1 Notiziario 2009

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Anno XVII - n.1 Notiziario Missionario • Autorizzazione del Tribunale di Pesaro n° 393 del 4 Gennaio 1995 • Spedizione in A.P. • D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) Art. 1, Comma 2, DCB Pesaro (Ex Art. 2, Comma 20/C Legge n° 662/96) • In caso di mancato recapito rinviare questa pubblicazione all’Ufficio Postale Centrale di Pesaro per restituzione al mittente che si impegna a pagare la tassa corrispondente sul C.C.P. n° 350405 “... spoglia è la croce. E nuda respira la resurrezione ...” L’etica di fronte alla vita vegetale pag. 16 di Vito Mancuso Senza sogni la notte è buia pag. 6 di Giuseppe Stoppiglia Se la gente apre gli occhi pagg. 4 e 5 di Alberto Maggi Grazie pag. 2 di Benito Fusco fondatore fra Bruno M. Quercetti Gennaio-Aprile 2009 contiene inserto redazionale Foto Alessandra Becchi

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Prima edizione del 2009 del Notiziario Missionario - by Benito Fusco

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“... spoglia è la croce.E nuda

respira la resurrezione ...”

L’etica di frontealla vita vegetale

pag. 16di Vito Mancuso

Senza sognila notte è buia

pag. 6di Giuseppe Stoppiglia

Se la genteapre gli occhi

pagg. 4 e 5di Alberto Maggi

Grazie

pag. 2di Benito Fusco

fondatore fra Bruno M. Quercetti

Gennaio-Aprile 2009

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Mi avete datomolta gioia

Dieci anni fa, con la responsabilità del Segretariato Missioni della Provincia di Piemonte e Romagna dei Servi di Maria, mi fu affidato anche il Notiziario Missionario, fondato nel 1989 da fra Bruno Quercetti. Ascoltando anche i suoi suggerimenti si tentò qualcosa di nuovo: non un organo autoreferenziale e di autoesaltazione delle attività nelle nostre missioni, ma un piccolo strumento di infor-mazione capace di osare e affrontare anche momenti di formazione e ricerca dentro i grandi temi di giustizia, pace, solidarietà e di senso esistenziale, alla luce di quelle tracce evangeliche e di quelle parole perdute ma profonde che la vita offre a chi vuole guardarsi dentro, guardare oltre, guardare l’Altro, per attendere la primavera del mondo e trovare Dio nei passi della storia.Amici, confratelli, biblisti autorevoli, giornalisti, fotografi e Riviste prestigiose ci hanno donato con generosità e gratuità vere perle preziose e spaziosi approfondimenti profetici; vorrei, ringraziandoli, citare alcuni: Giuseppe Stoppiglia, Marco Guzzi, Alex Zanotelli, Giancarlo Bruni, Brunetto Salvarani, Monica Tognoni, Ermes Ronchi, Ricardo Pérez, Tonio Dall’Olio, Alessandra Becchi, Josè M. Castillo, Lorenzo Sani, Michele Serra, Erri De Luca, frei Betto, Antonio Vermigli, don Vitaliano Della Sala, Gabriele Giunchi, Angelo Pontini, Gabriele Maestri, Luciano Nadalini, Pino Cacucci, Mons. Luigi Bettazzi, Arturo Paoli e il nostro Alberto Maggi. Insomma quasi una genealogia matteana, e l’elenco è necessariamente incompleto, anche se l’affetto e la gratitudine per gli omissis sono identici e forti.Nel 1998 erano poco meno di tremila le copie distribuite, ora sono circa settemila, e dalle poche migliaia di lire che riceveva dai lettori per sostenersi o sorreggere qualche progetto solidale ha, in questi anni, umilmente raccolto circa un milione di euro per ri-spondere alle emergenze umanitarie (Kosovo, Mozambico, Tsunami), o per incoraggiare una promozione sociale e cristiana (Filippine, India/Tamil Nadu, Albania, Acre/Brasile, Mozambico, Uganda, Cile).In questo cammino ho trovato faticose adesioni, rimbrotti e inviti ad essere prudente, però nessuna censura, solo piccole intrusioni allarmate delle gerarchie diocesane, subito calmierate da superiori coraggiosi come padre Mario Azzario, tostamente cresciuto a Torino con Primo Levi e il cardinal Pellegrino. Certo, ho ricevuto qualche netto rifiuto da alcuni lettori/benefattori di antica formazione e le loro conseguenti osservazioni risentite, ma anche le legittime sollecitazioni o perplessità di chi si è voluto mettere in dialogo con semplicità e fiducia, o di chi con onestà non se la sentiva di accettare passivamente posizioni o articoli “troppo provocatori e troppo lontani dallo stile ordinario dell’infor-mazione ecclesiale”. Ma tanti sono stati anche i segni di un libero consenso e di stimolo a proseguire a viso aperto, con lealtà.Forse il Notiziario Missionario ha risentito del desiderio molto soggettivo e personale, e mi scuso per questo, di uscire dal recinto per raccogliere qua e là, sullo stile dell’insuperabile settimanale Internazionale, qualcosa di lontano che si vuole vicino per ascoltare, capire, riflettere, accogliere. Questo desiderio non è molto gradito in questi tempi perfidamente attorcigliati intorno ad identità assolute, certezze presunte e impaurite, arroganze fredde e calcolatrici, tutte figlie illegittime di un Concilio Vaticano II tradito e svilito da negazionismi e revisionismi curiali e culturali. Stiamo diventando una Chiesa ricca e aggressiva, quindi sola, sterile e stanca come un corpo senza tenerezza, senza sensualità, senza vita vera, e che accarezza e si lascia accarezzare dal potere dimenticandosi di servire semplicemente l’uomo, di affidarsi teneramente al Padre.Ecco: questo è il mio ultimo numero del Notiziario Missionario, ora il mio desiderio è di sostare in una pace che mi permetta di raccogliere in me stesso tutto quello che ho offerto con entusiasmo e coscienza critica a chi pazientemente ha trovato anche in queste pagine parole di vita, di speranza e di lotta. Cantava il nostro David Turoldo: “… ogni cuore s’incendi ed arda: questo è un tempo che è senza pietà ...”, per me è tempo di approfondire la Parola e vivere il silenzio, che squarcerò solo di fronte all’Uomo ferito, umiliato e offeso. Grazie a tutti e a tutte. Mi avete dato molta gioia.

fra benito m. fusco17 febbraio 2009, Sette Santi Padri Fondatori

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Se la gente apre gli occhi...di Alberto Maggi

campato al tentativo di lapidazione all’interno del Tempio (Gv 8,59), Gesù abbandona il luogo sacro

e va incontro a quanti non potevano accedervi. Il Cristo, che si presenta come il vero pastore del suo popolo, va a liberare le pecore racchiuse nel recinto dell’istitu-zione giudaica e a cercare quelle che ne erano escluse, per formare un unico gregge (Gv 10,16).

