Giancarlo Rinaldi · La predestinazione nella scolastica calvinista 3.5. Confessioni di fede della...

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1 Aggiungi al carisma la formazione Quaderni di formazione continua in àmbito storico e teologico _______________________ n° 10 ______________________ Giancarlo Rinaldi Pre- destinati ? Note di corredo al seminario svolto presso la sede italiana della Shepherd University Marchirolo, 10 marzo del 2018 Riproduzione per uso interno a esclusivo uso scolastico degli allievi del corso di Storia del cristianesimo.

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Aggiungi al carisma la formazione Quaderni di formazione continua in àmbito storico e teologico _______________________ n° 10 ______________________

Giancarlo Rinaldi

Pre- destinati ?

Note di corredo al seminario svolto presso la sede italiana

della Shepherd University

Marchirolo, 10 marzo del 2018

Riproduzione per uso interno a esclusivo uso scolastico degli allievi del corso di Storia del cristianesimo.

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Indice

Premessa

1. Avvertenza preliminare e metodologica

2. Il problema della predestinazione prima della Riforma 2.1. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento 2.2. La chiesa antica 2.3. Agostino d’Ippona e la polemica con Pelagio 2.4. Scolastici cattolici del medioevo

3. Calvino e il calvinismo 3.1. Riformatori: Lutero, Erasmo, Melantone,

Zwingli 3.2. Giovanni Calvino 3.3. La “scolastica protestante” 3.4. La predestinazione nella scolastica calvinista 3.5. Confessioni di fede della scolastica riformata

(calvinista)

4. La controversia con Arminio

5. John Wesley, teologo ed evangelista 5.1. John Wesley: chiamata e ministero 5.2. La controversia con i calvinisti 5.3. Santificati davvero o solo ‘dichiarati’ tali?

6. La posizione del movimento pentecostale 6.1. La teologia del pentecostalesimo, linee storiche

e princìpi identitari 6.2. Esiste una teologia pentecostale? 6.3. Calvinisti in Italia 6.4. La galassia pentecostale italiana

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Premessa Le pagine che seguono non costituiscono una trattazione organica né, tantomeno, esaustiva di un tema di gran rilievo e di ancor maggiore difficoltà come quello della predestinazione. In questo argomento, infatti, convengono, a loro volta, i temi maggiori del pensiero umano: Dio, il Suo rapporto con la creazione, l’uomo, la sua volontà, il bene e il male, il mistero del tempo e dell’eternità.

Basterebbe soltanto questa parziale elencazione a indurre un saggio e umile silenzio in qualsiasi persona di buon senso. Valga questa riflessione a persuaderci che se nella Bibbia v’è un messaggio chiaro, chiarissimo di salvezza per i peccatori e di santificazione per i credenti, in questo stesso testo stentiamo a reperire una risposta definitiva e univoca su altri temi. Tra questi ultimi v’è quello che chiamiamo ‘predestinazione’ con il quale noi osiamo scrutare la mente stessa di Dio come se fosse dato di comprenderla appieno a noi, microbi di passaggio nell’universo!

La grande famiglia delle denominazioni cristiane ha ritenuto di poter formulare più d’un pensiero in merito e tutti sono stati persuasi di averli attinti, tali pensieri organizzati in dottrina, dalle medesime pagine di quella Bibbia che avevano in mano. A motivo delle diversità sono sorte controversie, scomuniche, scontri e violenze di cui non vorremmo mai più sentir parlare.

La società italiana in cui viviamo, profondamente secolarizzata se non scristianizzata, ha bisogno di una voce evangelica che proclami l’essenziale di cui essa ha bisogno. E noi evangelici, a nostra volta, per essere portatori di questa voce necessariamente abbiamo bisogno di quella serena cooperazione che risulta dall’unità nelle cose essenziali e nella tollerante diversità in quelle secondarie. Personalmente ritengo che una definizione dettagliata del problema ‘predestinazione’ non rientri negli argomenti a motivo dei quali ci si debba dividere.

Il lettore potrà rilevare nelle pagine seguenti la mia tendenza a diffidare dei proclami solenni delle “teologie sistematiche” di stampo calvinista. Non mi interessa nascondere il mio pensiero, né

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sarebbe giusto: lo affido al lettore affinché possa attingervi quel che riterrà utile lasciando da parte ciò di cui non sarà persuaso.

Per dirla in breve: i sistemi calvinista e arminiano sono soltanto semplici e fallibili tentativi umani di capirci qualcosa nella rivelazione di Dio consegnata nelle pagine della Bibbia. Per la Riforma e i riformatori dobbiamo aver rispetto e memoria riconoscente, ma si tenga presente che la nostra norma è la Bibbia e non le sia pur meritorie e ispirate iniziative dell’uomo di intenderne il messaggio.

Al termine di tutto ritorneremo a rileggere quelle sacre pagine, in comunione con un Dio al quale altra definizione non potremmo dare se non quella giovannea di ‘amore’. Amore per ogni sua creatura, come quello di un padre che i suoi figli vuole abbracciarli tutti.

