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CAPITOLO 11 219 “La mia vista peggiora sempre di più... l’oculista mi ha detto che posso lavorare solo un po’... lo faccio con molta difficoltà e con una grande tristezza” (Edgard Degas ) QUANDO L’ARTISTA SI AMMALA La malattia in un artista può comportare importanti implicazioni sui risultati qualitativi o quantitativi della sua produzione. La malattia è in grado di influenzare la sua visione del mondo, la creatività, l’emo- tività interiore e quindi le sue caratteristiche espressive, ma anche di modificare, e questo vale per alcune malattie invalidanti, l’aspetto tecnico-esecutivo dell’opera. Può esserci pertanto una stretta corre- lazione tra lo stato morboso e quello che l’artista dipinge ma anche come lo dipinge [1]. Esistono infermità che possono essere altamente vincolanti da questo punto di vista, rappresentate sostanzialmente dai disturbi neurolo- gici, psichiatrici, reumatologici, oculistici. In questi casi il rapporto tra Medicina ed Arte acquista una sfumatura particolare: lo stato di malattia viene percepito come fattore condizionante la possibilità, la capacità, la modalità di effettuare un’attività creativa, particolarmente nel campo dell’Arte figurativa. Non sempre la forma morbosa limita la creatività dell’artista, a volte come in de Chirico, Klee, Van Gogh, paradossalmente la arricchisce di motivi singolari ed innovativi. La ricostruzione di una determinata patologia attraverso le opere di individui con forte personalità creativa viene denominata patografia. Gli studi patografici a tal proposito sono molto numerosi, e riguar- dano anche artisti di grande levatura di cui è significativo notare ad esempio le trasformazioni nella scelta dei soggetti, nelle tinte croma- tiche o nella tecnica di esecuzione in relazione alla comparsa di una determinata infermità. Questo argomento ha entusiasmato e continua ad entusiasmare la classe medica, e la letteratura è ricchissima di studi e di ricerche volte ad analizzare il legame tra la patologia di un maestro ed un’ap- prezzabile variazione in qualità o in quantità del suo repertorio. Disturbi neurologici La neurologia della creatività è una branca di recente introduzione che indaga sui processi di produzione delle opere d’arte. I relativi

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“La mia vista peggiora sempre di più...l’oculista mi ha detto che posso lavorare solo un po’...

lo faccio con molta difficoltà e con una grande tristezza”(Edgard Degas )

QUaNDo l’aRtiSta Si aMMala

La malattia in un artista può comportare importanti implicazioni sui

risultati qualitativi o quantitativi della sua produzione. La malattia è

in grado di influenzare la sua visione del mondo, la creatività, l’emo-

tività interiore e quindi le sue caratteristiche espressive, ma anche di

modificare, e questo vale per alcune malattie invalidanti, l’aspetto

tecnico-esecutivo dell’opera. Può esserci pertanto una stretta corre-

lazione tra lo stato morboso e quello che l’artista dipinge ma anche

come lo dipinge [1].

Esistono infermità che possono essere altamente vincolanti da questo

punto di vista, rappresentate sostanzialmente dai disturbi neurolo-

gici, psichiatrici, reumatologici, oculistici. In questi casi il rapporto

tra Medicina ed Arte acquista una sfumatura particolare: lo stato di

malattia viene percepito come fattore condizionante la possibilità, la

capacità, la modalità di effettuare un’attività creativa, particolarmente

nel campo dell’Arte figurativa.

Non sempre la forma morbosa limita la creatività dell’artista, a volte

come in de Chirico, Klee, Van Gogh, paradossalmente la arricchisce

di motivi singolari ed innovativi.

La ricostruzione di una determinata patologia attraverso le opere di

individui con forte personalità creativa viene denominata patografia.

Gli studi patografici a tal proposito sono molto numerosi, e riguar-

dano anche artisti di grande levatura di cui è significativo notare ad

esempio le trasformazioni nella scelta dei soggetti, nelle tinte croma-

tiche o nella tecnica di esecuzione in relazione alla comparsa di una

determinata infermità.

Questo argomento ha entusiasmato e continua ad entusiasmare la

classe medica, e la letteratura è ricchissima di studi e di ricerche

volte ad analizzare il legame tra la patologia di un maestro ed un’ap-

prezzabile variazione in qualità o in quantità del suo repertorio.

Disturbi neurologici

La neurologia della creatività è una branca di recente introduzione

che indaga sui processi di produzione delle opere d’arte. I relativi

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approfondimenti di natura neuropatografica hanno avuto come sog-

getti pazienti epilettici, dementi o con danni cerebrali ischemici o

ancora con lesioni intracraniche [2-4].

Da qualche anno l’emicrania è entrata da protagonista in questo tipo

di studi: le manifestazioni della malattia e soprattutto l’aura che la

può precedere sono caratterizzate da disturbi temporanei della per-

cezione visiva e della parola, stati di sdoppiamento e di scissione

della coscienza, disturbi della memoria o paramnesie, disturbi della

propria percezione corporea o somestesici, parestesie, cioè sensazio-

ne di formicolio, intorpidimento o freddo in alcune parti del corpo o

su tutto il corpo, stati onirici o deliranti, incubi, sogni lucidi.

La sintomatologia maggiormente riferita è quella visiva, rappresen-

tata da luci puntiformi o da stelle colorate e pulsanti, lampi, strisce o

globi luminosi, forme geometriche, bordi luminosi che circondano le

cose, il cosiddetto “fenomeno corona”, scotomi negativi o scintillanti,

vale a dire zone cieche del campo visivo delimitate nel secondo caso

da un bordo formato da tremule e scintillanti linee a zigzag.

In Inghilterra negli anni Ottanta un’associazione che si interessava di

emicrania, la British Migraine Association ed una casa farmaceutica,

la Boehringer Ingelheim, decisero di allestire un concorso di pittura

riservato esclusivamente a pazienti emicranici che venivano invitati a

trasferire sulla tela le proprie esperienze sensoriali in corso di attacco. I

risultati furono sorprendenti: i motivi pittorici riprodotti tendevano ad

essere comuni e ricorrenti, come figure nere contornate da linee zig-

zaganti, rappresentazione di uno scotoma, o anche corpi geometrici,

spettri cromatici, figure caleidoscopiche, espressioni di allucinazioni

visive, sciami di punti o di stelle, evocanti dei fosfeni, oggetti delimitati

da un alone luminoso, che rimandano al “fenomeno corona”.