Castigato da DioIl primo personaggio che Gesù incontra è un cieco nato. La cecità non veniva considerata una menomazione dell’individuo, ma un castigo per i suoi peccati (“Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica: Benedetto il Giudice giusto”, Berakhot 58b; Dt 28,28). Il fatto che costui fosse cieco dalla nascita non crea alcun problema: se non ha peccato lui hanno peccato i suoi genitori (Gv 9,2), perché, come insegna la Scrittura, il Signore è un “Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 20,5).Gesù non accetta le credenze della religione che servono solo a far

soffrire ancor di più persone già provate dalla vita. No, la malattia non è in relazione al peccato, mai. Il Padre non castiga, perdona, non fa ammalare, guarisce. Il Padre è il Creatore, amante della vita, che lui crea e protegge, e, proprio richiamandosi ai gesti del Creatore, che “plasmò l’uomo con polvere del suolo” (Gen 2,7), Gesù “sputò per terra, fece del fango con lo sputo, unse il suo fango sugli occhi” del cieco (Gv 9,6). Comunicandogli la sua stessa energia vitale (era credenza che la saliva trasmettesse la forza dell’in-dividuo), Gesù modella l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26) e, scrive l’evange-lista, il cieco “tornò vedendo” (Gv 9,7). Ma nel momento in cui il cieco vede, quelli che vedono diventano ciechi, e non lo riconoscono (“Alcuni dicevano: È lui; altri dicevano: No, ma gli assomiglia”, Gv 9,9).Come è possibile non ricono-scere l’individuo? Non gli sono cambiati i connotati, è tornata la luce negli occhi. Quel che meraviglia non è un cambiamento fisico, ma la profonda trasfor-mazione interiore dell’individuo. Quando un uomo ritrova libertà

e dignità, diventa una persona nuova, pur rimanendo la stessa. È questa la perplessità causata nei vicini, ed è per questo che l’uomo libero non viene riconosciuto da quanti accettano di vivere sotto-messi e rifiutano di credere che si siano aperti gli occhi al cieco: nell’Antico Testamento non si trova nessun caso di guarigione di un cieco dalla nascita. L’ideologia prevale sull’esperienza e, siccome non è possibile che un cieco riacquisti la vista, si tenta di negare l’evidenza. Di fronte allo scetticismo dei vicini, colui che era stato cieco risponde in una maniera impen-sabile: “Io Sono” (Gv 9,9). L’uomo rivendica per sé il nome di Dio (Es 3,14), adoperando la stessa esclusiva espressione usata da Gesù per indicare la sua condi-zione divina (Gv 6,20). E la gente comincia a capire, e a temere. “Aprire gli occhi ai ciechi”, nei testi profetici, non indica tanto l’eliminazione della cecità, quanto la salvezza dall’op-pressione, ed è nell’AT immagine dell’azione liberatrice di Dio da ogni forma di tirannia (Is 29,18). Che in Gesù operi il Signore?No, non è possibile. Gesù non

è Dio, ma uno che pretende di farsi uguale a Dio, e per questo i capi hanno deciso di ammazzarlo (Gv 5,18). Però un cieco, che era tale dalla nascita, ora vede. Come è possibile?Semplicemente non è possibile. E il poveretto non fa neanche in tempo a godere la felicità della nuova condizione, che viene trattato come un imbroglione e sottoposto a numerosi pressanti interrogatori. I primi a interrogarlo sono i farisei. Gli zelanti osservanti di ogni minimo precetto della Legge non si felicitano con l’uomo guarito, ma si allarmano sulle modalità di questa guarigione, e gli chiedono informazioni unicamente su “come” sia stato curato. Interessati unicamente a sapere se la guarigione è avvenuta mediante la trasgressione di qualche regola o precetto, senten-ziano: “Quest’uomo non è da Dio perché non osserva il sabato” (Gv 9,16).I farisei non hanno alcun dubbio.

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A loro vantaggio hanno in mano una prova lampante: quel giorno è sabato. Nei millecinquecen-toventuno lavori espressamente proibiti in quel giorno, ci sono quelli di impastare il fango e curare gli ammalati. Gesù l’ha fatto, quindi Gesù non è da Dio, perché il Signore stesso osserva questo comandamento, e per chi lo trasgredisce c’è la pena di morte (Es 31,14). Nonostante ciò, Gesù causa una divisione tra gli stessi farisei, tra chi lo giudica in base all’osser-vanza della dottrina e chi invece guarda il bene dell’uomo, e fa nascere del dissenso tra loro: “Come può un uomo peccatore compiere tagli segni?” (Gv 9,16). Per avere dei lumi sono costretti a rivolgersi all’ex cieco: “Tu, che dici di lui, che ti ha aperto gi occhi?”.Colui che era vissuto nelle tenebre, ora vede, e non ha alcun dubbio nel testimoniare che Gesù agisce in nome di Dio, e dichiara: “È un profeta!” (Gv 9,17). E l’allarme cresce. Il caso sta diven-tando pericoloso e i farisei, divisi tra loro, chiedono il soccorso dei “Giudei”, i capi religiosi.

La vita e la dottrina

Se tra i farisei c’era del disac-cordo, i capi sono compatti. Le autorità religiose non hanno mai dei dubbi, e mai se li pongono. Abituate a rapportarsi ai fatti con il codice in mano, tutto quel che non rientra o contraddice il loro ordinamento viene rifiutato. Per loro il caso semplicemente non esiste: “i Giudei non credettero di lui che era stato cieco e aveva ricuperato la vista” (Gv 9,18). Nel tentativo di insabbiare il caso e mettere a tacere ogni cosa, i capi convocano “i genitori di colui che aveva recuperato la vista e li interrogano dicendo: Questo è il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?” (Gv 9,19). Le autorità intimidiscono i genitori, mettendo in dubbio che quell’uomo sia il loro figlio, e che fosse nato cieco. E i genitori hanno paura a rispondere. I “Giudei” avevano già stabilito che, se qualcuno avesse riconosciuto Gesù come il Messia, sarebbe stato espulso dalla sinagoga, vale a dire escluso dalla vita civile.Impauriti da queste minacce, i genitori si limitano a riconoscere il loro figlio e a confermare che è nato cieco. Per il resto che chiedano a lui, è già maggio-renne.E ancora una volta l’uomo viene interrogato dalle autorità,

che tentano di fargli ammettere che per lui sarebbe stato meglio restare cieco piuttosto che essere guarito da un peccatore. Colui che era stato cieco non ha alcuna alternativa, e la fedeltà a Dio esige che rinneghi la sua salute: “Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore” (Gv 9,24).Ma il giovane si mostra scaltro, e non entra nel piano teologico, che non gli compete (“Se sia un peccatore, non lo so”), e resta in quello della sua esperienza: “Una cosa so: ero cieco e ora vedo” (Gv 9,25).Il sapere dei capi si fonda sulla dottrina, e in base a questa Gesù è peccatore perché trasgre-disce il comandamento del sabato. Il sapere dell’ex cieco si poggia sull’esperienza, e in base a questa Gesù è il suo salvatore perché gli ha restituito la vista.L’esperienza dell’uomo smentisce la dottrina imposta dalle autorità religiose, perché la vita è più forte di qualsiasi teoria e di ogni ideologia. Irritati dalla sua risposta, i capi avvertono il pericolo della situazione e vanno al sodo, vogliono sapere come Gesù gli ha aperto gli occhi. È questo quel che allarma le autorità: che la gente apra gli occhi e, soprattutto, che ci sia qualcuno che apra questi occhi. Se la gente apre gli occhi, per la casta sacerdotale è la fine. Questa può spadroneggiare fintanto che il popolo è abbagliato dalle cerimonie, narcotizzato dalle prediche e rintronato dalle dottrine, ma quando la gente torna a vedere e scopre il vero volto del Padre, il Dio a servizio degli uomini, per le autorità religiose che dominavano in suo nome, è la fine. All’insistenza dei capi, l’uomo replica con grande ironia, e ribatte: “Ve l’ho detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?” (Gv 9,27). L’ipotesi di essere discepoli di Gesù viene vista come un affronto dalle autorità, che “lo insultarono e gli dissero: Tu, sei discepolo di quello, noi di Mosè siamo discepoli! Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma questo qua non sappiamo di dove sia” (Gv 9,28-29). Il ritratto che l’evangelista fa dei capi è impietoso, e per bocca

dell’ex cieco denuncia la loro ottusità. Il popolo ha potuto riconoscere in Gesù il Salvatore, le autorità religiose lo ignorano: “Proprio questo fa meraviglia che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi” (Gv 9,30). Ed è l’uomo, che parlando al plurale si fa portavoce del sentire comune, a rinfrescare il catechismo ai maestri della dottrina. Quanti pretendono di insegnare al popolo non conoscono neanche gli elementi basilari della religione e, alle acrobazie teologiche dei capi, l’ex cieco, basandosi sul buon senso, obietta: “Ora noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno venera Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla” (Gv 9,31-33). Ma le autorità non desiderano apprendere nulla. Sono esse che insegnano al popolo, e non viceversa, e si rifugiano nella tradi-zione della Legge per non dover accettare la novità portata dallo Spirito. I capi non vogliono vedere il fatto, perché contrasta con le loro convinzioni e demolisce il loro sistema teologico e, incapaci di opporre ragionamenti agli argomenti, passano all’insulto:

