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Bimestrale web gratuito a cura del Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Settembre 2012 numero 3 WEB NOTIZIE, TESTIMONIANZE e DOCUMENTI del Centro Studi e Ricerche Storiche“Silentes Loquimur” – 33170 Pordenone (Italia) Via Div.Folgore 1, Casella Postale 335 Biblioteca: - 33170 Pordenone - P.ta Ottoboni 4, tel: 0434209008-FAX 0434081649 e.mail: [email protected] [email protected] [email protected] [email protected] SITO: www.silentesloquimur.it (Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia) e ( Patrocinio Regione del Veneto, Provvedimento 5.2.2009) Perché un WEB-NOTIZIE ? Un sito non può essere solamente il “museo” di un Istituto, ove si conservano le memorie degli eventi, l’elenco delle pubblicazioni, che trasportano nella “STORIA” le “storie”. Un sito “storico” deve generare dibattito, non blog sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti, trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”. Un sito “storico” attraverso la comunicazione reciproca, via e-mail, deve personalizzare l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle “rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico” deve concorrere alla costruzione della ricerca e nella distribuzione della ricerca per rendere vivo il concetto della libertà, che è soprattutto cammino per un confronto da condividere attraverso i risultati del dibattito. Da qui l’idea di costruire un notiziario bimestrale per ritrovare i popoli e la loro Storia. Il notiziario avrà un percorso su canali di interesse che si modificheranno in ogni numero, ma che si proporranno nelle pagine. A seconda dell’e-mail suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi lascio alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto! Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Sede Sociale: Via Div. Folgore, 1 – 33170 Pordenone Sede Operativa: Piazzetta Ottoboni, 4 33170 Pordenone - Tel. 0434 209008 – Fax 0434 081649 e-mail: [email protected] - [email protected] - [email protected] - [email protected]

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Bimestrale web gratuito a cura del Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur” - Settembre 2012 numero 3

WEB NOTIZIE, TESTIMONIANZE e DOCUMENTI del Centro Studi e Ricerche Storiche“Silentes Loquimur” – 33170 Pordenone (Italia) Via Div.Folgore 1, Casella Postale 335Biblioteca: - 33170 Pordenone - P.ta Ottoboni 4, tel: 0434209008-FAX 0434081649

e.mail: [email protected] [email protected] [email protected]@silentesloquimur.it SITO: www.silentesloquimur.it

(Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia) e ( Patrocinio Regione del Veneto, Provvedimento 5.2.2009)

Perché un WEB-NOTIZIE ? Un sito non può essere solamente il “museo” di un Istituto, ove si conservano le memorie degli eventi, l’elenco delle pubblicazioni, che trasportano nella “STORIA” le “storie”.

Un sito “storico” deve generare dibattito, non blog sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti, trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”.

Un sito “storico” attraverso la comunicazione reciproca, via e-mail, deve personalizzare l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle “rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico” deve concorrere alla costruzione della ricerca e nella distribuzione della ricerca per rendere vivo il concetto della libertà, che è soprattutto cammino per un confronto da condividere attraverso i risultati del dibattito.

Da qui l’idea di costruire un notiziario bimestrale per ritrovare i popoli e la loro Storia.

Il notiziario avrà un percorso su canali di interesse che si modificheranno in ogni numero, ma che si proporranno nelle pagine.

A seconda dell’e-mail suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi lascio alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto!

Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”

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____Storie@Storia___pag.2____________________________________________

INDICE:

pag. 1 Perchè un WEB-NOTIZIE ? Introduzione del Nostro fondatore, Marco

Pirina

pag. 3 Ultime notizie, a cura di Bruno Vajente

pag. 5 La storia del Bus de la Lum, tratto da “1943-1945 Guerra Civile sulle

montagne – Vol I Udine - Belluno” di Marco Pirina

pag. 7 Commemorazione Vittime del Bus de la Lum

pag. 8 Gallavotti, il mistero contiunua, tratto da La Voce di Romagna del 24/5/2010

pag. 12 Parallelismi di una strategia bellica navale, a cura di Mario Conforti

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___________________________________________Storie @ Storia pag. 3______

ULTIME NOTIZIE

A CURA DI BRUNO VAJENTE

Tratto da Il Piccolo 19/08/12

Pola ricorda la strage anti-italiana di Vergarolla Da il Pola ricorda la strage anti-italiana di Vergarolla

“… nel rispetto della tradizione avviata dopo la caduta dei Muri (prima l'argomento era tabù) sono state commemorate le vittime innocenti della strage di Vergarolla di 66 anni fa. Quel triste giorno, nello scoppio di 9 tonnellate di esplosivo contenuti nelle mine residuati di guerra, morirono un centinaio di polesani che stavano trascorrendo una domenica di sole al mare.

