Letteratura e Arti Figurative

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Università degli Studi di Napoli Federico II Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea specialistica in FILOLOGIA MODERNA Insegnamento di LETTERATURA ITALIANA 1 (I anno, II semestre) Prof. Pasquale SABBATINO Anno accademico 2010-11 Dispensa : Letteratura e arti figurative  La dispensa contiene per l’a.a. 2010-11 i seguenti saggi (già apparsi in riviste o volume): 1.  Imitazion e ed ecfras i nelle Vite dell’artista-scrittore Giorgio Vasari  2.  Il ritratto dell’Ario sto «gran Pittor» nella «pinacot eca» poetica di Marino e la «Galleria regia» dell’Orlando furioso nella letteratura artistica  3.  Il ritratto del Caravaggio. L’ «orrido cominciamen to» del Decameron e l’«ingegno torbido e contenzioso dell’artista» nelle Vite del Bellori 4. Sannazaro e la cultura napoletana nell’Europa del Rinascimento. Tessere per la geografia e la storia della letteratura  5.  Il Trionfo della Galatea di Raffaello e Il Libro del Cortegiano di Castiglione.  Il dibattito sull’imitazione nel primo Cinquecento  

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Università degli Studi di Napoli Federico II

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea specialistica in FILOLOGIA MODERNA

Insegnamento di LETTERATURA ITALIANA 1

(I anno, II semestre)

Prof. Pasquale SABBATINO

Anno accademico 2010-11

Dispensa : Letteratura e arti figurative 

La dispensa contiene per l’a.a. 2010-11 i seguenti saggi (già apparsi in riviste o volume):

1.   Imitazione ed ecfrasi nelle Vite dell’artista-scrittore Giorgio Vasari 

2. 

 Il ritratto dell’Ariosto «gran Pittor» nella «pinacoteca» poetica di Marino e la «Galleria

regia» dell’Orlando furioso nella letteratura artistica 

3.   Il ritratto del Caravaggio. L’ «orrido cominciamento» del Decameron e l’«ingegno torbido

e contenzioso dell’artista» nelle Vite del Bellori 

4.  Sannazaro e la cultura napoletana nell’Europa del Rinascimento. Tessere per la geografia e

la storia della letteratura 

5.   Il Trionfo della Galatea  di Raffaello e Il Libro del Cortegiano  di Castiglione.  Il dibattito

sull’imitazione nel primo Cinquecento 

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Pasquale Sabbatino

IMITAZIONE ED ECFRASI

NELLE VITE DELL’ARTISTA SCRITTORE GIORGIO VASARI 

1. Giotto e l’’imitazione del vero di natura 

Nelle singole biografie della raccolta Le vite de’ più eccellenti architetti,pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri  (Firenze,Torrentino, 1550), articolata in tre parti o stagioni, l’artista scrittore GiorgioVasari descrive con le parole le immagini dipinte o scolpite. 1  L’esposizionevasariana per la sua forza espressiva tenta di volta in volta di uguagliarel’opera originale dello scalpello o del pennello, utilizzando tutte le risorse dellafigura retorica dell’ecfrasi (ékphrasis), che ha illustri precedenti in Omero eFilostrato. 2   In tal modo l’immagine verbale dell’artista scrittore entra in

competizione con l’immagine dipinta o scolpita, puntando sull’obiettivo ditradurla con la scrittura e cogliendo di volta in volta la specificità dell’opera e

1 Cfr. C. BEC, Artisti  scriventi e artisti scrittori in Italia (secondo Trecento – primo Novecento), inLetteratura italiana e arti figurative, a cura di A. Franceschetti, Firenze, Olschki, 1988, pp. 81-99.2 H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1995 (la trad. it. è del 1969), p. 196; L. 

GRASSI, Retorica, in L. GRASSI - M. PEPE, Dizionario di arte, Torino, Utet, 1995

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, p. 690-91: perl’ekphrasis «l’esempio più arcaico si può ravvisare, presso Omero, nella descrizione dello scudo diAchille. Ma il prototipo sistematico di tutta la tradizione è costituito principalmente da quelledescrizioni di una serie di dipinti, che si attribuiscono, nella tarda antichità, ad un Filostrato, l’autoredelle Imagines. Le descrizioni di Filostrato sono prevalentemente la narrazione di un tema e deirelativi contenuti particolari. Al contrario, le descrizioni vasariane procedono e si snodanocongiuntamente alla dimostrazione critica del temperamento dell’artista, della sua abilitànell’imitare, cioè ritrarre con una maniera che si nutre e si qualifica mediante quei riferimenti divalutazione, quelle categorie estetiche (disegno, grazia, componimento, invenzione, ecc.), in cui siqualificano le “virtù”, l’ingegno, cioè la personalità del pittore, scultore o architetto». Sulle ragionidell’ecfrasi e sulla oscillante e talvolta sfuggente definizione della sua peculiarità cfr. G.  PATRIZI,Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Roma, Donzelli, 2000; Ecfrasi. Modelli ed

esempi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi e M. Farnetti, 2 to., Roma, Bulzoni,2004 (in particolare G. VENTURI, Introduzione. Le ragioni dell’ecfrasi letteraria, to. 1, pp. 9-13; M. FARNETTI, Teoria e forme dell’ecfrasi nella letteratura italiana dalle origini al Seicento. Saggiobibliografico, to. 2, pp. 573-600).

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l’altezza raggiunta entro lo schema storiografico delle tre stagioni dellarinascita.3

  La possibilità di essere raccontate come immagini naturali costituisceper le immagini dipinte e scolpite un chiaro segnale della loro appartenenza

all’arte moderna, fondata sull’imitazione della natura nella prima e secondastagione e sull’imitazione del più bello della natura nella terza stagione.L’impossibilità di essere raccontate, invece, relega, secondo Vasari, le operenell’ambito dell’arte vecchia, quella greca o bizantina, diffusa lungo ilMedioevo. 4   da quel «residuo» di artisti provenienti dalla Grecia, i quali«facevano imagini di terra e di pietra, e dipignevano altre figure mostruose ecol primo lineamento e col campo di colore».5

  Influenzato dalla tradizione umanistico-rinascimentale - si pensi, ad es.,ai Commentarii di Lorenzo Ghiberti - Vasari definisce l’arte bizantina rozza,goffa e vecchia. Per l’incapacità di imitare la natura, l’arte bizantina è 

destinata inevitabilmente a non poter essere raccontata come immaginenaturale: 

[le cose vecchie] furono poste in opera da un certo residuo de’ Greci, i quali più tostotignere che dipignere sapevano. Perché [...] al rimanente di que’ Greci, vecchi e nonantichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fannofede oggidì infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si veggono [...]; e cosìmolte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte, inpunta di piedi, come si vede ancora [...] et in Roma in San Pietro, nel vecchio, storieintorno intorno fra le finestre, cose ch’hanno più del mostro nel lineamento, che effigie di

quel che si sia. Di scultura ne fecero similmente infinite [...] cose sì goffe e sì ree, e tantomalfatte di grossezza e di maniera, che pare impossibile che imaginare peggio sipotesse.6

 3 Cfr. S. L. ALPERS, Ekphrasis and aesthetic attitudes in Vasari’s “Lives”, «Journal of the Warburgand Courtauld Institutes», XXIII, 1960, 3-4, pp. 190-215; L.   RICCÒ, Vasari scrittore. La primaedizione del libro delle “Vite”, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 18-22; M. WINNER, Ekphrasis bei Vasari, inBeschreibungskunt, Kunstbeschreibrung, Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, a cura di G.Boehm – H. Pfotenhauer, Munich, 1995, pp. 259-73; G.  PATRIZI, Narrare l’immagine cit.; ; ID., Leragioni dell’ecfrasi. Origini e significato delle narrazioni vasariane, in Ecfrasi. Modelli ed esempi fraMedioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi e M. Farnetti, to. 2, cit., pp. 421-31; G.  STIMATO,

L''ekphrasis' da Vasari a Pontormo: tra narrazione letteraria e rinuncia alla letteratura »,«Schifanoia», 2004, n. 26-27, pp. 245-52; M. POZZI –  E. MATTIODA, Giorgio Vasari storico e critico,Firenze, Olschki, 2006; D. CAST, The delight of  art. Giorgio Vasari and the traditions of humanistdiscourse, Pennsylvania State University Press, 2009.4 Cfr.. G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 , a cura di L. Bellosi e A.Rossi, presentazione di G. Previtali, Torino, Einaudi, 1986, p. 100, dove si distingue tra arte antica,che va fino all’imperatore Costantino (306-337 d. C.), e arte vecchia, che va da papa Silvestro(314-325) al 1250: («Ma perché più agevolmente si intenda quello che io chiami vecchio et antico,antiche furono le cose inanzi Costantino, di Corinto, d’Atene e di Roma, e d’altre famosissime città,fatte fino a sotto Nerone, a i Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; percioché l’altre sichiamano vecchie, che da San Silvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de’Greci»).5 Ivi, p. 99.6 Ivi, p. 100.

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 E si vede in questa [maniera di Giotto] levato via il proffilo che ricigneva per tutto le figure,e quegli occhi spiritati e piedi ritti in punta e le mani aguzze et il non avere ombre et altremostruosità di que’ Greci [...].7

 

Da questa manciata di citazioni si possono ricavare gli elementi che,secondo Vasari, caratterizzano l’arte bizantina: a) gli artisti sapevano«tignere» più che «dipignere» e ritraevano la linea di contorno di una figura(un «primo lineamento») in un «campo di colore»; b) il profilo o «primolineamento» delimitava («ricigneva») le singole figure; c) gli occhi delle figureappaiono sbarrati («spiritati») in una fissità vacua, i piedi «ritti in punta» e lemani «aguzze»; e) l’immagine è piena di «ombre» e di «mostruosità».

Cimabue, che «fra tante tenebre fu prima luce della pittura», 8   purformandosi alla scuola di quei pittori «venuti di Grecia [...] in Fiorenza», 9  

grazie all’osservazione e imitazione della «natura» superò «la manieraordinaria» dei maestri, ferma alla linea di contorno della figura in una paretedi colore, e diede inizio «al nuovo modo» dell’arte, avendo cura del disegno eintervenendo proprio sul «lineamento» e sul «colorito» delle figure.10  Il trattoche qualifica il profilo vasariano di Cimabue è l’impegno a levare «da lapittura gran parte della maniera greca nelle figure dipinte»11 e a dare il nuovo,riconoscibile «per l’aria delle teste e per le pieghe de’ panni». 12   Così leimmagini dipinte si allontanano dal goffo e mostruoso nella misura in cuitendono ad avvicinarsi alla natura e si avviano a diventare raccontabili comeimmagini naturali.13

Con Giotto, il quale fu «tanto imitatore della natura che ne’ tempi suoisbandì affatto quella greca goffa maniera»,14  il vecchio viene superato deltutto grazie all’introduzione del «ritrar di naturale le persone vive». Vasariindica, a questo proposito, il ritratto di Dante Alighieri, «coetaneo et amico» diGiotto, nell’affresco del Giudizio universale  (Firenze, cappella dellaMaddalena nel palazzo del Bargello), identificandolo, secondo «unatradizione assai dubbia»,15 nel personaggio in basso a destra.

7 Ivi, p. 211.

8 Ivi, p. 107.9 Ivi, p. 103.10 Ivi, p. 107.11 Ivi, p. 104.12 Ivi, p. 105.13 Cfr. M. PALUMBO, Valore e disvalore nelle Vite di Vasari del 1550: l'esempio di Cimabue ,«Filologia e critica», 2005, n. 2-3, pp. 394-408.14

 .. G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 cit., p. 118.15 Cfr. Commento di L. Bellosi e A. Rossi, ivi, p. 118, n. 4. L’identificazione di questo personaggiocon il poeta fiorentino «ha una tradizione assai dubbia».

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  Come già Cimabue, Giotto fa rinascere il disegno in un tempo ancorasegnato sul piano dell’arte dalla grossolanità e dall’inettitudine:

E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forzad’operare in Giotto sì dottamente, che ‘l disegno, del quale poca o nessuna cognizioneavevano gli uomini di que’ tempi, mediante sì buono artefice, ritornasse del tutto in vita.16

 Per ottenere questo risultato, Giotto lavora sulla «bellezza de’ panni» e sulla«grazia» e «vivezza delle teste» maschili e femminili, che  finalmente sipresentano «vivissime e miracolose».17  La vita della natura, dunque, passaprogressivamente dalle immagini reali alle immagine rappresentate, le qualipossono essere raccontate finalmente come immagini vive e vere. Anchenella «tavoletta a tempera» della Dormitio Virginis  di Giotto (Berlino,Staatliche Museen) «la proprietà della storia» dipinta è «molto simile al vero»,

per l’attenzione nel disegno, la «vivacità» della rappresentazione e le«attitudini» delle figure:

una tavolina a tempera, dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno evivacità dentrovi la Morte di Nostra Donna, con gli Apostoli che fanno l’essequie, e Cristoche l’anima in braccio tiene; da gl’artefici pittori molto lodata, e particolarmente da MichelAgnolo Buonaroti, attribuendole la proprietà della storia essere simile al vero. Oltra che leattitudini nelle figure con grandissima grazia dello artefice sono espresse.18

 Più avanti, nel Proemio della seconda parte, sintetizzando gli aspetti

innovativi della prima età, Vasari sottolinea che la maniera di Giotto è  undecisivo superamento dei singoli elementi costitutivi della maniera greca,elencati ad uno ad uno e coordinati polisindeticamente, creandosintatticamente una figura geometrica piramidale, dal vertice («E si vede»)alla regione media sui tre lati («levato via […] et il non avere […], e dato») allabase triangolare («il proffilo […] e quegli occhi spiritati e piedi ritti in punta e lemani aguzze», «ombre et altre mostruosità», «una buona grazia nelle teste emorbidezza nel colorito»):

E si vede in questa [maniera di Giotto]

levato via il proffilo che ricigneva per tutto le figure,e quegli occhi spiritatie piedi ritti in puntae le mani aguzze

et il non avere ombreet altre mostruosità di que’ Greci,

e dato una buona grazia nelle teste

16 Ivi, p. 117.17 Ivi, p. 124.

18 Ivi, p. 126.

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  e morbidezza nel colorito.19

 

Anche la nuova maniera di Giotto, grazie alla moltiplicazione delpolisendeto lungo l’asse verticale della scrittura, viene descritta nei singolielementi costitutivi, come gli atteggiamenti delle figure, la vivezza delle teste,

il movimento dei panni, la sistemazione in prospettiva delle figure, gli affetti(timore, speranza, ira, amore) dei personaggi, la morbidezza dello stile che èil risultato del superamento dello stile ruvido e scabroso dell’arte greca:

E Giotto in particulare fece migliori attitudini alle sue figure,e mostrò qualche principio di dare una vivezza alle teste,e piegò i panni che traevano più alla natura che non quegli innanzi,e scoperse in parte qualcosa de lo sfuggire e scortare le figure.

Oltre a questo egli diede principio agli affetti, che si conoscesse in parte il timore,la speranza,

l’irae lo amore;

e ridusse a una morbidezza la sua maniera, che prima era e ruvidae scabrosa [...].

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Tuttavia la maniera di Giotto non è ancora riuscita a rappresentarepienamente il vivo e il vero negli occhi, nei capelli, nelle barbe, nelle mani, neinudi:

e se non fece gli occhi con quel bel girare che fa il vivo,e con la fine de’ suoi lagrimatoi,

et i capegli morbidi,e le barbe piumose,e le mani con quelle sue nodature e muscoli,e gli ignudi come il vero,

scusilo la difficultà della arteet il non aver visto pittori migliori di lui.

E pigli ognuno in quella povertà dell‘artee de’ tempi, la bontà del giudizio nelle sue istorie,

l’osservanza dell‘arie

e l’obedienza di un naturale molto facile,perché pur si vede che le figure obbedivano a quel che elle avevano a fare;e perciò si mostra che egli ebbe un giudizio molto buono, se non perfetto.21

 La gigantografia di Giotto nell’economia delle Vite  viene sancita da

Vasari con il rimando a Dante e a Boccaccio. Il primo esprime la suaammirazione per l’artista e «per le rare doti che la natura aveva nella bontàdel gran pittore impresse» nel c. XI del Purg., vv. 94-99:

19 Ivi, p. 211.

20 Ibidem.21 Ivi, pp. 211-12.

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 Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,sì che la fama di colui è scura.

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido

la gloria de la lingua; e forse è natochi l’uno e l’altro caccerà del nido.22

 A parlare è Oderisi da Gubbio, un miniatore allora rinomato, esponentenell’oltretomba dantesco della superbia dell’artista. La sua ammissione, neivv. 82-84, di essere stato superato nell’arte del miniare da Franco Bolognese:

«Frate», diss’elli, «più ridon le carteche pennelleggia Franco Bolognese;l’onore è tutto or suo, e mio in parte.23

 è solo l’avvio per delineare quella grande svolta culturale, di cui Dante hapiena consapevolezza, non solo nell’ambito della miniatura, ma anche nellapittura, dove Cimabue ha inaugurato una nuova pittura ma è stato superatoda Giotto, e nella letteratura, dove la gloria del bolognese Guido Guinizelli,padre del dolce stil novo, è stata ridimensionata dalla gloria del fiorentinoGuido Cavalcanti e dove si profila il superamento da parte dello stesso Dantesia di Guinizelli sia di Cavalcanti.

Anche Boccaccio, che durante il suo soggiorno napoletano conobbecon ogni probabilità di persona Giotto impegnato tra il 1328 e il 1333 adaffrescare la chiesa di Santa Chiara (costruita fra il 1310 e il 1328),24 tesse lalode dell’artista nel Decameron, VI, 5. Il grande merito che gli viene oramairiconosciuto da più parti è di aver riportato «in luce» la pittura, dopo i «moltisecoli» del Medioevo, quando era stata nel buio sepolcrale a causa degliartigiani che avevano puntato «più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che acompiacere allo ‘ntelletto de’ savi».25  Muovendosi in direzione opposta allapittura bizantina, il Giotto del Boccaccio si ingegna ad imitare la natura a tal

22 D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, testo critico stabilito da G. Petrocchi per

l’edizione nazionale della Società Dantesca Italiana, Torino, Einaudi 1975, p. 187.23 Ibidem.24 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550   cit., pp. 122-23: «Fuchiamato a Napoli dal Re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata dalui, alcune cappelle, nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono. Doveancora, in una cappella, sono molte storie dell’ Apocalisse, ordinategli (per quanto si dice) daDante, fuor uscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch’egli per le parti. Nel Castello del’Uovo fece ancora molte opere, e particolarmente la cappella di detto Castello». Solo pochiframmenti del Lamento sul Cristo morto, nel coro delle monache della chiesa di Santa Chiara,sono pervenuti sino a noi. Per quanto riguarda le storie dell’ Apocalisse ordinate da Dante, Vasari

riferisce quanto si dice, senza entrare nel merito. Fatto è che Dante morì nel 1321, sette anniprima dell’avvio dei lavori di Giotto in Santa Chiara. Inoltre Giotto affrescò la cappella di SantaBarbara, che è in Castel Nuovo, non nel Castel dell’Uovo.25 G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1992, p. 738.

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punto che l’immagine rappresentata sembra all’occhio fisico non solo simile aquella naturale, anzi vera più che dipinta:

[Giotto] ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la natura, madre di tuttele cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col

pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, intanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini viprese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.26

 Nel rilevare l’inganno dell’occhio, che percepisce come vero ciò che è

solo dipinto, Boccaccio ricorre a un preciso aneddoto, quello della gara traZeusi che dipinge l’uva, ingannando gli uccelli, e Parrasio che dipinge latenda, ingannando Zeusi,27  così come si legge in Plinio, Naturalis historia,XXXV, 65:

Descendisse hic in certamen cum Zeuxide traditur et, cum ille detulisset uvas pictas tantosuccessu, ut in scaenam aves advolarent, ipse detulisse linteum pictum ita veritaterepraesentata, ut Zeuxis alitum iudicio tumens flagitaret tandem remoto linteo ostendipicturam atque intellecto errore concederet palmam ingenuo pudore, quoniam ipsevolucres fefellisset, Parrhasius autem se artificem.28

 L’estetica giottesca dell’imitazione della natura, fissata da Boccaccio

nella quinta novella della VI giornata del Decameron, viene assunta da Vasaricome paradigma della prima e seconda stagione dell’arte moderna. Inoltre cisono altri luoghi in cui Boccaccio esalta Giotto, anzi sono continui gli attestati

di ammirazione dello scrittore per l’artista ( Amorosa Visione, IV, 16 ss.;Zibaldone Magliabechiano, c. 232; Genealogia, XIV, 6). Il riconoscimento delprimato di Giotto è un dato largamente acquisito nel corso del Trecento - e sipensi oltre a Dante e Boccaccio anche a Petrarca e Sacchetti – e poi nel

26 Ivi, p. 737.27  Cfr. P.  SABBATINO, Imitazione e illusione. Leonardo da Vinci, Varchi, Marino, Milizia, «StudiRinascimentali», 3, 2005, pp. 11-27; Inganni ad arte. Meraviglie del trompe-l'oeil dall'antichità alcontemporaneo. Catalogo della mostra (Firenze, 16 ottobre 2009-24 gennaio 2010), a cura di A.Giusti, Firenze, Mandragora, 2009. Utili riflessioni sull’illusione sono in G.  DIDI-HUBERMAN, La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, Milano, Il Saggiatore, 2008. Sull’eredità di Plinio inVasari cfr. M. SPAGNOLO, Vasari e le “difficoltà dell’arte, in Percorsi vasariani tra le arti e le lettere.Atti del Convegno di Studi (Arezzo, 7-8 maggio 2003), a cura di M. Spagnolo e P. Torriti, Arezzo,Editrice Le Balze, 2004, pp. 89-108; É. POMMIER, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento,Torino, Einaudi, 2007, pp. 260-69.28 PLINIO, Storia naturale, V. Minerologia e storia dell’arte. Libri 33-37, introduzione di I. CALVINO,traduzioni e note di A. CORSO, R. MUGELLESI, G. ROSATI, Torino, Einaudi, 1988, pp. 360-62 («Siracconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così beneche gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto

verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda,finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria connobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, unpittore»). Cfr. M. BAXANDALL, Giotto e gli umanisti, Milano, Jaca book, 1994.

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Quattrocento – si pensi all’epigramma del Poliziano sul sepolcro di Giotto inSanta Maria del Fiore.29

Nella biografia di Giotto, Vasari raccoglie il testimone di questatradizione, che gli consente di creare strategicamente nella dinamica

storiografica della rinascita dell’arte un inizio forte, con un solo grande eroetra tanti artefici inetti:

essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture et idintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quellach’era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamar buona.30

 Attorno all’eroe si formano numerosi discepoli e cresce la scuola:

Taddeo Gaddi, Puccio Capanna, Ottaviano da Faenza, Guglielmo da Forlì(detto anche Guglielmo degli Organi), Simone Martini, Stefano Fiorentino,

Pietro Cavallini «et altri infiniti, i quali molto alla maniera et alla imitazione dilui s’accostarono».31

 

2. Masaccio e la «nuova maniera di colorito, di scorci, d’attitudini naturali» 

Nella seconda età, che abbraccia l’intero Quattrocento, l’arte modernasi consolida e vive la stagione della «gioventù», come racconta Vasari nelProemio della seconda parte delle Vite.32 Gli artisti rappresentano solo «quelche vedevono nel naturale e non più», liberandosi definitivamente degli ultimiresidui dell’arte bizantina (come ad esempio le figure in punta di piedi). Nelleopere d’arte finalmente trionfa la «nuova maniera di colorito, di scorci,d’attitudini naturali», sono più accuratamente espressi sia «i gesti del corpo»,grazie al disegno, sia i «moti dello animo», «le arie del viso» diventano«interamente» somiglianti agli uomini, le luci e le ombre sono piùattentamente osservate, le rappresentazioni di storie acquistano «più propria

29 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 cit., p. 129: «Restò nellepenne di chi scrisse a suo tempo, e poi, tanta maraviglia del nome suo, per esser stato primo aritrovare il modo di dipignere, perduto inanzi lui molti anni, che dal Magnifico Lorenzo Vecchio de’Medici, facendosi egli di questo maestro ogni giorno più maraviglia, meritò d’avere in Santa Mariadel Fiore la effigie sua scolpita di marmo; e dal divino uomo Messer Angelo Poliziano lo infrascrittoepitaffio in sua lode, acciò che quegli che verranno eccellenti e rari in qual si voglia professione,debbino valorosamente esercitarsi per avere di sì fatte memorie, meritandole, in lode loro dopo lamorte, come fe’ Giotto: Ille ego sum per quem pictura extincta revixit / cui quam recta manus tamfuit et facilis. / Naturae deerat nostrae quod defuit arti / plus licuit nulli pingere nec melius / miraristurrim egregiam sacro aere sonantem? / Haec quoque de modulo crevit ad astra meo / deniquesum iottus. Quid opus fuit illa referre? / Hoc nomen longi carminis instar erit».

30 Ivi, p. 117.31 Ivi, p. 129.32 Ivi, p. 215.

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similitudine» e il paesaggio (scorci, alberi, erbe, fiori, nuvole, ecc.) è più simileal vero di natura.

Con Masaccio, l’erede della «maniera moderna» di Giotto e il maestrodella seconda età, l’imitazione della natura progredisce a tal punto che le

immagini dipinte appaiono sempre più immagini vive e vere della natura.Persino l’ultimo tratto dell’arte bizantina come i piedi ritti delle figure, cheancora resisteva e dava goffezza, viene finalmente eliminato, facendo«scortare i piedi nel piano».33 Il contributo di Masaccio alla maniera modernadell’arte è stato determinante, per cui «e’ merita certamente non essernemanco riconosciuto che se e’ fusse stato inventore della arte».34

  Le immagini dipinte da Masaccio, in particolare quelle che raccontanostorie, sono del tutto raccontabili con le parole come naturali. È il caso degliaffreschi della cappella Brancacci nella chiesa del Carmine di Firenze. Tra le«istorie di San Piero», - il ciclo fu iniziato da Masolino e poi interrotto -,Masaccio dipinge alcune scene, come «la istoria della cattedra» (San Pietroin cattedra), «il liberare gli infermi, suscitare i morti» - scena identificata daProcacci35 con la Distribuzione delle elemosine - «et il sanare gli attratti conl’ombra nello andare a ’l tempio con San Giovanni» (San Pietro che risanacon la propria ombra), il Tributo, la Resurrezione del figlio di Teofilo.36

  La lettura vasariana del Tributo è un primo esempio di ékphrasis di unapittura di storie (l’episodio evangelico del tributo) ,37  con vari personaggi (San

33 Ivi, p. 266. A tale proposito, nella biografia di Masaccio, Vasari cita l’affresco di San Paolo nellacappella Brancacci (Firenze), distrutto poi nel 1675. Cfr.  ivi, pp. 286-87 («Et allora fece Masaccioper pruova il San Paulo presso alle corde delle campane, solamente per mostrare il miglioramentoche egli aveva fatto nella arte. E dimostrò veramente infinita bontà in questa pittura, conoscendosinella testa di quel Santo- il quale è Bartolo di Angiolino Angiolini ritratto di naturale - una terribilitàtanto grande che e' pare che la sola parola manchi a questa figura: e chi non conobbe San Paulo,guar dando questo vedrà quel dabbene della civilità romana, insieme con la invitta fortezza diquell'animo divinissimo tutto intento alle cure della fede. Mostrò ancora in questa pittura medesimal'intelligenza di scortare le vedute di sotto in su, che fu veramente maravigliosa, come apparisceancor oggi ne' piedi stessi di detto Apostolo, per una difficultà facilitata in tutto da lui, rispetto aquella goffa maniera vecchia che faceva (come io dissi poco di sopra) tutte le figure in punta dipiedi; la qual maniera durò fino a lui senza che altri la correg gesse, et egli solo e prima di ogni

altro la ridusse al buono del dì d’oggi»).34 Ivi, p. 266.35 Cfr. U. PROCACCI, Tutta la pittura di Masaccio, Milano, Rizzoli, 1951; ID., Masaccio, Firenze,Olschki, 1980.36 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550  cit., pp. 270-71.37 Cfr. Matteo, XVII, 24-27 (si cita da La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni Paoline, 1969, p. 1101: «Giunti a Cafarnao, si accostarono a Pietro quelli che riscuotevano le due dramme e gli dissero: ‘Ilvostro maestro non paga le due dramme?’ Egli rispose: ‘Sì, certamente’. Ma entrato in casa, Gesùlo prevenne dicendo: ‘Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi ricevono il tributo o leimposte? Dai propri figli o dagli estranei?’. ‘Dagli estranei’, rispose. E Gesù a lui: ‘Dunque, i figli ne

sono esenti. Tuttavia, per non scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce cheviene su; aprigli la bocca e vi troverai uno statere, prendilo e paga per me e per te’»).Ciascunebreo pagava al Tempio due dramme all’anno, ma solo dopo i venti anni. Lo statere valeva quattrodramme.

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Pietro, Gesù, gli apostoli, l’esattore), ciascuno dei quali compie un gesto,assume un atteggiamento, partecipa con un ruolo:

Ma tra l’altre [scene] notabilissima apparisce quella dove San Piero per pagare il tributo,cava per commissione di Cristo i danari de ’l ventre del pesce; perché, oltra il vedersi quivi

in uno Apostolo che è nello ultimo il ritratto stesso di Masaccio, fatto da lui medesimo a lospecchio, che par vivo, e’ vi si conosce lo ardire di San Piero nella dimanda e la attenzionede gli Apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione con gesti sìpronti che veramente appariscon vivi. Et il San Piero massimamente, il quale nelloaffaticarsi a cavare i danari del ventre del pesce ha la testa focosa per lo stare chinato. Emolto più quando e’ paga il tributo, dove si vede lo affetto del contare e la sete di colui cheriscuote, che si guarda i danari in mano con grandissimo piacere.38

 

Nella pittura della storia del tributo, San Pietro è colto nell’atto di starechinato con la testa, che risulta «focosa», e di prelevare con affaticamento i

soldi dal ventre del pesce. Nell’atto poi di pagare il tributo San Pietro mostra«lo affetto del contare». Chi riceve, invece, manifesta «la sete», l’avidità nelriscuotere, e il «grandissimo piacere» nel vedere quei danari nella mano. Nelrappresentare i singoli personaggi della storia così come sono nella natura,Masaccio crea con il pennello una pittura viva e incarnata: il ritratto diMasaccio, che dà il volto a un apostolo, «par vivo» e gli apostoli, inparticolare San Pietro, nei loro atteggiamenti e gesti sembrano «vivi» allostesso modo di chi riscuote il tributo.

Nell’«istoria» del Battesimo dei  neofiti  di Masaccio, il Vasari fermal’attenzione del lettore delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultoriitaliani, da Cimabue insino a’ tempi nostri  su un particolare già allora moltoapprezzato, un uomo «ignudo che triema tra gli altri battezzati assiderando difreddo».39 Il personaggio affrescato da Masaccio è talmente vero e vivo che ilsuo corpo non è statico, ma sembra scosso da movimenti oscillatori rapidi einvolontari.

Anche attorno al Masaccio, come nella prima età attorno a Giotto, siformano numerosi artisti, i quali si recano nella cappella Brancacci perstudiare ed esercitarsi. In questa grande scuola, vero e proprio Studiodell’arte moderna, passano numerosi artisti, tutti «divenuti eccellenti e chiari»:

fra Giovanni da Fiesole detto l’Angelico, Alesso Baldovinetti, Andrea delCastagno, Andrea Verrocchio, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli,Leonardo da Vinci, Pietro Vannucci detto il Perugino, Mariotto Albertinelli,Michelangelo Buonarroti, Raffaello Sanzio, Francesco Granacci, Lorenzo diCredi, Ridolfo del Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Giovanbattista di Jacopo diGasparre detto il Rosso, Francesco di Cristofano detto il Franciabigio, Baccio

38 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550  cit., p. 271.

39 Ibidem.

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Bandinelli, Alonso Berruguete, Jacopo Carrucci detto il Pontormo, Perino delVaga, Nunziato Antonio d’Antonio detto Toto del Nunziata. L’inventario degliartisti, formatisi nello Studio della cappella Brancacci, non è completo, anzicomprende solo i singoli «capi della arte», per cui a ogni capo occorre

aggiungere gli altri artisti che formano «le membra», come a dire che dallascuola del Masaccio – il maestro «più moderno» fra «tutti i vecchi maestri» daGiotto in poi - provengono tutte le altre scuole, le quali cronologicamentevanno distribuite lungo la seconda e la terza età.

3. L’imitazione del «più bello della natura» e il ghigno della Gioconda

Nella terza età dell’arte moderna si registra un salto di qualità sul pianodella concezione estetica, con il passaggio dall’imitazione del vero di naturaall’imitazione del «più bello della natura», dalla maniera buona alla bellamaniera:40

 Il disegno fu lo imitare il più bello della natura in tutte le figure, così scolpite come dipinte,la qual parte viene da lo avere la mano e l’ingegno che rapporti tutto quello che vedel’occhio in sul piano, o disegni o in su fogli o tavola o altro piano, giustissimo et a punto; ecosì di rilievo nella scultura; la maniera venne poi la più bella, da l’avere messo in uso ilfrequente ritrarre le cose più belle, e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe,agiugnerle insieme a fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva; e metterla inuso in ogni opera per tutte le figure, che per questo se dice ella essere bella maniera.41

 

40 Cfr. A. PINELLI, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, Einaudi,1994, pp. 94-116. Per il dibattito sull’imitazione si veda P.  SABBATINO, La bellezza di Elena.L’imitazione nella letteratura e nelle arti figurative del Rinascimento, Firenze, Olschki, 1997; F.TATEO, Il problema dell'imitazione, in Italia e Boemia nella cornice del Rinascimento europeo, acura di S. Graciotti, Firenze, Olschki, 1999; P. SABBATINO, Il "Trionfo della Galatea" di Raffaello e il"Libro del Cortegiano" di Castiglione. Il dibattito sull'imitazione nel primo Cinquecento,«StudiRinascimentali», 2, 2004, pp. 23-48; ID., Imparare sotto la bella maniera di Michelagnolo.L'imitazione nelle opere di Benvenuto Cellini, «Chronique italennes» (édition web), 4, 2009, n. 16

[In punta di piè 'l Granchio ardito. Benvenuto Cellini a tutto tondo . Actes de la Journée d'Etude surBenvenuto Cellini organisée par le CIRRI / LECEMO de l'Université de la Sorbonne Nouvelle-Paris3, l'ELCI (EA 1496) de l'Université Paris-Sorbonne-Paris 4 l'ENS (Paris), Etudes réunies etprésentées par Corinne LUCAS FIORATO et Frédérique DUBARD DE GAILLARBOIS], pp. 18

41 Ivi, p. 539. Il credo vasariano dell’imitazione del più bello della natura, qui professato in modofermo e solenne, appare già ad apertura della vita di Giotto, non tanto per esporre la linea delmaestro, che invero si prodiga per l’imitazione della natura, quanto per ribadire che bisogna esseregrati a Giotto, l’iniziatore dell’arte moderna, così come gli artefici devono essere grati alla natura,libro di immagini e di esempi da cui scegliere le parti più belle: «Quello obligo istesso che hanno gliartefici pittori alla natura, la quale continuamente per essempio serve a quegli che, cavando il

buono da le parti di lei più mirabili e belle, di contrafarla sempre s’ingegnano, il medesimo si deveavere a Giotto. Perché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buonepitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quellach’era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamare buona» (ivi, p. 117).

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Nella filigrana dello stralcio si intravede chiaramente l’aneddoto delgiovane Zeusi di Eraclea (V-IV sec. a. C.), il quale, invitato dagli abitanti diCrotone nel periodo del loro massimo splendore ad arricchire con dipinti iltempio di Giunone, dipinse la bellezza piena e straordinaria di Elena

selezionando le cinque vergini più avvenenti e imitando solo le parti piùperfette dei loro corpi. La vicenda, raccontata da Cicerone a inizio delsecondo libro di Rhetorici libri qui vocantur De inventione  e ripresa conqualche variante da Plinio, Naturalis historia, XXXV, 64, ebbe largacircolazione tra Quattrocento e Cinquecento, in particolare negli scritti einterventi sulla questione capitale dell’imitazione,42 e fu affrescata da Vasari aFirenze (Casa Vasari, Sala delle Arti e degli Artisti) 43  e ad Arezzo (CasaVasari, Sala del Trionfo della Virtù).44

L’allusione all’aneddoto della perfetta bellezza di Elena dipinta da Zeusiè funzionale, nell’economia delle Vite, alla messa a fuoco della concezionedell’imitazione come processo selettivo del «buono» tra le parti «più mirabili ebelle» della natura. Rispetto al libro delle immagini offerte dalla natura,l’artista si impegna innanzitutto a osservarle direttamente con l’occhio fisico ein secondo luogo a selezionare con l’occhio mentale le parti più belle. L’operad’arte, dunque, è il frutto dell’ingegno dell’artista, il quale dipinge o scolpiscecon la mano le parti più mirabili della natura, viste con gli occhi e selezionatedall’intelletto, ottenendo con una formidabile sintesi la perfetta bellezza.

Il primo Cinquecento, dunque, è il secolo glorioso dei moderni Zeusi,aperto da Leonardo da Vinci, il quale mostrò «gagliardezza e bravezza del

disegno», fu abile nel «contraffare sottilissimamente tutte le minuzie dellanatura così appunto come elle sono, con buona regola, migliore ordine, rettamisura, disegno perfetto», infine diede «veramente alle sue figure il moto e ilfiato», 45   come dimostra la moderna Elena ovvero la Gioconda  (Parigi,Louvre). Nel descrivere la pittura incarnata della Gioconda  – identificatadall’artista scrittore con Monna Lisa, moglie di Francesco del Giocondo -Vasari elenca «numerosi dettagli che articolano il discorso

42 Cfr. P. SABBATINO, La bellezza di Elena. L’imitazione nella letteratura e nelle arti figurative delRinascimento cit., pp. 13-59; L. BARKAN, The heritage of Zeusxis. Painting, Rhetoric and History, in Antiquity and its interpreters, a cura A. Payne, A. Kuttner, R. Smick, Cambridge University Press,2000, pp. 99-104; É. POMMIER, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei  Lumi, Torino,Einaudi, 2003, pp. 39-41 (Zeusi a Crotone). 43  U. BALDINI, Giorgio Vasari pittore, Firenze, Edizioni d’arte Il Fiorino, 1994, pp. 248 e 253; M. W. GAHTAN, Vasari’s Allegorical Imagination, in Vasari’s Florence. Artists and Litterati at the MediceanCourt, Yale University Art Gallery, catalogue prepared by M. W. Gahtan and Ph. J. Jacks, 1994,pp. 9-20.44 A. CECCHI, La Casa del Vasari in Arezzo, nel catalogo Giorgio Vasari. Principi, letterati e artistinelle carte di Giorgio Vasari. Casa Vasari. Pittura vasariana dal 1532 al 1554  (Arezzo, 26

settembre-29 novembre 1981), Firenze, Edam, 1981, p. 28; P. SABBATINO, La bellezza di Elena cit., p. 27-28.45 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550  cit., pp. 541-42.

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analitico». 46 Innanzitutto ferma l’attenzione sulla «testa», nella quale «chivoleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si potevacomprendere, perché quivi erano contrafatte tutte le minuzie che si possonocon sottigliezza dipignere».47   E passa in rassegna i singoli elementi, gli

occhi («Avvenga che gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che dicontinuo si veggono nel vivo, et intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi eti peli, che non senza grandissima sottigliezza si posson fare»), le ciglia («Leciglia, per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti edove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere piùnaturali»), il naso («Il naso, con tutte quelle aperture rossette e tenere, sivedeva essere vivo»), la bocca («La bocca, con quella sua sfenditura con lesue fini unite dal rosso della bocca con la incarnazione del viso, che noncolori ma carne pareva veramente») e la gola («Nella fontanella della gola chi

intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi»).48

  Per alcuni elementi, osserva Patrizi, 49   «si indicano dei piccolimovimenti, di attività biologica», come per le ciglia e per la «fontanella dellagola», per cui nell’insieme l’immagine dipinta inganna fino a sembrareun’immagine viva, con il respiro e il cuore che pulsa. E il risultato è tale «dafar tremare e temere ogni gagliardo artefice».

In secondo luogo, in questa «apoteosi della rappresentazione delvolto»,50  Vasari coglie il moto interiore della Gioconda, nella quale non siinsinua la malinconia, come «spesso» a quel tempo avveniva nell’ambitodella ritrattistica. Per evitare di cedere alla moda, secondo la testimonianzaraccolta da Vasari, Leonardi esperto di fisiognomica dipinse la Gioconda  inuno studio dove «teneva […] chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoniche la facessino stare allegra».51 Questa testimonianza, raccolta da Vasari, ciriporta alla mente uno stralcio del Libro di Pittura, cap. 36 (c. 1500), doveLeonardo mostra l’interno dello studio del pittore, il quale dipinge con

46 G. PATRIZI, «Lettura» e «interpretazione» dell’arte italiana, in Storia dell’arte italiana, coord. G.Bollati e P. Fossati, Parte terza a c. di F. Zeri, vol. III, Conservazione, falso, restauro, Torino,Einaudi, 1981, p. 227.47 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550  cit., p. 552.48 Ibidem.49 G. Patrizi, «Lettura» e «interpretazione» dell’arte italiana cit., pp. 222-31; Id., “Le vite de’ piùeccellenti pittori, scultori ed architetti” di Giorgio Vasari, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, LeOpere, vol. II, Dal Cinquecento al Settecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 600: Vasari «è uninterprete magistrale della 'lettura' ecfrastica [...]. Quasi virtuosistica la descrizione della MonnaLisa leonardesca, dove uno schema micronarrativo si attesta in una prospettiva anatomica».50 M. POZZI, Il volto e le passioni nelle “Vite” di Giorgio Vasari , in. Il volto e gli affetti. Fisiognomica 

ed  espressione  nelle  arti del Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Torino, 28-29 novembre2001), a cura di A. Pontremoli, Firenze, Olschki, 2003, p. 131.51 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550  cit., p. 552.

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l’accompagnamento di musici o di lettori. 52  A questi, per l’occasione dellaGioconda, Leonardo aggiunse i buffoni.

La spia lessicale per interpretare il moto interiore della Gioconda  è il«ghigno»:

Et in questo [ritratto] di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divinache umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.53

 Nell’edizione torrentiniana delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori

italiani, la voce ghigno ricorre solo due volte ed entrambe le occorrenze sononella biografia di Leonardo. La prima nella descrizione del cartoneraffigurante Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovanni (databile tra il1498 e il 1504; Londra, Royal Academy):

si vedeva nel viso di quella Nostra Donna tutto quello che di semplice e di bello può consemplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo; volendo mostrare quella modestiae quella umiltà che in una vergine contentissima di allegrezza del vedere la bellezza delsuo figliuolo, che con tenerezza sosteneva in grembo; e mentre che ella con onestissimaguardatura a basso scorgeva un santo Giovanni piccol fanciullo che si andava trastullandocon un pecorino, non senza un ghigno d’una Santa Anna che, colma di letizia, vedeva lasua progenie terrena esser divenuta celeste. Considerazioni veramente dallo intelletto etingegno di Lionardo.54

 Il ghigno di sant’Anna è senza alcun dubbio il sorriso che nasce dal

cuore e dalla mente colmi di letizia nell’atto di vedere e constatare che il

nipotino Gesù è l’uomo divenuto dio.La seconda occorrenza di ghigno è nella descrizione della Gioconda,

dipinta mentre i musici suonano e cantano e i buffoni tengono allegra MonnaLisa esorcizzando la malinconia. Allo stesso modo del ghigno di sant’Anna,allora, il ghigno della Gioconda è il sorriso che apre una finestra sul cuore esulla mente della Gioconda, colmi di letizia.

4. L’«intera perfezzione» di Raffaello e la pittura di storie scritte

La bella maniera, affermatasi durante la terza età dell’arte modernagrazie a Leonardo, avanza ulteriormente con Raffaello Sanzio, il quale

52  LEONARDO DA VINCI, Libro di Pittura. Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca ApostolicaVaticana, a cura di C. Pedretti, trascrizione critica di C. Vecce, I, Firenze, Giunti, 1995, p. 159. Cfr.P. SABBATINO, Scrittura e scultura nell’umanista napoletano Pomponio Gaurico, in P. Gaurico, DeSculptura, a cura di P. Cutolo, Saggi di F. Divenuto, F. Negri Arnoldi, P. Sabbatino, Napoli, E.S.I.,1999, p. 32.53 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 cit., p. 552.54 Ivi, p. 551.

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raggiunge nella pittura l’«intera perfezzione», 55   così come Apelle e Zeusinell’antichità, al punto da superare la natura, sempre parzialmente perfetta eparzialmente bella. Così con Raffaello la natura è oramai «vinta» dai colori.

La vittoria della pittura sulla natura, precisa Vasari, è legata alla

metodologia di lavoro di Raffaello. L’artista, altro moderno Zeusi, innanzituttostudia le opere dei maestri dell’arte antica e moderna, poi da tutti seleziona eraccoglie in modo organico il meglio fino a raggiungere l’intera perfezionedella pittura. Allo stesso modo Cicerone, nell’opera giovanile Rhetorici libri quivocantur De inventione, scelse e raccolse quello che era più utile e più esattofra i maggiori trattatisti greci e latini che allora componevano la bibliotecadella retorica, arricchendo la retorica dell’intera perfezione. Il percorsometodologico di Raffaello, dunque, viene disegnato su quello parallelo diZeusi e di Cicerone, segnando finalmente un doppio pareggio, tra la pitturamoderna e la pittura antica da un canto, tra l’arte della pittura e l’arte dellaretorica dall’altro.

Il Raffaello di Vasari è soprattutto il pittore di storie scritte. Le invenzionidell’artista attingono dalle scritture di storie e il suo impegno è di rimanerenella pittura fedele alla scrittura:

l’invenzione era in lui sì facile e propria quanto può giudicare chi vede le storie sue, lequali sono simili alli scritti, mostrandoci in quelle i siti simili e gli edificii, così come nellegenti nostrali e strane, le cere e gli abiti, secondo che egli ha voluto: oltra il dono dellagrazia delle teste, giovani, vecchi e femmine, riservando alle modeste la modestia, allelascive la lascivia et a i putti ora i vizii ne gli occhi et ora i giuochi nelle attitudini. E così isuoi panni piegati, né troppo semplici, né intrigati, ma con una guisa che paion veri.56

 Tra le pitture di storie scritte, raccontate da Vasari con dovizia di

particolari, c’è quella della storia della poesia, nella Stanza della Segnaturaaffrescata da Raffaello nel 1509-1511 e utilizzata dal committente, papaGiulio II, come biblioteca, per cui i soggetti rappresentati sulle quattro pareti(Scuola di Atene, Parnaso, Disputa del Sacramento, Gregorio IX che approvale Decretali e Giustiniano con le Pandette) indicano gli ambiti scientifici(filosofia, poesia, teologia, diritto civile e diritto canonico) dei libri custoditi

negli armadi sottostanti.La descrizione della Stanza della Segnatura procede in modo singolare.Il punto di osservazione è al centro della Stanza della Segnatura. Vasaridapprima ferma l’attenzione sulla parete dove è affrescata la Scuola di Atene,interpretata come la «storia» planetaria della convergenza tra filosofia,astrologia e teologia, con i «ritratti» di «tutti i savi del mondo».57 In secondoluogo Vasari alza lo sguardo verso la volta, che è «il cielo di quella

55 Ivi, p. 542.56 Ibidem.57 Ivi, p. 616. Cfr. G. W. MOST, Leggere Raffaello. La Scuola di Atene e il suo pre-testo, Torino,Einaudi, 2001 (Bibliografia scelta, pp. 93-95).

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stanza»,58 ed elenca i quattro «tondi» o medaglioni che sono stati affrescatisulla volta, ciascuno in rapporto tematico con le storie che sono sulle pareti. Ilmovimento degli occhi di Vasari, allora, segue una direzione verticale, dallaScuola di Atene  al medaglione soprastante della Filosofia  («una femmina

fatta per la cognizione delle cose, la quale sedeva in una sedia che aveva perreggimento da ogni banda una dea Cibele, con quelle tante poppe che da gliantichi era figurata Diana Polimaste; e la veste sua era di quattro colori,figurati per li elementi, da la testa in giù v’era il color del fuoco e sotto lacintura era quel dell’aria, da la natura a ‘l ginocchio era il color della terra edal resto perfino a’ piedi era il colore dell’acqua e così la accompagnavanoalcuni putti bellissimi quanto si può imaginare bellezza), poi, girando su sestesso verso destra, dal tondo della Filosofia a quello della Poesia («è finto laPoesia, la quale è in persona di Polinnia coronata di lauro e tiene un suono

antico in una mano et un libro nell’altra e sopra poste le gambe con una ariadi viso immortale per le bellezze sta elevata con esso al cielo,accompagnandola due putti che son vivaci e pronti, che insieme con essafanno vari componimenti con le altre»), della Teologia («una Teologia con libriet altre cose attorno, co’ medesimi putti, non men bella che le altre») e infinedella Giustizia accanto alla finestra che guarda al cortile («una Giustizia conle sue bilance e la spada inalberata, con i medesimi putti che a l’altre disomma bellezza»).59  Nell’ecfrasi vasariana a questo movimento circolare segue un

movimento a croce. L’artista scrittore osserva e descrive le singole immaginiche sono agli angoli nei quattro scomparti rettangolari,  ciascuna in strettorapporto tematico con il motivo rappresentato nel tondo e nella paretesottostante. Così al tondo della Teologia segue il rettangolo con il peccato diAdamo («il mangiare del pomo») e insieme stanno sulla Disputa  delSacramento, dalla parte opposta al medaglione della Teologia c’è quello dellaFilosofia  cui segue il rettangolo con l’Astrologia nell’atto di porre «le stellefisse e l’erranti a’ luoghi loro» e insieme stanno sulla Scuola di Atene; almedaglione della Poesia segue il rettangolo con «Marsia fatto scorticare a unalbero da Apollo» e insieme stanno sopra il Parnaso, dalla parte opposta almedaglione della Poesia c’è quello della Giustizia cui segue il rettangolo con«il giudizio di Salamone quando egli vuol far dividere il fanciullo»60 e insiemestanno sulle Virtù (le altre tre virtù cardinali: Temperanza, Fortezza,Prudenza) e sui due riquadri con Triboniano che consegna le Pandette aGiustiniano  e San Gregorio IX  (con il volto di Giulio II) che approva leDecretali.

Dal cielo della stanza si ritorna poi sui grandi affreschi delle pareti, conun movimento verticale verso il basso, portando l’attenzione sul Parnaso  e

58 Ivi, p. 618.59 Ivi, pp. 617-18.60 Ivi, p. 618.

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poi, ancora con movimento circolare, sulla Disputa del Sacramento e sui dueriquadri, sotto le Virtù, con Triboniano che consegna le Pandette aGiustiniano  e San Gregorio IX che approva le Decretali. Nell’affresco delParnaso Raffaello racconta con i colori la storia della poesia antica e

moderna e lo fa «con molta grazia e infinita diligenzia».61

  Al centro, sullaparte più alta del monte che domina Delfi, la figura di Apollo attorniato dallenove muse (a sinistra Calliope che presiede al coro di Talia, Clio, Euterpe, ea destra Erato, Polimnia, Melpomene, Tersicore, Urania). Ai piedi di Apollo lafonte Castalia62 e intorno «una selva ombrosissima di lauri», accarezzati dauna lieve brezza («aure dolcissime») percepibile all’occhio per il «tremolaredelle foglie» reso pittoricamente dalla «loro verdezza».63

Per creare dinamismo, Raffaello – annota Vasari - dipinge «una infinitàdi amori ignudi con bellissime arie di viso». Tra questi amori ignudi alcuni«colgono rami di lauro e ne fanno ghirlande», altri «quelle spargono e gettanoper il monte».64 I poeti, «ritratti di naturale», sono «sparsi per il monte», sullasommità: alcuni «ritti», altri seduti, altri nell’atto di scrivere, taluni ragionano,talaltri cantano o favoleggiano, tutti a gruppi di «quattro» o di «sei». 65  Leimmagini dei poeti antichi sono tratte da statue, medaglie e pitture, precisaVasari, e le immagini dei poeti conosciuti personalmente sono statedisegnate dal naturale.

Nell’elencare i poeti, Vasari non segue un percorso di lettura (utile peridentificare i poeti), 66   anzi sembra più interessato a indicare la continuitàstorica della poesia tra due grandi età, quella antica, greca e latina assieme

(Ovidio, Virgilio, Ennio, Tibullo, Catullo, Properzio, Omero, Saffo), e quellamoderna, che va dal Duecento al Cinquecento e comprende Dante, Petrarca,Boccaccio, il Tebaldeo e «infiniti altri moderni» (invero solo Ariosto eSannazaro):

E per cominciarmi da un capo, qui vi è Ovidio, Virgilio, Ennio, Tibullo, Catullo, Properzio etOmero, e tutte in un groppo le nove Muse et Apollo con tanta bellezza d’arie e divinitànelle figure, che grazia e vita spirano ne’ fiati loro. Èvvi la dotta Safo et il divinissimo

61 Ivi, p. 619.62  Vasari erroneamente la chiama «fonte di Elicona» (ivi, p. 618), sorgente fatta sgorgare daPegaso sul monte Elicona, anche questo sacro alle Muse.63 Ibidem.64 Questo particolare è un chiaro indicatore del fatto che Vasari descrive l’affresco del Parnasotenendo davanti l’incisione di Marcantonio Raimondi, Il Parnaso (1510, Firenze, Uffizi, Gabinettodei disegni e delle stampe).65 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’

tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 cit., p. 618.66 Sui problemi relativi all’identificazione dei poeti cfr. G. REALE, Raffaello, Il “Parnaso, Rusconi,Santarcangelo di Romagna (RN), 1999 (al quale si rimanda per la ricca bibliografia esaminata ediscussa).

