambiente e brucino le risorse energetiche.In realtà qualcosa del genere è successo nel campo delle infrastrutture quan-do, durante la guerra fredda, il mondo occidentale ha rinunciato al traspor-

to elettrificato (presente ovunque prima della seconda guerra mondiale) in favore del trasporto automotivo, e quindi dell’inquinantissimo petrolio. Questa scelta antiecologica e non sostenibile, che si è rivelata catastrofica per molte città, che ci ha fatto perdere i viali alberati con il tram al centro e li ha visti sostituiti con autostrade urbane perennemente ingolfate, che ha originato le circolari, i raccordi, le tangenziali, le « spaghetti-streets » ed altri simili gironi danteschi, è stata pacificamente accettata per decenni, e direi che tutto sommato lo è ancora adesso. Solo pochi anni fa, durante un viaggio in Arizona, noleggiai un’automobile (comunissima negli States) che pur essendo una cilindrata 5000, viaggiava a fatica ai 120 Km/h, insomma, un gioiello di inefficienza. La cosa buffa è che in Europa c’erano i 5000 negli anni ‘30, se guardate le auto della Mille-Miglia sono tutte così… poi ci siamo resi conto che il petrolio a noi costa caro, ed abbiamo invertito direzione. Invece in certe parti degli USA con-viene consumare petrolio per ragioni economico/politiche e forse cultu-rali (mi domando perchè mai il Texas da solo consuma 4 volte i BTU/anno dell’intera Cina…) e quindi conviene usare una tecnologia che ha bisogno di tanto petrolio. Ecco, questa è una scelta –non una necessità- assolutamen-te antiecologica, perché la tecnologia meno inquinante esiste da decenni. Ora Schwarzenegger –che non si può certo dire appartenga ad un partito « ecologista », il GOP- e’ divenuto un grande advocate della sostenibilità e sta cercando di incentivare l’acquisto di una tecnologia automobilistica piu’

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sofisticata e meno inquinante, purtroppo solo in California.In conclusione, penso che tutti dobbiamo essere ecologisti, è ormai una necessità ; dobbiamo esserlo professionalmente, incidendo sui risultati del nostro lavoro, e non in maniera meramente ideologica.

124 Quali sono state le esperienze di studio all’estero che ritiene fondamen-tali nella sua formazione?

SC Credo che la mia generazione sia la prima generazione ‘’europea’’ in cui si è investito tanto nel creare una coscienza europea. La mia generazione è stata avviata attraverso incentivi -chiamiamoli «  ludici » come l’inter-rail (che peraltro è un biglietto di treno a tempo, per restare in tema…). Quello è stato il primo contatto per capire che ci sono delle bellissime città con delle splendide università e che quando sarà il momento opportuno magari avrei potuto pensare ad un periodo di studio all’estero. Così è stato. Il pro-gramma Erasmus, poi, ha funzionato benissimo ; alcuni –come me- si sono trovati tanto bene (a Porto ho avuto la fortuna di seguire i corsi di Siza) che hanno fatto anche la tesi all’estero. Ho cominciato architettura a Firenze, mi sono trasferito a Ferrara, e da quando ho poi vinto l’Erasmus a Porto sono praticamente rimasto lì. Ho discusso la tesi a Ferrara, ma l’ho interamente elaborata a Porto con Jose Gigante della FAUP e Augusto Mazzini della FAF. Comincio poi a lavorare, e lavoro prevalentemente all’estero, per una pre-

cisa scelta professionale. Ho avuto la fortuna di essere assunto a Parigi da Architcture-Studio come capo-progetto a 26 anni, e da lì ho cominciato. Ho poi interrotto la professione per seguire i corsi del Master of Science in Ar-chitecture and Urban Design alla Columbia University. Master significa che sei al massimo livello di istruzione in quel settore specifico, ed è stata l’espe-rienza educativa fondamentale per la mia carriera. Oltretutto un master è una cosa che ti aiuta a trovare lavoro perché in genere il programma ha dei finanziatori. Per esempio, SOM finanzia la Columbia. Alla fine, 3 mesi prima dell’ottenimento del Master, sono state fatte le selezioni, SOM ha mandato un rappresentante alla Columbia, hanno selezionato alcuni studenti tra cui me e poi ci hanno fatto un contratto che io ho firmato prima di laurearmi.

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1, 2, 3, 4, 5: Aereoporto internazionale di Hong Kong 6, 7, 8, 9, 10: Denver Union Station

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Laboratorio di partecipazione urbana

Arquitectura se mueve

Riportiamo di seguito il colloquio con Manuel Mateo Lajarìn, studente di Architettura presso l’Università Politecnica di Valencia, col-laboratore dell’associazione studentesca Arquitectura se Mueve, impegnata nell’organizzazione di manifestazioni e attività culturali volte a sensibilizzare studenti e professori su temi ecologici e di sostenibilità.

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124 Potreste spiegare che cos’è arquitectura se mueve?

Asm E’ un gruppo di studenti interessati a far cose: spesso affrontiamo tematiche che si trattano di meno in Università come ad esempio la so-stenibilità, il riciclaggio ecc... notiamo che l’insegnamento universitario è carente in tale ambito e tende a sottovalutarne il valore, mentre noi la rite-niamo di fondamentale importanza. Per questo abbiamo pensato di creare un’associazione dove questo specifico tema potesse essere approfondito. Inizialmente ci siamo uniti ad una associazione già esistente di ingegne-ria civile, che si occupava però di temi molto tecnici, come ad esempio problemi idraulici, creare pozzi, centri di purificazione delle acque ecc... Successivamente ci siamo separati per poter essere liberi di affrontare te-matiche più legate all’architettura: costruzioni in terra, laboratori urbani, concorsi sul riciclaggio ecc.. Ricerchiamo una formazione che non solo fornisca una base tecnica, che rimane indispensabile, ma che possa anche approfondire le tematiche più umane dell’architettura e dell’urbanistica.

124 Che cos’è il laboratorio urbano e quali sono i motivi che vi hanno spin-to a farlo?

Asm Siamo venuti a sapere che la municipalità di Valencia era intenziona-ta ad avviare un processo di riqualificazione di un “solar” (un lotto di terre-no lasciato incustodito, ottenuto dalla demolizione di uno o più edifici). Il luogo si chiama Velluters, un quartiere a sud-ovest del centro storico, nel quale si pensava di costruire un parcheggio sotterraneo di quattro piani. Il problema principale era che il progetto del parcheggio non comprendeva nessun disegno della piazza superiore, il Comune non delineava nessuna richiesta all’impresa costruttrice per quanto riguardava tale spazio, finen-do per realizzare una piazza senza nessun tipo d’interesse urbano e senza utilità per il quartiere. E’ nato quindi il desiderio di intervenire cercando di suscitare un dibattito. Abbiamo identificato questo ‘’problema’’ come una opportunità di lavoro. Ci siamo informati e abbiamo cercato del materiale per conoscere l’evoluzione e lo sviluppo della situazione, in particolare de-sideravamo capire i rapporti che si erano creati tra i residenti e le autorità del Comune. Da qui è nata l’idea del laboratorio urbano de partecipacion ciutadana (laboratorio urbano di partecipazione cittadina) ovvero una oc-casione pubblica rivolta a tutti gli studenti interessati al problema: si è cercato di individuare delle alternative di sviluppo per la zona, andando direttamente sul campo a capire le problematicità dell’area.