Gran parte del corredo sintomatologico auratico veniva direttamen-

te tradotto in espressione artistica da chi ne era colpito: era nata

la migraine art, l’arte emicranica, che consente di analizzare le basi

neuropatologiche che influenzano le rappresentazioni pittoriche dei

malati di emicrania, e che con gli anni ha avuto un numero sempre

maggiore di sostenitori [5-8].

Numerosi artisti hanno sofferto di emicrania, di questi il più illustre

è stato l’italiano Giorgio de Chirico (1888-1978), grande ed insupe-

rato interprete della pittura metafisica, fatta di immagini misteriose,

oniriche, disinserite dal tempo e dallo spazio reale, caratterizzate da

una forte valenza simbolica.

De Chirico non aveva la consapevolezza di essere affetto da emicra-

nia, perché la diagnosi è stata effettuata a posteriori in base all’inter-

pretazione di alcuni scritti autobiografici e di diversi suoi dipinti.

Secondo Fuller e Gale, il maestro soffriva di una forma di emi-

crania addominale accompagnata da fenomeni auratici. I sintomi

riferiti dall’illustre paziente erano attacchi periodici di malessere

caratterizzati da dolore addominale, vomito ed anoressia associati a

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11CAPITOLO

fenomeni luminosi, scotomi scintillanti, paramnesie, allucinazioni

somestesiche [4,9].

Tutto questo ricco corredo di sintomi per de Chirico era da mette-

re in relazione alla sua grande personalità: per tale motivo l’artista

parlava di febbri spirituali, di premonizioni, di visioni di fantasmi,

ritenendo in ultima analisi di essere, ispirato dalle letture di Niet-

zsche, un superuomo dotato di poteri speciali se non addirittura

paranormali [10].

Esistono note di arte emicranica nei dipinti di de Chirico? Il tema

è stato accuratamente analizzato da diversi studiosi ed ha portato

alla conclusione che in alcuni dipinti del maestro, soprattutto del

periodo metafisico, si possono percepire elementi riferibili alla feno-

menologia auratica [4,11].

“Autoritratto” del 1925 è una delle opere che merita di essere analiz-

zata da questo punto di vista.

L’artista riesce a rendere magistralmente sulla tela la sensazione del-

le parestesie progressive che partendo dalle estremità si estendono

a tutto il corpo. De Chirico ritrae se stesso come un uomo in fase

di progressiva marmorizzazione in cui la mano destra appare già

completamente pietrificata e di un colore bianco marmoreo, rigida,

senza vitalità. Il protagonista appare sereno, per nulla preoccupato

dal fenomeno, probabilmente perché già vissuto altre volte in cor-

so di attacchi emicranici precedenti e perché consapevole della sua

transitorietà [4] (Fig. 1).

� Figura 1

Giorgio de Chirico.Autoritratto (1925).Tempera su tela, 75 x 62 cm. Collezione privata.

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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

La famosa serie dei “Bagni misteriosi” si incentra su

ambientazioni balneari in cui caoticamente com-

paiono bagnanti, cabine, persone vestite di tutto

punto e soprattutto l’acqua, spesso rappresentata

secondo linee misteriose a zigzag, frequentemente

presenti nell’arte emicranica. Sono opere visionarie,

inquietanti.

In “Edipo e la Sfinge” del 1968 compaiono come rap-

presentazioni auratiche nastri e spirali che divente-

ranno un motivo costante di molti Interni metafisici

successivi.

Queste allucinazioni rielaborate e riprodotte sulla

tela dal maestro vengono da lui vivacemente descrit-

te nel libro autobiografico Ebdòmero: “Nastri incante-

voli, fiamme senza calore, avventate in alto come lingue

lunghe, bolle inquietanti, linee tirate con maestria di cui

credeva persino il ricordo perduto già da lungo tempo, onde tenerissime,

ostinate ed isocrone, salivano e salivano senza fine verso il soffitto della

camera” [4,10] (Fig. 2).

Nell’opera “Il ritorno al castello” del 1969 si rileva il profilo completa-

mente nero ed a margini seghettati di un uomo a cavallo che sta at-

� Figura 2

Giorgio de Chirico.Edipo e la Sfinge (1968).Olio su tela, 60 x 40 cm. Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma.

� Figura 3

Giorgio de Chirico.Il ritorno al castello (1969).Tecnica mista su cartone telato, 60 x 49 cm.Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma.

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11CAPITOLO

traversando un ponte. Sotto un cielo grigio e illuminato

da una falce di luna un imponente castello si alza sullo

sfondo. Ci troviamo di fronte ad una evidente raffigura-

zione di uno scotoma, rappresentato da una figura nera

cancellata alla percezione visiva e delimitata da linee a

zigzag [4,9] (Fig. 3).

In un altro famoso dipinto dello stesso anno, “Il rimorso

di Oreste”, si apprezza una figura umana nuda ritratta di

spalle ed attorniata da numerose figure geometriche, da-

vanti alla quale come un’ombra si staglia una silhouette

nera delimitata da bordi a zigzag che rassomiglia ad un

uomo con le braccia tese.

Anche in questo caso la figura nera di foggia umana po-

trebbe evocare uno scotoma. Gli elementi geometrici

presenti nel dipinto, insistentemente riproposti soprat-

tutto durante i periodi metafisico e neometafisico, potrebbero essere

collegabili anch’essi alla sintomatologia auratica.

Una coppia di nastri arricciati posti a delimitare la scena riconduce

infine a motivi peculiari già rammentati della fenomenologia auratica

[4,12] (Fig. 4).

Ci sono tanti altri dipinti del maestro nei quali si possono riconoscere

motivi pittorici che fanno parte della iconografia dell’arte emicranica.

Quello da sottolineare tuttavia è che in tutta la sua produzione arti-

stica non si debba riconoscere unicamente una base neuropatologica.