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Dante, il leggiadro Petrarca e lo amoroso Boccaccio, che vivi vivi sono; et il Tebaldeo etinfiniti altri moderni.67

 Ma soprattutto Vasari vuole trasmettere l’impressione di trovarsi non

tanto di fronte a una pittura della storia della poesia con i ritratti dei poeti,

bensì di fronte a un angolo reale del Parnaso e all’incontro dal vivo esincronico dei poeti di tutte le età. Vanno in questa direzione la sottolineaturadel fatto che Apollo e le nove Muse hanno «tanta bellezza d’arie e divinitànelle figure, che grazia e vita spirano ne’ fiati loro». E ancora di Dante,Petrarca e Boccaccio sembra di percepire persino il loro respiro («vivi vivisono»).68  Al Parnaso  di Raffaello si richiama inevitabilmente il Parnaso  diVasari, affrescato tra il 1548 e il 1554 nella sala dedicata ad Apollo della casadi Arezzo, Con questa opera, che bene si inserisce nel programma dellacelebrazione, raffigurata nella casa di Arezzo, delle arti e dei più grandi artisti,

Vasari «si autoinvita al Parnasomodesto e appena abbozzato».69

  Tra le pitture di Raffaello con storie bibliche, Vasari si sofferma sullatavola della  Trasfigurazione di Cristo  (Pinacoteca Vaticana),  commissionatadal card. Giulio de’ Medici nel 1517. In quest’opera, realizzata tra il 1518 e il1520, Raffaello sintetizza due sequenze del Vangelo (la trasfigurazione diCristo sul monte Tabor e l’incapacità degli apostoli di liberare il fanciullo daldemonio a causa della loro poca fede), legate tra loro in Matteo, 17, 1-21:

Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello, e li condusse sopra un altomonte, in disparte. E si trasfigurò davanti a loro: il suo volto risplendente come il sole e lesue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia a parlarecon lui. Allora Pietro disse a Gesù: “Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, farò qui tretende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli parlava ancora, quando una nubeluminosa li avvolse, e dalla nube una voce disse: “Questo è il mio Figlio diletto, nel qualemi sono compiaciuto; ascoltatelo”. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra edebbero gran paura. […] Mentre discendevano dal monte, Gesù dette loro quest’ordine:“Non parlate a nessuno della visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risuscitato daimorti!”. […] Quando furono giunti presso la folla, si presentò un uomo che gli si prostrò

67 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’

tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 cit., p. 619.

68   Anche Bellori, nel Seicento, con apprezzamenti da parte di Poussin, si cimentò nelladescrizione degli affreschi di Raffaello nella Stanza della Segnatura, come documenta la stampadella Descrizzione delle imagini dipinte da Rafaelle d’Urbino nelle Camere del Palazzo ApostolicoVaticano […] alla Santità di Nostro Signore Papa Innocenzo duodecimo, In Roma, Nella Stampariadi Gio: Giacomo Komarek Boëmo alla Fontana di Trevi, 1695 (ma apparso postumo nel 1696). Cfr.Cfr. E.  BOREA, Giovan Pietro Bellori e la “commodità delle stampe”, in Documentary culture:Florence and Rome from Grandduke Ferdinand I to pope Alexander VII , ed. by E. CROPPER, G. PERINI, F. SOLINAS, Bologna, 1992, pp. 263-85; P. SABBATINO, «La guerra e la pace tra 'l celeste e'l vulgare Amore». Il poema pittorico di A. Carracci e l'ecfrasi di Bellori (1657, 1672) , in Ecfrasi.Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi e M. Farnetti, cit., to. 2, pp.477-78.

69 É. POMMIER, L’invenzione dell’arte nell’Italia del Rinascimento cit., pp. 459-60.

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dinanzi, e disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio, che è lunatico e soffre molto; cadespesso nel fuoco e spesso nell’acqua. L’ho presentato ai tuoi discepoli, ma non l’hannopotuto guarire”. Gesù rispose: “ O generazione incredula e perversa, fino a quando staròcon voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatemelo qua”. Poi Gesù minacciò il demonio, ilquale uscì dal fanciullo che, in quel medesimo istante, fu risanato. Allora i discepoli si

avvicinarono a Gesù in disparte e gli domandarono: “Perché noi non l’abbiamo potutoscacciare?”. Gesù rispose: “Per la vostra poca fede. In verità, infatti, vi dico: se avrete fedequanto un granello di senapam direte a questo monte: Spostati di qua a là, esso sisposterà; e niente vi sarà impossibile..70

 Il racconto vasariano, nel descrivere ad uno ad uno tutti i personaggi

della pittura di Raffaello, 71  in parte prelevati dal citato passo evangelico e inparte aggiunti (come il vecchio e la donna), mostra l’entusiasmo di chi si trovadi fronte all’opera più alta e più perfetta di Raffaello.

Nel registro basso, ai piedi del monte Tabor, Raffaello rappresenta

undici apostoli in attesa del ritorno di Gesù e l’arrivo di «un giovanettospiritato», sostenuto da un vecchio. Il giovane indemoniato, «che conattitudine scontorta si prostende gridando e stralunando gli occhi, mostra ilsuo patire dentro nella carne, nelle vene e ne’ polsi contaminati dallamalignità dello spirito e con pallida incarnazione fa quel gesto forzato epauroso». Il vecchio abbraccia l’indemoniato, si fa coraggio, arrotonda gliocchi, alza le ciglia e increspa la fronte, mostrando nel contempo « e forza epaura», inoltre mira fissamente gli undici apostoli e « pare che sperando inloro, faccia animo a se stesso». Una donna, inginocchiata davanti agli

apostoli, volta «la testa loro et il tutto delle braccia verso lo spiritato» e nemostra la miseria. Alcuni apostoli sono ritti, altri seduti, altri in ginocchio e«mostrano avere grandissima compassione di tanta disgrazia».

Nel registro alto, sopra il monte Tabor, Cristo trasfigurato, con un«vestito di color di neve», le braccia aperte, la testa alzata verso il Padre,mostra «la essenzia della deità di tutte tre le Persone». In quell’«aria lucida»vi sono Mosè ed Elia, i quali «alluminati da una chiarezza di splendore sifanno vivi nel lume» di Cristo. Infine i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovannisono «prostrati in terra» e hanno diverse attitudini, «chi atterra col capo e chi

con fare ombra a gli occhi con le mani si difendono da’ raggi del sole e da laimmensa luce dello splendore di Cristo». Nel rappresentare il patire dell’indemoniato nella carne, il darsi forza e

l’avere paura del vecchio, la compassione degli apostoli, la disperazione delladonna nel registro basso, e nel registro superiore l’immensa luce di Cristouomo trasfigurato in divino, la luminosità di Mosè ed Elia che traggono vita daquello splendore e l’umana difesa dei tre apostoli dai raggi del sole divino,Raffaello raggiunge l’«ultima perfezzione» della pittura e la tavola dellaTrasfigurazione diviene «la più celebrata, la più bella e la più divina».

70 La Sacra Bibbia cit., pp.1100-01. E in Marco, 9, 2-29, Luca, 9, 28-4371 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550  cit., pp. 637-38.

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  Siamo di fronte alla pittura che con Raffaello si cimenta nella suaimpresa più ardua, l’imitazione di Dio, e siamo di fronte alla scritturaecfrastica che con Vasari si cimenta nella più difficile e nella più ambitaimpresa, il raccontare con le parole l’immagine dipinta della divinità.

(PUBBLICATO IN «STUDI RINASCIMENTALI», 2009)

Pasquale Sabbatino

Il ritratto di Ariosto «gran Pittor» nella «pinacoteca» poetica di Marinoe la «Galleria regia» dell’Orlando fur ioso nella letteratura artist ica

1. Le gallerie dei potenti e la Galeria del Marino

Tra secondo Cinquecento e inizio Seicento si va esaurendo in Italia laciviltà dello studiolo, che ha una matrice umanistica e una fruizione élitaria, e

nasce la civiltà della galleria, che amplia gli spazi sempre più scenografici,coinvolge un più ampio pubblico e svolge una duplice funzione, «celebrativadel committente e conservativa-espositiva delle glorie artistiche e delleimprese eccellenti della casata». 72   Alcuni eventi concorrono nell ’affermazione della galleria in diverse aree geografiche e in diversi ambiti(architettonico, lessicale, poetico).  73  Francesco I de’ Medici, Granduca di

72 C. DE BENEDICTIS, Per la storia del collezionismo italiano. Fonti e documenti con 129 tavole fuoritesto, Firenze, Ponte alle Grazie editori, 19952, p. 79. Si veda inoltre Geografia del collezionismo.

Italia e Francia tra il XVI e il XVIII secolo, a cura di O. Bonfait et alii, Roma, École française deRome, 2001.73 Sull’architettura cfr. W. PRINZ, Galleria. Storia e tipologia di uno spazio architettonico, a cura diC. Cieri Via, Modena-Ferrara, Panini – Istituto di studi rinascimentali Ferrara, 1988. Sulla voce

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Toscana dal 1574 al 1587, fu impegnato a ordinare la Galleria degli Uffizinegli anni Ottanta, trasferendo le opere d’arte delle raccolte di famiglia all’

ultimo piano dell’edificio vasariano.74 Nello stesso decennio fu discussa daLionardo Salviati (entrato nell’Accademia della Crusca nel 1583 e morto nel

1589) «la galleria della lingua», il Vocabolario degli Accademici della Crusca(stampato a Venezia, presso la tipografia di Giovanni Alberti, nel 1612).75 Apartire dal 1598, per volere del potente cardinale Odoardo Farnese e delfratello Ranuccio, duca di Parma, Annibale Carracci affrescò a Roma laGalleria Farnese,76  che, affacciata sul giardino prospiciente il Tevere, ben

galleria (dal francese galerie, attestata nel 1316), che a inizio Seicento era «rara e nuova in linguaitaliana, e suonava, come di fatto era, straniera», cfr. C. DIONISOTTI, La galleria degli uomini illustri [1984], in Appunti su arti e lettere, Milano, Jaca book, 1995, pp. 145-55.74

 Cfr. Gli Uffizi. Quattro secoli di una galleria. Atti del convegno internazionale di studi, Firenze,20-24 settembre 1982, a cura di P. Barocchi e G. Ragionieri, Firenze, Olschki, 1983; Magnificenzaalla corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento , catalogo della mostra, Milano,Electa, 1997; G. FOSSI, Galleria degli Uffizi, Firenze, Giunti, 2001.75 Cfr. G. NENCIONI, La ‘galleria’ della lingua, in Gli Uffizi. Quattro secoli di una galleria cit., pp. 17-48. In particolare Nencioni opera un gemellaggio tra le due gallerie, quella linguistica e quellafigurativa: «Abbiamo visto che entrambe avevano un apprezzamento estetico dei loro oggetti,trascelti entro un novero più vasto; ma che la collocazione cronologica degli oggetti era totalmentediversa: medievale nel Vocabolario, greco-latina o cinquecentesca nella Galleria del principe.Abbiamo visto che l’orientamento medievale del Vocabolario era fondato non solo sopra uncondizionamento storico – quello dell’effettivo processo di unificazione nazionale della linguascritta – che valeva a renderlo attuale, ma sopra una teorizzazione dell’eccellenza linguistica del

‘buon secolo’, utile più a legittimare l’intento puristico e ad esaltare la normatività dell’opera che agiustificarne l’impostazione; mentre la normatività della Galleria degli Uffizi come prototipo di altregallerie italiane e straniere trasse ragione dalla sua univoca e impregiudicata rispondenza alleesigenze culturali del presente. Da quest’ultima differenza potremmo inferire […] una diversadisponibilità dei due istituti ad aprirsi a nuove prospettive: assai minore e più tormentata nelVocabolario a causa della sua posizione passatista e conservatrice, e anche per il fatto chel’apertura estrafiorentina della Galleria di Francesco I implicava l’ammissione della presenza evalidità di altri centri artistici oltre Firenze, mentre la portata nazionale del Vocabolario si fondavasull’equazione tra lingua letteraria comune e fiorentino trecentesco e sulla convinzione che taleequazione potesse e dovesse perdurare indefinitamente, qualunque fossero […] gli apporti e leproposte delle altre regioni italiane» (pp. 31-32).76

 Della Galleria Farnese si era già occupato nel 1604 K. VAN MANDER (Het Schilder-Boek, , L’Aia,ed. Noe, 1954, pp. 293-95) e poi G. MANCINI, Considerazioni sulla pittura, [1614-1621], pubblicateper la prima volta da A. MARUCCHI con il commento di L. SALERNO, I, Roma, Accademia Nazionaledei Lincei,1956, pp. 280, 302. Tra i contributi sulla Galleria cfr.   H.  TIETZE, Annibale CarraccisGalerie in Palazzo Farnese und seine römischen Werkstätte, «Jahrbuch der KunsthistorischenSammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses», XXVI, 1906-1907, pp. 49-182; J.  R. MARTIN, TheFarnese Gallery,  Princeton, 1965;  C. DEMPSEY, The Farnese Gallery, New York, 1965 (trad. it.,Torino, Società Editrice Internazionale, 1995; C. DEMPSEY, “Et nos cedamus amori”: Observationson the Farnese Gallery, «The Art Bullettin», L, 1968, 4, pp. 363-74; D. POSNER, Annibale Carracci. A Study in the Reform of Italian Painting around 1590, I, London, Phaidon Press, 1971, pp. 93-108e II, p. 49; I. MARZIK, Das Bildprogramm der Galleria Farnese in Rom, Berlin, 1976; F. C. UGINET,Le Palais Farnèse à travers les documents financiers (1535-1612),  Rome,  École française de

Rome, 1980; C. DEMPSEY, Annibal Carrache au Palais Farnèse, in Le Palais Farnèse, vol. 1, to. 1,Rome, École française de Rome, 1981, pp. 269 e ss. ;  ID., Mythic Inventions in Counter-Reformation Painting, in Rome in the City and the Myth, a cura di P.  A.  RAMSEY, Binghamton,1982, pp. 55-73; G. BRIGANTI, Gli amori degli dei. Nuove indagini sulla Galleria Farnese, testi di G.

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presto fu considerata tra le maggiori Scuole dell’arte alla pari delle LoggieChigiane e delle Stanze Vaticane affrescate da Raffaello Sanzio. A inizioSeicento, nella Torino che da «borgo prealpino di frontiera» tentava il grandesalto e «si preparava […] a diventare la capitale di un barocco ‘d’una maniera

propria’ sua»,77 il duca Carlo Emanuele I di Savoia diede nuovo impulso allaGalleria di Torino, posta fra Palazzo Madama ed il Palazzo Ducale (1606-1608), purtroppo andata distrutta a fine Seicento, e commissionò a FedericoZuccari il grandioso affresco della Genealogia dei Savoia. 78

Il poeta napoletano Giovan Battista Marino, che fu anche collezionista ecritico d’arte, 79   giunse nel Ducato di Savoia nel 1608 al seguito delcardinale Aldobrandini e fu l’occasione per passare alla corte di CarloEmanuele I, un centro politico e culturale progressivamente in ascesa sullascena italiana ed europea, guidato da un principe che «meglio di altri avrebbe

potuto assicurare allo spregiudicato napoletano il primato moderno tra i

Briganti, A. Chastel e R. Zapperi; carta delle giornate e nota tecnica a cura di C. Giantomassi,Roma, Edizioni dell’Elefante, 1987; M.  BOITEUX, Fêtes et cérémonies romaines au temps deCarrache, in Les Carrache et les décors profanes. Actes du Colloque organisé par l’Écolefrançaise de Rome (Rome, 2-4 octobre 1986), Rome, École française de Rome, 1988, pp. 205-8;C.  ROBERTSON, Ars vincit omnia: The Farnese Gallery and Cinquecento Ideas about Art, in«Mélanges de l’École française de Rome. Italie and Méditerranée», CII, 1990, 1, pp. 7-41;  A. RECKERMANN,  Amor mutuus: Annibale Carraccis Galleria-Farnese-Fresken und das Bild-Denkender Renaissance, Köln-Wien, 1991;  R.  ZAPPERI, Eros e controriforma. Preistoria della galleria

Farnese, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; M. CALVESI, La Galleria dei Carracci, in Arte a Roma.Pittura, scultura, architettura nella storia dei Giubilei, a cura di M. CALVESI, Milano, Rizzoli, 1999,pp. 127-31; C.  DEMPSEY, I Carracci a Palazzo Farnese: la “descriptio” belloriana della GalleriaFarnese, in L’idea del Bello cit., II, pp. 229-31; S. GINZBURG CARIGNANI, Annibale Carracci a Roma.Gli affreschi di Palazzo Farnese, Roma, Donzelli ed., 2000; P. SABBATINO, «La guerra tra ‘l celestee ‘l vulgare amore». Il poema pittorico di Annibale Carracci e l’ecfrasi di Bellori (1657, 1672), inEcfrasi. Modelli ed esegesi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi e M. Farnetti, vol. 2,Roma, Bulzoni, 2004, pp. 477-511.77 A. RUFFINO, Gallerie. Marino e l’immagine in esilio in G. MARINO, La Galeria, a cura di M. Pieri eA. Ruffino, Trento, La Finestra, 2005, p. XXXIV. 78 Cfr. Diana Trionfatrice. Arte di corte nel Piemonte del Seicento. Catalogo della mostra di M. Di

Macco e G. Romano, Torino, Allemandi & c., 1989; P.   MERLIN, Tra guerre e tornei. La cortesabauda nell’età di Carlo Emanuele I, Torino, Società editrice internazionale, 1991; Le collezioni diCarlo Emanuele I di Savoia, a cura di G. Romano, Torino, Fondazione CRT, 1995; G. PICCIAROTTI,La pittura nel Seicento, Torino, UTET, 1997, pp. 133-51 (Torino e le terre del Ducato sabaudo); D. DEL PESCO, L’architettura del Seicento, Torino, UTET, 1998, pp. 132-37 (Carlo Emanuele I e lacostruzione di Torino capitale: la Città Nuova e la «corona di delitie»); Politica e cultura nell’età diCarlo Emanuele I. Torino, Parigi, Madrid, a cura di M. Masoero, S. Mamino, C. Rosso, Firenze,Olschki, 1999.79 Cfr. A. BORZELLI, Il Cavalier Giovan Battista Marino (1569-1625), Napoli, Priore, 1898, pp. 183-89; ID., La “Galeria” del Cavalier Marino, Napoli, Vedova Ceccoli & figli, 1923 (nuova stesuradell’opuscolo Il Cavalier Marino con gli artisti e la Galeria, Napoli, Tip. Cosmi, 1891); ID., Storiadella vita e delle opere di Giovan Battista Marino, Napoli, Tip. degli Artigianelli, 1927, pp. 250-71;

E.  BERTI TOESCA, Il Cavalier Marino collezionista e critico d’arte, «Nuova Antologia», LXXXVII,1952, n. 455, pp. 51-66; G.  FULCO, Il sogno di una “Galeria”: nuovi documenti sul Marinocollezionista  [1979], in La «meravigliosa» passione. Studi sul Barocco tra letteratura ed arte,Roma, Salerno editrice, 2001, pp. 83-117. 

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poeti».80   Per il duca scrisse Il ritratto del Serenissimo Carlo Emanuello (Torino, 1608),81 panegirico in sestine dedicato ad Ambrogio Figino (pittoremanierista, allievo di Lomazzo e autore di alcune decorazioni della Galleria diCarlo Emanuele I) e prezioso anche per qualche riferimento alla Galleria

Sabauda)82 e dal duca fu insignito dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro,per poi entrare tra il 1610 e il 1615 al suo servizio.83  Questi anni torinesifurono decisivi per la genesi della Galeria, 84 iniziata nel 1602 e pubblicata aVenezia da Ciotti85 nel 1620, quando Marino già da tempo si era trasferito

80 RUFFINO, Gallerie. Marino e l’immagine in esilio cit., p. XXXIV.81  Cfr. M.  GUGLIELMINETTI, Un “portrait du roi” avant lettre? Note sul mariniano  Ritratto delSerenissimo Carlo Emanuello Duca di Savoia, in Politica e cultura nell’età di Carlo Emanuele I.Torino, Parigi, Madrid, Atti del convegno internazionale (Torino, 21-24 febbraio 1995), a cura di M.Masoero, S. Mamino e C. Rosso, Firenze, Olschki, 1999, pp. 191-214.82 A. RUFFINO, Pitture e artisti della Galeria, nella ed. 2005 di MARINO, La Galeria cit., p. CCXXXV. 83 Cfr. E. RUSSO, Marino, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 87-116 ( A Torino. Dal Ritratto allaprigionia del 1611-1612) e 117 ss. (1614-1615. Da Torino a Parigi: Le Dicerie sacre, Lira III).84   Cfr. J. COSTELLO, Poussin’s Drawings for Marino and the New Classicism. I. Ovid’s“Metamorphoses”, «The Journal of Warburg and Courtauld Institute», XVII, 1955, n. 3-4, pp. 296-317; G. ACKERMANN, Giambattista Marino’s Contribution to Seicento Art Theory, «The Art Bulletin»,XLIII, 1961, n. 4, pp. 326-36; M. ALBRECHT-BOTT, Die bildende Kunst in der italienischen Lyrik derRenaissance und des Barocks. Studie zur beschreibung von Portraits und anderen Bildwerkenunter besonderer Berücksichtigung von G. B. Marinos Galeria, Wiesbaden, Steiner, 1976; G. E. VIOLA, Marino e le arti figurative, in Il verso di Narciso. Tre tesi sulla poetica di G. B. Marino, Roma,

Cadmo, 1978, pp. 9-61; A.  DURANTI, La galleria della mente, «Paragone Letteratura», 1980, n.366, pp. 93-97; C. DIONISOTTI, La galleria degli uomini illustri [1984] cit.; G. MOSES, «Care gemelled’un parto nate»: Marino’s Picta Poesis, «Modern Language Notes», C, 1985, n. 1, pp. 82-110; L.  

NEMEROW-ULMAN, Narrative Unities in Marino’s “La Galeria“, «Italica», LXIV, 1987, n. 1, pp.76-85;F.  GUARDIANI, L’idea dell’immagine nella Galeria  di G. B. Marino, in Letteratura italiana e artifigurative. Atti del Convegno di Toronto-Hamilton-Montreal (6-10 maggio 1985), a cura di A.Franceschetti, vol. 2, Firenze, Olschki, 1988, pp. 647-54; A.  MARTINI, I capricci del Marino trapittura e musica, ivi, vol. 2, pp. 655-64; I. VIOLA, Un nodo barocco di poesia e pittura, «Il piccoloHans», XV, 1988-1989, n. 60, pp. 77-98; S. SCHÜTZE, Pittura parlante e poesia taciturna: il ritornodi G. B. Marino a Napoli, il suo concetto di imitazione e una mirabile interpretazione pittorica, inAA.VV., Documentary culture. Florence and Rome from Grand-Duke Ferdinand I to Pape Alexander   VII, Papers from a Colloquium held at the Villa Spelman, Florence 1990, ed. by E. Cropper, G. Perini, F. Solinas, «Villa Spelman Colloquia», vol. 3, Bologna, Nuova Alfa Editrice,1992, pp. 209-26; E.  CROPPER, The Petrifying Art: Marino’s Poetry and Caravaggio, «TheMetropolitan Museum Journal», XXVI, 1991, pp. 193-212; EAD., Marino’s “Strage degli Innocenti”,Poussin, Rubens and Guido Reni, «Studi secenteschi», XXXIII, 1992, pp. 137-66; F. DALLASTA,Pittura e letteratura. Schedoni, Marino, Testi, in «Philologica», 1, 1992, pp. 99-112; E. PAULICELLI,Parola e spazi visivi nella “Galeria”, in The Sense of Marino. Literature, Fine Arts and Music ofItalian Baroque, ed. by F. Guardiani, New York, Legas, 1994, pp. 255-65;  M.  FUMAROLI, “LaGaleria” di Marino e la Galleria Farnese: epigrammi e opere d’arte profane intorno al 1600, in Lascuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo , Milano, Adelphi, 1995, pp. 61-80; F.PELLEGRINO, I giochi onomastici sui nomi degli artisti figurativi nei componimenti di G. B. Marino,«Italianistica», XXIX, 2000, pp. 251-66;  C. CARUSO, Saggio di commento alla Galeria di Giovan

Battista Marino: 1 (esordio) e 624 (epilogo), «Aprosiana», X, 2002, pp. 71-89; V.  SURLIUGA, LaGaleria di G. B. Marino tra pittura e poesia, «Quaderni d’italianistica», 2002, n. 1, pp. 65-84.85 Sulla sciatteria dello stampatore nell’edizione della Galeria cfr. G. MARINO, Lettere, a cura di M.Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, pp. 257-61, nn. 138-139.

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presso la corte francese. Nell’ultima parte dell’opera, il poeta napoletanoinserisce il madrigale  Al Duca di Savoia per la sua Galeria, formulando unparallelo tra il duca e il poeta, il primo che al culmine della propria potenzaedifica la Grande Galleria e vi raccoglie le reliquie del passato in particolare le

statue, il secondo che crea la Galeria  e vi raccoglie in un’

ala i carmicelebranti le opere di scultura:

Opra certo è, Signor, di te ben degnaunir del secol prisco in chiusa partele reliquie cadute,le memorie perdute;e raccolte dal suolo,rotte dagli anni, antiche statue, e sparte,sovra sostegni alteri

rendere ai tronchi busti i capi interi.Questo sol, questo soloa’ tuoi fatti mancava, ed a’ miei carmi:esser largo e pietoso ancora ai marmi.86

 A parte la funzione di una manifesta captatio benevolentiae da parte del

poeta nei riguardi del duca, il madrigale segnala la precisa volontà del Marinodi legare la genesi dell’opera letteraria sia al generale processo politico-culturale di affermazione e moltiplicazione delle gallerie lungo la Penisola, siaalla particolare costruzione della Galleria Sabauda, tingendo di torinesinità laGaleria.

Anche il Marino, che aspirava ad essere il principe dei poeti moderni,può avere la propria galleria, quella realizzabile con l’unico strumento chepossiede, la scrittura, parallelamente al principe Carlo Emanuele I e a tutti glialtri potenti, i quali possono edificare la galleria architettonica, un segno fortedella loro magnificenza nel presente e nel futuro.

2. La «pinacoteca» poetica e i ritratti di Boiardo, Ariosto e Tasso 

Nella Galeria  Marino offre al lettore  una «pinacoteca» poetica dimadrigali, sonetti e altre forme metriche (stanze madrigalesche, quartineepigrammatiche, sestine, un componimento in terzine e due in quartine):

Havvi la Galeria, ch’è come dir pinacoteca, luogo dove anticamente (come riferisce

Petronio Arbitro) si conservano le pitture.87 86 Si cita da G. B. MARINO, La Galeria, a cura di M. Pieri, to. 1, Padova, Liviana, 1979, p. 307. La

cit. ed. 2005 della Galeria, a cura di M. Pieri e A. Ruffino, presenta in appendice La Galeria delCavalier Marino considerata vien dal Paganino ed è arricchita con un cd-rom Pitture per la Galeria,a cura di A. Ruffino.87 MARINO, Lettere cit., p. 607.

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 Una galleria di testi poetici i quali, pur conservando in molti casi un

legame solo esterno con il dato visivo (dipinti o sculture, opere architettoniche,medaglie, incisioni in rame, libri istoriati), si muovono in modo del tutto

autonomo rispetto alle caratteristiche specifiche delle singole immagini,rinunciano all’ecfrasi e abbracciano l’artificio.88

La «pinacoteca» poetica del Marino, apparsa priva della parte figurativache pure era stata annunciata da Marino in una lettera a Tommaso Stiglianinel 1609, è articolata in due ali, come due sono le ali nell’incisione cheraffigura la galleria sul frontespizio delle Immagini  di Filostrato tradotte daVigenère (Parigi, 1614).89 Il lettore della Galeria da una parte può inoltrarsinell’ala dedicata alle Pittura, la più estesa e nutrita (ben 542 componimenti),suddivisa in cinque sezioni: 83 poesie su dipinti mitologici («favole»), 57 su

dipinti di storie, 322 su ritratti di uomini, 68 su ritratti di donne, 12 su«capricci»; e dall’altra parte nell’ala della Scultura  (82 componimenti),suddivisa solo in tre sezioni: 57 poesie su statue, 13 su rilievi, modelli emedaglie, 12 su su «capricci».

Nel visitare il libro-galleria, dopo aver ammirato nell’ala della Pittura sia le favole, sia le storie, il lettore giunge nella sezione dei ritratti di uomini,dove Marino colloca «i simulacri di diversi uomini illustri sì in armi come inlettere» e per ciascuna immagine «si scherza con qualche bizarria secondo leazioni del rappresentato», in modo da ottenere «un museo» scritto, che va

dall’antichità alla modernità.90 Ben sedici sono le sale della sezione ritratti di uomini:91   principi,

capitani ed eroi (101 poesie); tiranni, corsari e scellerati (11); pontefici ecardinali (15); padri santi e teologi (10); negromanti ed eretici (10); oratori epredicatori (9); filosofi e umanisti (21); storici (6); giuristi e medici (5);matematici e astrologi (11); poeti greci (10); poeti latini (23); poeti volgari (30);

pittori e scultori (12); «diversi Signori e Letterati amici dell’ Autore» (22);

ritratti burleschi (26). Il Parnaso mariniano, allora, è nelle tre sale dei poetigreci, latini e volgari.

88 Cfr. L. BOLZONI, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma-Bari, 2008, pp. 146-48, 178-80, 243-45.89  FUMAROLI, “La Galeria” di Marino e la Galleria Farnese, cit., pp. 67-68 («L’incisione sulfrontespizio dell’in-folio raffigura, vista dall’alto, una duplice galleria a un solo piano che si staccada un corpo di fabbrica centrale sormontato da una cupola. Nell’angolo formato dalle due gallerie,davanti all’edificio centrale, un gruppo scultoreo rappresenta Apollo e le Muse sul Parnaso.Dunque si tratta di un ‘Museo’, di un palazzo espressamente concepito per il ‘culto delle muse’ eper le opere d’arte che di questo culto sono il frutto»).90 MARINO, Lettere cit., p. 607. 91 Solo tre nella sezione Ritratti: donne : Belle Caste e Magnanime; Belle Impudiche e Scelerate;Bellicose, e Virtuose.

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Nella sala dei poeti greci, il lettore-visitatore può leggere-ammirare ilritratto poetico di Omero, Pindaro, Teocrito, Anacreonte, Euripide (due comp.),Sofocle, Aristofane, Oppiano, Luciano. Nella sala dei poeti latini si trovano iritratti di autori antichi, come Ennio, Lucrezio, Virgilio, Lucano, Stazio, Orazio,

Catullo, Tibullo, Properzio, Ovidio, Silio Italico, Claudiano, Seneca il tragico,Plauto, Terenzio, Marziale, Persio, Giovenale, e ritratti di autori delQuattrocento e Cinquecento, come Marullo Tarcagnota, Giacomo Sannazaro,Giovanni Gioviano Pontano, Girolamo Fracastoro, Aurelio Orsi.

Nella sala dei poeti volgari, Marino colloca i ritratti secondo la seguentesuccessione: a) il gruppo delle tre corone trecentesche: Dante Alighieri,Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio; b) il gruppo dei tre autori di romanzicavallereschi: Matteo Maria Boiardo, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso (duesonetti); c) il poeta fiorentino Lorenzo il Magnifico, l’unico del secondo

Quattrocento, 92   e i numerosi poeti del Cinquecento che operano nellediverse aree della Penisola: Pietro Bembo (area veneta), Giovanni della Casa,«in un quadro» Francesco Maria Molza e Giovanni Guidiccioni, Annibal Caro,tutti attivi nell’area tosco-romana; Sperone Speroni (area veneta), GiacomoBonfadio (area lombarda) e Ludovico Dolce (area veneta). Buona è anche lapresenza dei poeti meridionali, con i ritratti di cinque poeti napoletani, unavera e propria «serie-omaggio»: 93   Luigi Tansillo, Angelo di Costanzo,Bernardino Rota, Benedetto dell’Uva, Ascanio Pignatelli. Seguono tre poetiveneziani: Antonio Ongaro e «in un quadro» Clelio Magno e Orsatto

Giustiniano. Inoltre le coppie ferraresi (di nascita o per adozione) BattistaGuarini e Guidobaldo Bonarelli. Infine Marino coglie l’occasione per esibire,oramai nei pressi dell’uscita dalla sala, anche i ritratti di due poeti antilirici eantipetrachisti, Pietro Aretino (due comp.) e il beneventano Nicolò Franco,aggiungendo altri tasselli nel panorama piuttosto articolato delle tendenzedella poesia italiana e nella mappa della sua geografia lungo la Penisola.

Ma, prima di varcare l’uscita della sala dei poeti volgari, il lettore-visitatore trova due ritratti, quello del poeta francese Pierre Ronsard (1524-1585)94 e quello del poeta spagnolo Garcilaso de la Vega (1503-1536). La

92  Il ritratto di Angelo Poliziano (mad. Un ingegno e tre lingue  ) è nella sezione Filosofi eumanisti, tra Marsilio Ficino, Ermolao Barbaro, Giovanni Pico della Mirandola. Il ritratto di IacopoSannazaro (son. Io feci al suon de la SINCERA avena), vissuto a cavallo tra Quattrocento eCinquecento, è nella sezione dei Poeti latini, con Marullo Tarcagnota e Giovanni GiovianoPontano.93 Note di M. PIERI, in MARINO, La Galeria cit., to. 2, p. 128.94  La presenza di Ronsard non è legata alla condizione parigina di Marino, cortigiano del re diFrancia. Infatti, come osserva DIONISOTTI , Appunti su arti e lettere cit., p. 151, il poeta napoletano«scriveva per l’Italia, dove non vedeva l’ora di tornare, ed era fin troppo cosciente a quella data

dell’autorità e novità di quanto scriveva. Rischiava anche in questo caso prudentemente, comedimostra l’accoppiamento dell’ineccepibile Garcilaso con Ronsard. Questi era stato poi per laprima volta proposto all’Italia come legittimo poeta dal Castelvetro nella polemica sua col Caro perla canzone dei gigli d’oro».

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singolare collocazione di questi due poeti nel Parnaso della poesia volgare èun segnale della  «sensibilità post-rinascimentale del Marino per le nuoveletterature che si affacciano sulla scena» dell’Europa. 95   Oramai conPetrarca prima e Ronsard poi la musa della poesia può volare finalmente con

due ali («i vanni», Partire dal Ciel Francese, v. 8)96 nel cielo francese e conGarcilaso de la Vega inizia l’alba del «poëtico giorno» in Spagna e la stelladella poesia sorge in Occidente, dove il sole tramonta.

Nel trittico Boiardo-Ariosto-Tasso, sul quale fermiamo l’attenzione inquesta sede, il Marino sviluppa volutamente una rete di rimandi, che occorreinterpretare. Partiamo dal primo ritratto poetico, quello di Boiardo:

Pungo gli affetti e gl’intelletti sveglio,gran testor di Romanzi in Hippocrene.

Fabro non è di me che sappia megliodi poëtici groppi ordir catene.La mia mercé, che gli son guida e speglio,il Lombardo Maron dietro mi tiene.Nacqui su ‘l Po. Devea ben da quel fiumesorger d’Apollo, ove pria cadde, il lume.97

 Innanzitutto Marino trasforma il ritratto in autoritratto, così è Boiardo a

delineare sé stesso con l ’ uso della prima persona, dalla nascita aScandiano in val Padana, regione indicata dal suo maggior fiume il Po

(«Nacqui su ‘l Po», v. 7), alla produzione di romanzi cavallereschi («grantestor di Romanzi», v. 2) nell’ambito della poesia (indicata dalla fonte sacraalle Muse, «in Hippocrene», v. 2). Così, in una sequenza giocata sulcontrasto, dal Po, dove precipitò Fetonte con il carro del Sole, può sorgere ilsole («il lume», v. 8) di Apollo.

Di particolare interesse la focalizzazione, nell’ambito del poema, dellalinea genealogica che va da Boiardo ad Ariosto parallela alla maturazione delgenere letterario («La mia mercé, che gli son guida e speglio, /  il LombardoMaron dietro mi tiene», vv. 5-6). Marino, dunque, riconosce a Boiardo il ruolo

di guida e specchio, di maestro e modello dell’Ariosto, il quale a sua voltaviene celebrato come il nuovo mantovano Virgilio («il Lombardo Maron»),nato su solide basi e capace di volare in alto.

Il sonetto dedicato all’Ariosto, il secondo pezzo del trittico, è al centroed è il centro della terna di poeti:

Quel gran Pittor de l’armi e degli amori,di Pindo unico Sol, canoro mostro

95 MARINO, La Galeria cit., to. 2, p. 131.96 Ivi, to. 1, p. 187.97 Ivi, to. 1, p. 176.

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del Re de’ fiumi, e Re degli Scrittori,or qui dipinto agli occhi altrui mi mostro.

Ma meglio che i pennelli e che i colori,la mia penna dipingono, e ‘l mio inchiostro.Più viva la mia imagine, o Pittori,

esprime il libro mio, che ‘l quadro vostro.Caduche son le vostre tele, eterne

le carte mie. Voi solo il corpo, ed iodipingo sì che l’anima si scerne.

A dipinger non prenda il volto miochi dipinger non sa tra le supernemeraviglie del Ciel Natura, e Dio.98

 Nella prima quartina, disegnando il ritratto nella forma narrativa dell’

autoritratto ariostesco, Marino preleva dall’incipit  dell’Orlando Furioso  letessere lessicali «l’arme, gli amori» (I, 1) e le adatta nell’incipit del sonetto(«Quel gran Pittor de l’armi e degli amori», v. 1). La centralità e unicità diAriosto sono segnalate dall’autodefinizione di «unico Sol» (v. 2) «di Pindo»,monte della Grecia consacrato ad Apollo e alle Muse. Il suo accostamento aBoiardo è geografico, dal momento che entrambi sono emiliani e sono natinelle terre bagnate dal Po, ma di quel fiume Ariosto diviene l’insuperabile

«melodiosa meraviglia»99 («canoro mostro / del Re de’ fiumi», vv. 2-3). L’ultima pennellata sul motivo del superamento di Boiardo da parte dell’

Ariosto è indicata dall’incoronazione dell’Ariosto quale «Re degli Scrittori» di romanzi cavallereschi, per cui Boiardo, guida e specchio, maestro emodello dell’Ariosto, appare per quello che è, un maestro superato daldiscepolo.

Sul tema del superamento di Boiardo da parte dell’Ariosto, il Marinomostra di muoversi a latere di una sua fonte, gli Elogia virorum illustrium diPaolo Giovio,100 il quale nel suo «museo di carta», così delinea il ritratto inprosa di Ariosto:

Sed luculentissimum operum, ob idque forsitan aeternum, id volumen existimatur, quoOrlandi fabulosi herois admiranda bello facinora octonario modulo decantavit. Boiardohercle ipsoque Pulcio peregregie superatis: quandoquidem et hunc rerum et carminum

98 Ivi, to. 1, p. 176.99 Ivi, to. 2, p. 125.

100 Su questa linea di indagine cfr. C. DIONISOTTI,  Appunti su arti e lettere cit., Milano, Jaca Book,

pp. 145-55;  O.  BESOMI, Fra i ritratti del Giovio e del Marino. Schede per la Galeria,  «Lettereitaliane»”, XL, 1988, n. 4, pp. 511-21; C.  CARUSO, Paolo Giovio e Giovan Battista Marino,«Giornale storico della letteratura italiana», CLXVIII, 1991, pp. 54-84. A Paolo Giovio il Marinodedica la stanza Dentro il vasel del mio famoso inchiostro (Galeria cit., to. 1, p. 151).

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accurata granditate devicerit; ac illum, surrepto inventionis titulo ac eo quidem variiselegantioris doctrinae luminibus illustrato, penitus extinxerit.101

 Nella seconda quartina del son. Quel gran Pittor de l’armi e degli

amori e nelle due terzine, Ariosto dipinto con i colori – al momento limitiamocia constatare il silenzio sul ritrattista – esalta l’Ariosto dipinto con i versi dallostesso poeta. Così nella lotta tra poesia e pittura, penna e pennello,inchiostro e colore, la palma del primato viene assegnata alla poesia. Se lapittura è soggetta al trascorrere del tempo e le tele sono caduche, la poesiagrazie al mezzo della scrittura attraversa indenne tutte le stagioni e divieneeterna. Se il pittore può dipingere «solo» (v. 10) il corpo, ma questo è unartificio paradossale, già in uso nel Cinquecento,102  per chi come Marinoconosce la fisiognomica, la poesia può aprire la finestra sull’anima.

Chiude il componimento l’invito del poeta ai pittori affinché solo gli artisticapaci di dipingere la divinità si accingano a dipingere il suo ritratto. Un veroe proprio monito contro gli aspetti degenerativi del ritratto, di cui si ha traccianella letteratura artistica del Cinquecento, come l’allargamento della fasciadei ritrattisti, spesse volte non all’altezza del compito, e parallelamentel’allargamento dei committenti, non sempre degni di essere ritratti.

Il sonetto-autoritratto del Tasso completa il trittico degli autori di poemi:

Nacqui in Sebeto, in riva al Po piantaidi mia verde corona i primi allori.

Di Fortuna e di Principe provaiprigioner l’ire, e peregrin gli errori.

Su la sampogna giovenil cantaidel vago Aminta i boscherecci amori.Indi la lira tenera accordaidel mio bel foco a celebrar gli ardori.

Alfin la tromba in più sonori carmidietro a l’Autor del Furioso alzando,

101  Pavli Iovii Opera, cvra et stvdio Societatis historicae novocomensis, denvo edita, to. VIII,Elogia virorvm illvstrivm, cvrante Renzo Meregazzi, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato - Libreria

dello Stato, 1972, p. 108. Trad.: «Ma quella che è considerata la sua opera più splendida eperciò, forse, destinata all’immortalità, è il famoso volume in cui, in ottave, cantò lemeravigliose gesta del leggendario eroe Orlando superando nettamente Boiardo e lostesso Pulci: il secondo lo superò per la grandiosità degli argomenti e del tono poetico, ilprimo lo oscurò completamente dopo avergli sottratto il merito dell’ideazione letteraria conla ripresa del titolo, anche se è vero che Ariosto la seppe nobilitare con le luci variopinte diuna cultura più raffinata»  (P.  GIOVIO, Elogi degli uomini illustri, a cura di Franco Minonzio,traduzione di Andrea Guasparri e Franco Minonzio, Torino, Einaudi, 2006, p. 248). Ladefininizione degli Elogia del Giovio come museo di carta è di F. Minonzio (Gli «Elogi degli uomini

illustri»: il «museo di carta» di Paolo Giovio, ivi, pp. XVII-LXXXVII).102 Secondo la tradizione, variamente registrabile nel XVI sec. tra consensi e dissensi, solo allapoesia viene riconosciuta la capacità di rappresentare l’interiorità: cfr. L.  BOLZONI, Poesia e ritrattonel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2008.

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trattai Duci e Guerrier ’, battaglie ed armi.Forte destin. Per imitar cantando

L’ingegnoso Ariosto, io venni a farmiimitator del forsennato Orlando.103

 Anche in questo terzo pezzo del trittico, seguito dalle quartine (Così ti

giaci senza onor di tomba) sulla tomba del Tasso nella chiesa di S. Onofrio aRoma,104  scorrono le acque del Po. Infatti, nel sonetto-autoritratto, il Tasso,dopo aver additato le coordinate del suo natale a Sorrento con il Sebeto(«Nacqui in Sebeto», v. 1), il fiume meno vicino, ma letterariamente piùimportante, a discapito del Sarno, il fiume più vicino, ma letterariamente pocorilevante,105  ricorda la sua residenza dal 1565 a Ferrara, città indicata dalfiume che l’attraversa («in riva al Po piantai / di mia verde corona i primi

allori», vv. 2-3), tra successi letterarii, segregazione nell’

ospedale di Sant’

Anna (1579-86) per «l’ire» di Alfonso II d’Este e peregrinazioni inquiete ederrabonde tra Roma, Napoli, Firenze, Mantova.

Inoltre il Tasso mariniano segnala, nell’autobiografia letteraria, l’ Aminta  («Su la sampogna giovenil cantai / del vago Aminta i boscherecciamori», vv. 5-6), le rime per Lucrezia Bendidio («Indi la lira tenera accordai /del mio bel foco a celebrar gli ardori», vv. 7-8), infine la Gerusalemme liberata («Alfin la tromba in più sonori carmi / […] / trattai Duci e Guerrier ’, battaglieed armi», vv. 9 e 11).

Nelle terzine il Tasso mariniano dichiara di aver scelto di imitare nell’ambito poematico l’«ingegnoso» autore dell’Orlando furioso, ma poi per undestino beffardo egli si è ritrovato ad imitare nella vita la follia del suopersonaggio, Orlando, in un singolare circuito che va dalla vita alla letteraturae dalla letteratura alla vita. L’immagine del Tasso matto si ritrova anche inuna lettera (1613) del Marino a Bernardo Castello, l’ illustratore dell’

edizione della Gerusalemme liberata del 1585. Nella missiva,106 rompendogli argini della «modestia» e straripando in una smoderata «arroganza»,Marino afferma di aver ricevuto da Dio un tale intelletto da sentirsi «abile acomporre un poema non meno eccellente di quel che si abbia fatto il Tasso»e preannuncia il proprio capolavoro, l’ Adone. Riprendendo infine un

103 MARINO, La Galeria cit., to. 1, pp. 176-77.104 Ivi, to. 1, p. 177.105   Iacopo Sannazaro scrisse il poemetto esametrico Salices  (in appendice all’edizione

napoletana del 1526 del De partu Virginis, insieme con le Eclogae  e la Lamentatio de morteChristi) dedicato a Troiano Cavaniglia, signore di Troia e Montella e membro dell’AccademiaPontaniana. Sulle orme del poema latino di Ovidio e di una consolidata tradizione umanistica, dal

Ninfale fiesolano di Boccaccio all’ecloga Coryle di Pontano, Sannazaro narra di Ninfe insediate daiSatiri nei boschi della Campania e trasformate in salici sulle rive del fiume Sarno, oggi il piùinquinato d’Europa.106 MARINO, Lettere cit., p. 141.

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atteggiamento di reverenza verso il poema del Tasso, Marino non nega chel’ Adone potrà «per aventura» avere difetti dove la Gerusalemma liberata èstata impeccabile o essere impeccabile dove è stata difettosa. Tuttavia il suoprogramma di scrivere il nuovo poema è così ambizioso da consentire al

Marino autore «almeno» la pretesa di «vincere il paragone nell’esser piùmatto» del Tasso uomo.Nel riguardare l’intero trittico, il ritratto di Boiardo maestro e modello è

propedeutico a quello dell  ’ Ariosto «re degli Scrittori»  di romanzicavallereschi e il successivo ritratto del Tasso è una prova della eccellenza einsuperabilità dell’ingegnoso Ariosto.107

  Ai romanzi cavallereschi dipinti108  il Marino dedica alcuni madrigalicollocati nella sezione delle Favole: Due ben temprate cetre  (Ruggiero eBradamante  di Federico Zuccari, opera non identificata), Virtù de la tua

mano, Se ‘l senno ancor ne fura, Fugga fugga Medoro ( Angelica di GiovanniBaglione, opera non identificata). Il topos  della competizione tra Natura,Poesia e Pittura nella creazione della bella e seducente Angelica,protagonista dei poemi di Boiardo e Ariosto, è il fulcro di uno dei duemadrigali dedicati all’ Angelica del pittore romano Giovanni Baglione:

Virtù de la tua manoha tra noi suscitata,BAGLION, la bella ingrata.Né certo era a formar volto sì bellouopo d’altro pennello.L’ammira Apollo, e non sa dir qual siadi maggior leggiadria:in carne, in carte, in tela, o vera, o finta,

viva, scritta, o dipinta.109

 Il dubbio del dio della poesia nell’assegnare la palma della vittoria ad

Angelica creata dalla natura, o ad Angelica dipinta con i versi da Ariosto ocon i colori da Baglione è l’ennesimo artificio del Marino per celebrare in

questo caso le arti sorelle Poesia e Pittura, oramai capaci di imitare edemulare la Natura. Accumulando nei due versi finali ben due disposizioniternarie («in carne, in carte, in tela»; «viva, scritta, o dipinta») e una binaria

107 Alla letteratura ariostesca dipinta il Marino dedica alcuni madrigali: Due ben temprate cetre (Ruggiero e Bradamante di Federico Zuccari, opera non identificata) , Virtù de la tua mano, Se ‘lsenno ancor ne fura, Fugga fugga Medoro ( Angelica di Giovanni Baglione, opera non identificata).108 Sui poemi dipinti ci limitiamo a segnalare i recenti L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto,Tasso e Guarini nell’arte fiorentina del Seicento, a cura di E. Fumagalli, M. Rossi, R. Spinelli, op.

cit., la bibliografia è alle pp. 246-56; L’arme e gli amori. Ariosto, Tasso and Guarini in LateRenaissance Florence. Acts of an International Conference (Florence, Villa I Tatti, June 27-29,2001), ed. by M. Rossi – F. Gioffredi Superbi, Firenze, Olschki, 2004, voll. 2.109 MARINO, La Galeria cit., to. 1, p. 44.

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(«o vera, o finta»), Marino eleva l’Angelica «finta», quella « in carte, in tela»,«scritta, o dipinta», all’altezza dell’Angelica «vera», quella «in carne» e«viva». Poesia e Pittura, dunque, nell’imitare la Natura si sono appropriatedell’atto creativo della bellezza e sono continuamente alla ricerca dell’

emulazione.Nella sezione Prencipi, Capitani ed Eroi  dei ritratti di uomini, Marino

inserisce due componimenti dedicati a Orlando, l’eroe del poema ariostesco(son. L’ invitta forza, l’ incantata pelle, mad. Furor di Poësia), due alCapitano Goffredo di Buglione (i madrigali Mercé di chiara tromba, SciolseGoffredo il pio) e uno a Tancredi (mad. Uccisi la mia vita), gli eroi del poematassiano.110 Nella sezione Belle, impudiche e scelerate dei ritratti di donne,Marino colloca le stanze Il fido annel, che per virtù d’incanti sulla figura di

Angelica111 e i tre madrigali Trassi Maga sagace, Fortuna assai peggiore, Armai, misera Armida sulla figura di Armida,112 la maga della Gerusalemmeliberata. Nella sezione Bellicose e virtuose le stanze Ben è costei Pantasilea novella  su Clorinda.113  Infine tra i Capricci  delle Pitture Marino colloca unsonetto sulla Gerusalemme del Tasso istoriata da Bernardo Castello:

Movon qui duo gran Fabri Arte contr ’Arteemule a lite, ove l’un l’altro agguaglia,sì che di lor qual perda, o qual più vaglia,pende incerto il giudicio in doppia parte.

L’un cantando d’Amor l’armi e di Martel’orecchie appaga, e gl’intelletti abbaglia.L’altro, mentre del canto i sensi intaglia,sa schernir gli occhi, e fa spirar le carte.

Scerner non ben si può, qual più vivaceesprima, imprima illustri forme e belle,o la muta pittura, o la loquace.

Intente a queste meraviglie e quelledubbioso arbitro il mondo ammira e tacelà le glorie d’Apollo, e qui d’Apelle.114

 Il pittore genovese Bernardo Castello,115  che si recò a Ferrara nel

1575 ed entrò in relazione con Tasso, preparò i disegni nel 1585 e li offrì al

110 Ivi, to. 1, pp. 98-99.

111 Ivi, to. 1, pp. 232-33.112 Ivi, to. 1, pp. 233-34.113 Ivi, to. 1, pp. 237-38.

114 Ivi, to. 1, p. 261.

115 Sul Narciso di Bernardo Castello il Marino scrive il son. Chi crederà da mortal mano espresso e il mad. Qui dipinto è Narciso; su Europa (disperso) il mad. Certo s’era sì bella; sul Sansone cheuccide il leone (disperso) il mad. CASTEL, s’a lodar prendo; sul San Cristoforo il mad. Quei, chesotto l’incarco; sul ritratto della moglie (disperso) il son Poscia ch’a far ch’io dietro a te non vegna

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porta tramite Angelo Grillo. L ’ edizione La Gierusalemme liberata di

Torquato Tasso con le Figure di Bernardo Castello e le Annotazioni di ScipioGentili e di Giulio Guastavini apparve a Genova, presso Girolamo Bartoli, nel1590, con le incisioni eseguite da Agostino Carracci e Giacomo Franco.116

  Nel sonetto Marino dà vita a un vero e proprio duello tra i due granfabbri, Tasso e Castello, e le due arti sorelle, poesia e pittura. Il giococontrastivo è serrato e incalzante e Marino impiega sapientemente molteserie oppositive a sua disposizione. Il poeta appaga il senso dell’udito eabbaglia le menti, il pittore sa schernire il senso della vista e fa spirare lecarte. Il primo esprime le belle forme nella muta pittura e il secondo leimprime nella pittura loquace. Il duello si chiude con un pareggio tra le gloriedi Apollo, simbolo della poesia, e le glorie di Apelle, il celebre artista dell’antica Grecia simbolo della pittura.

3. Ariosto «gran Pittor» e Tiziano in Lomazzo e Marino

La definizione mariniana di Ariosto «gran Pittor», nel ritratto centrale deltrittico, si fonda sulla letteratura artistica del secondo Cinquecento, checelebra frequentemente le doti pittoriche dell’Ariosto e in qualche casoaccosta il colorire con i versi di Ariosto al colorire con i pennelli di Tiziano. Frai testi, che a cavallo tra secondo Cinquecento e inizio Seicento arricchiscono

lo scaffale della letteratura artistica (da Vasari a Comanini, da Lomazzo aZuccari), occupa un posto di rilievo il Trattato dell’arte della pittura, scoltura

et architettura  (Milano, Ponzio, 1584) dell’artista-scrittore milanese Giovan

Paolo Lomazzo, 117   il quale dedicò l’opera, come in seguito le Rime 

(Milano, Ponzio, 1587), a Carlo Emanuele I Gran Duca di Savoia.118nSiamo,

dunque, di fronte a un testo collocabile nell’area torinese, accolto nellabiblioteca del Duca e letto del Marino.

(In persona di Bernardo Castello nel Ritratto di sua moglie morta); sul ritratto del francescanoCastelficardo (disperso) il mad. Dipingimi il sembiante; sul ritratto del marchese Ambrogio Spinola(disperso) il son. Del Ligustico Marte hai la figura; sul ritratto di Cornelio Musso (disperso) il mad.Tace, Bernardo, o parla. Cfr. R. ERBENTRAUT, Der Genueser Maler Bernardo Castello 1557?-1629,Dusseldorf, Luca Verlag Freren, 1989; CALÌ, La pittura del Cinquecento cit., to. 2, pp. 458-9.116  Cfr. la scheda di N. BASTOGI., in L’arme e gli amori. La poesia di Ariosto, Tasso e Guarininell’arte fiorentina del Seicento, a cura di E. Fumagalli, M. Rossi, R. Spinelli, Firenze, Sillabe,2001, pp. 120-22. In altre due occasioni il Castello fornì le illustrazioni del poema: nelle edizioni del1604 e del 1617, a Genova, per i tipi di Giovanni Pavoni. Si veda inoltre Le opere di figura, nellaed. 2005 della Galeria cit., p. CCCIII.117

  Sul Trattato  di Lomazzo nella storiografia artistica del Cinquecento cfr. il fondamentale F.  BOLOGNA, La coscienza storica dell’arte d’Italia, Torino, UTET, 1982, pp. 112-16.118 Secondo Lomazzo, Carlo Emanuele I si dilettava a dipingere. Cfr. G. P. LOMAZZO, Scritti sullearti, a cura di R. P. Ciardi, vol. 2, Firenze, centro Di, 1974, pp. 9 e 26.

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Sono piuttosto numerosi i passi che nel Trattato portano l’attenzione

sulla ritrattistica e sulle virtù pittoriche dell’Ariosto,119 temi svolti, poi, nellaGaleria. La lettura deli due testi è di grande aiuto per la comprensione deipunti in comune e delle differenze.