Molti si erano dati appuntamento a Vergarolla per assistere alla regata remiera per la celebrazione dei 100 anni della Società Pietas Julia. E forte tra i polesani era il desiderio di ritrovarsi in libertà dopo gli anni oscuri della guerra. Quel forte boato determinò una svolta nella vita cittadina in quanto era una chiara intimidazione del regime comunista nei confronti degli italiani, che intrapresero così la strada dell'esodo. Pola rimase spopolata, l’italianità in città venne ridotta a una fievole fiammella che ha ripreso vigore solo dopo tanti decenni. Ogni anno dopo l'ex Jugoslavia, i polesani “andati” e “rimasti”, due voci di una tragedia comune che diventano sempre più una voce sola, sentono il bisogno di trovarsi dinanzi al cippo. Quest' anno i discorsi sono stati estremamente brevi.«Siamo qui semplicemente per ricordare le vittime innocenti di quella strage - è stato detto - e per rendere consapevoli anche le giovani generazioni di un tragedia che non deve mai più ripetersi». Sono intervenuti Fabrizio Radin, vice sindaco e presidente della Comunità degli italiani di Pola, che ha annunciato la proposta del sindaco Boris Miletic d’intitolare il parco adiacente al duomo in cui avviene la commemorazione alle vittime di Vergarolla, il sindaco del Libero Comune di Pola in esilio Argeo Benco, il presidente del Circolo di cultura Istria di Trieste e l'incaricato d'affari dell'Ambasciata italiana a Zagabria Paolo Palminteri…”

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Atti vandalici avverso monumenti che testimoniano il dramma di coloro che perirono per mano jugoslava.

Nel mese di agosto 2012 sono successi fatti inaccettabili:

1. dal monumento della Foiba di Basovizza è stata asportata durante la notte la lampada votiva collocata sul cippo di Tristano Alberti che riproduce lo spaccato

della Foiba;

2. al Monumento nazionale dei Martiri delle foibe a Monrupino, dopo poche ore dall'esser stato ripulito dalle scritte rosse in sloveno trovate il 15 agosto, - viene nuovamente imbrattato di nero con la sigla OZNA (la polizia politica di Tito, ben noto apparato repressivo).Questi fatti fanno riflettere sull'odio ancora vivo verso l'italianità di questa terra martire e su mentalità e idee politiche, ferme ancora al 1945, e pretese jugoslave di annettersi queste terre.

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Qui di seguito la storia del “Bus de la Lum” tratta dal libro “1943-1945 Guerra Civile sulle montagne – Vol I Udine - Belluno” di Marco Pirina pagg. 172-179

<… Nel bosco del Consiglio, ove operava la Divisione Garibaldina “NINO NANNETTI”, a poche centinaia di metri dall’Albergo S.Marco, sede del Comando partigiano, si apre un orrido inghiottitoio, il Bus de la Lum, una foiba di origine carsica profonda m.225 (Rif: Commissione Grotte E.Boegan n.153.Fr.). Questa foiba, negli anni 1944-1945, fu usata come luogo di eliminazione di civili e militari, giudicati dalle formazioni partigiane come spie. Un numero non indifferente (come riferito dallo speleologo S. Mosetti nella relazione allegata) di corpi di uomini e donne finirono nel fondo nero della voragine, tra urla disperate ed orribili schianti.

Su di loro scese il “silenzio dei vivi”, ma, con una lunga battaglia per la verità storica e per la loro dignità ho ridato voce alla loro sete di giustizia e di pace.