124 Come è stato l’impatto col quartiere?

Asm Questa zona dista all’incirca cinquecento metri dalla piazza centrale della città, in pieno centro storico. Lo scenario che incontrammo fu par-ticolare, perché la zona era piena di prostitute e vagabondi. I laboratori d’urbanistica definiscono queste zone ‘’degradate’: penso che per poter intuire il profondo significato di tale parola , sia necessario calarsi diretta-mente nella realtà di questi luoghi, trovarsi immersi in un ambiente dove è possibile respirare veramente tensione e disagio. Sono molto più espli-cative questo tipo di sensazioni vissute in prima persona, che qualsiasi lezione teorica, per potersi rendere conto degli effettivi problemi nei quali versano queste aree. E che questo avvenga nel centro di Valencia è impressionante! Lo scena-rio architettonico era degradato, il lotto in questione era attorniato da scheletri di edifici demoliti ed era utilizzato come parcheggio provvisorio.

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Insomma, diciamo che l’impatto è stato forte ed allo stesso tempo stimo-lante. Ci siamo messi subito a lavorare.

124 Quale è stato concretamente il lavoro nel quartiere?

Asm Abbiamo ritenuto che l’approccio migliore per cominciare a cono-scere e familiarizzare col quartiere era quello di organizzare dei giochi: preparare una serie di attività ludiche, come per esempio una caccia al tesoro per attraversare per intero l’area di studio, fotografare soggetti par-ticolari, ricercare elementi specifici come delle vie, o dei graffiti, realizzare qualche intervista agli abitanti; ha reso il lavoro più disteso e divertente. Non volevamo indirizzare o influenzare troppo le idee degli alunni, quindi mostrammo loro la situazione così com’era in modo che ognuno potes-se sviluppare la sua idea. Lavorando assieme, uscirono tre alternative o metodi di approccio molto distinti. Il primo possiamo chiamarlo di ‘’agita-zione sociale’’: dei ragazzi organizzarono piccole manifestazioni creando simboli che in qualche modo potessero rendere presente agli abitanti del quartiere e, più in generale, a tutti i valenciani, che in quella piazza stava succedendo qualche cosa, si stavano prendendo delle decisioni che con-cretamente avrebbero riguardato la maggior parte di essi. Altri, invece, che preferirono andare direttamente nel “luogo del problema”, ossia nella piazza, cominciando ad imbrattare tutte le macchine che erano parcheg-giate male con nastri di pellicole delle cassette; potremmo definirlo un approccio invasivo. Altri costruirono delle auto di cartone e di legno in maniera che ognuna di esse, uscendo dal parcheggio, veniva rimpiazzata con queste macchine di cartone. Era una forma di colonizzazione della piazza. Altri pensarono di posizionare delle lettere V in posti del quartiere dove credevano ci fossero opportunità o comunque delle criticità da segnalare, più che altro erano azioni rivendicative. L’altro gruppo si dedicò invece a produrre piani più tecnici, ovvero svilup-pare planimetrie ed individuare materiali che potessero poi essere pre-sentati in Comune come alternativa al progetto esistente o, per lo meno, che potessero essere presi in considerazione nel momento della proget-tazione reale della piazza. Pensammo anche a proposte da attuare subito sulla piazza, attraverso materiali semplici come corde, teli, cassette della frutta e altre cose che, rielaborate, potevano poi servire per creare alcune condizioni particolari nella piazza. Una volta concluso il lavoro andammo dall’associazione di quartiere per presentare tutto il materiale prodotto; purtroppo non c’era molta gente e il confronto si convertì in una mera esposizione del lavoro. Passò del tempo senza che nessuno ci desse più notizie; un mese fa ci ha chiamato l’associazione del quartiere chiedendoci di avere un incontro con l’architetto del Comune incaricato del lavoro della piazza, in quanto il progetto stava per partire e il progettista si era reso conto di tutto il nostro lavoro. Voleva a sapere cosa gli abitanti pensassero di quel posto ed era interessato a ciò che avevamo prodotto, addirittura disposto ad ascoltare la gente. Questo ci sorprese moltissimo, andammo da lui discutendo del-le nostre idee sulla piazza e della modalità migliore d’intervento. Ci stupì tantissimo l’atteggiamento di apertura e considerazione tenuta nei nostri confronti.

124 Per concludere, come è stato il rapporto tra i partecipanti del labora-torio? Cosa vi portate a casa da questa esperienza?

Asm Adesso abbiamo una coscienza sociale più grande, prima vedeva-

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mo la progettazione sotto un’ottica molto più estetica, potremmo dire formale; da allora tanto nell’urbanistica quanto nell’architettura, il primo pensiero è la persona che andrà a utilizzare e vivere lo spazio che stiamo progettando. Per quanto riguarda l’esperienza fatta, i ragazzi alla fine ci dissero che la cosa più interessante, oltre al lavoro prodotto, era stata l’atmosfera che si era creata. Si sono formati dei gruppi con uno spirito collaborativo ecce-zionale al fine di raggiungere lo scopo prefissato. Una nota simpatica è stata, per esempio, che l’architetto che ha seguito il progetto con noi ci ha obbligati ad uscire ogni sera, tutti assieme, per fare gruppo e conoscersi meglio. Si è creato subito un forte legame; vivendo così a contatto giorno e notte assieme per tre giorni è nata un’empatia fortissima dovuta anche al fatto che eravamo tutti tesi alla risoluzione e ideazione di un problema comune che, stava a cuore a tutti in egual misu-ra. Terminammo il laboratorio con una gran festa alla quale parteciparono tutti!L’esperienza di condividere idee su temi che interessano così tanto, di po-ter fare lavoro concreto, ha ripagato totalmente lo sforzo organizzativo. Abbiamo concluso questa esperienza veramente soddisfatti.

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Un dialogo con l’architetto Glauco Gresleri per ripercorrere la vicenda di una architettura incompleta

Le ‘‘ruine di Ceretolo’’

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124 Ci può raccontare del progetto di Ceretolo?

GG Io come architetto ho la fortuna di avere alle mie spalle non solo edifici costruiti ma anche delle “ruine”. Questa segnatura sul territorio, sulla terra, sul globo, di qualche cosa fatto, sofferto, voluto, però anche goduto, immaginando le potenzialità architet-toniche di una cosa non finita ma che volevo arrivare a completare... A me, a distanza di quaranta anni, questa opera dà ancora una grande emozione: lo spazio della cappella è ancora uno spazio magico, quindi avrei quasi paura e una difficoltà incredibile se qualcuno venisse da me e mi dicesse: “Finiamolo!”, perché non saprei più finirlo. Più bello di come è adesso non potrà più esserlo, anche perché, in qualsiasi modo ci si metta le mani, il calcestruzzo non sarà più “brute”, gli spazi non avranno più que-sta luce e tutto diventerebbe un po’ convenzionale, con i pavimenti fatti bene, con gli zoccolini, le luci che si accendono...La vicenda di questo edificio è una storia abbastanza incredibile, di quelle che di solito vanno in televisione.