A differenza dei pittori d’arte emicranica che si limitano a fornire

una documentazione grafica dei propri sintomi, de Chirico prendeva

spunto dai fenomeni auratici per rielaborare, integrare, ampliare le

proprie esperienze sensoriali con contenuti storici, mitologici, cultu-

rali, filosofici che hanno permesso alla sua pittura di essere unica ed

assolutamente originale ed a lui stesso di diventare uno dei maggiori

interpreti dell’arte del XX secolo [4,11].

Disturbi psichiatrici

È lungo l’elenco degli artisti affetti da disturbi della personalità e

comportamentali di tipo nevrotico, da Michelangelo Buonarroti

a Benvenuto Cellini, dal Pontormo, al Caravaggio per citare i più

famosi: in tutti costoro gli elementi psicopatologici del carattere

non influirono assolutamente sulla qualità e quantità della pro-

duzione artistica.

Sensibilmente diverse sono le influenze esercitate sulla creatività di

un artista da gravi patologie psichiatriche di tipo psicotico o depres-

sivo [13-16].

Le correlazioni intuite dagli studiosi di patografia tra le fasi di una

psicosi schizofrenica e le trasformazioni avvenute nello stile e nella

tecnica pittorica di alcuni artisti, hanno fornito lo spunto per racco-

� Figura 4

Giorgio de Chirico.Il rimorso di Oreste (1969).Olio su tela, 90 x 70 cm.Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma.

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gliere in modo estensivo, come nell’arte emicranica, le rappresen-

tazioni pittoriche dei pazienti psicotici, dando origine a quella che

viene denominata arte schizofrenica o psychotic art.

Queste ricerche hanno consentito di fare luce su diversi aspetti della

malattia e sulle modalità di comunicazione e di relazione del pazien-

te schizofrenico.

L’arte schizofrenica, al pari di quella emicranica, ha richiamato in

questi ultimi anni un numero sempre maggiore di studiosi e, a dif-

ferenza di quest’ultima, ha dimostrato di essere dotata non solo di

un’importante valenza documentativo-diagnostica, ma anche pro-

gnostica e terapeutica [14,17,18].

L’inglese Louis Wain (1860-1939) era conosciuto come “il pittore

dei gatti”, perché questi rappresentarono una caratteristica pressoché

costante dei suoi dipinti.

L’amore per questi felini nacque grazie al gatto di casa Peter a cui

la moglie, morta precocemente di cancro, era legatissima. La morte

della moglie fu il primum movens che avrebbe facilitato a distanza di

anni lo sviluppo della malattia mentale dell’artista, unitamente alla

sua scelta, a volte ossessiva, di collocare i gatti come protagonisti

delle sue opere. Gatti di diverso colore, grandezza e razza, gatti con

aspetto ed atteggiamenti antropomorfi vestiti con gli abiti alla moda,

gatti che camminano in posizione eretta e che attendono alle più

svariate mansioni come fumare, pescare, suonare strumenti musicali,

giocare a carte, giocare a golf, pattinare su ghiaccio.

Questa particolarità tematica procurò a Wain un successo notevole

nell’Inghilterra vittoriana di fine ottocento.

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale la sua celebrità declinò

rapidamente assieme al suo equilibrio psichico: iniziò a diventare

violento, intrattabile, cominciò ad isolarsi ed iniziarono a comparire

i primi episodi deliranti.

A 57 anni gli venne diagnosticata una grave forma di schizofrenia

ad esordio tardivo ed iniziarono per lui i ricoveri in ospedale. No-

nostante le varie degenze, l’artista continuò a dipingere, ma i suoi

gatti col progredire della malattia si trasformarono profondamente

nei tratti.

Il graduale dissolversi dell’approccio alla realtà iniziò dal colore, che

diventò sgargiante e violento, per poi procedere con la forma. I corpi

degli animali si deformarono, gli occhi diventarono mostruosamente

grandi e fissi, l’espressione ostile, in relazione probabilmente all’idea

delirante dell’artista che il mondo lo stesse minacciando. Nelle ulti-

me rappresentazioni, quelle del cosiddetto “periodo caleidoscopico”,

i felini vennero come scomposti fino al limite della riconoscibilità,

quasi esplodendo in una sorta di nuvola di figure e linee geometriche

multicolori [19].

Vengono presentati otto dipinti cronologicamente successivi di Louis

Wain in cui si possono facilmente apprezzare le progressive modifi-

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UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

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11CAPITOLO

cazioni tecnico-stilistiche dei suoi famosi gatti in relazione agli stadi

della malattia.

Nel dipinto numero 1, eseguito prima della comparsa dei sintomi

psicotici, appare un gatto ben riconoscibile, con tratti del tutto nor-

mali. In quello numero 2 l’unica particolarità è data da uno sfon-

do anomalo e bizzarro a motivi astratti, che per qualche studioso

potrebbe richiamare la patologia schizofrenica. Nel terzo dipinto

sono presenti delle evidenti trasformazioni rappresentate dalle linee

dentellate concentriche che circondano come un alone la figura del

gatto e che potrebbero rappresentare l’energia emanata dall’animale;

gli occhi non sono più vivaci ed espressivi ma brillano di una luce

minacciosa. Nei cinque dipinti successivi il mutamento tecnico-sti-

listico è ormai nettissimo: i colori sono via via sempre più violenti,

aggressivi, stesi caoticamente fino a riprodurre un’immagine caleido-

scopica; il profilo degli animali tende a deformarsi profondamente,

gli occhi e l’espressione assumono un aspetto mostruoso, quasi de-

moniaco e negli ultimi due dipinti infine la fisionomia del gatto non

è più riconoscibile (Fig. 5).

L’interrelazione tra sindrome depressiva e creatività artistica è stata

accertata da tempo.

Numerosi artisti, da Goya a Van Gogh a Munch, per citare i più fa-

mosi, hanno sensibilmente modificato i soggetti ed i toni cromatici

delle loro opere in relazione a disturbi di tipo depressivo comparsi

durante la loro esistenza: i dipinti si sono incupiti nei temi, nei co-

lori, nella luce, in relazione alla sofferenza con cui ciascuno di essi

viveva la propria malattia [16,20-23].

Molto esemplificativo a questo riguardo è il percorso artistico di Rem-

brandt van Rijn (1606-1669), grande pittore ed incisore olandese.