“SILENTES LOQUIMUR”, Silenziosamente parliamo…la loro storia, la storia delle loro vite e della loro tragica morte…ha trovato spazio nella memoria di uomini e donne che ora sanno, grazie ad un Libro Bianco, da me scritto, agli articoli di Beppe Guazzalini, dell’indimenticato Caporedattore del Gazzettino, dott. Odorico, poi tragicamente scomparso in un incidente con

molte domande, di Roberto Fiasconaro della Domenica del Corriere, di Fulvio Comin del Messaggero Veneto, del coraggioso ed indipendente Gigi Di Meo, direttore di TelePordenone, che per primo, nonostante le minacce ricevute, sposò la battaglia per la verità, con una serie di trasmissioni sui crimini del Consiglio.(nda: vedere Videoteca Centro Studi ed Archivio TelePordenone).

Ma quante furono le vittime di questa foiba?

Dal documento della Procura della Repubblica di Pordenone del 24.4.1950 (nda: vedere allegata copia) furono 28 i corpi recuperati nella spedizione del Gruppo Speleologico Triestino del Mosetti. Poi, il 10 maggio 1992, grazie al Gruppo SOLVE CAI di Belluno, furono recuperati, come da Verbale CC di Caneva 64 resti umani, sepolti, grazie al Commissariato Onoranze Caduti del Ministero della Difesa nel cimitero di Caneva, sotto

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una lastra rosata sulla quale viene ricordato il Centro Studi “Silentes Loquimur” e la data del recupero. I resti furono composti nel tricolore della Patria dalle mie mani…sentii nel pulire quelle ossa, slavate dall’acqua… frantumate dalla violenza dell’odio…il calore di una vita interrotta, che ritrovava la luce della resurrezione, dopo il buio ed il silenzio…> pag.172

Nonostante siano passati più di 60 anni da questi fatti ci sono persone che continuano a voler negare l’evidenza, minimizzando e negando il numero e l’identità di quanti scomparvero in quel periodo.

Gli studi fatti dal fondatore e dai ricercatori del Centro Studi si basano su documentazioni e su testimonianze che lasciano ben poco spazio al dubbio:

< …Partecipai alle attività partigiane nella mia zona fino all’11 Gennaio 1945.Quel giorno, su delazione fummo arrestati dai tedeschi. Ci deportarono al Campo di Mauthausen …tornammo a casa in cinque…partecipai personalmente, nella tarda estate del 1944, ad una esecuzione. Assieme a dodici commilitoni presi sotto scorta otto persone. Erano state interrogate al comando, dove ora c’è l’Albergo San Marco e condannate a morte. Ce le consegnarono alle nove del mattino.

Sotto scorta le portammo al Bus de la Lum. Fra loro c’era una donna: era la moglie di un sottufficiale repubblichino, catturata al posto del marito. Proveniva dal Ponte delle Alpi ed era incinta di sei o sette mesi. Spingemmo sull’orlo della forra i condannati. Tremavano. Il nostro comandante gridava: “…giù, giù…”. La donna implorava e chiedeva pietà…intercessi per lei ma mi risposero:”…Taci o ti butto giù!”…Nessuno fiatò. Uno alla volta, tutti e otto furono costretti a percorrere una tavola posta sulla bocca della forra. Ai lati stavano due partigiani. Quando le vittime arrivavano al centro, l’asse veniva capovolta. Si sfracellarono, tutti, nella profondità del Bus de la Lum…”> (testimonianza Carlo Prian – registrata dal giornalista L. Monatti su cassetta VHS)

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Si organizza una giornata per commemorare i caduti del Bus de la Lum e ricordare il Nostro fondatore Marco Pirina e Don Corinno Mares.

Per non dimenticare mai….!

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Per gli scomparsi senza storia proponiamo questo articolo. La zona in questione è l’area di Premariacco dove molti svanirono nel nulla.

