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Una novella in ricordo di Rosati Cinzia (13/10/1930- 08/08/2011) S. Ilario d’Enza (RE)

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Una novella in ricordo di Rosati Cinzia(13/10/1930- 08/08/2011)

S. Ilario d’Enza (RE)

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PrefazioneMi sono trovato a comporre questa narrazione poco dopo l’obito della mia diletta nonna, cui è dedicata, al fine d’immortalare alcune rimembranze di lei, e non solo, oltre che poter conservare un ricordo speciale di un caro che è stato tale. Quanto seguirà, sia gli avvenimenti, sia le persone, è vero, ferme restando le licenze poetiche e gli artifici letterari finalizzati ad adornare la vicenda, di cui, poiché collocata in tempi lontani da me ignoti, ho cercato di mantenere il più possibile la verisimiglianza, spero riuscendo in tale proposito. Esiste un’altra ragione che mi ha indotto a redigere il racconto in questione, ossia la mia idea che una famiglia, come i suoi rispettivi membri, debba avere delle radici garanti un’identità per esser in grado di propagginarsi al meglio, conservando il proprio orgoglio e dando in un certo qual modo voce ed immagine ai dimenticati, i quali più così non saranno, qualora ciò venisse attuato. Mia nonna, infatti, non è l’unica che ho voluto rammemorare, ma sonvi altresì alcuni avi, sotto menzionati, di cui ho provato a plasmar una foggia. In quanto scevro di una precisa contestualizzazione degli eventi, mi sono arrogato il diritto d’inventarla parzialmente, onde rendere più intrigante il tutto, lungi dal vilipendere i defunti, anzi per donar in lor onore alcunché di originale. Faccio questo, in conclusione, a nome di tutta la mia famiglia, per ravvivar alcuni affetti e per insignire mia nonna, nonché la persona cui il tutto è precipuamente dedicato, di un meritato “trofeo”per essere stata una persona che, sebbene avesse sofferto assai, ha amato incondizionatamente la sua famiglia, compiendo sovente sacrifici, perciò esorto chiunque sia in possesso di questa novella a custodirla, perocché mia nonna è stata davvero qualcuno d’eccezionale, cui non né io, né i miei familiari ci stancheremo mai di voler bene.

Il nipote V.M.

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Anche a quell’occaso ufficiavasi la familiare costumanza di supputare l’incasso del dì: presenziavano tutt’e tre le proli, Concetta, Gemma e Combes, degl’astanti genitori Rosati Icilio e Negri Maria, oltre alle madri di questi ultimi, Teresa ed Ercolina, assorti in un religioso silenzio. Il padre, in tal intento, non riusciva a conseguire la necessaria concentrazione, fallando e ritornando ognora daccapo: <<Tacete, non riesco a concentrarmi! >> e ribatteva la sua consorte: << Ma non abbiamo parlato>>. <<Cosa v’ho appena detto? Non parlate! >> diss’egli, accendendo la moglie: << Ti abbiamo detto che prima non abbiamo parlato.>>. Allora il tono del capofamiglia divenne perentorio: << V’ho detto di tacere! Basta, basta! Fuoriuscite subito!>>, sicché ognuno chiotto chiotto obbedì. Trascorsa l’attesa, si rientrò per consumare la frugale cena, perpetrazione della mansione altrice del signor Rosati, dopodiché, una volta mutuamente accomiatati, ciascun andò nella propria camera. Gemma condivideva una di queste con la sorella, la quale, dissimilmente da lei, poté dormire quella notte, in quanto scevra in quel momento dell’acerbo voluttuoso sentimento d’amore generante concitazione: l’indomani ella avrebbe incontrato Ennio, suo fidanzato, purtroppo non molto simpatizzato dalla rispettiva famiglia, perché avente i parenti materni nominantisi Manfredi, fascisti. Il signor Rosati, attivo socialista, perciò da loro corrisposto nell’ostilità, l’aveva sempre ritenuto un gaglioffo, mentre Gemma n’era assai innamorata, per il che fors’incise la di lui professione, ossia il fotografo. Tant’erano le fotografie che le scattava da farla quasi sdilinquire dinnanzi a cotale fittizia adorazione; una volta le inviò una cartolina con sopra effigiato un cuore contenente una loro foto insieme con la scritta sul retro: << Un solo cuore: e chi potrà mai spezzarlo? Il tuo Ennio scrive. >>. Ad un certo momento, mentr’era persa nelle sue fantasie d’una vita matrimoniale con lui destituita da qualsiasi rovello, subentrò il quasi elegiaco pensiero della sua famiglia: voleva bene a tutti, anche alla vicina dormiente sorella Concetta, quantunque leticassero frequentemente, e giunta a pensare all’ottenne fratello Combes, soprattutto a come sarebbe diventato, sospettò che potesse esservi come giustificazione alla momentanea irrequietezza la voglia d’alcunché di diverso astenentela da quella quotidiana ripetitività, fintantoché ogni emotivo antagonismo con le sue congetture si pacò, allorquando morfeo la cinse tra le sue braccia. Sin dalle prime ore antimeridiane il sole sembrava disvoler anneghittito ascendere dall’orizzonte al cielo, come un bizzoso pargolo, e progressivamente sembrava acquisire maggior flemma, congruamente al contemplativo umore di Gemma, che non cessava di almanaccar in quell’attesa l’irraggiungibile incontro. Il campanile finalmente annunziò colle sue intonate campane le ore cinque ed ella si diresse celermente al limitar della campagna, che oltrepassò con l’amato, una volta incontratolo, per deambular assieme. Il virente aspetto del paesaggio era cupamente smaltato da una flebile luce, la qualcosa decrementò, forse per timor or ora sorto, l’interstizio tra i due. Nel frattempo favellavasi riguardo a vari argomenti, convergenti nelle assuete fantasie, declamate in ultimo eminentemente da Ennio: <<… Magari andremo ad abitare via ed avremo dei figli oppure …>>. Appressatisi ad un granaio, i leggiadri ventenni si fissaron taciturni un brev’istante, talché i profondi occhi latini di lui unironsi agli algidi celesti di lei e vieppiù vicini entrarono colà, serrandosi dietro la porta. A lor esempio, velerò verecondamente d’arcano le minuzie di quant’ivi palesemente avvenne.