“Sei nato tutto intero nei peccati e vuoi insegnare a noi?”. Gesù aveva escluso che la cecità fosse conseguenza del peccato. Per i capi, invece, non c’era alcun dubbio. L’uomo dovrebbe tornare a essere cieco per dare loro ragione ed essere a posto con Dio.“E lo cacciarono fuori” (Gv 9,34). Così almeno si illudono. No, non sono stati loro a cacciare fuori dall’istituzione giudaica l’uomo, colpevole di vedere, ma è Gesù, il pastore, che caccia fuori le pecore dall’ovile che le tiene prigioniere (Gv 10,4). E una volta liberato l’uomo dal processo dei capi, inizia il processo di Gesù contro di loro (Gv 10,39).

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eresa, 19 anni, abita a Lamezia Terme, in Calabria. Ci siamo conosciuti alcuni mesi fa, in un incontro sull’intercultura.

Siamo rimasti in contatto e ieri mi è arrivato il suo ultimo messaggio.«Nel suo intervento, citando Bergson, lei ammoniva con forza noi ragazze e giovani del Sud dicendo: “La rasse-gnazione non è che un orientamento verso il passato, un impoverimento delle nostre sensazioni e delle nostre idee, come se ciascuna di esse stesse ora tutta intera nel poco che dà, come se l’avvenire si fosse in qualche modo chiuso”. Aggiungendo, subito dopo: “La ribellione, però, resta comunque un “incidente” e non incide granché nel tessuto del futuro”. In questo momento io sono confusa. Non riesco a decidere se mi devo conformare alla realtà o ribellarmi. Ma contro chi? Forse contro gli insegnanti, che sono senza sogni e non sono in grado di rispondere ai nostri silenzi? Forse contro i politici che pensano principalmente al profitto personale e non ai cittadini, togliendoci le speranze in un avvenire migliore, le aspirazioni, la dignità, l’amore alla vita stessa? Forse contro i commercianti che fanno affari d’oro, sfruttando le commesse? Le sembra giusto continuare a subire questi soprusi e giocare sulla disperazione dei cittadini?».La cosa più terribile del sud, ma di tutti i Sud del mondo, sono le lettere come questa, dove l’alternativa è come una

tenaglia che chiude e strozza.Perché, chi si ribella alla realtà, ha la sensazione di perdere; se invece si conforma, perde ugualmente, o comunque perde quello slancio vitale che all’attesa preferisce la speranza.Quando infatti l’attesa diventa senza oggetto si trasforma in disperazione o, peggio, in rassegnazione. E allora quello slancio giovanile che mette avanti il sogno alla realtà, affinché qualcosa si possa realizzare, si spegne. Quando si spegne un sogno, la notte si fa più buia.Cosa fare per impedire che i sogni dei giovani del Sud si spengano? Penso sia giusto stimolarli a muoversi, prima dentro e poi fuori di loro, non come capita ai giovani del Nord nella direzione presente-avvenire, ma in quella più coraggiosa, stante la loro condizione, indicata dalla direzione avvenire-presente.L’avvenire che vogliono realizzare deve condizionare il loro presente, farlo esistere in un altro modo, e mentre i loro amici del Nord guardano il presente come ciò che costruisce l’avvenire, i giovani del Sud devono fare il contrario, devono fare dell’avvenire che sperano, la base per la costruzione del loro presente.Speranza e desiderioNon è facile, lo so. Ma se la tenaglia chiude senza speranza, loro la speranza la devono salvare dalla morsa perché, in ordine all’avvenire, la speranza va più lontana dell’attesa. Nelle loro condi-zioni, guai a chi si ferma all’attesa, dove

l’avvenire viene verso di me, ma io non vado verso di lui.A differenza dell’attesa la speranza allontana da noi il contatto immediato con l’ambiente deprimente, e non dice cosa posso attendere da questo ambiente, ma cosa posso fare al di là di questo ambiente.«L’attesa - scrive Umberto Galimberti - non ha mai avuto efficacia nel tessuto dell’avvenire. Assomiglia ad un ripie-gamento su se stessi, ad un accartoccia-mento, con l’unico scopo di esporre il minimo di sé all’opacità dell’ambiente. La ribellione è il suo contrario, è il prendere fiato per un giorno, dice solo “no”, ma non innesca un “sì” perché non crea. E per creare occorre una dose pazzesca di desiderio, nutrito di speranza».Ho tentato di far parlare i volti, ascol-tandoli con umiltà. Ho cercato di raccontare storie vere di uomini e di donne che hanno scelto di vivere la propria esistenza come dono. Ho voluto ascoltare la vita di chi fatica ad espri-mersi perché bloccato dalla mancanza delle condizioni essenziali.Lo stupore negli occhi e nelle mani.Per nascere e svilupparsi, la vita ha bisogno di un universo morbido di tenerezza.Il pregiudizio, la violenza, l’isolamento, la miseria, la chiusura sono le principali cause che impediscono il suo dispiegarsi nelle diverse potenzialità. [Mario De Maio]

Christian Bobin a tale proposito aggiunge: «La verità è ciò che arde. Essa non è tanto nella parola definitiva, è negli occhi, nelle mani, nel silenzio. La verità sono occhi, mani che ardono in silenzio».La nostra epoca ha perso l’ansia della scoperta, il fremito della ricerca e il coraggio di andare oltre?Soltanto chi è ancora capace di stupirsi è pronto alla partenza, pronto all’ascolto. L’altro non è mai scontato, la vita di ciascuno è sempre nuova.In questo i bambini sono maestri. Non sono vittime di quella malattia che fa soffrire gli adulti e che si chiama “mancanza di senso della vita”. Gli adulti non si accontentano di vivere il quotidiano, essi vogliono capirne le ragioni. Ignorano la poesia del mistico Angelus Silesius: «La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede», ed esigono ragioni sulla propria missione nel mondo.Il bambino non pone mai simili domande. Giocare con l’acqua, giocare con la trottola, far volare l’aquilone, giocare a mamma e papà, queste piccole gioie bastano ai bambini. Sono ragioni sufficienti per vivere. Per questo sono felici.Nietzsche diceva che egli amava le persone che non hanno necessità di guardare dietro le stelle per incontrare ragioni di vita: il bambino, infatti, non cerca ragioni dietro le stelle.