Da La Voce di Romagna 24/5/2010 Di Aldo Viroli

Gallavotti, il mistero continuaStavano rientrando a Udine da Gorizia

Regna sempre il silenzio più totale sulla fine degli italiani deportati nell’ex Jugoslavia al termine della Seconda guerra mondiale. Dopo la consegna da parte slovena degli elenchi con 1048 nominativi avvenuta nel marzo 2006, si attendeva la convocazione di una commissione mista di studiosi dei due paesi subito dopo le elezioni politiche. Finora non si è mosso assolutamente nulla. L’attendibilità degli elenchi e l’insolito modo in cui è avvenuta la consegna, è il caso di ricordarlo non a livello di Ministeri degli Esteri, hanno suscitato non poche polemiche e perplessità. Continua intanto l’inchiesta sulla scomparsa dei cugini Felice e Arrigo Gallavotti, originari di Santarcangelo di Romagna, di cui non si hanno più notizie dal 2 dicembre 1944, quando vennero fermati da partigiani sloveni al bivio di Villanova dello Judrio mentre stavano tornando in auto e con un camioncino da Gorizia a Udine, dove risiedevano e lavoravano. La vicenda è stata trattata a più riprese in “Storie e personaggi”, dalla consultazione di alcuni testi storici e da sopralluoghi in zona, si è pervenuti a una parziale ricostruzione dei fatti; i corpi dei Gallavotti e del loro autista Vincenzo Chiappetta, uccisi subito dopo il fermo, sarebbero stati sepolti a Rocca Bernarda di Premariacco nel bosco attorno alla tenuta Perusini Rosazzo. La Procura di Udine aveva avviato un’inchiesta sulla scomparsa dei due cugini, la figlia dell’ingegner Felice Gallavotti, all’epoca dei fatti bambina, si era attivata per ricercare il fascicolo di cui però non sono emerse tracce. Da quando “Storie e personaggi” ha iniziato a occuparsi della vicenda dell’ingegner Felice Gallavotti, scomparso assieme al cugino Arrigo, geometra, e all’autista Vincenzo Chiappetta di Partinico in provincia di Palermo, sono gradualmente emersi nuovi particolari, purtroppo ancora insufficienti a fare piena luce sulla loro fine, che però hanno confermato il coinvolgimento di alcuni partigiani italiani citati nelle precedenti puntate. Secondo l’inchiesta avviata della Procura di Udine, ne aveva dato notizia il Messaggero Veneto, tutti e tre gli scomparsi sarebbero stati uccisi non lontano da Villanova, a Rocca Bernarda di Premariacco, luogo di numerose esecuzioni sommarie, e probabilmente sepolti nel bosco attorno alla tenuta Perusini – Rosazzo, che oggi appartiene al Sovrano Militare Ordine di Malta. Secondo alcune testimonianze, l’uccisione immediata dei tre sarebbe stata decisa in loco, senza contattare i vertici della ’Briski Beneski Odred’, che avrebbero voluto interrogare i due cugini. La ’Briski Beneski Odred’ (in italiano ’Comando