Questa lunghissima storia comincia quando facevo parte di un gruppo guidato dall’architetto Giorgio Trebbi, e demmo inizio a una battaglia par-tecipando al Congresso di Architettura Sacra nel 1955 a Bologna, che ha affrontato il problema dell’architettura per i luoghi del culto o per i luoghi del sacro. Questa battaglia non era in favore di una critica ecclesiastica, era una battaglia dell’architettura. Al riscontro che le fabbriche erano costruite in modo moderno, che alcune case erano costruite in modo moderno, e che le chiese continuavano un’operazione di carattere assolutamente storici-stico, scolastico, noi pensavamo che l’architettura del sacro potesse con-tenere spazio per un’azione di forza, cosa che abbiamo fatto con la rivi-sta Chiesa e Quartiere e con il Centro di Studi per l’Architettura Sacra per tredici lunghi anni di lotte e di battaglie vinte. Dal 1955 al 1968 abbiamo vinto tutte le battaglie, peccato che alla fine abbiamo perso la guerra, nel senso che Lercaro è stato rifiutato dalla parte reazionaria della Chiesa bo-lognese e, cacciato via lui, noi abbiamo interrotto quell’azione perché non sembrasse che la Bologna del dopo fosse uguale alla Bologna di Lercaro.Non potevamo creare confusione a noi stessi. Nell’ambito però di questi anni di lotta e di fatica, di cui rimangono alcune testimonianze, come la citata rivista Chiesa e Quartiere che è un documen-to fondamentale, sono apparse alcune richieste d’intervento. Una di queste iniziative è stata appunto quella dei Passionisti. I Passioni-sti in quel momento avevano a cura la Certosa di Bologna e avevano un podere sulla zona di Casalecchio, dove alcuni frati risiedevano. In questo podere chiesero di fare il progetto per una casa colonica, che realizzò l’ar-chitetto Parmeggiani, e che è ancora lì di fianco alla strada quando si arriva su. A me chiesero di fare un complesso abbastanza importante destinato ad accogliere e istruire circa 150 ragazzi dal punto di vista formativo sco-lastico e abituarli ad alcune attività artigianali. Erano ragazzi provenienti soprattutto dalla zona del Polesine, dove c’era stata la grande alluvione. Alcuni di questi ragazzi erano orfani, alcuni erano di famiglie estremamen-te povere che avevano bisogno di essere aiutati, e questo gruppo di padri Passionisti decise di organizzare un istituto di accoglienza professionale sulla loro area. Cominciammo quindi a scegliere la posizione dove mettere la costruzione.In quel momento io avevo appena fatto tutta l’esperienza del Congresso dell’Architettura Sacra del 1955.Naturalmente erano tutte cose gratuite, fatte sempre senza soldi, però era lo spirito che animava i giovani di allora.In questa attività che io svolgevo nell’ufficio Nuove Chiese, avevo molti aiuti da altri architetti, tra i quali Umberto Daini e Nevio Parmeggiani.Quando ho ricevuto questo incarico, per naturale amicizia verso questi al-tri due architetti, li ho coinvolti in questa operazione, come li avevo coin-volti nella chiesa della Beata Vergine Immacolata che è nella zona della Certosa.In entrambi i casi gradualmente si defilarono non potendo lavorare sem-pre senza soldi. Il primo progetto che avevamo fatto era un edificio a un solo piano che si estendeva per tutto il “pianoro’’, immaginando così che tutta l’operazione, sia costruttiva sia di gestione, fosse semplificata ma poi, andando avanti col progetto e valutandolo meglio nella sua articolazione, questi spazi col-legati da lunghi percorsi ci erano sembrati troppo faticosi. Per studiare questa prima impostazione andammo a Milano e vicino a Pe-scara a vedere alcuni edifici realizzati ma ciò che abbiamo visto non ci ha entusiasmato perché erano delle macchine troppo complicate. Ho capito così che dovevo fare una cosa molto concentrata e in una dome-nica (perché la domenica faccio sempre il progetto che alla sera deve esse-

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1 ingresso2 corridoio interno verso l’ingresso3 vista dormitorio comunw4 trama degli infissi5 torre campanaria6 hall di ingresso7 entrata

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Pianta piano primo

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re completamente finito) ho fatto questo progetto in scala 1:200 perfetto, esatto, in cui tutto veniva riassemblato rispetto all’organizzazione (che pri-ma era completamente planimetrica), ordinato dall’ipotesi che una strada interna collegasse e facesse il grande asse orientativo e che diventasse il meccanismo propulsore di tutto l’edificio. La strada interna iniziava subito all’ingresso con il parlatorio e la cappella. Al piano inferiore, attraverso le scale, era in comunicazione con la mensa e con quelli che sarebbero diventati i laboratori. Ai piani superiori, attraverso tre nuclei di salita, portava a tre sistemi di due camerate per dormire con una stanza di studio in comune, ed una sala aperta, una specie di terrazza aperta che guardasse sul panorama in tutte le direzioni dei due versanti. In questo modo l’edificio dominava i due panorami, perché l’invenzione della strada interna era questa: vado su con la scala interna in modo che i miei spazi sopra sono bi-facciali, sono affacciati sia da una parte sia dall’al-tra. Non c’è un corridoio che li taglia e li divide, gli spazi sono serviti dal basso, e questo è il sistema per fare due camerate una sopra l’altra, poi altre due e altre due: tre gruppi che avevo fatto di 25 più 25 letti, in totale 150. Dalla strada interna si doveva scivolare nella zona del convento che sareb-be stato in un’ala verso Bologna mentre dall’altra parte ci sarebbe stato il terzo lotto che non è stato poi messo in esecuzione, con i laboratori arti-gianali. Tutto questo è stato progettato con l’idea architettonico-paesaggistica di costituire un elemento di riconoscibilità ambientale, tanto forte da segna-re l’inizio del pianoro dell’Eremo, come “baluardo” che guardasse la valle e quindi la città, anche se immediatamente abbiamo cominciato a piantare gli alberi che adesso ci sono, per vestire quella rupe che allora era una rupe tutta nuda.La costruzione è stata fatta senza impresa, in altre parole prendendo un geometrino che stesse li, utilizzando i cosiddetti “cantieri di lavoro”. In quel periodo lo Stato, per dare lavoro ma anche per istruire le giovani leve, fi-nanziava i cosiddetti “cantieri di lavoro”, dove la committenza avrebbe do-vuto fornire i materiali e lo Stato avrebbe dovuto corrispondere il paga-mento delle maestranze. Erano delle maestranze non esperte nel lavoro edilizio, e noi abbiamo af-frontato un lavoro in cui c’era la carpenteria, il ferro, l’uso del calcestruzzo, e quindi io facevo il “grande architetto”, il direttore dei lavori, il direttore del cantiere, l’assistente di cantiere, il manovale, piantavo i chiodi e costru-ivo i casseri del cemento armato, nei quali qualcuno buttava scodellate di calcestruzzo. Tutta questa operazione l’ho fatta con un frate, un conventuale, che an-dava a cercare i materiali, andava nelle cave e si faceva mandare due ca-mionate di ghiaia, da un’azienda e, si faceva dare due sacchi di cemento, poi andava dal ferraiolo e portava a casa il ferro di qualsiasi dimensione, andava a cercare l’alluminio per fare gli infissi, ecc... e in questo modo, fati-cosamente ma in maniera anche rigorosa dal punto di vista architettonico, abbiamo costruito quello che è lì. Il frate ha trovato un marmista che gli ha fornito la beola delle scale, mar-