Nel libro VI (Della prattica della pittura), cap. LI, (Composizione diritrarre dal naturale),120Lomazzo interviene sulla storia e sulla funzione delritratto,121  argomento molto vicino agli interessi culturali Marino. Il ritratto,sviluppatosi sin dalle origini dell’arte, ha sempre svolto la funzione diconservare e trasmettere la memoria di quanti avessero governato consaggezza, in modo da accendere nei posteri il desiderio dell’imitazione.Tuttavia «a tempi nostri», lamenta Lomazzo, il genere del ritratto si ètalmente divulgato, con l’allargamento a dismisura e abusivo dei committentie degli artisti, i primi non sempre saggi nell’arte del governo e i secondi inmolti casi rozzi, fino a perdere la dignità. Per risalire la china, Lomazzoraccoglie «alcune cose necessarie alla vera composizione del far ritratti» edesibisce alcuni esempi. Innanzitutto raccomanda di prendere inconsiderazione «la qualità di colui che si ha da ritrarre», cioè il carattereideale, anche se non posseduto, ma strettamente legato alla funzione politicae alla dignità del ruolo sociale del ritrattato, e in secondo luogo il «particolaresegno» distintivo, come nel caso di un imperatore la corona di lauro, i bastonio lo scettro o le armi, i simboli del suo potere. Inoltre, secondo Lomazzo, ilritrattista deve sempre «far risplendere quello che la natura d’eccellente» ha

donato al modello, come dimostrano gli artisti nei ritratti dei poeti. Così Giotto

119 Cfr. il contributo sempre utile di P. BAROCCHI, Fortuna dell’Ariosto nella trattatistica figurativa,in Studi vasariani, Torino, Einaudi, 1984, pp. 53-67.120 LOMAZZO, Scritti sulle arti cit., vol. 2, pp. 374-81.121 Cfr. Il ritratto e la memoria, a cura di A. Gentili, Ph. Morel, C. Vieri Cia, Roma, Bulzoni,1993; Il ritratto. Gli artisti i modelli la memoria, a cura di G. Fossi, Firenze, Giunti, 1996, pp. 137-85(D. BODART, Il ritratto nelle corti europee del Cinquecento); F. CAROLI, L’anima e il volto. Ritratto efisiognomica da Leonardo a Bacon, Milano, Electa, 1998, pp. 69-173  (Cinquecento: il volto

magico), 175-295  (Seicento: il volto naturale); M. KOSHIKAWA, Individualità e concetto. Note sullaritrattistica del Cinquecento, nel cat. Rinascimento. Capolavori dei musei italiani  (Tokyo-Roma2001), Ginevra-Milano, Skira, 2001, pp. 39-45; Le metamorfosi del ritratto, a cura di R. Zorzi,Firenze, Olschki, 2002; Il volto e gli affetti. Fisiognomica ed espressione nelle arti delRinascimento. Atti del Convegno di studi (Torino, 28-29 novembre 2001), a cura di A. Pontremoli,Firenze, Olschki, 2003; É. POMMIER, Il ritratto. Storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi,Torino, Einaudi, 2003; Tra parola e immagine: effigi, busti, ritratti nelle forme letterarie. Atti delConvegno Macerata-Urbino, 3-5 aprile 2001, a cura di L. Gentili e P. Oppici, Pisa-Roma, Istitutieditoriali e poligrafici internazionali, 2003; T.  CASINI, Ritratti parlanti. Collezionismo e biografieillustrate nei secoli XVI-XVII, Firenze, Edifir, 2004; Il ritratto nell’Europa del Cinquexcento, a cura diA. Gallo, C. Piccinini, M. Rossi, Firenze, Olschki, 2007; N.  MACOLA, Sguardi e scritture: figure conlibro nella ritrattistica italiana della prima metà del Cinquecento, Venezia, Istituto Veneto di

Scienze, Lettere e Arti, 2007; L. BOLZONI, Poesia e ritratto nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza,2008 (la bibliografia alle pp. 247-74). Sui rapporti tra la superficie piana e i colori della pittura dauna parte e l’incarnato (pelle e umori) del soggetto dall’altra cfr.  DIDI-HUBERMAN, La pitturaincarnata. Saggio sull’immagine vivente, Milano, Il Saggiatore, 2008 [ed. or.:Paris 1985].

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ha rappresentato «la profondità» di Dante,122 Simone Martini «la facilità» diPetrarca, 123   frate Giovanni Angelo Montorsoli «la prudenza» diSannazaro, 124   Tiziano «la facundia et ornamento» di Ariosto 125   e «lamaestà e l’accuratezza» di Bembo.126

 122 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino Firenze 1550 , a cura di L. Bellosi e A.Grassi, Presentazione di G. Previtali, Torino, Einaudi, 1986, p. 118: Giotto «introdusse il ritrar dinaturale le persone vive, che molte centinaia d’anni non s’era usato. Onde, ancor oggi dì, si vederitratto, nella cappella del Palagio del Podestà di Fiorenza, l’effigie di Dante Alighieri, coetaneo etamico di Giotto, et amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittoreimpresse». Sul ritratto di Dante nel Giudizio Universale (Firenze, Palazzo del Bargello, cappella diS. Maria Maddalena) e sui dubbi nella identificazione cfr. il cat. Dal ritratto di Dante alla Mostra del

Medio Evo, a cura di P. Barocchi e G. Gaeta Bertelà, Firenze, SPES, 1985).123  VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino Firenze 1550 cit., p. 157: «Èvvi ancora lachiesa di Cristo et, a la guardia di quella, il papa, lo imperadore, i re, i cardinali, i vescovi e tutti iprincipi cristiani; e tra essi, a canto ad un cavaliere di Rodi, messer Francesco Petrarca, ritrattopure di naturale. Il che fece Simone per rinfrescare nelle opere sue la fama di chi lo aveva fattoimmortale». Ritratto perduto.124 La biografia Fra’ Giovann’Agnolo Montorsoli scultore fu aggiunta nella seconda edizione: cfr.G. VASARI, Le vite de' piu eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, acura di Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, vol. 5, Firenze, SPES, 1984, pp. 498-99: «andò a Napoli, dove nel luogo già detto mise sù la sepoltura detta del Sanazaro, la quale è

così fatta. In sui canti da basso sono due piedistalli, in ciascuno de' quali è intagliata l'arme di essoSanazaro, e nel mezzo di questi è una lapide di braccia uno e mezzo, nella quale è intagliatol'epitaffio che Iacopo stesso si fece, sostenuto da due puttini. Dipoi, sopra ciascuno dei dettipiedistalli, è una statua di marmo tonda a sedere, alta quattro braccia, cioè Minerva et Apollo; et inmezzo a queste, fra l'ornamento di due mensole che sono dai lati, è una storia di braccia due emezzo per ogni verso, dentro la quale sono intagliati di basso rilievo Fauni, Satiri, Ninfe, et altrefigure che suonano e cantano, nella maniera che ha scritto nella sua dottissima Arcadia di versipastorali quell'uomo eccellentissimo. Sopra questa storia è posta una cassa tonda di bellissimogarbo e tutta intagliata et adorna molto, nella quale sono l'ossa di quel poeta; e sopra essa, in sulmezzo, è in una basa la testa di lui ritratta dal vivo, con queste parole a piè: ACTIVS SINCERVS ,accompagnata da due putti con l'ale a uso d'Amori, che intorno hanno alcuni libri. In due nicchiepoi, che sono dalle bande nell'altre due facce della cappella, sono sopra due base due figure tonde

di marmo ritte e di tre braccia l'una o poco più, cioè San Iacopo Apostolo e San Nazzaro. Muratadunque nella guisa che s'è detta quest'opera, ne rimasero sodisfattissimi i detti signori esecutori etutto Napoli».125 La tradizione identifica il ritratto tizianesco dell’Ariosto con il Ritratto d’uomo, detto l’Ariosto (1510 ca.; Londra, National Gallery), ma di diverso avviso è G.  GRONAU, Titian’s Ariosto, «TheBurlington Magazine», LXIII, 1933, pp. 194 ss.: cfr. LOMAZZO, Trattato cit., vol. 2, p. 377, nota 18(«Altre proposte di identificare il Ritratto dell’Ariosto col dipinto di Indianapolis, o con quello già aFerrara, coll. Oriani, sono ancora meno convincenti). Sui ritratti di Tiziano cfr. A. PAOLUCCI, Tizianoritrattista, nel cat. Tiziano, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 101-8; Tiziano e il ritratto di corte daRaffaello ai Carracci  (Napoli, Museo di Capodimonte, 25 marzo-4 giugno 2006), Napoli, Electa,2006 (in particolare gli interventi di E. Pommier, J. M. Fletcher, R. Zapperi).

126   Tiziano, Ritratto di Bembo  (Washington, National Gallery of Art; Napoli, Galleria diCapodimonte). Cfr. cat. Tiziano cit., p. 238. Si conosce anche un terzo ritratto di Bembo, «quello amosaico, del Bargello, derivato da un disegno di Tiziano» (cfr. LOMAZZO, Trattato cit., vol. 2, p.377).

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Il motivo, sviluppato da Lomazzo, della degenerazione della ritrattisticanel Cinquecento viene ripreso dal Marino proprio nel ritratto dell’Ariosto.Infatti, nella seconda terzina del sonetto Quel gran Pittor de l’armi, e degliamori, Marino fa dire in modo iperbolico ad Ariosto che solo gli artisti

eccellenti possono ritrarre un poeta divino, puntando l’indice contro lamediocrità di tanti ritrattisti e contro la mediocrità dei ritrattati.Inoltre l’elenco, redatto da Lomazzo, di esemplari ritrattisti di poeti

fornisce probabilmente una preziosa informazione al Marino e ai lettori(contemporanei e posteri) del Marino, quella del presunto ritratto tizianescodell’Ariosto. Rileggendo ora Quel gran Pittor de l’armi, e degli amori, il passodi Lomazzo aiuta a svelare il ritrattista in ombra dell’Ariosto divino, Tiziano.Per questo artista lo stesso Ariosto nutrì una grande stima, al punto dainserirlo nella nota ottava, aggiunta tardivamente nella terza e definitivaedizione dell’Orlando furioso  del 1532, celebrativa degli artisti moderni(Leonardo da Vinci, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Dosso Dossi eBattista Dossi, Michelangelo Buonarroti, Sebastiano del Piombo, Raffaello,Tiziano), le cui opere sono alla pari con le opere degli antichi:

e quei che furo a’ nostri dì, o sono ora,Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora,Michel, più che mortale, Angel divino;Bastiano, Rafael, Tiziano, ch’onoranon men Cador, che quei Venezia e Urbino;e gli altri di cui tal opra si vede,qual de la prisca età si legge e crede;

(Orlando furioso, XXXIII, 2).127

 Sulla base della testimonianza di Lomazzo sul ritratto tizianesco

dell’Ariosto, allora, è possibile cogliere, nell’ultima terzina del sonetto Quelgran Pittor de l’armi, e degli amori di Marino, un implicito elogio all’eccellenteTiziano, che ha potuto ritrarre il divino Ariosto in quanto è pittore divino,come ripetutamente l’artista viene definito lungo il Cinquecento, come nel

caso di Pietro Aretino e Lodovico Dolce.128Nel libro II (Del sito, posizione, decoro, moto, furia e grazia delle figure),Lomazzo si propone di raccogliere e fornire ai pittori gli esempi illustri, nell’ambito della pittura e della letteratura antica e moderna, di quanti hannorappresentato con i colori o con le parole i «moti secondo la diversità delle

127 L. ARIOSTO, Orlando furioso, a cura di R. Ceserani, vol. 2, Torino, UTET, 1981, p. 1280. Tra glialtri, espresse critiche all’elogio ariostesco dei pittori Lodovico Dolce: cfr. Trattati d’arte delCinquecento fra manierismo e controriforma, a cura di P. Barocchi, vol. 1, Bari, Laterza, 1960, pp.

150-51. Su questa rassegna di artisti cfr. C. DIONISOTTI, Tiziano e la letteratura [1976], in Appuntisu arti e lettere cit., pp. 117-26; BOLOGNA, La coscienza storica dell’arte d’Italia cit., pp. 70-73.128 Cfr. Trattati d’arte del Cinquecento fra manierismo e controriforma cit., vol. 1, pp. 205-6 (e noterelative). 

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passioni e de gl’affetti».129 Quando passa in rassegna i moti semplici dell’animo umano (dalla «melancolia» alla «mesticia», dalla timidità alla ferocia,dalla vergogna alla meraviglia), i moti degli animali e in particolare dei cavalli(lo spavento, la disperazione, la violenza nell’azzuffarsi), il movimento dei

capelli del corpo umano e il movimento dei panni, Lomazzo cita i classicidella letteratura antica, greca e latina (Omero, Virgilio, Stazio, Ovidio) e gliautori della letteratura italiana (Dante, Petrarca, Boccaccio, Pontano, Landino,Boiardo, Bembo, Alamanni, Ariosto, Tasso).

Tra questi ultimi, l’indice di frequenza è a favore di Ariosto e delle suevirtù pittoriche, già celebrate tra gli altri da Lodovico Dolce nel Dialogo della

Pittura, intitolato L’ Aretino (Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1567).130 Basta scorrere nel Trattato di Lomazzo, ad esempio, i casi di «melancolia» e«mesticia». La prima «fa gl’atti pensosi, mesti e colmi di tristezza»,131 come dimostra l’Ariosto, che dipinge la malinconia del cavaliere Sacripantein due sequenze (Orlando furioso, I, 40, 1-2; II, 35, 7-8), raffigurandolo«pensoso», «a capo basso» e ancora con gli «occhi molli», il «viso basso»,«addolorato e lasso». Questa pittura in versi dell’Ariosto, secondo leargomentazioni di Lomazzo, diviene un modello per la rappresentazionepittorica della «melancolia» di Adamo e Eva dopo il peccato originale (Genesi,3, 7) e di Agar dopo essere rimasta gravida di Ismael e dopo essere statacacciata via dalla moglie di Abramo (ivi, 21, 9-20):

volendola, per essempio, esprimere ne i primi nostri padri Adam et Eva doppo commessoil peccato della disubbidienza, si faranno con gl’occhi dimessi, affissati in terra, con latesta chinata, col gomito sopra il ginocchio e la mano sotto le gote et assisi in lococonveniente, come sotto qualche arboro ombroso, ovvero fra sassi e caverne; dove siporrebbe ancora Agar quando, gravida d’Ismael, scacciata dalla moglie di Abraam, si eraricoverata in loco solitario et ivi tutta dolente se ne stava piangendo e lagnandosi col capochino, sin che l’angelo scese dal cielo a confortarla in tali sembianti. E così andarebbeespressa l’adultera, Pietro dopo ch’ebbe negato Cristo et altri simili; così in parte l’adombrò l’Ariosto in Sacripante, nel canto I, quando disse:

Pensoso più d’un’ora a capo basso

129 LOMAZZO, Trattato cit., vol. 2, p. 100.130 Trattati d’arte del Cinquecento fra manierismo e controriforma cit., vol. 1, pp. 172-73 («Ma sevogliono i pittori senza fatica trovare un perfetto esempio di bella donna, leggano quelle stanzedell’Ariosto, nelle quali descrive mirabilmente le bellezze della fata Alcina; e vedranno parimentequanto i buoni poeti siano ancora essi pittori. Le stanze (che io ho conservato sempre, come gioiebellissime, nel tesoro della memoria) sono queste: Di persona era tanto ben formata, / quanto me’finger san pittori industri. Ecco che, quanto alla proporzione, l’ingeniosissimo Ariosto assegna lamigliore che sappiano formar le mani de’ più eccellenti pittori, usando questa voce ‘industri’ per

dinotar la diligenza che conviene al buono artefice. […] Spargeasi per la guancia delicata / Mistocolor di rose e di ligustri. Qui l’Ariosto colorisce et in questo suo colorire dimostra essere unTiziano»).131 Ivi, vol. 2, p. 113.

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Stette, Signori, il cavaglier dolente.

E nel secondo:

Et avea gl’occhi molli, il viso basso,

e si mostrava adolorato e lasso.132

 Anche per la mestizia, che è «poco meno ch’una istessa cosa con la

melancolia»,133 l’artista può seguire la pittura ariostesca in versi dell’attonitae immobile Angelica, dopo essere stata portata via dal suo cavalloindemoniato:

Stupida e fissa nella incerta sabbia,coi capelli disciolti e rabuffati,con le man giunte e con l’immote labbia,i languidi occhi al ciel tenea levati,quasi accusando il gran Motor che l’abbiatutti conversi nel suo danno i fatti.

(Orlando furioso, VIII, 39, 1-6)

e della mestissima Isabella, figlia del re di Galizia, la quale con volto chino epiangendo bacia il morente Zerbino:

declinando la faccia lacrimosa,e congiungendo la sua bocca a quelladi Zerbin, languidetta […].

(ivi, XXIV, 80, 2-4)

Sulla base di questi due stralci, le virtù pittoriche di Ariosto simanifestano proprio nel dipingere la tematica arturiana e quella carolingia, «ledonne» e «i cavallier», «gli amori» e «l’arme», «le cortesie» e «l’audaci

imprese» (Orlando furioso, I, 1-2).134  Il poeta, dunque, viene elevato edassunto da Lomazzo prima nel Trattato e da Marino poi nella Galeria come«gran Pittor de l’armi e degli amori». Tra Lomazzo e Marino possiamo

agevolmente collocare Galileo Galilei, il quale nelle Considerazioni al Tasso (1589 ca.) definisce l’Ariosto «magnifico, ricco e mirabile» e l’Orlando

furioso una regia galleria di sculture e dipinti poetici:

quando entro nel Furioso veggo aprirsi una Guardaroba, una Tribuna, una Galleria regia,ornata di 100 statue antiche de’ più celebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori di

132 Ivi, vol. 2, p. 114.133 Ivi, vol. 2, p. 116.134 ARIOSTO, Orlando furioso cit.,, vol. 1, p. 36.

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pittori illustri, con un numero grande di vasi, di cristalli, d’agate, di lapislazzoli e d’altregioie e finalmente ripiena di cose rare, preziose, meravigliose e di tutta eccellenza».135

 Il Trattato di Lomazzo tocca anche il nodo della conformità tra poeti e

artisti e quindi tra Ariosto e Tiziano. Nel libro VI (Della prattica della pittura)del Trattato, Lomazzo affronta il tema della «composizione» pittorica,ripetendo quanto era stato ampiamente dibattuto nel corso del Cinquecento.Nella composizione, secondo Lomazzo, 136   occorre evitare «lasoprabondanza delle parti et ancora la povertà». L’ una produce «laconfusione et affettazione» e la seconda «l’aridezza e nudità delle opere».Per questo la linea, proposta da Lomazzo, è attenersi alla «via di mezzo» ereggersi «sempre sotto il sentimento dell’istoria, che di qui ne nasce labuona composizione, parte tanto principale nella pittura, che tanto ha del

grave e del buono, quanto è più simile al vero in tutte le parti». E a propositodella variazione, Lomazzo precisa che «si ha d’avvertire alla convenevolezaet anco all’accrescimento dell’effetto, ad imitazione de’  poeti, a quali ipittori sono in molte parti simili, massime che così nel dipingere, come nelpoetare, vi corre il furor d’Apolline, e l’uno e l’altro ha per oggetto i fattiillustri e le lodi de gl’Eroi da rappresentare. Onde soleva dir alcuno che la

poesia era una pittura parlante e la pittura era una poesia mutola».137  Da questa «conformità» tra pittori e poeti, Lomazzo trae dueconseguenze: a) non può esserci pittore «che insieme anco non abbia

qualche spirito di poesia», come nel caso di Bramante (di cui si cita il sonettocaudato Usciran fuori da le lor tombe oscure, cche allude al GiudizioUniversale)138 o di Leonardo da Vinci (ma il sonetto citato non è di Leonardo,bensì di Antonio di Matteo del Meglio «araldo della Signoria fiorentina dal1418 1l 1446»);139 b) ciascun pittore «ha avuto naturalmente un genio piùconforme ad un poeta che ad un altro; e nel suo operare ha seguito quello,come è facile a ciascuno l’osservarlo ne’  pittori moderni». E a questoproposito, scorrendo la geografia dell’arte moderna e la storia della poesia

antica e moderna, Lomazzo propone un elenco di casi di conformità tra ilgenio dell’artista (il fiorentino Leonardo, l’aretino Michelangelo, l’urbinateRaffaello, il bergamasco Polidoro da Caravaggio, il padovano Andrea

135 G. GALILEI, Considerazioni al Tasso, in Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Firenze, Le Monnier,1943, p. 96. L’intervento di Galilei è interessante anche per la fortuna in Italia della voce galleria.136 LOMAZZO, Trattato cit., vol. 2, pp. 244-5.137 Sui rapporti tra poesia e pittura cfr. i contibuti fondamentali di R.  W. LEE, Ut pictura poesis. Lateoria umanistica della pittura, Firenze, Sansoni 1974 [ed. or. New York , Norton, 1967]; C.  

OSSOLA, Ut pictura poesis, in Autunno del Rinascimento, Firenze, Olschki, 1971, pp. 33-119.138 D. BRAMANTE, Sonetti e altri scritti, a cura di C. Vecce, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 56-57.139 LOMAZZO, Trattato cit., vol. 2, p. 246, nota 4.

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Mantegna, il veneziano Tiziano, il vercellese Gaudenzio Ferrari) e il genio delpoeta (Omero, Virgilio, Dante, Petrarca, Sannazaro, Ariosto e genericamente ipoeti autori di biografie di santi140):

Leonardo ha espresso i moti e decori di Omero; Polidoro la grandezza e furia di Virgilio; ilBuonarrotto l’oscurezza profonda di Dante; Raffaello la pura maestà del Petrarca, AndreaMantegna l’acuta prudenza del Sannazaro, Tiziano la varietà dell’Ariosto e Gaudenziola devozione che si trova espressa ne’ libri de’ santi.141

 In queste sequenze, Lomazzo espone una preziosa somma degli

accostamenti tra artista e poeta, che singolarmente presi sono presenti nellaletteratura del Cinquecento,142 e redige una mappa policentrica dell’arte in

Italia, dove si registrano vie o maniere diverse e paritarie della pittura.143 A

tale proposito non è certo un caso il fatto che i sette artisti, accostati ai poetinel brano appena citato del Trattato, sono definiti in un’altra opera diLomazzo, Idea del tempio della pittura  (Milano,  Ponzio,  1590), i SetteGovernatori dell’Arte e vengono rappresentati come le colonne del tempiodella Pittura, un’arte policentrica e poligeniale.144  Nel rileggere e interpretare i passi del Trattato  in cui Ariosto e Tizianosono posti in relazione, dunque, appare evidente che, secondo Lomazzo, dauna parte Tiziano ritrattista ha colto le qualità caratterizzanti ed essenziali

140   Sui poemi agiografici nel Rinascimento cfr. M.  CHIESA,  Agiografia nel Rinascimento:esplorazioni tra i poemi sacri dei secoli XV e XVI, in Scrivere di santi. Atti del II Convegno di studidell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Napoli, 22-23 ottobre1997, a cura di G. Luongo, Roma, Viella, 1998, pp. 204-26.141 LOMAZZO, Trattato cit., vol. 2, p. 246.142 Ibidem, nota 6 (per i riferimenti bibliografici).143 BOLOGNA, La coscienza storica dell’arte d’Italia cit., pp. 112-116.144  LOMAZZO, Trattato  cit., vol. 1, pp. 278-80 («In quella guisa che questo mondo è retto egovernato da sette pianeti, come da sette colonne, […] sarà parimenti questo mio tempio di pitturasostenuto e retto da sette governatori, come da sette colonne, et imitarò in ciò Giulio Camillo nella

idea del suo teatro […]. Quella del primo è fatta di piombo con cui si viene a mostrare la salda estabile contemplazione in Michel Angelo Bonarroto, fiorentino, il quale fu pittore, scultore, statuaro,architetto e poeta, imitatore di Dante […]. La statua del secondo governatore è fatta di stagno concui si viene a significar in Gaudenzio Ferrari la maestà, la quale egli mirabilmente espresse nellecose divine, e ne’ misteri della fede nostra. […] Quella del terzo è di ferro, con cui si rappresnta inPolidoro Caldara da Caravagio la grandissima furia e fierezza c’egli diede alle sue figure. […] Lastatua del quarto è d’oro, che dimostra lo spendore e l’armonia dei lumi in Leonardo Vincifiorentino, pittore, statuaro e plasticatore, peritissimo di tutte le sette arti liberali, suonatore di liratanto eccellente che superò tutti i musici del suo tempo e gentilissimo poeta, il quale ha lasciatoscritti molti libri di matematica e di pittura […]. Quella del quinto è formata di rame, con la quale siaccenna la gentilezza, la venustà, la grazia e l’amabilità in Raffaello Sancio da Urbino, pittore etarchittetto grandissimo […]. La statua del sesto è d’argento vivo congelato, che significa la

prudenza arguta in Andrea Mantegna, pittore mantovano […]. Quella dell’ultimo è fabricatad’argento con che si dimostra la temperanza singolare in Tiziano Vecelio da Cador, rarissimopittore […]»). Sull’abbozzo della teoria dei sette governatori della pittura nelle Rime  cfr.l’Introduzione di Ciardi, ivi, vol. 1, p. LVI.

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(«facundia» e «ornamento») di Ariosto e che dall’altra parte il pittore possiedelo stesso genio del poeta nella varietà. In tal modo Lomazzo si spinge oltre leaffermazioni di Vasari nella seconda ed. delle Vite:

Fece in quel tempo Tiziano amicizia con il divino messer Lodovico Ariosto, e fu da luiconosciuto per eccellentissimo pittore, e celebrato nel suo Orlando furioso:

. . . e Tizian che onora

non men Cador che quei Vinezia e Urbino. 145 Se per Vasari il divino poeta Ariosto riconosce l’alto valore e celebra

l’eccellentissimo artista Tiziano nell’ Orlando furioso, per Lomazzo il genio diTiziano è conforme al genio di Ariosto nell’espressione della varietà. Così ildipingere con i colori dell’uno e con i versi dell’altro, la pittura e la poesia si

ritrovano più che mai arti sorelle, unite come sono da una delle tante epossibili conformità.

Il motivo della conformità dei due genii non entra nella Galeria, doveMarino preferisce insistere sulla eccellenza di Tiziano, dedicando numerosicomponimenti alle sue opere: ben cinque madrigali (In sì vivi colori; Lo stral

crudo e spietato; Sì viva è questa imago; Chi di quest’Idol sacro; Spirti furo i

colori)146 al San Sebastiano di Tiziano (Brescia, Chiesa dei Santi Nazario eCelso, 1519 ca.; San Pietroburgo, Ermitage, 1570 ca., ma il soggetto fu piùvolte replicato),147  due madrigali (Ben da mastro eccellente; Sembrò già

morto al mondo)148 al San Paolo (disperso),149 un madrigale (Crudel fu ben

colui) 150   alla Decollazione di San Giovanni Battista (disperso), 151   ungruppo di quattordici ottave (Questa, che ‘n atto supplice e pentita)152 allaMaddalena (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 1532; San Pietroburgo,Ermitage, 1565; Napoli, Galleria di Capodimonte, 1567)153. Inoltre, nellasezione dei ritratti di pittori e scultori, si legge il madrigale Tiziano di suamano, giocato sulla deriva dell’artificio in margine a uno dei due autoritrattiautografi (il primo, la cui datazione oscilla tra il 1550 e il 1562, è a Berlino,

145 VASARI, Le vite de' piu eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568  cit., vol. 6, 1987, p. 159.146 MARINO, La Galeria cit., to. 1, pp. 65-66.147 Cfr. Le opere di figura, nella ed. 2005 della Galeria cit., p. CCLXXXVII; cat. Tiziano cit., pp.368-69.148 MARINO, La Galeria cit., to. 1, pp. 66-67.149 Ivi, to. 2, pp. 237-38.150 Ivi, to. 1, p. 67.

151 Ivi, to. 2, p. 238.152 Ivi, to. 1, pp. 71-74.153 Ivi, to. 2, pp. 334-37; Le opere di figura, nella ed. 2005 della Galeria cit., p. CCXCI.

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Staatliche Museen Gemäldegalerie; il secondo, tra il 1562 e il 1567, a Madrid,Museo del Prado):154

 TIZIANO son io:m’estinse per paurad’esser da l’arte mia vinta Natura.Ma di mia man mi féi,vendicando il mio torto,immortal pria che morto.Or ecco io vivo, e ben ch’io sia pittura,ancor dipingerei,se non ch’al morir miomorir pennelli e carte,i colori moriro, e morì l’Arte.155

 

Nella prima sequenza (vv. 1-3), la competizione tra pittura e naturasembra vinta dalla natura che, temendo di essere vinta dall’arte di Tiziano, dàla morte all’artista. Nella seconda sequenza (vv. 4-6), la competizione apparevinta definitivamente dall’artista, il quale, per vendicare in vita il torto dellamorte che avrebbe subito, dipinse l’autoritratto che lo rese immortale. Nellaterza sequenza (vv. 7-11), il Tiziano dipinto vive oltre la morte fisicadell’artista, oltre le frontiere del tempo, e sente il desiderio di continuare adipingere, ma la morte fisica del grande artista aveva segnatoineluttabilmente anche la morte della grande arte. Così nella stagione della

morte dell’arte, l’arte vive attraverso le opere dei grandi artisti oramaiscomparsi e l’immagine di Tiziano pittore attraverso l’immagine di Tizianodipinto con i colori nell’autoritratto e con i versi nel madrigale di Marino.

154 Cfr. cat. Tiziano cit., rispettivamente alle pp. 326-27 e 338-39. Di Tiziano si conosce anche

l’ Autoritratto inciso di Giovanni Britto, databile intorno al 1550. Inoltre un autoritratto di Tiziano ènell’ Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza (1565; Londra, National Gallery), ivi, pp. 348-49.155 MARINO, La Galeria cit., to. 1, ivi, p. 189.

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PASQUALE SABBATINO 

IL RITRATTO DEL CARAVAGGIOL’«ORRIDO COMINCIAMENTO» DEL DECAMERON 

E L’ «INGEGNO TORBIDO E CONTENZIOSO» DELL’ ARTISTA

NELLE VITE DEL BELLORI*

1. Il boccacciano «orrido cominciamento»

Nella galleria delle Vite  (1672). abilmente costruita e raccontata dal Bellori lungol’asse vincente che va dalla figura centrale e positiva di Annibale Carracci (1560-1609),l’uomo mandato dalla provvidenza nel tempo della decadenza delle arti per farle risorgere,alla perfezione dell’artista-filosofo Nicolas Poussin (1594-1665), la biografia delCaravaggio (1571-1610) porta inevitabilmente i segni del ruolo negativo, contrastivo eperdente assegnato dall’autore all’artista lombardo. Infatti le singole biografie dei pittori,scultori e architetti moderni, pur godendo di una relativa autonomia e compiutezza, sonostate progettate per essere inserite organicamente all’interno di un disegno storiografico.

In tal modo i biografati sono i personaggi principali o secondari nei quali si incarna labelloriana visione della storia e della storia dell’arte.

Ad apertura della prima biografia, quella di Annibale Carracci, Bellori sviluppa inbuona parte il disegno storiografico, che ruota attorno al principio della perpetuavicissitudine. Già nel Cinquecento Machiavelli, Vasari e Giordano Bruno avevano applicatoil principio della perpetua vicissitudine, perno della filosofia della natura, rispettivamentealla storia politica, alla storia dell’arte e alla storia dell’uomo. Sulla base di tale principio, lastoria segue un movimento rotatorio, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, dallarovina alla rinascita e viceversa.156 

* Il saggio fa parte di una ricerca di più ampio respiro sulla biografia e sulla novella d’artista tra Cinquecentoe Seicento. Pertanto, in questa sede, i riferimenti bibliografici sono sempre mirati e strettamente funzionaliall’indagine sulla scrittura dell’arte.

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Bellori, che è fervido lettore del Vasari, fa proprio questo disegno storiografico.Infatti individua il movimento verso l’alto da parte della ruota della storia dell’arte nel lungoperiodo che va da Cimabue e Giotto fino alla prima metà del Cinquecento, ma a differenzadel Vasari colloca sul punto più alto della perfezione il «divino» Raffaello Sanzio, superioreagli artisti dell’antichità e della modernità:

Allora la pittura venne in grandissima ammirazione de gli uomini e parve discesa dal cielo quandoil divino Rafaelle, con gli ultimi lineamenti dell’arte, accrebbe al sommo la sua bellezza,riponendola nell’antica maestà di tutte quelle grazie e di que’ pregi arricchita, che già un tempo laresero gloriosissima appresso de’ Greci e de’ Romani.157

 Da questa altezza, che dà le vertigini alla storia dell’arte, parte il disegno

storiografico delle Vite  belloriane, caratterizzato dal movimento in discesa, dal declino,dalla precipitosa trasformazione dell’arte, un tempo «regina», in donna «umile e volgare».Nel tempo della decadenza i pittori abbandonarono «lo studio della natura» e «viziaronol’arte con la maniera», cioè con la «fantastica idea, appoggiata alla pratica e non

all’imitazione».La maniera, definita un «vizio» che porta alla distruzione dell’arte perché comportada una parte la negazione e la perdita del fondamentale rapporto con la natura e dall’altral’affermazione e la crescita della «fantastica idea», si diffuse largamente nel secondoCinquecento, ma le sue radici affondavano già nel secondo decennio del secolo, «inmaestri di onorato grido», come Giovanni Battista di Jacopo detto Rosso Fiorentino (1495-1540) e Jacopo Carucci detto il Pontormo (1494-1556) a Firenze, Domenico Beccafumi(1486-1551) a Siena, Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503-1540) a Parma, ecosì via di seguito in scuole vere e proprie sull’intero territorio della penisola.158

  La geografia della maniera durante la seconda metà del XVI sec. abbraccia tutte lecittà italiane e le regioni che, dal punto di vista del romano Bellori, contavano nell’arte

(Firenze e la Toscana, Roma, Venezia). L’estensione compatta della maniera, che portòalla degenerazione e distruzione dell’arte, finì col travolgere tutto e tutti, le scuole e isingoli, senza eccezione alcuna:

Questo vizio distruttore della pittura cominciò da prima a germogliare in maestri di onorato grido, esi radicò nelle scuole che seguirono poi; onde non è credibile a raccontare quanto degenerasseronon solo da Rafaelle, ma da gli altri che alla maniera diedero cominciamento. Fiorenza, che sivanta di essere madre della pittura, e ‘l paese tutto di Toscana, per li suoi professori gloriosissimo,taceva già senza laude di pennello. E gli altri della scuola romana non alzando più gli occhi a tantiessempi antichi e nuovi, avevano posto in dimenticanza ogni lodevole profitto; e se bene inVenezia più ch’altrove durò la pittura, non però quivi o per la Lombardia udivasi più quel chiaro

grido de’ colori, che tacque nel Tintoretto ultimo finora de’ veneziani pittori.159

 Nel collocare la sequenza del contagio del «vizio distruttore» ad apertura della

prima biografia, Bellori fa proprio lo schema narrativo fissato da Boccaccio nella suaraccolta di novelle e lo applica alla raccolta di biografie d’artista. Nella Introduzione  allaGiornata prima  del Decameron  Boccaccio pone i lettori-«camminanti» di fronte a un«grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità

156 Cfr. E. GARIN, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari, Laterza,1975, pp. 39-47.

157 G. P. BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, a cura di E. BOREA, Torino, Einaudi, 1976,p. 31.158 Ibidem (con la relativa nota 2).159 Ivi, pp. 31-32.

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trapassata», e questo «orrido cominciamento» appare come una vera e propria«montagna aspra e erta»160 da salire e superare.

Sulla estremità della montagna, che il lettore deve faticosamente salire, Belloricolloca un evento «incredibile a raccontarsi», l’assenza di pittori, - al punto da sembrareche il fiammingo Pietro Paolo Rubens (1577-1640), divenuto «erudito in pittura» 161  

durante il suo soggiorno italiano dal 1600 al 1608, avesse portato all’estero «i colori», - eil mancato soccorso da parte dell’unico artista residente nella penisola, l’urbinate FedericoBarocci (1528/35-1612):

né dentro, né fuori d’Italia si ritrovava pittore alcuno, non essendo gran tempo che Pietro PaoloRubens il primo riportò fuori d’Italia i colori, e Federico Barocci, che avrebbe potuto ristorare e darsoccorso all’arte, languiva in Urbino, non le prestò aiuto alcuno.162

 Per rendere ancora più grave l’«orrido cominciamento», sulla cui vetta ormai la

pittura tragicamente «volgevasi al suo fine»,163  Bellori crea l’immagine forte dell’assaltoall’arte morente da parte di due tendenze estremistiche e contrapposte («due contrari

estremi»), entrambe presenti nella Roma dell’ultimo decennio del Cinquecento. La prima,interamente soggetta «al naturale», è rappresentata dal Caravaggio, il quale «copiavapuramente li corpi come appariscono a gli occhi, senza elezzione», e la seconda, soggetta«alla fantasia», è rappresentata dal D’Arpino, il quale «non riguardava punto il naturale,seguitando la libertà dell’istinto». 164   Naturalismo e manierismo, dunque, per quantoavversari tra loro, convergono su un unico obiettivo, l’attacco da postazioni diverse alclassicismo artistico.165

 160 G. BOCCACCIO, Decameron, con le illustrazioni dell’autore e di grandi artisti fra Tre e Quattrocento, a curadi V. BRANCA, Firenze, Le Lettere, 1999, p. 54161

 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 242. 162 Ivi, p. 32.163 Ibidem.164  Ibidem. Come nota Borea, nella relativa nota 7, «la contrapposizione Caravaggio-D’Arpino […] non vaintesa come valutazione negativa allo stesso livello dei due pittori; tant’è vero che, se pure obtorto collo, datii suoi principi di irriducibile avversatore del naturalismo caraveggesco, lo scrittore pubblicherà una vita delMerisi, ma non di Giuseppe Cesari d’Arpino». 165  Nel commentare questa posizione di Bellori, E.   PANOFSKY, Idea. Contributo alla storia dell’estetica,Firenze, La Nuova Italia, 1992 (ed. or.:1924), scrive «sono da condannare i “Naturalisti” che non hanno ideeaffatto, e che, giurando sul modello, copiano pedissequamente gli oggetti di natura fin nei loro difetti; ma sonda condannare anche coloro che, senza conoscere il vero, riducono la facoltà artistica ad una meraesercitazione, e, sdegnando di studiar la natura, pretendono di lavorar “di maniera” o secondo delle mere“Idee fantastiche”, com’è detto talvolta» (p. 66). Alla base di questa posizione c’è la concezione estetica

classicistica di Bellori, formulata in modo organico nel discorso L’Idea del pittore, dello scultore edell’architetto, scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura, tenuto nell’Accademia romana di San Lucanel maggio 1664 e premesso alle Vite. Innanzitutto Bellori ferma l’attenzione sulla distinzione tra la pura eperfetta natura divina e sull’impura e imperfetta natura delle cose, tramando il testo di riferimenti ad autori(Platone e s. Tommaso) oramai divenuti canonici su questo argomento: «Quel sommo ed eterno intellettoautore della natura nel fabbricare l’opere sue maravigliose altamente in se stesso riguardando, costituì leprime forme chiamate idee; in modo che ciascuna specie espressa fu da quella prima idea, formandosene ilmirabile contesto delle cose create. Ma li celesti corpi sopra la luna non sottoposti a cangiamento, restaronoper sempre belli ed ordinati, qualmente dalle misurate sfere e dallo splendore de gli aspetti loro veniamo aconoscerli perpetuamente giustissimi e vaghissimi. Al contrario avviene de’ corpi sublunari soggetti allealterazioni ed alla bruttezza; e sebene la natura intende sempre di produrre gli effetti suoi eccellenti,nulladimeno per l’inequalità della materia, si alterano le forme, e particolarmente l’umana bellezza siconfonde, come vediamo nell’infinite deformità e sproporzioni che sono in noi» (BELLORI, Le vite de’ pittori,

scultori e architetti moderni  cit., pp. 13-14). La visione platonica di Dio che ha in sé le idee o forme idealidelle cose e quella di s. Tommaso che distingue tra le forme ideali e le cose in se stesse appartengono alpatrimonio culturale collettivo e appaiono già in coppia in F. ZUCCARI, L’idea de’ scultori, pittori e architetti (Torino, 1607, p. 448), che può essere in questa parte il referente più vicino al Discorso belloriano. Inoltre la

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La scena ormai è totalmente cupa e l’arte «caduta e quasi estinta» sta per esalarel’ultimo respiro, quand’ecco che Bellori, ancora una volta seguendo il modello narrativo delDecameron, alla montagna dell’«orrido cominciamento» fa seguire una pianura alsuperlativo bella e «dilettevole», alla «gravezza» del racconto della decadenza e dellamorte dell’arte fa seguire la piacevolezza del racconto della risurrezione con Annibale

Carracci, al dolore per le miserie la letizia per i lieti eventi. Scrive Boccaccio nellaIntroduzione alla Giornata prima:

E sí come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letiziasono terminate. A questa brieve noia (dico brieve in quanto in poche lettere si conrtiene) seguitaprestanmente la dolcezza e il piacere […]. E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altraparte menarvi a quello che io desidero che per cosí aspro sentiero come fia questo, io l’avreivolentier fatto: ma per ciò che, qual fosse la cagion per che le cose che appresso si leggerannoavvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità constrettoa scriverle mi conducono.166 

Secondo Bellori a segnare la svolta della storia dell’arte, dal basso verso l’alto,secondo il principio della perpetua vicissitudine, furono gli influssi finalmente benigni dellestelle sull’Italia e la volontà di Dio che mandò provvidenzialmente in Bologna l’uomo cheoperò la risurrezione dell’arte:

Così quando la pittura volgevasi al suo fine, si rivolsero gli astri più benigni verso l’Italia, e piacque a Dio chenella città di Bologna, di scienze maestra e di studi, sorgesse un elevatissimo ingegno, e che con essorisorgesse l’arte caduta e quasi estinta. Fu questi Annibale Carracci, di cui ora intendo scrivere, cominciandodall’indole ornatissima ond’egli inalzò il suo felice genio, [ha] accoppiando due cose raramente concesse agli uomini, natura ed arte in somma eccellenza.167

 

sequenza della cosmologia ci presenta ancora, per usare un’espressione pirandelliana, un cielo di carta, masenza lo strappo provocato da Copernico, Bruno e Galilei. Senza alcuna curiosità per questa produzionefilosofica e scientifica, che pure aveva cambiato la cosmologia e sostituito il cielo aritotelico-tolemaico conquello copernicano, Bellori ridisegna il mondo alla vecchia maniera, con la parte sopralunare, dove i corpi,composti di materia cristallina e perfetta, sono sempre belli, ordinati e immutabili, e la parte sublunare, dove icorpi, composti di materia imperfetta, sono soggetti alla mutazione, alla bruttezza e al disordine, conl’inevitabile alterazione delle forme ideali. Come la naturale bellezza anche l’umana bellezza, che è fatta dimateria imperfetta, presenta «infinite deformità e sproporzioni», le quali sono escluse, secondo il classicistaBellori, dallo statuto delle arti, impegnate a rappresentare unicamente il bello, l’ordine, l’armonia. Per questol’artista deve operare a imitazione di Dio, il primo architetto del mondo e il primo scultore e pittore dell’uomo,costruendo «un esempio di bellezza superiore» dentro di sé, nella mente. Tale processo partenecessariamente dall’osservazione della natura e quindi delle bellezze inferiori, passa attraverso la elezione

delle parti più belle e giunge alla formazione dell’idea di bellezza. L’esempio di bellezza superiore, secondoBellori, non proviene da Dio, né è innato nell’uomo, anzi ha origine dalla natura ed è una conquista dellostudio dell’artista. Questo primo traguardo costituisce poi la premessa per la seconda partita da giocare conla natura. Infatti l’artista, oramai in possesso dell’esempio di bellezza superiore, che ha origine dalla naturaed è nella mente, può finalmente rappresentare questa idea, il vero originale di ciascuna opera d’arte, con ilrisultato che la natura rappresentata è una natura emendata: «Il perché li nobili pittori e scultori quel primofabbro imitando, si formano anch’essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando,emendano la natura senza colpa di colore e di lineamento. Questa idea, overo dea della pittura e dellascultura, aperte le sacre cortine de gl’alti ingegni de i Dedali e de gli Apelli, si svela a e discende sopra imarmi e sopra le tele; originata dalla natura supera l’origine e fassi originale dell’arte, misurata dal compassodell’intelletto, diviene misura della mano, ed animata dall’immaginativa dà vita all’immagine. Sonocertamente per sentenza de’ maggiori filosofi le cause esemplari ne gli animi de gli artefici, le quali risiedonosenza incertezza perpetuamente bellissime e perfettissime. Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto

ed eccellente esempio della mente, alla cui immaginata forma imitando, si rassomigliano le cose che cadonosotto la vista» (BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 14).166 BOCCACCIO, Decameron cit., p. 54.167 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., pp. 32-33.

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L’incipit  della biografia di Annibale Carracci, con cui decolla questa secondarinascita, ha tutti gli ingredienti dell’incipit  della vita di Cimabue che apre la raccoltavasariana delle Vite:

Erano per l’infinito diluvio dei mali, che avevano cacciato al di sotto et affogata la misera Italia, non

solamente rovinate quelle che chiamar si potevano fabriche, ma, quel che importava assai più,spentone affatto tutto ‘l numero degli artefici, quando (come Dio volse) nacque nella città diFiorenza l’anno MCCXL, per dare i primi lumi all’arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue,della famiglia de’ Cimabuoi in quel tempo nobile…168

 Come si può rilevare dalla collazione dei due incipit, la successione boccacciana

delle sequenze narrative montagna e pianura, gravezza dell’«orrido cominciamento» epiacevolezza della pianura bellissima e dilettevole, era già stata applicata alle biografied’artista dal Vasari. Lungo questa strada il modello narrativo del Boccaccio mostra diessere tentacolare, per cui dalla raccolta di novelle si estende anche alle raccolte dibiografie d’artista e giunge attraverso il Vasari al Bellori, dal Cinquecento al Seicento.

2. Caravaggio e l’«ingegno torbido e contenzioso» dell’artista maledetto 

Bellori crea la biografia del Caravaggio da una costola dell’«orrido cominciamento»,per cui assegna al pittore un ruolo essenzialmente negativo all’interno del disegnostoriografico sull’arte moderna tra Cinquecento e Seicento. Per costruire il personaggionegativo, Bellori monta abilmente una biografia attraversata soprattutto da forze centripete,per cui in gran parte i singoli elementi convergono verso il centro, l’«ingegno torbido econtenzioso» dell’artista, 169   in antitesi all’«indole ornatissima» 170   dell’eroe positivo,Annibale Carracci.

All’«ingegno torbido e contenzioso» del Caravaggio, Bellori fa risalire molti eventi.È il caso delle «discordie» che lo costrinsero a scappare da Milano, dove adolescente siera adattato «a far le colle ad alcuni pittori che dipingevano a fresco». 171  Si ha notiziadell’apprendistato del Caravaggio presso ill maestro bergamasco Simone Peterzano (è aMilano tra il 1573 e il 1596), Il quale si firmava Titiani alumnus, «quasi fosse un quarto dinobiltà».172 Nella bottega milanese del Peterzano il tredicenne Caravaggio entrò nell’apriledel 1584 e lavorò per circa quattro anni, «facendo ritratti».173 

È il caso ancora del soggiorno a Roma – a partire dal 1591 o più probabilmentedalla seconda metà del 1592174  - dove all’inizio il ventenne Caravaggio «dimorò senza

168 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri.Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino. Firenze 1550, a cura di L. BELLOSI e A. ROSSI, presentazione diG. PREVITALI, Torino, Einaudi, 1986, p. 103.169 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 212.170 Ivi, p. 33.171  Ivi, p. 212. Secondo Bellori le pessime condizioni economiche di Michelangelo Merisi sono dovute alpadre Fermo, che era muratore. Ma oramai è stato acquisito che Franco Merisi «era ‘maestro di casa’ deimarchesi di Caravaggio ed esercitava, sia pure modestamente, il mestiere di architetto, come si ricava dalMancini; “assai da bene”, lo definisce il Baglione (circa 1625). […] Doveva trattarsi, in sostanza, di unafamiglia abbastanza agiata, della piccola nobiltà locale» (M.  CALVESI, Le realtà del Caravaggio, Torino,Einaudi, 1990, pp. XXV-XXVI).172 M. MARINI, Caravaggio: l’”incipit” tra Lombardia e Venezia, nel catalogo Caravaggio. La luce nella pitturalombarda, Milano, Electa, 2000, p. 46.

173 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 212.174  Sulla oscillazione della data cfr. M.  CINOTTI  in Il Caravaggio e le sue grandi opere da San Luigi deiFrancesi, testo di G. A. DELL’ACQUA, Milano, Rizzoli,  1971, pp. 61-64; EAD., La giovinezza di Caravaggio.Ricerche e scoperte, in AA.VV., Novità su CaravaggioI, Milano, Regione Lombardia, 1975, pp. 208-12.

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ricapito e senza provedimento, riuscendogli troppo dispendioso il modello, senza il qualenon sapeva dipingere, né guadagnando tanto che potesse avanzarsi le spese».175 Spintodalla «necessità», nel giugno del 1593 Caravaggio «andò a servire» il pittore GiuseppeCesari detto il cavalier d’Arpino (1568-1640), allora ritenuto l’erede dei maestri delCinquecento e in particolare di Raffaello Sanzio e oggi comunemente considerato voce

autorevole del manierismo,176 e si adattò «di mala voglia» per circa otto mesi a dipingerenature morte, con fiori e frutta. Tra queste, Bellori segnala «una caraffa di fiori con letrasparenze dell’acqua e del vetro e coi riflessi della fenestra d’una camera, sparsi li fiori difreschissime rugiade» e molto genericamente «altri quadri», tutti fatti «eccellentemente […]di simile imitazione». In seguito, secondo il racconto di Bellori, mosso dal «gran rammaricodi vedersi tolto alle figure», Caravaggio passò alla bottega del pittore bresciano Prosperinodelle Grottesche (nato nel 1558). Appartengono a questo periodo romano, tra le opere piùimportanti, il Ragazzo che sbuccia un merangolo (Roma, collezione privata), l’ Autoritrattocome Bacco coronato d’edera  (Roma, Galleria Borghese), il Ragazzo con una caraffa dirose (già Londra, vendita Christie’s, n. 21, 14 dicembre 1983) e il Ragazzo con canestrodi frutta (Roma, Galleria Borghese).177

  Sulla scena della Roma dell’ultimo decennio del Cinquecento e dei primi anni delSeicento, dominata dalla figura di papa Clemente VIII (1592-1605), 178   Bellori situa lascelta radicale di dipingere «secondo il suo proprio genio», imitando «la sola natura», e laricca produzione di questi anni. Tuttavia, nonostante gli impegni artistici, puntualizzaBellori, Caravaggio «non […] rimetteva punto le sue inquiete inclinazioni» ed era solito,dopo le ore dedicate alla pittura, attraversare la città «con la spada al fianco» e fare«professione d’armi»,179 di cui aveva verosimilmente una dotazione personale da duello ei singoli pezzi furono utilizzati anche in pittura come modelli per le numeroserappresentazioni. 180   A tale proposito Bellori racconta l’epilogo tragico avvenuto il 28maggio 1606, in occasione di una partita di pallacorda, quando, a seguito di una ennesimarissa, 181   il trentacinquenne Caravaggio ferì mortalmente il giovane amico RanuccioTomassoni da Terni182 in Campo Marzio, nei pressi di Palazzo Firenze, residenza del card.Del Monte:

Venuto però a rissa nel giuoco di palla a corda con un giovine suo amico, battutisi con le racchettee prese l’armi, uccise il giovine, restando anch’egli ferito.183

 175 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 213.176 Cfr. K. HERRMANN FIORE, Caravaggio e la quadreria del Cavalier D’Arpino, nel catalogo Caravaggio. Laluce nella pittura lombarda cit., pp. 57-76; S. CORRADINI –  M. MARINI, Roma 1605: lo strano furto di “…unalama di spada… di M[aestro]. Michelangelo da Caravaggio Pittore”, ivi, pp. 102-7.177 Cfr. le relative schede nel catalogo Caravaggio e il suo tempo (Napoli, Museo Nazionale di Capodimente,14 maggio- 30 mgiugno 1985), Napoli, Electa, 1985, pp. 200 ss.178  CALVESI, Le realtà del Caravaggio  cit., p. 118: il papa fu eletto «in un conclave pilotato […] dagliOratoriani e da Federico Borromeo, e andato in porto grazie al contributo di Ascanio Colonna, fratello dellamarchesa di Caravaggio. Clemente VIII fu vicino agli Oratoriani, quindi al Borromeo, scegliendo per altrocome proprio consigliere artistico un fraterno amico di questi, il Baronio».179 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 224.180 Cfr. F. ROSSI, Caravaggio e le armi. Immagine descrittiva, valore segnico e valenza simbolica, nel cat.Caravaggio. La luce nella pittura lombarda cit., pp. 77-88.181  Sui moventi dell’omicidio in Campo Marzio, presentato dal Bellori come esito di un contrasto nel giocodella pallacorda, sono state avanzate nuove ipotesi: fr. M.  MARINI, Caravaggio «pictor praestantissimus».L’iter artistico completo di uno dei massimi rivoluzionari dell’arte di tutti i tempi, Roma, Newton & Compton,2001, pp. 66—67.

182 Sull’aggressività di Ranuccio Tomassoni, che era solito andare in giro ben armato, con «spade, pugnaliet pistole prohibite» cfr. S. MACIOCE, Attorno a Caravaggio. Notizie d’archivio, «Storia dell’Arte», n. 55, 1985,pp. 289-91.183 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 224.