Dai dati biografici si appura che l’artista soffrì di disturbi bipolari

della personalità. Negli anni giovanili era dotato di un temperamento

esuberante e volubile con eccessi di prodigalità tali da comportargli

successivamente seri problemi economici. Dopo il 1630, in relazione

a lutti familiari e soprattutto alla perdita della madre nel 1640, Rem-

� Figura 5

Louis Wain.Gatti (1925-1939).Tecnica gouache su carta.Art Gallery, State University of Campinas, Brasile.

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brandt entrò in un’evidente “crisi” esistenziale,

precipitata dalla morte dell’adorata moglie Sa-

skia nel 1642. Questa “crisi”, segnalata puntual-

mente dai biografi dell’artista, potrebbe avere i

caratteri di una depressione reattiva.

Dopo la morte della moglie la vita del maestro

venne improntata alla spiritualità ed alla sobrie-

tà, come era stato scapestrato e dissipato il pe-

riodo precedente [24-26].

La sua pittura, da ricca, spettacolare, vivacemen-

te contrastata e dettagliata, si fa più misurata,

essenziale, più volta all’introspezione, mentre

comincia a comparire più frequentemente il

tema della morte, segno di un profondo disagio

interiore; solo negli ultimi anni l’artista ripren-

derà a comporre opere cromaticamente più vive.

Un’opera grafica del 1642, “Studioso al tavolo al lume di candela”, ri-

sulta emblematica sotto questo aspetto.

L’incisione rappresenta lo stesso pittore seduto davanti ad una scriva-

nia. Il libro aperto di fronte a lui sembra non interessarlo a giudicare

dall’atteggiamento, il capo appoggiato alla mano sinistra, lo sguardo

volto verso l’osservatore (la moglie morta?), l’espressione triste e di-

messa. L’intera scena appare tetra, fiocamente illuminata dalla luce

di una candela.

La postura del protagonista ed i toni cupi dell’opera rimandano alla

“melancolia” di cui Rembrandt già soffriva (Fig. 6).

L’incisione risulta molto simile nel soggetto e nel grigiore dell’am-

biente ad un’altra eseguita nello stesso anno, intitolata “San Gerola-

mo in una camera scura”, anch’essa interpretabile

come un autoritratto [25].

Il mutamento creativo indotto dalla “crisi” suc-

cessiva al 1642 viene ben evidenziato dal con-

fronto di due autoritratti di Rembrandt, eseguiti

a distanza di 9 anni l’uno dall’altro.

Nella prima opera, del 1639, ispirata ad un

dipinto del Tiziano, l’artista appare spaval-

do, quasi arrogante nel portamento, vestito in

un sontuoso abito rinascimentale. Lo sguardo

sprezzante riflette sicurezza di sé ed autostima

(Fig. 7).

Nel secondo autoritratto, eseguito nel 1648, il

maestro si ritrae mentre esegue un disegno su

un tavolo vicino ad una finestra. Indossa un mo-

desto vestito di lavoro, l’espressione è mesta e

pensierosa, la stanza scarsamente illuminata no-

nostante la presenza di una finestra.

� Figura 6

Rembrandt van Rijn.Studioso al tavolo al lume di candela (1642).Incisione, 17.5 x 15 cm. Harvard University Art Museum, Fogg Art Museum, Cambridge, MA.

� Figura 7

Rembrandt van Rijn.Autoritratto appoggiato ad un muro di pietra (1639).Incisione, 21 x 16,8 cm. National Gallery of Art, Washington, D.C.

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Anche in quest’opera i toni cupi della rappre-

sentazione sono suggeriti dallo stato psico-

emotivo dell’artista [25] (Fig. 8).

Disturbi reumatologici

La patologia reumatica, essendo di frequente

riscontro, ha interessato un numero elevato

di artisti. Solo in alcuni di essi, tuttavia, ha

raggiunto il livello di una vera a propria ma-

lattia invalidante, tale da influenzarne lo stile

e le tecniche pittoriche [27].

Di una grave forma di artrite reumatoide sof-

frì nel corso degli ultimi 25 anni della sua

vita, il grande impressionista francese Pierre

Auguste Renoir (1841-1919).

La malattia cominciò a dare segno di sé verso

i 50 anni, dopo i 60 anni ebbe un’evoluzione

aggressiva per poi diventare, dopo i 70 anni

gravemente invalidante.

L’artista iniziò a camminare con un bastone, poi con due fino a quan-

do, in seguito ad un peggioramento delle sue condizioni motorie,

venne costretto nel 1912 alla sedia a rotelle.

Negli ultimi anni Renoir cominciò a dimagrire a causa della cachessia

reumatoide, scendendo a 46 chili di peso; le sue condizioni andarono

via via decadendo, comparvero le prime piaghe da decubito e la morte

lo raggiunse nel 1919 in seguito ad una polmonite [28,29-31].

La malattia non influenzò la capacità creativa del maestro e la tipo-

logia dei suoi soggetti: i dipinti continuarono fino alla fine ad essere

contrassegnati da delicatezza cromatica e grande luminosità. L’artrite

condizionò invece la tecnica pittorica dell’artista, che negli ultimi

anni, tormentato dall’anchilosi progressiva degli arti superiori, era

costretto a tenere la tavolozza sulle ginocchia, la tela fissata come un

tavolo reclinabile sul bracciolo della sedia a rotelle, i pennelli legati

alla sua povera mano deformata. La velocità di esecuzione natural-

mente si ridusse sensibilmente, ma soprattutto le pennellate diven-

tarono più brevi e concise e più larghe, a “secco su secco” e non più

a “umido su umido”. I colori utilizzati rimasero i soliti 11 della sua

gamma preferita, solo negli ultimi tempi Renoir iniziò ad aggiungere

anche la tonalità del nero [11,28,32].

Grazie all’accorgimento della tela reclinabile, l’artista fu in grado, no-

nostante gli ingravescenti problemi di motricità, di dipingere opere

anche di grandi dimensioni.

Merita di essere ricordato a questo proposito l’ultimo suo capolavo-

ro, “Le grandi bagnanti”, terminato qualche mese prima della mor-

te. L’opera, di 110 x 160 cm, ritrae un gruppo di bagnanti, delle

� Figura 8

Rembrandt van Rijn.Autoritratto mentre disegna davanti alla finestra (1648).Incisione, 15.7 x 13 cm.National Gallery of Art, Washington, D.C.