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Era stato accordato di contrarre un matrimonio quel Settembre, stante l’incombente nascita d’un figlio e quel tempo s’era frattanto approssimato ed a casa Fanti questionavasi al merito per lo più da parte della signora Manfredi: << … Cosa sei andato a fare, Dio mio! Ne avevamo già discusso. Avresti dovuto fare prima quanto ti ho detto, invece di cacciarti in questo pasticcio, aspettando chissà per quale motivo tutto questo tempo. Ci manca solo che ora te la vai a sposare! >>. Ennio opinò: << Be’, forse è la cosa migliore da fare. In fondo c’è un bambino di mezzo e… >> e fu bruscamente interrotto: << Neanche per idea! Sai che significherebbe? Sono dei socialisti, dei dissidenti ed una famiglia come la nostra non deve immischiarsi con loro, com’hai fatto tu, compromettendo anche il nostro decoro. Guai a te se la sposi, altrimenti ti farò passare l’inferno e potrai scordarti di stare qui in casa! Fidati che, comunque, sarò nel caso l’ultima cosa che dovrai temere, rammentalo. >>. Attonito, suo figlio uscì per schermirsi momentaneamente da tutto con l’inane speme di coglier una panacea pei suoi problemi nella guisa in cui gli eletti ricevettero dal ciel la manna, quindi, mentr’errava scevro di direttrice in paese, indarno elucubrava una totale ovviazione al frangente, il quale, infatti, dimostravasi impossibile da dirimere, fuorché drasticamente. Più non poteva tergiversare di fronte a codesto aut aut intransigente verso gli espedienti, adunque il dubbio diveniva maggiormente amletico: assentir concretamente senza remore all’ingiunzione della sua famiglia a detrimento della sua diletta, dei suoi cari e del nascituro od abbandonare tutto, incluse la professione e le prospere condizioni, per andar definitivamente da Gemma, negligendo qualsivoglia conseguenza? Terminato il suo giro, aprì la cassetta della posta, trovando con sorpresa una lettera proveniente da Milano. Discinta dalla busta, la lesse, ravvisando probabilmente una soluzione al suo problema. Doveva solo cogliere l’occasione. Giunto Settembre, aleggiava un’aria di, talvolta illativa, apprensione pel repente dileguamento di Ennio da circa ormai una luna. Gemma era assisa a tavola durante l’aspettazione del rito solitamente ripetuto dal padre. Quegli entrò in casa, consegnandole una lettera: il mittente era chi s’auspicava, per cui non indugiò a dischiuderla ed a scorrere le frasi scrittevi, al termine delle quali, però, una grave afflizione troppo intensa da esser effusa la sopraffece, inducendola a discerpere la corrispondenza. Innumerevoli erano i mesti pronostici accavallantisi disordinatamente e subitaneamente nella sua testa e, in tanto che approntavacisi a disquisire della contingenza, il signor Rosati si rivolse alla povera derelitta con sguardo quasi truce: << Guai a te, se lo guardi ancora negli occhi. >>. Nei giorni seguenti il divorante livore trascolorò in una neghittosa uggia, in cui imperava perennemente una fiera e trista acrimonia.