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mo che è stato tagliato da un altro marmista che ha offerto l’operazione, poi le abbiamo montate, ecc… Siamo arrivati ad avere quasi funzionante tutto il complesso, perché è sta-ta montata la centrale termica con tre caldaie di ultimo modello, è stata montata la cucina, fatta della Rex, sono stati montati tutti i servizi, ed è stata fatta una campionatura dei letti e dell’attrezzatura delle camerate in un primo lotto. Arrivati a questo punto i frati hanno ottenuto la promessa di un finanzia-mento per il terzo lotto, quindi abbiamo cominciato le fondazioni per il terzo lotto, e avremmo dovuto cominciare il quarto lotto che era il con-vento.A questo punto succede il disastro: il vecchio padre priore, che era una personalità carismatica e onesta, passa la mano a un nuovo priore di nome Eutizio Stazi. Quando arrivò lui, che era uno esperto di questioni economiche, disse di sorprendersi che ci fosse un professionista che lavorava gratis. Mi fece così firmare un atto giuridico in cui rinunciavo a qualsiasi compenso da lì all’eternità per poter continuare a fare quello che stavo facendo, formaliz-zando che i soldi non ne avevo avuti, non ne avevo e non ne avrei avuti in seguito, e nemmeno li avrei pretesi. Feci questo atto un po’ strano, dicendomi in cuor mio che altro non era che quello che avevamo fatto sino allora.La cosa sembrava comunque abbastanza pacifica, nel senso che sembra-va che io dovessi continuare a fare i lavori. Ad un certo punto però, non so come, mi arriva una telefonata da un certo ingegner Rossi che mi dice: “Siccome ho ricevuto l’incarico della costruzio-ne del terzo lotto dell’istituto dei Passionisti verrei da lei a prendere tutti i disegni così posso continuare la costruzione. Ho avuto l’incarico scritto per il direttore dei lavori del terzo lotto. “A quel punto si è naturalmente rotto tutto. Innanzi tutto nessuno va avanti a fare il direttore dei lavori di un mio pro-getto quando nessuno mi ha dato prima né l’incarico ma neanche la di-smissione dell’incarico, anzi abbiamo fatto un atto nel quale io mi presen-to come direttore dei lavori, seppur senza essere pagato. Da quel momento cercai di parlare con Eutizio Stazi, ma e lui chiuse, non fece più niente e non fece più niente abitando nella casa che è li di fianco. A poco a poco cominciò la lenta “ma non silenziosa” distruzione, perché lì per portar via le caldaie sono andati con le gru e gli autotreni, ma i frati, guidati da Stazi, stavano nella casa di fronte: hanno assistito dalle finestre alla massa di gente che in 20 anni ha distrutto l’istituto un poco alla volta, rendendolo il più bell’edificio di Bologna, libero all’aria e alla luce. In questa distruzione “non silenziosa” ma continuativa e indefessa, perché qui hanno lavorato come dei matti a distruggere questa cosa qui, avranno fatto delle fatiche incredibili, una cosa però è rimasta: una vetrata magica. La chiesa era chiusa da una vetrata fatta da Giuliano Gresleri, mio fratello, una vetrata fatta con una vetreria di Milano, tutta cesellata, con tasselli di dimensioni piccolissime, bellissime, e nessuno di questi, perché qui si saranno avvicendate centinaia di persone per fare l’operazione di distru-

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zione che hanno fatto, nessuno ha mai toccato questa vetrata, tutti hanno avuto rispetto di fronte a quest’opera d’arte, stranamente, per cui nessuno ha fatto mai niente. Mentre hanno spaccato tutti i vetri nessuno ha toccato quella vetrata. C’erano soltanto due buchi: qualcuno aveva sparato con un fucile, e aveva forato in due punti. Stando così la situazione, ad un certo punto la Grandi Lavori comprò dai Passionisti l’edificio con l’idea di poter fare la sede dell’Oikos, in un mo-mento in cui l’Oikos era un istituto molto importante con cui collaborava-no gli enti, il Comune, la Regione, i privati e le imprese. Il professor Trebbi aveva sperato di fare lì la sede dell’Oikos e quindi aveva convinto l’impresa Grandi Lavori, condotta dal geom. Mario Tamburini. Io ho fatto per tre volte tre progetti incredibili di trasformazione e amplia-mento di questo edificio, però l’Oikos non è mai riuscito a partire perché pensava di poter avere un’organizzazione complessa in cui alcuni elemen-ti come i laboratori materiali, il centro ricerche, il laboratorio della cerami-ca, quello di chimica ecc, potessero essere affidati a degli enti specifici e quindi con la cessione e il recupero economico di queste porzioni, sperava di avere la possibilità di fare la propria sede gratuitamente.Questa operazione qualche volta è arrivata molto vicina alla soluzione pero non è mai partita e quindi l’Oikos si è ritirato definitivamente e l’edi-ficio è rimasto quello che è. E’ passato due o tre volte in mano a qualche privato che voleva fare prima un albergo poi un’altra cosa... sono tutti ve-nuti qui da me a chiedere le piante poi naturalmente non han fatto sapere più niente. Questo edificio però, nella sua forza architettonica, ha costituito interesse per alcuni personaggi mitici, che sono passati per Bologna e sono venuti a vederlo, perché era stato pubblicato su Chiesa e Quartiere. Uno di questi è Soleri, grande architetto, un altro è l’architetto Breuer che è venuto a vedere questa cosa, e gli allievi di le Corbusier, Oubrerie e Jullian, che sono venuti. Oubrerie ha collaborato agli edifici di le Corbusier: il padiglione svizzero a Parigi lo ha costruito interamente lui ed è venuto qui, credo tre volte, a vedere questo edificio del quale era innamorato, a fare delle foto-grafie, a percorrerlo. A quel punto fra Mariano mi aveva fatto notare che sarebbero arrivati molti visitatori a vedere l’Istituto. E allora avvenne che fu chiamata l’unica impre-sa quella di Enrico Schiavina che così ha realizzato la torre dell’ascensore. Io avevo fatto la terrazza sopra a imitazione di quella del convento de la Tourette di le Corbusier dove il parapetto è tanto alto perchè tu possa ve-dere solo gli orizzonti lontani, non vedi la strada, vedi solo i grandi oriz-zonti. Allora fra Mariano mi disse che doveva essere fatto un ascensore per portare su i visitatori, a vedere la terrazza.Io intanto avevo disegnato delle camere per gli ospiti, nel corpo che sa-rebbe dovuto essere costruito più avanti e che naturalmente non è stato fatto, il tutto con questa mia reminescenza dell’opera di le Corbusier, con le vetrate modulari con il vetro fisso che davano questa scansione della luce, questa scansione degli affacci. Tutto questo era per me una grande esperienza architettonica, che mi dava grande entusiasmo perché, l’architettura è sempre un fenomeno di grande entusiasmo e questa è una architettura che ha avuto la fortuna di non essere finita, perché se fosse stata finita sarebbe decaduta in elementi di piccolo cabotaggio, un pavimento di piastrelle, ecc... La struttura, l’invenzione dei rapporti di movimento e di stasi, gli scorri-menti verticali ed orizzontali, il modo con cui ci si affronta a ricevere la luce da ogni direzione, la relazione col paesaggio, l’edificio che si fa diga del paesaggio perché quello che è sopra è sopra e quello che è sotto è sotto, la mia diga taglia il monte in due, questi fenomeni io li ho vissuti

1,2,3,4 vista plastico finale5 vista interna chiesa6 vista camere comuni7 vista scala interna attuale8,9 viste cantiere

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intensamente da architetto e mi hanno dato una grande emozione… fine della storia.

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A margine del dialogo con l’architetto Gresleri è emerso il retroscena di una occasione mancata:Le Corbusier e Bologna

Gresleri\Le Corbusier Firminy\Bologna

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124 Ci può parlare della sua collaborazione con Le Corbusier?