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Che dire del messaggio di Benedetto XVI: “Combattere la povertà, costruire la pace”? Che certi pro-memoria sono puntuali: AIDS, povertà dei bambini, disarmo, crisi alimentare... Che il messaggio richiama più il professore che il papa, e pare la summula di un libro sul tema controverso della povertà. Ma vediamo per ordine. A chi è destinato il messaggio? Il papa stesso lo dice nella Conclusione: “Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo all’inizio di un nuovo anno il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri”. Sarebbe stato opportuno, parlando ai cristiani, ricordare che la povertà è termine “ambivalente”. Gesù non ha detto “poveretti i poveri”, ma “felici i poveri”. Di fatto Gesù ha scelti i

presenta con una spiccata caratte-ristica di ambivalenza» e quindi va governata con oculata saggezza”. Ma la globalizzazione né è ambivalente, né si lascia governare. Il termine globalizzazione è entrato in uso (negli anni ‘80) per indicare il neo-libera-lismo. I furbi del quartiere, conside-rando che c’era una pianetarizzazione in atto – cioè il mondo era divenuto un villaggio globale, grazie soprat-tutto ai mezzi di comunicazione e di trasporto – vollero approfittarne, innestandovi il pensiero unico, il mercato globale e il libero flusso dei capitali. Hanno predicato che tale sistema è il meglio in assoluto... per i secoli a venire. Francis Fukuyama pontificò: siamo alla fine della storia. Io ritengo che globalizzazione (termine anglosassone) o mondializzazione (corrispondente francese) non siano

recuperabili, neanche usando oculata saggezza. Sarà bene boicottare il termine stesso (p.es., niente globalizzazione della solidarietà). Da quando si è cominciato a parlare di globalizza-zione, si è abbandonato il termine “giustizia”. Prima responsabile della miseria non sarebbe l’ingiustizia; colpevoli sarebbero i poveri, incapaci di salire sul convoglio della globa-lizzazione. Secondo il papa, anche la finanza è “ambivalente”: è buona come “ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo”; è pericolosa quando “si appiattisce sul breve termine”. Ma nella globa-lizzazione la finanza, che accompagna il f lusso dei capitali, è finalizzata alla speculazione di breve termine (96%) e non all’investimento di capitali per la produzione (4%)! Perciò la finanza, con l’incremento del valore e le forme di rischio, è inaccettabile come un tutto. Inoltre, dire che “una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche

per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria”, suona come monito indulgente piuttosto che come accusa verso i protagonisti della recente crisi mondiale. Keynes aveva scrupolo a rispetto del capita-lismo, augurandosi che fosse superato in futuro; senza dubbio, sarebbe stato durissimo nei confronti del sistema finanziario-speculativo. Per il papa l’antidoto alla povertà è lo sviluppo attraverso la solidarietà. Da tempo io sono sospettoso a rispetto della solidarietà, perché c’è un’in-dustria della solidarietà e perché in chi la pratica serpeggia un complesso di superiorità. Il papa non ne è libero: “Non dimentico poi che, nelle società cosiddette «povere», la crescita economica è spesso frenata da impedi-menti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse”. E “lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale”. Occorre perciò un caritatevole “amore preferenziale per i poveri”, dice il papa. Ma la frase consacrata da Medellin è “opzione per i poveri”. L’amore li fa oggetto dell’azione beneficente, l’opzione li fa soggetto di liberazione! Il papa ricorda una chicca dell’Enci-clica Centesimus annus: “Giovanni Paolo II ammoniva circa la necessità di «abbandonare la mentalità che considera i poveri - persone e popoli - come un fardello e come fasti-diosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri hanno prodotto»”. Molti giurerebbero che è così! I clandestini non sono un pericolo per l’Italia e per i lavoratori italiani? Non si devono rimpatriare a forza? Noi abbandoneremo tale mentalità solo se ci convinciamo di dover restituire ai poveri il maltolto, o pagare loro un debito. Chiosando quell’espressione “occhio per occhio”, noi che abbiamo immiserito la loro patria, dobbiamo fare che la nostra sia la loro patria. Di più: per essere “evangelici”, dobbiamo amarli e difenderli come e con la nostra stessa vita. Allora ci sarà pace!

poveri come suoi collaboratori per instaurare il Regno. E se la povertà, nella sua forma estrema di miseria, è uno scandalo che grida vendetta al cospetto di Dio, come sobrietà, lavoro, fiducia in Dio (piuttosto che nella ricchezza) e pratica della condi-visione essa è dignitosa, è “beata” (altrimenti il consumismo sarebbe una beatitudine). Gli indios, quando i teologi della liberazione li definirono “i più poveri tra i poveri del sistema capitalista”, hanno ribattuto che nella loro cultura essi erano liberi e ricchi. Nella lettura del documento ci imbattiamo nel termine “ambiva-lenza”. Il papa che tace sull’ambiva-lenza della povertà, afferma, citando Giovanni Paolo II, che la globa-lizzazione è ambivalente: “Come ebbe ad affermare il mio venerato Predecessore, la globalizzazione «si

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Ronde e rondini

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L’Amazzonia è abitata da gente di grande valore, che il resto del Brasile poco conosce. E se pure la conosce, non la conosce bene. I suoi abitanti, chiamati amazônidas , comprendono quattro etnie principali: indios , coloni , quilomboli e migranti . I coloni hanno dato origine a due sottogruppi distinti: i seringueiros e i ribeirinhos. Nonostante questa ricca diversità di origine, tutti i popoli hanno uno scopo comune: la lotta per la preser-vazione della foresta. E non perché la foresta sia bella, ma perché la vita di ciascuno è intrecciata con la foresta: è la foresta a garantire la loro sopravvivenza. A loro basta la foresta per essere felici.L’Amazzonia brasiliana ha 23 milioni di abitanti in un’area di 5,2 milioni di chilometri quadrati. Con poco più di 4 abitanti per chilometro quadrato, è l’indice di densità demografica più basso di tutto il Brasile. E il mondo pretende che, da solo, ogni abitante dell’Amazzonia si prenda cura di 22 ettari di foresta e la difenda a vantaggio dei 6 miliardi e mezzo di abitanti della Terra.Compito facile? Non sarebbe tanto difficile se, oltre a prendersi cura della foresta, non ci fosse bisogno anche di difenderla contro lo sfrut-tamento incontrollato del suolo, del legno, della fauna e delle risorse minerali. Ma la vita nell’Amazzonia compone anche storie interessanti che ritraggono un popolo gioioso, con un grande amore per la natura e un senso istintivo di responsabilità per quel che riguarda la difesa dell’am-biente.Le storie che presentiamo sono cronache ispirate a resoconti e testi-monianze, tutti autentici nella loro essenza, raccolti con l’aiuto dei Servi di Maria – missionari che svolgono un’opera meravigliosa nell’Acre. Ci auguriamo che questo lavoro contribuisca in qualche modo ad aiutare il lettore a conoscere meglio questi nostri cari fratelli.Nella loro impari lotta a difesa della foresta, gli abitanti dell’Amazzonia hanno bisogno di tutto il sostegno possibile. E non solo. Oggi, scienziati di tutto il mondo sono giunti alla conclusione che salvare l’Amazzonia è soltanto il dettaglio di un quadro più ampio: la vita del pianeta è minacciata dall’utilizzo spropositato e indiscriminato delle risorse naturali da parte dell’uomo che aggredisce e violenta un delicato equilibrio ecologico, la cui evoluzione la Natura dirige sapientemente da centinaia di milioni di anni. A nessuno interessa tutto questo?