L’insegnante stava distribuendo agli scolari i temi corretti inerenti alle rispettive famiglie, commentando: << Molto bene, Avanzo. Bertolinelli, meno virgole, comunque bravo.>>, finché non giunse ad uno degli ultimi nomi dell’elenco: << Rapacchi sufficiente. Rosati, scrivi in modo impeccabile: il tuo tema è coerente e completo, ma non hai messo tuo padre: per quale ragione manca?>>. Allora si alzò nell’aula dal banco a lato dell’interpellata una voce esuberante femminile: << Perché lei non ce l’ha: è una bastarda!>>, indi la docente dopo un breve attimo di silenzio la redarguì: << Ferretti, hai idea di chi sia suo padre? È un importante giornalista che lavora a Milano ed è, peraltro, ben pagato. Prima di saltar su così, dunque, pensaci e non azzardarti mai più a rivolgerti in questa maniera alla Cinzia; sono stata chiara? Adesso, scusati con lei.>>. Rintuzzata la propria impotente orgogliosa stizza di fronte all’inappellabile obiurgazione, l’altera alunna addusse le sue scuse alla compagna e successivamente la maestra finì la distribuzione dei compiti in classe, assegnando quelli per casa: << Bene, per domani stenderete un tema sul vostro vicino o vicina di

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banco. La lezione è terminata.>>. Gli alunni ordinaron il loro materiale e riconsegnaron gli elaborati, uscendo sistematicamente col solito formale congedo all’insegnante. Si desistette da allora dal cercare la perspicua risposta alla domanda madre della controversia, poiché nota a tutti com’al contempo a nessuno. Cinzia s’avviò verso casa, imboccando la strada di Via Montecchio, ove abitava, sulla quale batteva il sole di mezzodì risaltante i suoi aurei boccoli, confacentisi ai celesti occhi materni. Rincasata, s’accinse a consumare un sobrio pasto insieme a tutta la sua famiglia. Alla luce della frase proferita poc’anzi dalla compagna di classe, le sue cogitazioni riguardavan in quel momento la vicina genitrice, abbandonata, in effetti, da suo padre. Conosceva pressoché tutto l’accaduto con le relative cause, ma più nota era l’immutata conseguente circostanza: fino ad allora visse un’infanzia in condizioni economicamente difficili con un padre che incontrava sporadicamente e che, sebbene l’avesse voluto, non avrebbe mai potuto avere. Nella mente le si accalcavano diversi interrogativi, cui non ardiva chieder risposta un po’ per paura ed un po’ per discrezione. Giunta l’ora di tornare al lavoro, s’occupò della rigovernatura e della rimondatura casalinga, per poi dedicarsi ai compiti assegnati a scuola. Andò a prendere un foglio su cui scrivere nel doppiofondo di uno dei mobili costruiti dal nonno falegname, ove adocchiò una vecchia lettera che previamente alla riparazione doveva essere stata lacerata. Conquisa dalla curiosità, la afferrò e, una volta appianata, cominciò a leggere:<<Parma 7/9/30 notte Essendo in procinto di partire, mi sento in dovere di darti mie notizie ed una spiegazione di quello che sto per fare. Ti giungerà questa mia che io sarò già a destinazione e lontano di qui, in un luogo, di cui per ora ti nascondo il nome. Mi ha costretto ad assentarmi prima di tutto, questo ci tengo a dichiarartelo, il bisogno e il desiderio che ho di farmi una posizione: mi è stato offerto un posto ed io l’ho accettato ben volentieri. La mia vita a S. Ilario è diventata, si può dire, quasi impossibile: il mio mestiere mi concede oggi un ben misero guadagno e minori speranze ancora mi promette per l’avvenire. In secondo luogo, esiste un altro problema assai più grave, che è il nostro. Le nostre relazioni sono un po’ troppo arrugginite perché io possa accondiscendere ai tuoi desideri: conosco bene il tuo stato e tutte le ragioni che potrai portare, esse saranno buone, ma non valide da costringere un uomo nelle mie condizioni d’animo, ad un passo che segna la vita e il destino di un individuo. Non parto però con delle intenzioni bellicose, anzi ti voglio lasciare a sperare molto, io parto per cercare la mia fortuna e forse anche la tua. Il tempo, speriamo, laverà le nostre macchie e renderà, se è giusto, la nostra felicità. Ti prego di porgere le mie scuse a tuo papà e a tua mamma, quello che faccio non lo faccio per far cosa ingrata a voi altri, ma per mandar bene a …>>.La lettera era resa nella parte finale quasi indecifrabile, giacché consunta da un preterito disperato accoramento e confusa dalle attuali stille della povera fanciulla, che, onde disacerbare il proprio patema, la depose, serrandola nel comò, donde s’augurava di non ritrarla ancora. Volle occuparsi, invece, di quel tema, in cui non avrebbe fieramente indulto per probità ad astio, pur non di sé facendo un’infima mendace adulatrice.