GG No, non ho collaborato, ma ho avuto la fortuna di conoscerlo. Abbiamo trattato con lui l’ipotesi di poter fare una nuova chiesa a Bologna. Siamo andati a conoscerlo dopo che Lercaro lo contattò. Aveva circa 80 anni, e abbiamo avuto la fortuna di poterlo incontrare, però stranamente questa storia aveva avuto l’inizio anni prima. Infatti, quando feci la mia prima chie-sa alla Certosa di Bologna, feci un librino e lo mandai a Le Corbusier come omaggio a quello che lui aveva fatto per la chiesa di Ronchamp. Lui non mi rispose. Dieci anni dopo però mi telefona uno studente della scuola di Beaux Arts di Parigi, che mi dice: “Architetto, dovrei venir da lei. Sono andato da Le Corbusier per scegliere una tesi di laurea e lui ha risposto che c’era un archi-tetto di Bologna e di fare un progetto di un ampliamento di una sua chiesa”, e gli ha mostrato il libricino che io gli avevo spedito dieci anni prima! Gli ha dato come tema, l’ampliamento della mia chiesa Beata Vergine Immacola-ta a Bologna; lui, Le Corbusier, aveva visto questa cosa e l’aveva ritenuta di un certo interesse tanto da proporla a questo studente, nonostante fossero passati dieci anni.Successivamente, per la rivista Chiesa e Quartiere, sono andato a visitare il suo convento di Lione, appena finito. Sono andato là, ospite dei frati ed ho fatto un servizio fotografico.Quando ho fatto le fotografie gliele ho mandate e lui mi ha mandato una lettera in cui scrisse: “i fotografi sono tutti dei cani escluso Lucien Hervè di Zurigo”, che era quello che gli ha fatto sempre tutte le fotografie. Le Corbu-sier si è fatto fotografare soltanto da Lucien Hervè. A me dice che sono bravo come Lucien Hervè e mi firma le fotografie, il che è stata una cosa ecceziona-le: Le Corbusier non ha mai firmato nessuna fotografia! A me ha firmato le fotografie che sono state pubblicate su Chiesa e Quartiere. Ritorniamo a noi. Eravamo in ottimi rapporti con i padri domenicani di Parigi che sono stati i primi a parlare di architettura di spazio sacro del XX secolo. Noi di Chiesa e Quartiere siamo stati i secondi ed eravamo entrati in amicizia con padre Cocagnac.Attraverso di loro chiedemmo di sapere se Le Corbusier sarebbe stato dispo-nibile a costruire una chiesa a Bologna. Loro ci diedero risposta affermativa e

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vuole grande”. Allora io, sbarbatello, ricevo questa doccia fredda che a me sembra inaudita e ho il coraggio di dire: “Architetto, come fa a pensare che si possa trasporta-re un edificio già progettato per un sito in un altro sito?”. Gli altri due con due occhi così, come a dire “Ma stai dando i numeri?!?!”.E Le Corbusier risponde: “Una buona architettura è come una vettura, viag-gia su tutte le strade!”. Basta, finito! Facciamo a Bologna la chiesa di Firminy, perché una buona architettura è come una vettura, viaggia su tutte le strade. Ho capito poi dopo, che la sua risposta intendeva dire: “su questa chiesa ab-biamo lavorato per vent’anni, adesso io domino il progetto liturgico come fosse farina del mio sacco, quando sarò là mi porterò dietro la mia esperien-za, il mio progetto della chiesa e lì farò quello che serve”. Tutti dicono che Le Corbusier ha fatto la chiesa di Ronchamp perché lui è un poeta, perché lui c’ha preso... Io ho un libro di liturgia sul quale ha studiato le Corbusier sul quale c’è il suo timbro. Non è che fosse arrivato al problema dell’architettura per il sacro per caso. E’ arrivato per studio, non per caso. Allora il mio rapporto con Le Corbusier si è consumato in queste circostan-ze, purtroppo anche in momenti così drammatici. E’ stato per me molto in-teressante il rapporto con Oubrerie, perché un certo tipo di osservazione sullo spazio in cui si va a porre un certo tipo di architettura, io l’ho imparata da lui. Siamo stati assieme in diverse occasioni, a Bologna, Parigi, Milano, in Svizzera, a Venezia quando lavorammo per l’ospedale. Con questi incontri con Oubrerie, ho imparato molto sulla capacità di leggere in ogni luogo le direzioni e le intensità, le direttrici dello spazio: lo spazio qui dove va? Va per così o per cosà? Questa sensazione, nell’ambito degli esterni, di osservare, di sentire lo spazio come animato da un fluido calamitico, sai quando metti la polvere di ferro sul tavolo e poi vai con la calamita? Lo spazio è la stessa cosa: se tu sei in grado di sentire e sentirlo, lo spazio ti comunica lo stato ten-sionale dell’energia che lo anima, e questo è magico, quando arrivi e riesci a capire qualcosa del genere non sbagli il progetto, perché il progetto deve essere non solo quello che recepisce questo meccanismo ma si innesta in esso come se fosse già stato partecipe di questo meccanismo.

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col cardinale scrissero una lettera a Le Corbusier. Le Corbusier dopo qualche giorno scrisse a Lercaro dicendo : “Perchè avete aspettato tanto a chiedermi questa cosa? Non potevate chiedermela quando avevo trent’anni che ero nel pieno delle forze?”. Accetta comunque di fare la chiesa. Organizziamo l’incontro, per arrivare a definire le modalità con cui avrebbe cominciato ad impostare il lavoro; per cui andiamo su in due: mio fratello, il professor Giuliano, professore di Storia dell’Architettura presso Ingegneria, ed io. Andiamo accompagnati da padre Cocagnac e siamo ricevuti nello studio di Le Corbusier, lo studio voi sapete che era un cubo di 227x227x227 centimetri, era una scatola. Allora gli dicia-mo: “Siamo qui per la chiesa di Bologna”. Allora Le Corbusier si aggiusta gli occhiali e spara: “Costruiremo a Bologna la prima soluzione della chiesa di Firminy.” Faccio un passo indietro: Le Corbusier era stato incaricato dal ministro Malraux di fare un centro direzionale in una piccola località, Firminy, vicino a Lione dove ha fatto il campo sportivo, la piscina, la palestra e lo stadio. Gli hanno poi chiesto di fare il progetto di una chiesa, e lui ha fatto il progetto di una chiesa, una grande piramide, fatta a cono. La presenta alla curia di Lione, la quale di fronte a questa chiesa, che sembrava tutto fuorché una chiesa, naturalmente la boccia. Bocciandola però non ha avuto il coraggio di dire: “La bocciamo perche non ci piace”, infatti era perfettamente impo-stata sul principio della liturgia partecipativa attiva, ma dice: “No perché, è troppo grande e troppo costosa”. Quindi le Corbusier ne progetta un’altra meno grande e meno costosa, un po’ più piccola e fà la seconda versione della chiesa di Firminy che, naturalmente viene bocciata per inadeguatezza. Noi arriviamo lì, come il cacio sui maccheroni! Arriviamo lì tutti sbarbatelli: io per andare all’appuntamento avevo lasciato mio figlio Stefano gravemente ammalato, assistito solo da mia moglie, abbastanza innervosita da questo fatto, che io andavo via per incontrare uno sconosciuto, ma con questo im-pegno che avevamo preso ho ritenuto di non poter mancare. Avevo trenta-tre anni ed ero naturalmente un ignoto sconosciuto, anche se ero affiancato da padre Agamen, che era diciamo garanzia. Le Corbusier fa questa spara-ta dicendo: “Bene allora faremo a Bologna il progetto della chiesa fatto per Firminy, la versione grande. Dato che andiamo a Bologna, dice, la chiesa ci

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1,2,3,4,5: chiesa Beata Vergine Immacolata a Bologna6,7,8,9: chiesa di Saint Pierre a Firminy

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Co.4 _ bio

Co.4 è l’acronimo di Architettura e Composizione Architettonica 4 e, come molti composti con più atomi di ossigeno legati a un atomo di carbonio, ha la caratteristica di essere instabile. Nella teoria dei sistemi dinamici il concetto di stabilità descrive il compor-tamento di un sistema nelle vicinanze di un punto di equilibrio. Intuitiva-mente un punto di equilibrio stabile è un punto che non risente delle pic-cole perturbazioni. Viceversa un punto di equilibrio instabile è tale per cui basta una perturba-zione arbitrariamente piccola dall’equilibrio per far allontanare significati-vamente il sistema dalla posizione iniziale.Una palla nel fondo di una valle è in una posizione di equilibrio stabile, mentre in cima ad una collina è in posizione di equilibrio instabile. La didattica di Co.4 legge nell’instabilità le migliori condizioni espressive della contemporaneità.