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territoriale del Collio e della Benecia), spiega lo storico Guido Rumici, era l’istituzione che governava il movimento partigiano sloveno sul Collio e nella Benecia. Secondo altre testimonianze raccolte all’epoca dalla signora Germana Gallavotti, moglie dell’ingegnere, i partigiani avrebbero fatto prigioniero il marito, mentre il cugino Arrigo e Chiappetta sarebbero stati uccisi subito dopo il fermo e sepolti nel bosco. L’ingegnere sarebbe stato visto proprio davanti alla chiesa di Spessa (a pochi chilometri da Rocca Bernarda), all’inizio di dicembre, dunque pochi giorni dopo la scomparsa. Recatasi sul posto per avere conferme, la signora non aveva trovato persone disposte a parlare, nemmeno il parroco che temeva evidentemente delle ritorsioni. Nel corso delle sue ricerche. Germana Gallavotti si troverà molto spesso di fronte a silenzi e reticenze. Nella vicenda Gallavotti si incontra Giuseppe Delpin, nome di battaglia Smago, allora abitante a Piedimonte di Gorizia. Smago, trasferitosi a guerra finita in Slovenia, avrebbe dovuto accompagnare la signora Germana alla ricerca del marito, internato secondo la testimonianza resa da un partigiano a don Lidio Pegoraro, all’epoca parroco di San Lorenzo di Soleschiano, in un campo di concentramento nei pressi di Lubiana. La signora Germana non incontrerà Smago, nel frattempo arrestato dagli alleati e incarcerato a Gorizia. Vanni Padoan, uno dei responsabili dell’eccidio di Porzus, interpellato al riguardo, ha dichiarato che Delpin faceva parte della ’Briski Beneski Odred’, nel gruppo di polizia. Dalla testimonianza del padre di una deportata goriziana, Smago risultava direttore delle carceri giudiziare di Gorizia, dove erano stati rinchiusi numerosi residenti nel capoluogo isontino poi trasferiti in territorio sotto il controllo dei partigiani titini. Le notizie fornite da Padoan avvalorano la tesi che Smago, se non direttamente coinvolto nel fermo dei Gallavotti, fosse effettivamente a conoscenza della vicenda. Nel caso Gallavotti compare anche Enzo Jurich, nome di battaglia ’Ape’, che risulta tra i processati per l’eccidio di Porzus. Era stato denunciato dalla madre di una delle vittime, il partigiano osovano Franco Celledoni ’Atteone’, con Vanni Padoan presunto mandante. “E’ un fascista”, avrebbe detto Jurich a proposito di Celledoni, che viene nominato da Giampaolo Pansa ne ”I Gendarmi della Memoria” nel capitolo dedicato all’uccisione del comandante partigiano Leo Scagliarini, nome di battaglia Ricciotti, originario di San Giovanni in Persiceto. Enzo Jurich faceva parte dei ’Diavoli Rossi’, così venivano chiamati una ventina di gappisti, quasi tutti giovanissimi, con base a Spessa di Cividale, che operavano nella Bassa Friulana sotto la guida di Gelindo Citossi, nome di battaglia ’Romano il Mancino’. L’azione più clamorosa, ne parlarono Radio Londra e Radio Mosca, è stata l’assalto al carcere di Udine avvenuto la sera del 7 febbraio 1945. Enzo Jurich, venuto a mancare alcuni anni fa in Germania dove era emigrato, era stato alunno dell’ingegner Gallavotti all’epoca in cui insegnava disegno e topografia all’Istituto tecnico Zanon di Udine. Gallavotti lo aveva bocciato e lui avrebbe giurato di fargliela pagare. Jurich si sarebbe vantato pubblicamente di aver ucciso l’ingegnere per poi ritrattare e dichiarare di non sapere se il professionista fosse stato o meno deportato in Jugoslavia. Purtroppo una ricerca avviata dalla signora Paola Gallavotti, figlia dell’ingegnere, per rintracciare presso il Tribunale di Udine il fascicolo dell’inchiesta chiusa nel 1952, non ha dato alcun risultato. Jurich, in occasione della riesumazione della salma di un giovane procuratore del Credito Italiano di Udine, il ragionier Calvi, sotterrato nel bosco Romagno, avrebbe detto che anche il corpo dell’ingegner Gallavotti si trovava nello stesso luogo. La testimonianza viene dalla cugina della vittima, Anna Marussigh, all’epoca titolare di una rinomata modisteria a Udine. Nella denuncia presentata dalla signora Germana Gallavotti al procuratore del Re, si legge che mentre disseppelliva il cadavere del Calvi, Jurich avrebbe risposto a un contadino del luogo che gli chiedeva dove fosse sepolto l’ingegnere ”che non era lì ma nel bosco più in alto”. La conversazione non era sfuggita alla Marussigh, venuta a mancare alcuni anni fa, che aveva poi riferito tutto alla