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 La sentenza di morte, emessa da Paolo V Borghese (salito al soglio pontificio nel

1605), la fuga da Roma «senza denari» nei feudi (Zagarolo e Paliano) dei Colonna –Bellori indica per Zagarolo «come sarebbe giusto» il nome di di Marzio Colonna -,184  iltimore di cadere nella rete della giustizia rendono piuttosto mosse e movimentate le ultime

sequenze del racconto biografico. Dapprima Caravaggio «prese il camino per Napoli»,185 dove soggiornò tra l’ottobre del 1606 e i primi mesi del 1607, poi nel mese di luglio sitrasferì nell’isola di Malta spinto dal desiderio di ricevere la croce dei Cavalieri dell’Ordinedi San Giovanni data solitamente «ad uomini riguardevoli per merito e per virtù». 186  Guadagnatosi il favore del gran maestro dell’ordine il francese Alof de Wignacourt, ritratto«in piedi armato» assistito da un paggetto - la tela è oggi al Louvre – e ancora «a sederedisarmato nell’abito di Gran Maestro» – di quest’opera non si hanno notizie 187   -, ericevuta «in premio la croce»,188 che gli consentiva di vivere nell’isola «con decoro dellasua persona ed abbondante di ogni bene», Caravaggio «in un subito» fu travolto dallariemersione violenta del suo «torbido ingegno», 189   che gli fece perdere quanto avevarealizzato. Nell’agosto 1608, una nuova lite, questa volta con un cavaliere, fu la causa

della carcerazione dell’artista190 nella Fortezza di Sant’Angelo, sopra il porto di Valletta, dadove, prostrato «a mal termine di strappazzo» e assalito dal «timore», Caravaggio decisedi «liberarsi», senza attendere il giudizio della corte, e «si espose» con una rocambolescaevasione a «gravissimo pericolo». Inoltre, violando l’obbligo per i cavalieri di non lasciareMalta senza l’autorizzazione del Gran Maestro, fuggì dall’isola rapidissimamente e

184 CALVESI, Le realtà del Caravaggio  cit., p. 119: «è invece inesatto comprendere, secondo l’uso invalsonella letteratura caravaggesca, anche Paliano e Palestrina nei suoi feudi [di Marzio Colonna]. Il ramo deiColonna di Zagarolo […] si era staccato da quello di Paliano». Marzio Colonna, come ricorda Calvesi,«possedeva un’importante collezione di statue e lapide antiche», «aveva una gran passione antiquaria(come il suo avo Francesco, autore della Hypnerotomschia) ed era in possesso di una licenza per scavarequalsiasi oggetto archeologico» (ivi, pp. 121-22).185 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 225.186 Ivi, p. 226.187 Cfr. M. MAINDRON, Le Portrait du G. M. Alof de Vignacourt au Musée du Louvre, «Revue de l’Art ancienet moderne», 1908, pp. 241-60; M.  GREGORI, A new Painting and some observations on Caravaggio’sJourney to Malta, «The Burlington Magazine», CXVI, 1974, pp. 594-603; M.  MARINI, Tre proposte per ilCaravaggio meridionale, «Arte illustrata», IV, 1971, nn. 43-44, pp. 56-57. Questo ritratto è «probabile sirispecchi in una mediocre tela conservata nel Collegio dei Canonici della Grotta di San Paolo a Rabat, Malta,che sarebbe firmata da Gian Domenico Corso e datata 1617, e di cui si conosce un altro esemplare a figuraintera nella chiesa sopra la Grotta di San Paolo» (cfr. la scheda di M. GREGORI, in Caravaggio e il suo tempo cit., p. 328).188 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 226.

189 Ivi, p. 227.190 A questo proposito è stata avanzata in via ipotetica una diversa lettura della causa della carcerazione.Cfr. A.  OTTINO DELLA CHIESA, L’opera completa del Caravaggio, presentazione di R.  GUTTUSO, Milano,Rizzoli, 1967, p. 84; M. MARINI, Io Michelangelo da Caravaggio, Roma, Studio B di Sestetti e Bozzi, 1974, p.45. Su questa linea è anche CALVESI, Le realtà del Caravaggio  cit., pp. 138-39: dagli onori che a Maltafurono tributati al Caravaggio si «può ben dedurre che l’omicidio» di Ranuccio Tomassoni «fosse statotaciuto», per cui «l’espulsione […] sarebbe intervenuta quando il fatto si venne a risapere». E la vicendaviene così ricostruita: «Il “cavaliere di Giustizia” (Baglione) con cui il Caravaggio sarebbe “venutoimportunamente a contesa” (Bellori) a causa del suo “torbido ingegno” (Bellori) è con ogni probabilità,proprio quel Hyeronimo de Varayz che fece incarcerare il pittore, come risulta dai documenti maltesi. È vero,come osserva Marini, che Hyeronimo de Varayz era “procurator fiscalis Religionis”, ossia inquisitore-rappresentante dell’Ordine, ma appunto in questa veste (non di parte lesa, cioè, bensí di magistrato) egliavrà fatto imprigionare il Caravaggio. I biografi, orecchiando, dovettero supporre che ciò avvenisse a causa

di un’offesa recatagli. In realtà, è verosimile che il De Varayz fosse stato informato dell’omicidio commesso aRoma, e che nella sua funzione di “procurator fiscalis Religionis” facesse arrestare il latitante. Il Caravaggiorisulta, dai documenti, detenuto “ad istantiam” del Varayz, ed è poi lo stesso Varayz che ne denuncia la fuga.Sembra una persecuzione, ma è solo una serie di atti dovuti d’ufficio».

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raggiunse come uno «sconosciuto» la Sicilia. L’episodio, descritto in modo sommario esolo recentemente documentato e chiarito nella sua dinamica grazie allo storico maltesedell’arte Keith Sciberras, 191   aggiunge nella biografia un altro anello alla catena delleviolenze dell’artista:

Ma in un subito il suo torbido ingegno lo fece cadere da quel prospero stato e dalla benevolenzadel Gran Maestro, poiché venuto egli importunamente a contesa con un cavaliere nobilissimo, furistretto in carcere e ridotto a mal termine di strappazzo e di timore. Onde per liberarsi si espose agravissimo pericolo, ed iscavalcata di notte la prigione fuggì sconosciuto in Sicilia, così presto chenon poté essere raggiunto.192

 Il finale della biografia è un crescendo che prepara i lettori al tragico epilogo. Infatti,

in Sicilia, Caravaggio si sentiva perseguitato dalla «disgrazia» e in preda al «timore» diessere preso si spostava da latitante tra Siracusa, Messina e Palermo. Nel 1609, «non siassicurando di fermarsi più lungamente in Sicilia», lasciò l’isola e navigò alla volta diNapoli, dove pensava di trattenersi, da una parte con la segreta speranza di poter fare

ritorno a Roma non appena «avesse ricevuto la nuova della grazia della suaremissione»193   per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni da Terni, dall’altra con la fattivavolontà di «placare» il Gran Maestro dell’Ordine di Malta, al quale «mandò in dono unamezza figura di Erodiade con la testa di San Giovanni nel bacino».194  Tuttavia le coseprecipitarono anche a Napoli, dove subì una violenta aggressione e fu persino sfregiato«nel viso»195 mentre stava sulla porta dell’osteria del Cerriglio, allora tappa obbligata nonsolo per i napoletani ma anche per i forestieri, per di più luogo privilegiato della letteratura.E tra i frequentatori più assidui dello «studio dell’osteria del Cerriglio» troviamo anchePulcinella, la maschera che incarna l’opposizione alla cultura ufficale degli Studi, come silegge nella commedia La Lucilla costante (1632) del capuano Silvio Fiorillo.196 

La solitudine del Caravaggio durante la tragica morte chiude coerentemente il

cerchio attorno al personaggio negativo. Allontanatosi da Napoli «sopra una feluca», unveliero che era diretto allo Stato dei Presidi spagnoli sull’Argentario per poi tornare nellacapitale del viceregno spagnolo, Caravaggio «s’inviò» a Roma, dove il cardinale Gonzagagli aveva ottenuto la grazia del papa Paolo V. Le battute che seguono tolgono il respiro allettore e portano alla scena finale della morte. Giunto sulla «spiaggia» di Palo (Roma),Caravaggio fu arrestato dalle guardie spagnole per errore, al posto di un altro, e fucondotto in prigione. Rilasciato ben presto, cercò sotto il caldo sole dell’estate le sue«robbe» (gli effetti personali e il quadro di San Giovanni Battista commissionatogli dal card.Scipione Borghese)197  e la «feluca» lungo la spiaggia, spingendosi sino a Port’Ercole(Grosseto), ma senza alcun risultato. Profondamente amareggiato e «agitato miseramenteda affanno e da cordoglio», Caravaggio «si abbandonò» su quella spiaggia, dove fu

«sorpreso da febbre maligna», che lo divorò «in pochi giorni», all’età di «circa»quarant’anni.198

 191 K. SCIBERRAS, «Frater Michael Angelus in tumultu»: the cause of Caravaggio’s imprisonment in Malta,«The Burlington Magazine», CXLIV, 2002, pp. 229-32.192 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 227.193 Ivi, p. 211.194 Ibidem. Alcuni identificano il dipinto con Salomè dell’Escorial, altri con Salomè di Londra. Cfr. la schedadi M. GREGORI, in Caravaggio e il suo tempo cit., pp. 335-36.195 CALVESI, Le realtà del Caravaggio cit., p. 147: «Si trattava, secondo il Baglione e il Bellori, di emissari delsuo “nemico” maltese che lo “perseguitava”, quindi ben verosimilmente di gendarmi che attuavano il

mandato di cattura».196 P. SABBATINO, Giordano Bruno e la “mutazione” del Rinascimento, Firenze, Olschki, 1993, pp. 58-59.197 Il quadro San Giovanni Battista si trova oggi nella Galleria Borghese, Roma.198 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 228.

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Le ultime sequenze del racconto biografico, che sigillano con il «moriredisgraziatamente in una spiaggia», 199   per di più «deserta», 200   il vivere disgraziato esolitario di Caravaggio, sono scritte parallelamente e in margine alle ultime sequenze dellaprecedente biografia del Caravaggio firmata dal Baglione, il quale aveva già evidenziatopiù volte il viver «male» dell’artista, concluso con l’inevitabile morir «malamente», da solo

e in una spiaggia deserta:

ma per esser perseguitato dal suo nemico, convennegli tornare alla città di Napoli; e quiviultimamente essendo da colui giunto [il cavaliere di giustizia con cui litigò a Malta], fu nel viso cosìfattamente ferito, che per li colpi quasi più non si riconosceva, e disperatosi della vendetta, contutto ch’egli vi si riprovasse, misesi in una felluca con alcune poche robe, per venirsene a Roma,tornando sotto la parola del cardinal Gonzaga, che co ‘l pontefice Paolo V la sua remissionetrattava. Arrivato ch’egli fu nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione, e posto dentro le carceri, oveper due giorni ritenuto, e poi rilassato, più la felluca non ritrovava sì che, postosi in furia, comedisperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del sol leone a veder se poteva in mareravvisare il vascello, che le sue robe portava. Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggiamisesi in letto con febre maligna; e senza aiuto umano tra pochi giorni morì malamente, come

appunto male avea vivuto.201

 Si consolida così, dal Baglione al Bellori, il mito dell’artista maledetto, personaggio

negativo, segnato dal temperamento violento e litigioso, che fu all’origine di tutti i suoi malie di tutte le sue disavventure. In aggiunta, secondo le leggi della fisiognomica, giàlargamente diffusa nel Rinascimento,202 Bellori fa sì che l’interno del Caravaggio, il suoingegno torbido e contenzioso, trovi corrispondenza all’esterno, di cui a bella postaevidenzia in generale il «color fosco» e in particolare gli occhi «foschi», le ciglia e i capellineri. Persino le abitudini quotidiane e l’abbigliamento rispecchiano la sua torbidezzainteriore, con l’uso di un abito confezionato con «drappi e velluti nobili» ma portato fino aquando «non gli cadeva in cenci», con una negligenza al superlativo nelle pulizie personalie con il mangiare mattina e sera per numerosi anni «sopra la tela di un ritratto».203  Ildisprezzo per l’arte del Caravaggio e il disprezzo per i modi di vita sono in Bellori due voltidi una stessa medaglia,204  la quale rappresenta l’esatto contrario di quello che lo stesso

199 Ivi, p. 214.200 Ivi, p. 211.201  G. BAGLIONE, Le vite de’ Pittori, Scultori et Architetti dal Pontificato di Gregorio XIII dal 1572 infino a’

tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, Fei, 1642 . Si cita dalla ristampa anastatica: Bologna, Forni,1975, pp. 138-39.202 Cfr. L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino,Einaudi, 1995, pp. 164 ss.; P. CASTELLI, «Viso cruccioso e con gli occhi turbati». Espressione e fisiognomicanella trattatistica d’arte del primo Rinascimento, in L’ideale classico a Ferrara e in Italia nel Rinascimento , acura di P.  CASTELLI, Firenze, Olschki, 1988, pp. 41 ss.; P.  SABBATINO, Scrittura e scultura nell’umanistanapoletano Pomponio Gaurico, in P. GAURICO, De Sculptura, a cura di P. Cutolo, saggi di F. Divenuto, F.Negri Arnoldi, P. Sabbatino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999, pp. 22-23; Il volto e gli affetti.Fisiognomica ed espressione nelle arti del Rinascimento. Atti del convegno di studi, Torino, 28-29 novembre2001, a cura di A. Pontremoli, Firenze, Olschki, 2003.203 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 214.204 CALVESI, Le realtà del Caravaggio cit., p. 336 («il disprezzo che il Bellori ha per questi modi, è lo stesso(ideologico e ‘politico’) che manifesta per la sua pittura, colpevole di aver promosso ‘l’imitazione delle cose

vili, ricercandosi le sozzure, e le deformità; […] calze, brache e berrettoni […] le rughe e i difetti della pelle edintorni […] le dita nodose, le membra alterate da morbi’; ovvero è lo stesso disprezzo del Baglione, davantialla Madonna di Loreto, per i ‘due pellegrini, uno co’ piedi fangosi e l’altra con una cuffia sdrucita, esudicia’»).

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Bellori perseguiva, la moralizzazione dell’arte e la moralizzazione della vita, avendo fattopropria la linea politica francese in materia d’arte a Roma.205

Caravaggio, dunque, è un vero antieroe, a tutto tondo, di fronte al quale Bellori puòscolpire la gigantesca figura di Annibale Carracci, il vero eroe, l’artista benedetto, ilpersonaggio positivo, segnato dall’indole ornatissima, che fu all’origine della sua missione

di far risorgere l’arte classicistica.206  Nel rafforzare la struttura binaria del suo romanzostorico sull’arte, fondata sulla compresenza dell’eroe e dell’antieroe, Bellori anticipa lamorte del Caravaggio di un anno, datandola nel 1609.207 Con questo espediente vienecreato il mito dell’«anno funesto per la pittura»,208 con la scomparsa di Caravaggio e diAnnibale Carracci, l’antieroe e l’eroe, a cui va aggiunta la scomparsa di Federico Zuccari,ma a quest’ultimo, esponente del manierismo, Bellori assegna nelle Vite il ruolo marginaledella comparsa.

3. «Intento a riguardare la natura»: il Demetrio dell’età moderna e l’anti-Zeusi

L’esordio della vita del Caravaggio offre al lettore la chiave e la sintesi del pensierocritico del classicista Bellori sulla funzione sostanzialmente negativa e dannosa delnaturalismo di Caravaggio:

Dicesi che Demetrio antico statuario fu tanto studioso della rassomiglianza che dilettossi piùdell’imitazione che della bellezza delle cose; lo stesso abbiamo veduto in Michelangelo Merigi, ilquale non riconobbe altro maestro che il modello, e senza elezzione delle megliori forme naturali,quello che a dire è stupendo, pare che senz’arte emulasse l’arte (p. 201) .209

 Utilizzando un paragone già presente in Giovan Battista Agucchi (1615 c.):210

 

il Caravaggio eccellentissimo nel colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietrol’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine.211

 205 L. SPEZZAFERRO. Caravaggio, nel catalogo L’idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con GiovanPietro Bellori, to. II, Roma, Edizioni De Luca, pp. 273-74, sottolinea che occorre tener «presente comequesta rappresentazione di genio e sregolatezza non sia stata fatta da uno scrittore dell’Ottocento bensì daun uomo del secolo in cui si veniva sviluppando quella società di corte nella quale, come ci ha da tempoinsegnato Elias, comportamenti etichette e cerimoniali avevano un senso preciso. La questione […] siriallaccia concretamente a quanto il Bellori stava operando in senso accademico nel momento in cuipubblica le sue Vite. Il 1672 è infatti oltre che l’anno in cui egli pubblica il suo libro anche quello in cui l’amicoCharles Errard, fondatore e direttore dell’Accademia di Francia a Roma, diviene Principe della romanaAccademia di San Luca: preludio questo alla fusione, breve ma politicamente rilevantissima, delle dueAccademie che si realizzerà negli anni immediatamente successivi. Se si tiene presente tutto ciò – esoprattutto il ruolo che, per la politica di Colbert, di cui l’Errard era il ministro a Roma, aveva lamoralizzazione dell’arte e soprattutto della vita e dei comportamenti degli artisti – si capisce meglio perché ilBellori, partecipe e corresponsabile della politica francese a Roma, insiste tanto nello stigmatizzare i cattivicomportamenti e i costumi spregevoli del Caravaggio. […] leggere tutte le Vite del Bellori – e non solo quelladel Caravaggio – tenendo presente gli interessi francesi a Roma e i personaggi che li interpretavano, èprobabilmente la strada più produttiva […]».206 Cfr. C. STRINATI, Note biografiche su Caravaggio, in Caravaggio. La luce nella pittura lombarda cit., pp.28-37.207 Per una ricostruzione aggiornata degli eventi che portarono l’artista alla morte cfr. V.  PACELLI, L’ultimoCaravaggio 1606-1610. Il giallo della morte: omicidio di Stato? , Todi (Perugia), Ediart, 2002.208 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., pp. 228-29.

209 Ivi, p. 201.210  D.  MAHON, Studies in Seicento Art and Theory, London, The Warburg Institute, 1947, p. 257.211 Si cita da Immagine del Caravaggio. Mostra didattica itinerante, a cura di M. Cinotti, Cinisello Balsamo(Milano), Arti Grafiche A. Pizzi, 1973, p. 115.

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 Bellori definisce Caravaggio il nuovo Demetrio. Come nell’antichità lo scultore Demetrioimitò il vero di natura più che la «bellezza delle cose», così nell’età moderna Caravaggioha scelto di non avere «altro maestro che il modello»,212 di volta in volta selezionato, con ilrisultato di raffigurarlo interamente, nei suoi tratti belli e inevitabilmente nei suoi tratti brutti,

così come si presenta all’occhio fisico. Sulla dipendenza di Caravaggio dal modello,«senza il quale non sapeva dipingere»,213 Bellori insiste ripetutamente lungo il raccontobiografico, dando una valenza negativa a quanto si trova testimoniato concordementenelle prime fonti edite ed inedite, le quali - come scrive Bologna - insieme costituivano «giàun’interpretazione».  214  Nel 1603 Karel van Mander, utilizzando le notizie inviategli daRoma da Floris Claeszoon van Dyck, aveva annotato:

Egli dice infatti che tutte le cose non sono altro che bagattelle, fanciullaggini o baggianate –chiunque le abbia dipinte – se esse non sono fatte dal vero, e che nulla vi può essere di buono o dimeglio che seguire la natura, e questa copia dipingendo.215

 

Nel primo decennio del Seicento, il giureconsulto romano Marzio Milesi, di originebergamasca, aveva celebrato l’amico e coetaneo pittore in un gruppo di undicicomponimenti volgari, il cui autografo è stato recentemente rinvenuto. 216  In particolareMilesi aveva qualificato il «naturalismo caravaggesco in opposizione polemica, concreta, amaniere diverse, più affidate all’artificio concettuale e tecnico»217 nell’ottava (con schemametrico ABABACCC):

Cedano a voi gl’antichi, et i più illustripittor del secol nostro, Angel Michele,e siano immortali, e gl’anni, e i lustrii color vostri, e le pregiate tele.

Fingha altri pur le cose, adombre, e lustri,voi vive e vere le rendete, intantoche ben vi si conviene il pregio, e ‘l vanto,che vi dà con la cetra altri e co’l canto.218

 Nell’ottava successiva (con schema metrico ABABABCC) Milesi aveva espresso il

suo entusiasmo per la pittura del Caravaggio e aveva rivolto a tutti un appello, costruendol’incipit sul verso dantesco di Inf ., IV, 80 («Onorate l’altissimo poeta»), con il quale uno deipoeti del Limbo saluta Virgilio esprimendo il sentimento di tutti:

Ammirate l’altissimo Pittore,

ch’a quanti pria ne furo passa avanti;a celebrarlo vengha almo scrittore,degno ben di gran pregi, e sommi vanti.Stupisce il mondo, e viene a fargli honore

212 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 201.213 Ivi, p. 202.214 BOLOGNA, L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle cose naturali, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 145. Si rimanda all’intero paragrafo («Imitar bene le cose naturali»: la dichiarazione d’intenti delCaravaggio e la testimonianza delle fonti, ivi, pp. 144-49) per un’analisi esaustiva delle fonti.215  La trad. it. di G. Prampolini si cita da Immagine del Caravaggio, cit., p. 115.216   G.  FULCO, «Ammirate l’altissimo pittore»: Caravaggio nelle Rime inedite di Marzio Milesi, in La

«meravigliosa» passione. Studi sul Barocco tra letteratura ed arte , Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 415-61. In Appendice sono stampati i componimenti (pp.461-72).217 Ivi, p. 447.218 Ivi, pp. 467-68.

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Con l’ingegni sublimi tutti quanti.Felice secol nostro, in cui si vedeQuel che d’antica età si scrive, e crede.219

 Più tardi, nelle Considerazioni sulla pittura  (1620), il senese Giulio Mancini aveva

esteso alla scuola del Caravaggio l’osservazione del vero:Questa schola [di Caravaggio] … è molto osservante del vero che sempre lo tiene davanti mentrech’opera.220

 Il medico di Forlì Francesco Scannelli nel Microcosmo della pittura  (1657) aveva

definito Caravaggio «unico mostro di naturalezza» e «primo capo de’ naturalisti».221 L’uso,introdotto da Scannelli a proposito del Caravaggio, della voce naturalismo come categoriastoriografica viene rafforzato da Bellori sia nel discorso L’Idea del pittore, dello scultore edell’architetto, scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura  tenuto nell’Accademiaromana di San Luca nel maggio del 1664 e premesso alle Vite:

quelli, che si gloriano del nome di naturalisti, non si propongono nella mente idea alcuna; copiano idifetti de’ corpi, e si assuefanno alla bruttezza ed a gli errori, giurando anch’essi nel modello comeloro precettore […].222

 sia lungo la biografia del Caravaggio223 e nella parte finale, dove introduce brevi biografiedi artisti caravaggeschi (Bartolomeo Manfredi, Carlo Saraceni, Jusepe de Ribera detto loSpagnoletto, Jean de Boulogne detto il Valentin, Gerrit van Honthorst detto Gherardodelle Notti):

Molti furono quelli che imitarono la sua maniera nel colorire dal naturale, chiamati perciò naturalisti;

e tra essi annoteremo alcuni che hanno maggior nome.224 In aggiunta, sempre nel citato esordio della biografia di Caravaggio, Bellori si

mostra particolarmente attento nel delineare il profilo del Caravaggio non solo attraversoun primo ed esplicito paragone, con Demetrio, ma anche attraverso un secondo ecapovolto paragone, con Zeusi, simbolo ormai dell’arte classicistica, di cui Caravaggio è lanegazione sistematica e Bellori è il fautore convinto. Per raffigurare la perfetta bellezza diElena nel tempio di Crotone dedicato alla dea Giunone, secondo la fonte ciceroniana delDe inventione, Zeusi dapprima selezionò con giudizio le cinque vergini più belle e poi daciascuna elesse le parti più perfette, dando vita nell’insieme a un’immagine di pienabellezza non presente nella natura, anzi collocabile al di sopra della natura.225 In gara con

219 Ivi, p. 468.220  G. MANCINI, Considerazioni sulla pittura, pubblicate per la prima volta da A. MARUCCHI con il commentodi L. SALERNO, I, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei (Fonti e documenti per la Storia dell’Arte), 1956, p.108.221 F. SCANNELLI, Il microcosmo della pittura, a cura di R. Lepore, con saggio bio-bibliografico di G. Giubbini,Bologna, Cassa di Risparmio di Forlì, 1989 (rist. anastatica dell’ed. di Cesena, 1657), pp. 51 e 197. SecondoBOLOGNA, L’incredulità del Caravaggio  cit., p. 145, «può darsi che l’aggettivo naturalista, fino a quelmomento inedito – a quanto pare – come termine definitorio specifico della storiografia artistica, s’incontririferito al Caravaggio solo nel 1657».222 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 22.223 Per un elenco di questi luoghi cfr. BOLOGNA, L’incredulità del Caravaggio cit., p. 147.

224 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 233.225   Sull’aneddoto di Elena dipinta da Zeusi e sulla utilizzazione dell’aneddoto nel Quattrocento eCinquecento cfr. P. SABBATINO, La bellezza di Elena. L’imitazione nella letteratura e nelle arti figurative delRinascimento, Firenze, Olschki, 1997, pp. 13 ss.

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la natura, l’artista supera la natura stessa grazie all’imitazione selettiva, invece Caravaggio,che è insieme il nuovo Demetrio e l’anti-Zeusi, si dilettò nell’imitare il vero più che labellezza di natura e si fermò al modello nella sua interezza «senza elezzione delle meglioriforme naturali, quello che a dire è stupendo».

Nel racconto biografico, la scelta caravaggesca della «sola natura» quale «oggetto»

del pennello viene configurata come una radicale e gravissima rottura con il passatoremoto e con il passato prossimo, con le reliquie dell’antichità e con le opere di RaffaelloSanzio, il punto più alto per Bellori della rinascita delle arti nel Cinquecento:

Datosi perciò egli a colorire secondo il suo proprio genio, non riguardando punto, anzi spregiandogli eccellentissimi marmi de gli antichi e le pitture tanto celebri di Rafaelle, si propose la sola naturaper oggetto del suo pennello.226

 A conferma della rottura, Bellori propone al lettore un aneddoto ruotante sul

disprezzo caravaggesco degli antichi maestri – è il caso degli scultori Fidia, al qualevenivano attribuite numerose copie romane di originali greci, e Glicone, autore dell’Ercole

Farnese rinvenuto nelle Terme di Caracalla sotto il pontificato di Paolo III, ora nel MuseoNazionale di Napoli – e ovviamente dei moderni, ritenuti ottimi nell’ambito del classicismoartistico, e sull’elogio dell’unico maestro, il vero di natura:

essendogli mostrate le statue più famose di Fidia e di Glicone, acciocché vi accomodasse lo studio,non diede altra risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini, accennandoche la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri. E per dare autorità alle sue parole, chiamòuna zingana che passava a caso per istrada, e condottala all’albergo la ritrasse in atto di predirel’avventure, come sogliono queste donne di razza egizziana: fecevi un giovine, il quale posa lamano col guanto su la spada e porge l’altra scoperta a costei, che la tiene e la riguarda; ed inqueste due mezze figure tradusse Michele sì puramente il vero che venne a confermare i suoi detti.Quasi un simil fatto si legge di Eupompo antico pittore; se bene ora non è tempo di considerareinsino a quanto sia lodevole tale insegnamento.227

 Nella strategia narrativa del biografo, l’episodio della pittura di personaggi che

appartengono alla realtà quotidiana - una zingara nell’atto di leggere la mano di ungiovane e di predirne il futuro - è finalizzato a dimostrare che lo studio della natura delmoderno anti-Zeusi, sin dalle prime prove prodotte in regime di indipendenza, è sullastessa linea di un altro artista antico, Eupompo di Sicione (V-IV sec. a. C.). Lacontrapposizione belloriana tra il naturalismo di Caravaggio e il classicismo artistico diRaffaello Sanzio nella prima stagione della rinascita dell’arte e di Annibale Carracci nellaseconda rinascita è tutta giocata sull’eco della contrapposizione antica, al tempo dei Sofisti,

tra Eupompo e Zeusi, così come la troviamo in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 64 (eXXXVI, 6), il quale aumenta il numero dei rivali di Zeusi (Eupompo, Timante, Androcide,Parrasio), tutti attivi alla fine del V secolo e all’inizio del IV:

[Zeuxis] alioqui tantus diligentia, ut Agragantis facturus tabulam, quam in templo Iunonis Laciniaepublice dicarent, inspexerit virgines eorum nudas et quinque elegerit, ut quod in quaquelaudatissimum esset pictura redderet. Pinxit et monochromata ex albo. Aequales eius et aemulifuere Timanthes, Androcydes, Eupompus, Parrhasius. 228

 226 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 202.227 Ivi, pp. 202-3. Su questo dipinto e sulle ipotesi della sua identificazione cfr. il commento di B OREA, ivi, p.

215, nota 1.228  G.  PLINIO SECONDO, Storia naturale, traduzione e note di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, V.Mineralogia e Storia dell’arte. Libri 33-37, Torino, Einaudi, 1988, p. 360 («[Zeusi] fu così esageratamentepreciso che, dovendo fare un quadro per gli Agrigentini da dedicare pubblicamente a spese pubbliche nel

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 E in particolare Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 75) ricorda un’opera di Eupompo chedoveva fondarsi sullo studio del vero:

Est Eupompi victor certamine gymnico palmam tenens. 229 

È questo il «simil fatto» al quale rimanda Bellori nell’accostare Caravaggio ad Eupompo, incontrapposizione all’idea del bello di Annibale Carracci e, andando a ritroso, Raffaello eZeusi.

Caravaggio, dunque, non vuole programmaticamente creare in proprioun’invenzione dell’arte, quella che Zeusi antico ottiene selezionando e imitando le parti piùbelle, ma va alla ricerca della «invenzione di natura», di una invenzione che la natura hagià creato e che l’artista deve riprodurre. Da qui l’importanza, osserva Bellori,dell’«occhio» con cui Caravaggio guarda e cerca «per la città» le figure, che destano il suointeresse e che gli sembrano «invenzione di natura». Da qui il volgere «intento l’occhio» diCaravaggio alla «incarnazione», alla «pelle», al «sangue», alla «superficie naturale» dei

modelli, in modo da raffigurarli con il colore come «veri». Ma nel ristabilire il rapporto tral’arte e il vero, Caravaggio commette il gravissimo errore, secondo Bellori, di guardare«solo» all’invenzione di natura e di fermarsi ad essa, con l’inevitabile tragedia di lasciare«da parte gli altri pensieri dell’arte» e di non «esercitare l’ingegno».230

 

4. La Galeria del Marino e la biografia belloriana di Caravaggio 

Nel cast dei personaggi, che entrano sulla scena del racconto biografico dell’artistamaledetto, il Bellori dà un posto di rilievo al poeta napoletano Giovan Battista Marino, chefu a Roma per la prima volta nel 1600, trovando una sistemazione cortigiana pressomonsignor Melchiorre Crescenzi, chierico di camera di papa Clemente VIII.

L’ammirazione che Marino nutrì per Caravaggio è documentata dalla Galeria (Venezia,Ciotti, 1619),231 un vero e proprio museo in versi di pitture e sculture, ben presto elevato a

tempio di Giunone Lacinia, volle prima esaminare le loro fanciulle nude, quindi ne scelse cinque comemodelle affinché la pittura rendesse ciò che c’era di più bello in ciascuna di loro. Dipinse anche deimonocromi in bianco. Suoi contemporanei e rivali furono Timante, Androcide, Eupompo, Parrasio»)229 Ivi, pp. 372-74 («Appartiene a Eupompo un Vincitore in una gara ginnica che tiene in mano la palma»).230 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 203.231 Sui rapporti tra arti e poesia in Marino cfr. A. BORZELLI, Il Cavalier Marino con gli artisti e la “Galeria”,Napoli, Tip. Cosmi, 1891; ID., La “Galeria” del Cavalier Marino, Napoli, Vedova Ceccoli & figli, 1923; E. BERTI

TOESCA, Il Cavalier Marino collezionista e critico d’arte, «Nuova Antologia», LXXXVII, 1952, n. 455, pp. 51-66; J. COSTELLO, Poussin’s Drawings for Marino and the New Classicism. I. Ovid’s “Metamorphoses”,«Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XVIII, 1955, n. 3-4, pp. 296-317; G.  ACKERMANN,Giambattista Marino’s Contribution to Seicento Art Theory, «The Art Bulletin», XLIII, 1961, n. 4, pp. 326-36;M.  ALBRECHT-BOTT, Die Bildende Kunst in der Italienischen Lyric der Renaissance und des Barok ,Wiesbaden, F. Steiner Verlag, 1976; G. E. VIOLA, Marino e le arti figurative, in Il verso di Narciso. Tre tesisulla poetica di G. B. Marino, Roma, Cadmo, 1978, pp. 9-61; G. FULCO, Il sogno di una “Galeria“: nuovidocumenti sul Marino collezionista [1979], in La «meravigliosa» passione. Studi sul Barocco tra letteraturaed arte, Roma, Salerno editrice, 2001, pp. 83-117; A.  DURANTI, La galleria della mente, «ParagoneLetteratura», 1980, n. 366, pp. 93-97; C.  DIONISOTTI, La galleria degli uomini illustri, «Lettere italiane»,XXXIII, 1981, pp. 482-92 (poi in ID.,  Appunti su arti e lettere, Milano, Jaca book, 1995, pp. 145-55); G. MOSES, «Care gemelle d’un parto nate»: Marino’s Picta Poesis, «Modern Language Notes», C, 1985, n. 1,pp. 82-110; L.  NEMEROW-ULMAN, Narrative Unities in Marino’s “La Galeria“, «Italica», LXIV, 1987, n. 1,

pp.76-85; F. GUARDIANI, L’idea dell’immagine nella “Galeria” di G. B. Marino, in AA.VV., Letteratura italiana earti figurative, a cura di A. FRANCESCHETTI, vol. 2, Firenze, Olschki, 1988, pp. 647-54; A. MARTINI, I capriccidel Marino tra pittura e musica, ivi, vol. 2, pp. 655-64; I. VIOLA, Un nodo barocco di poesia e pittura, «Ilpiccolo Hans», XV, 1988-1989, n. 60, pp. 77-98; S. SCHÜTZE, Pittura parlante e poesia taciturna: il ritorno di

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modello artistico, letterario e retorico, che è nel catalogo delle letture di Bellori.232  Sulpiano storico-critico La Galeria viene dopo «la galleria della lingua», il Vocabolario degli Accademici della Crusca (Venezia, presso la tipografia di Giovanni Alberti, 1612), il cuiprogetto lessicografico era stato discusso da Lionardo Salviati (entrato nell’Accademiadella Crusca nel 1583 e morto nel 1589) negli stessi anni in cui Francesco I de’ Medici,

Granduca di Toscana dal 1574 al 1587, era stato impegnato a ordinare la Galleria degliUffizi.233 Per il Marino il Caravaggio dipinse «il ritratto», - recentemente identificato da Maurizio

Marini234 -, allora molto noto e celebrato nelle Accademie dagli «uomini di lettere», i quali

G. B. Marino a Napoli, il suo concetto di imitazione e una mirabile interpretazione pittorica, in AA.VV.,Documentary culture. Florence and Rome from Grand-Duke Ferdinand I to Pape Alexander  VII, Papers froma Colloquium held at the Villa Spelman, Florence 1990, ed. by E.  CROPPER, G. PERINI, F. SOLINAS, «VillaSpelman Colloquia», vol. 3, Bologna, Nuova Alfa Editrice, 1992, pp. 209-26; E.  CROPPER, The Petrifying Art:Marino’s Poetry and Caravaggio, «The Metropolitan Museum Journal», XXVI, 1991, pp. 193-212; EAD.,

Marino’s “Strage degli Innocenti”, Poussin, Rubens and Guido Reni, «Studi secenteschi», XXXIII, 1992, pp.137-66; E. PAULICELLI, Parola e spazi visivi nella “Galeria”, in AA.VV., The Sense of Marino: Literature, Fine Arts and Music of the Italian Baroque, ed. by F. GUARDIANI, New York, pp. 255-66; M. FUMAROLI, “La Galeria”di Marino e la Galleria Farnese: epigrammi e opere d’arte profane intorno al 1600, in La scuola del silenzio. Ilsenso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, pp. 61-80; F. PELLEGRINO, I giochi onomasticisui nomi degli artisti figurativi nei componimenti di G. B. Marino, «Italianistica», 2000, n. 2, pp. 251-66; C. CARUSO, Saggio di commento alla “Galeria” di G. B. Marino: 1 (esordio) e 624 (epilogo), «Aprosiana», 2002,n. 10, pp. 71-89; P.  SABBATINO, Imitazione e illusione. Leonardo da Vinci, Varchi, Marino, Milizia, «StudiRinascimentali», III, 2005, pp. 11-27.232  Cfr. G.  PERINI, La biblioteca di Bellori: saggio sulla struttura intellettuale e culturale di un erudito delSeicento, nel catalogo L’idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, cit., to. II,pp. 673-77; le relative schede, firmate da C. ABAMONTI, C. CASETTI, F. MUZIO, M. POMPONI, sono alle pp. 678-85.

233 Cfr. G. NENCIONI, La ‘galleria’ della lingua, in Gli Uffizi. Quattro secoli di una galleria. Atti del ConvegnoInternazionale di Studi (Firenze, 20-24 settembre 1982), a cura di P. Barocchi e G. Ragionieri, Firenze,Olschki, 1983, pp. 17-48. In particolare Nencioni opera un gemellaggio tra le due gallerie, quella linguistica equella figurativa: «Abbiamo visto che entrambe avevano un apprezzamento estetico dei loro oggetti, trasceltientro un novero più vasto; ma che la collocazione cronologica degli oggetti era totalmente diversa:medievale nel Vocabolario, greco-latina o cinquecentesca nella Galleria del principe. Abbiamo visto chel’orientamento medievale del Vocabolario era fondato non solo sopra un condizionamento storico – quellodell’effettivo processo di unificazione nazionale della lingua scritta – che valeva a renderlo attuale, ma soprauna teorizzazione dell’eccellenza linguistica del ‘buon secolo’, utile più a legittimare l’intento puristico e adesaltare la normatività dell’opera che a giustificarne l’impostazione; mentre la normatività della Galleria degliUffizi come prototipo di altre gallerie italiane e straniere trasse ragione dalla sua univoca e impregiudicatarispondenza alle esigenze culturali del presente. Da quest’ultima differenza potremmo inferire […] unadiversa disponibilità dei due istituti ad aprirsi a nuove prospettive: assai minore e più tormentata nel

Vocabolario a causa della sua posizione passatista e conservatrice, e anche per il fatto che l’aperturaestrafiorentina della Galleria di Francesco I implicava l’ammissione della presenza e validità di altri centriartistici oltre Firenze, mentre la portata nazionale del Vocabolario si fondava sull’equazione tra lingualetteraria comune e fiorentino trecentesco e sulla convinzione che tale equazione potesse e dovesseperdurare indefinitamente, qualunque fossero […] gli apporti e le proposte delle altre regioni italiane» (pp.31-32). Sulla galleria figurativa a Firenze cfr. Gli Uffizi. Quattro secoli di una galleria. Atti del convegnointernazionale di studi, Firenze, 20-24 settembre 1982,  a cura di P. Barocchi e G. Ragionieri, Firenze,Olschki, 1983; Magnificenza alla corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento, catalogo dellamostra, Milano, Electa, 1997.234  Cfr. M.  MARINI, Marino e Caravaggio: un ritratto nel contesto della Contarelli , in Caravaggio nel IVcentenario della Cappella Contarelli. Atti del convegno, Roma, 24-26 maggio 2001, a cura di C. Volpi, Roma,CAM, 2002, p. 233.; ID., Caravaggio «pictor praestantissimus». L’iter artistico completo di uno dei massimirivoluzionari dell’arte di tutti i tempi, cit., pp. 218-19 e 453-55. Negli anni del ritratto (Roma, 1600 ca.; Londra,

collezione privata), il poeta napoletano, nato nell’ottobre del 1569, - scrive Marini - «non è ancora‘cavaliere’: lo sarà solo nel 1609) […]; pertanto il Caravaggio lo ritrae, più che trentenne […], con una toganera finemente ricamata e dalle lumeggiature blu […], essendosi questo addottorato in avvocatura. […]Come nel Maffeo Barberini […] il poeta è bloccato nell’azione in fieri, la sua bocca sta per parlare, oppure ha

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cantavano assieme «il nome del poeta e del pittore». 235  Nel ricambiare il dono, Marinoscrisse il sonetto Sopra il proprio Ritratto dell’Autore di mano di Mchelangnolo daCaravaggio (ABBA.ABBA.CDC.DCD), inserito nella sezione Ritratti della Galeria:

Vidi, Michel, la nobil tela, in cui

da la tua man veracemente espressovidi un altro me stesso, anzi me stesso,quasi Giano novel, diviso in dui.

Io, che ‘n virtù d’Amor vivo in altrui,spero or mi fia (la tua mercé) concesso,in me non vivo, or ravivarmi in esso,in me già morto, immortalarmi in lui.

Piacemi assai che meraviglie puoiformar sì nòve, Angel, non già, ma Dio:animar l’ombre, anzi di me far noi.

Che s’or scarso a lodarti è lo stil mio,con due penne e due lingue i pregi tuoi

Scriverem, canteremo, ed egli, ed io.236 Marino, giocando con artificio sul topos della pittura che tanto è più perfetta quanto più

crea immagini che sembrano vive, mostra se stesso di fronte al ritratto che rende binol’uno. Il nuovo Giano, che è l’insieme dei due Marino, l’uno diventato due, l’io trasformatoin noi, sente grazie all’arte di Caravaggio che se l’uno è soggetto alla morte, l’altro delritratto è vivo, se il primo è mortale, il secondo è immortale.

Nella sezione Favole  della Galeria, Marino dedica un madrigale (abCcbdDaEE) alla«testa di Medusa» (1601-1602; Firenze, Galleria degli Uffizi) dipinta da Caravaggio su unoscudo di legno di pioppo («una rotella»), donata dal card. Del Monte al Granduca diToscana Ferdinando I e conservata nella sua galleria:

Or quai nemici fian, che freddi marminon divengan repentein mirando, Signor, nel vostro scudoquel fier Gorgone, e crudo,cui fanno orribilmentevolumi viperinisquallida pompa e spaventosa ai crini?Ma che! Poco fra l’armia voi fia d’uopo il formidabil mostro:

ché la vera Medusa è il valor vostro. 237

 A questa celebrazione mariniana della testa di Medusa rimanda esplicitamente Bellorinella biografia del Caravaggio. 238   Inoltre al Marino, che nutrì «una grandissimabenevolenza e compiacimento dell’operare» del pittore,239 si deve – secondo il racconto di

appena finito e lo sguardo, puntando diretto al fruitore […], introduce una nota di inquietante introspettività,più accentuata (sebbene nella stessa ottica) rispetto ai modelli di Tiziano e Raffaello» (ivi, p. 454).235 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 218. Sul ritratto del Marino si veda a p. 218la nota 2.236 G. B. MARINO, La galeria, a cura di M. Pieri, to. I, Padova, Liviana, 1979, p. 199; e per le note: to. II, p.

140.237 MARINO, La galeria, a cura di M. Pieri, op. cit., to. I, pp. 31-32; e per le note: to. II, p. 18.238 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 218. 239 Ibidem. 

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Bellori, ma oggi «i documenti provano che le cose andarono diversamente» 240   -l’introduzione del Caravaggio nella cerchia di Melchiorre Crescenzi. Di questo prelatoCaravaggio fece un ritratto, come pure di Virgilio Crescenzi, ma di tali opere non si hannopiù notizie. E fu Virgilio Crescenzi, conservatore dell’ospedale di San Giacomo degliIncurabili ed esecutore testamentario del card. Contarelli (Mathieu Cointrel, morto nel

1585), a volere il Caravaggio «a concorrenza» di Giuseppe D’Arpino nella realizzazione diun programma pittorico della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi de’ Francesi. Suconsiglio del Marino, «amico» del D’Arpino e del Caravaggio, al primo, che era«pratichissimo del fresco», furono assegnate «le figure di sopra nel muro» e al secondo «liquadri ad olio».241

  La seconda e ultima apparizione riservata al Marino nella biografia di Caravaggio sitrova durante il racconto della morte dell’artista, quando il poeta «suo amicissimo ne dolseed adornò il mortorio»242 con un madrigale (aAbCCbaBB), riportato per intero dal Bellori:

Fecer crudel congiura

Michele a’ danni tuoi Morte e Natura;questa restar temeada la tua mano in ogni imagin vinta,ch’era da te creata, e non dipinta;quella di sdegno ardea,perché con larga usura,quante la falce sua genti struggea,

tante il pennello tuo ne rifacea.243

 In questo componimento, inserito nella sezione Ritratti  della Galeria,244   il poeta

immagina e racconta una congiura ai danni di Caravaggio da parte della Natura, presa dal

timore di essere superata dall’artista creatore di immagini vive più che autore di immaginidipinte, e da parte della Morte, presa dallo sdegno perché l’artista ricreava con la pittura gliuomini che essa distruggeva.245

  Anche in altre biografie attinge dalla Galeria  mariniana. Infatti, a chiusura dellepagine dedicate all’eroe positivo, comprendenti sia la biografia di Annibale Carracci, sia ladescrizione della Galleria farnese, - un caso interessante e intrigante di poema pittorico sul

240

 Ivi, p. 219, nota 1.241 Ivi, pp. 218-219.242 Ivi, p. 229.243 Ibidem.244 Cfr. MARINO, La galeria cit., to. I, p. 191; per le note: to. II, p. 134.245 Cfr. SPEZZAFERRO. Caravaggio, in L’idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan PietroBellori, to. II, p. 274 («ci si potrebbe domandare […] perché tra i molti possibili modi con cui il Bellori potevacommentare la morte del Caravaggio, egli citi proprio i versi del Marino secondo cui il Merisi non dipinge macrea le immagini della natura. Infatti, al di là dei topoi  tradizionali sull’arte che supera la natura, rimaneevidente che per il Marino – e dunque anche per il Bellori – il Caravaggio non copia ma costruisce immaginiche non sono naturali bensì sono il ‘doppio’ della natura. Ed è proprio questo suo modo d’operare,miracoloso e meraviglioso, che i suoi spregevoli seguaci naturalisti non riescono a riprendere sul serio.Questi tentano solo, per pigrizia ignoranza e viltà, di imitarlo copiando gli aspetti più transeunti e fantasmatici

della natura, i peggiori non perché ne ignorano come il Caravaggio l’idea sottesa, bensì perché si arrestanosolo alla prima esperienza delle cose della natura senza tentare, come invece faceva il Merisi, di verificarnefattualmente e operativamente il senso: ciò che permette di generalizzarli, di dipingere appunto il prototipo diun genere, un’’opera’ dunque e non il mero prodotto di un lavoro manuale»).

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tema della «guerra» e della «pace tra ‘l celeste e ‘l vulgare Amore» -,246  sia la letteraall’artista cofirmata dai «parmegiani» Sisto Badalocchi e Giovanni Lanfranchi, Belloripreleva dalla sezione Ritratti della Galeria  247e riproduce il madrigale In morte d’AnnibaleCaracci (abCdCBdEe):

Chi die’ l’esser al nulla,ecco che ‘n nulla è sciolto.Chi le tele animò, senz’alma giace.Al gran Pittor, che porsespesso a i morti color’ senso vivace,Morte ogni senso ogni color ha tolto:ben tu sapresti or forsefarne un altro, Natura, eguale a quello,

s’avessi il suo pennello.248

 Ritornano, ancora una volta, la Morte e la Natura, ma non c’è più, come nel caso

del madrigale in morte del Caravaggio, la loro vittoriosa congiura. Infatti, nel caso delmadrigale in morte di Annibale Carracci la Morte e la Natura sono disgiunte, e se la primaha tolto «senso» e «color» al pittore, la seconda invece appare superata e sconfitta dalpennello di Annibale.

La Galeria mariniana, dunque, - come dimostrano anche altre biografie (Poussin,Guido Reni) – è sul tavolo da lavoro di Bellori, il quale preleva alcuni componimenti e lisistema all’interno del suo romanzo storico sull’arte moderna o per tessere l’elogio deldestinatario dell’opera d’arte, come nel caso della Medusa  destinata a Ferdinando IGranduca di Toscana, o per segnalare il dolore di Marino per la morte di Caravaggio, o percelebrare Annibale Carracci, il pittore che ha superato la natura, assieme al Marino.

L’ammirazione per il Caravaggio da parte del Marino costrinse il Bellori a rivedere ilsuo giudizio negativo sul pittore e a darne una formulazione più articolata. Infatti, propriodopo l’esibizione del madrigale mariniano in morte di Caravaggio, Bellori riconosceall’artista di aver comunque giovato alla pittura, sulla scena storica a cavallo tra la fine delCinquecento e l’inizio del Seicento, e di aver svolto una positiva funzione antimanierista.Alla vaghezza del manierismo Caravaggio oppose la verità, al belletto e alla vanità delcolore le tinte rinvigorite:

Giovò senza dubbio il Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso ilnaturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e sodisfacevasi più al senso della vaghezzache della verità. Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì

ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando a’ pittori l’imitazione.249

 Ma è proprio questa tavolozza del Caravaggio, fatta di tinte rinvigorite e di nero,

priva di cinabri (il rosso vermiglio), di azzurri, di turchino, a produrre, secondo Bellori,anche un grave danno alla pittura:

246 Cfr. P. SABBATINO, «La guerra tra ‘l celeste e ‘l vulgare amore». Il poema pittorico di Annibale Carracci el’ecfrasi di Bellori (1657, 1672), in Ecfrasi. Modelli ed esegesi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G.Venturi e M. Farnetti, vol. 2, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 477-511.

247 MARINO, La galeria cit., to. I, p. 191; per le note: to. II, p. 134.248 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 111. Cfr. MARINO, La galeria cit., to. I, p.191; per le note: to. II, p. 134.249 Ivi, p. 229.

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Non si trova però che egli usasse cinabri né azzurri nelle sue figure; e se pure tal volta li avesseadoperati, li ammorzava, dicendo ch’erano il veleno delle tinte; non dirò dell’aria turchina e chiara,che egli non colorì mai nell’istorie, anzi usò sempre il campo e ‘l fondo nero; e ‘l nero nelle carni,

restringendo in poche parti la forza del lume.250

 

In aggiunta, il precetto caravaggesco del pittore «ubbidiente al modello»251

  e«imitatore della natura»252 comporta la perdita di invenzione, decoro, disegno, e di ognialtra scienza della pittura, cioè di quelle componenti fondamentali del classicismo artistico,che va da Raffaello ad Annibale Carracci, da Domenico Zampieri detto il Domenichino aPoussin:

molte e le megliori parti gli mancavano, perché non erano in lui né invenzione né decoro nédisegno né scienza alcuna della pittura mentre tolto da gli occhi suoi il modello restavano vacui lamano e l'’ngegno.253

 La schiera dei caravaggeschi viene liquidata da Bellori in poche battute e con

l’accusa di non avere «studio e fatica», di disprezzare la bellezza, di non riconoscerel’auctoritas  degli antichi e di Raffaello, di preferire le mezze figure alle «istorie», diprivilegiare le cose vili, le sozzure e le deformità:

Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio efatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando li corpi vulgari e senza bellezza. Cosìsottoposta dal Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregiodelle cose belle, tolta ogni autorità all’antico ed a Rafaelle, dove per la commodità de’ modelli e dicondurre una testa dal naturale, lasciando costoro l’uso dell’istorie che sono proprie de’ pittori, sidiedero alle mezze figure, che avanti erano poco in uso. Allora cominciò l’imitazione delle cose vili,ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno adipingere un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sboccato erotto. Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare li corpi si fermano con tutto lostudio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate damorbi.254

 Il privilegiare le cose vili, le sozzure e le deformità, che non si addicono al decoro di

un soggetto religioso, secondo Bellori, costò non poco al Caravaggio, al punto che alcuniquadri furono «tolti […] da gli altari».255 È il caso del primo quadro di San Matteo e l’angelo (fatto per la cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi de’ Francesi):

avvenne cosa che pose in grandissimo disturbo e quasi fece disperare il Caravaggio in riguardodella sua riputazione; poiché, avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo su

250 Ibidem.251 Ibidem.252 Ivi, p. 230.253 Ibidem.254  Ibidem. Cfr. A. BREJON DE LAVERGNÉE, I seguaci di Caravaggio e le relative schede nel catalogo L’ideadel Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, cit., to. II, pp. 284-88. Su questarimozione, non condiviasa oggi dai critici, cfr. SPEZZAFERRO. Caravaggio, in L’idea del Bello. Viaggio perRoma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, to. II, p. 273 («Sicuramente non fu […] rifiutata la primaversione del San Matteo e l’angelo che in realtà dovette essere […] solo un quadro provvisorio per l’altareanch’esso provvisorio della cappella Contarelli: dipinto per ingraziarsi – come in realtà avvenne – lacommissione dei laterali. La seconda […] versione definitiva fu infatti messa al posto della prima quando,

qualche tempo dopo l’inizio dell’officiatura della cappella, si decise di rifiutare la statua del Cobaert che – damolti anni in lavorazione – una volta posta in opera sull’altare definitivo si rivelò – secondo la definizione delBaglione – ‘una seccagine’»).255 BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni cit., p. 231.

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l’altare, fu tolto via da i preti con dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo,

stando a sedere con le gambe incavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo. 256

 E ancora è il caso della Morte della Madonna (1605-1606; Chiesa della Scala; ora

al Louvre) quadro «rimosso per avervi troppo imitato una donna morta gonfia», di

Sant’Anna (1605-1606; altare della Basilica Vaticana; poi nella Villa Borghese) «ritratti inesso vilmente la Vergine con Giesù fanciullo ignudo».257

L’elenco delle cose vili, delle sozzure e delle deformità si allarga anche ad operenon rimosse, alla Madonna dei pellegrini  (1604-1606; Roma, Chiesa di Sant’Agostino):

la Madonna in piedi col fanciullo fra le braccia in atto di benedire: s’inginocchiano avanti duepellegrini con le mani giunte, e ‘l primo di loro è un povero scalzo li piedi e le gambe, con lamozzetta di cuoio e ‘l bordone appoggiato alla spalla, ed è accompagnato da una vecchia con la

cuffia in capo.258

 si offeriscono le sozzure de’ piedi del pellegrino;259

alle Sette opere di Misericordia (1606-1607; Napoli, Pio Monte della Misericordia):

per la Chiesa della Misericordia dipinse le Sette Opere in un quadro lungo dieci palmi; vedesi latesta di un vecchio che sporge fuori dalla ferrata della prigione suggendo il latte d’una donna che alui si piega con la mammella ignuda. Fra l’altre figure vi appariscono li piedi e le gambe di un mortoportato alla sepoltura; e dal lume della torcia di uno che sostenta il cadavero si spargono i raggi

sopra il sacerdote con la cotta bianca, e s’illumina il colore, dando spirito al componimento.260

vi è uno che alzando il fiasco [n.d.r .: mascella d’asino] beve con la bocca aperta, lasciandovicadere sconciamente il vino.261

alla Cena di Emmaus  (1602; Londra, National Gallery): 

oltre le forme rustiche delli due apostoli e del Signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’ostecon la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melegrane fuori di stagione.262

 A conti fatti, e tirando le somme, per Bellori il Caravaggio appare come quelle

«erbe» che ad un tempo «producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi»,come vuole Marino. Ma alla stessa maniera delle erbe, Caravaggio «se bene giovò inparte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume

256 Ivi, p. 219.257 Ivi, p. 231.258 Ivi, p. 221.259 Ivi, p. 231.260 Ivi, pp. 225-26.261 Ivi, p. 231. 262  Ibidem. Inoltre Bellori pone a confronto la versione successiva della Cena di Emmaus  (1606; Milano,Brera) dipinta per il marchese Patrizi e quella anteriore dipinta per il card. Scipione Borghese e ora allaNational Gallery: «colorì […] al marchese Patrizi la Cena in Emaus, nella quale vi è Cristo in mezzo chebenedice il pane, ed uno de gli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma le mani su la

mensa e lo riguarda con maraviglia: evvi dietro l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta levivande. Un’altra di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese, alquanto differente; laprima più tinta, e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione del colore naturale; se bene mancano nella parte deldecoro, degenerando spesso Michele nelle forme unili e volgari» (p. 223)

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della pittura», come vuole il classicista Bellori263 Così l’autore del romanzo storico sulle artitra Cinquecento e Seicento assomma al suo giudizio negativo sul Caravaggio quellopositivo formulato da Marino e finisce con il vestire gli abiti dello scrittore salomonico, ma apatto che il ritratto ossimorico di Caravaggio sia pur sempre il ritratto di un eroe negativo afronte del vero eroe, quello pienamente positivo, Annibale Carracci.