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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

quali quelle in primo piano

hanno le forme abbondanti

dei nudi di Rubens, a cui

Renoir era particolarmente

legato. Le bagnanti vengono

dipinte con una morbidezza

di tratto e colore eccezionali

e venate di una forte carica

di sensualità.

Comparando il dipinto con

un altro di analogo tema,

eseguito però 32 anni prima

(Fig. 9), si osserva una mi-

nore definizione dei dettagli, una pennellata meno decisa che confe-

risce un effetto più sfumato ai contorni ed una maggiore delicatezza

e pastosità nelle tonalità cromatiche.

A valutare un’opera di così straordinaria fattura verrebbe da gridare

al miracolo, se si pensa che venne eseguita dall’artista nelle precarie

condizioni in cui era costretto a vivere al termine della sua travagliata

esistenza (Fig. 10).

La sclerodermia, anch’essa compresa nel gruppo delle malattie reu-

matologiche, fu la malattia che progressivamente portò alla morte il

pittore svizzero Paul Klee (1879-1940).

Variamente legato all’espressionismo, al cubismo ed al surrealismo,

Klee ha seguito un suo percorso artistico in autonomia e non è per-

tanto collocabile in un movimento pittorico specifico.

Amante del colore, tanto da affermare “Il colore mi possiede... il colore

ed io siamo una sola cosa. Sono un pittore”, predilesse per gran par-

� Figura 9

Pierre Auguste Renoir.Le grandi bagnanti (1884-87).Olio su tela, 118 x 170 cm.Philadelphia Museum of Art, Philadelphia, PE.

� Figura 10

Pierre Auguste Renoir.Le grandi bagnanti (1919).Olio su tela, 110 x 160 cm. Musée d’Orsay, Parigi.

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11CAPITOLO

te della sua vita artistica le tonalità calde e luminose, come si può

constatare nell’opera “Giardino di rose” del 1920, di grande vivacità

stilistica e cromatica (Fig. 11).

Naturalizzato tedesco, Klee fu costretto a fuggire dalla Germania du-

rante il nazismo, quando le sue opere vennero considerate, al pari di

altri grandi artisti contemporanei, “arte degenerata”.

Nel 1935 comparvero i primi sintomi della sclerodermia: le mani

fredde, la cute dura ed edematosa, le artralgie e la progressiva limi-

tazione funzionale articolare.

La malattia condizionò pesantemente il suo lavoro per quanto ri-

guarda la stessa produttività, la grafica, il colore, i soggetti.

Dopo un’iniziale flessione della produzione, Klee si tuffa letteralmen-

te nel lavoro, conscio dell’ineluttabilità della sua malattia, realizzan-

do nel solo 1939 ben 1.253 opere.

La pennellata elegante e flessuosa degli anni precedenti lascia il po-

sto ad un’altra grossolana, pesante, sottolineata dall’abbondante e

quasi ossessivo utilizzo del nero, che rivela la difficoltà ingravescente

al disegno con una mano, resa intorpidita e rigida dalla malattia.

Alla trasformazione dei tratti grafici si abbina un sensibile aumento

dimensionale delle opere.

I colori si fanno più tetri, indice della sofferenza interiore dell’artista

dettata non solo dalla malattia ma anche dalle vicende personali e

dal preoccupante quadro politico che si stava configurando.

Cominciano ad apparire i temi della malattia, della morte, alternati a

raffigurazioni angeliche e demoniache [11,33-36].

� Figura 11

Paul Klee.Giardino di rose (1920).Olio su cartone, 49 x 42.5 cm.Städtische Galerie im Lenbachhaus, Monaco.

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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

Nel dipinto “Rose eroiche” del 1938 che si avvicina al tema dell’ope-

ra precedente, si percepiscono le trasformazioni stilistiche avvenute

dopo la comparsa della sclerodermia.

Il tratto appare spesso e marcato, le tonalità cromatiche meno in-

tense e brillanti ma la composizione si presenta tuttavia di grande

originalità (Fig. 12).

L’“Angelo richiedente” del 1939 appartiene ai temi preferiti dell’ul-

timo Klee. In quello stesso anno l’artista compose 29 opere del

medesimo soggetto, che negli anni precedenti era stato scelto solo

sporadicamente.

A ben guardarlo quello del dipinto è un angelo anomalo, dall’aspetto

poco rassicurante, che non ha niente di celestiale: quelli di questo

periodo sono come angeli caduti, coi difetti delle creature terrene, e

sono la spia del disincanto o della rassegnazione dell’artista.

Il tratto scarno e nervoso e la sobrietà cromatica che si avvicina ad

una pittura monocolore, sono in linea con l’evoluzione stilistica degli

ultimi anni di vita del maestro.

In un processo progressivo di semplificazione grafica e di astrazione

di contenuti, il linguaggio pittorico si fa elementare nelle forme e

nei colori ma estremamente innovativo, ed acquista il valore di un

toccante testamento artistico (Fig. 13).

� Figura 12

Paul Klee.Rose eroiche (1938).Olio su tela, 68 x 52 cm.Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Dusseldorf.

Page 13: 047_ARTE Cap11 Medicina e Arti Figurative

UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

231

11CAPITOLO

Disturbi oculistici

Gli occhi sono la nostra finestra sul mondo, ed

i disturbi della sfera visiva possono condizionare

la creatività di un artista, soprattutto se legato ad

una corrente figurativa: la presenza di deficit sen-

soriali porta ad un’alterata percezione della realtà

che a sua volta si traduce in una deformata elabo-

razione grafico-cromatica sulla tela.

La cataratta è una patologia data da progressiva

opacizzazione del cristallino e comporta una pro-

gressiva riduzione della capacità visiva. Chi ne è

affetto percepisce all’inizio una visione oscurata ed

annebbiata, incontrando difficoltà a distinguere

oggetti posti a modesta distanza; nei casi più gravi

si arriva alla cecità.

Il francese Claude Monet (1840-1926) è stato uno

dei maggiori esponenti dell’Impressionismo. Straor-

dinario interprete della pittura “en plein air”, ci ha la-

sciato opere di grande fascino e delicatezza stilistica.