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La didattica di Co.4 legge nell’instabilità le migliori condizioni espressive della contemporaneità.E’ sempre stato così fin dal primo giorno di vita, cioè dal primo anno di esi-stenza del Corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura. Qualsiasi per-turbazione del paradigma in uso, piccola o grande che sia, induce la vigile ricerca architettonica insita nella nostra attività didattica, ad allontanarsi significativamente dalla tranquilla e confortevole condizione di equilibrio stabile, per lanciarsi alla scoperta di nuovi e più gratificanti orizzonti co-municativi. Il progetto edile è il prodotto complesso di un processo molto articolato nel quale gli elementi della creatività individuale si confrontano, costantemente, con un multiforme sistema di esigenze, interne ed esterne al processo stesso, ed è possibile comunicarlo e realizzarlo solo generando, caso per caso, un ben identificato sistema di scelte che lo permettano.

Introduzione al corso di Composizione Architettorina quattro

Fotogramma da un corso di scrittura creativa instabile

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Co.4_ teoria

Co.4 è impostato filosoficamente come uno “advanced architecture studio” di matrice anglo sassone, ed infatti da quelli prende origine il programma (sempre diverso ogni anno) nel quale si concentrano temi di ricerca espres-siva artistica (nei quali comprendiamo anche l’architettura naturalmente), di ricerca tecnologica in tutte le sue molteplici applicazioni e temi di ap-profondimento “sovrapposti” nei quali studiamo applicazioni tecnologiche e materiche contemporanee ed innovative, al fine di stimolare la creazione di linguaggi architettonici originali ma non per questo bizzarri o eclettici. Ed è proprio per evitare questa frequente deriva che il lavoro didattico si con-centra sull’approfondimento a 360° di una formula che possiamo definire “catalizzatrice” del processo creativo: “il paesaggio come paradigma dell’ar-chitettura contemporanea”. L’argomento viene analizzato frequentemente durante i Workshop di Co.4 sotto differenti prospettive e viene costante-mente confrontato con le altre due condizioni di “esistenza nella contempo-raneità” indispensabili: la sua comunicabilità e la sua realizzabilità.In relazione alla formula di cui sopra, vengono sondati due aspetti fonda-mentali dell’espressività  architettonica:  quello legato alle attività che do-vranno essere svolte all’interno dei suoi vuoti architettonici e quello legato ai luoghi nei quali le architetture dovranno essere poste. Per il primo aspetto si esplora, in modi e forme non consueti, quella che noi chiamiamo l’”analisi del Fare”; per il secondo si indaga, con gli stessi criteri, l’”analisi del Luogo”. Da queste due importantissime fasi del lavoro si ottengono tutti gli ele-menti necessari al processo generativo dell’architettura contemporanea. Si stimolano poi gli studenti a dare forma, con gli elementi policromi che si ri-cavano da queste indagini, a quello che noi chiamiamo “l’obiettivo architet-tonico”, (cioè quel luogo della fantasia nel quale la creatività ha soddisfatto le nostre aspettative); questo avviene attraverso la formulazione di un’idea ( il concept), condizione sine qua non per poter iniziare a parlare di architet-tura in qualsiasi sua forma espressiva. Segue poi la fase di definizione della “percezione” che la nostra Architettura dovrà avere per rispondere appieno alle caratteristiche espressive nascoste all’interno del nostro obiettivo finale. Allo svolgimento di questa delicatissima operazione partecipano, in modo diffuso e prioritario, le scelte tecnologiche e quelle materiche, con tutto quello che comporta.

Co.4 _ pratica

La consideriamo un viaggio avventuroso. Come quello che organizziamo tutti gli anni in giro per l’Europa, concepito esclusivamente al fine di verifica-re “sul campo” (con meeting e visite appositamente preparati) la sensibilità ai linguaggi architettonici ed artistici contemporanei. La pratica è poi concentrata in lezioni frontali e nei Workshop pomeridiani (noti per la loro assenza di regole, anche temporale), durante i quali vengo-no sviluppate performance, incontri con ospiti ed approfondimenti legati ai mondi espressivi complementari a quello architettonico: dal mondo del video a quello della musica contemporanea, dalla land art alla performing art. Dalla letteratura alla gastronomia per finire alle strategie dell’industria moderna. Si induce così lo studente a cogliere, in funzione della propria sen-sibilità, il fatto che progettare architettura contemporanea significa orga-nizzare ed articolare l’aumento di complessità avvenuto nella società post industriale, e che l’obiettivo diventa quello di sviluppare un repertorio archi-tettonico ed urbano pronto a generare un approccio complesso e policen-trico densamente stratificato e variabile, da cui linguaggio capace di espri-mere in modo comprensibile ed originale storie interessanti ed intelligenti.Al termine di un breve percorso iniziale di “risveglio” delle sensibilità, svolto mediante svariate incursioni in universi paralleli a quello dell’architettura, ci si concentra su un progetto, naturalmente differente tutti gli anni, nel quale il tema è solo un pretesto per applicare le varie fasi del processo comples-so che abbiamo descritto. Non ci piace fare “revisioni” ai progetti in svolgi-mento. Al fine di acuire il senso critico di ognuno, organizziamo frequenti presentazioni durante le quali tutti i partecipanti ai tavoli esprimono le loro opinioni. Lo staff di Co.4 sovraintende che vengano indagati tutti gli aspetti importanti, ma non detta le regole. Alla fine del “viaggio” organizziamo un happening durante il quale gli studenti hanno l’onore di presentare il loro lavoro ad un selezionato gruppo di professionisti con i quali realizzano un efficace e costruttivo “ultimo atto” prima dell’esame finale.