263 Ivi, p. 231.

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STUDI

RINASCIMENTALI

 Rivista internazionale di letteratura italiana

2 · 2004

PISA · ROMA

ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI

MM V 

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Direttori scientiWci / Editors

Marcello Ciccuto · Pasquale Sabbatino

Comitato editoriale / Editorial Board

Gabriella Albanese (Pisa) · Rossend Arqués (Barcellona)

 Antonio Corsaro (Ferrara) · Giuliana Crevatin  (Pisa)

Enrico Fenzi (Genova) · Filippo Grazzini (Viterbo)

Giorgio Masi (Pisa) · Antonio Palermo (Napoli)

Michel Paoli (Amiens) · Olga Pugliese (Toronto)

Eduardo Saccone (Cork) · Leonardo Sebastio (Bari)

Ruggiero Stefanelli (Bari) · Luigi Surdich (Genova)

Frédérique Verrier  (Parigi)

*

Si invitano gli autori ad attenersi, nel predisporre i materiali da consegnare alla Redazione e alla Casaeditrice, alle norme speciWcate nel volume Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipogra Wche & redazionali,

Pisa-Roma, Istituti Editoriali e PoligraWci Internazionali, 2004 (ordini a: [email protected]).Il capitolo Norme redazionali, estratto dalle Regole, cit., è consultabile Online alla pagina

« Pubblicare con noi » di www.libraweb.net

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Pasquale Sabbatino

IL TRIONFO DELLA GALATEA DI RAFFAELLO

E IL LIBRO DEL CORTEGIANO  DI CASTIGLIONEil dibattito sull’imitazione nel primo cinquecento

Pittori e scrittori, artisti e letterati si confrontarono a lungo sull’imitazione, l’argo-mento all’ordine del giorno tra Wne Quattrocento e primo Cinquecento. Interven-nero, tra gli altri, Angelo Poliziano e Paolo Cortesi, Giovan Francesco Pico della

Mirandola e Pietro Bembo, RaV aello Sanzio e Baldassarre Castiglione, Erasmo da Rotter-dam e Giulio Camillo detto il Delminio.1

Sul piano storiograWco gli interventi di RaV aello e di Castiglione segnano una tappaimportante nel dibattito sull’imitazione per la profonda diV erenza che si registra tra laconcezione estetica del primo, il quale sostiene che l’arte è imitazione dell’idea della bel-lezza, e la proposta del secondo, il quale aV erma che l’arte è imitazione della natura e

della pluralità di modelli oV erti dalla stessa natura. Può essere utile, nel tentativo di rico-struire questa particolare vicenda e le ragioni delle rispettive posizioni, partire dal Trionfodella Galatea e dalla celebre lettera di RaV aello al Castiglione sull’aV resco e sull’imitazio-ne, per giungere poi al Libro del Cortegiano, nel quale lo scrittore si autodeWnisce pittore di«verità» e ci consegna il proprio credo estetico.

1. Il Trionfo della Galatea di Raffaelloe la scrittura dell’arte nel Cinquecento

Nell’ambito della storia dell’arte, durante il primo Cinquecento, si registra un eventoche destò l’interesse generale e segnò l’inizio della fortuna delle favole mitologiche, l’aV re-sco del Trionfo della Galatea  (1511-1512) di RaV aello (Fig. 1).2 Nella prima edizione dellaraccolta Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’

tempi nostri (1550), Vasari non menziona la Galatea nella biograWa di RaV aello, pur elen-cando le altre opere eseguite nella Villa di Agostino Chigi alla Lungara (acquistata nel1580 dal cardinale A. Farnese e chiamata la Farnesina). 3 Tuttavia ricorda la Galatea nella biograWa del senese Baldassarre Peruzzi, l’architetto della Villa Farnesina dalla pianta adU che trasforma l’esterno in scena teatrale – i lavori erano stati avviati nel 1509 – e ilpittore della decorazione della sala delle Colonne (tra il 1515 e il 1516), con Wnti colonnatie sfondi di paesaggio:4

molto più gliene diede [nome e fama] il modello del palazzo d’Agostin Chigi, condotto con quella bella grazia che si vede, non murato, ma veramente nato, et adorno di fuori di terretta con storie diman sua, fra le quali alcune ve ne sono molto belle. E similmente la sala in partimenti di colonneWgurate in prospettiva, le quali con istrafori mostrano quella esser maggiore. E quello che di stu-penda maraviglia vi si vede è una loggia sul giardino dipinta da Baldassarre, con le istorie di Medusa

quando ella converte gli uomini in sasso e quando Perseo le taglia la testa, con molte altre storie ne’1. Cfr. P. Sabbatino, La bellezza di Elena. L’imitazione nella letteratura e nelle arti W gurative del Rinascimento, Firenze, Olschki,

1997, pp. 13- 59.2. Cfr. Ch. Thoenes, Zu Ra V  aels Galatea, in Festschrift Otto von Simson zum 65 . Geburtstag , Berlino, 1977, pp. 220-272 ; Idem,

Galatea: tentativi di avvicinamento, in  Ra V  aello a Roma. Il convegno del 1983 , Roma, Edizioni dell’Elefante, 1986, pp. 59-72; A.Chastel, Amor sacro e profano nell’arte e nel pensiero di Ra V  aello, ivi, pp. 3-10.

 3. Anche Benvenuto Cellini nell’autobiograWa, iniziata nel 1558 e terminata nel 1567, segnala genericamente le opere diRaV aello nella Villa di Agostino Chigi, divenuta ormai una vera e propria scuola di pittura. Cfr. B. Cellini, Vita, a cura di E.Camesasca, Milano, Rizzoli, 1985, p. 120 («In questo tempo io andavo quando a disegnare in Capella di Michelagniolo, equando alla casa di Agostino Chigi sanese, nella qual casa era molte opere bellissime di pittura di mano dello eccellentissimoRaV aello da Urbino»).

4. Cfr. R. De Fusco, L’architettura del Cinquecento, Torino, utet, 1981, part. pp. 93-95, 166 ; La Villa Farnesina a Roma, a curadi Ch. L. Frommel, Modena, Franco Cosimo Panini, 2003 (e relativa bibliograWa).

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pasquale sabbatino24

peducci di quella volta, la quale è uno ornamento di tutta l’opera, tirato in prospettiva, et è distucco coi colori contrafatti, che non pare colore, ma vivo e di rilevo. E può veramente questocredersi che il mirabile Tiziano, pittore onoratissimo et eccellentissimo, menando io a vedere taleopera, non voleva credermi che fosse pittura; per il che fummo sforzati mutar veduta, onde rimasemaravigliato di tal cosa. Sono in questo luogo alcune cose fatte da Sebastian Veniziano della primamaniera, e dal divino RaV aello d’Urbino una Galatea rapita da gli dèi marini. 5

Nella biograWa di Sebastiano del Piombo, autore del Polifemo (Fig. 2 - Roma, Villa Farne-sina, loggia di Galatea), Vasari assegna la precedenza cronologica al Trionfo della Galatea,6

due aV reschi che si fondanosulle stesse fonti, rappresen-tano un solo aneddoto mito-logico e si completano a vi-cenda:

 Aveva RaV aello fatto in questomedesimo luogo una storia diGalatea, e Sebastiano non stettemolto che fece un Polifemo in

fresco, allato a quella, nel qualecercò d’avanzarsi più che pote-va, spronato dalla concorrenzadi Baldassarre Sanese e poi diRaV aello.7

Nella seconda edizione delleVite (1568) Vasari sistema que-sti tasselli anche all’internodella biograWa di RaV aello,aggiungendo informazionisul committente, fornendoulteriori particolari sulla rap-presentazione di Galatea(«nel mare sopra un carro ti-rato da due dolWni, a cui sonointorno i Tritoni e molti Deimarini»), che correggono eintegrano quanto scritto nel-la precedente edizione («rapi-ta da gli dèi marini»), ed espri-mendo un giudizio sull’arti-sta, che ha dipinto «con dol-cissima maniera»:

 Al quale [RaV aello] Agostino Chisi sanese, ricchissimo mercante e di tutti gl’uomini virtuosi ami-cissimo, fece non molto dopo allogazione d’una cappella [nella chiesa di s. Maria della Pace], e ciò

 5. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipidi Lorenzo Torrentino. Firenze 1550, a cura di L. Bellosi, A. Rossi, presentazione di G. Previtali, ii, Torino, Einaudi, 1986, p. 685.

6. Sulla questione, ancora aperta, della cronologia dei due aV reschi cfr. Ch. Thoenes, Galatea: tentativi di avvicinamento,cit., pp. 62-63 («nella letteratura critica troviamo più pareri che argomenti. Normalmente, si presuppone che il Polifemo abbiapreceduto la Galatea. Sembra questa la soluzione più logica: la storia, come Poliziano la racconta, si svolge da sinistra a destra,cominciando nella prima campata della parete con l’opera di Sebastiano […], per esser poi, dopo il  Polifemo, sostituito daRaV aello. […] Per quanto riguarda la Galatea, non manca una voce che dà ad essa la precedenza: è quella del Vasari […]. Aggiungo che lo Hirst, per ragioni stilistiche, pensa il Polifemo eseguito “non prima dei primi mesi del 1512, il che sarebbe unpo’ più tardi di quanto io ammetterei per la Galatea. Ma tutto ciò non è conclusivo e rimane più probabile che fosse statoRaV aello ad alterare il concetto di Sebastiano, sia come successore, sia anche – secondo una proposta di Philipp Fehl – comeconcorrente, che operò più o meno contemporaneamente […]»).

7. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, cit., pp. 839-840.

Fig. 1. Roma, Farnesina. Raffaello, Trionfo della Galatea.

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per avergli poco inanzi RaV aello dipinto in una loggia del suo palazzo, oggi detto i Chisii in Traste-vere, con dolcissima maniera una Galatea nel mare sopra un carro tirato da due dolWni, a cui sonointorno i Tritoni e molti Dei marini.8

RaV aello Borghini travasa i materiali vasariani nel  Riposo […] in cui della Pittura, e dellaScultura si favella, de’ più illustri Pittori, e Scultori, e delle più famose opere loro si fa mentione; e

le cose principali appartenenti a dette arti s’insegnano (Firenze, Giorgio Marescotti, 1584): Aveva egli prima dipinto in una loggia ad Agostin Ghigi mercatante ricchissimo del suo palagio inTrastevere una Galatea nel mare sopra un carro tirato da due delWni con tritoni, & altri dei marini[…].9

L’occasione della committen-za, assegnata nell’autunnodel 1511, fu l’aspirazione di Agostino Chigi alle nozze conla Wglia del marchese di Man-tova Francesco II, l’avvenen-te Margherita Gonzaga, dal-la quale la proposta fu poi re-spinta nel corso del 1512.10 Aquesta aspirazione matrimo-niale si collega anche il poe-ma in cinque ‘libelli’ del poe-ta erudito romano EgidioGallo,  De Viridario AugustiniChigii (Roma, 1511). Nel quin-to e ultimo libello il poeta rac-conta l’arrivo di Venere aRoma e la visita della villa diChigi, che diviene la villa diVenere.11

Giovan Battista Armenini,riprendendo la notizia vasa-riana della «Galatea rapita da’dèi marini» nel trattato  De’veri precetti della pittura (1586),testimonia la fama raggiuntadalla Galatea, un’opera consi-derata ormai da tutti «mira- bile».12

2. Polifemo e Galatea  :le fonti letterarie nel Rinascimento

Per quanto riguarda la vicenda mitologica di Galatea,  –  la ninfa, Wglia di Nereo e Doride,

8. Per la ii ed. si cita da G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550  e 1568 , testo a curadi R. Bettarini, commento secolare a cura di P. Barocchi, iv, Firenze, spes, 1976, p. 176.

9. R. Borghini, Il riposo. Saggio biobibliogra Wco e Indice analitico a cura di M. Rossi, Milano, Edizioni Labor, 1967, p. 389.10. Cfr. Ch. Thoenes, Galatea: tentativi di avvicinamento, cit., p. 61 («da una lettera del novembre 1512 apprendiamo che nel

frattempo Agostino si era rassegnato»).11. Ivi, p. 60; La Villa Farnesina a Roma, a cura di Ch. L. Frommel, cit., pp. 19-20. Per il testo del poema cfr. M. Quinlan-

McGrath, Aegidius Gallus, De viridario Augustini Chigii vera libellus. Introduction, latin text and english translation, «HumanisticaLovaniensa», 38, pp. 1-99.

12. Cfr. G. B. Armenini,  De’ veri precetti della pittura, ed. a cura di M. Gorreri, Prefazione di E. Castelnuovo, Torino,Einaudi, 1988, p. 208.

Fig. 2. Roma, Farnesina. Sebastiano del Piombo, Polifemo.

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secondo il racconto di Esiodo (Theogonia, 240-284), nel 700 a.C., ha chiome bianche e visosimile al latte –, c’è da segnalare tra le fonti classiche13 il ditirambo del poeta greco Filosse-no (Citera ca. 435-Efeso, ca. 380), il quale trasforma la orribile Wgura omerica del ciclope ininnamorato di Galatea, ma respinto capovolge la situazione, dando mandato ai delWni diriferire alla ninfa la sua guarigione dall’amore grazie alle Muse. Il ditirambo fu parodiato

da Aristofane nella commedia Pluto (rappresentata nel 408 a.C. e pervenutaci in una reda-zione successiva) e il capovolgimento della situazione fu raccolto nel 200 a.C. da Teocritonell’xi degli Idilli, nel quale racconta con umorismo il canto di Dafni e Dameta sul tema diPolifemo e Galatea. Nella gara gioiosa tra Dafni e Dameta, l’uno immagina di riferire aPolifemo i segnali amorosi di Galatea, la quale invero si diverte nel prendersi gioco delciclope, e l’altro dà la propria voce a Polifemo, il quale mette in scena la Wnzione di nonaccorgersi dei segnali d’amore, convinto come è di ottenere in tal modo un risultato mi-gliore.

Dameta e Dafni il bovaro in un sol luogo / condussero un giorno, o Arato, il loro armento; l’uno la barba l’aveva / bionda, all’altro spuntava appena; presso una fonte stavano seduti / entrambi,d’estate nel meriggio, e cantavano cosi. / Cominciò Dafni per primo, perché per primo lanciò lasWda. / (Dafni) Scaglia mele Galatea verso il tuo gregge, / o Polifemo, e capraio ti chiama incapaced’amare; / ma tu, crudele, non la guardi, e te ne stai seduto / suonando dolcemente la zampogna.Ecco, ora colpisce la cagna / che ti segue, guardiana delle pecore; essa abbaia / rivolta verso ilmare, e la rispecchiano le belle onde, / mentre corre sulla riva che risuona dolcemente. / Bada chenon s’avventi contro le gambe della ragazza, / quando esce dal mare, e non le laceri la bella pelle./ Anche di laggiù lei civetta con te; come la lanugine / secca che si stacca dal cardo, quando l’ina-ridisce la bella estate, / fugge chi l’ama e insegue chi non l’ama, / e nulla lascia d’intentato; davve-ro all’amore / spesso, o Polifemo, le cose non belle appaiono belle. / Dopo di lui cominciò Dame-ta, e cantava così. / (Dameta) L’ho vista, sì, per Pan, mentre colpiva il gregge, / e non è sfuggita almio unico dolce occhio, col quale spero di vedere / Wno alla Wne; e che Telemo l’indovino leprofezie di malaugurio / se le porti a casa, e le tenga in serbo per iWgli suoi! / Ma io, per stuzzicarlaa mia volta, non la guardo, / e dico di avere un’altra donna; lei si fa gelosa / sentendo questo, oPaian, e si strugge, e dal mare / scruta, furiosa, verso l’antro e le greggi. / Ho pure Wschiato allacagna di abbaiarle contro; perché quando l’amavo, / mugolava, il muso contro i suoi Wanchi. /Forse, se mi vedrà far questo di continuo, manderà / un messaggero. Ma io la porta terrò chiusa,W

nché non giuri / di apprestare lei stessa per me su quest’isola un bel letto. / E certo non sononeanche brutto, come dicono; / mi sono specchiato poco fa nel mare (era bonaccia), / e bella miappariva la barba, bella la mia unica pupilla, per quanto posso giudicare, e i denti, / nel riXesso delmare, apparivano più smaglianti del marmo di Paro. / Per evitare il malocchio, tre volte ho sputatonel mio petto: / così mi ha insegnato la vecchia Cotittari. / Avendo così cantato, Dameta baciòDafni; / e l’uno all’altro donò la zampogna, e n’ebbe in dono un bell’aulo. / Suonava l’aulo Dame-ta, suonava la zampogna Dafni il bovaro, / e subito si mettevano a saltare le giovenche sul morbi-do prato. / Nessuno fu vincitore, entrambi furono invitti. 14

Nelle Bucoliche, composte tra il 42 e il 39 a.C., Virgilio preleva da Teocrito i lamenti d’amoredel ciclope per Galatea e li trasferisce al pastore Coridone per il bell’Alessi (Ecloga ii e iii, 37-40).15

Lungo l’Umanesimo e il Rinascimento circolarono ben due versioni sull’amore di Po-lifemo per Galatea, quella di Ovidio e quella di Filostrato, come è possibile ricavare dal

fortunatissimo repertorio di Vincenzo Cartari,  Le imagini con la spositione de i dei de gliantichi (Venezia, Marcolini, 1556), che ebbe numerose stampe tra Cinquecento e Seicento:

E benché siano state le Nereide molte, che Esiodo [Theog ., 240-284] le conta cinquanta e le nominatutte, nondimeno dirò di una solamente, che è Galatea, la quale fu così chiamata dalla bianchezza,

13. Cfr. la voce Galatea in Enciclopedia Virgiliana, ii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 625-627 (G. Arrigo-ni); Enciclopedia Oraziana, i, ivi, 1996, pp. 745-747 (G. Mazzoli); Enciclopedia dell’Arte Antica, iii, ivi, 1960, pp. 754-756 (C. Capri-no).

14. Si cita da Teocrito, Idilli e Epigrammi, introduzione, traduzione e note di B. M. Palumbo Stracca (testo greco a fronte),Milano, Rizzoli, 2001, pp. 145-149.

15. Cfr. Virgilio, Opere, a cura di C. Carena, Torino, utet, 1985, p. 123, nota 6.

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che rappresenta in lei forse la spuma dell’acqua, o per meglio dire dal nome ‘gala’, che ‘latte’ si-gniWca, onde Esiodo [Theog ., 250] le fa avere le chiome bianche e la faccia simile al latte. Polifemoinnamorato di lei, vedendola laudare appresso di Ovidio [ Met ., xiii, 789], la chiama parimente più bianca de i bianchissimi ligustri. E Filostrato [ii, 18], in una tavola ch’ei fa del Ciclope, mette Gala-tea andarsene per lo quieto mare sopra un carro tirato da delWni, li quali sono governati e retti daalcune Wgliuole di Tritone, che stanno intorno alla bella ninfa, preste sempre a servirla, et ella,

alzando le belle braccia, stende alla dolce aura di ZeWro un porporeo panno per fare coperta alcarro et a sé ombra, et ha le chiome sue non sparse al vento, ma che bagnate stanno stese parte perla candida faccia e parte per i bianchi omeri.16

La prima fonte, indicata dal Cartari, è Ovidio, il quale nelle  Metamorfosi  (xiii, 740-899),scritte fra il 3 e l’8 circa d.C., crea la sfortunata e triangolare vicenda d’amore di Galateacon il pastore siciliano Aci e la violenta reazione di Polifemo, accecato dalla gelosia. Aquesta versione, che si era diV usa sotto l’inXusso del ditirambo di Filosseno di Citera, attin-gono Dante, Petrarca, Boccaccio e Luigi Pulci. Negli esametri dell’ Ecloga iv, 76-79, Danteallude alla violenza di Polifemo su Aci, Wno a rappresentare l’orrore dello sbranamento:

«Quis Polyphemon» ait «non horreat» Alphesiboeus«assuetum rictus humano sanguine tingui,tempore iam ex illo quando Galatea relicti Acidis heu miseri discerpere viscera vidit?».17

Nei Rerum Vulgarium Fragmenta ( 325, 31- 34), Petrarca inserisce Polifemo tra le più celebriWgure vinte da Amore, assieme a Giove, Apollo e Marte. Nel Triumphus Cupidinis ii, Pe-trarca passa rapidamente in rassegna una serie di amanti, in gran parte tratti dalle Meta-morfosi ovidiane e solo in qualche caso dalle Heroides dello stesso autore, e racconta nelgiro di una terzina gli amori Wttizi e senza consistenza reale di Galatea e Aci:

Fra questi fabulosi e vani amorividi Aci e Galatea, che ’n grembo gli era,e Poliphemo farne gran romori;

(Triumphus Cupidinis, ii, 169-171)

Boccaccio riprende Ovidio nella raccolta Genealogie deorum gentilium (vii, xvii)

18

 e fornisceuna lettura allegorica della favola di Galatea e Aci.19 Al racconto degli «amori portati» daPolifemo a Galatea «in rozza canzone» e del suo dolersi per la «privata luce» Boccaccio fariferimento anche nella Comedìa delle Ninfe Worentine (xxxviii, 41).20 Inoltre Luigi Pulci nel

16. V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, a cura di G. Auzzas, F. Martignago, M. Pastore Stocchi, P. Rigo, Vicenza,Neri Pozza, 1996, p. 216. Il testo è esemplato sull’edizione del 1587, nella quale «si è riconosciuto lo stadio più avanzato,ancorché non deWnitivo, della elaborazione attribuibile al Cartari» ( Nota al testo, ivi, p. 615).

17. Cfr. Dante, Opere minori, i, a cura di G. Bárberi Squarotti, S. Cecchin, A. Jacomuzzi, M. G. Stassi, Torino, utet, 1983, p. 586 («‘Chi non avrebbe orrore di Poli femo’, disse Alfesibeo, ‘avvezzo a macchiarsi il grifo di sangue umano, già da quel tempoquando Galatea lo vide sbranare le visceri dell’abbandonato Aci, ahi misero. A mala pena essa scampò, sarebbe forse valsa laforza dell’amore, quando la feroce rabbia schiumava di sì grande ira?’»). Nella Wnzione pastorale, ambientata in Sicilia, Alfe-sibeo (si ipotizza il medico Fiduccio de’ Melotti) invita Titiro (Dante) a non lasciare i roridi campi del Peloro, un promontorionei pressi dello stretto di Messina, per andare nell’antro di Polifemo, cioè a non abbandonare Ravenna per Bologna.

18. G. Boccaccio, Tutte le opere, a cura di V. Branca, vii-viii, Milano, Arnoldo Mondadori, 1998, p. 744: «Galathea ex

nynphis una Nerei Wlia fuit, ut paucis ostendit Ovidius in persona eius, dicens: “At michi cui pater est Nereus, quam cerulaDoris Enixa est” etc. Ex qua talis extat fabula: Acis pulcherrimus adolescens syculus a Galathea dilectus est, cum illam summediligeret Polyphemus Cyclops. Qui cum non dil igeretur, Acimque die una Galathee vinctum cerneret, iratus il lum saxo illisitatque occidit, quem Galathea in Xuvium syculum sui nominis transformavit» («Galatea, una tra le ninfe, fu Wglia di Nereo,come mostra in pochi versi su di lei Ovidio scrivendo: ‘Ma a me, che son Wglia di Nereo, che sono nata dalla cerula Dori’ ecc.Di lei si racconta questa favola. Aci, bellissimo adolescente siciliano, fu amato da Galatea, che era grandemente amata dalciclope Polifemo. Ma questi non era amato da lei. Un giorno Polifemo vide Aci congiunto con Galatea; irato lo scaraventò suun sasso e lo uccise. Galatea lo trasformò in un Wume siciliano che ebbe il suo nome»).

19. Ivi, pp. 744-746: «Cuius fabule allegoria potest esse talis. Galathea albedinis dea est, per quam albedinem undarum sesefrangentium intelligo. Acim autem amat, id est Xuvium suscipit, quia Xumina omnia in mare volvuntur» («L’allegoria dellafavola può essere questa. Galatea è dea della bianchezza e io intendo per essa la schiuma delle onde che si frangono. Ella ama Aci, cioè il Wume, perché tutti i Wumi vanno nel mare»).

20.G. Boccaccio, Tutte le opere, a cura di V. Branca, ii, Filostrato, Teseida delle nozze di Emilia – Comedia delle ninfe Worentine,Milano, Mondadori, 1964, p. 809.

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 Morgante ricorda Galatea che fece «innamorare» Polifemo (Cantare, xiv, 70, 6) e il dolersidel ciclope perché Galatea «in grembo Ati a lei sogna» (Cantare, xvi, 36, 8).21 Alla favolaovidiana fa riferimento anche il poeta romano Egidio Gallo nel poema De viridario Augu-stini Chigii (l. iv), dove tra le Wgure del corteo di Venere appare Galatea in lacrime a causadella morte di Aci:

Quam sequitur Galathea fero male pressa sub aestuperpetuis Acim lachrimis quae plorat amantem,quem sibi praelatum Poliphaemi dextra peremitmutatumque suo in liquidum de nomine fontem […].22

La seconda fonte, indicata dal Cartari, è il retore greco Filostrato, vissuto nel iii secolod.C., il quale nelle Imagines (ii, 18) illustra i soggetti di ben sessantaquattro quadri visti inun portico a Napoli, durante il suo soggiorno. Nella voce dedicata al ciclope, invita ildestinatario (un fanciullo) a osservare un dipinto antico, senza lasciarsi distrarre dai nu-merosi ciclopi, ma soV ermandosi sul più feroce, Polifemo. Filostrato descrive l’aspettoWsico di Polifemo, che è in alto, sul monte, e indirizza una pastorale canzone d’amore aGalatea, che è in basso, sul carro marino. Il Polifemo innamorato, allora, nelle Imagines diFilostrato è propositivo, mentre negli Idilli di Teocrito assume un atteggiamento Wttizia-

mente passivo:ha un lungo sopracciglio sopra l’unico occhio, con un amplissimo naso che gli pesa sul labbro, ed èdivoratore di uomini, non altrimenti che i più crudeli lioni. Ora però astiensi da cotal cibo, per nonparere un vorace e poco gentile, essendo preso d’amore per Galatea, che va scherzando per questomare, e ch’egli ha veduto dalla montagna; e tiensi la zampogna sotto l’ascella, canticchiando conessa, e dirigendole una canzone pastorale, che dice ch’ella è candida ma sdegnosa, più dolce di ungrappolo d’uva, e che tien in serbo per essa capretti ed orsacchini. Ciò canta sotto un elce, dimenti-cando dove frattanto pascolino le sue pecore, e quante sieno, e quali ne sieno i campi. Egli è quidipinto rozzo ed arcigno, che scuote la capigliatura rigida e folta al pari di una fronda di pino, mo-strando gli aguzzi denti fuori delle voraci mascelle, e tutto irsuto il petto, il ventre, e sino alle estre-mità delle braccia e de’ piedi. E sebbene placido mostri lo sguardo, perché ama, pure ha impressa nelvolto la Werezza e l’insidia, a simiglianza di una belva da forte laccio obbligata. Ella in questo mezzofolleggia sulla queta marina; attaccando alle quadrighe i delWni, ad uno stesso giogo soggetti, e da

uguale istinto animati. Le Tritonie vergini, ancelle di Galatea, ne reggono le briglie, ov’essi osasserooperare al contrario, e non curarsi del freno. Ella poi, da ZeWro secondata, innalza al disopra del capola porporina sua veste, sì perché le valga di ombrello, come di vela al carro, e della quale uno splen-dor si diV onde sopra la di lei fronte e la testa, cui però non cede il grazioso color delle guance. Lachioma sua però non diventa giuoco di ZeWro, perché inzuppata sì, che non può moverla il vento.Sul destro braccio inoltre si appoggia, curvando il gomito candidissimo, e le dita posando sulla deli-catissima spalla; le vene sembrano ondeggiarle sulle cosce, scoperto ha il seno, né della propria bellezza sono mancanti le parti nascoste. Ma la pianta del piede, e quella grazia che in essa termina èdipinta, o fanciullo, sul mare, radendone leggermente le onde, quasi reggesse il timone del cocchio.Degni d’ammirazione son gli occhi, poi che sembrano distendersi quanto l’ampia marina. 23

 A Filostrato attinge Poliziano nel poemetto epico-mitologico Stanze per la giostra (i, 70-119). Tra i bassorilievi, che ornano la porta della reggia di Venere e sembrano scene viven-ti (i, 97, 2: «sì vivi intagli»), gli ultimi due sono dedicati alla vicenda di Polifemo e Galatea.

Secondo l’ecfrasi di Poliziano, Polifemo ha chiome orribili e tempie aspre, una corona dirami di quercia (in Filostrato è la chioma di Polifemo ad essere paragonata a una fronda dipino), il ciglio irsuto che va da un orecchio all’altro a mo’ di arco, naso largo, i dentigrandi come zanne e bianchi come la schiuma, gli omeri setosi, il petto grande, una zam-pogna con cento canne sotto il braccio, seduto su un sasso sotto un acero (in Filostrato è

21. Si cita da L. Pulci, Morgante e opere minori, a cura di A. Greco, i, Torino, utet, 1977, risp. p. 450 e p. 503.22. M. Quinlan-McGrath, Aegidius Gallus, De viridario Augustini Chigii vera libellus. Introduction, latin text and english tran-

slation, cit., p. 59.23. Si cita da Le Opere dei due Filostrati, volgarizzate da V. Lancetti, ii, Milano, TipograWa di Paolo Andrea Molina, 1831, pp.

 520- 521.

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sotto un elce), tra i piedi un cane. Il ciclope guarda sotto, verso il mare, e canta muovendole lanose guance. Egli celebra la bellezza di Galatea, «bianca più che il latte» secondol’etimologia (gr. Galáteia, da gála ‘latte’: nata dalla spuma lattea del mare), e superba piùdi una vitella, per lei ha molte ghirlande, una cerva e un orsetto che gioca col cane. Gala-tea la vergine passa sul carro, tiene le briglie di due delWni, è accompagnata dal corteo

lascivo delle sue fedeli sorelle, le altre Nereidi, e degli animali marini, e inW

ne si prendegioco del canto d’amore del ciclope:

Gli omer’ setosi a Polifemo ingombranol’orribil chiome e nel gran petto cascono,e fresche ghiande l’aspre tempie adombrano:d’intorno a lui le sue pecore pascono,né a costui dal cor già mai disgombranole dolce acerbe cur’ che d’amor nascono,anzi, tutto di pianto e dolor macero,siede in un freddo sasso a pie’ d’un acero.

Dall’uno all’altro orecchio un arco faceil ciglio irsuto lungo ben sei spanne;largo sotto la fronte il naso giace,paion di schiuma biancheggiar le zanne;tra’ piedi ha ’l cane, e sotto il braccio taceuna zampogna ben di cento canne:lui guata il mar che ondeggia, e alpestre noteper canti, e muova le lanose gote,

e dica ch’ella è bianca più che il latte,ma più superba assai ch’una vitella,e che molte ghirlande gli ha già fatte,e serbali una cervia molto bella,un orsacchin che già col can combatte;e che per lei si macera e si sfragella,e che ha gran voglia di saper notareper andare a trovarla insin nel mare.

Due formosi delWni un carro tirono:sovr’esso è Galatea che ’l fren corregge,e quei, notando parimente, spirono;ruotasi attorno più lasciva gregge:qual le salse onde sputa, e quai s’aggirono,qual par che per amor giuochi e vanegge;la bella ninfa colle suore Wdedi sì rozo cantor vezzosa ride.

(Stanze per la giostra, i, 115-118)24

Questa versione del mito di Polifemo e Galatea è in buona parte adattabile alla situazionepersonale di Chigi durante il corteggiamento di Margherita Gonzaga, con l’inevitabileritocco nell’atteggiamento di Galatea che nelle Stanze per la giostra vezzosamente ride «di

sì rozo cantor» e nell’aV resco di RaV aello appare Wnalmente disposta all’ascolto. Così lavicenda mitologica di Polifemo e Galatea diviene archetipo della vicenda Agostino Chigi – Margherita Gonzaga e la versione di Poliziano viene assunta, con qualche variante,come testo di riferimento per il progetto del  Polifemo di Sebastiano del Piombo e dellaGalatea di RaV aello nella reggia di Venere del banchiere.25

Già durante il Cinquecento, nel Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (1557),26 Ludovico

24. Si cita da A. Poliziano, Stanze. Fabula di Orfeo, a cura di S. Carrai, Milano, Mursia, 1988, p. 106.25. La Villa Farnesina a Roma, a cura di Ch. L. Frommel, cit., p. 94.26.Cfr. Trattati d’arte del Cinquecento fra Manierismo e Controriforma, a cura di P. Barocchi, i, Bari, Laterza, 1960, p. 192.

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Dolce informa che l’invenzione di RaV aello «contende con la bella poesia» di Poliziano, inuna gara di creatività che il pittore intraprende con il poeta. Il confronto, proposto da Thoe-nes, tra la Galatea di RaV aello e il Polifemo di Sebastiano del Piombo,27 dimostra l’atteggia-mento agonistico del primo rispetto al Poliziano e l’atteggiamento fedele del secondo:

È ovvia la premura di Sebastiano di darci l’illustrazione più meticolosa del testo di Poliziano: lette-

ralmente si vedono raYgurati gli “omer setosi” del ciclope, le sue “orribil chiome”, le “frescheghiande, che l’aspre tempie adombrono”, il “sasso a piè d’un acero”, sul quale siede; “tra i piedi hail cane, e sotto braccio tace una zampogna”. RaV aello, invece, non solo si permette di arricchire ladescrizione del poeta con particolari come quello della carrozza a conchiglia, non nominata né daPoliziano, né da uno dei suoi predecessori classici; ma inventa pure cose nuove Wno ad arrivare auna favola completamente diversa. Infatti, da Poliziano non sentiamo di altre persone che di Gala-tea e delle sue ninfe – le “suore Wde” come il poeta le chiama – che scherzano e giocherellano fra diloro: “qual le salse onde sputa, quali s’agirono, qual par che per amor giuochi e vanegge”; nient’al-tro, e specialmente nessun uomo, nessun mostro marino, nessun amorino e nessuno degli episodierotici che RaV aello ci mostra.28

RaV aello, dunque, riscrive Wgurativamente i versi del Poliziano, apportando qualche va-riante e aggiungendo alcuni elementi, Wno a creare una nuova invenzione. In particolaretrasforma il carro in conchiglia, come nella

 Nascita di Venere di Botticelli, con ruote simili

«alle ruote motrici di un mulino»,29 e arricchisce la scena di personaggi. Infatti dal classicorepertorio iconograWco di Venere preleva i tre amorini con arco e freccia in volo nel cieloe Cupido con molte munizioni in alto a sinistra dietro la nuvola. In basso, ancora a sini-stra, colloca il suonatore di conchiglia ritorta rivolto verso l’esterno e il suo cavallo bian-co-bluastro, la coppia del Tritone muscoloso che tende verso il mare e della Nereide conil drappo giallo che si difende dall’abbraccio. A destra un altro suonatore, rivolto versol’esterno, e il centauro marino con una Nereide che si aggrappa al suo petto. Al centroGalatea nell’atto di reggere le redini tese dei due delWni, che spingono per andare al largo,e di tenere fermo il tiro, con l’ausilio di un amorino alato che si aggrappa con la manodestra a una pinna del delWno e con l’indice della sinistra alla redine. Galatea appare rilas-sata e gioiosa, con lo sguardo verso l’alto, accarezzata dal vento marino che soYa dadestra verso sinistra e «innalza la sua veste rosso sangue e i suoi lunghi capelli sciolti Wn

sopra le spalle, scoprendo l’orecchio sinistro perché possa ascoltare meglio» il canto d’amo-re di Polifemo. 30 In tal modo la vergine Galatea è esposta alle frecce degli amorini, cosìcome Margherita Gonzaga alle frecce di Agostino Chigi.

 A Wne Cinquecento, dall’altra parte del Tevere, nel Palazzo Farnese, Annibale CarracciaV resca la vicenda di Polifemo e Galatea in due quadri, l’uno di fronte all’altro, nelle testedella Galleria. Nelle Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni (1672) Giovan Pietro BellorioV re una preziosa guida alla lettura del primo quadro Polifemo e Galatea (Fig. 3), per il quale Annibale Carracci si ispira sostanzialmente alle Imagines di Filostrato, con la Wgura di Poli-femo che canta gli aV anni d’amore e la Wgura di Galatea che gode nell’ascolto di quel canto(così in RaV aello, invece in Poliziano Galatea «di sì rozo cantor vezzosa ride»). In particola-re Galatea è seduta (in RaV aello è in piedi) su una conchiglia (così in RaV aello, carro inFilostrato e Poliziano) tirata da delWni (quattro in Filostrato, due in Poliziano e RaV aello), le

cui redini sono rette da Ninfe (così in Filostrato, invece in Poliziano e RaV 

aello le redinisono rette dalla stessa Galatea), mentre ZeWro innalza la sua veste purpurea sopra il capo(così in Filostrato, invece Poliziano tace sulla veste e RaV aello con la veste in parte avvolgeil corpo) e la chioma è bagnata (in RaV aello i capelli sono sciolti e sollevati dal vento):

27.Cfr. M. Calì, La pittura del Cinquecento, 1, Torino, utet, 2000, p. 132 (nella Wgura di Polifemo il giovane Sebastiano delPiombo, «già michelangiolesco», non è ancora «del tutto distaccato dalla sua formazione giorgionesca, che lo portava ameditare sugli eV etti di luce e di colore, nel contrasto fra l’accendersi di bagliori sul fondo e le macchie scure dell’albero allacui ombra siede Polifemo»); La Villa Farnesina a Roma, a cura di Ch. L. Frommel, cit., pp. 93-99.

28.Ch. Thoenes, Galatea: tentativi di avvicinamento, cit., p. 63.29. La Villa Farnesina a Roma, a cura di Ch. L. Frommel, cit., p. 95.

 30. Ivi, p. 96.

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano   31

Fig. 3. Roma, Galleria Farnese. Annibale Carracci, Polifemo e Galatea.

Sentono aV etti d’amore i più ferini petti: ecco il crudo Polifemo Wgliuolo di Nettuno il maggiore de’Ciclopi siede sopra uno scoglio del mare siciliano, fatto amante di Galatea; e quivi disacerba i suoiaV anni, rauco cantando al suono di pastorali canne. In questa Wgura la mente di Annibale si ingrandì

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pasquale sabbatino 32

con Omero, ed espresse quanto la poesia Wnge della grandezza del gigante; anzi può dirsi che in-grandisse l’arte del disegno in una maniera la più terribile, avendo compreso in brevi linee la vastitàdelle membra. Tiene Polifemo con ambe le mani sospesa sotto le labbra la dispari sampogna, e nelpiegarsi col braccio sinistro sopra il sasso, espone il petto e ’l seno, slungando la destra coscia colpiede a terra, ed incavalcando l’altra gamba su l’adunco bastone; poiché il gigante impiegando lemani al suono, ritiene appresso il pastorale tronco. In tanto Galatea siede in una conca tirata da

delWni, gode di udirlo ed appressandosi allo scoglio si piega e si appoggia col destro braccio sopra ilcollo d’una Ninfa che frena un delWno. Questa immerge le coscie squamose nell’acque ed ascondemezzo il petto e ’l seno dietro Galatea, la quale seminuda allo spirar dell’aure con la sinistra ritienela purpurea zona gonWa in alto sopra il capo; e dal Wanco appresso si vede il volto e quasi una poppad’un’altra Ninfa, la quale solleva la fronte verso Polifemo, esprimendo il piacere del canto. 31

Nel secondo quadro Lo sdegno di Polifemo (Fig. 4) Annibale Carracci si ispira alle Metamor- fosi di Ovidio, con la raYgurazione dell’impeto di Polifemo che lancia uno scoglio contro Aci, mentre scappa assieme a Galatea:

L’amore di Polifemo agitato dallo sdegno s’accende in furore; poiché vide nel seno di Galatea Acisuo rivale. Volgesi il formidabil gigante e lancia uno scoglio contro il giovinetto, e ben furioso èl’atto: appunta un piede sopra un sasso, vibrando lo scoglio indietro per fulminarlo avanti conmaggior forza. Lungi il lido l’infelice fanciullo già volge le spalle in fuga, si torce e si ripara con una

mano avanti, e riguardando Polifemo alza in proWlo il volto; ma in vano procura sfuggire l’inevita- bile percossa, pendendo dal braccio il manto avvolto su l’uno e l’altroWanco a mezze coscie, agita-to dal vento. Più lungi Galatea spaventata declina al lido, ma il suo bel corpo oltre l’essere ombreg-giato dallo scoglio, viene interrotto alla vista dal corpo di Aci, che s’incontra e soprasta al lume. E ben si riconosce ch’ella corre in fuga al volto ed al braccio disteso avanti; né del tutto apparisconole gambe, abbassandosi al lido per sommergersi in seno alla madre Doride. L’impeto di Polifemoviene animato con lo stile il più grande e ’l veemente, e se ne forma l’atto terribile; ma oltre la granmaniera Annibale ci lasciò l’essempio del moto della forza descritto da Leonardo da Vinci e piùvolte repetito nel suo trattato della pittura, discorrendo dell’apparecchio della forza che vuol gene-rarare gran percussione: “Quando l’uomo si dispone alla creazione del moto con la forza, si piegae si torce quanto può nel moto contrario a quello dove vuole generare la percussione, e quivi siapparecchia nella forza che a lui è possibile”. E nel capitolo del movimento: “Se uno debbe gittardardi o sassi, avendo volti li piedi all’aspetto, quando si torce e si piega e si rimuove da quello incontrario sito, dove esso apparecchia la disposizione della poenza, esso ritorna con velocità e com-modità al sito dove esso lascia uscire il peso dalle mani”. Siché Polifemo nel torcersi e piegarsiindietro con le braccia e col piede avanti, acquista forza e si prepara; la gamba destra posa e sioppone alla gravità del peso, la sinistra avanti si oppone alle braccia e si piega nel ginocchio; equesto fa per librarsi sopra il piede che posa in terra, senza il qual piegamento non potrebbe usar laforza, né tirare, come il medesimo Leonardo va insegnando. 32

Con Annibale Carracci, dunque, siamo di fronte a un caso singolare e interessante diaddizione delle due fonti, Filostrato e Ovidio, in due quadri che vanno visti in successio-ne narrativa. Infatti, secondo la lettura allegorica proposta da Bellori, con il primo qua-dro ( Polifemo e Galatea) Annibale Carracci «dimostra la potenza» dell’amore, che assog-getta non solo i petti casti e forti, 33 ma anche quelli ferini, come nel caso del «crudo»Polifemo, 34 e con il secondo quadro ( Lo sdegno di Polifemo) l’artista mostra quanto può «ilfurore della gelosia» in un petto ferino. Questi due quadri della Galleria Farnese sono

due sequenze del poema pittorico di Annibale Carracci, il quale narra la guerra e la pacetra l’amore terreno e l’amore celeste 35  attraverso Wgure e vicende mitologiche che lacultura umanistica latina e volgare fa circolare largamente, mediante riproposte di classi-

 31. G. P. Bellori,  Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, a cura di E. Borea, Introduzione di G. Previtali, Torino,Einaudi, 1976, p. 70.

 32. Ivi, pp. 71-72. 33. Ivi, p. 76. 34. Ivi, p. 70. 35. Cfr. P. Sabbatino, «La guerra e la pace tra ’l celeste e ’l vulgare Amore». Il poema pittorico di Annibale Carracci e l’ecfrasi di

Bellori ( 1657 , 1672  ), in Ecfrasi. Modelli ed esegesi fra Medioevo e Rinascimento, a cura di G. Venturi, M. Farnetti, Roma, Bulzoni,2004.

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    33

ci e repertori di immagini. L’addizione delle fonti letterarie permette all’artista di costru-ire con due testi letterari, diversi e distanti, due sequenze unite e progressive del nuovotesto pittorico, il quale rimanda per alcuni particolari della Wgura di Galatea all’aV rescodi RaV aello dall’altra parte del Tevere. L’intreccio tra letteratura e arti, scrittura e pitturadiventa sempre più stretto e forte, fonte di ricchezza per letterati e artisti, scrittori e

pittori. 3. La lettera di Raffaello e l’ imitazione dell’Idea

Il Castiglione, entusiasta per l’aV resco del Trionfo della Galatea, che nel corso dei secoli èstato variamente interpretato e «rimane» ancora oggi «un quadro non intellegibile», 36

inviò all’artista una lettera di elogio non pervenuta sino a noi. Il trentenne RaV aello scris-se in risposta il biglietto Al conte, accompagnato da disegni su alcune invenzioni propostedallo stesso Castiglione probabilmente per la Stanza dell’Incendio o forse per la voltadella Stanza d’Eliodoro:

Signor conte. Ho fatto dissegni in più maniere sopra l’inventione di V. S. e sadisfaccio a tutti, setutti non mi sono adulatori; ma non satisfaccio al mio giudicio, perché temo di non satisfare alvostro. Ve gli mando. V. S. faccia eletta d’alcuno, se alcuno sarà da lei stimato degno. 37

La missiva è senza data, ma può essere circoscritta tra l’aprile e il maggio del 1514 per iriferimenti alla nomina di architetto capo («magister operis») di San Pietro, insieme a fra’Giocondo. Tale nomina, risalente al primo aprile 1514, dopo la morte di Bramante (11marzo), fu sancita più tardi da un breve di Leone X, datato 1° agosto 1514:

Nostro Signore con l’onorarmi m’ha messo un gran peso sopra le spalle. Questo è la cura dellafabrica di San Pietro. Spero bene di non cadervici sotto, e tanto più quanto il modello ch’io n’hofatto piace a Sua Santità et è lodato da molti belli ingegni. Ma io mi levo col pensiero più alto.Vorrei trovar le belle forme de gli ediWci antichi, né so se il volo sarà d’Icaro. Me ne porge una granluce Vitruvio, ma non tanto che basti. 38

Il modello di questo primo progetto per la basilica vaticana di San Pietro fu realizzato poidall’intagliatore Giovanni Barile. L’interesse di RaV aello per il De architectura di Pollione

Vitruvio, un testo capitale per il classicismo rinascimentale, cresce sempre più in questa

 36. Ch. Thoenes, Galatea: tentativi di avvicinamento, cit., p. 72. Tra le possibili letture dell’opera, in buona parte passatein rassegna da Thoenes (pp. 62 ss.), A. Chastel, Amor sacro e profano nell’arte e nel pensiero di Ra V  aello, cit., p. 7, privilegiacon argomentazioni interessanti quella della celebrazione dell’amore profano, anzi dell’amor chigianus, fatta nel palazzodi Venere (la villa Chigi) e nella Roma sensualmente paganeggiante del Rinascimento: « John Shearman ha ammirevol-mente dimostrato come la Farnesina, la villa di Agostino Chigi, sia interamente concepita come il “palazzo d’amore”descritto da Apuleio […]. Non si può, a questo punto, stupire di trovarvi le due celebrazioni più inventive dell’amorprofano: la Galatea e la Loggia di Psiche. Due celebrazioni sullo sfondo di modelli antichi della nudità, dell’allegria e dellavitalità profane. Prima: la Galatea. Nel gaio tumulto degli abitanti delle acque, il cerchio dell’amor profano, ferinus et vulgaris, si richiude su se stesso. Ma se Galatea partecipa a questo movimento vorticoso grazie al suo equipaggio, ellastessa compie una specie di torsione che lascia perplessi. Non soltanto ignora il Polifemo preparato a sinistra da Sebastia-no del Piombo, ma non guarda neppure verso dove la trascina il carro dei delWni; essa guarda altrove, excelsius. […] Ilmoto espressivo basterebbe a contraddire il senso della composizione o, per lo meno, a infondervi la nota della conversioin altum? Chiedo il permesso di insistere un istante su questo piccolo problema. È già stato osservato, credo, che lo

sguardo di Galatea sembra appuntarsi sull’amorino che, nascosto da un cuscino di nuvole nell’angolo superiore a sini-stra, tiene un fascio di frecce. I suoi tre fratelli volano minacciosi, lui se ne sta tranquillo. È tentante pensare che, inquesta composizione inusuale, in cui la ninfa ha il ruolo di Venere, il pittore abbia voluto scivolare nell’illustrazionedell’omnia vincit amor  della favola, come un sussulto, una resistenza che prepara la conversio all’amore superiore. Forse.Ma non credo. Si può osservare che il fascio di frecce, emblema piuttosto corrente della concordia, faceva parte delleimprese di Agostino Chigi. In un gesto di adulazione immensa ma comprensibile verso il padrone di casa, […] la ninfanon fa altro, probabilmente, che rivolgersi all’amor chigianus. Questa interpretazione mi sembra accordarsi con lo stra-ordinario carattere pagano della villa». Secondo Chastel solo nella cappella Chigi si trova l’ascesi dell’anima verso l’amo-re divino (ivi, p. 8).

 37. Raffaello, Gli scritti. Lettere, Wrme, sonetti, saggi tecnici e teorici, a cura di E. Camesasca, con la collaborazione di G. M.Piazza, Milano, Rizzoli, 1994, p. 166. Cfr. inoltre Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, ii, Milano-Napoli, Ricciar-di, 1973, pp. 1529-1531; F. P. Di Teodoro,  Ra V  aello, Baldassar Castiglione e la “Lettera a Leone X”, Presentazione di M. DalaiEmiliani, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1994, pp. 217-218.

 38. Ivi, p. 166.

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pasquale sabbatino 34

 39. Sulla fortuna di Vitruvio nel Rinascimento cfr. P. N. Pagliara, Vitruvio da testo a canone, in Memoria dell’antico nell’arteitaliana, a cura di S. Settis, iii, Dalla tradizione all’archeologia, Torino, Einaudi, 1986, pp. 3-85.

40.Cfr. la lettera a Fabio Calvo (15 agosto 1514) in Raffaello, Gli scritti, cit., p. 202 : «ho recieuto el Vetruvio vulgareper parte vostra che me ha dato el vostro Lodovico vicientino schritto de bellissima lectera, e ve ne rengrazio de core ». A consegnare il ms.  –   l’attuale cod. it.  37  della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco  –   fu l’editore Lodovico degli Arrighi.

41. La traduzione di F. Calvo del De architectura con le postille di RaV aello è edita a cura di V. Fontana, P. Morachiello inVitruvio e Ra V  aello, Roma, OYcina, 1975.

42. L. Dolce,  Lettere di diversi eccellentiss. huomini, Venezia, Gabriel Giolito De Ferrari, 1554, pp. 227-228. Cfr.  Le « cartemessaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam,Roma, Bulzoni, 1981, p. 281.

43. B. Pino, Della nuova scielta di lettere di diversi nobilissimi huomini, et eccell.mi ingegni, scritte in diverse materie, fatta da tuttii libri sin’hora stampati, ii, Venezia, 1582, pp. 443-444. Cfr. Le «carte messaggiere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam, cit., p. 284.

44.G. P. Bellori, Descrizzione delle imagini dipinte da Rafaelle d’Urbino nelle camere del Palazzo Apostolico Vaticano, Roma,1695 (rist. anast. 1968), p. 100.

45. Ibidem («qui ne riportiamo una lettera da Rafaelle medesimo scritta al suo amico il conte Baldassar Castiglione,che apportarà  splendore alle cose narrate, e servirà di lustro insieme allo stile e spirito grazioso della sua penna »).Sull’autenticità della lettera e sulle ipotesi di attribuzione a Pietro Aretino cfr. E. Camesasca in Raffaello, Gli scritticit., p. 154  (esclude con fermezza che la missiva  –  databile nel 1514  –   sia dell’ Aret ino, il quale « in quell’anno non sitrovava ancora a Roma, dove giunse soltanto nel 1516 o nel 1517») ; Ch. Thoenes, Galatea: tentativi di avvicinamento, cit.,p. 66 (ritiene la lettera «probabilmente un falso, o […] una Wnzione della cerchia Aretino/Dolce »). Sull’attribuzione aCastiglione, il quale metterebbe in scena «una Wction indirizzata a sé medesimo», cfr. J. Shearman, Castiglione’s Portrait of Raphael, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», xxxviii, 1994, pp. 69-97. È opportuno sottoline-are che nel 1878 Jacob Burckhardt si schierò a favore dell’autenticità. Cfr. J. Burckhardt, L’art e italiana del Rinascimen-to. Architettura, Venezia, Marsilio, 1991, p. 42 ; E. Battisti, Rinasci mento e Barocco , Torino, Einaudi, 1960, p. 181 , ritieneche la lettera sia «sostanzialmente autentica» e che al primo editore, il Dolce, « forse si deve la veste letteraria in cui ciè pervenuta».

Fig. 4. Roma, Galleria Farnese. Annibale Carracci, Lo sdegnodi Polifemo.

fase, anche per la sua frequen-tazione di fra’ Giocondo, giàeditore del Vitruvio latino(1511). 39  Inoltre RaV aello, sindall’agosto del 1514, può Wnal-

mente disporre di un volga-rizzamento di Vitruvio, cheegli stesso aveva commissio-nato al grecista Fabio Calvo, 40

e in margine al manoscrittoannota di proprio pugno al-cune postille.41

La lettera  Al conte,  –   pub- blicata lungo il Cinquecentonelle raccolte curate da Ludo-vico Dolce,42 che l’attribuì aRaV aello, e da BernardinoPino,43  e a Wne Seicento da

Giovan Pietro Bellori,44  chene conferma la paternità,45  – allude chiaramente al proble-ma dell’imitazione, un nodocentrale nella cultura rinasci-mentale:

Della Galatea mi terrei un granmaestro se vi fossero la metàdelle tante cose che Vostra Si-gnoria mi scrive. Ma nelle sueparole riconosco l’amore che miporta, e le dico che per dipinge-

re una bella mi bisogneria vederpiù belle, con questa condizione, che Vostra Signoria si trovasse meco a far scelta del meglio. Ma,

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    35

essendo carestia e de’ buoni giudici e di belle donne, io mi servo di certa iddea che mi viene nellamente. Se questa ha in se alcuna eccellenza d’arte io non so, ben m’aV atico di averla.46

Pur non contenendo alcun rimando patente alla dottrina platonica, la lettera di RaV aellone è sostanzialmente impregnata.47 L’imitazione della natura è insuYciente per dipingerela bellezza. Infatti l’imitazione eclettica e selettiva attuata da Zeusi per dipingere la leg-

gendaria bellezza di Elena non è praticabile nel presente, come spiega RaV aello con «gar- bata ironia»,48 sia per la mancanza di belle donne, sia per la mancanza di buoni giudicicapaci di valutare le singole bellezze. Per questo RaV aello assegna un ruolo determinanteall’idea della bellezza che gli «viene nella mente» e alla capacità dell’artista di dare formaa quella idea della bellezza, senza ricorrere all’imitazione della natura e senza lasciarsisoggiogare dagli stimoli che vengono dall’esterno.