“…Ogni Provincia, e tutto l’Ordine, si faccia promotrice di un grande progetto sociale comune, come per esempio la difesa della foresta dell’Amazzonia in Bolivia, Brasile e Perù, o la difesa dell’acqua in Aysén, Cile…” (dagli Atti del Capitolo Generale 2007 dei Servi di Maria)

Un libro per salvare la forestaL’Ordine dei Servi di Maria lavora per l’evangelizzazione in 34 paesi tra i quali il Brasile. La presenza missionaria nello Stato dell’Acre, localizzato nell’Amazzonia Occidentale brasiliana, avviene dal 1920, quando arrivarono nel 15 Agosto, i primi frati a Sena Madureira, inviati dal papa Benedetto XVº, Fra Prospero M. Berrnardi, Fra Giacomo M. Mattioli, fra Michele M. Lorenzini e fra Domenico M. Baggio.Durante questi quasi 90 anni hanno vissuto una evangelizzazione inculturata nella vita dei popoli della foresta: indios, seringueiros,

(estrattivisti della gomma) e abitanti dei fiumi amazonici.Per salvare l’uomo con tutta la creazione, i Servi di Maria hanno dedicato la vita di molti frati alla difesa dello sviluppo sostenibile e all’utilizzo dei ricorsi naturali della foresta.Questa presenza coraggiosa e piena di amore per il Vangelo, per l’uomo e per la foresta amazzonica, ci provoca per una presa di posizione davanti alla distruzione di questa opera di Dio e che è una minaccia per le future generazioni che abiteranno il nostro pianeta.Se anche tu, ti senti ispirato da questo ideale,

manifesta il tuo sentimento alle autorità brasiliane, responsabili per la custodia di questo patrimonio chiamato Amazzonia, creando un giubileo di 10 anni per la salvezza della foresta e scrivi a:

LUIZ INÁCIO LULA DA SILVAPresidente da República Federativa do BrasilPraça dos Três PoderesPalácio do Planalto – 3º andar70150-900 - Brasília – DF – BrasilEmail: [email protected]

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Sentinelle dell’Amazzonia

padre Ettore M. Turrini

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padre Paolino M. Baldassari

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dal libro di Milton Claro “L’Amazzonia che non conosciamo”

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n questi giorni di guerra, di tracolli economici, e di babele linguistica ho spesso ripensato all’idea di un giudizio finale,

all’antica speranza che alla fine dei tempi ogni cosa e ogni persona verrà giudicata secondo una giustizia senza possibilità di errori.Questa idea, in modi differenti, ispi-ra le tradizioni ebraica, cristiana, e musulmana; ma anche la concezione hindu e buddhista del karma: la vita non è un gioco insensato, in cui pos-siamo fare qualsiasi cosa senza mai pagare alcun prezzo, e alla fine della quale, come immaginava con orrore Dostoevskij, i malvagi avranno la medesima sorte delle loro vittime, fosse pure un clamoroso niente di fatto.No, ognuno alla fine ottiene ciò che vuole, l’universo ci dà ciò che abbiamo desiderato e in cui abbiamo sperato: chi avrà creduto nel nulla avrà il suo nulla; chi si sarà speso per dimostrare il non senso della vita, in-segnando agli altri con la propria esi-stenza a sfuggire a se stessi, a beffarsi dell’appello dei santi, a godersi la corruzione di questo mondo, troverà l’assurdità e la corruzione e l’angoscia che ha celebrato; e chi avrà consacra-to le proprie ore e le proprie forze alla bellezza, alla ricerca della verità, e a dare aiuto a chi ne ha bisogno, avrà tutta la bellezza e la verità e l’amore, in cui ha creduto e per cui si è speso.E ciò, in realtà, accade già da ora,

se si hanno occhi per vedere al di là delle apparenze.Già in questa vita inizia il nostro giudizio.Oggi sembra che torni di moda Dante, magari un po’ smussato dalla risata beffarda di Benigni.Si sa, ai nostri giorni non è lecito varcare i sacri confini dell’ironia, si è subito accusati di essere ridondanti, come dice, questa volta con giusta ironia, Zygmunt Bauman.Ma Dante non scherza per niente.E sarebbe opportuno ricordarci che tutta la nostra lingua e la nostra cul-tura nazionali si basano in fondo su un gigantesco Giudizio Universale.La legge dantesca del contrappasso, è vero, sembra a volte spietata.Noi non possiamo più concepire un Dio così crudele.Ma possiamo immaginare senza troppe difficoltà che ognuno ottenga ciò cui ha dato credito, cui ha dato il cuore, cui ha prestato il proprio corpo e la propria voce.Qui Dio non c’entra niente: ognuno sceglie in piena libertà, e in fondo crea il proprio destino.Hai tanto creduto e sostenuto che niente ha senso, che non c’è né Dio né giustizia né verità ultime, ma solo il bruto caso e la violenza dei più for-ti, dei più ricchi, dei più “connessi”, dei più raccomandati, dei più cor-rotti, dei più politicamente corretti, dei più ipocriti, dei più furbi, e dei più vili.

Ebbene farai piena esperienza di ciò cui hai dato il cuore.Non come vendetta, ma per il tuo apprendimento.Dopo, in questo mondo o in un altro, starai più attento a cosa dire, a cosa fare, e a cosa credere. E così im-parerai ad essere un po’ più umano, un po’ più divino.Il cuore di questa giustizia è cioè sempre l’Amore, e l’Amore miseri-cordioso.Ha ragione Benedetto XVI a con-cepire il Giudizio finale come un elemento sostanziale della speranza umana, e in particolare della spe-ranza dei poveri, delle vittime, degli emarginati, degli schiacciati, dei san-ti, dei sapienti, e degli innamorati della verità.Scrive il Papa: “Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna” (Spe salvi n. 43). Ma in fondo così la pensava anche Kant, e tutto il suo impianto etico illuministico si fonda proprio sulla speranza che nell’eterno la virtù sarà compensata dalla felicità. Senza questa speranza anche la laicità libe-rale, anche il sogno di Martin Luther King e di Obama perdono qualsiasi fondamento e forza di convinzione.L’umanità odierna invece, e spe-cialmente quella europea, non ama l’idea di essere corretta o giudicata, si arrabbia al solo pensiero, come i

bambini più viziati e capricciosi. Preferiamo l’assurdo cosmico e la vittoria dei prepotenti, preferiamo illuderci che sussista come giudice supremo soltanto il nostro arbitrio, la nostra opinione, il nostro gusto, su cui ovviamente non si deve di-sputare.Preferiamo così magari anche andare alla rovina, piuttosto che iniziare a correggerci.Faremmo meglio a ricordare Rimbaud: “La teologia è seria, cer-tamente l’inferno sta in basso – e il cielo in alto”, e questi milioni di anime e di corpi “saranno giudicati”.Faremmo meglio a ricordare ciò che l’angelo, impersonato da Nicolas Cage nel film “La città degli angeli”, dice all’incredula e bellissima Meg Ryan: “Ci sono cose che sono vere, che tu ci creda o no”.A me sembra invece che faccia tanto bene alla salute pensare che esiste un ordine, una giustizia piena di mi-sericordia che avrà sempre l’ultima parola rispetto alle nostre menzogne. Fa bene pensare che alla fine tutto verrà svelato, manifestato, davanti agli occhi di tutti, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, in una luce intrattenibile, di puro ed evidente Amore.