Corso:Architettura e composizione 4Docente:Prof Gabriele GiacobazziAssistenti di Laboratorio:Ing Marco PratiAnno Accademico2008/2009

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Studenti: Marco Reggiani_Matteo Tosi

L’area dell’ex caserma Mazzoni, nonostante le dimensioni relativamente ri-dotte rispetto ad altre aree in via di riqualificazione nella provincia di Bolo-gna, presenta interessanti prospettive di intervento e di integrazione. Data la posizione di centralità all’interno del quartiere si rivela particolarmente adatta, sia ad ospitare nuove attività e servizi che vadano ad integrare quelli già presenti nella zona, sia a ridefinire più in generale il sistema di relazio-ni che ne definiscono il paesaggio. Il masterplan già elaborato prevede la realizzazione di un centro di attività terziarie, due aree residenziali e di una scuola primaria, che è l’oggetto della nostra progettazione. La tipologia de-gli edifici scolastici è indubbiamente complessa, per l’alto numero di va-riabili da considerare nel corso della progettazione: oltre i confini dell’am-bito strettamente didattico infatti esiste un’articolata dimensione sociale e relazionale, che, costituendo forse l’esperienza formativa fondamentale, necessit di una traduzione in termini architettonici. Il tradizionale approc-cio basato sulla logica della standardizzazione funzionale, che considerava tutti quegli spazi non caratterizzati da una specifica funzione come spazi marginali e di risulta, mostra dunque tutti i suoi limiti.Il nostro progetto tenta di superare questo limite innescando un processo dinamico e relazio-nale capace, tramite la deformazione della tipologia scolastica tradizionale, di proporre nuove modalità di fruizione. Si genera così un nuovo paesaggio in cui l’elemento determinante non sono tanto i singoli nuclei funzionali principali (didattico,organizzativo, attività sportive e comuni) quanto piut-tosto lo spazio connettivo tra loro, che si propone come centro di senso fondamentale della vita “interiore” dell’edificio. È questo lo spazio in cui il processo deformativo si rivela nelle superfici inclinate, ripiegate, traslucide dei due nuclei centrali del core e della palestra, con un’intensità tale da la-

cerare l’involucro stesso dell’edificio. Non a caso si collocano in questa “sequenza” spaziale quelle funzioni in cui prevale l’aspetto relazionale come la biblioteca, gli spazi di gioco e relax e la mensa. Tali spazi sono stati concepiti in modo da offrire reali possibilità di interazione agli studenti, ad esempio proponendo sedute reclinabili in-tegrate negli scaffali della biblioteca, ripiani di lavoro e sedute estraibili dal pavimento, nicchie ricavate nelle pareti e pareti attrezzate di supporto alle aule.La deformazione che porta alla genesi degli ambienti interni è chiaramente leggibile anche nella disposizione dei profilati che compongono l’ossatu-ra portante: la struttura è concepita come un telaio metallico racchiuso da una doppia parete che assolve alle funzioni di isolamento e tamponamento richieste. Se per i nuclei principali un materiale plastico traslucido contri-buisce alla smaterializzazione delle superfici ed alla molteplice rifrazione della luce nella ricerca di uno spazio che si rinnova nel percorrerlo, nelle pareti esterne una doppia lamiera metallica alternata a superfici vetrate rende manifesto il processo compositivo. Questo processo si rivela in modo parallelo e complementare anche all’esterno: in questo caso la dinamica deformativa si può leggere nelle diverse piegature dell’involucro, costituito da una rete metallica forata, nel suo essere continuo o lacerato, nel sovrap-porsi a pareti opache o trasparenti. Il suo leggero sollevarsi e scorrere sul volume dell’edificio ne sottolinea il carattere di sottile membrana tra inter-no ed esterno, rafforzato per altro dalla presenza al suo interno di volumi di filtro come lo spazio coperto che introduce all’edificio o il piccolo giardino interno racchiuso tra le aule. L’edificio si presenta così come un’entità la cui tensione interna si cristallizza in un volume di instabile compattezza. Tale tensione si trasferisce al terreno che completa con il suo modellarsi

Proponiamo due progetti realizzati all’interno del corso di Composizione Archi-tettonica quattro

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spazi interni di collegamento privi di identità

organismo scolastico tradizionale introverso

lacerazione dell’involucro di contenimento

alterazione dello schema compositivo

differente comportamento degli oggetti sollecitati

distribuzione di funzioni comuni lungo il percorso

nuova configurazione dei collegamenti interni

aule attività specialiaule didatticheteatro/spazi collettivipalestrespazi di gestione

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“Il matrimonio del nostro corpo con la TecnologiA non potrebbe funzionare se non fossimo già immersi in un PaesaggiO ArtificialE, un paesaggio in cui le cose e le loro rappresentazioni si confondono, un paesaggio che, grazie alla potenza e alla pervasività della tecnologia che lo costituisce, ha la forza di inscriversi direttamente nel nostro SistemA NervosO”“IL CORPO VIRTUALE: dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti”

Antonio Caronia

Studente: Ilaria Venturelli

Il progetto si colloca all’interno di un “ResiduO UrbanO”; luogo della diversi-tà è delimitato da uno spazio caratterizzato dalla compresenza di elementi eterogenei privi di gerarchie manifeste se non per la presenza della linea ferroviaria; in un ambiente dove, la “necessità umana” si manifesta in atti di modificazione dell’ambiente stesso. Pensato per CO_WorkeR o “nomadic workers” e cioè lavoratori che si muovono lungo e fuori i confini delle or-ganizzazioni formalizzate, collaboratori, free lance, liberi professionisti in-dipendenti, ecc...; si pone come obiettivo la creazione di uno spazio “open source” in grado di modificarsi grazie ad apporti esterni che intervengono al suo interno (fruitori) modificando simultaneamente il paesaggio circo-stante, e lo persegue sviluppando i concetti di IntegrazionE, ManifestazionE, PotenziamentO, RelazionalitA’ e InterazionE. Tramite il concept di ProtesI di-viene possibile realizzare un’architettura che si presta ad essere migliorata, adeguata alle esigenze della vita lavorativa e sociale che vi si deve svolgere all’interno. Lo spazio si modifica così da dare vita contemporaneamente a percezioni interne ed esterne in una completa sinergia tra Utente, SpaziO e PaesaggiO. Progettate per “dialogare” le “ProtesI”, scorrendo verticalmen-te sul tessuto di rivestimento esterno, diventano estensione spaziale, ma anche, estensione della mente e del corpo grazie ad una PellE_InterfacciA che si presenta come il mezzo attraverso il quale viene generata la comu-nicazione intrinseca ed estrinseca, il luogo entro il quale sono incorporati tutti gli strumenti per l’elaborazione e l’interpretazione dei dati provenienti dal fruitore. Le “ProtesI” divengono OggettO DialogicO in grado di interagire con il fruitore al fine di creare una realtà filtrata dalla volontà delle persone che vivono ed interagiscono tra di loro, con l’architettura e con l’ambiente. L’esperienza del singolo si innesta all’interno dell’architettura che diviene il risultato di una manipolazione volontaria, mai osservabile da un punto di vi-sta privilegiato, suggerisce la contemplazione libera e aperta del paesaggio, mai ide tica a se stessa, si basa sulla DifferenzA e NoN sull’IdentitA’.

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A margine della lectio magistralis tenuta da Renzo Piano in occasione del SAIE 2009 abbiamo chiesto all’architetto un consiglio. Pubblichia-mo di seguito le sue risposte.

delle domande a Renzo Piano

Fare architettura

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124 Volevamo chiederle quale consiglio darebbe ad un giovane che si iscri-ve alla facoltà d’architettura, ad un giovane neo laureato e ad un architetto dalla carriera in crisi.