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signora Germana. La donna contatterà il giovane partigiano, che però rifiuterà di fornire ulteriori dettagli e di accompagnarla sul luogo. In ogni caso tutta la vicenda dei cugini santarcangiolesi presenta diversi aspetti ancora da chiarire. I due lavoravano per conto dell’impresa tedesca “dipl. Ing, Hans Pracht”, che all’epoca aveva una sede anche a Trieste. Era una ditta specializzata, come si evince dalla intestazione della carta da lettera, in strade ed anche in costruzioni sotto il suolo. Interpellato nel 2005, lo storico triestino Roberto Spazzali, aveva dichiarato la convinzione che la morte dei Gallavotti fosse legata agli interventi di fortificazione che stavano eseguendo per la ditta Pracht, senza escludere questioni di interessi professionali e il perverso intreccio degli appalti sotto l’occupazione tedesca. Il giorno della scomparsa, Arrigo Gallavotti si sarebbe recato a Gradisca d’Isonzo per scaricare materiali edili della ditta Pracht, il cugino Felice si era fermato invece a Gorizia per incontrare l’ingegner Medardo Caretta Colli, all’epoca residente in via D’Azeglio al numero 14. Guido Rumici ha verificato che effettivamente in quel periodo a Gradisca erano in corso lavori della Todt. L’ingegner Caretta, che nel dopoguerra ha lasciato il capoluogo isontino, è morto a Oleggio, in provincia di Novara, nel 1970. Era stato Caretta a informare la signora Gallavotti del fermo dell’auto del marito avvenuto al bivio di Villanova: lui ne era venuto a conoscenza dal cantoniere. Infatti presso il bivio c’era la casa cantoniera dell’Anas; lo stesso cantoniere seguirà Caretta in Piemonte quando andrà a dirigere i lavori per il completamento del canale Regina Elena. La signora Gallavotti aveva lamentato scarsa collaborazione da parte di Caretta, che riteneva reticente. Si è poi scoperto che lo stesso ingegner Caretta si era trovato in famiglia un dramma analogo, che riguardava la morte, avvenuta in circostanze mai chiarite, di Ruggero Vinotti, ufficiale dell’Esercito e figlio della seconda moglie. “Mio zio – racconta il nipote Ruggero Vinotti, suo omonimo - si trovava a Palombara Sabina, un paese della provincia di Roma a circa 30 chilometri dalla Capitale. Non so per quale motivo risiedesse colà, forse per motivi di servizio, essendo tenente colonnello dell’Esercito, fedele alla monarchia ed al maresciallo Badoglio. Si sa che probabilmente aveva una storia sentimentale con una residente del luogo, la quale, interpellata da me e mio padre nel 1975 per via epistolare, rispose allegando un ritaglio di giornale dell’epoca in cui veniva citato mio zio in relazione ad un episodio bellico, e dichiarando di non volerci incontrare né di desiderare altri contatti con la nostra famiglia. Resta il fatto che la tomba di mio zio, visitata ininterrottamente almeno una volta l’anno dalla morte ad oggi, a cura successivamente di mia nonna, dell’ingegnere, di mio padre e mia, è sempre stata trovata adorna di fiori freschi. Altri elementi che ricordo: la morte fu attribuita ad un attacco di angina pectoris di cui pare soffrisse lo zio. Sul comodino accanto al letto fu trovato un bicchiere repentinamente sparito. A guerra finita, mia nonna intraprese delle ricerche e dopo qualche tempo si presentò a casa sua, a Gorizia, un graduato dei carabinieri che la consigliò di interromperle senza aggiungere altro; nel 1975 insieme a mio padre andammo a trovare una signora, non ricordo come trovammo il nome, forse nell’articolo di giornale di cui sopra, residente vicino a Tivoli in una villa signorile, ben arredata, con salotto e libreria a 360° attestante un elevato livello culturale, che pare avesse fatto parte della resistenza: anch’essa apparve chiaramente reticente, ammettendo di avere conosciuto mio zio, ma senza fornire alcun elemento nuovo od interessante”. Insomma anche per quanto riguarda la morte di Ruggero Vinotti non mancano silenzi e reticenze. In una lettera inviata all’Ordine degli ingegneri di Gorizia, Caretta aveva dichiarato di aver lavorato a Rimini dal 1947 al 1948; infatti aveva affittato una camera nel villino di piazzale Battisti dove oggi c’è hotel Napoleon e probabilmente faceva consulenze per un’impresa di costruzioni locale. Tornando alla scomparsa dei cugini santarcangiolesi, è certo che i partigiani sloveni erano al corrente delle loro attività. La segretaria dello studio era infatti una di

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loro, la testimonianza è di Giovanni Lenisa, fratello di Aurora, l’allora fidanzata di Arrigo. Lenisa l’aveva incontrata nuovamente nel 1945, in aprile, presso un comando partigiano che aveva sede in una villa di San Giovanni al Natisone, dove si era recato in cerca di notizie. La ragazza, di cui purtroppo non ricorda il nome, doveva sicuramente essere al corrente che Arrigo quel giorno aveva con sé una ingente somma di denaro e documenti di vario genere, come dichiarato anche dalla signora Aurora. Infine un particolare da non sottovalutare: la segretaria, alcuni giorni dopo la scomparsa dei Gallavotti, era stata sorpresa e bloccata dalla signora Germana mentre stava caricando su un camion mobili e oggetti dello studio. Ciò fa pensare che fosse ben certa che i suoi datori di lavoro non sarebbero più tornati….