Dopo i 60 anni cominciò ad avere dei problemi ingravescenti alla

vista, a causa di una cataratta bilaterale: i contorni degli oggetti ap-

parivano meno definiti ed i colori meno distinti, in particolare le

tonalità del rosso, del rosa e del violetto.

La cataratta influì pesantemente sulla produzione artistica di Mo-

net. Le forme persero nei dettagli, la pennellata iniziò a diventare

più spessa ed ampia, i contrasti cromatici si affievolirono, la magica

atmosfera luminosa che aveva caratterizzato le opere precedenti si

spense, i colori freddi come il bianco, il verde, il blu cedettero gra-

dualmente il passo ad altri più caldi come il giallo ed il porpora,

portando ad una stesura cromatica sempre più uniforme.

Dopo il 1915 i dipinti divennero sempre più astratti con una domi-

nanza di tonalità scure ed in particolare con un’ulteriore prevalenza

dei gialli e dei rossi nei confronti dei verdi e dei blu.

Nel 1922 in una lettera al suo amico J. Bernheim-Jeune l’artista scri-

veva: “...La mia povera vista mi fa vedere tutto come avvolto da una fitta

nebbia... sono molto infelice”.

Nel 1923 Monet venne sottoposto ad intervento al solo occhio de-

stro, seguito da un altro a breve distanza di tempo, che non furono

coronati da successo. La rimozione chirurgica del cristallino o afa-

chia, causò anzi nuove distorsioni visive e soprattutto una percezio-

ne cromatica con prevalenza dei toni gialli in un primo tempo e di

quelli blu in seguito.

Negli ultimi anni l’artista fu addirittura costretto a contrassegnare

con etichette i tubetti dei colori ed a disporli sulla tavolozza secondo

un ordine preordinato per evitare di confonderli.

� Figura 13

Paul Klee.Angelo richiedente (1939).Gouache china e matita su carta, 48.9 x 34 cm.The Metropolitan Museum of Art, New York, NY.

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232

Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

Nonostante tutto continuò a di-

pingere fino alla morte, ricorren-

do all’utilizzo di lenti speciali che

gli permisero di ottenere un pur

modesto miglioramento della sua

acutezza visiva [11,37-39].

Monet passò gran parte della sua

esistenza a Giverny, nell’Alta Nor-

mandia, dove aveva acquistato

una casa con un giardino che cu-

rava con grande dedizione. Aveva

fatto costruire uno stagno dove

erano state piantate delle ninfee e

che era attraversato da un ponte

giapponese.

Il ponte giapponese diventerà uno

dei soggetti preferiti dall’artista,

soprattutto negli ultimi anni in cui, a causa dei problemi oculari, si

allontanava sempre più raramente da casa.

Abbiamo la possibilità di confrontare opere relative a questo soggetto

eseguite a distanza di anni l’una dall’altra, potendo apprezzare chia-

ramente il drammatico progredire del deficit visivo con l’aggravarsi

della malattia.

Quando completò “Lo stagno delle ninfee” nel 1899, Monet era ancora

dotato di una vista normale.

Il dipinto rivela i tratti salienti della tecnica che ha reso l’artista uno

dei maggiori maestri dell’arte dell’800: la delicatezza della pennella-

ta, la sapiente scelta cromatica, il raffinato gioco di luci conferiscono

all’opera una grande armonia ed una indiscutibile seduzione (Fig. 14).

Con la comparsa della cataratta bilaterale, diagnosticata nel 1912, lo

stile dell’artista cambia sensibilmente. È degli anni 1923-25 la versione

� Figura 14

Claude Monet.Lo stagno delle ninfee (1899).Olio su tela, 89.5 x 100 cm. Musée d’Orsay, Parigi.

� Figura 15

Claude Monet.Il ponte giapponese (1923-25).Olio su tela, 89 x 116 cm.The Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis, MN.

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UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

233

11CAPITOLO

del ponte giapponese che viene presentata: la trasformazione grafica

e cromatica risulta impressionante. I contorni delle figure appaiono

indefiniti, i toni più cupi, estranei al delicato e luminoso cromatismo

che era la peculiarità del primo Monet. Si registra in particolare una

spiccata prevalenza del rosso scuro, del bruno, del giallo che tendono

a sostituire il bianco, il verde, il blu e nell’insieme il dipinto sembra

rimandare ad una voluta elaborazione astratta del tema quando invece

non è altro che lo specchio della distorsione visiva del pittore (Fig. 15).

Dopo due interventi chirurgici all’occhio destro, Monet sviluppò i

sintomi dell’afachia: la discromatopsia, vale a dire l’anomalia per-

cettiva dei colori, si aggravò portando ad una cianopsia, cioè una

visione con prevalenza marcata dei toni blu-azzurri.

Risale a questo periodo una successiva versione del ponte giappo-

nese, datata 1926, che mette in luce l’ulteriore deterioramento della

percezione visiva dell’artista.

In quest’opera il ponte giapponese non è più riconoscibile, rappre-

sentato da una colata caotica di colori in cui, per effetto della cianop-

sia, ricompaiono le tinte blu e azzurre [37] (Fig. 16).

Le retinopatie sono malattie che interessano la membrana più inter-

na dell’occhio, possono portare anche alla cecità e sono suddivise in

congenite ed acquisite. Comprendono svariati quadri morbosi, dalla

grave retinite pigmentosa, ereditaria, alla degenerazione maculare,

alle forme infiammatorie, vascolari, metaboliche.

Edgar Degas (1834-1917), francese, è stato uno dei più raffinati

protagonisti del movimento impressionista.

A 36 anni circa iniziarono i primi problemi visivi, dovuti ad una re-

tinopatia progressiva con danno maculare. È stato accertato che una

cugina, Estelle Musson Degas, era affetta anch’essa da una patologia

retinica che la colpì all’età di 25 anni e che la rese cieca, un dato che

potrebbe far pensare che l’artista fosse stato colpito da una forma

familiare a trasmissione ereditaria [40-43].

� Figura 16

Claude Monet.Il ponte giapponese a Giverny (1926).Olio su tela, 89 x 100 cm. Musée Marmottan, Parigi.