I giorni trascorsero ed il padre giunse nel paese di S. Ilario d’Enza in un pomeriggio invernale per portare la figlia presso i propri congiunti: << Cinzia, vieni, fatti vedere; come sei diventata grande. Dai, andiamo, sennò si fa tardi, resterai con noi a cena … >>, ma la figlia non rimase entusiasta: << Papà, mi dispiace, però non me la sento di venire: non sono abituata a quella tipo di vita, che

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nemmeno mi piace …>>. In quel momento egli la guatò: << Te ci devi venire allo stesso, anche se non ti piace. >>. La veridicità di quanto da lei asserito era irrefragabile, pur sussistendo la reticenza, atta a non recar offesa, del suo disagio a cagione delle mellifluità da parte della famiglia paterna. Così partirono, lasciandosi dietro le nubi vespertine ed una donna annichilita dal ridestarsi delle sue ambasce: Gemma. Pervenuti alla destinazione, Cinzia entrò nella casa della nonna paterna alle cinque, subissata di complimenti: << La mia nipotina, vieni, accomodati. Di là c’è zia Celestina, noi ti raggiungeremo tra poco>>. Si diresse verso il salotto, voltandosi a guardare la nonna rivolgersi ad Ennio quasi in segreto, probabilmente perché la propria presenza era sgradita. Arrivata, la zia le chiese con tono affabile e manierato interesse le solite stucchevoli domande di cortesia, finché sopraggiunsero gli altri due, dei quali la signora Manfredi, sua nonna, disse alla nipote: << Ma perché stai in piedi? Accomodati pure. A proposito, hai dei compiti da fare?>>. Cinzia annuì e la signora Manfredi rispose con inscenata premura: << Allora, mettiti lì sul tavolo, ché non ti disturba nessuno. Ti veniamo a chiamare quando è pronta la cena.>>, così tutti lasciarono Cinzia sola nell’accogliente vano, sollevata da ogni incresciosa ostentazione e contemporaneamente esule quant’una presenza sgradita. Tosto arrivò l’ora di cena e, una volta avvisata, Cinzia prese posto nella stanza attigua intorno alla tavola, imbandita di succulenti cibi. Un minuto dopo l’inizio del pasto, la signora Manfredi interruppe l’imbarazzante silenzio: << Dunque, Cinzia, è buono il mangiare? >>. L’interlocutrice replicò: << Sì, molto.>> e di lì sorse nuovamente un mutismo in tutti gli astanti, finché la padrona di casa s’accinse a concionare sul figlio: << Vedi, cara, tuo padre svolge un lavoro molto importante. Sai, non è mica facile: bisogna conoscere varie cose, come le pellicole da usare nelle fotografie, il cinema per le pose …>>. Lemme lemme tutti quei motti sfumarono e l’infante divenne inabile ad intendere sia ciò che volevasi significarle in quell’istante, sia l’insieme delle affettazioni di tutti i suoi parenti, conciosiacosaché, a prescindere dal passato, era manifesta l’ipocrisia generale. Orbene, l’immanente sogno d’aver un padre non era altro che il desio di connaturare quella menzognera situazione, anziché una voglia d’affetto? L’una, l’altra od ambedue le opzioni che fosser effettive, accresceva col passare del tempo l’angente desiderio di ritornare alla dimora materna e concomitantemente la sensazione d’esser stata avulsa dal mondo d’appartenenza, non essendo nulla in quel luogo al segno presso il cuor suo. Poscia levaronsi tutti con placata fame ed andaron all’uscita, ove ciascheduno salutò la consanguinea ospite: << Ciao, Cinzia, torna a trovarci.>>, chiudendo l’uscio e lasciandola sola a ritornar verso casa per le nivee strade immune da alcuna scorta con una novella immeritata mestizia, ostata dal lancinante refrigerio nell’assalir l’alma indigente fortuna. Rincasata, percepì un intrinseco calore in quell’ambiente genuino redento da tutti quegl’infingimenti, unqua adesso ancor più amato, oltre alle vestigia dell’estrinsecazione d’uno smagamento ad opera dell’infelice, tuttavia mai da lei obliata, né negletta, madre, cui s’accostò.