La vita non è un gioco insensatoI

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Solo un sorriso, per cortesia...volte ci troviamo di fronte a piccoli simboli che, se decodificati, ci saprebbero dire qualco-

sa delle nostre esistenze, o almeno ci fornirebbero una qualunque giusti-ficazione, ma siamo sempre troppo distratti o ignoriamo troppo per po-terli svelare”. Ho trovato questa bella considerazione dal sapore borgesiano in un racconto di Francesco Guccini, José Pasculli, dalla raccolta Icaro, usci-ta qualche mese fa.Un piccolo simbolo che forse potrebbe dirci qualcosa di rilevante di noi, e di come sia (mal)ridotto il nostro (Bel)paese, è la completa scomparsa della cortesia. Il fatto, anzi, che lo stesso termine cortesia sia ormai inutilizza-to, e incomprensibile: mi è capitato, come test minimo, di chiederne a qualche adolescente il significato… con scarsi risultati. Sa di vecchio, di superato, di atmosfere gozzaniane e demodé: ripetendolo ad alta voce, mi aspetterei di veder spuntare fuori l’amica di nonna Speranza, o la signo-rina Felicita. Personalmente, e questo è il motivo per cui, in questo inizio di anno nuovo, esprimo il desiderio che qualcosa possa pian piano cambiare, ritengo che la questione sia invece assai seria, non riguardi una più o meno giustificata nostalgia per il buon tempo andato e confini piuttosto con la progressiva fine del senso civico e del senso di appartenenza ad una co-munità su cui CEM, da diversi anni, sta riflettendo.Mi chiedo: quand’è capitato che ab-biamo cominciato a smettere di salu-tarci a vicenda, incontrando lungo la strada qualcuno che non sia un amico carissimo? Quando abbiamo preso a ritenere superfluo un cenno qualsiasi all’arrivo di qualcuno nell’ambiente comune in cui ci troviamo? Per non parlare del nostro comportamento abituale in automobile, in mezzo al traffico cittadino, del fatto che - ad esempio - le strisce zebrate sembrano diventate invisibili, tanto sono scarsa-mente rispettate. O dell’uso degli spazi comuni, che ormai sono ridotti a una vera e propria terra di nessuno, rispet-to ai quali non sentiamo più alcuna responsabilità civica. Ma potremmo proseguire… Come si vede, dalla fine della cortesia alla perdita della buona educazione e all’invisibilità dell’altro il passo è breve. E tutto congiura a rendere più faticoso il vivere insieme, a chiuderci sempre più in noi e nelle no-stre mura ristrette. Eppure un sorriso, o un saluto, non sono mai superflui, non lasciano mai le cose com’erano prima, e potrebbero aiutarci a vedere il mondo sotto una luce diversa. In una chiave contagiosamente migliore. E senza uno sforzo particolare! Certo, le forme di quotidiana inciviltà sono

ormai diventate tante, troppe, e un cenno cortese del tutto gratuito ri-schia di restare una goccia nel deserto perché, spiace doverlo ammettere, davanti alla parola senso civico molti voltano pagina, fiutano odor di re-torica, vedono un mondo perduto come la civiltà contadina degli ultimi film di Olmi. Siamo dominati da un giustificazionismo interessato che sta creando alibi perfetti a tutti i tra-sgressori delle regole, ai maleducati e ai prepotenti: si alimenta di spot e pubblicità sempre più aggressivi e di messaggi in codice che invitano a considerare i colleghi nemici, più che compagni di lavoro. Mentre la gen-tilezza e la cortesia non si stimolano per divieto, ma si hanno dentro per-ché qualcuno o qualcosa - la scuola, la famiglia, il gruppo di amici in cui si cresce - ha concorso a farcele amare. L’altro giorno, quando Lucrezia mi ha raccontato che, da maestra intelli-gente qual è, ha abituato i suoi alunni (dei piccolotti di sei o sette anni), a salutarsi reciprocamente guardandosi in faccia e dandosi la mano, tutte le mattine prima di attaccare con la lezione, ho pensato che la situazione in cui ci siamo sprofondati non è del tutto irrimediabile. Anzi. L’ho trovato un piccolo simbolo pieno di speranza, in questo temuto avvio del 2009, e mi è immediatamente spuntato un sorriso.

di Brunetto Salvarani

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Pensieri in ore diverse di uno stesso giornodi don Angelo Casati 9 febbraio, ore 18.00Che cos’è questa apparente contraddizione che mi segna dolorosamente da giorni? Da un lato una repulsione, un disgusto per le parole che senza il minimo pudore, spudorate, stanno vio-lando il mistero che avvolge la vita di Eluana. Repulsione, disgusto per le parole e bisogno incontenibile di silenzio. Ho letto nella Bibbia ciò che è bene. Ho letto: “E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore”. Poi ho visto credenti non aspettare in silenzio. Loro non aspettano. Loro non hanno niente da aspettare. Loro sanno. Bisogno incontenibile di silenzio e paradossal-mente bisogno di parole che abbiano il sapore buono del pane, da spartire con gli amici. Con gli amici e con la cerchia sconfinata di coloro che ancora aspettano la salvezza: non l’hanno imprigionata nei loro fantasmi, dando ad essi il nome di verità. Piccola sorella verità, piccola mia sorella, dissacrata come Eluana. Bisogno dunque di altre parole, di parole impa-state paradossalmente di silenzio, il silenzio del confidarsi. Il bisogno di sentire una voce, prima ancora e più ancora che sentire parole. Quasi per un bisogno di sentire di esistere, dentro il vuoto. Un bisogno di sostenersi gli uni gli altri, dentro la depravazione. Mi colpì in questi giorni un amico. Squilla il telefono, mi dice: “Sentivo il bi-sogno della tua voce”. Sono, questi, giorni in cui sentiamo il bisogno di voci, il timbro della voce. Da povero uomo come sono, da povero cri-stiano in avventura, dentro l’avventura della vita, mi sono dato un punto di discernimento. Discutibile fin che vuoi, ma in qualche misu-

ra, penso, efficace. Non dico “infallibile”, ma “efficace”. Mi sono detto: “quando parlano, osservali, capirai dalla loro voce, capirai dai loro occhi capirai. Capirai dove vanno i pensieri che li muovono. Dal tono della loro voce, dalla piega dei loro occhi, capirai ciò che veramente sta loro a cuore”. Ti dirò di più: anche le pagine scritte, se le ascolti svelano la voce e gli occhi. Li ho sorpresi in alcu-ni scritti in questi giorni. Ma se non trovi pietà, un’umana pietà, né nella voce né negli occhi, non indugiare, cerca altrove. Mi sono guardato intorno in questi giorni e mi sono ricordato di Gesù, vangelo di Giovanni. Era il giorno in cui aveva rischiato le pietre, le aveva rischiate, dentro lo spazio sacro del tempio, le aveva rischiate dagli uomini della religione, quel-li che la fede l’avviliscono al rango grigio di un prontuario di norme. “Uscì dal tempio” è scritto, quasi a dire che quando la religione subisce un tale avvilimento, devi uscire. Cercare altrove. E il racconto, il racconto della vita, continua per le strade: “e mentre passava, vide un uomo cieco dalla nascita. E i suoi discepoli lo interrogarono dicendo: Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi geni-tori perché nascesse cieco?” (Gv 9,1-2). Il verbo “vedere” è al singolare. Giusto il singolare! Gesù lo vede. Non ditemi che i discepoli lo “videro”.Quel povero cieco per loro era un caso, un caso su cui discutere. Nessuno di loro a misurare quel dolore degli occhi spenti, un dolore che aveva il tempo di una vita: dalla nascita. E lui Gesù, in-fastidito dalle discussioni teologiche, in cui Dio è assente, perché Dio o è il Dio della compassione o non è! Loro discutevano il caso. Lui guardava il cieco con compassione, quella che ti prende per