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PARALLELISMI DI UNA STRATEGIA BELLICA NAVALE

A CURA DI MARIO CONFORTI

Che cosa hanno in comune l’operazione “Judgement”, l’operazione “Z” e il bombardamento del porto di Bari? Sono tutte e tre dolorosissime pagine di storia della Seconda Guerra Mondiale, che constano migliaia di morti. Della prima si è in parte scritto ma molti italiani la ignorano; la seconda ha avuto ampissimo risalto; la terza è stata volutamente messa a tacere per decenni, non la conosce la maggior parte degli italiani soprattutto dei baresi e non vi è alcun accenno nei libri di storia. Abbinando gli eventi ai nomi delle operazioni la risposta verrà da sè.

L’operazione Judgement è in realtà conosciuta come “la notte di Taranto” o la “Pearl Harbour italiana”. Nel 1935 l’ammiraglio inglese Lumley Lysten aveva progettato, durante la guerra d’Etiopia, un piano di attacco notturno con aerosiluranti al porto di Taranto. Nell’agosto del 1940 entrarono in servizio due nuove unità da battaglia della Regia Marina, le imponenti Vittorio Veneto e Littorio. Due mesi più tardi le truppe italiane invasero l’Epiro, costringendo le truppe britanniche a combattere con quelle greche. Il controllo del Mar Egeo e del Canale di Sicilia diventava una priorità per gli inglesi al fine di garantire i rifornimenti e l’ostacolo maggiore era rappresentato dalla base navale di Taranto, la più grande italiana, ove si trovava stanziato il grosso della flotta. L’ammiraglio Andrew Cunnigham, comandante in capo della Mediterranean Fleet della Royal Navy, decise di allestire un’operazione per affondare o danneggiare le unità navali presenti a Taranto, perfezionando il piano di Lysten. Durante la notte tra l’11 e il 12 novembre 1940, tra le ore 22.50 e le 00.30, 21 lenti aerosiluranti Fairey Swordfish inglesi, decollati dalla portaerei Illustrious, in due ondate affondarono la nave da battaglia Conte di Cavour (mai più rimessa in linea), danneggiarono gravemente le navi da battaglia Littorio e Caio Duilio, l’incrociatore pesante Trento ed i cacciatorpediniere Libeccio e Pessagno, causando 59 morti e 581 feriti a fronte della perdita di due aerei. Il raid aveva messo in ginocchio la nostra flotta. Oltre alla meticolosa pianificazione da parte degli inglesi, pesarono sull’esito dell’operazione le carenze organizzative e militari italiane, l’impreparazione (soprattutto ai vertici), il ritenere assolutamente improbabile un attacco a Taranto, la sottovalutazione dei rapporti dell’Aviazione in merito all’uscita in mare delle squadre

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navali di Cunnimgham e Sommerville da Alessandria e Gibilterra, la mancata sistemazione della maggior parte delle reti antisiluro, il forte vento di Maestrale che aveva soffiato forte per alcuni giorni prima dell’attacco strappando dall’ancoraggio 60 degli 87 palloni frenati posti a difesa, la mancanza di radar e la scarsità delle batterie antiaeree. Appena il 19 dicembre 1941 i sub della Marina, a cavallo dei siluri a lenta corsa detti “maiali”, riuscirono a penetrare nella base di Alessandria d’Egitto affondando o comunque danneggiando per lungo tempo le corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth, naviglio di scorta e mercantili, per ribaltare di nuovo gli equilibri di forza mediterranei in favore dell’Italia.

In contemporanea dell’attacco alla base di Taranto, un gruppo navale composto da tre incrociatori leggeri (Orion, Ajax e Sydney) con la scorta di due cacciatorpediniere (Nubian e Mohawk) intercettò nello stretto di Otranto un convoglio diretto a Valona. Vennero affondati tutti i piroscafi (Antonio Locatelli, Premuda, Capo Vado e Catalani), la vecchia torpediniera Fabrizi, nonostante l’eroica difesa offerta. Si salvò solo l’incrociatore ausiliario Ramb III perché si dileguò dopo aver sparato alcuni colpi. Persero la vita 36 marinai e 42 ne rimasero feriti.