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234

Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

I primi sintomi si manifestarono con una graduale fotofobia, ossia

un’intolleranza alla luce del giorno: Degas fu costretto a lavorare

sempre meno all’aperto prediligendo una pittura d’interni, rappre-

sentata da spettacoli d’opera, ballerine, caffè-concerti, donne alla to-

eletta che saranno la prerogativa della sua produzione artistica.

In questo periodo il pittore cominciò ad avere coscienza dei suoi

problemi visivi e confessava all’amico James Tissot: “Che cose magnifi-

che avrei potuto comporre ed anche rapidamente se solo la luce del giorno

mi fosse stata meno intollerabile”.

Passati i 40 anni, il maestro sviluppò la perdita della visione centrale

e successivamente iniziò ad avere problemi nell’identificazione dei

colori.

Col passare del tempo la sua visione dei dettagli, dei contrasti e delle

ombre risultò inevitabilmente compromessa.

La sua vista peggiorò progressivamente finché, a 57 anni, non fu più

in grado di leggere, nonostante che l’utilizzo di lenti correttive gli

avesse consentito un modesto miglioramento.

Gli ultimi anni di vita saranno dedicati soprattutto alla scultura, che

gli permetteva una convivenza meno penosa col deficit visivo.

Le modifiche nello stile di Degas furono strettamente correlate alla

graduale perdita della vista.

Prima del 1880 i dipinti risultavano ben dettagliati nella fisionomia e

nell’abbigliamento delle figure ritratte con un’attenzione particolare

dedicata alle sfumature cromatiche ed agli effetti chiaroscurali.

Col calo dell’acutezza visiva i soggetti raffigurati diventarono meno

definiti e meno particolareggiati ed il tratto iniziò ad essere più pe-

sante ed ampio. L’artista passò inoltre dalla tecnica ad olio a quella

� Figura 17

Edgar Degas.Donna che si pettina (1885).Pastello su cartone, 54 x 52.5 cm.Museo dell’Ermitage,San Pietroburgo.

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UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

235

11

a pastello, che gli permetteva di lavorare con maggior facilità richie-

dendo una minore precisione di disegno.

Dal 1900 le trasformazioni stilistiche sono ben evidenti: irregolarità

ed approssimazione del profilo dei corpi, mancanza di dettagli nei

visi e negli abiti, scelte cromatiche decise ma limitate, a volte anche

grossolane [39].

Grande amante dell’armonia del corpo umano, Degas aveva una par-

ticolare predilezione per i soggetti femminili, che ritraeva soprattut-

to in bellissimi nudi alla toeletta mentre si lavano, si asciugano, si

pettinano.

Confrontando due nudi femminili eseguiti a 20 anni di distanza ri-

saltano con drammatica chiarezza le modifiche dello stile del mae-

stro in coincidenza con l’evoluzione della retinopatia.

In “Donna che si pettina” del 1885 Degas, pur già ammalato, rimane

ancora fedele alla tecnica che ne ha consacrato la grandezza.

I dettagli anatomici del corpo, la naturalezza della postura, i raffinati

accostamenti cromatici, la ricerca sapiente delle ombreggiature ren-

dono il dipinto ben costruito e dotato di indubbio fascino (Fig. 17).

Un altro nudo, eseguito nel 1905, riflette con spietata evidenza i

disturbi visivi che affliggevano l’artista.

Il profilo del corpo appare disegnato in modo sommario con un

tratto grossolano, i dettagli anatomici sono appena percettibili e la

postura risulta insolita con una posizione innaturale del braccio

destro. Si rileva inoltre la povertà degli effetti di sfumatura mentre

l’incarnato non ha la sensuale tonalità del Degas prima maniera, ma

anzi viene reso con accostamenti cromatici cupi e pesanti (Fig. 18).

� Figura 18

Edgar Degas.Donna che si asciuga i capelli (1905).Pastello su carta, 71.4 x 62.9 cm.Norton Simon Art Museum, Pasadena, CA.

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236

Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

La vita del pittore espressionista norvegese Edvard Munch (1863-

1944) fu segnata già dall’infanzia da lutti familiari che avrebbero

avuto un ruolo determinante nella comparsa di quella “melanconia”

che accompagnò l’artista per tutta la sua esistenza e che si riflesse nei

temi delle sue opere.

Nel 1908 Munch venne ricoverato in ospedale per “esaurimento

nervoso” e sottoposto a terapia con elettroshock. Ripresosi, conti-

nuò a lavorare finché, nel 1930, accusò un improvviso deficit visivo

all’occhio destro. Venne diagnosticata un’emorragia intraoculare da

rush ipertensivo che impiegò diverse settimane per risolversi e che

venne seguita, a distanza di 8 anni, da un analogo episodio all’occhio

sinistro [11,44].

La retinopatia vascolare che lo colpì interessò la macula e si manife-

stò con la comparsa di una zona di deficit nel campo visivo (scoto-

ma) e con una deformata percezione degli oggetti (metamorfopsia).

Munch era spaventato dalla malattia oculare, temendo non solo per

la sua vista ma anche per la sua vita. Pertanto descrisse minuziosa-

mente l’evoluzione della retinopatia in alcuni scritti che ci consento-

no di avere un quadro fedele del suo deficit visivo.

Quello che il pittore norvegese descriveva era una zona nera sor-

montata da una macchia che ricordava la “testa di un uccello” che,

dapprima voluminosa, col tempo vide contrarsi gradualmente in se-

guito al riassorbimento della raccolta emorragica. Contemporanea-

mente Munch rivelò la presenza di immagini deformate e di piccoli

corpi scuri mobili in coincidenza della rotazione dell’occhio [45,46].

La proiezione sulla tela del proprio

deficit visivo venne accuratamente

elaborata dall’artista in diversi dipinti

che costituiscono un interessante do-

cumento non solo dal punto di vista

artistico ma anche medico.

La presenza di uno scotoma nero deli-

mitato da cerchi concentrici e policro-

mi accompagnato da immagini distorte

dalla metamorfopsia, sarà una costante

per un certo periodo della sua produ-

zione, dopodiché, a guarigione avvenu-

ta, questi temi non verranno mai più

riproposti [38,44].

Nell’opera “Autoritratto durante la ma-

lattia all’occhio – 1” il cuore del dipin-

to è rappresentato da una voluminosa

macchia nera, con la “testa di un uc-

cello” al suo bordo superiore, che altro

non è che lo scotoma e che fronteggia

minaccioso l’artista che appare magro,

� Figura 19

Edvard Munch.Autoritratto durante la malattia all’occhio - 1 (1930).Olio su tela, 80 x 64 cm. Munch Museum, Oslo.