 A inizio Novecento Panofsky mostrò grande attenzione per questo passo della lettera,rilevando che RaV aello «aveva riconosciuto di poter dedurre soltanto da una ‘intima rap-presentazione’ l’immagine della perfetta femminilità, indipendentemente dal singolo og-getto esteriore».49 Con RaV aello, dunque, «per la prima volta» l’idea della bellezza appare«come principio di indipendenza dell’arte dall’esperienza esterna». 50 Tuttavia, secondoPanofsky, nell’accogliere «il concetto d’Idea», RaV aello non aV ronta due problemi fonda-

mentali, quello dell’origine dell’idea della bellezza e quello della «validità» e «verità» dellastessa idea:

a questa ‘intima rappresentazione’ egli non attribuiva né un’origine metaWsica né un valore nor-mativo, tanto da poterla deWnire soltanto come una ‘certa Idea’. Essa gli si presenta in qualchemodo alla mente, ma l’artista non sa né vuol sapere quale sia poi la sua validità e la sua verità. A chigli avesse chiesto d’onde gli venisse, egli non avrebbe contestato che la somma delle esperienzesensibili si fosse in qualche modo trasformata in intima immagine spirituale (così all’incirca il Dürerha parlato d’un ‘raccolto, segreto tesoro del cuore’, che si forma soltanto là dove l’artista, ‘dopomolte elaborazioni, ha preso pieno possesso di se’, e dalla cui pienezza può foggiare nel propriocuore ‘una nuova creatura’ nella ‘Wgura d’una cosa’) ma anche qui la sua risposta ultima sarebbestata ‘io non so’. 51

Negli anni cinquanta Eugenio Battisti 52 lega la lettera di RaV aello all’epistola De imitatione

di Giovanfrancesco Pico. Secondo Battisti l’idea della bellezza, che in RaV aello «non èancora un’immagine interna, ma un criterio quasi istintivo di scelta» nella ricerca del bello da cogliere in una pluralità di corpi e da imitare, si muove parallelamente all’idea del ben dire, che in Giovanfrancesco Pico è una propensione innata, l’istinto che illumina, unorientamento di gusto che guida lungo la strada dell’imitazione dei modelli. 53 RaV aello,dunque, approda come Pico a «un eclettismo spontaneo, istintivo, il quale porta ‘a fonde-re in un sol corpo le varie virtù degli altri’, senza però che tale risultato sia impersonale, oinadeguato al temperamento dell’artista».

Il viennese Ernst H. Gombrich, in una conferenza del 1982 a Düsseldorf, pubblicatal’anno successivo, 54 riprende il tema del rapporto tra la lettera di RaV aello e l’epistola diGiovanfrancesco Pico. Pur ammettendo che nella missiva di RaV aello si riscontrano alcu-ne tessere platoniche, – come l’insegnamento sull’anima la quale «deriva l’Idea da un’esi-

46.Raffaello, Gli scritti, cit., p. 166.47.A. Chastel, Marsile Ficin et l’Art , Lille-Genève, 1954, p. 72.48.P. Barocchi, in Scritti d’arte del Cinquecento, cit., ii, p. 1525.49.E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (ed. orig. Leipzig-Berlin, 1924), p. 36.

 50.E. Battisti, Il concetto d’imitazione nel Cinquecento italiano, in Rinascimento e Barocco, cit., p. 182. 51. E. Panofsky, Idea, cit., pp. 36- 37. 52. Cfr. E. Battisti, Il concetto d’imitazione nel Cinquecento italiano, cit., pp. 181-184. 53. Di altro avviso è F. Ulivi,  L’imitazione nella poetica del Rinascimento, Milano, Marzorati, 1959, p.  32 : «In RaV aello il

richiamo fatto alla certa idea si appoggiava in sostanza sull’esperienza pratica, senza voler vedere se quell’idea avesse o noorigini metaWsiche; laddove nel Pico […] il fulcro del discorso risiede nel sentimento dominante della personalità, secondo glispiriti del neoplatonismo toscano».

 54. E. H. Gombrich, Ideale e tipo nella pittura italiana del Rinascimento [1983], in Antichi maestri, nuove letture. Studi sull’arte del Rinascimento, trad. di A. Cane, Torino, Einaudi, 1987, p. 93.

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pasquale sabbatino 36

stenza precedente: prima di entrare nel corpo ed essere unita alla materia, l’anima ebbe lavisione dell’Idea di Bellezza non ancora oV uscata dalla materia, e dunque la nostra cono-scenza si fonda in realtà sulla memoria», – Gombrich osserva che l’artista «non fa riferi-mento esplicito a questa dottrina sublime, e forse non a caso». Invero, per il critico, ilpunto di riferimento per la lettera di RaV aello non è Platone, né Marsilio Ficino, al quale

si deve la fortuna del neoplatonismo nel Rinascimento, bensì l’epistola De imitatione diGiovanfrancesco Pico, datata 19 settembre 1512 e inviata a Pietro Bembo, sostenitore del-l’imitazione nella scrittura latina del perfetto modello, Cicerone nella prosa latina e Virgi-lio nella poesia eroica. 55 In particolare «è possibile [...] che le parole del pittore contenganoun’allusione a un problema speciWco» e a un luogo preciso dell’epistola, dove Pico aV er-ma che nell’animo dell’uomo esiste una certa idea del linguaggio corretto, alla quale siguarda quando si giudica il proprio linguaggio o quello degli altri, così come nel pittoreesiste «un modello astratto di bellezza» al quale si guarda per poter dipingere un corpo bello:

Certo, nel testo [di Giovanfrancesco Pico] non si parla di pittura: il pensiero critico dell’epoca siconcentrava per lo più sul linguaggio, sulla retorica, sullo stile del discorso. Ma anche qui è adom- brata la questione dell’imitazione. […] La diversa teoria che egli propone consiste, in breve, nel

sostituire alla pedissequa imitazione una salda e autentica cultura: dobbiamo sviluppare le nostreinnate capacità di giudizio per decidere quali modelli vogliamo seguire e Wno a che punto. Alcuni brani di questo testo importante m’interessano in modo particolare perché vi si trova esposta, intermini che ricordano da vicino la formulazione di RaV aello, una versione leggermente diversadella dottrina dell’Idea: ‘Tra i rinomati antichi non troverete mai lo sforzo di imitare qualcuno inmodo tale che ci si trova ad usare le stesse parole, le stesse frasi, gli stessi paragraW, come se si fossedegli eterni bambini, e meno indipendenti degli uccelli che imparano a volare da soli quando i lorogenitori li fanno uscire dal nido, avendoli visti volare soltanto tre o quattro volte’. […] osserviamo[…] come l’autore se ne serva per appoggiarsi all’aV ermazione di Aristotele secondo cui di tutte lecreature l’uomo è quella maggiormente disposta all’imitazione e all’apprendimento. Questa dispo-sizione, questo istinto, si trovano nell’uomoWn dalla nascita, e dunque chi volesse negare o deviarequesta tendenza naturale farebbe violenza alla Natura stessa. ‘Pertanto’, conclude Pico, ‘è insitanel nostro animo una certa idea (idea quaedam), una specie di seme dalla cui forza noi siamo anima-ti ad aV rontare qualsiasi compito, e che è nostro dovere coltivare, e non soV ocare’. 56

Come per Giovanfrancesco Pico l’uomo si serve dell’idea del linguaggio corretto chericeve dalla natura assieme alle altre facoltà, così per RaV aello l’artista si serve dell’ideadella perfetta bellezza che gli «viene nella mente». 57 Tuttavia in RaV aello, secondo Gom- brich, c’è una «versione leggermente diversa» dell’idea e della sua origine.

Gombrich ritiene che il nodo della origine dell’idea della bellezza, non aV rontato daRaV aello nella lettera al Castiglione, possa essere sciolto con la lettura dei dipinti. Limi-tando l’indagine a Botticelli, Leonardo e RaV aello, Gombrich dimostra che ciascun artistasi serve di un tipo ideale di bellezza, – ricevuto dalla tradizione culturale, dal propriomaestro: Botticelli da fra’ Filippo Lippi, Leonardo da Verrocchio, RaV aello da Pietro Van-nucci detto il Perugino – sul quale si interviene nelle singole opere, apportando alcunevariazioni. Nel caso della pittura raV aellesca, l’artista parte dal tipo di bellezza che trovanelle opere del Perugino, 58 mutandolo continuamente con diV erenze decisive per un for-te balzo in avanti. Così, se si confrontano le «Wgure estatiche», ad esempio quella della

 55. Cfr. Le epistole «De imitatione» di Giovanfrancesco Pico della Mirandola e di Pietro Bembo, a cura di G. Santangelo, Firenze,Olschki, 1954, pp. 27-28. Sulle diverse posizioni di Giovanfrancesco Pico della Mirandola e di Pietro Bembo nel dibattitosull’imitazione cfr. P. Sabbatino, La bellezza di Elena, cit., pp. 26- 35.

 56.E. H. Gombrich, Ideale e tipo nella pittura italiana del Rinascimento, cit., pp. 93-94. 57. Raffaello, Gli scritti, cit., p. 166. 58. Sulla formazione giovanile di RaV aello presso il Perugino cfr. G. Vasari,  Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et 

scultori italiani. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino Firenze 1550 , cit., p. 612: «Pietro [Perugino], veduto il disegno suo, imodi et i costumi, ne fe quel giudizio che il tempo dimostrò vero. E notabilissimo fu che in pochi mesi, studiando Rafaello lamaniera di Pietro, e Pietro mostrandoli con desiderio che egli imparassi, lo imitava tanto a punto et in tutte le cose, che i suoiritratti non si conoscevano da gli originali del maestro, e fra le cose sue e di Pietro non si sapeva certo discernere».

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    37

Galatea e quella di Santa Caterina d’Alessandria (ca. 1509, Londra, National Gallery), si rile-va che «il tipo esemplare di bellezza è una trasformazione o modiWcazione dello schemao vocabolario elaborato dal maestro» e che nel «dipingere un bel volto, RaV aello – comeBotticelli – non faceva distinzioni tra sacro e profano». 59 Per questo, Gombrich conclude,quando RaV aello aV ermò «di aver modellato la bella ninfa su una certa idea che aveva in

mente, si riferiva semplicemente al proprio tirocinio e alla propria pratica di pittore. [...]egli fa discendere la sua immagine non da un’idea platonica di bellezza bensì da un tipotrasmessogli dalla tradizione».60

Nel 1999  lo studioso di WlosoWa Giovanni Reale riporta la lettera di RaV aello al suo«spirito platonico-neoplatonico», lamentando che purtroppo non è stato compreso a ini-zio Novecento da Panofsky. Secondo Reale le dichiarazioni di RaV aello corrispondono alpensiero del tardo Platone ( Leggi, vii, 817 b) sul tema della poesia come imitazione del-l’idea, ripreso e sviluppato da Plotino ( Enneadi, v, 8, 1): 61

Plotino introduce una innovazione: dimostra, cioè, che l’arte crea la cosa bella in conformità dell’Ideastessa. Pertanto la poesia dipende non già da una imitazione delle cose sensibili, ma dall’imitazionedell’Idea medesima. […] E riprendendo il concetto platonico secondo cui le arti sono imitazionedella natura, Plotino precisa che, così come la natura imita la Forma e l’Idea, analogamente l’arteimita non le cose sensibili, ma proprio le Forme e le Idee. Inoltre, si spinge addirittura ad aV ermareche le arti, mediante questa imitazione dell’Idea, vanno oltre la natura stessa, in quanto la accrescono nelladimensione del bello. E, come esempio, chiama in causa la statua di Zeus scolpita da Fidia, la quale vamolto al di là di una realtà sensibile, nella misura in cui esprime in modo straordinario l’Idea stessadi Zeus.62

Il pensiero di Plotino, largamente presente nella cultura WlosoWca del Rinascimento, for-nisce la chiave di lettura neoplatonica delle aV ermazioni di RaV aello:

Quella “certa Idea” cui RaV aello dice di volersi ispirare è esattamente l’Idea della bellezza (in parti-colare la speciWca Idea di bellezza femminile), ossia quell’Idea che nella ra Y gurazione artistica aggiun- ge alla natura sensibile quanto le manca per essere “perfetta”. E nella pittura, così come nella poesia, ciòche conta non è il dato immediato, ma ciò a cui esso rimanda, ossia il suo valore simbolico eallusivo che fa vedere ciò che sta oltre il Wsico, ossia l’Idea stessa.63

 3. Il   LI BR O  DE L C ORTEGIANO e lo scrittore «  pittor  » di «  verità  »

Nel ritratto di pittura della corte di Urbino – il tempo della scrittura è tra il 1513 e il gennaiodel 1516 per la prima redazione (codd. Vaticani lat. 8204 e 8205), tra il 1520 e il 1521 per laseconda redazione (codd. Vaticani lat. 8205 e 8206), tra il 1521 e il 1524 per la terza (cod.Laurenziano Ashburnhamiano 409)64 –, Castiglione paragona lo scrittore al pittore, espo-ne la sua concezione estetica e, intrecciando in un passo un Wne dialogo intertestuale conla missiva sull’aV resco del Trionfo della Galatea e sul tema dell’imitazione che RaV aello gliaveva inviato nel 1514 ca., coglie l’occasione per replicare e per misurare la distanza che lisepara.

 59. E. H. Gombrich, Ideale e tipo nella pittura italiana del Rinascimento, cit., p. 123.60. Ivi, p. 126.61. Cfr. Plotino, Enneadi, prima versione integra e commentario critico di V. Cilento, 3, Bari, Laterza, 1973, pp. 89-90.62. G. Reale, Ra V  aello. Il “Parnaso”, Santarcangelo di Romagna (rn), Rusconi Libri, 1999, pp. 33- 34.63. Ivi, p. 36.64. Per la storia testuale cfr. G. Ghinassi, L’ultimo revisore del “Cortegiano”, «Studi di Wlologia italiana», xxi, 1963, pp. 217-

264; Idem, Fasi dell’elaborazione del “Cortegiano”, ivi, xxv, 1967, pp. 155-196; Idem, Postille sull’elaborazione del “Cortegiano”, «Studie problemi di critica testuale», iii, 1971, pp. 171-178. Il lavoro Wlologico approda alla edizione critica di B. Castiglione, Laseconda redazione del “Cortegiano”, per cura di G. Ghinassi, Firenze, Sansoni, 1968. Si vedano inoltre: G. La Rocca, Un taccuinoautografo per il “Cortegiano”, «Italia medievale e umanistica», xxiii, 1980, pp. 341- 373; P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. Lastampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani ( 1470 -1570  ), Bologna, il Mulino, 1991; M. Bertolo, Nuovi documenti sull’edizio-ne principe del “Cortegiano”, «Schifanoia», 13-14, 1992, pp. 133-144; A. Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, laStoria, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 29 ss. («Tra molti travagli» : la fatica di scrivere «questo povero Cortegiano»); O. Zorzi Pugliese,

 Renaissance Ideologies in Il libro del cortegiano: from the Manuscript Drafts to the Printed Edition, «Studi Rinascimentali», 1, 2003,pp. 35-42.

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pasquale sabbatino 38

Nominato da papa Clemente VII nunzio apostolico a Madrid, Castiglione fu dal 1525presso la corte imperiale di Carlo V. Dalla Spagna inviò il manoscritto apografo con cor-rezioni autografe (cod. Laurenziano Ashburnhamiano 409) del suo dialogo Il libro del Cor-tegiano, indirizzandolo ai Manuzio di Venezia, presso i quali il libro a stampa vide la lucenell’aprile del 1528, e ai Giunti di Firenze, presso i quali fu ristampato dopo alcuni mesi,

grazie alle cure editoriali di Giovan Battista Ramusio e di Pietro Bembo.65

Mentre il dialogo era in corso di stampa, nella primavera del 1527, forse dopo il Sacco diRoma, Castiglione decise di aggiungere alla dedica ad Alfonso Ariosto, – «rimane l’ispira-tore e primo autorevole destinatario» ed «exemplum» del modello cortigiano «elaboratonel testo»,66 – una nuova lettera dedicatoria al portoghese italianizzato monsignor Miguelda Sylva, umanista ed erudito, prelato e cortigiano.67 Il nuovo dedicatario era già statoambasciatore dell’imperatore Carlo V a Roma presso la corte pontiWcia di tre papi (LeoneX, Adriano VI, Clemente VII) tra il 1515 e il 1525 – in questo decennio fu vicino al Castiglio-ne nel travaglio redazionale del Cortegiano – e divenne poi punto di riferimento diploma-tico per Clemente VII nella diYcile politica di riavvicinamento e di accordo tra la Chiesae l’Impero dopo il sacco di Roma. La sua carriera ecclesiastica toccò il cardinalato nel 1541,per volere di Paolo III. Castiglione e Miguel da Sylva sono tra loro speculari, uniti dalla«fede appassionata di imperialisti convinti» e dalla frequentazione di un osservatorio po-

litico di dimensione europea.68

Nella lettera dedicatoria a Miguel da Sylva, la cui Wgura costituisce «il doppio politico»del dedicatore,69 Castiglione narra la genesi e la storia dell’opera. Il dedicatore ripercorreventi anni e più della sua esperienza di cortigiano, a partire dal 1504, quando lasciò ilmarchese Francesco Gonzaga e fu assunto al servizio dei signori di Urbino, Guidubaldodi Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga. Nel 1508, alla morte del duca, il cui elogio funebreè contenuto nell’epistola latina De vita et gestis Guidubaldi Urbini Ducibus (indirizzata al red’Inghilterra Enrico VII)70 e con l’avvento di Francesco Maria della Rovere, nipote e Wglioadottivo del defunto Guidubaldo e nipote di papa Giulio II, Castiglione rimase al serviziodi Urbino e svolse attività militari. Nel 1513, a seguito della elezione del papa Leone X(Giovanni de’ Medici, Wglio di Lorenzo il MagniWco), si trasferì a Roma, per svolgerel’attività diplomatica e quella letteraria, intensiWcando i contatti con letterati provenienti

da Urbino (Bembo, Bibbiena, Federico Fregoso), con altri personaggi di spicco in ambitoculturale (Sadoleto, Beroaldo, Tebaldeo) e con artisti, Michelangelo e in particolareRaV aello, il quale tra il 1514 e il 1515 dipinse il Ritratto di Baldassar Castiglione (Fig. 5 - Parigi,Louvre, olio su tela) 71 e in più occasioni, prima e dopo, raYgurò l’eYge dello scrittore,

65.Cfr. V. Cian, Prefazione alla quarta ed. «riveduta e corretta» di B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, Firenze, Sansoni,1947, p. ix.

66. A. Carella, “Il libro del Cortegiano” di Baldassarre Castiglione, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, Le Opere, i, DalleOrigini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, p. 1090.

67.Cfr. S. Deswarthe, Il perfetto cortegiano. D. Miguel da Silva, Roma, Bulzoni, 1989.68.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di V. Cian, cit., p. 450.69.M. Beer , Le maschere del tempo nel Cortegiano, in La corte e il “Cortegiano”, i, La scena del testo, a cura di C. Ossola, Roma,

Bulzoni, 1980, p. 201.70.Cfr. G. Gorni, Il mito di Urbino dal Castiglione al Bembo, ivi, pp. 175-190.71. Sul Ritratto del Castiglione cfr. P. De Vecchi, L’opera completa di Ra V  aello, presentazione di M. Prisco, Milano, Rizzoli,1999,

pp. 111-112, n. 114; C. Mutini, Arte e letteratura, in Storia dell’arte italiana, a cura di F. Zeri, 10, Torino, Einaudi, 1981, pp. 310- 311; G.Patrizi, La visibilità della norma: il ritratto e il cortigiano, in Il ritratto e la memoria. Materiali, a cura di A. Gentili, Ph. Morel, C. CieriVia, 3, Roma, Bulzoni, 1993, p. 96 («Un giudizio di Vittorio Cian vede armonizzarsi nel ritratto del Castiglione […] elevatezzamorale e grazia estetica. Da un fondo neutro ma ben illuminato, si staglia la Wgura del letterato che guarda assorto e malinconi-co dinanzi a sé, stringendo goV amente l’un l’altra le mani, ma con un gesto impacciato, riassorbito però da un superiore equili- brio dellaWgura, la cui eYcacissima posa si inserisce bene nell’impasto delle delicate sfumature dell’insieme. Il curioso e prezio-so copricapo – fatto confezionare su misura per coprire una calvizie precoce – trova puntuale riscontro nei ricchi dettaglidell’abbigliamento, la cui preziosità è più suggerita […] che mostrata. […]. Eppure in essa [l’eYgie] resiste al dettaglio che indicalo status sociale un’aura individuante, una cifra quasi di smarrimento. Non è incongruo allora pensare ad un’anticipazione, neldipinto, del malinconico incipit  del Cortegiano […], là dove si medita, nella […] dedica a Michel de Silva, sulla morte dei personag-gi che animarono la corte urbinate e che furono protagonisti delle conversazioni narrate dal Castiglione»). Nella Elegia [...] qua Wngit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem, composta nel 1519 circa, quando fu presso la corte papale in veste di ambasciatore diFederico Gonzaga, Castiglione fa dire alla moglie: «sola tuos vultus referens, Raphaelis imago / picta manu curas allevat usquemeas. / Huic ego delicias facio arrideoque iocorque / alloquor et, tanquam reddere verba queat. / Assensu nutuque mihi saepe

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    39

dalla Stanza della Segnatura(1508-1511) – negli aV reschidella Scuola d’Atene e del Par-naso72 – alla Sala di Costantino(1517-1520, continuata da altri

dopo la morte di RaV 

aello),nell’aV resco  Donazione di Roma, attribuito a Giulio Ro-mano e realizzato su cartonidi RaV aello tra il 1520 e il 1524. Al binomio RaV aello-Casti-glione si deve la famosa let-tera, con cui nasce l’archeo-logia, sulle antichità di Romache nel 1519 RaV aello inviò aLeone X, presentando il frut-to di indagini e rilevazioni sul-le reliquie architettoniche.73

Nello stesso anno RaV aelloscrisse al Castiglione la lette-ra sul progetto di Villa Mada-ma, a lungo ritenuta perdutae riscoperta nel 1967  da Fo-ster,74 e dopo la morte dell’ar-tista nel 1520 Castiglione die-de voce al suo dolore in unepigramma latino.75

Una profonda rottura conLeone X si ebbe nel giugnodel 1516, quando il papa, spo-

destando Francesco Maria,insediò a Urbino il nipote Lorenzo di Piero de’ Medici, il dedicatario del Principe di Ma-chiavelli (scritto tra il 1513 e il 1514, anni in cui Lorenzo di Piero de’ Medici era di fattosignore di Firenze, e dato alle stampe nel 1532). Castiglione, fedele al legittimo duca, loseguì in esilio a Mantova.

illa videtur / dicere velle aliquid et tua verba loqui» («Solo l’immagin del tuo volto, pinta / da la divina man di RaV aello / giungealWne a lenir gli aV anni miei. / A quella io fo carezze e rido e scherzo / e parlo, come se parlar potesse, / e spesso par che assentae che con cenni / voglia dir qualche cosa e aprire il labbro / per ripetere a me le tue parole»). Per le opere minori si cita da B.Castiglione, Il libro del Cortegiano, Con una scelta delle Opere minori, a cura di B. Maier, Torino, utet, 1981 3, p. 608. La traduzioneproposta da Maier è tratta da A. Bonaventura, La poesia neo-latina in Italia dal secolo XIV  al presente. Saggio e versioni poetiche, Cittàdi Castello, S. Lapi, 1900, pp. 140-144. Sul Ritratto del Castiglione cfr. P. De Vecchi, L’opera completa di Ra V  aello, presentazione di M.Prisco, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 111-112, n. 114; G. Patrizi, La visibilità della norma: il ritratto e il cortigiano, cit., pp. 91-101.

72. L’individuazione di Castiglione nel Parnaso è controversa. Cfr. G. Reale, Ra V  aello. Il “Parnaso”, cit., p. 81.

73. La lettera, scritta dal Castiglione, accoglie e interpreta il pensiero dell’artista, che morì l’anno successivo. Sui testimoni – il ms. mantovano Documenti sciolti, a), n. 12 dell’Archivio Privato Castiglioni, e il codice it. 37 b della Bayerische Staatsbi- bliothek di Monaco –, sull’edizione padovana per i tipi di Comino a cura dei fratelli Giovanni Antonio e Gaetano Volpi (1733)e sui problemi attributivi cfr. F. P. Di Teodoro, Ra V  aello, Baldassar Castiglione e la “Lettera a Leone X”, cit.; C. Vecce, La «Letteraa Leone X» tra Ra V  aello e Castiglione, «Giornale storico della letteratura italiana», cxiii, 1996, fasc. 563, pp. 533- 543.

74. Ph. Foster , Raphael on the Villa Madams: The Text of a lost Letter , «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 11, 1967-68,pp. 308- 312 (trascrizione diplomatica di una copia conservata nell’Archivio di Stato di Firenze, Archivio Mediceo avanti il Princi-

 pato, Wlza 94, n. 162, V . 294-299). Cfr. la trascrizione basata sul manoscritto originale in appendice al volume di F. P. Di

Teodoro, Ra V  aello, Baldassar Castiglione e la “Lettera a Leone X”, cit., pp. 221-227.75. Il testo è citato da Vasari nella prima edizione delle Vite, cit., p. 641. Cfr. R. Fedi, In obitu Raphaelis, in Studi di Wlologia e

critica o V  erti a Lanfranco Caretti, to. i, Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 195-223 ; F. P. Di Teodoro, Ra V  aello, Baldassar Castiglio-ne e la “Lettera a Leone X” cit, p. 241. Sulla Canzone in morte Raphaelis Urbinatis pictoris et architecti di Francesco Maria Molza,scritta tra la morte di RaV ello, il 6 aprile 1520, e la morte di Leone X, il 1° dicembre 1521, cfr. R. Fedi, In obitu Raphaelis, cit., pp.195-223.

Fig. 5. Parigi, Louvre. Raffaello, Ritratto di Baldassar Castiglione.

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pasquale sabbatino40

Nel ricostruire a distanza questi anni e questi eventi, Castiglione è consapevole di muo-versi tra destino privato e destino pubblico, tra autobiograWa e storia collettiva, con l’ine-vitabile e prezioso risvolto di raccontare la storia sociale dal suo punto di vista. È il caso,per l’appunto, del passaggio ereditario dei poteri ducali da Guidubaldo di Montefeltro aFrancesco Maria della Rovere:

Quando il signor Guid’Ubaldo di Montefeltro, duca d’Urbino, passò di questa vita, io insieme conalcun’altri cavalieri che l’aveano servito restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere,erede e successor di quello nel Stato […].76

La lunga e inossidabile fedeltà del Castiglione alla famiglia ducale di Urbino viene accura-tamente messa in evidenza con la segnalazione dei servizi prestati presso Guidubaldo diMontefeltro prima e presso Francesco Maria della Rovere dopo, dal 1504 al 1521. Inoltre lamarcata deWnizione di Francesco Maria della Rovere quale «erede e successor» di Guidu- baldo di Montefeltro se da una parte richiama la ormai superata presa di posizione pole-mica di Castiglione contro la politica urbinate di papa Leone X (morto nel dicembre del1521) a favore del nipote Lorenzo di Piero de’ Medici, dall’altro ribadisce che giuridica-mente il ducato appartiene di diritto a Francesco Maria della Rovere, di nuovo al governodi Urbino dal febbraio 1522 Wno al 1538, anno della morte.

Nella lettera dedicatoria a Miguel da Sylva, Castiglione innanzitutto espone la ragionedi fondo che lo spinse a scrivere il primo abbozzo del dialogo tra il 1513 e il 1514 e la primaredazione organica tra il 1514 e il 1515, cioè il desiderio di fermare la «memoria», trasmetten-dola ai posteri, sia dell’«odor delle virtù» dello scomparso Guidubaldo di Montefeltro, siadella «satisfazione» che egli aveva provato «della amorevole compagnia di così eccellentipersone, come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino». 77 In secondo luogo Castiglionesi mostra pienamente consapevole dei processi storici che avevano segnato l’Italia dal 1513-1514 al 1527, con la messa in crisi dell’«ipotesi di un potenziale sviluppo del sistema signorileitaliano» e con «la Wne irreparabile di un mondo», sancita dal sacco di Roma.78 Per questoil «libro» viene presentato a da Sylva come «ritratto di pittura della corte d’Urbino»79 natodal desiderio di tesserne le lodi e di conservarne la memoria, 80 una rappresentazione dalvero dell’ambiente e di persone in azione, fatta «non di mano» di RaV aello (ormai morto

nel 1520) o di Michelangelo Buonarroti (vivrà Wno al 1564 e all’altezza dell’editio princeps erafortemente ammirato per gli aV reschi della volta della Cappella Sistina, 1508-1512), i dueartisti che nel primo Cinquecento si contendevano il primato, ma dalla penna di uno scrit-tore, che ama deWnirsi «pittor» di verità81 e ama mostrare la sua «profonda contiguità» conRaV aello ritrattista e con la «diV usa pratica del ritratto nella corte urbinate». 82

76.Per il dialogo si cita da B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, pp. 69-70. È opportuno segnalare altre dueedizioni moderne: la prima a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi, 1998 – sulla quale si veda A. Quondam, Tipologie culturalidel gentiluomo di Antico Regime. Polemichette e noterelle a proposito di una nuova edizione del “Libro del Cortegiano”, «Nuova rivistadi letteratura italiana», i, 2, 1998, pp. 553- 598 – e la seconda a cura di A. Quondam, Milano, Mondadori, 2002, voll. 2.

77.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 70.78.A. Carella, “Il libro del Cortegiano” di Baldassarre Castiglione, cit., pp. 1090-1091.79.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 71. Sulla storia della voce ritratto (valore verbale e valore sostantiva-

le), che tra Quattrocento e Cinquecento ha diversi signiWcati (ritrarre dal vero ambiente e persone, ritrarre dal vero la Wguraumana, ecc.), e sulla fortuna della ritrattistica cfr. E. Castelnuovo, Il signi Wcato del ritratto pittorico nella società, in Storia

d’Italia, coord. R. Romano, C. Vivanti, V. I documenti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 1031-1094; Il ritratto e la memoria, Roma,Bulzoni, 1989-1993,  3 voll.; L. Grassi,  Ritratto, in L. Grassi, M. Pepe,  Dizionario di arte, Torino, utet, 1995, pp. 707-715; F.Caroli, L’anima e il volto. Ritratto e Wsiognomica da Leonardo a Bacon (Milano, Palazzo Reale, 30 ottobre 1998-14 marzo 1999),Milano, Electa, 1998; M. Koshikawa, Individualità e concetto. Note sulla ritrattistica del Cinquecento, nel catalogo Rinascimento.Capolavori dei musei italiani. Tokyo-Roma 2001, Milano, Skira, 2001, pp. 39-45; V. Della Valle, «L’ispendervi parole non sarebbemolto pro Wttevole». Appunti sul lessico delle arti nei trattati dei secoli  XV  e  XVI , in Storia della lingua e storia dell’arte. Disimmetrie eintersezioni, Atti del iii Congresso asli (Roma, 30- 31 maggio 2002), a cura di V. Casale, P. D’Achille, Firenze, Cesati Editore,2004, pp. 319- 329. Per la funzione del ritratto cfr. J. Burckhardt, Il ritratto nella pittura italiana del Rinascimento, introduzione diC. Cieri Via, traduzione e note critiche di D. Pagliai, Roma, Bulzoni, 1993 (ed. orig. Basel, 1898).

80.Cfr. C. Ossola, “Il libro del Cortegiano”: cornice e ritratto (1979), in Dal “Cortegiano” all’ “Uomo di mondo”. Storia di un libroe di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987, pp. 27-42; E. Saccone, Trattato e ritratto: l’introduzione del Cortegiano, «ModernLanguage Notes», xciii, 1, 1978, pp. 1-21; A. Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, la Storia, cit., pp. 508- 512.

81.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 73.82. A. Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, la Storia, cit., p. 510. «Questa cultura ritrattistica – osserva

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    41

Nel far ricorso al topos dell’umiltà, lo scrittore disegna sé stesso come pittore «ignobile»rispetto ai due grandi artisti e quindi capace solo di «tirare le linee principali» del disegno,come avveniva nell’arte gotica, «senza adornar la verità», come avviene nell’arte moder-na, «de vaghi colori» e senza ricorrere alla «prospettiva» che fa sembrare nel ritratto dipin-to, e quindi su una superWcie bidimensionale, «quello che non è», la rappresentazione tridi-

mensionale di oggetti.83

 In questo autoritratto dello scrittore-pittore, consegnato al dedica-tario e ai lettori, Castiglione già fornisce una prima e preziosa indicazione del suo credoestetico, che unisce scrittori e pittori e si fonda sulla rappresentazione dal vero (storico onaturale), e rivela una profonda cultura artistica, di cui dà un saggio più avanti (i, xlix-liii).

Il libro del Cortegiano, allora, come «ritratto di pittura della corte d’Urbino» di quel lon-tano 1507, l’anno del dialogo articolato in quattro serate, i cui interlocutori, tra residenti eospiti, erano ormai tutti scomparsi, come scomparso era anche Alfonso Ariosto, il primodestinatario e anche ispiratore. Il lungo necrologio viene suddiviso nel pre-testo e neltesto, tra la dedica a Miguel da Sylva e il proemio del quarto libro.84 Con loro se ne eraandato anche il vecchio mondo signorile italiano e la complessa crisi delle corti italianeera ben evidente dall’osservatorio di una capitale europea come Madrid, mentre le grandimonarchie nazionali della Spagna e della Francia si sviluppavano sempre più.

Nel licenziare deWnitivamente il dialogo, Castiglione ne avverte la «Wsionomia piutto-

sto Wgurativa e rappresentativa»85 di un luogo e di un tempo – la corte e la stagione signo-rili – appartenenti ormai al passato prossimo, la natura di ritratto per l’appunto «che,contemplato, si oV re alla contemplazione altrui»,86 la funzione inWne di «monumento»funebre della famiglia urbinate che «incita dinamicamente, produttivamente, all’imita-zione».87 Nel consegnare, dunque, mediante la dedica a Miguel da Sylva, il ritratto storicodella corte di Urbino alle corti europee dei nuovi Stati assolutistici, Castiglione mette adisposizione la propria esperienza per poter costruire, nel presente e nel futuro, una Wgu-ra esemplare, un modello perfetto, un codice professionale altamente specialistico del-l’uomo di corte.88

4. L’«  artificiosa  » imitazione della naturae il «  perfettissimo giudicio di bellezza  »

del pittore e del cortigiano

Castiglione sviluppa in modo ampio e organico la riXessione sull’imitazione nel Libro delCortegiano, partendo dal proWlo del perfetto uomo di corte il quale tra le altre virtù devesaper conversare e scrivere. Le parole del conte Ludovico da Canossa, l’alter ego dell’auto-

Quondam – sembra esplodere proprio nel momento del cronotopo del Cortegiano, soprattutto tramite il lavoro del giovaneRaV aello: negli anni tra il 1504 e il 1506 sono repertoriati alcuni ritratti che […] provengono tutti dalle raccolte ducali e tutticonvergono su Urbino, in particolare sul gruppo che si riunisce in conversazione nel Palazzo». L’elenco è «generico», masigniWcativo, e il numero tra parentesi quadre rinvia al catalogo di P. De Vecchi, L’opera completa di Ra V  aello, cit.: «l’ElisabettaGonzaga [n. 40] ora agli UYzi (a tergo si legge questa scritta: “Isabetta mantovana moglie del duca Guido”), l’Emilia Pio [n.41] ora nella Collezione Epstein di Baltimora, il Francesco Maria della Rovere degli UYzi [n. 45], i due San Giorgio e il drago perEnrico VII d’Inghilterra (ora al Louvre [n. 49] e alla National Gallery di Washington [n. 50]), il Guidubaldo degli UYzi [n. 57];per non dimenticare il perduto ritratto di Pietro Bembo (del 1506) [n. 58], nonché, sempre per diretta pertinenza con il Corte-

 giano, quello di Federico Gonzaga [n. 102], anch’esso perduto, o quello di cardinale ora al Prado (ove è riconoscibile, secondo

alcuni, il Bibbiena, e secondo altri Ippolito d’Este) [n. 88]».83.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, pp. 73-74. Sulla conquista della prospettiva cfr. E. Panofsky, La prospet-

tiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di G. D. Neri, con una nota di M. Dalai, Milano, Feltrinelli, 1966; il Catalogodella Mostra (Firenze, Galleria degli UYzi, 16 ottobre 2001-20 gennaio 2002) Nel segno di Masaccio. L’invenzione della prospettiva,a cura di F. Camerota, Firenze, Giunti, 2001 (e relativa bibliograWa, pp. 285- 307).

84.Guidubaldo era morto nel 1508, Gasparo Pallavicino nel 1511, Cesare Gonzaga nel 1512, Roberto da Bari intorno al 1513,Giuliano de’ Medici nel 1516, Bernardo Dovizi da Bibbiena nel 1520, Ottaviano Fregoso nel 1524, Alfonso Ariosto nel 1525, laduchessa Elisabetta Gonzaga nel 1526. Cfr. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, pp. 71-73 e 451-452.

85. Cfr. B. Maier , Commento a B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, cit., p. 73, nota 25.86.A. Carella, “Il libro del Cortegiano” di Baldassarre Castiglione, cit., p. 1090.87.Cfr. A. Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, la Storia, cit., p. 508.88.Sulle edizioni, traduzioni e imitazioni del Cortegiano in Europa cfr. P. Burke, Le fortune del Cortegiano. Baldassarre Casti-

 glione e i percorsi del Rinascimento europeo, trad. di A. Merlino, Roma, Donzelli, 1998 (ed. orig. Cambridge, 1995); la recensionea Burke 1995 di C. Mozzarelli, «Annali di Storia Moderna e Contemporanea», iii, 1997, pp. 519- 532.

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re, puntano su una concezione dinamica ed evolutiva della lingua volgare e sull’uso so-ciale e strumentale della stessa, funzionale alla comunicazione del «sapere».89 Da qui l’op-posizione ferma alla pedissequa pratica imitativa, l’esortazione alla imitazione selettiva,l’esaltazione dell’ingegno e del giudizio naturale di ciascuno nello scrivere senza imita-zione, così come hanno fatto i padri fondatori della letteratura volgare Petrarca e Boccac-

cio, e inW

ne la presa di coscienza di una pluralità di percorsi per arrivare alla perfezione.Le argomentazioni sono aYdate al Canossa, portavoce di Castiglione, il cui discorso simuove tra la questione dell’imitazione e la questione della lingua volgare (e per quest’ul-tima occorre lasciarsi guidare dalla consuetudine):

Laudo ben sommamente coloro che sanno imitar quello che si dee imitare; nientedimeno noncredo io già che sia impossibile scriver bene ancor senza imitare; e massimamente in questa nostralingua, nella quale possiam esser dalla consuetudine aiutati; il che non ardirei dir della latina.

(i, xxxvi)90

Creder si po che que’ che erano imitati fossero migliori che que’ che imitavano; e troppo maravi-glia sarìa che così presto il lor nome e la fama, se eran boni, fosse in tutto spenta. Ma il lor veromaestro cred’io che fosse l’ingegno ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno è che sidebba maravigliare, perché quasi sempre per diverse vie si po tendere alla sommità d’ogni eccel-

lenzia. (i, xxxvii)91

La veriWca della pluralità delle vie per raggiungere la perfezione viene fatta in diversiambiti, tutti di pertinenza amatoriale dell’uomo di corte, dalla poesia e oratoria dell’anti-chità alla letteratura volgare, dalla musica che impegna l’udito alla pittura che impegna lavista.92 A questo proposito Castiglione, senza lasciarsi prendere dalla tentazione di undiscorso storico delle arti, esibisce un elenco essenziale di cinque pittori (Leonardo daVinci, Andrea Mantegna, RaV aello,93 Michelangelo, Giorgio da Castelfranco detto Gior-gione), i protagonisti dell’arte nel primo Cinquecento, sottolineando la peculiarità della«maniera» dei singoli artisti, la molteplicità dei linguaggi e la perfezione raggiunta daciascuno nel proprio «stile»:

Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri, tanto che con diYcultà giudicar si po quaipiù lor sian grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna,Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco; nientedimeno, tutti son tra sé nel far dissimili,di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perché si conosceciascun nel suo stilo esser perfettissimo.

(i, xxxvii)94

89.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 143.90.Ivi, pp. 149-150.91. Ivi, p. 151.92.Su questa «tradizione amatoriale», che vuole il cortigiano non solo esperto in scherma, equitazione, studio della cultu-

ra classica, collezionismo, ma anche nelle arti della poesia, della musica e della pittura cfr. P. O. Kristeller , Il pensiero e le artinel Rinascimento, Roma, Donzelli, 1998 (ed. orig. 1990), pp. 194-195.

93. È la seconda volta che RaV aello viene citato nel Cortegiano. Ritorna in i, l («Rispose allor Ioan Cristoforo: – Credo ioveramente che voi parliate contra quello che avete nell’animo e ciò tutto fate in grazia del vostro Rafaello, e forse ancor parvila eccellenzia che voi conoscete in lui della pittura sia tanto suprema, che la marmoraria non possa giungere a quel grado; ma

considerate che questa è laude d’un artiWce, e non dell’arte»); i, li  («Disse il Conte ridendo: – Io non parlo in grazia deRafaello; né mi dovete già riputar per tanto ignorante, che non conosca la eccellenzia di Michel Angelo e vostra e degli altrinella marmoraria; ma io parlo dell’arte, e non degli artiWci»); ii, lxxvi (RaV aello è protagonista di un breve racconto arguto:«rispose ancor Rafaello pittore a dui cardinali suoi domestici, i quali, per farlo dire, tassavano in presenzia sua una tavola cheegli avea fatta, dove erano san Pietro e san Paulo, dicendo che quelle due Wgure eran troppo rosse nel viso. Allora Rafaellosùbito disse: “Signori, non vi maravigliate; ché io questi ho fatto a sommo studio, perché è da credere che san Pietro e sanPaulo siano, come qui gli vedete, ancor in cielo così rossi, per vergogna che la Chiesa sua sia governata da tali omini comesiete voi”»).

94.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 152. Nel 1532, nell’ultima redazione dell’Orlando furioso (xxxiii, 2), Ariosto formula un catalogo lungo di artisti (Leonardo da Vinci, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, i fratelli Dosso eBattista Dossi, Michelangelo Buonarroti, Sebastiano del Piombo, RaV aello, Tiziano): «e quei che furo a’ nostri dì, o sonoora, / Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, / duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora, / Michel, più che mortale, Angel divino ; / Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora / non men Cador, che quei Venezia e Urbino ; / e gli altri di cui tal l’oprasi vede, / qual de la prisca età si legge e crede» (L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di R. Ceserani, 2, Torino, utet, 1981, p.

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    43

Il passo di Castiglione, una vera e propria pagina di critica d’arte già presente nella primaredazione del Libro del Cortegiano, è una riscrittura, con adattamento e aggiornamento, distralci ben precisi del De oratore ( 3, 7, 25-27) di Cicerone95 e dell’Institutio oratoria (12, 10, 1-2) di Quintiliano96 – due opere fondamentali della biblioteca dell’uomo del Rinascimen-to –,97 sulla molteplicità degli stili nella scrittura (oratoria e poesia) e nelle arti (pittura e

scultura).98

Nello scrivere e nel parlare, allora, il perfetto cortigiano non ha modelli da imitare, anzideve imitare solo la lingua che gli è «propria e naturale» (i, xxxvii),99 esercitando la virtùdella «sprezzatura», che si esalta nella grazia, ed evitando così di cadere nell’errore con-trario dell’«aV ettazione», che diviene «vicio odiosissimo» (i, xxviii) in quanti si allontana-no dall’uso vivo nei ragionamenti. 100 È il caso di quei Lombardi che, «se sono stati un

1280). Si veda inoltre F. Bologna, La coscienza storica dell’arte d’Italia, Torino, utet, 1982, pp. 71-73; C. Dionisotti, Appunti suarti e lettere, Milano, Jaca Book, 1995, pp. 120-122.

95. M. T. Cicerone, Dell’oratore, testo latino, introduzione, versione e note a cura di A. Pacitti, 3, Bologna, Zanichelli, 1977,pp. 23-25: «Natura nulla est, ut mihi videtur, quae non habeat in suo genere res complures dissimiles inter se, quae tamenconsimili laude dignentur. Nam et auribus multa percipimus, quae etsi nos vocibus delectant, tamen ita sunt varia saepe, utid, quod proximum audias, iucundissimum esse videatur […]. At hoc idem, quod est in naturis rerum, transferri potest etiamad artes. Una Wngendi est ars, in qua praestantes fuerunt Myro, Polyclitus, Lysippus; qui omnes inter se dissimiles fuerunt,

sed ita tamen, ut neminem sui velis esse dissimilem. Una est ars ratioque picturae dissimillimique tamen inter se Zeuxis, Aglaophon, Apelles; neque eorum quisquam est, cui quicquam in arte sua deesse videatur. Et si hoc in his quasi mutis artibusest mirandum et tamen verum, quanto admirabilius in oratione atque in lingua? Quae cum in isdem sententiis verbisqueversetur, summas habet dissimilitudines; non sic, ut alii vituperandi sint, sed ut ii, quos constet esse laudandos, in disparitamen genere laudentur» («Non esiste in natura alcun ordine di cose, che, a mio parere, non rivelino nell’ambito della lorospecie numerose diV erenze e dissomiglianze, le quali, pure in questa diV erenziazione, formano un tutt’uno armonioso epiacevole. Molti sono i suoni che giungono al nostro orecchio, e, sebbene siano tutti piacevoli, è tuttavia così vasta la lorovarietà, da sembrarci il più gradito quello che ci arriva per ultimo. […] Ora, ciò che si veri Wca nell’ordine delle percezionisensoriali, può essere applicato anche alle arti. Una è l’arte della scultura, in cui si resero celebri Mirone, Policleto e Lisippo.Tutt’e tre diV eriscono tra loro, è vero, ma non così, da desiderare che ciascuno di essi non sia uguale a se stesso. Una è l’artedella pittura ed unitaria la sua dottrina: eppure Zeusi, Aglaofonte ed Apelle furono assai diV erenti tra loro, né alcuno credeche la loro arte sia per qualche parte manchevole. Ora, se questa varietà realmente esistente in queste arti, che oserei deWniremute, desta la nostra meraviglia, perché dovrebbe suscitare stupore maggiore in noi l’eloquenza e l’arte della parola? E, purimplicando essa le medesime idee e le medesime parole, vi si osserva tuttavia una grande varietà di aspetti. Non dico con ciòche alcuni oratori corrano il rischio d’essere biasimati, ma quelli che meritano d’essere apertamente lodati, lo sono per leparticolari qualità d’ognuno»).

96.M. F. Quintiliano, L’istituzione oratoria, a cura di R. Faranda, P. Pecchiura, 2, Torino, utet, 19792, pp. 690-692: «Superestut dicam de genere orationis. […] Cum sit autem rhetorices atque oratoris opus oratio pluresque eius formae, sicut ostendam,

in omnibus iis et ars est et artifex, plurimum tamen invicem diV erunt: nec solum specie, ut signum signo et tabula tabulae etactio actioni, sed genere ipso, ut Graecis Tuscanicae statuae, ut Asianus eloquens Attico. Suos autem haec operum genera,quae dico, ut auctores sic etiam amatores habent […]. Primi […] clari pictores fuisse dicuntur Polygnotus atque Aglaophon[…]. Post Zeuxis atque Parrhasius non multum aetate distantes circa Peloponnesia ambo tempora […]. Floruit autem circaPhilippum et usque ad successores Alexandri pictura praecipue, sed diversis virtutibus. Nam cura Protogenes, ratione Pamphi-lus ac Melanthius, facilitate Antiphilus, concipiendis visionibus, quas αντασας vocant, Theon Samius, ingenio et gratia, quamin se ipse maxime iactat, Apelles est praestantissimus. Euphranorem admirandum facit, quod et ceteris optimis studiis interpraecipuos et pingendiWngendique idem mirus artifex fuit» («Mi resta da parlare dello stile oratorio. […] E poiché un’orazioneè opera della retorica e dell’oratore, e svariate sono, come dimostrerò, le sue forme, in ognuna di esse ci sono un’arte e unarteWce, ma la diV erenza tra loro è notevolissima. E non solo nella specie, come ad esempio tra statua e statua, tra dipinto edipinto, tra azione forense e azione forense, ma anche nel genere, come tra statue greche e statue etrusche o tra Asianesimo e Atticismo. Codesti generi cui alludo hanno sia i loro maestri che i loro simpatizzanti […]. I primi celebri pittori […] si dice chesiano stati Polignoto e Aglaofonte […]. In seguito Zeusi e Parrasio, quasi coetanei tra loro essendo Woriti al tempo della guerradel Peloponneso […]. La pittura ebbe, però, il suo massimo splendore particolarmente al tempo di Filippo e, in seguito,Wno aisuccessori di Alessandro, ma per virtù diverse. Infatti furono eccellenti Protogene per l’accuratezza, PanWlo e Melanzio per laloro razionalità, AntiWlo per la sua facilità, Teone di Samo per il suo modo di concepire le “immagini”, chiamate phantasíai, Apelle per il talento e per quella grazia, di cui moltissimo si vanta da sé. Suscita ammirazione Eufranore, perché, oltre ad esserepersona di eccezionale cultura, fu nello stesso tempo ammirato pittore e scultore»). Il passo continua con l’esempliWcazionenel campo della scultura (Callone, Egesia, Calamide, Mirone, Policleto, Fidia, Alcamene, Lisippo, Prassitele) e della oratoria(Gaio Lelio, Scipione Africano, Catone il Censore, Tiberio e Caio Gracchi, Lucio Crasso, Quinto Ortensio, Giulio Cesare,Calidio, Calvo Licinio, Marco Bruto, Servio Sulpicio Rufo, Cassio Severo, Lucio Anneo Seneca, Giulio Africano, Domizio Afro, Vibio Crispo, Marco Galerio Tracalo, Giulio Africano, Marco Tullio Cicerone, ecc.).

97.Per la ricostruzione della biblioteca privata del Castiglione cfr. G. Rebecchini, The Book Collection and Other Possessionsof Baldassarre Castiglione, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», lxi, 1998, pp. 17- 52.

98.Sulla fortuna tra Quattrocento e Seicento di questi passi dei due retori antichi cfr. E. H. Gombrich, Norma e Forma.Studi sull’arte del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1973, pp. 4-6, 203-205; M. Kemp, “Equal excellencies”. Lomazzo and the explana-tion of individual style in the visual arts, «Renaissance Studies», 1, 1987, pp. 5-6; D. Mahon, Eclecticism and the Carracci: Further 

 Re Xections om the Validity of a Label, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xvi, 1953, p. 312, J. Shearman, Castiglio-ne’s portrait of Raphael, cit., pp. 73-74 e 91, nota 31; P. Giovio, Scritti d’arte. Lessico ed ecfrasi, a cura di S. MaV ei, Pisa, ScuolaNormale Superiore, 1999, pp. 227-232.

99.B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 154.100. Ivi, p. 133.

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101. Ibidem.102. Ibidem.103. Ivi, p. 176.104. Ivi, p. 177.105. Ivi, p. 179.106. Ivi, p. 180.107. Ivi, p. 181.108. Sui vari signiWcati di questa voce cfr. B. Orsini, arti Wcio, in L. Grassi, M. Pepe, Dizionario di arte, cit., pp. 75-76.109. Cfr. P. Sabbatino, Scrittura e scultura nell’umanista napoletano Pomponio Gaurico, in P. Gaurico, De sculptura, a cura di

P. Cutolo, Napoli, esi, 1999, part. pp. 27- 32.

anno fuor di casa, ritornati sùbito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franze-se, e Dio sa come» (i, xxviii),101 o ancora di quelli che fanno uso di «parole antiche toscane,che già sono dalla consuetudine dei Toscani d’oggidì riWutate».102

Più avanti, nell’aV rontare un’altra virtù del perfetto cortigiano, «il saper disegnare edaver cognizion dell’arte propria del dipingere» (i, xlix),103 l’esercizio tecnico e il bagaglio

teorico-estetico, Castiglione riprende la questione dell’imitazione e la svolge nell’ambitodelle arti. Parallelamente allo scrittore che imita con sprezzatura solo la semplice puritànaturale della lingua viva, il pittore e lo scultore conquistano «gran laude» imitando con glistrumenti dell’arte la «nobile e gran pittura» dell’universo, dipinto «per man della natura edi Dio», «la machina del mondo, che noi veggiamo», secondo la cosmologia aristotelico-tolemaica, «coll’amplo cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra dai maricinta, di monti, valli e Wumi variata e di sì diversi alberi e vaghi Wori e d’erbe ornata».104

La posizione del Castiglione viene raV orzata, nel corso della questione del primato trale arti, con gli interventi dello scultore Giovan Cristoforo Romano:

Ed a me par bene, che l’una e l’altra sia una artiWciosa imitazion di natura(i, l); 105

e del conte Ludovico da Canossa:

E voi ben dite vero che e l’una e l’altra è imitazion della natura.(i, li) 106

Inoltre, aV rontando il nodo dell’assegnazione del primato alla pittura o alla scultura, Ca-stiglione analizza le ragioni a favore dell’una e dell’altra e inWne assegna la palma allapittura, che è «più nobile e più capace d’artiWcio che la marmoraria» (i, lii).107 Tra gliartiWci108 o strumenti propri della pittura Castiglione elenca le luci e le ombre (il chiaro-scuro), la prospettiva, che caratterizza l’arte moderna, e l’imitazione dei colori naturali. Ancora una volta Castiglione esibisce una profonda competenza in materia artistica e suun tema allora molto discusso, come documentano i trattati di Leon Battista Alberti,  Destatua (probabilmente anteriore al 1435) e De pictura (1436), il Libro di Pittura (tra Wne ’400 einizio ’ 500) di Leonardo da Vinci, il  De sculptura (1504) di Pomponio Gaurico, l’inchiesta

epistolare del Varchi tra otto artisti (Giorgio Vasari, Jacopo Carrucci detto il Pontormo, Agnolo Bronzino, Giovambattista del Tasso, Francesco da Sangallo, Niccolò Tribolo,Benvenuto Cellini, Michelangelo Buonarroti), i cui risultati sono esposti nella  Lezzione […] nella quale si disputa della maggioranza delle arti e qual sia più nobile, la scultura o la pittu-ra, fatta da lui pubblicamente nella Accademia Fiorentina la terza domenica di Quaresima, l’anno1546  [secondo lo stile Worentino, 1547 secondo lo stile comune], pubblicata qualche annodopo, e il Proemio delle Vite del Vasari:109

alle statue mancano molte cose che non mancano alle pitture, e massimamente i lumi e l’ombre;perché altro lume fa la carne ed altro fa il marmo; e questo naturalmente imita il pittore col chiaroe scuro, più o meno, secondo il bisogno; il che non po far il marmorario. E se ben il pittore non fala Wgura tonda, fa que’ musculi e membri tondeggiati di sorte che vanno a ritrovar quelle parti chenon si veggono con tal maniera, che benissimo comprender si po che ’l pittor ancor quelle conosce

ed intende. Ed a questo bisogna un altro artiWcio maggiore in far quelle membra che scortano ediminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva; la qual per forza di linee misurate,

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    45

di colori, di lumi e d’ombre vi mostra ancora in una superWcie di muro dritto il piano e ’l lontano,più o meno come gli piace. Parvi poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali incontrafar le carni, i panni e tutte l’altre cose colorate? Questo far non po già il marmorario, némeno esprimer la graziosa vista degli occhi neri o azzurri, col splendor di que’ raggi amorosi. Nonpo mostrare il color de’ capegli Xavi, non lo splendor dell’arme, non una oscura notte, non unatempesta di mare, non que’ lampi e saette, non lo incendio d’una città, non il nascere dell’aurora di

color di rose, con quei raggi d’oro e di porpora; non po in somma mostrare cielo, mare, terra,monti, selve, prati, giardini, Wumi, città né case; il che tutto fa il pittore.(i, li) 110

Se la pittura, dunque, ha un maggior numero di artiWci,111 i quali rendono possibile unapiù artiWciosa imitazione della natura rispetto alla scultura, conclude il conte Ludovico daCanossa, è conveniente per il cortigiano «avere cognizione» della pittura, onorata e ap-prezzata nell’antichità classica, quando era in auge il valore militare, purtroppo in deca-denza nel presente:

Però basti solamente dire che al nostro cortegiano conviensi ancor della pittura aver notizia, essen-do onesta ed utile ed apprezzata in que’ tempi che gli omini erano di molto maggior valore, che oranon sono; e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltre che giovi a saper giudicar laeccellenzia delle statue antiche e moderne, di vasi, d’ediWci, di medaglie, di camei, d’entagli e taicose, fa conoscer ancor la bellezza dei corpi vivi, non solamente nella delicatura de’ volti, ma nellaproporzion di tutto il resto, così degli omini come di ogni altro animale. Vedete adunque come loavere cognizione della pittura sia causa di grandissimo piacere. E questo pensino quei che tantogodono contemplando le bellezze d’una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sannodipingere; il che se sapessero, arìan molto maggior contento, perché più perfettamente conoscerìa-no quella bellezza, che nel cor genera lor tanta satisfazione.