L’operazione “Z”, o operazione “Tora”, è il famoso attacco alla base navale americana di Pearl Harbour nelle Hawaii, che segnò il 7 dicembre 1941 l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone. L’attacco aerosilurante venne ideato dall’ammiraglio giapponese Isoroku Yamamoto sulla base di quello di Taranto, ove era presente quale osservatore internazionale. Le esercitazioni furono svolte nella baia di Kagoshima, che per conformazione ricordava quella di Pearl Harbour. La storia è nota in quanto riprodotta in numerosi libri e film. Si segnala che 389 aerei giapponesi, partiti da 6 delle 10 portaerei nipponiche in due ondate (rispettivamente da 183 e 167 mentre 39 rimanevano a guardia delle portaerei) provocarono l’affondamento di 17 navi, tra cui 8 corazzate, la distruzione di 189 aerei ed il danneggiamenti di 159 su un totale di 349 presenti, 2.335 morti e 1.143 feriti. Purtroppo l’obiettivo primario fu mancato: le portaerei. Per ribaltare le sorti della guerra si dovrà attendere pochi mesi dopo la battaglia del Mar dei Coralli e poi, soprattutto, quella delle Midway. Anche in questo caso l’errore principale fu ritenere quale assolutamente improbabile l’attacco alle Hawaii e la sottovalutazione delle segnalazioni che pervenivano.

Abbiamo detto inizialmente che “la notte di Taranto” viene considerata la “Pearl Harbour” italiana. Non è così perché innanzitutto l’attacco a Taranto avvenne un anno prima di quello a Pearl Harbour; la strategia dell’attacco di Taranto ha ispirato quello di Pearl Harbour. Invero vi è stata una “Pearl Harbour italiana”: il bombardamento del porto di Bari, avvenuto il 2 dicembre 1943. Questa dolorosissima pagina di storia è stata volutamente sottaciuta anche se l’avvenimento rappresenta il più grande disastro navale per gli Alleati dopo quello di Pearl Harbour, con l’affondamento di 17 navi ed il

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danneggiamento di 8, il grave danneggiamento di infrastrutture portuali e di numerosi edifici della città vecchia, a fronte della perdita di due aerei. Quella notte 88 aerei tedeschi Ju-88 della Luftwaffe, partiti da cinque aeroporti italiani, bombardarono le 40 navi ancorate nel porto di Bari, volando a bassissima quota per sfuggire ai radar nemici. Tra le numerose navi colpite ci fu anche il mercantile John Harvey (tipo Liberty) che insieme al suo carico di esplosivi, trasportava circa 100 tonnellate di bombe all’iprite. Le conseguenze più gravi furono causate dallo scoppio della nave. L’iprite è un agente chimico vescicante che fu largamente usato nel corso della Prima Guerra Mondiale (severamente vietato dalla Convenzione di Ginevra del 1925). Nel corso del secondo conflitto non fu usato nei campi di battaglia ma entrambi i contendenti ne avevano numerose scorte come deterrente nel caso l’avversario ne avesse fatto uso. L’iprite si era dispersa come miscela oleosa nelle acque del porto, contaminando gli indumenti dei naufraghi e dei soccorritori. Molti intossicati morirono a causa della non conoscenza, da parte del personale medico preposto al soccorso, dell’agente intossicante a cui le vittime erano state sottoposte. Si stima che le vittime tra civili e militari furono oltre un migliaio, 617 i feriti e 800 militari ricoverati per ustioni e ferite. La fortuna fu che quel giorno la brezza spirasse verso il mare, contrariamente a quanto normalmente avveniva, contribuendo così a disperdere l’iprite e ridurre sensibilmente il numero delle vittime. La leggenda attribuisce il fatto all’intervento propizio di San Nicola. Solo dopo decenni, in cui furono numerosi i casi di contaminazione di pescatori baresi a causa degli ordigni d’iprite inesplosi che, ormai corrosi, rilasciavano il loro contenuto, i governi inglese e americano hanno ammesso la presenza di armi chimiche nella stiva della nave. Il bombardamento causò il rallentamento dell’avanzata alleata verso il nord permettendo al generale tedesco Albert Kesselring di attestarsi e consolidare la Linea Gustav lungo la direttrice dei fiumi Garigliano e Sangro, con perno a Cassino. Il porto di Bari rimase inutilizzabile per tutta la durata del conflitto, a causa delle navi affondate e della necessità di bonificarlo dalle bombe inesplose, rendendo meno efficaci le operazioni di rifornimento delle truppe alleate.

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