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UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

237

11CAPITOLO

il viso simile ad un teschio

e nella postura a braccia

incrociate che rimanda alla

morte, a rimarcare la sen-

sazione di angoscia che la

malattia gli incuteva [44]

(Fig. 19).

La xantopsia è una forma

di cromatopsia, vale a dire

un disturbo nella percezio-

ne della visione cromatica:

nella xantopsia vengono

identificati solo il giallo e

il blu per cui i colori chia-

ri assumono un tono gial-

lastro mentre quelli scuri

uno violaceo. Può essere di

origine genetica o acquisi-

ta ed in particolare conse-

guente ad un’intossicazio-

ne (da digitale, da piombo,

da acido picrico), ad una

neurolue, ad una insuffi-

cienza epatica.

Vincent Van Gogh (1853-1890), straordinario pittore postimpres-

sionista olandese, ebbe una vita tragicamente segnata da una malattia

che è stata variamente interpretata dagli studiosi ricorrendo ad alme-

no 30 diagnosi differenti, dalla schizofrenia alla psicosi maniaco-de-

pressiva, dall’epilessia temporale all’intossicazione da piombo, dalla

porfiria acuta intermittente alla sifilide [47,48].

Alcuni studiosi si sono inoltre soffermati ad analizzare le opere degli

ultimi anni dell’artista ipotizzando la comparsa di una xantopsia a

margine della patologia principale [23,49,50].

Il famoso “giallo Van Gogh”, prerogativa di numerosi dipinti ma so-

prattutto di quelli del periodo 1888-1890, sarebbe da mettere in

relazione ad una percezione anomala che l’artista aveva di questo

colore. I medici che lo avevano in cura avevano diagnosticato un’epi-

lessia e nel corso degli ultimi tre anni di vita il pittore assunse la di-

gitale che a quel tempo veniva utilizzata come farmaco antiepilettico:

l’intossicazione prodotta dal farmaco avrebbe causato la xantopsia

accusata dall’artista.

Altri ricercatori invitano alla prudenza nella conferma di questa ipote-

si, considerando che la predilezione che Van Gogh aveva per il giallo

non fosse altro che una sua particolare scelta emotiva e stilistica.

Si è scritto che il giallo è un colore caldo, espansivo, ardente, “il più

prossimo alla luce”, come racconta Goethe, ed è sempre stato associa-

� Figura 20

Vincent Van Gogh.Campo di grano con veduta di Arles (1888).Olio su tela, 73 x 54 cm.Musée Rodin, Parigi.

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238

Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

to all’eccentricità, alla trasgressione ma anche alla follia: Van Gogh

potrebbe essere stato dotato di una irresistibile attrazione per questa

tonalità cromatica [49-52].

L’artista propose il giallo in tutte le sfumature, da quelle più calde

a quelle più fredde, dal giallo carico e solare dei suoi paesaggi di

Provenza o dei numerosi “Girasoli” a quello misterioso ed inquie-

tante dei “Caffè di notte” o delle “Notti stellate”.

Nel dipinto “Campo di grano con veduta di Arles” del 1888 il colore

giallo risulta dominante e pervade tutta l’opera (Fig. 20).

Del medesimo anno è un’altra opera, “La casa gialla” dove c’è spazio

solo per il giallo che si diffonde tra gli edifici e lungo la strada, ed il

blu brillante del cielo.

Nella bellissima “Notte stellata” del 1889, eseguita quando l’artista era

ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence in

seguito all’ennesima crisi, protagoniste sono ancora le tinte gialle e blu.

Un cielo vorticoso e minaccioso pare incombere sopra il paese, un

cipresso solitario si staglia in primo piano, testimone della scena. La

luna e le stelle sono circondate da aloni iridescenti che conferiscono

alla tela un effetto di grande vitalità e suggestione.

La sofferenza interiore dell’artista è tutta nella raffigurazione di quel

cielo incantato e sinistro, sublime e terribile.

La xantopsia da digitale sarebbe ulteriormente confermata da un’al-

tra turba visiva riscontrabile in corso di intossicazione digitalica,

le macchie gialle contornate da una sorta di corona, molto simili a

� Figura 21

Vincent Van Gogh.Notte stellata (1889).Olio su tela, 73.7 x 92.1 cm. MoMA, New York, NY.

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UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

239

11CAPITOLO

quelle aureole luminose che circondano i corpi celesti del dipinto

[50] (Fig. 21).

L’ultimo lavoro eseguito da Van Gogh prima del suicidio è il famoso

“Campo di grano con corvi” del 1890.

Sotto un cielo cupo e minaccioso un campo di grano sembra ondeg-

giare come un mare agitato; un nero volo di corvi si profila funereo

sopra le messi, presagio di un dramma incombente.

I colori si contrappongono violentemente, ed anche in questo caso

sono il giallo ed il blu ad essere rappresentati in modo preminente.

La pennellata convulsa e scomposta conferisce un’ulteriore tensione

drammatica all’opera.

Il dipinto nella sua tormentata stesura compositiva è un estremo

grido di angoscia e di disperazione che prelude ad un tragico addio

alla vita*.

Il “giallo Van Gogh” continua ancora a far discutere critici e ricerca-

tori e ad appassionare il pubblico.

Non è stato ancora del tutto accertato se l’artista amasse questa tona-

lità cromatica perché visceralmente attratto da questo colore, forse in

relazione alla sua malattia mentale, o se alla base di tutto ci sia stata

una xantopsia da intossicazione digitalica.

Quello che è invece certo è che questo giallo magico, vitale, irri-

petibile, appartiene solo a Van Gogh ed esprime una componente

peculiare ed unica della sua straordinaria tavolozza.

* Le opere “La casa gialla” e “Campo di grano con corvi” non hanno

potuto essere inserite nel testo perché il Museo Van Gogh di Amsterdam,

unico fra le numerose istituzioni museali contattate, non ne ha consentito

il permesso di riproduzione.

Page 22: 047_ARTE Cap11 Medicina e Arti Figurative

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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA CAPITOLO

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