RP Per rispondere a questa domanda dovremmo prendere appuntamento in studio!Ai ragazzi che si iscrivono ad architettura: ragazzi è un mestiere bellissimo! Un mestiere d’avventura, straordinario. Per me l’architettura è un’arte corsa-ra, un’arte che respira con il ritmo della terra. Un primo consiglio è: fate architettura e viaggiate, non per scappare dall’Ita-lia che è un paese meraviglioso, tornateci, ma viaggiate e cercate il mondo. L’architettura ha questa dimensione, è un mestiere straordinario. Un architetto deve viaggiare, deve capire, conoscere, non si deve buttare a far schizzi, perché chi inizia col far schizzi, si crede già arrivato ed invece non è ancora niente. Prima di aver imparato si è dei formalisti, degli accademici. L’accademia è pericolosa non solo perché ci sono professori accademici, ma perché se sei lasciato solo, buttato lì, incominci a far schizzi, come quelli che cantano al karaoke, avete mai notato? Si credono dei gran cantanti. Poi pensano:che bello! invece sono dei gran fessi! Perché i giovani devo-no soffrire, devono lavorare devono viaggiare devono capire. Comunque è un mestiere bellissimo al quale spingerei tutti, meraviglioso. E’ un mestiere corsaro, di rapina, dove la rapina è una bella cosa, non è una brutta cosa, è una rapina a viso scoperto, è una rapina per prendere e restituire. Quindi consiglierei di farlo, consiglierei di viverlo così. Quando ero un ragazzo di trent’anni (io avevo trent’anni quando ho cominciato Beaubourg) sono an-dato a Londra poi da Londra a Parigi e non mi è più capitato di ritornare in Italia se non per questi piacevoli incontri. Ma ai miei tempi, si espatriava, per andare a Londra, oggi è diverso, quindi questa storia del viaggiare la darei come consiglio, e poi direi di non ascoltar nessuno, perché c’è un sacco di gente che dà consigli terribili, che sarebbe meglio se stessero zitti. Che cerchino se stessi attraverso l’unica cosa che esiste a buon mercato che si chiama ‘‘ribellione’’, un pò di ribellione! Io ero un ribelle, mica tanto, un pò ribelle; è il sistema migliore quando il giovane vuole ritrovar se stesso. Sei felice perché uno ti spiega una cosa, l’altro ti spiega un’altra cosa, tu stai lì ad ascoltare tutti quanti, perdi la testa e non capisci più niente. Ragazzi, bisogna scoprirlo il mondo, bisogna darsi da fare! Quello dell’archi-tetto è un mestiere di curiosità, di rapina e di curiosità, questo è il consiglio che darei.Per quello meno giovane non so sono nei guai...

124 Ormai sembra inevitabile avere una formazione, più o meno approfon-dita, sulle tematiche dell’architettura ecosostenibile. Ci potrebbe racconta-re un lavoro recente fatto su questi temi?

RP In California abbiamo costruito l’anno scorso il (California Accademy Mu-seum) che è un museo di scienza naturale, è il primo grande edificio ad essere stato catalogato Platinum, un sistema americano che sta prendendo campo e che è valutato su una cinquantina di parametri, non soltanto il consumo di kw/h ma anche la provenienza dei materiali, il riciclaggio dei materiali esistenti, è un edificio nel quale l’acciaio che abbiamo utilizzato è riciclato al 95%; io per scherzo dico sempre che in quell’edificio in ogni pila-stro ci sono almeno dieci automobili. Un edificio importante, perché oltre ad essere un museo di scienze naturali è anche un edificio storico, tant’è che la (California Accademy) esiste da almeno 150 anni, in America è come un’istituzione antichissima.Nacque addirittura su di una nave che andava in giro durante la buona stagione e che durante l’inverno stava in porto e diventava un museo, una situazione bellissima, era normale fare una cosa del genere. Il tetto è piantu-mato, ed è l’unico pezzo di naked California, anzi, il giorno dell’apertura c’è stato un nativo, simpaticissimo, il pronipote del proprietario dell’area, che simbolicamente regalò l’area alla città di S.Fancisco... si fa per dire regalato, l’area era già della città, però la regalò moralmente e disse voi avete fatto il primo pezzo di naked California, per il resto, la bella California che vediamo è fatta pompando acqua dal sottosuolo, questo invece è un verde che vive da solo, autonomo, quindi il tema del costruire secondo tecniche sostenibili è sì, doveroso e dovuto. E’ una scoperta recente che la terra è fragile, me ne ero accorto tempo fa, per cui lavorare sulle luce e tante altre cose era per me normale. E’ qual cosa che viene da lontano nel mio lavoro, ma recentemente, è diventato un ar-gomento comune. Devo dire che in America l’elezione di Obama ha portato ad un’accelerazio-ne di queste cose, quello che voglio dire è che, per esempio in quell’edificio, nel quale il problema non era solo quello di abbassare i costi, ma anche quello di sviluppare un linguaggio, l’architettura ha bisogno di parlare un linguaggio, questo linguaggio è sempre stato dettato nel tempo dalla pura forza della necessità, nell ‘800 c’era l’invenzione dell’acciaio pensate al cristal palace, pensate alla leggerezza dell’acciaio nel ‘900 e giudicate voi, poi la globalizzazione del mercato, i computers, c’è sempre stato qualche cosa. Io penso che il singolo elemento ispirante sia la scoperta che la terra è fragile, ma non può essere semplicemente dire: allora consumiamo meno e basta, nel consumare meno, gli architetti devono trovare il modo che questo di-venti rappresentazione, diventi linguaggio e quindi che in qualche maniera sia bello, è lì che allora diventa divertente, diventa interessante, perchè allo-ra non stai a cincischiare con i soliti cubetti e cominci a domandarti come funziona, come respira l’edificio. Gli edifici devono vivere al ritmo della ter-ra; c’è una dimensione poetica che non è strettamente della storia dell’ar-chitettura, nella storia dell’architettura c’è sempre un aspetto pragmatico: la forza della necessità. C’è sempre un aspetto poetico, espressivo, che è il mondo dei desideri, la voglia di esprimersi, e se queste due cose, se nel dar risposta, se riesci a dare risposta ai bisogni e ai desideri, allora sei bravo,

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124 inaugura in questo numero una nuova rubrica intitolata ‘‘obiettivo architettura’’ nella quale pubblichiamo il lavoro di alcuni fotografi, attraverso il quale imparare a guardare la città

“Questo scatto è tratto dalla serie “Gente di Via”, il cui soggetto è il rapporto che intercorre tra gli spazi dell’architettura contemporanea e i suoi abitanti. L’editoria specializzata rende familiari a progettisti e studenti luoghi ed edifici sparsi per tutto il mondo, caricando tali edifici di un’im-portanza e un’aura che nella maggior parte dei casi non viene percepita o apprezzata dagli abitatori di quelle opere. Il rapporto degli utenti di tali spazi con gli spazi stessi è quindi assolutamente spontaneo, diretto, fresco e non filtrato. Il confronto tra un luogo ai miei occhi carico di forti significati culturali e un “utente tipo” del tutto ignaro di tali significati e concentrato solo sulle sensazione che quel luogo gli trasmette è il soggetto di questo progetto fotografico che è stato esposto in due mostre presso il Centro Fotografico Casolano (Casola Valsenio) e presso il circolo Brainstorm (Fusignano). Le mostre sono state curate da Alessandra Saviotti, gli allestimenti da Matteo Brucoli.”

Matteo Brucoli è nato a Bologna nel 1978; vive e lavora tra Ravenna. e Faenza. Ha studiato presso la Facoltà di Architettura di Ferrara e presso l’ETSAG di Granada (Spagna). I suoi interventi fotografici parlano di una periferia nascosta, raccontano di piccole storie, avvenimenti, tragedie che raramente attirano la nostra attenzione sempre vigile sul centro del nostro campo visivo. Il suo obiettivo è quello di spostare il fuoco dal centro alla periferia, prestando attenzione ai dettagli, per riscoprire la sorpresa del quotidiano.

‘‘Gente di Via’’ progetto fotografico di Matteo Brucoli

Scatti d’architettura contemporanea

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