fremito alle viscere. Ti dirò che ho sentito in questi giorno uomini politici e uomini di chiesa parlare come quei di-scepoli: Eluana per loro è un caso, una bandiera senz’anima, senza più colori. Guardali, ascoltali: parlano con gli occhi asciutti. I teoremi contano più del dolore. Si permettono -e dovremmo tutti insorgere per sacra indignazione- parole oscene, dentro l’abisso del dolore. Parole che feriscono, come lama, il cuore. Parlano senza sapere, senza il vero sapere che o è sposato alla vita, quella reale o non è. O è sposato alla compassione o non è. Parlano da fuori, dai palazzi, come nei giorni di Welby, senza aver visitato, senza essersi seduti ad ascoltare. Non conoscono case, inseguono disegni, i loro, difendono se stessi con la più spudorata delle menzogne. Agitano bandiere, senza colore, perché se una donna o un uomo li defraudi della libertà di decidere, hai tolto tu loro ogni goccia di sangue, ogni colore, hai tolto loro il sangue e il colore della vita. Mi è capi-tato spesso di chiedermi, in giorni come questi che ci tocca di vivere, se, in assenza di certezze assolute, non dovremmo tutti batterci, come fa con spirito indomito - faccio un nome tra i tanti - un’amica Roberta De Monticelli, perché alme-no sia salva quest’ultima e prima istanza, quella della libertà, senza la quale non si è viventi, ma manichini, in mano ai poteri e ai loro disegni, fantasmi e cortigiani del nulla. Ho sentito parole oscene, ma ho anche visto immagini per me, dico per me, oscene. Ho negli occhi da giorni l’immagine di un’autolettiga che esce da una clinica, presa quasi d’assalto, quasi si trattasse di una preda da conquistare. Guardavo gli occhi erano induriti dal livore, ho cercato invano segni di una umana pietà. Si mescolano rosari a urla minacciose, una pietà senza pietà e dunque spietata. Non ho visto silenzio di pianto. Ho visto difesa di bandiere. Ho sentito rabbrivi-dendo parole infami, come quelle di chi gridava: “lasciatela a noi” quasi si parlasse di una cosa da tenere, come se Eluana non avesse né padre né madre, come se toccasse ad altri un possesso, per disconoscimento di padre e di madre. Le grida mi parvero per un attimo oscene. Dopo tanti discorsi tesi a rivalutare la famiglia, ora siamo giunti all’esproprio. E, ancora una volta, a chiedermi che cosa sia mai accaduto per renderci maledettamente senza pietà.

9 febbraio, ore 21.00 Il conduttore del telegiornale ha dato la notizia: “Eluana è morta”. Ho visto una piega di dolo-re nei suoi occhi... Ha chiuso la trasmissione. Beppino Englaro chiede il silenzio. Il capo dello stato chiede il silenzio. La Bibbia nel libro delle Lamentazioni (3,26) chiede il silenzio: “E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore”. Gli occhi sono sul Parlamento, il Senato è in presa diretta. Ha un’occasione di ultima dignità. Che sia nell’orizzonte, invocato da molti, il minuto di silenzio che viene chiesto ai senatori? Non fu vero silenzio. Un’occasione di dignità perduta. Perdonate, ma io non credo al silenzio di chi tace per il breve spazio di un minuto e poi violenta, né credo alla preghiera di chi mormora al suo Dio e immediatamente dopo insulta. E’ anche vero che non tutti hanno dato questo squallido esempio. Ma rimane lo spettacolo indecoroso. Mi ritiro. Nel silenzio.

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Eluana: il sacerdote

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terapeutico, ma vivere fino in fondo la vita lasciandomi portare dall’ im-menso respiro dell’ essere, secondo la tradizionale visione della morale della vita fisica non solo del cattolicesimo ma anche delle altre grandi tradizioni spirituali. Chissà poi che cosa significa “vita vegetale”: da precisi esperimenti è risaputo che anche le piante provano emozioni, e reagiscono con fastidio a un certo tipo di musica e con favore a un altro (dicono che la preferita sia la musica sacra indù della tradizione vedica). La vita vegetale è una cosa seria, ognuno di noi la sta vivendo in questo momento, basta considerare la circolazione del sangue, il metaboli-smo, il sistema linfatico. Il fatto, però, è che non si trattava di me, ma di Eluana, e che ciò che è un

valore per me, non lo era per lei. Una diversa concezione della vita produce una diversa etica, e da una diversa etica discende una diversa modalità di percepire e di vivere le situazioni concrete, così che ciò che per uno può essere edificazione, per un altro si può trasformare in tortura. Si pensi alla castità, alla clausura, al martirio e ad altri valori religiosi, che per alcuni non sono per nulla valori ma un incu-bo spaventoso solo a pensarli. Il padre di Eluana ha lottato per liberarla da ciò che per lei era una tortura, ed è probabile che la conoscesse un po’ meglio del ministro Sacconi e del cardinal Barragan. Grazie allo stato di diritto, alla fine l’ ha liberata. Io non sono d’ accordo? È un problema mio, non si trattava di me, ma di lei. Tutto molto semplice, come sempre è semplice la verità.

Ora aspettiamo una legge sul testa-mento biologico, e io penso che il compito dello Stato sia precisamente quello di produrre, a partire dalle diverse etiche dei cittadini, una legge ove tutti vedano riconosciuta la pos-sibilità di vivere e di morire secondo la propria concezione del mondo. Se lo Stato fa questo, realizza la giustizia, che, com’ è noto, consiste nel dare a ciascuno il suo. La distinzione tra etica e diritto è decisiva. A questo punto però sento la voce di Benedetto XVI che rimprovera questa mia prospettiva di “relativismo” in quanto privilegia la libertà del singo-lo a scapito della verità oggettiva. È mio dovere cercare di rispondere e lo faccio ponendo una domanda: Dio ha voluto oppure no l’ incidente stradale

del 18 gennaio 1992 che ha coinvolto Eluana? A seconda della risposta di-scende una particolare teologia e una particolare etica. Io rispondo che Dio non ha voluto l’ incidente. L’ inci-dente, però, è avvenuto. In che modo allora il mio negare che Dio abbia voluto l’ incidente non contraddice il principio dell’ onnipotenza divina? Solo pensando che Dio voglia sopra ogni cosa la libertà del mondo, e pre-cisamente questa è la mia profonda convinzione. Il fine della creazione è la libertà, perché solo dalla libertà può nascere il frutto più alto dell’ essere che è l’ amore. Ne viene che la libertà è la logica della creazione e che la più alta dignità dell’ uomo è l’ esercizio della libertà consapevole deliberando anche su di sé e sul proprio corpo. È verissimo che la vita è un dono di Dio, ma è un dono totale, non un

dono a metà, e Dio non è come quelli che ti regalano una cosa o ti fanno un favore per poi rinfacciartelo in ogni momento a mo’ di sottile ricatto. Vi sono uomini di Chiesa che negano al singolo il potere di autodeterminazio-ne. Perché lo fanno? Perché ospitano nella mente una visione del mondo all’ insegna non della libertà ma dell’ obbedienza a Dio, e quindi sono ne-cessariamente costretti se vogliono ra-gionare (cosa che non sempre avviene, però) a ricondurre alla volontà di Dio anche l’ incidente stradale di Eluana. Delle due infatti l’ una: o il princi-pio di autodeterminazione è legitti-mo perché conforme alla logica del mondo che è la libertà (e quindi l’ incidente di Eluana non è stato vo-luto da Dio); oppure il principio di

autodeterminazione non è legittimo perché la logica del mondo è l’ obbedienza a Dio (e quindi l’ incidente è stato voluto da Dio). Tertium non datur. Per questo io ritengo che la deliberazione della li-bertà sulla propria vita non solo non sia relativismo, ma sia la condizione per essere conformi al volere di Dio. Il senso dell’ esistenza uma-na è una continua ripetizione dell’ esercizio della libertà, a partire da quando abbia-mo mosso i primi passi, con nostra madre dietro, incerta se sorreggerci o lasciarci, e nostro padre davanti, pronto a prenderci tra le sue braccia. In questa prospettiva ricordo alcune parole del cardinal Martini: «È importante rico-noscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cri-stiana e di molte religioni

comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all’ uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona... La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto». Il valore assoluto è la dignità della vita umana che si compie come libertà. Sarebbe un immenso regalo a questa nazione lacerata se qualche esponente della gerarchia ecclesiastica seguisse l’ esempio della saggia scuola demo-cristiana di un tempo esortando gli smemorati politici cattolici dei nostri giorni al senso della laicità dello stato. Li aiuterebbe tra l’ altro a essere dav-vero quanto dicono di essere, il partito “della libertà”. Che lo siano davvero e la garantiscano a tutti, così che ognu-no possa vivere la sua morte nel modo più conforme all’ intera sua vita.