(i, lii)112

L’«aver notizia» della pittura fornisce al cortigiano la formazione estetica e il sapere ne-cessario per esprimere giudizi sull’intero ambito artistico (quadri, statue, ediWci e oggettiprodotti dalle arti minori: vasi, medaglie, cammei, incisioni su pietra o legno), con il con-seguente risvolto di «trasformare la sua casa in un museo, selezionando gli oggetti artisti-ci e di lusso, i beni di consumo che faranno per secoli la diV erenza del suo status, conno-

tandolo esteticamente».113

 Inoltre la cultura artistica fa conoscere al cortigiano in modopiù profondo, alla pari del pittore, la bellezza dei corpi, non fermandosi alla «delicatura»dei volti, ma andando oltre, nell’osservazione della misura delle singole parti e dell’armo-nia dell’insieme, nel cogliere la grazia. Dunque il piacere estetico del pittore e del cortigia-no, procurato dalla competenza artistica di entrambi, è il piacere della mente, consenteuna più perfetta conoscenza della bellezza dei corpi ed è necessariamente superiore alpiacere dell’occhio Wsico.

 A questo proposito Castiglione preleva dalla letteratura latina ben due aneddoti, larga-mente diV usi lungo l’Umanesimo e il Rinascimento, che ruotano attorno a due Wgure diartisti, Apelle e Zeusi. L’uno diviene esemplare della più perfetta conoscenza della bellez-za dei corpi da parte dei pittori e l’altro del «perfettissimo giudicio di bellezza» che puòessere raggiunto dagli artisti e quindi da parte dei cortigiani che fanno proprio il sapereestetico:

quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che superWcialmente vedemo nei corpi, senzadubbio daranno molto maggior piacere a chi più la conoscerà, che a chi meno. Però […] penso chemolto più godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe, che non faceva Alessandro; per-ché facilmente si po creder che l’amor dell’uno e dell’altro derivasse solamente da quella bellezza;

110. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, pp. 180-181.111. Sugli artiWci della pittura (luce, tenebre, colore, corpo, Wgura, sito, remozione, propinquità, movimento e stasi) cfr.

Leonardo da Vinci, Libro di Pittura. Codice Urbinate lat. 1270  nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di C. Pedretti, trascrizio-ne critica di C. Vecce, i, Firenze, Giunti, 1995, part. capp. 33, 36, 438, 511.

112. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, pp. 183-184.113. Cfr. Il Cortigiano. Guida alla lettura, a cura di A. Quondam, cit., p. 210.

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e che deliberasse forse ancor Alessandro per questo rispetto donarla a chi gli parve che più perfet-tamente conoscer la potesse. Non avete voi letto che quelle cinque fanciulle da Crotone, le qualitra l’altre di quel populo elesse Zeusi pittore per far de tutte cinque una sola Wgura eccellentissimadi bellezza, furono celebrate da molti poeti, come quelle che per belle erano state approvate dacolui, che perfettissimo giudicio di bellezza aver dovea? 114

Nell’utilizzare l’aneddoto di Apelle che dipinge Campaspe la donna amata da AlessandroMagno, Castiglione va oltre la fonte pliniana ( Naturalis Historia, xxxv, 86), 115 in cui l’atto didonare la donna all’artista è riportato come esempio di stima da parte di Alessandro Ma-gno per il pittore, e oV re una personale interpretazione («penso», «facilmente si po cre-der») dello speciWco operare dell’artista, il quale ha gli strumenti estetici per conoscerecon la mente «più perfettamente» la bellezza di un corpo ed è per questo in grado diprovare un amore più profondo rispetto a chi si limita a conoscere la bellezza solo con gliocchi.116

Nell’utilizzare l’aneddoto di Zeusi che dipinge Elena selezionando le parti più perfettedelle cinque vergini più belle di Crotone (Cicerone, De inventione, ii, 1, 1- 3),117 Castiglioneevidenzia alcune tessere – p. es. «per far de tutte cinque una sola Wgura eccellentissima di bellezza», il «perfettissimo giudicio di bellezza» di Zeusi nel vedere e selezionare le più«belle» –, le quali richiamano fortemente la lettera di RaV aello, là dove l’artista avevaaV ermato l’improponibilità dell’imitazione della natura, lamentando ironicamente la «ca-restia e de’ buoni giudicii e di belle donne». In tal modo si rilancia a distanza la diversitàtra due concezioni estetiche, contrapponendo all’Idea della bellezza la bellezza naturale eall’imitazione dell’idea l’imitazione della natura.

Nella replica a RaV aello, il Castiglione tranquillizza i destinatari esterni dell’opera, cheebbe grande fortuna in Italia e in Europa, e sancisce il suo credo, trasmettendolo all’uomodi corte: ci sono ancora belle donne e il cortigiano, al quale conviene acquisire la culturaestetica necessaria per conoscere la bellezza dei corpi vivi, può svolgere il ruolo di giudice.Il messaggio è destinato anche alle donne di palazzo che, occupando ruoli non secondarinel dialogo e sulla scena reale della corte, nutrono e inseguono la bellezza del corpo: cisono ancora buoni giudici di bellezza e c’è ancora il «piacere di vedere alcuna donna» ( i,liii),118 anzi quanto più l’uomo di corte è in grado di conoscere con il sapere estetico e con la

mente la bellezza femminile, «che superWcialmente vedemo nei corpi» con gli occhi, tantopiù l’amore, che da quella bellezza nasce, sarà profondo e darà «molto maggior piacere». 119

114. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 185.115.  G. Plinio Secondo, Storia naturale, traduzione e note di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, V.  Mineralogia e Storia

dell’arte. Libri 33 - 37 , Torino, Einaudi, 1988, pp. 382-84: «Alexander honorem ei clarissimo perhibuit exemplo. Namque cumdilectam sibi e pallacis suis praecipue, nomine Pancaspen, nudam pingi ob admirationem formae ab Apelle iussisset eumque,dum paret, captum amore sensisset, dono dedit ei, magnus animo, maior imperio sui nec minor hoc facto quam victoriaaliqua. Quippe se vicit, nec torum tantum suum, sed etiam adfectum donavit artiWci, ne dilectae quidem respectu motus, cummodo regis ea fuisset, modo pictoris esset » («Alessandro con un episodio famosissimo gli dimostrò tutta la sua stima. Avendoinfatti ordinato ad Apelle di dipingere nuda per la bellezza delle forme Pancaspe, una delle sue favorite, predilette fra le altre,ed essendosi accorto che lui, mentre eseguiva l’ordine, se ne era innamorato, donò a lui la donna: fu grande nell’animo, maancor più grande per il controllo di sé, e non è meno il lustre per questo episodio che per una qualsiasi altra vittoria: infatti eglivinse su se stesso e non donò all’artista solo la sua concubina, ma anche una donna a lui cara, senza essere neppure turbato dalrispetto per i sentimenti della sua favorita, lei che, essendo stata Wno a ieri la donna del re, ora era la donna di un pittore»).

116. L’aneddoto di Apelle viene citato dal Castiglione anche in i, lii, nell’elenco degli elementi che provano la maggiore

nobiltà della pittura rispetto alla scultura: «penso che presso gli antichi [la pittura] fosse di suprema eccellenzia come l’altrecose; il che si conosce ancor per alcune piccole reliquie che restano, massimamente nelle grotte di Roma, ma molto piùchiaramente si po comprendere per i scritti antichi, nei quali sono tante onorate e frequenti menzioni e delle opre e deimaestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e le republiche sempre onorati. Però si legge che Ales-sandro amò sommamente Apelle Efesio e tanto, che avendogli fatto ritrar nuda una sua carissima donna ed intendendo il bonpittore per la maravigliosa bellezza di quella restarne ardentissimamente inamorato, senza rispetto alcuno gliela donò: libe-ralità veramente degna d’Alessandro, non solamente donar tesori e stati, ma i suoi proprii aV etti e desidèri; e segno di gran-dissimo amor verso Apelle, non avendo avuto rispetto, per compiacer a lui, di dispiacere a quella donna che sommamenteamava; la qual creder si po che molto si dolesse di cambiar un tanto re con un pittore. […] E molti nobili scrittori hannoancora di questa arte scritto; il che è assai gran segno per dimostrare in quanta estimazione ella fosse» (B. Castiglione, Il librodel Cortegiano, ed. Maier, pp. 181-183).

117. Sulle fonti dell’aneddoto di Elena dipinta da Zeusi cfr. P. Sabbatino, La bellezza di Elena, cit., pp. 14-20.118. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Maier, p. 184.119. Ivi, p. 185.

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il trionfo della galatea e il libro del cortegiano    47

Ecco, in sintesi, lo statuto della vita cortigiana, che si fonda sulla gara tra la donna dipalazzo e l’uomo di corte. Se da una parte la donna di palazzo è mossa dal desiderio ditendere alla bellezza, quale appare «nei corpi e massimamente nei volti», utilizzando tuttigli strumenti a disposizione (abbigliamento, gioielli, cosmetici, ecc.) per evidenziare i tratti belli e per nascondere gli inevitabili difetti, dall’altra parte l’uomo di corte, che ha il sape-

re estetico, è mosso come sempre dalla primaria conoscenza di quella bellezza con gliocchi ed è in grado di raggiungere una conoscenza più perfetta con la mente, con il con-seguente amore, cioè il desiderio di fruirne.

Il passaggio dalla conoscenza della bellezza alla fruizione della bellezza viene delinea-to, nel l. iv, dal personaggio Pietro Bembo, utilizzato da Castiglione, «pittor» di «verità»,per concludere il ritratto del cortigiano:

Dico adunque che, secondo che dagli antichi savi è diYnito, amor non è altro che un certo deside-rio di fruir la bellezza; e perché il desiderio non appetisce se non le cose conosciute, bisogna sem-pre che la cognizion preceda il desiderio; il quale per sua natura vuole il bene, ma da sé è cieco enon lo conosce.

(iv, li)120

Tutte le sequenze della genesi del desiderio di fruire la bellezza vengono esaminate dal

personaggio Pietro Bembo, che riassume le linee portanti degli Asolani (1505). Il Bembo diCastiglione va dalla deWnizione Wciniana della bellezza come inXusso della bontà divinache illumina i corpi e i volti misurati e composti, rendendoli bellissimi e mirabili, all’attra-zione che quei corpi e quei volti esercitano sugli occhi, dalla penetrazione della bellezzaattraverso gli occhi nell’anima, dove si imprime facendola vibrare di emozioni e gioie conuna nuova soavità, alla nascita del desiderio di fruire quella bellezza che accende l’anima:

Ma parlando della bellezza che noi intendemo, […] diremo che è un inXusso della bontà divina, ilquale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi edall’ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s’infonde e si dimostra bellissimo, equel subietto ove riluce adorna ed illumina d’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio disole che percuota in un bel vaso d’oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira

a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s’imprime nell’anima, e con una nova suavità tutta lacommove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa.(iv, lii)121

Per quanto riguarda il desiderio di fruire la bellezza di un corpo ci sono percorsi alternativi,come nella lettera pitagorica, da una parte quello guidato dal senso e dall’altra quello guida-to dalla ragione. Nel primo caso l’uomo di corte «incorre in gravissimi errori e giudica che ’lcorpo, nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella» e non l’eV etto della bontàdivina, «onde per fruirla estima essere necessario l’unirsi intimamente più che po con quelcorpo; il che è falso; e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza, s’inganna e vienmosso […] da falsa opinion per l’appetito del senso; onde il piacer che ne segue esso ancoranecessariamente è falso e mendoso».122 Solo nel secondo caso, l’uomo di corte guidato dallaragione evita i lacci dell’inganno, giudica che la causa della bellezza del corpo e del volto sia

nell’inX

usso divino e ritiene necessario per possederla perfettamente e per fruirla elevarsi aDio con l’intelletto, raggiungendo così con una ascesi spirituale il vero bene.Il ritratto del perfetto cortigiano, collocato all’interno della «pittura della corte d’Urbi-

no», appare concluso solo nel l. iv. Se, durante il gioco del «formare con parole un perfet-to cortegiano» (i, xii),123 l’aV ermazione iniziale di Ludovico di Canossa, sui rapporti tra ilcortigiano e la pittura:

120. Ivi, p. 522.121. Ivi, p. 523.122. Ivi, pp. 523- 524.123. Ivi, pp. 102-103.

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penso che dal nostro cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata addietro: e questo è ilsaper disegnare ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere.

(i, xlix)124

punta sull’abilitazione del cortigiano a una conoscenza più piena con il sapere esteticodella bellezza dei corpi e dei volti, il discorso Wnale del Bembo sul desiderio che prova il

cortigiano di fruire la bellezza conosciuta e sulla conseguente ascesi mistica dalla bellezzaparticolare alla bellezza divina, dalla Venere terrena alla Venere celeste ( iv, lxvi-lxviii),svela l’obiettivo capitale del Castiglione, quello di coniugare nel ritratto del nuovo corti-giano codice sociale e codice WlosoWco, comportamento e cultura, professionalità spe-ciWca e neoplatonismo.

Università degli Studi di Napoli «Federico II»

124. Ivi, p. 176.

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 Pasquale Sabbatino

SANNAZARO E LA CULTURA NAPOLETANA

NELL’EUROPA DEL RINASCIMENTO Tessere per la geografia e la storia della letteratura***

 

 Tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento la cultura napoletana gode una propriaautonomia, dialoga alla pari con altri centri della nostra Penisola (in particolare Firenze,

 Venezia e Roma) e mostra un respiro europeo. Il profilo critico del Sannazaro (1457-1530) offre numerose tessere per ridisegnare la geografia e la storia del Rinascimento,mettendo a frutto la lezione metodologica di Dionisotti, i risultati ancora parziali dellafilologia, da estendere auspicabilmente all’intero corpo delle opere, e infine la bibliografia

specifica prodotta negli ultimi decenni.Nel delineare il profilo critico del Sannazaro, che presenta due stagioni (aragonese

prima, vicereale poi) segnate dalla «frattura biografica»1 dell’esilio volontario in Francia, èopportuno portare l’attenzione almeno su alcuni poli: a) il rapporto tra la culturanapoletana rappresentata da Sannazaro e la cultura veneziana rappresentata da PietroBembo; b) il contributo e la funzione del Sannazaro nello scacchiere europeodell’umanesimo latino e della letteratura mariana, che ha la capitale nella città eterna deipapi medicei; c) l’intreccio tra letteratura e arti figurative.

1. La stagione aragonese

Prendiamo le mosse tatticamente dall «solo grande avvenimento della […] esistenzadi cortigiano» del Sannazaro.2 Nel settembre del 1501, in seguito all’occupazione francesedel Regno, il quarantaquattrenne Sannazaro, «per non mancare al vero officio di perfettoe onorato cavaliero in seguitare la adversa fortuna del suo re» (dedica  Al Reverendissimo eIllustrissimo Signor Cardinale di Aragona , firmata da Pietro Summonte e premessaall’ Arcadia  ),3 abbandonò Napoli e l’Italia e accompagnò Federico d’Aragona nell’esilio inFrancia insieme ad un gruppo di fedelissimi.

Lasciava alle spalle una città abitata da meno di 100.000 abitanti, la Napoli gentile,anzi quello che rimaneva della Napoli gentile del secondo Quattrocento, «dalleproporzioni equilibrate, a misura d’uomo, delicata, affabile e discreta nella suasocievolezza, gentile di nobiltà e di finezza»,4 raffigurata nella Tavola Strozzi 5 e celebrata

***  La versione definitiva di questo lavoro è apparsa in Iacopo Sannazaro. La cultura napoletana nell’Europadel Rinascimento , a cura di Pasquale Sabbatino, Firenze, Olschki, 2009.1 M. CORTI, Sannazaro Iacobo, in Dizionario critico della letteratura italiana , dir. V. Branca, vol. 4, Torino, U TET,19862, p. 83.2 Ibidem .3

 Si cita da I.  S ANNAZARO, Arcadia / L’Arcadie , èdition critique par F. Erspamer, introduction, traduction,notes et tables par G. Marino, avec une préface de Y. Bonnefoy, Paris, Les Belles Lettres, 2004, p. 3.4 G. G ALASSO, Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Napoli, Electa, 1998, p.132.5 Il dipinto rappresenta la flotta aragonese che, dopo la vittoria del 6 luglio 1465 contro il pretendente al tronoGiovanni d’Angiò e la flotta angioina nelle acque dell’isola d’Ischia, ritorna trionfalmente nel porto di Napoli.

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tra il 1474-1476 dal toscano Francesco Bandini («da ogni banda che tu ti volgi, tu vedicose liete et gentili»).6 Il ritratto di questa Napoli gentile, accostabile alla Tavola Strozzi , -ma non dipendente, né influenzato come invece ipotizza Erspamer -,7 ci viene offerto dalSannazaro nella prosa XI, 5-6 dell’ Arcadia :

 A questa cogitazione ancora si aggiunse il ricordarmi de le magnificenzie de la mia nobile e generosissimapatria: la quale, di tesori abondevole e di ricco e onorato populo copiosa, oltra al grande circuito de lebelle mura contiene in sé il mirabilissimo porto, universale albergo di tutto il mondo, e con questo le altetorri, i ricchi templi, i superbi palazzi, i grandi e onorati seggi de’ nostri patrizî, e le strade piene di donnebellissime e di leggiadri e riguardevoli gioveni.8

 Nella Napoli aragonese, il cui rinnovamento culturale e artistico era stato

promosso da Alfonso il Magnanimo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, Sannazaroaveva ricevuto una formazione classicistica, frequentando la scuola del grammatico

Lucio Crasso9

 e del maestro di retorica Giuniano Maio, lettori presso lo Studio. Avevamaturato una lunga esperienza cortigiana, come letterato e come guerriero, dal 1481 al1494 presso Alfonso d'Aragona duca di Calabria10  e, dopo la breve permanenza delsovrano francese Calo VIII (febbraio-luglio 1495), presso Federico d'Aragona re diNapoli dal 1496 al 1501. Una lunga fedeltà, dunque, alla casa aragonese, sino alla fine.11

 

La Tavola Strozzi , secondo Spinosa, è «la più antica e più completa rappresentazione dell’illustre capitalemeridionale come insieme straordinario di paesaggio urbano e naturale, eccezionale documento, al di là dellesue qualità in alcuni tratti decisamente modeste, di un nuovo concetto di percezione visiva e di traduzionepittorica della città nella sua interezza, raffigurata oggettivamente e analiticamente come concreta successione

di case e castelli, di chiese e conventi, di orti e giardini, di colline e promontori, in una rete fittissima e intricatadi vicoli e slarghi, di cardini e decumani». Cfr. Vedute napoletane dal Quattrocento all’Ottocento, a cura di N.Spinosa, Napoli, Electa, 1996, p. 8. Sul nodo della datazione e sulle diverse ipotesi cfr. C. DE SETA, Napoli fraRinascimento e Illuminismo, Napoli, Electa, 1991, pp. 11 ss.; M. DEL TREPPO, Le avventure storiografiche della TavolaStrozzi , in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry e A. Massafra, Bologna,IlMulino, 1994, pp. 483-515.6 F. B ANDINI, In laudem Neapolitane civitatis et Ferdinandi regis brevis epistola ad amicum (1474-1476 circa). Cfr. P. O.  K RISTELLER ,  An unpublished Description of Naples by Francesco Bandini , in  Studies in Renaissance Thought andLetters , Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pp. 405-10.7 Cfr. F. ERSPAMER ,  Introduzione a I. S ANNAZARO, Arcadia , Milano, Mursia, 1990, p. 11 e il commento a p.194, nota 5.8 S ANNAZARO, Arcadia / L’Arcadie  cit., pp. 199-201.9

 Nell’ Asinus  Pontano cita Lucio Crasso e Sannazaro lo rievoca in El ., I, I e I, II. 10 Sannazaro, che apparteneva alla nobiltà cittadina dei Seggi, fu al seguito di Alfonso d’Aragona nella guerradi Ferrara (1482-84) e nella spedizione (1485-86) contro Innocenzo VIII, con il quale si erano alleati i baroniribelli. Alfonso d’Aragona, alla morte (1494) del padre Ferrante I, divenne re di Napoli con il nome di

 Alfonso II. Nel fonteggiare Carlo VIII, che tentava di riconquistare il trono di Napoli, fu sconfitto. Abdicònel 1495 in favore del primogenito Ferdinando II (detto Ferrandino) e si spense nel dicembre 1495 a Messina,dove si era ritirato.11 Invece sulla posizione di Pontano, il quale consegnò le chiavi di Castel Nuovo a Carlo VIII e pronunciòsecondo Guicciardini ( Storia dItalia , lib. II, cap. 3 ) il discorso per l’incoronazione spingendosi fino «a masgnificareufficialmente il vincitore del suo re» ( F.  ARNALDI, Nota introduttiva a G. G. PONTANO, Poesie latine , a cura di L. MontiSabia, Torino, Einaudi 1977, p. XVI), si è a lungo discusso tra i sostenitori dell’opportunismo e i sostenitoridella fedeltà. «[…] è stato dimostrato – afferma L. Monti Sabia ( Prolusione , in Atti della Giornata di studi per il V

centenario della morte di Giovanni Pontano, a cura di A. Garzya, Napoli, Accademia Pontaniana, 2004, pp. 22-23) –che il Pontano, rimasto a Napoli d’accordo con Ferrante II, si limitò a consegnare a Carlo VIII le chiavi dellacittà col consenso del suo re e nella qualità di personaggio più eminente dell’antico regime; al più possiamopensare che egli abbia accompagnato il gesto con un discorso d’occasione, teso ad ottenere per la città untrattamento umano e solide garanzie da parte del nuovo signore.  Ad ogni modo il Pontano non era mai statoprima né fu mai in seguito favorevole ai Francesi».

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In questo arco di tempo Sannazaro si era mosso nell’orizzonte del bilinguismoletterario. Sin dagli anni Ottanta aveva frequentato il centro della nuova cultura umanistica,l’Accademia istituita da Alfonso il Magnanimo e guidata da Giovanni Pontano, subentratoad Antonio Panormita e più anziano del Sannazaro di una generazione (circa 25 anni). Nel

1499, il settantenne Pontano aveva dedicato al Sannazaro il dialogo Actius , un trattato sullaretorica che ha, col senno di poi, il sapore di un passaggio di testimone. Il ricordo dellascuola pontaniana è fissato da Sannazaro nell’egloga decima dell’ Arcadia , dove il pastoreSelvaggio, narrando in terzine di endecasillabi sdruccioli l’auspicio per l’esule Sincero delritorno a Napoli, «l’alta cittade» (v. 26), alta per nobiltà ma anche per le armi e per lelettere, tesse l’elogio dell’Accademia («dotte selve», v. 35), nella quale l’arte di Febo gareggia(«certa», v. 38) con l’arte di Pallade, la poesia con la scienza.12

Rientrano nell’ambito della prima fase dell’umanesimo latino del Sannazaro alcunicarmi – ad es. quelli dedicati a Lucio Crasso (elegia I, 1) e all’amica Carmosina ( ivi , I, 3) - e ilpoemetto esametrico Salices ,13 dedicato a Troiano Cavaniglia, signore di Troia e Montella e

membro dell’Accademia Pontaniana.14 Sulle orme del poema latino di Ovidio e di unaconsolidata tradizione umanistica, dal  Ninfale fiesolano  di Boccaccio all’ecloga Coryle   diPontano,15  Sannazaro narra di Ninfe insediate dai Satiri nei boschi della Campania etrasformate in salici sulle rive del fiume Sarno,16 oggi il più inquinato d’Europa.

Nella stagione aragonese Sannazaro aveva nutrito una forte passione, mai assopita,per le reliquie dell’antichità di Pozzuoli e dei Campi Flegrei, i luoghi virgiliani già meta diturismo culturale. Nel 1489 aveva accompagnato nella visita archeologica fra’ Giocondo da

 Verona,17  studioso di Vitruvio e di antichità, il quale in veste di architetto del duca diCalabria operò a Napoli, tra il 1489 e il 1495, nella costruzione della Villa di Poggioreale,18 

progettata da Giuliano da Maiano (morto a Napoli nel 1490), l’architetto della PortaCapuana (1484)19  edificata nella «murazione aragonese».20  Inoltre Sannazaro avevamostrato grande attenzione per le arti figurative, come documenta, in Arcadia , XI, 35-38, la

12 Su altre possibili interpretazioni dell’arte di Febo e dell’arte di Pallade cfr. S ANNAZARO , Arcadia , a cura diF. Erspamer, op. cit., pp. 183-84, nota 38.13  Fu dato alle stampe nell’edizione napoletana del 1526 del De partu Virginis, insieme con le Eclogae e la Lamentatio de morte Christi.14  Cfr. F.  PETRUCCI, Cavaniglia Troiano, in Dizionario biografico degli italiani , vol. 23, Roma, Istitutodell’Enciclopedia Italiana, 1979, pp. 15-16.15 Il Pontano dedica Coryle  al Sannazaro. Cfr. G. PONTANO, Eclogae , a cura di L. Monti Sabia, Napoli, Liguori,

1973, pp. 8-12 e 119-34. Si veda inoltre L.  MONTI S ABIA,  Esegesi e preistoria del testo della Coryle del Pontano,«Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 45, 1970, pp. 159-204.16 Cfr. A. DI S TEFANO, I Salices del Sannazaro, in La Serenissima e il Regno. Nel V centenario dell’Arcadia di IacopoSannazaro. Atti del Convegno di Studi (Bari-Venezia, 4-8 ottobre 2004) raccolti da D. Canfora e A. Caracciolo

 Aricò, prefazione di F. Tateo, Bari, Cacucci editore, 2006, pp. 217-44.17 Sull’amicizia tra Sannazaro e fra Giocondo si vedano gli accenni presenti nella biografia del frate ( Vite di fra’Iocondo e di Liberale e d’altri veronesi  ), che Vasari aggiunse nell’edizione giuntina delle Vite  (1568). Cfr. G.  V  ASARI,Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti nelle redazioni del 1550 e 1568 . Testo a cura di R. Bettarini,commento secolare a cura di P. Barocchi, IV, Firenze, S.P.E.S., 1976, pp. 559-565. 18 Cfr. R. DE FUSCO, L’architettura del Quattrocento, Torino, U TET, 1984, pp. 205-9 ( La Villa di Poggioreale  ).19 Cfr. G.  V  ASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri. Nell’edizione

 per i tipi di Lorenzo Torrentino Firenze 1550, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, presentazione di G. Previtali, Torino,

Einaudi, 1986, p. 351 («Fece Giuliano ancora di marmo l’ornamento della Porta Capovana, et in quella infinitàdi trofei variati; per il che meritò che quel re gli portasse grande amore, e remunerandolo altamente dellefatiche, adagiasse i suoi descendenti»). Nella nota i curatori precisano: «La porta Capuana fu costruita sottoFerdinando I intorno al 1484. Le sculture decorative furono però eseguite nel 1535 da Giovanni Marliano daNola per l’ingresso trionfale dell’imperatore Carlo V».20 DE FUSCO, L’architettura del Quattrocento cit., p. 81. 

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descrizione delle due scene (la nuda ninfa, seduta su un otre, allatta un piccolo satirello; duefanciulli mascherati cacciano le mani attraverso la bocca della maschera e spaventano altridue fanciulli) di un disegno, conservato al Louvre (Dépt. des Arts graphiques, inv. 5072,nouv. 2854),21 del pittore e incisore mantovano Andrea Mantegna:

E subito [Ergasto] ordinò i premî a coloro che lottare volessono, offrendo di dare al vincitore un bel vaso di legno di acero, ove per mano del padoano Mantegna, artefice sovra tutti gli altri accorto eingegnosissimo, eran dipinte molte cose; ma tra l'altre una ninfa ignuda con tutti i membri bellissimi,dai piedi in fuori, che erano come quegli de le capre. La quale, sovra un gonfiato otre sedendo,lattava un picciolo satirello, e con tanta tenerezza il mirava che parea che di amore e di carità tutta sistruggesse; e 'l fanciullo ne l'una mammella poppava, ne l'altra tenea distesa la tenera mano, e conl'occhio la si guardava, quasi temendo che tolta non gli fosse. Poco discosto da costoro si vedeanduo fanciulli pur nudi, i quali, avendosi posti duo volti orribili di mascare, cacciavano per le bocchedi quelli le picciole mani per porre spavento a duo altri che davanti gli stavano; de' quali l'unofuggendo si volgea indietro e per paura gridava, l'altro caduto già in terra piangeva e, non possendosi

altrimente aitare, stendeva la mano per graffiarlo. Ma di fuori del vaso correva a torno a torno una vite carica di mature uve; e ne l'un de' capi di quella un serpe si avolgeva con la coda, e con la boccaaperta venendo a trovare il labro del vaso formava un bellissimo e strano manico da tenerlo.22

 Il caso della conformità tra il genio di Mantegna e il genio di Sannazaro fu ripreso

nel Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura  (1584) da Gian Paolo Lomazzo, ilquale redige un interessante elenco di altre coppie di artisti e poeti, come Omero eLeonardo, Virgilio e Polidoro, Dante e Michelangelo, Petrarca e Raffaello, Ariosto e

 Tiziano. Tuttavia, se nelle altre coppie è l’arte che si conforma alla letteratura, nel casodi Mantegna e Sannazaro è la letteratura che si conforma all’arte, il poeta al pittore:

E da questa conformità generale che diciamo trovarsi fra pittori e poeti, ne segue anco unapartricolare, che un pittore ha avuto naturalmente un genio più conforme ad un poeta che ad unaltro; e nel suo operare ha seguito quello, come è facile a ciascuno l’osservarlo ne’ pittori moderni.Perché si vede che Leonardo ha espresso i moti e decori di Omero; Polidoro la grandezza e furia di

 Virgilio; il Buonarotto l’oscurezza profonda di Dante; Raffaello la pura maestà del Petrarca, AndreaMantegna l’acuta prudenza del Sannazaro, Tiziano la varietà dellì’Ariosto e Gaudenzio la devozioneche si trova espressa ne’ libri de’ santi.23

 Ritornando alla stagione aragonese, Sannazaro aveva seguito con particolare

attenzione la letteratura volgare di indirizzo toscano, prodotta a Napoli negli anni Ottantaanche sull’onda della famosa Raccolta aragonese  (1476) indirizzata da Lorenzo de’ Medici ePoliziano al principe Federico d’Aragona (figlio di Ferrante). Aveva avuto grandeammirazione per Giovanni Francesco Caracciolo, autore del canzoniere petrarchista  Argo pubblicato solo nel 1506 (Napoli, De Caneto) insieme agli  Amori , e per il Cariteo (ilbarcellonese Benedetto Gareth ben presto trasferito a Napoli), autore di un altrocanzoniere Endimione  apparso nello stesso anno e presso lo stesso tipografo napoletano. Il

21 La sceconda scena corrisponde al disegno di Mantegna: cfr. O.  K URZ, Sannazaro and Mantegna , in Studi inonore di Riccardo Filangieri , vol. 2, Napoli, L’arte tipografica, 1959, pp. 277-83. Marino, in S ANNAZARO, Arcadia

/ L’Arcadie  cit., p. 210, nota 14, segnala che, secondo P. Holberton ( Poetry and painting in the time of Giorgione ,Londres, Warburg Institute, 1989, PP. 296-300), il disegno del Louvre è una copia di Girolamo Mocetto daMantegna e che la prima scena «apparaît, presque entièrement tronquée mais encore reconnaissable, sur lebord droit de la feuille»22 S ANNAZARO, Arcadia / L’Arcadie  cit., p. 211. 23  G. P. LOMAZZO, Scritti sulle arti , a cura di R. P. Ciardi, vol. 2, Firenze, Centro Di, 1974, p. 246.  

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poeta Caracciolo viene celebrato nell’egloga X, 40-45, dove gli si riconosce «un complessoideale di cultura che coniuga la poesia con la scienza della natura e con l’arte medica, in uninteressante insieme che comprende perfino la magia in quanto conoscenza del mondonaturale e capacità di intervento su di esso»:24

 Ma a guisa d’un bel sol fra tutti radïaCaracciol, che ‘n sonar sampogne o ceterenon troverebbe il pari in tutta Arcadïa.

Costui non imparò putare o metere,ma curar greggi da la infetta scabbïae passïon sanar maligne e vetere.25

 E più avanti, nella prosa XI, 7, Sannazaro tesse le lodi del poeta volgare:

E sopra tutto mi piacque udirla comendare de’ studî de la eloquenzia e de la divina altezza de la poesia, e

tra le altre cose de le merite lode del mio virtuosissimo Caracciolo, non picciola gloria de le volgari Muse[…].26 

Il Cariteo viene ricordato da Sincero, sulla scena dell’ Arcadia  (II, 8), come guardianodi armenti nelle selve napoletane e intagliatore di un prezioso bastone di mirto, con ilmanico a forma di testa di ariete, che Sincero promette in dono al pastore Montano per ilsuo cantare in un giorno particolarmente caldo:

E acciò che tu non creda che le tue fatiche si spargano al vento, io ho un bastone di noderoso mirto,le cui extremità son tutte ornate di forbito piombo e ne la sua cima è intagliata, per man di Cariteo,bifolco venuto da la fruttifera Ispagna, una testa di ariete, con le corna sì maestrevolmente lavorate,che Toribio, pastore oltra gli altri ricchissimo, mi volse per quello dare un cane, animosostrangulatore di lupi, né per lusinghe o patti che mi offerisse il poteo egli da me giamai impetrare. Orquesto, se tu vorrai cantare, fia tutto tuo.27 

Nella prosa XII, 48-53, quando Sincero è ritornato nelle selve napoletane, i pastoriCariteo detto Barcinio (perché originario di Barcellona, lat. ‘Barcino’) e Summonteappaiono ai piedi di un colle, perlopiù identificato con il monte Somma:

E volendo io più oltre andare, trovai per sorte appiè de la non alta salita Barcinio e Summonzio,

pastori fra le nostre selve notissimi, i quali con le loro gregge al tepido sole, però che vento facea, sierano retirati, e, per quanto dai gesti comprender si potea, mostravano di voler cantare. Onde io,benché con le orecchie piene venisse de' canti di Arcadia, pur, per udire quelli del mio paese e vederein quanto gli si advicinasseno, non mi parve disdicevole il fermarmi, e a tanto altro tempo per me sìmalamente dispeso, questo breve spazio, questa picciola dimoranza ancora aggiungere. Così nonmolto discosto da loro sovra la verde erba mi pusi a giacere, a la qual cosa mi porse ancor animo il

 vedere che da essi conosciuto non era, tanto il cangiato abito e 'l soverchio dolore mi aveano in nonmolto lungo tempo transfigurato. Ma rivolgendomi ora per la memoria il lor cantare, e con qualiaccenti i casi del misero Meliseo deplorasseno, mi piace sommamente con attenzione avergli uditi,

24

 Lorenzo Poliziano Sannazaro, nonché Poggio e Pontano, introduzione e cura di F. Tateo, Roma, Istituto poligraficoe Zecca dello Stato, 2004, p. 725.25  S ANNAZARO, Arcadia / L’Arcadie  cit., pp. 187-89. 26  Ivi, p. 201. Sannazaro è vicino anche a Galeazzo, fratello di Giovan Francesco Caracciolo. Cfr. R.   N ALDI,Girolamo Santacroce orafo e scultore napoletano del Cinquecento, Napoli, Electa, 1997, pp. 11-12.27  S ANNAZARO, Arcadia / L’Arcadie  cit., p. 27. 

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non già per conferirli con quegli che di là ascoltai, né per porre queste canzoni con quelle, ma perallegrarmi del mio cielo, che non del tutto vacue abbia voluto lasciare le sue selve; le quali in ognitempo nobilissimi pastori han da sé produtti, e dagli altri paesi con amorevoli accoglienze e maternoamore a sé tirati. Onde mi si fa leggiero il credere che da vero in alcun tempo le Sirene vi abitasseno,e con la dolcezza del cantare detinesseno quegli che per la lor via si andavano. Ma tornando omai ai

nostri pastori, poi che Barcinio per buono spazio assai dolcemente sonata ebbe la sua sampogna,cominciò così a dire, col viso rivolto verso il compagno; il quale similmente assiso in una pietra,stava per rispondergli attentissimo […].28

 L’intera egloga XII, fatta a imitazione della seconda delle Eclogae  di Pontano,29 è

un canto - secondo la finzione poetica - dei pastori Cariteo (Barcinio) e Summonte,concluso da Meliseo (vv. 313-325), un personaggio prelevato dalle opere del maestroPontano (in particolare la seconda delle  Eclogae  ), di cui è l’alter ego,30  e inseritonell’opera sannazariana. In tal caso il dizionario dei personaggi della letteratura siarricchisce di un altro caso di personaggio che ha il dono di una seconda vita.

Presso la corte di Alfonso d’Aragona il Sannazaro aveva scritto le sei farse a noipervenute, che sono «le parti recitative» di rappresentazioni allegoriche tenute a corte, il cuitessuto linguistico fa propria la koinè  napoletano-cortigiana e talvolta sconfina «verso esitidialettali».31  Allo stesso genere recitativo e allo stesso periodo (1490 circa) appartienel’unico gliommero sicuramente sannazariano, Licinio, se ΄  l mio inzegno (tramandato dadue manoscritti: il parigino Ital. 1543 e il codice II, II, 75 della Biblioteca Nazionale diFirenze, il secondo descriptus   del primo),32  in metro frottolesco con endecasillabi erimalmezzo, giocato sulla contrapposizione tra esiti linguistici bassi e vernacolari eregistro volgare elevato.33 A questo va aggiunto, sulla scorta della recente attribuzioneal Sannazaro,34 lo gliommero Eo non agio figli né fittigli  (tramandato dal ms. Riccardiano2752),35 che presenta alcune affinità con l’ecloga Alphanio e Cicaro. 36

 

28 Ivi, p. 247.29  In  Meliseus a quo uxoris mors deploratur (  Eclogae , II) Pontano (  Meliseus  ) leva il canto funebre per la moglie

 Adriana Sassone (  Ariadna  ), spirata il 1° marzo 1490, attraverso il dialogo poetico di due pastori, Cicerisco eFaburno. Cfr. G. G. PONTANO, Poesie latine , a cura di L. Monti Sabia, introduzione di F. Arnaldi, to. I, Torino,Einaudi, 1977, pp. 58-73.30  Cfr. P.  SUMMONTE, Locorum aliquot in his Pontani libris, quae ob rerum novitatem non facile intelligi possint,explanatio, in G. G. PONTANO, Carmina. Ecloghe-Elegie-Liriche , a cura di J. Oeschger, Bari, Laterza, 1948, p. 478(«Sub Melisei persona Pontanus intelligitur ut in ecloga illa, cuius titulus est Meliseus»).31 CORTI, Sannazaro Iacobo cit., pp. 84-85. 32 Cfr. la recente edizione critica, fondata sul testo tràdito dal manoscritto parigino Ital. 1543: I. S ANNAZARO,Lo gliommero napoletano «Licinio se'l mio inzegno» , a cura di N. De Blasi, Napoli, Libreria Dante & Descartes,seconda edizione ampliata, 19992.33 Sul genere dello gliommero cfr. M. BERSANI, Farsa, intermezzo, gliommero. Appunti sul teatro del regno aragonesedi Napoli , «Studi e problemi di critica testuale», XXVI, 1983, pp. 59-77; N.  DE BLASI, Intrattenimento letterario e

 generi conviviali (farsa, intramesa, gliommero) nella Napoli aragonese , in  Passare il tempo. La letteratura del gioco edell'intrattenimento, Atti del Convegno internazionale di Pienza (10-14 settembre 1991 ), Roma, Salerno editrice, 1993,pp. 129-59.34 Cfr., in questi atti, N. DE BLASI,  A proposito degli gliommeri dialettali di Sannazaro: ipotesi di una nuova attribuzione .In precedenza G. P ARENTI, Uno gliommero di P. J. De Jennaro, «Studi di filologia italiana», XXXVI, 1978,pp. 321-65,  ha attribuito lo gliommero a De Jennaro, fondandosi su alcune affinità con l’ecloga  Alphanio e

Cicaro, ritenuta a quella altezza cronologica di De Jennaro. 35 Edito da B. CROCE, Uno gliommero inedito del Quattrocento, «Archivio storico per le province napoletane», XLI(n. s. II), 1916, pp. 138-45. 36   Sull’attribuzione al Sannazaro dell’egloga, che si legge nel ms. XIII G 37 della Biblioteca Nazionale diNapoli senza l’indicazione della paternità e fu stampata con l'  Arcadia da Sigismondo Mayr (Napoli, 1503), cfr. A. M AURO, Le prime edizioni dell'«Arcadia» del Sannazaro, «Giornale italiano di filologia», II, 1949, pp. 341-51 (cfr.

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 All’azione teatrale di argomento religioso erano destinati alcuni componimenti,come il breve capitolo in terzine (1490 circa) Se mai per pietà d’un raro effetto, raccoltodall’ed. Mauro delle Opere volgari   nella sezione delle Rime disperse 37  e tematicamente

 vicino al gruppo di cinque componimenti presenti nell’editio princeps  di Sonetti e canzoni , i

sonetti XCV-XCVIII ( Le dubbie spemi, il pianto e ’l van dolore ;  È questo il legno che del sacrosangue ; Almo monte, felice e sacra valle ; O mondo, o sperar mio caduco e frale) e il capitolo XCIX( Lamentazione sopra al corpo del Redentor del mondo a’ mortali  ).38  Infine Sannazaro avevascritto un buon numero di rime volgari (pubblicate postume nel 1530) e il prosimetrol' Arcadia , che nasce, sì, per l’influenza della bucolica senese (Francesco Arsocchi,Iacopo Fiorino de’ Boninsegni, Filenio Gallo) e della bucolica fiorentina (GirolamoBenivieni), ma si sviluppa soprattutto in direzione classicistica, seguendo le orme «di

 Virgilio e di autori che erano già stati imitatori come Calpurnio e Nemesiano»,39  eapproda al nuovo genere letterario «ideato»40  dallo stesso Sannazaro, il romanzopastorale.

La prima redazione dell’ Arcadia , comprendente prologo, dieci prose e dieci testipoetici (egloghe, canzoni, sestine) e terminata «quasi certamente alla fine del 1484 o pocopiù»,41 fu pubblicata senza l’autorizzazione del Sannazaro in edizione scorretta a Venezianel 1501, ristampata nel 1502 da Bernardino da Vercelli e poi a Napoli nel 1503.

La seconda redazione, da collocare «dopo il 1491» e da considerare «sostanzialmenteconclusa intorno al 1495»,42  aveva impegnato il Sannazaro lungo tre direzioni: a) lacrescita del testo, con l'aggiunta di due prose, di due componimenti poetici e dell'epilogo

 A la sampogna ; b) la trasformazione del «romanzo dell’esilio arcadico» (I redazione) in«romanzo del ritorno» (II redazione), con la «svolta» «dal mito della natura al mito della

città»;43

 c) la radicale revisione linguistica, che comporta la riduzione sia dei latinismi «cheerano stati favoriti dal clima umanistico», sia dei dialettismi del volgare regionale (tuttaviaalcuni meridionalismi ancora si conservano) e una più puntuale selezione di lessicotosco-letterario in genere e petrarchesco in particolare per le egloghe. Stampata a Napoliper cura dell’umanista e accademico pontaniano Pietro Summonte nel marzo 1504,

anche l'edizione sannazariana delle Opere volgari  cit.); G.  V ELLI , Tra lettura e creazione. Sannazaro. Alfieri, Foscolo,Padova, Antenore, 1983, p. 21; N. De Blasi, «Rivista italiana di dialettologia», XIII, 1989, p. 262; G.  SCHIRRU, Profilo linguistico dei fascicoli VIII e IX del ms Riccardiano 2752 , «Contributi di filologia dell'Italia mediana», VIII,1994, p. 212. Di altro avviso è M. Corti, che attribuisce l’egloga a De Jennaro nel saggio Le tre redazioni della

«Pastorale» di P. J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell'«Arcadia», «Giornale storico della letteraturaitaliana», CXXXI, 1954, pp. 305-351. L’egloga è nel vol. L'Arcadia di Jacobo Sannazaro, a cura di M. Scherillo, Torino, Loescher, 1888, pp. 335-39.37  S ANNAZARO, Opere volgari cit., pp. 251-53 ( Rime disperse , XXXVI*).38 Ivi, pp. 208- 11.39 Lorenzo Poliziano Sannazaro, nonché Poggio e Pontano , introduzione e cura di F. Tateo, cit., p. 718. 40 CORTI, Sannazaro Iacobo cit., p. 84.41  G.  VILLANI,  «Arcadia» di lacobo Sannazaro, in Letteratura italiana. Le Opere, dir. A. Asor Rosa, I. Dalle Origini alCinquecento, Torino, Einaudi, 1992, p. 870. 42  Ivi, p. 871. Tuttavia Villani avverte che, rispetto alla data del 1495, il limite estremo fissato per laconclusione della seconda redazione dell' Arcadia , rimane in piedi «qualche dubbio almeno per l'epilogo», né sipuò escludere «l'eventualità di alcune ulteriori minute cure linguistiche». Infatti la princeps  del 1504 «oggi esibisce

esemplari non sempre in tutto simili, segno evidente, insieme ad altri, di interferenze del curatore, ma anchedi qualche oscillazione d'autore ancora viva nell'originale portato alle stampe». Cfr. inoltre E. CARRARA, Sullacomposizione dell'«Arcadia» , «Bullettino della Società filologica romana», 1906, pp. 27-36; CORTI,  Le tre redazioni della«Pastorale» di P. J. De Jennaro con un excursus sulle tre redazioni dell'«Arcadia»  art. cit., pp. 342-51; G. VELLI, Tra lettura ecreazione cit., pp. 14-19; G. VILLANI, Per l'edizione dell'«Arcadia» del Sannazaro, Roma, Salerno editore, 1989.43 Lorenzo Poliziano Sannazaro, nonché Poggio e Pontano, introduzione e cura di F. Tateo, op. cit., p. 719.

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durante l’ultimo anno dell’esilio francese del Sannazaro, la seconda redazione documenta«il mutamento di gusto e di poetica», il superamento della koinè  quattrocentesca, «uninflusso più vistoso della tradizione petrarchesca»44 e l'elaborazione in sede di scritturacreativa della grammatica volgare.

E se teniamo presente, secondo i suggerimenti di Dionisotti, la successionecronologica di alcuni eventi editoriali – a) la pubblicazione a Napoli della secondaredazione dell' Arcadia  (1504) precede di un anno la stampa a Venezia di un’opera che

 va nella stessa direzione linguistica, gli  Asolani   di Bembo (1505); b) la stessapubblicazione dell’ Arcadia   «troppo davvicino segue, per poter dipendere, tenuto contoin ispecie che il Sannazaro era in quegli anni esule in Francia», l'edizione aldina, curatadal Bembo, delle Cose volgari  di messer Francesco Petrarca (1501) e delle Terze rime  diDante (1502) -, allora si può agevolmente intendere che la scelta letteraria del toscano,maturata a Napoli con il Sannazaro, all’altezza della seconda redazione dell' Arcadia , «èanteriore a qualsiasi documento a noi noto della codificazione grammaticale

cinquecentesca del volgare».45 Ecco una preziosa tessera, utile per ridisegnare le presenze ei contributi della cultura napoletana e della cultura veneziana nel processo di elaborazionedella scrittura e della grammatica volgare.

La celebrazione pittorica del poeta arcadico fu fatta, poi, nel 1511, da RaffaelloSanzio nel grandioso affresco del Parnaso (Città del Vaticano, Stanza della Segnatura). Inalto a destra, nel gruppo dei poeti bucolico-arcadici, Sannazaro è il quinto (sulla destra) 46 -dopo Ariosto, Boccaccio, una donna che è «una figura ideale emblematica», Tebaldeo -, ela sua immagine corrisponde all’effigie della medaglia commissionata a GirolamoSantacroce circa dieci anni dopo.47 

44 CORTI, Sannazaro Iacobo cit., p. 84.45 C. DIONISOTTI,  Appunti sulle Rime del Sannazaro, «Giornale storico della letteratura italiana», CLX, 1963, p. 184.Sulla lingua dell' Arcadia  cfr. G. POLENA, La crisi linguistica del Quattrocento e l'«Arcadia» del Sannazaro, Firenze, Olschki,1952; M. CORTI, L'impasto linguistico dell'«Arcadia» alla luce della tradizione manoscritta  (1964), in Storia della lingua e storiadei testi , Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 243-71; E AD., Rivoluzione e creazione stilistica nel Sannazaro [1968], in

 Metodi e fantasmi , Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 312-21; L. SERIANNI, La prosa , in Storia della lingua italiana , a cura di L.Serianni e P. Trifone, I.I luoghi della codificazione , Torino, Einaudi, 1993, pp. 485-89. Sul Sannazaro che elabora la«grammatica del volgare nel chiuso della sua officina di scrittore» cfr. G. PATOTA, I percorsi grammaticali  , ivi, p. 95.46 Sull’identificazione cfr. R EDIG DE C AMPOS, Dei ritratti di Antonio Tebaldeo e di altri nel «Parnaso» di Raffaello ,

poeti antichi e moderni, come sottolinea Vasari nell’ecfrasi del Parnaso, furono tratti medaglie,

«Archivio della Società Romana di Storia Patria», LXXV, 1952, pp. 51-58; a p. 54: «mi pare una congettura

assai probabile, confortata com’è dalle testimonianze iconografiche e particolarmente dalla perfettasomiglianza con l’effigie della ben nota medaglia attribuita a Girolamo Santacroce, dove il viso pieno, la formadel naso e l’acconciatura sono identici. All’epoca in cui fu dipinto il Parnaso, cioè intorno al 1511, l’autoredell’ Arcadi a aveva da poco superato la cinquantina e tale sembra appunto l’età del nostro personaggio. Nella

 vecchiaia dimagrì assai, a giudicare dal busto del Montorsoli sulla sua tomba in Santa Maria del Parto, aNapoli».47 I ritratti deistatue, pitture e in alcuni casi dal vivo: «Nella facciata […] di verso Belvedere, dove è il monte Parnaso e ilfonte di Elicona, fece intorno a quel monte una selva ombrosissima di lauri, ne’ quali si conosce per la loro

 verdezza quasi il tremolare delle foglie per l’aure dolcissime e nella aria una infinità di amori ignudi conbellissime arie di viso, che colgono rami di lauro e ne fanno ghirlande, e quelle spargono e gettano per ilmonte. Nel quale pare che spiri veramente un fiato di divinità nella bellezza delle figure e da la nobiltà di

quella pittura, la quale fa maravigliare chi intentissimamente la considera, come possa ingegno umano conl’imperfezzione di semplici colori ridurre con l’eccellenzia del disegno le cose di pittura a parere vive; comeque’ poeti che si veggono sparsi per il monte, chi ritti, chi a sedere e chi scrivendo, altri ragionando et altricantando o favoleggiando insieme, a quattro, a sei, secondo che gli è parso di scompartirgli. Sono ritratti dinaturale tutti i più famosi et antichi e moderni poeti che furono e che erano fino al suo tempo, i quali furonocavati parte di statue, parte di medaglie e molti da pitture vecchie et ancora di naturale mentre che erano vivi

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Recentemente Giovanni Reale ha proposto di accostare il paesaggio del Parnaso diRaffaello (con il verde dell’erba sulla sommità, la distribuzione degli alberi, in tutto settelauri, la fonte) al paesaggio sannazariano del monte Partenio (con «un dilettevole piano»,«minuta e verdissima erbetta», «dodici o quindici alberi», «alquanto distanti, et in ordine

non artificioso disposti», un chiaro fonte»), entrambi dominati dalla figura (reale oimmaginaria) di Apollo:

Giace nella sommità di Partenio, non umile monte de la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, diampiezza non molto spazioso però che il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissimaerbetta sì ripieno che se le lascive pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno vi si potrebbe diogni tempo ritrovare verdura. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o quindici alberi, di tantostrana et excessiva bellezza che chiunque li vedesse giudicarebbe che la maestra Natura vi si fussecon sommo diletto studiata in formarli. Li quali, alquanto distanti e in ordine non artificioso disposti,con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono. […] Ma fra tutti nelmezzo, presso un chiaro fonte, sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte

mete, nel quale […] esso Apollo non si sdegnarebbe essere transfigurato (  Arcadia , prosa I, 1-6).48

 Questo brano, che svela la vicinanza tra il paesaggio del poeta napoletano e quello

dell’artista, - conclude Reale - «può spiegare assai bene la collocazione di Sannazaro nelgruppo dei poeti bucolico-arcadici».49  Nel 1511, dunque, la fortuna romana del Sannazaroè già solida, al punto da essere celebrato e inserito nel Parnaso di Raffaello.50

 

2. Dall’esilio in Francia alla stagione vicereale: la letteratura mariana e il sogno della nuova età dell’oro 

Sulla frattura biografica dell’esilio in Francia (1501-1505), interrotto da qualcheritorno in Italia, si può agevolmente rimandare ai recenti lavori di Carlo Vecce. 51  Èopportuno solo sottolineare che il viaggio costituisce un elemento fondamentale sul pianodelle forze dialettiche nell’ambito della geografia letteraria. Infatti, nel caso del Sannazaro, -il quale diffuse in Francia tutto il suo bagaglio umanistico, ebbe contatti con gli ambienticulturali e spirituali d’oltralpe, rafforzando il suo impegno religioso che lo portò allascrittura del poema sacro, e si dedicò alla ricerca di testi classici latini (tra questi l’Halieuticon   attribuito ad Ovidio, il Cynegeticon  di Grazio, il Cynegeticon  di Nemesiano, il De

reditu suo di Rutilio Namaziano), introdotti poi a Napoli,52 - il viaggio diviene un momento

. 13-15. 

napoletano del Cinquecento cit., p. 15. Inoltre Naldi segnala anche ilte di codici all'inizio del XVI secolo, Padova, Antenore, 1988; ID.,

: influence, émulation, traduction , sous la

da lui medesimo» (G.  V  ASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempinostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino Firenze 1550 , a cura di L. Bellosi e A. Rossi, op. cit., pp. 618-19).