Ennio scomparve consuetamente per molto tempo, visitando un’altra sola volta la figlia. In due anni Cinzia avrebbe già dovuto avere alle terga la soglia dell’infanzia, nondimeno nei suoi ricordi restava tale a quando la vide l’ultima volta. Al momento era conturbato dall’infaceta e nefasta circostanza, laddove propria madre sarebbe spirata entro breve, ragion per cui s’avvicinò al letto gravido di deiezioni ad udire gli ultimi verbi pregni di resipiscenze della madre. << Ennio, ascolta: tra poco non ci sarò più e voglio dirti di tenerti cara tua figlia. È una così cara e brava ragazza, che, però, non ho sempre avuto in simpatia, devo ammetterlo, tuttavia adesso m’accorgo, dopo averla

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vista un’altra volta, di quanto sia una brava ragazza. Ti prego, dunque, di starle vicino, di non trascurarla e di non fare ciò che io, invece, ho fatto; fallo anche per me, non se lo merita. Ricordati, comunque, figlio mio,che, nonostante qualsiasi tuo sbaglio, qualche volta da me indotto, ti voglio bene …>>. In quel fugace attimo la spoglia rimase esanime e compianta dai suoi discendenti. Ad Ennio restaron impresse quelle postreme parole, cui avrebbe consenzientemente cercato d’adempiere, avendo anch’ei compreso l’errore perpetrato. Furon espletate le esequie e, in seguito a qualche giorno, Ennio si recò intenzionato ad una riconciliazione con la figlia al quartiere della Mura di S. Ilario, fermandosi sotto la casa, il cui uscio gli fu un tempo stato irrimediabilmente precluso dall’incontestabile orgoglio di una famiglia, vulnerata da un irresponsabile abbandono, ma, ad ogni guisa, avente fatto fiorire da una gemma una corolla fulgida di virtù. Non appena Cinzia gli fu dinnanzi, poté mirare una beltà illeggiadrita lontano dai suoi occhi ed il cui merito non era suo, elogiandola: << Cinzia, diventi sempre più bella, complimenti.>> << Grazie.>> rispos’ella. Qualche secondo dopo il padre le si rivolse di nuovo: << Senti, Cinzia in questi ultimi giorni sono stato a Roma ed ho preparato le carte per il tuo riconoscimento. Vedo le condizioni in cui sei ed io ti posso offrire un lavoro, una vita migliore di questa. Occorre solo che ora tu venga con me a cambiare cognome, compilando alcuni moduli, ed andremo anche via da qui a Milano, io e te ufficialmente come padre e figlia.>>. La dodicenne replicò con quieta risolutezza: << Papà, io ti voglio bene e ti ringrazio di avermelo chiesto, però non posso non tenere conto del fatto che è stata mia madre sin ora a tirarmi su, ad essere sempre presente ed a cui devo tutto, dunque, nonostante ogni possibile ragione, spero che tu rispetti la mia decisione: sono nata Rosati, come mia madre, e rimango Rosati.>>. Ogni altro tentativo di persuasione non sortì nulla e tutto progredì nella medesima maniera di prima. Questa scelta segnò tutta la vita di Cinzia, la quale, pur avendo avuto l’opportunità di cangiare la propria vita in meglio, visse sempre con onestà e cuore, da, come decise e dimostrò, vera Rosati.