e le circostanze non fossero tragiche, si potrebbe dire alla Chiesa gerarchica dei nostri giorni, con una leggera ironia

e una pacca sulla spalla: “Dio esiste ma non sei tu, rilassati”. Il problema infatti è anzitutto nervoso. Riguarda il controllo dei sentimenti e delle passioni. Un controllo che la dire-zione spirituale sapeva insegnare agli uomini di Chiesa di un tempo, e che invece oggi sembra smarrito. Assistiamo allo spettacolo di una Chiesa isterica: che non è amareg-giata ma arrabbiata, che non parla ma grida, anzi talora insulta, che non suggerisce ma ordina, che non critica ma impone alzando la voce, o facendo pressioni su chi tiene il bastone del comando. Non discuto

la buona intenzione di combattere per la giusta causa, mi permetto però di dubitare sullo stile e più ancora sull’ efficacia evangelizzatrice di tale battaglia. L’ unico “cardinale” che ha pronunciato parole sagge e coraggiose è stato Giulio Andreotti, quando ha giudicato il decreto governativo un’ indebita invasione nella sfera privata delle persone. Andreotti è uno dei rari cattolici che ancora ricorda e pratica la capitale distinzione tra etica e diritto, che è, a mio avviso, il punto decisivo di tutta la questione. Personalmente ero contrario all’ inter-ruzione dell’ idratazione di Eluana. Se mi trovassi io a vivere una condizione del genere (o peggio ancora uno dei miei figli) vorrei che mi si lasciasse al mio posto di combattimento nel grande ventre della vita anche con la sola vita vegetale: nessun accanimento

L’etica di fronte alla vita vegetaledi Vito Mancuso

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Intervista a mons. Giuseppe Casalea cura di G. Galeazzi

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come facemmo con Giovanni Paolo II”«Mi sento vicinissimo a papà Peppino. Quella di Eluana non è più vita, porre termine al suo calvario è un atto di misericordia». Nel pieno della mobili-tazione cattolica contro la «condanna a morte» della Englaro, l’arcivescovo Giuseppe Casale prende le distanze dall’«accanimento contro un povero corpo martoriato, tenuto artificial-mente in un limbo».Lasciar morire Eluana è carità cri-stiana?«Sì. Non è tollerabile accanirsi ancora né proseguire questo ormai stucche-vole can can. C’è poco da dire: l’ali-mentazione e l’idratazione artificiali sono assimilabili a trattamenti medici. E se una cura non porta alcun bene-ficio può essere legittimamente in-terrotta. Perciò, lasciamo che Eluana termini i suoi giorni senza stare lì a in-fierire senza alcun esito né speranza di guarigione. Si è creato il “caso Eluana” agitando lo spettro dell’eutanasia, ma non qui si tratta di eutanasia. Alla fine anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi tera-peutici inutili. Vedo quasi il gusto di accanirsi su una persona chiusa nella sua sofferenza irreversibile».Vaticano e Cei combattono una battaglia durissima.«Dovremmo smettere di agitarci con-tro i mulini a vento e chiederci se quella della Englaro sia realmente vita. Una vita senza relazioni, alimen-tata artificialmente non è vita. Come cattolici dovremmo interrompere tut-to questo clamore e dovremmo essere più sereni affinché la sorte di Eluana possa svilupparsi naturalmente. I trat-tamenti medici cui è stata sottoposta non possono prolungarle una vera vita, ma solo un calvario disumano. È giusto lasciarla andare nella mani di Dio. Invece di fare campagne biso-gnerebbe accostarsi con pietà cristiana alla decisione di un padre».Perché non è eutanasia?«L’alimentazione artificiale è accani-mento terapeutico, se la si interrompe Eluana muore. Rispettiamo le sue ul-time volontà e non lasciamo solo quel padre che, appena si saranno spenti i riflettori di una parossistica attenzio-ne, sarà in esclusiva compagnia del suo dolore. Io lo comprendo, prego per lui, gli sono vicino. Neanche io vorrei vivere attaccato alle macchine come Eluana, anche per me chiederei di staccare la spina. Proprio perché crediamo che la morte non abbia l’ultima parola, dobbiamo inchinarci al suo mistero, invece di nasconderci nelle dispute tecniche. Eluana non c’è più da tanto, da molto tempo pri-ma della rimozione del sondino che simula un’esistenza definitivamente svanita».

Eluana: il vescovo

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AVVISO IMPORTANTENUOVA SEDE OPERATIVA E NUOVO INDIRIZZO

del NOTIZIARIO MISSIONARIOdel SEGRETARIATO MISSIONI SERVI DI MARIAdel CENTRO MISSIONARIO SERVI DI MARIA

Rimane invariato il C/C Postale n. 350405intestato a CENTRO MISSIONARIO SERVI DI MARIA

EREMO DI RONZANO Via Gaibola, 18 . 40136 BOLOGNA

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CENTROMISSIONARIO

SERVI DI MARIAC/C Postale

n. 350405Specificare la causale

in missione: periodo dal 25 luglio al 31 agosto 09India/Tamil Nadu - Brasile/Acre - Mozambico - Cile

Incontri di preparazione

Eremo di Ronzanovia gaibola, 18 bologna

Segretariato Missioni14 e 15 Marzo 094 e 5 Aprile 091, 2 e 3 Maggio 0920 e 21 Giugno 09dal 20 al 26 Luglio 09 Campo di lavoro

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Anno XVII, n.1, Gennaio - Aprile 2009Direttore Responsabile: Aurelio M. GiangoliniSegreteria di redazione: Benito M. Fusco

Sede Operativa:Segretariato Missioni Servi di Maria Via Gaibola, 1840136 BolognaTel. 051.581443 - Fax 051.333295E-mail: [email protected]: www.missioniosm.itProprietà editoriale: Provincia

di Romagna dell’Ordine Servi di Maria.Stampa: “Maestri Tipografi srl” www.maestritipografi.itImpaginazione: Angelo Pontiniby Melapì Grafica - Riminiwww.melapi.itIdea grafica: Benito M. Fusco

Hanno collaboratoAlberto Maggi, Marco Guzzi, Benito Fusco, Alberto Regoli, Brunetto Salvarani, Giuseppe Stoppiglia, Milton Claro, don Angelo Casati, Vito Mancuso, Arnoldo De Vidi, Ettore Turrini, Alessandra Becchi, Luciano Nadalini, Giacomo Galeazzi, Silvio Boselli (Figura grafica)

Si ringraziano: Centro Studi Biblici “G.Vannucci”, Mosaico di Pace, Koinonia, www.marcoguzzi.it, Rocca, Ordine dei Servi di Maria, La Stampa, La Repubblica, CEM Mondialità, Madrugada, Internazionale. Foto: Luciano Nadalini, Alessandra Becchi, Araquèm Alcântara, Bruno Giovannetti. Copertine: Alessandra Becchi e Luciano Nadalini

fondatore fra Bruno M. Quercetti

“... forse sogno o anche tu piangi di nascosto, o Signore ...”

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