 Alcuni particolari della descrizione, come gli amori ignudi che fanno e spatgono ghirlande di lauro, sono nelbozzetto preparatorio ma non nell’affresco. Da qui si deduce che Vasari nell’ecfrasi abbia utilizzato sia gliappunti presi durante la visita dell’originale, sia il bozzetto. G.  R EALE, Raffaello, Il «Parnaso» . Una riletturaermeneutica dell'affresco con la prima presentazione analitica dei personaggi e dei particolari simbolici , Santarcangelo diRomagna (Rimini), Rusconi, 1999, p. 54.48  S ANNAZARO, Arcadia / L’Arcadie  cit., pp49 R EALE, Raffaello, Il «Parnaso»  cit., p. 87.50

 N ALDI, Girolamo Santacroce orafo e scultore rapporto di Colantonio Caracciolo con Raffaello. 51 Cfr. C. V ECCE, lacopo Sannazaro in Francia. Scoper Sannazaro in Francia: orizzonti europei di un ‘poeta gentiluomo’ , in questi atti. 52  Cfr. L' Italie et la France dans l'Europe latine du XIV au XVII. siècle direction de M. Deramaix et G. Vagenheim, Mont Saint-Aignan, Publications des Universités de Rouen et

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significativo del processo di diffusione della civiltà napoletana nell’Europa delCinquecento e del parallelo processo di ricezione e assimilazione di stimoli e saperiprovenienti dalla civiltà francese e importati a Napoli.

Le fondamentali relazioni culturali, intrecciate in Francia e nell’Italia del Nord, vanno

da Guillaume Budé e Jacques Lefévre d’Etaples ad Isabella d’Este e Aldo Manuzio. InFrancia Sannazaro incontrò anche fra’ Giocondo da Verona – che avevaaccompagnato nel 1489 nella visita a Pozzuoli – e in occasione della costruzione deiponti sulla Senna il poeta compose il noto distico De Jucundis architecto, che il Vasari citanella seconda edizione delle Vite  (1568):

Fece fra’ Iocondo, stando in Parigi al servizio del re Lodovico Duodecimo, due superbissimi pontisopra la Senna, carichi di botteghe: opera degna veramente del grand’animo di quel re e delmaraviglioso ingegno di fra’ Iocondo; onde meritò, oltre la inscrizione che ancor oggi si vede inqueste opere in lode sua, che il Sannazaro poeta rarisssimo l’onorasse con questo bellissimo distico: 

Iocundus geminum imposuit tibi, Sequana, pontem: hunc tu iure potes dicere Pontificem.53

 Inoltre Sannazaro compose il carme latino De morte Christi domini ad mortales

lamentatio, riprendendo il motivo della passione di Cristo, già svolto in alcunicomponimenti volgari e poi sviluppato ampiamente nel poema sacro.54

  Nei primi mesi del 1505 Sannazaro ritornò a Napoli, oramai annessa, dopo lacacciata dei Francesi, al regno spagnolo di Ferdinando il Cattolico (1503) e governata dai

 viceré. Si stabilì nel podere di Mergellina,55  che aveva ricevuto in dono da Federico

d’Aragona, e vi soggiornò fino alla morte (24 aprile 1530). Dentro il podere Sannazarofece erigere la chiesa dedicata alla Madonna del Parto.56  A differenza di Pietro Bembo, che, operando tra la Repubblica di Venezia, le corti di

Urbino e Ferrara e la corte pontificia, continuò a muoversi nell’orizzonte del bilinguismoletterario, Sannazaro durante la stagione trascorsa nella Napoli vicereale avvertì che la suaproduzione volgare era segnata in modo indelebile dalla fine della dinastia aragonese,per cui si distaccò definitivamente dall’esperienza bucolica, considerando l’edizionedell’ Arcadia   (1504) testo definitivo e ritratto fedele della Napoli aragonese.57 Tuttaviasi limitò a raccogliere e rielaborare linguisticamente i componimenti volgari (in buonaparte scritti nella prima stagione), offerti privatamente alla gentildonna CassandraMarchese. Tale impegno va circoscritto, come dimostra Dionisotti, nel «primodecennio del Cinquecento».58

 

Du Havre, [2006].53 Cfr. G.  V  ASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti nelle redazioni del 1550 e 1568  cit., IV, p. 561. E

etricamente indifferenti: Iucundus geminos fecit tibi, Sequana, pontes; / Iure tuum potes

di F. DIVENUTO, La casa di Jacopo Sannazaro a Mergellina ., p. 184.

d. laterziana diSannazaro

erma Dionisotti scrive: «Ritengo […] che resti

nelle  Note al testo, p. 697: l’epigramma «va nelle edizioni cinquecentine con alcune varianti, peraltrosintatticamente e mhunc dicere Pontificem (Milanesi)».54 Cfr. C.  V ECCE, Maiora  Numina. La prima poesia religiosa e la «Lamentatio» di Sannazaro, «Studi e problemi dicritica testuale», vol. XLIII, ottobre 1991, pp. 49-94.55

 Si veda, in questi atti, il contributo56  Cfr. La Chiesa di S. Maria del Parto a Mergellina , a cura di A. M. Carrella, Napoli, Pentagono, 2000.57 DIONISOTTI, Appunti sulle Rime del Sannazaro art. cit.58  Ivi, p. 183. Dionisotti prende le distanza da Mauro, che nella  Nota sul testo  dell’eS ANNAZARO, Opere volgari  cit., pp. 447-48, ha avanzato l’ipotesi di una estensione dell’impegno dinell’ambito delle rime volgari fino al maggio 1525. Con mano f 

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Per seguire la parabola della letteratura volgare a Napoli nel primo trentennio delCinquecento, occorre guardare altrove, negli annali delle tipografie e nella corte di

 Vittoria Colonna. Infatti c’è da registrare, nel primo decennio del Cinquecento,l’arrivo in tipografia della poesia prodotta durante la stagione aragonese di fine

Quattrocento. È il caso, oltre l’ Arcadia , dei canzonieri di due poeti menzionati daSannazaro,  Argo di Giovan Francesco Caracciolo e  Endimione   del Cariteo, entrambiapparsi nel 1506. 

Dopo il 1510, la poesia volgare ruotò attorno a Vittoria Colonna, vera animatricedello spazio cortigiano degli Avalos, trainante lettrice di testi e precoce autrice (nel1512 scrisse l’ Epistola in terza rima , indirizzandola al marito Ferrante Francescod’Avalos, marchese di Pescara). Nella corte di Vittoria Colonna, tra Ischia e Naspoli,nacque il canzoniere di Girolamo Britonio di Sicignano, Opera volgare […] intitolata Gelosiadel Sole  (Napoli, Mayr, 1519) e il Triompho […] nel quale Parthenope sirena narra et canta gli

 gloriosi gesti del gran marchese di Pescara  (Napoli, Evangelista di Presenzani, 1525). 

Nella stessa corte circolò il manoscritto del Cortegiano, che Castiglione avevamandato in lettura alla poetessa. La fortuna del Castiglione nella Napoli degli anni

 Venti va vista parallelamente all’accoglienza cauta, senza troppi entusiasmi e conqualche critica, riservata alle Prose della volgar lingua   del Bembo (1524), un trattatosull’imitazione dell’ottimo modello nella scrittura in volgare. I primi riconoscimentidell'autorità poetica del Bembo presso la corte di Vittoria Colonna risalgono solo al1530, quando la poetessa finalmente stabilì un dialogo epistolare con l'autorevole poeta egrammatico,59 conosciuto personalmente molto tempo prima, durante il pontificato diLeone X (1513-1521).

Da parte sua Sannazaro, lontano ormai da qualsiasi contesto cortigiano che nesollecitasse la produzione in volgare, sentì sulle sue spalle tutta l’ereditàdell’umanesimo latino lasciatagli dal Pontano (morto nel 1503), si prodigò nelpubblicare le opere de 60l grande maestro insieme a Pietro Summonte e si dedicòininterrottamente alla poesia latina,61  di cui divenne l’esponente napoletano piùautorevole, puntando in particolare al De partu Virginis , «la carta decisiva di tutta la sua vitadi scrittore».62 

Inoltre Sannazaro si interessò dell’architettura, come documenta il codice Viennese lat. 3503, contenente suoi appunti, databili «forse intorno al 1510», inmargine al De re aedificatoria   (1452) di Leon Battista Alberti.63  Alle suggestionidell’Alberti si deve «il lessico architettonico» di alcune elegie, come nel caso di Diis

a dimostrare e sia per quanto mi risulta improbabile l’ipotesi del Mauro che, ‘tornato a Napoli alla fine del1504, per lunghi anni, per un ventennio almeno, il Sannazaro si attardò, incontentabile, intorno ad esse (rime):alcune rifiutando, altre, delle quali aveva smarrito gli esemplari, ricomponendo, altre, ma non molte,componendone nuove; tutte, antiche e nuove, rielaborando con paziente lavoro di lima’» (p. 162).59 Cfr. P. S ABBATINO, L’idioma volgare. Il dibattito sulla lingua letteraria nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1995, part.pp. 38 e ss.60 Summonte dal 1519 occupò nello Studio di Napoli la cattedra di lettere latine e greche, già tenuta da

Pomponio Gaurico dal 1512 e prima ancora da Giovanni Musefilo da Gubbio. 61 L’Opera omnia latine scripta  del Sannazaro fu stampata integralmente a Venezia, dagli eredi di Aldo Manuzio,nel 1535.62  DIONISOTTI,  Appunti sulle Rime del Sannazaro art. cit., p. 193. 63 Cfr. C.  V ECCE, Sannazaro e Alberti. Una lettura del “De re aedificatoria” , in Filologia umanistica per Gianvito Resta , a

. 1821-60.cura di V. Fera e G. Ferrau, vol. 3, Padova, Antenore, 1997, pp

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nemorum in extruenda domo ( III, 3).64  La passione per l’architettura è palpabile anche nelsuo zibaldone Repertorium rerum antiquarum   (cod. Viennese lat. 9477), tratto da Fasti  diOvidio, De lingua latina   di Varrone, Historia naturalis   di Plinio il Vecchio e altri, unostrumento utile per «arrivare ad una ricostruzione dell’urbanistica della Roma antica»,

con particolare attenzione «alle opere architettoniche» e ai «monumenti sepolcrali».65

  Alcuni materiali degli «sfondi descrittivi» del De partu Virginis  provengono da questoRepertorium .66  Con ogni probabilità nel 1529, l’anno della convenzione che assegnaSanta Maria del Parto ai Serviti, Sannazaro con le sue competenze architettonichesupervisionò il «disegno» di «cantaro et cappella» da farsi dietro l’altare maggiorecome monumento sepolcrale.67

Nella cerchia del Sannazaro, secondo l’immagine ambientata a Mergellina nellaprimavera del 1526 e disegnata da Antonio Sebastiano detto il Minturno68 nel trattatoDe Poeta   (Venezia, Rampazeto, 1559),69  ci fu anche Pomponio Gaurico, rientrato aNapoli nel 1512, lettore di humanitas  nello Studio fino al 1519, autore tra l’altro del De

sculptura   (Firenze, Giunti, 1504),70  maturato durante il soggiorno a Padova dove erastato alla scuola del Pomponazzi, e del De arte poetica  (s.n.t., ma Roma, tra il 1510 e il1512), un commento a Orazio dedicato al fiorentino Francesco Pucci (morto nel1512), allievo del Poliziano e professore nello Studio di Napoli. Stretto fu anche ilrapporto del Sannazaro con lo scultore napoletano Girolamo Santacroce.71

 Tra il 1505 e il 1513 è collocabile il primo stadio del poema mariano delSannazaro, il quale allestì il primo libro ( Cristeis   o Christias  ), con il proposito dipresentarlo a Leone X, eletto per l’appunto nel 1513. Intorno al 1518 e negli annisuccessivi Sannazaro si dedicò alla stesura definitiva del poema, che fu inviato in

lettura nel 1521 sia ad Antonio Seripando, consulente sul piano della selezionelessicale, come documenta il carteggio,72 sia a Egidio da Viterbo, consulente teologico.Il 6 agosto 1521, con un breve, firmato da Pietro Bembo, Leone X approvò il poemadel Sannazaro e ne sollecitò la pubblicazione.73

Probabilmente in vista della stampa, che sembrava imminente, ma slittò di cinqueanni per la morte del papa (1 dicembre 1521) e per il rigore dell’autore nel labor limae ,fu commissionata una medaglia a Girolamo Santacroce per celebrare il vicino eventoeditoriale. La notizia del Sannazaro che si fece ritrarre «in medaglia» – un genere

64

 Ivi, p. 1848.65 N ALDI, Girolamo Santacroce orafo e scultore napoletano del Cinquecento cit., p. 12.O, De partu Virginis. Il parto della

tacroce orafo e scultore napoletano del Cinquecento cit., pp. 118.o Calcia, entrambi allievi del

, 1970.ivenuto, F. Negri Arnoldi, P. Sabbatino,

oletano del Cinquecento cit.,  passim .

n ho fatto altro che radere et

526 (ivi, pp. 109-110).

66 Cfr. S. PRANDI,  Arcadia sacra: l’ultimo sogno dell’Umanesimo, in J. S ANNAZAR Vergine volgarizzamento di Giovanni Giolito de’ Ferrari (1588) a fronte , a cura di S. Prandi, Roma, Città NuovaEditrice, 2001, p. 17.67  N ALDI, Girolamo San 68 Minturno si fonda sulla testimonianza di Lucio Camillo Scorziano e TraianSummonte. Cfr. S ABBATINO, L’idioma volgare  cit., pp. 44-49.69 Si segnala la ristampa anastatica: München, W. Fink Verlag 70 Cfr. P. G AURICO, De sculptura , a cura di P. Cutolo, saggi di F. DNapoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999.71 N ALDI, Girolamo Santacroce orafo e scultore nap72

 Cfr. le lettere al Seripando in data 23 marzo 1521 («tre o quattro anni nocassare tre et quattro volte una cosa, che forse haria fatto meglio in consumare il tempo in altro, o stare adpiscare a li mei scogli») e 13 aprile 1521 («Ma io ho mandato il libro in Roma per intendere il iudicio de liamici»), in appendice a I. S ANNAZARO, De partu Virginis , a cura di C. Fantazzi e A. Perosa, Firenze, Olschki,1988, rispettivamente pp. 89 e 93.73 Il breve appare nell’edizione del 1

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diffuso a Napoli in ambito umanistico: Adriano Fiorentino, bronzista di Alfonso IId’Aragona, aveva ritratto Pontano74 - è contenuta nella lettera che Summonte inviò al

 veneziano Michiel nel 1524.75  Sulla base di alcuni studi,76  la medaglia è stataidentificata con il «tipo che reca nel diritto il busto laureato e abbigliato all’antica, nel

rovescio l’ Adorazione del Bambino»,77

  una precisa «combinazione» che è «quasi unasintesi figurata»78 del programma letterario del Sannazaro: coniugare forme classiche econtenuti cristiani, la più raffinata lingua latina, quella di Virgilio, e il più sublimeracconto evangelico, quello della incarnazione di Dio nel grembo di Maria.

Con l’opera della maturità, che Sannazaro diede alle stampe solo nel 1526 aNapoli presso Antonio Frezza79  e a Roma presso Francesco Giulio Minizio Calvo(«Minitius»),80  il poeta contribuì in modo determinante alla fondazione dell’epicacristiana,81 parallela all’epica virgiliana e pagana,82 con l’ambizione, piuttosto scoperta,

74

 N ALDI, Girolamo Santacroce orafo e scultore napoletano del Cinquecento cit., pp. 55 e 104 ( nota 28).75 P. SUMMONTE, Lettera a Marcantonio Michiel del 20 marzo 1524, in F. Nicolini, L’arte napoletana del Rinascimentoe la lettera di Pietro Summonte a Marcantonio Michiel , Napoli, R. Ricciardi, 1925, p. 168.76 N ALDI, Girolamo Santacroce orafo e scultore napoletano del Cinquecento cit., p. 104, nota 30.77 Ivi, p. 56. E a p. 105, nota 34: «Carlo Vecce segnala cortesemente l’esistenza di vari esemplari della medagliache, recando un rovescio privo di figurazioni, erano probabilmente destinati ad essere inseriti nel piatto di una

potesi di una esecuzione della medaglia inlegatura. Questa circostanza sembrerebbe confermare l’iconcomitanza con il proposito di dare alle stampe il De partu Virginis ».78  Ivi, pp. 55-56: «Nella testa del Sannazaro, si coglie come nei marmi la straordinaria capacità del Santacrocedi rendere l’acuta indagine del dato fisionomico attraverso un modellato vibrante: il risalto dato al tagliosuperiore dell’orbita, l’accentuazione dello zigomo sporgente che mette in evidenza, per contrasto, la guanciasmagrita; la sottolineatura delle rughe al lato del naso e della bocca, sul mento imbolsito; l’analisi attenta della

corona d’alloro, serrata da nastri svolazzanti, e delle lunghe ciocche filiformi dei capelli. […] La particolareiconografia della medaglia sembrerebbe voler celebrare l’attività poetica dell’umanista con riferimento alla suamaggiore opera latina, il De partu Virginis ; la combinazione del busto ‘all’antica’ con l’ Adorazione del Bambino èquasi una sintesi figurata dell’obiettivo perseguito dal Sannazaro: adattare l’esametro classico al racconto dellanascita di Gesù » . La scheda della medaglia è alle pp. 172-73. Inoltre Naldi sottolinea: «Questa medaglia è stataanche usata come ritratto ufficiale dell’umanista in diverse edizioni di sue opere; la si ritrova come modello diuna ‘vera effigie’ già in un’ Arcadia  veneziana del 1578 (ristampata nel 1586), curata da Francesco Sansovino »  (p. 55).79 In appendice al De partu Virginis  cinque  Eclogae Piscatoriae , cui aggiunse, nelle ristampe aldine del 1527 e 1528,dieci epigrammi e cinque elegie. Inoltre nei Carmina  di Giovanni Cotta e Marco Antonio Flaminio (Venezia, s.i.t.[probabilmente stamperia dei fratelli da Sabbio], 1529), apparvero alcune Odae  e l' Elegia de malo punico. 80  Occorre segnalare una stampa clandestina e scorretta apparsa a Venezia nel 1526, senza indicazioni

tipografiche. Tale stampa – osservano F ANTAZZI-PEROSA, Introduzione  a S ANNAZARO, De partu Virginis   cit.,pp. LIV-LV - «contiene la redazione più antica del primo libro […], che – stando alla testimonianza di unalettera senza data del Sannazaro al patrizio veneto Marcantonio Michiel - sarebbe stata pubblicata

poco prima,

. 122, pp. 133-57 (la cit. a p. 145). Il contributo di Canfora

re 2004, raccolti da D. Canfora e A. Caracciolo Aricò, op. cit., pp. 53-64.

clandestinamente a Venezia. […] La lettera non è datata, ma dal Nicolini e dal Mauro è stata assegnata alperiodo che va dall’inverno 1520-1521 all’autunno 1523 o, eventualmente, al luglio 1524. La pubblicazioneclandestina di questa redazione del De partu   andrà quindi collocata in quello stesso periodo operché non è verisimile, che il Sannazaro sia venuto a conoscenza della stampa (e quindi abbia dato liberosfogo al suo malumore) con troppo ritardo».81 Al progetto di un’ Eneide   cristiana partecipò anche Marco Girolamo Vida con il poema in esametri latiniChristiados libri sex , commissionatogli da Leone X, terminato nel 1527 e pubblicato a Cremona, ««in aedibusdivae Margaritae», nel 1535.82  Nel fondare l’epica cristiana, Sannazaro dà continui segnali della sua rilettura del De rerum natura  di Lucrezio

e della sua volontà di correggere cristianamente Epicuro, così come aveva fatto, con un tentativo certo «benpiù organico», Lorenzo Valla nel De voluptate  (1431). Cfr. D. C ANFORA, Ideologia e fortuna del «De partu Virginis»:alcune note , «Critica letteraria», XXXII, 2004, nappare in forma più breve e con il titolo  Epicureismo, naturalismo e cristianesimo nel  De partu Virginis di IacopoSannazaro, in La Serenissima e il Regno. Nel V Centenario dell’  Arcadia di Iacopo Sannazaro. Atti del Convegno diStudi (Bari-Venezia, 4-8 ottob

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di stare, nella galleria della letteratura, accanto ai due grandi modelli volgari, il cantoXXXIIII del Paradiso di Dante e la canzone Vergine bella, che, di sol vestita   di Petrarca( R.V.F ., 366).83 

Nello scacchiere europeo dell’umanesimo il De partu Virginis   occupa un posto

strategico, utile per sottolineare da un lato il rapporto che la cultura napoletana stringecon Roma, la capitale allora sia del classicismo letterario con Paolo Cortese (morto nel1510), Angelo Colocci, Giano Coricio (nome umanistico di Jojann Goritz, prelatolussemburghese trasferitosi a Roma), sia del classicismo artistico (con Bramante,Giuliano da Sangallo, Raffaello), e dall’altro la fortuna dell’opera nel vecchiocontinente, tra consensi e dissensi. A Roma si trasferì nel 1512 Pietro Bembo, co-protagonista insieme a Giovanfrancesco Pico della Mirandola nella polemica, assaiaccesa allora, sul problema dell’imitazione del perfetto modello (secondo l’uno) e dipiù modelli (secondo l’altro).84

 A orientare il Sannazaro verso Roma contribuirono non solo il classicismo

letterario e il classicismo artistico, ma anche la necessità del confronto teologico conl’agostiniano Egidio da Viterbo85  - durante la sua permanenza a Napoli, negli anni1499-1501, aveva stretto i rapporti con l’Accademia di Pontano,86 il quale gli dedicò iltrattato filosofico e religioso l’ Aegidius   (1501) -, un personaggio sempre più centralenella Roma del secondo decennio del Cinquecento, come provano la sua introduzioneai lavori del V Concilio Lateranense (1512) e la sua nomina a cardinale (1517).

Egidio da Viterbo, autore di tre egloghe spirituali, 87 si fece interprete, dal punto di vista cristiano, del mito dell’età dell’oro, formulato da Virgilio nella quarta egloga.88 Nelprospettare la nuova età dell’oro, caratterizzata dalla renovatio umanistica e dalla parallela

renovatio cristiana, Egidio da Viterbo rilanciò il motivo della nascita di Gesù, di Dio chediventa uomo e dell’uomo che ha una dignità divina. Il discorso De aurea aetate , tenutoda Egidio nel 1507, contiene l’annuncio della nuova età dell’oro per la cristianità.Nell’Historia viginti saeculorum   Egidio da Viterbo espose la sua filosofia della storia e

83  Cfr.  PRANDI,  Arcadia sacra: l’ultimo sogno dell’Umanesimo, in J.  S ANNAZARO, De partu Virginis. Il parto dellaVergine volgarizzamento di Giovanni Giolito de’ Ferrari (1588) a fronte , cit., p. 8.84 Cfr. P. S ABBATINO, La bellezza di Elena. L’imitazione nella letteratura e nelle arti figurative del Rinascimento, Firenze,Olschki, 1997, pp. 26-35.85 Per la ingente bibliografia su Egidio da Viterbo cfr. F.  X. M ARTIN, Egidio da Viterbo, 1469-1532. Bibliography,

1510-1982 , «Biblioteca e Società», 4, 1982, pp. 5-91; A.  DE MEIJER ,  Bibliographie historique de l’ordre de Saint Augustin , «Augustiniana», 35, 1985; 39, 1989. Fondamentale la monografia di F. X. M ARTIN, Friar, Reformer,and Renaissance Scholar. Life and Work of Giles of Viterbo, 1469-1532,  with a foreword by John W. O'Malley,edited by John E. Rotelle, Villanova,  Augustinian press,  1992. Utili le raccolte epistolari: Lettere familiari, I,1494-1506; II, 1507-1517 , a cura di A. M. Voci-Roth, Roma, Institutum Historicum Augustinianum,  1990;Letters as Augustinian General: 1506-1517 , edited C. O’Reilly, Romae, Institutum Historicum Augustinianum, 1992. Sulla presenza di S. Agostino nella letteratura: F.  T ATEO, S.  Agostino e l’umanesimo italiano, in L’Umanesimodi Sant’Agostino, Bari, Laterza, 1988, pp. 335-57.86  Cfr. F.  FIORENTINO,  Egidio da Viterbo ed i pontaniani di Napoli , «Archicio storico per le provincienapoletane», IX, 1884, pp. 430-52.87  M. DERAMAIX , La genèse du  «De partu Virginis»  de Jacopo Sannazaro et trois églogues inédites de Gilles de Viterbe ,«Mélanges de l’École française de Rome», Moyen Age, to. 102, 1990, 1, pp. 173-276.88

 Sull’imitazione di Virgilio: G. S AVARESE, Egidio da Viterbo e Virgilio, in Un’idea di Roma. Società, arte e culturatra Umanesimo e Rinascimento, a cura di L. Fortini, Roma, Roma nel Rinascimento, 1993, pp. 121-42; M.  DERAMAIX , «Synceromastix nescio quis». L’imitation de Virgile dans le  «De partu Virginis»  de Sannazar d’aprés ses lettrescritiques de 1521, in La réception des classiques par les humanistes . Actes du Premier Congrès de la Société françaised’études néo-latines (Tours, 19-20 janvier 2001), éd. F. Vuilleumier-Laurens, Cahiers de l’Humanisme , série, àparaître.

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identificò il punto più alto della storia dell’umanità, divisa in venti età, con la Roma diLeone X.89  Il papa mediceo fu additato come l’uomo della provvidenza, capace di farrivivere nella città eterna «quell’ideale di pace e di prosperità che aveva caratterizzatol’epoca augustea, momento storico in cui ebbe luogo la nascita di Cristo».90

Egidio da Viterbo fu tra gli interlocutori romani (Seripando e Antonio Tebaldeo)del Sannzaro in materia teologica91  e certamente nel marzo del 1521 ebbe in lettura«una copia integrale» del poema92  affinché «la emendasse donde li piacesse», come silegge nella missiva (31 marzo 1521) di G. Tommaso Tucca alla marchesa Isabella.

C’è infine un’altra ragione – solo parzialmente indagata - che orientò Sannazaro verso Roma, vero motore di una rinnovata considerazione e di un culto più intensodella Madonna nella storia cristiana del Quattrocento europeo.93  In particolare laparabola della dimensione religiosa e della funzione sociale di Maria crebbe ad opera delpapa francescano Sisto IV (1471-1484), teologo sulle orme di Duns Scoto e sostenitoresin dal 1448 della dottrina dell’Immacolata Concezione,94 che sarà sancita come dogma

89 A. COLLINS, The Etruscans in the Renaissance: the Sacred Destiny of Rome and the Historia viginti saeculorum of Giles ofViterbo, «Studi e materiali di Storia delle religioni», 64, 1998, pp. 337-65; M. DERAMAIX , «Phoenix et Ciconia». Il  De partu Virginis  di Sannazaro e   l’Historia viginti saeculorum di Egidio da Viterbo, in Confini

a Viterbo e Sannazaro cfr. M. DERAMAIX , «Si psalmus inspiciatur». L’actualité et son

cherche sur la Renaissance Italienne (Paris,

iversitàizioni del Gaslluzzo,

L’età dei Della Rovere , V

dell’Umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. De Nichilo, G. Distaso, A. Iurilli,Roma, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 523-56; ID., «Renovantur saecula». Le quintum bonum du dixièmeâge selon Gilles de Viterbe dans l’Historia viginti saeculorum et le De partu Virginis de Sannazar, inL’Humanisme et l’Église du XV e  siècle au milieu du XVIe  siècle (Italie et France méridionale). Actes ducolloque international (Rome, 3-5 février 2000), éd. P. Gilli, Rome, École française de Rome, 2004, pp. 281-326; ID., «Spes illae magnae». Girolamo Seripando lecteur et juge de l’Historia viginti saeculorum de Gilles de

 Viterbe, in Parrhasiana III. «Tocchi da huomini dotti»: codici e stampati con postille di umanisti. Atti del III

Seminario di studi (Roma, 27-28 settembre 2002), a cura di G. Abbamonte, L. Gualdo Rosa, L. Munzi,«Annali dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale. Dipartimento di studi del mondo classico e delmediterraneo antico, sezione filologico-letteraria», 27, 2005, pp. 209-37; ID., «Musa tua me recepit». LesSirènes, la kabbale et le génie du lieu napolitain dans une lettre inconnue de Gilles de Viterbe à Sannazar etdans son Historia viginti saeculorum, in les Mélanges offerts à M. Fumaroli, éds. C. Mouchel – C. Nativel,Genève, Droz, à paraître.90 PRANDI,  Arcadia sacra: l’ultimo sogno dell’Umanesimo, in S ANNAZARO, De Partu Virginis. Il parto della Verginevolgarizzamento di Giovanni Giolito de’ Ferrari (1588) a fronte  cit., p. 15.91 Sui rapporti tra Egidio ddouble antique chez Gilles des Viterbe et chez Sannazar , in L’actualité et sa mise en écriture dans l’Italie des XVème- 

 XVIIème siècles . Actes du colloque du Centre interuniversitaire de re21-22 octobre 2002), éds. D. Boillet – C. Lucas, Paris, Presses Universitaires de la Sorbonne Nouvelle-Paris

III, 2005, pp. 51-68 ; ID., «Non mea voluntas sed tua». La révision académique du  De partu Virginis de Sannazar etl’espression latine du sentiment religieux , in Académies italiennes et françaises de la Renaissance : idéaux et pratiques (Paris,10-13 juin 2003), éds. M. Deramaix, P. Galand-Hallyn, G. Vagenheim, J. Vignes, Genève, Droz, à paraitre en2006; ID. «Non voce pares». Sannazar, Gilles de Viterbe et leurs doubles , in Vite parallele: memoria, autobiografia, coscienzadell’io e dell’altro. Atti del XII Convegno del Gruppo di Studio sul Cinquecento Francese (Vérone, 20-22 mai 2004), éd. R.Gorris Camos, à paraitre; ID. «Manifesta signa». Théologie et poétique, hypotypose et ekphrasis dans le De partu Virginis de Sannazar , in La Serenuissima e il Regno. Nel V Centenario dell’  Arcadia di Iacopo Sannazaro. Atti del Convegno distudi (Bari-Venezia, 4-8 ottobre 2004), raccolti da D. Canfora e A. Caracciolo Aricò, op. cit., pp. 172-202. 92 Cfr. F ANTAZZI-PEROSA, Introduzione  a S ANNAZARO, De partu Virginis  cit., p. LXXVI.93 Cfr. Gli studi di mariologia medievale. Bilancio storiografico . Atti del I Convegno Mariologico della FondazioneEzio Franceschini con la collaborazione della Biblioteca Palatina e del Dipartimento di storia dell’Undi Parma (Parma, 7-8 novembre 1997), a cura di C. M. Piastra, Firenze, SISMEL-Ed

2001;  Maria, l’Apocalisse e il Medioevo. Atti del III Convegno Mariologico della Fondazione Ezio Franceschinicon la collaborazione della Biblioteca Palatina di Parma (Parma, 10-11 maggio 2002), a cura di C. M. Piastra eF. Santi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2006.94 Risale al 1448 il discorso di Francesco della Rovere, il futuro papa Sisto IV, sull’Immacolata Concezione.Cfr. FRANCESCO DELLA R OVERE,  L’Orazione della Immacolata, a cura di D. Cortese, Padova, Centro studiantoniani, 1985. Si veda inoltre C.  V  ASOLI, Sisto IV professore di teologia e teologo , in

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solo nel 1854 da papa Pio IX. Tra l’altro, nel 1475 fu istituita la festa liturgica della Visitazione della Madonna alla anziana cugina Elisabetta e nel 1477 fu pubblicatol’ufficio per la festa dell’Immacolata Concezione. Questo fervore mariano fu recepito erappresentato dalle arti figurative,95  come dimostrano, ad esempio, le opere di Piero

della Francesca, la  Madonna del Parto  (1450 circa; Arezzo, Museo Comunale), affrescoeseguito nella cappella all’ingresso del cimitero di Monterchi paese natale della madredell’artista, e di Leonardo da Vinci, la Vergine delle rocce   (1483-1486; Parigi, Louvre),eseguita per la Cappella della Concezione in San Francesco Grande a Milano,96  e laVergine col Bambino e sant’Anna   (1510-1513; Parigi, Louvre). Inoltre gli affreschi dellaCappella Sistina, eseguiti al tempo di Sisto IV, che dedicò la Cappella a Maria, furonoinfluenzati dalla figura della Madonna, immacolata e madre di Dio, come documenta ilprogramma mariologico delle pitture parietali di Cosimo Rosselli, Sandro Botticelli,Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino.97 Dietro l’altare, l’affresco del Perugino con«una rappresentazione dell’Immacolata sul modello di un’Assunta»,98 testimoniata da un

disegno probabilmente del Pinturicchio (1481; Vienna, Albertina) e sostituita poi dalGiudizio universale  di Michelangelo, il quale in tutti i suoi interventi, dalla volta al Giudizio,riprende e sviluppa con la sua genialità i motivi iconografici mariologici: «Maria è lanuova Eva, sposa del nuovo Adamo fino al giorno del giudizio universale e, diconseguenza, archetipo della Chiesa».99

Nell’ambito della letteratura il panorama della poesia mariologica di tutta Europa siarricchisce sempre più,100  almeno fino all’inizio del Seicento,101  e si radica il poemamariano che celebra e difende la tesi immacolista, come Battista Mantovano (GiovanniBattista Spagnoli), Parthenice mariana   (1481),102  Robert Gaguin, De mundissima Virginis

 Mariae conceptione  (1489), Jacob Wimpfeling, De triplici candore Mariae  (1493). Inoltre, tra il1501 e il 1504, il tipografo Aldo «rilanciava, con le sue edizioni dei Poetae christiani veteres  l’epica cristiana di Prudenzio, Sedulio, Giovenco, Aratore», contribuendo allapreparazione di quell’«orizzonte di sensibilità favorevole alla rinascita dell’epica cristianadegli anni Venti».103

 

Convegno storico savonese, Savona 7-10 novembre 1985, «Atti e memorie della Società Savonese di StoriaPatria», n. s., XXIV, 1988, pp. 182-91.95  M. LEVI D’ANCONA, The Iconography of the Immaculate Conception in the Middle Ages and Early Renaissance , New

a, conservata alla National Gallery  di Londra.-Città del Vaticano, Jaca

oesia mariologica dell’Umanesimo latino. Testi e versione italiana a fronte, a cura di C. M. Piastra,

gica privilegia il dolore e le lacrime della

, introduzione, testo latino e versionemetrica, note a cura di E. Bolisani, Padova, Tip. Antoniana, 1957.103 PRANDI,  Arcadia sacra: l’ultimo sogno dell’Umanesimo, in S ANNAZARO, De partu Virginis. Il parto della Vergine

 York, The College Art Association of America in conjunction with the Art Bulletin, 1957;  V.  FRANCIA,

Splendore di Bellezza. L’iconografia dell’Immacolata Concezione nella pittura rinascimentale italiana , presentazione di S.De Fiores, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2004; T.  V ERDON, Maria nell’arte europea , didascalie acura di F. Rossi, Milano, Electa, 2004.96 Si conosce un’altra versione dell’oper97 Cfr. HEINRICH W. PFEIFFER , La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro , MilanoBook - Musei Vaticani, Libreria Editrice Vaticana, 2007, pp. 9-80 ( Le scene dell’Antico e del Nuovo Testamentoeseguite al tempo di Sisto IV  ), part. pp. 16 ss..98 Ivi, p. 18.99 Ivi, p. 69.100  Cfr.  La ppresentazione di C. Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2002.101 Tra secondo Cinquecento e inizio Seicento la letteratura mariolo

Madonna: cfr. S ABBATINO, La bellezza di Elena cit., pp. 61-95 ( «Cristo morto in braccio a la madre». Il «Pianto» diVittoria Colonna, la Pietà di Michelangelo e il «Discorso» di Nicolò Aurifico ) e 97-160 ( Le Muse «pentite». Le «lagrime» di Maria Vergine in Torquato Tasso, Giovan Battista Basile e Ridolfo Campeggi  ).102  Si segnala la traduzione: La partenice mariana di Battista mantovano

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Culto mariano e classicismo letterario-artistico, le pagine bibliche sulla Madonna elo splendore della forma classica latina si intrecciarono tra loro nel primo Cinquecento,come dimostra la raccolta di carmi Coryciana  (Romae, apud Ludouicum Vicentinum etLautitium Perusinum, 1524), promossa dall’umanista tedesco Johann Göritz detto il

Coricio sin dal 1512 e pubblicata, dopo numerosi arricchimenti, a cura di BlosioPalladio nel 1524.104 Tutti gli autori (tra gli altri Bembo, Castiglione, Giovio, Colocci) 105 trassero ispirazione dal gruppo marmoreo Sant’Anna con la Vergine e Gesù bambino,commissionato dal protonotario apostolico Göritz per la chiesa di S. Agostino (Roma) escolpito da Andrea Sansovino nel 1512,106  come segnala Vasari nella biografiadell’artista:

Fece di marmo in Santo Agostino di Roma, in un pilastro a mezzo la chiesa, una Santa Anna che tienein collo la Nostra Donna con Cristo.107

 

Negli anni Venti l’epica mariana toccò punte elevate, con il sulmonese MarcoMariano Probo, Parthenias Liber in divae Mariae historiam , apparso postumo (Napoli, per

 Antonio Frezza 1524), il ragusano Giacomo Bona (ambasciatore presso Leone X), Devita & gestis Christi eiusque mysteriis & documentis opus egregium, ex quattuor euangeliis aliisquediuinis eloquiis ad omnimodam & perfectam Christianorum eruditionem, carmine heroico eleganterac mirifice congestum, atque in 16. libros diuisum  (Roma, Per il tip. Francesco Minizio Calvo,1526) e il napoletano Sannazaro, De partu Virginis . (Napoli, Antonio Frezza, 1526).

Se da una parte Sannazaro strinse il contatto con il classicismo romano, ruotanteattorno alla corte papale, dall’altra la corte papale – come documentano i brevi di Leone

X e di Clemente VII che sono nelle prime stampe del De partu Virginis   – accolse estimolò il Sannazaro nella composizione del poema epico, atteso come «una sorta di Eneide  cristiana»,108 per il suo «valore propagandistico» e per la sua «funzione didattica» afavore della crescente letteratura mariana, in un tempo in cui Lutero aveva mossoprecise accuse al potere della chiesa e al culto idolatrico della Vergine Maria, considerataimpropriamente come mediatrice tra l’uomo e Dio.109

Sul piano dello scacchiere europeo dell’umanesimo latino acquista rilievo ildissenso forte e autorevole, ma isolato, di Erasmo da Rotterdam, il quale pubblicò ilDialogus Ciceronianus  (Basilea, per i tipi dell’officina di Johann Froben, 1528), un trattato

volgarizzamento di Giovanni Giolito de’ Ferrari (1588) a fronte  cit., p. 19. 

Comunale, 1972, pp. 45-60; R.  ALHAIQUE

-81.

t scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi

104  Cfr.  Coryciana , critice edidit, carminibus extravagantibus auxit, praefatione et anotationibus instruxit I.Ijsewijn, Romae, in aedibus Herder, 1997.105 Cfr. J. R UYSSCHAERT, Les péripéties inconnues de l’edition des ‘Coryciana’ de 1524, in  Atti del convegno di studi su

 Angelo Colocci (Iesi, 13-14 settembre 1969), Iesi, AmministrazionePETTINELLI , Ars antiqua e nova religio: gli autori dei Coryciana tra classicità e modernità , in Tra antico e moderno. Romanel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 63106 Cfr. G. M ARIACHER , La scultura del Cinquecento, Torino, U TET, 1987, p. 76 («una interpretazione […] inchiave classicheggiante della S. Anna Metterza consueta nell’iconografia nordica, pesante e quasi impacciatanella composizione, ma accuratissima e non priva di grazia toscana»).107  V  ASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, e 

di Lorenzo Torrentino Firenze 1550 cit., p. 668. 108 P.  TROVATO, Il primo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 23.109  Cfr. F ANTAZZI-PEROSA, Introduzione   a  S ANNAZARO, De partu Virginis   cit., p. CIV. Sull’immagine dellaMadonna in Lutero e in altri scrittori riformati può essere un utile punto di partenza la raccolta  Maria. Testiteologici e spirituali dal I al XX secolo, a cura della Comunità di Bose, con un saggio introduttivo di E. Bianchi,Milano, A. Mondadori, 2000, pp. 757-888.

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contro la corruzione della Chiesa e contro l’umanesimo paganeggiante promosso daRoma.

Erasmo ritiene che il voler andare avanti, con la testa rivolta indietro per fissare unmodello o anche più modelli del mondo classico e pagano, comporti un inevitabile e

rischioso travaso del paganesimo nel cristianesimo. Inoltre il parlare di cose sacre conparole pagane porta alla frattura fra res  e verba , come spiega e ribadisce nella sintesi finaledel Ciceronianus , mentre l’eloquenza, alla pari di tutte le altre discipline, si apprende perintendere Cristo, per celebrare la gloria di Cristo («ut Christus intelligamus, ut Christigloriam celebremus»).110

Nel passaggio dedicato al De partu Virginis , Sannazaro viene accusato di avertrattato un soggetto sacro con forma pagana. Erasmo coglie ancora una voltal’occasione per mettere a fuoco il suo punto di vista religioso («Christi mysteria nonsolum erudite, verum etiam religiose tractanda sunt»).111 Per porre fine al trasferimentodel materiale lessicale e figurativo dal mondo pagano a quello cristiano, che equivale allo

smantellamento delle tessere di un mosaico rappresentante il ratto di Ganimede perriutilizzarle nel mosaico dell’arcangelo Gabriele che annuncia alla Madonna la suamaternità, Erasmo propone di utilizzare il latino moderno, una lingua viva, chenell’arricchirsi trae nutrimento non solo dagli scrittori classici, ma anche e soprattuttodagli scrittori cristiani, i santi padri della Chiesa, accoglie le parole ebraiche e grecheintrodotte dalla filosofia cristiana, sviluppatasi in origine nella Palestina, nell’Asia minoree nella Grecia, fa uso delle espressioni di Gesù e degli apostoli, infine si muoveliberamente nella formazione di nuove voci necessarie per esprimere nuove realtà.112

Quando Erasmo levò la sua denuncia contro l’umanesimo paganeggiante di Roma

siamo all’altezza del 1528, a ridosso ormai della definitiva rottura di Lutero e del saccodi Roma (1527), eventi che avevano irrimediabilmente infranto il mito della nuova etàdell’oro proiettato nella Roma papale, la nuova Gerusalemme.

Il De partu Virginis  resta, sul piano letterario, la testimonianza più alta e più preziosadell’umanesimo del primo Cinquecento e del sogno di Sannazaro di dar vita a unanuova età dell’oro nella Città eterna, nella terra promessa della  pax universalis , dellarenovatio umanistica e della renovatio cristiana.113 

3. Il paradosso del Sannazaro: in margine a Mauro e Dionisotti  

Per una coincidenza storico-editoriale, nel mese di marzo del 1530, apparve a Venezia, «per Maestro Giovan Antonio & Fratelli da Sabbio», la prima edizione delleRime  114  e a novembre dello stesso anno, dopodi Pietro Bembo, curate dall’autore,sette mesi dalla morte del Sannazaro, fu pubblicata a Napoli la sua raccolta Sonetti et

110  ERASMO DA R OTTERDAM,  Il Ciceroniano o dello stile migliore . Testo latino critico, traduzione italiana,prefazione, introduzione e note a cura di A. Gambaro, Brescia, La Scuola, 1965, p. 308.

 ).rcadia sacra: l’ultimo sogno dell’Umanesimo, in S ANNAZARO, De partu Virginis. Il parto della Vergine

111

 Ivi, p. 280.112 Cfr. S ABBATINO, La bellezza di Elena  cit., pp.40-53 (  Erasmo da Rotterdam e Giulio Camillo113 PRANDI,  Avolgarizzamento di Giovanni Giolito de’ Ferrari (1588) a fronte  cit., p. 40. 114 Cfr. P. S ABBATINO, Sulla tradizione a stampa delle «Rime» , in La «scienza» della scrittura. Dal progetto del Bembo almanuale , Firenze, Olschki, 1987, pp. 103-7.

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canzoni  ad opera di amici e della depositaria e destinataria Cassandra Marchese,115 manon si hanno indizi per identificare il curatore o i curatori.

Le opere di Bembo e Sannazaro sono diverse nella struttura. Infatti nella primaedizione delle Rime   del Bembo abbiamo 114 componimenti (cc. I-XXXVII), di cui i

primi 111, da Piansi & cantai la perigliosa guerra   a Signor quella pietà, che ti costrinse , sonodistribuiti e organizzati a posteriori   in modo da narrare la storia della «perigliosa guerra[…] d’Amor», che il poeta dichiara di aver sostenuto «molti e molt’anni», e «la cagion dicosì lunghi affanni», come si legge nel sonetto proemiale (vv. 1-3). Il finale dlla storia ènei componimenti 109-111 ( Uscito fuor de la prigione trilustre ; Signor del ciel, s’alcun prego timove ; Signor quella pietà, che ti costrinse  ), quando il poeta invoca il «Padre celeste», orachiedendo la liberazione dalle «insidie» d’amore ( Uscito fuor de la prigione trilustre , vv. 9-11:«Ond’io, Padre celeste, a te mi volgo: / Tu l’alta via m’apristi & tu la sgombra / de lecostui, contra ‘l mio gir, insidie»), ora invocando il «soccorso» e nuove forze ( Signor delciel, s’alcun prego ti move , vv. 1-4: «Signor del ciel, s’alcun prego ti move, / volgi a me gli

occhi, questo solo; & poi / s’io ‘l vaglio, per pietà, coi raggi tuoi / porgi soccorso al’alma & forze nove»), infine impetrando la «grazia» ( Signor quella pietà, che ti costrinse , v.24), affinché «larga descenda» sul poeta e su quanti sono iscritti alla società d’amore(«sopra noi»), accomunati da uno stesso torto («nostro torto», v. 22). Gli ultimi trecomponimenti (112-114), scritti nel 1529, sono in morte del Navagero (  Navaier mio, ch’aterra strana volto; Anime, tra cui spazia or la grand’ombra  ) e di Luigi da Porto ( Porto, che ‘l mio

 piacer teco ne porti  ), i due amici spentisi in quell’anno. Questi componimenti costituisconoun gruppo a sé stante e solo in séguito, ma non all’altezza della prima edizione, talegruppo diventerà una struttura aperta, fino a crescere, a imitazione della bipartizione

petrarchesca, come seconda parte del canzoniere bembiano e con un titolo significativo( Rime di messer Pietro Bembo in morte di messer Carlo suo fratello e di molte altre persone  ).116 Ai 114componimenti segue l’indice dei capoversi (cc. XXXVII-XXXVIIII), la notificazionedei privilegi («Per concession del Pontefice, della Signoria di Vinegia, del Duca diFerrara, & della Rep. Fiorentina si vieta sotto alcuna pena a tutti altri il poter quest’operastampare, né vendere per gli lor domini») e in limine   le Stanze   con dedica  Al SignorOttaviano Fregoso, datata «Il secondo giorno della quaresima dell’anno MDVII». Le Stanze ,scritte per una serata carnevalesca, sono separate dal canzoniere, non solo sul pianoeditoriale, ma anche sul piano linguistico, dal momento che il lessico non sempre ha il«sigillo petrarchesco», come ha osservato Dionisotti, per cui il testo viene offerto ailettori quale documento del «dominio altrettanto sicuro», da parte del Bembo, «dellaparallela e contrapposta tradizione di lingua e di stile che dalla Commedia   discende alBoccaccio».117

Nei Sonetti et canzoni   del Sannazaro abbiamo 101 componimenti, articolati in dueparti, la prima con 32 liriche e la seconda con 66, seguite da un gruppo di tre capitoli,con una dedica finale alla Cassandra almeno nell’esemplare della Biblioteca Apostolica

 Vaticana. Anche se si registra un sostanziale consenso della critica nel valutare i trecapitoli finali come gruppo «a sé»,118  appaiono distanti le posizioni nell’esaminare il

115 Cfr. la tarda elegia a Cassandra Marchese, Quod pueritiam egerit in Picentinis (  El ., III, 2). 

Dionisotti, Torino, U TET, 1978, pp. 651-52 (nota).ri di esse, fece seguire

ISOTTI,  Appunti

116 S ABBATINO, Sulla tradizione a stampa delle «Rime» , in La «scienza» della scrittura cit., pp.103-41. 117 Cfr. P. BEMBO, Prose e Rime , a cura di C.118 M AURO, Nota sul testo in S ANNAZARO, Opere volgari  cit., p. 448 («alle due parti, e fuotre capitoli, stanti a sé, come diversi dalle liriche precedenti per ispirazione e metro»); DION

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rapporto tra le prime due parti. Secondo Mauro le prime due parti rispecchiano labipartizione e la struttura unitaria del canzoniere petrarchesco. Il Sannazaro «distribuì» icomponimenti in due parti, tenendo «anche in questo l’occhio al Petrarca». Così nellaprima parte collocò «le rime più giovanili, ispirate da amori diversi, due per lo meno» e

nella seconda parte, che è «documento di un’arte più sicura e più meditata», distribuì«le rime ispirate in età più ferma   […] da un amore più profondo e duraturo, dal qualeinappagato, spera in fine di liberarsi raccogliendosi nel pensiero e nel sentimento diDio».119  Ma questa lettura, che assume le due parti come membra di un sol canzoniere,è una vera e propria forzatura secondo Dionisotti. Il quale innanzitutto non crede che laraccolta sia stata «complessivamente […] predisposta» dal Sannazaro e in secondo luogosostiene con argomentazioni forti che le due parti sono separate e distinte, senza alcun«rapporto organico» tra loro,  120 e quindi senza un verificabile «processo cronologico esentimentale».121 In aggiunta Dionisotti espone le ragioni che lo inducono a cogliere solonella seconda parte di Sonetti et canzoni   le linee del «disegno di un canzoniere», che, per

quanto possa essere «piccolo», è pur sempre «di mole sufficiente all’ordinataorchestrazione dei varii temi che al Sannazaro erano stati cari in giovinezza».122  Nelcanzoniere, composto nel decennio che va dal 1494 (l’anno della caduta della monarchiaaragonese e del giovanile «naufragio» del poeta, come si legge nella dedica a CassandraMarchese) al 1504-1505 (l’ultimo dell’esilio e il ritorno a Napoli), Sannazaro delinea il«bilancio poetico» di parte della sua giovinezza, oramai alle spalle, dalla conclusionedell’esperienza tra pastori e selve, raccontata nei componimenti iniziali della secondaparte ( Spente eran nel mio cor le antiche fiamme ; Ecco che un’altra volta, o piagge apriche ; Or avess’iotutta al mio petto infusa  ) e dall’inizio della guerra d’Amor che gli ha teso il laccio, fino al

sestodecimo anniversario dell’amore, segnalato nell’ultimo componimento ( O mondo, osperar mio caduco e frale , v. 10), facendo coincidere il finale della storia d’amore e delcanzoniere con la fine del regno aragonese (1494).123  Nella prima parte di Canzoni etsonetti , invece, Sannazaro raccoglie per un omaggio a Cassandra, al ritorno dall’esilio epresto, componimenti d’amore – sono condannati gli amori trascorsi e viene esaltatol’«altro» (  Al corso antico, a la tua sacra impresa , v. 5) e l’alto amore per Cassandra -, che sono«posteriori» sia a quelli databili della seconda parte, sia al limite cronologico dato allastoria d’amore, con l’ipotesi formulata da Dionisotti «di un ordine retrogrado, cioè di unaseconda parte accidentalmente posposta e che avrebbe dovuto essere in realtà laprima».124

 

sulle Rime del Sannazaro art. cit., pp. 162 e 179-83. 119  Cfr. M AURO,  Nota sul testo, in S ANNAZARO,  Opere volgari   cit., p. 448. Sui legami tra le due parti, che

NISOTTI,  Appunti sulle Rime del Sannazaro art. cit., p. 162.dirò subito che alla possibilità di distinguere in

tazioni di Dionisotti vengono accolte da M. SANTAGATA,  La lirica aragonese. Studi sulla poesianapoletana del secondo Quattrocento, Padova, Antenore, 1979, p. 303.124 DIONISOTTI,  Appunti sulle Rime del Sannazaro art. cit., p. 171. 

compongono un macrotesto, ritorna con argomentazioni interessanti R.  F ANARA,  Strutture macrotestuali neiSonetti et canzoni  di Jacobo Sannazaro, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000, p. 8(«fra le rime della prima e quelle della seconda parte emergono legami e rispondenze che autorizzano, almeno,ad ipotizzare che le due presunte raccolte siano in realtà membra di un macrotesto inteso e perseguito cometale»).120 DIO121 Ivi, p. 165 («Quanto al processo cronologico e sentimentale,

queste rime i varii amori del Sannazaro, io non credo affatto. Credo che sia l’ultimo e disperato criterio cuipossa appigliarsi, mancando ogni altra testimonianza, un lettore di rime del Quattro e Cinquecento»)122 Ivi, p. 174.123  Le argomen

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Nonostante la diversità della struttura, le Rime   di Bembo e Canzoni et sonetti   diSannazaro raggiungono «risultati analoghi» sul piano della consapevole e fine ricercadell’ortodossia petrarchesca, autorizzando lo storico della letteratura a registrarenell’anagrafe, all’altezza del 1530, la «nascita del petrarchismo lirico cinquecentesco».125 

Si verificò, allora, il paradosso del Sannazaro: a partire dal 1530, sull’onda dellaprogressiva incrinazione della tradizione umanistica latina, la fortuna del Sannazarolatino del De partu Virginis  e dei Piscatoria , corrispondente alla seconda stagione, «cedeva ilposto» al Sannazaro volgare dell' Arcadia  e delle Rime , corrispondente alla prima stagione.Così la parabola della fortuna di Sannazaro dopo la morte segue un percorso rovesciatorispetto alla successione in vita delle due stagioni artistiche e letterarie.126