L’autore sarà riconoscente a chiunque vorrà ampliare, migliorare, correggere le pagine che seguono le quali, ripetiamolo, si prefiggono prioritariamente lo scopo di essere utili.

Giancarlo Rinaldi

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Capitolo primo

Avvertenza preliminare e metodologica

Prima di entrare nel vivo della trattazione di un problema davvero complesso è necessario formulare alcune premesse che ci faranno da guida nel corso delle nostre riflessioni. Le elenco qui in modo sintetico e schematico:

a. Crediamo che la Bibbia sia la suprema autorità in materia di fede. Essa è parola di Dio però versata in un linguaggio umano di antica data il quale ha preso forma letteraria nel corpus degli scritti cosiddetti dell’Antico Testamento e, quindi, in quelli del Nuovo. Chi desidera comprendere il messaggio deve armarsi sia di umiltà, mettendosi in sintonia con l’Autore, sia di cultura imparando le lingue antiche (o affidandosi a chi ben le conosce e per noi si è sottoposto alla fatica di tradurre), il contesto storico di quei fatti e di quei testi, i generi letterari e così via. La cultura da sola ci porterebbe a una erudizione probabilmente sterile, la fede da sola ci porterebbe a una generica esaltazione se non a una perniciosa sensazione di conoscere tutto.

b. Dobbiamo riconoscere che la Bibbia è stata scritta non per informarci di storia, biologia, geografia, astronomia etc. ma soltanto per presentarci un messaggio di salvezza per i peccatori e di santificazione per i credenti. Per quanto attiene a questo scopo essa è chiara, fin troppo chiara. Tuttavia una pletora di argomenti non essenziali al piano di Dio possono non essere chiari, oppure mutevoli da libro a libro a seconda della progressione della rivelazione.

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Insomma dobbiamo rassegnarci a non conoscere ogni cosa nella completezza e nei dettagli1.

c. È possibile una teologia sistematica? Per “teologia sistematica” intendiamo uno sforzo del pensiero (umano) teso a organizzare e presentare i molteplici insegnamenti contenuti nelle Scritture secondo uno schema, un’esposizione organica che abbia carattere si sistematicità e di coerenza sia con il sacro testo che al suo interno, cioè delle varie parti del discorso tra loro. Tentativi del genere sono comprensibili ed encomiabili poiché la mente umana, per sua stessa costituzione, è portata ad analizzare, classificare, ordinare. Pertanto è certamente possibile e utilissimo tuffarsi nell’impresa a patto, però, che si riconosca il carattere non sistematico dell’esposizione biblica in sé e per sé, il differente rilievo dei suoi insegnamenti (dall’urgenza del messaggio salvezza allo scarso rilievo di questioni più o meno marginali); si dovrà tener presente la indiscussa cogenza e autorevolezza del messaggio biblico al confronto della opinabile attendibilità di ogni umano sforzo del pensiero, quale quello di scrivere articoli di fede, manuali di teologia sistematica e dichiarazioni di fede. Sia sempre ben chiara la profonda differenza tra l’autorevole testo biblico e gli umani tentativi di stilare confessioni di fede e dichiarazioni, prodotti nella storia e che della storia recano i segni della caducità.

d. Si dovrà tener presente che quasi tutte le dichiarazioni di fede nascono da esigenze controversistiche tese a condannare le opinioni di un particolare gruppo chiarificando le proprie. Questi documenti sono dunque nati in contesti di polemiche e di scontri e sovente ne portano le tracce.

1 1 Cor. 13,12: Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro;

ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.

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e. In considerazione di quanto or ora detto, dobbiamo impegnarci a un atteggiamento sia di umiltà che è proprio quello di chi desidera apprendere, sia di fraterno rispetto e affetto per chi possa pensarla diversamente, specialmente su questioni non strettamente attinenti al messaggio di salvezza.

f. Ortodossia e pensiero ‘fluido’. Da sempre nell’evangelismo italiano si sono ascoltati discorsi che rivendicavano i caratteri di “sana dottrina” a beneficio esclusivo di chi parlava o del suo gruppo denominazionale. Inutile dire che questa ‘ortodossia’ era sempre e comunque appannaggio di chi la rivendicava, mai, o quasi mai, del suo interlocutore. Insomma si è avuto la sensazione che la devianza dottrinale, in altri termini quel che definiamo ‘eresia’, fosse stata infilata nello zainetto che si porta dietro le spalle, così che ognuno vede l’altrui e mai il proprio. Se questo atteggiamento era prima bonariamente caratterizzato, in tempi più recenti siamo stati sensibilizzati e, per così dire, dolcemente ma decisamente indotti ad adeguarci a una “teologia sistematica” di stampo chiaramente neocalvinista. Si parla di confessione ‘riformata’ spargendo l’equivoco che ‘riformato’ indichi chi ha aderito alla Riforma protestante. Ma così non è perché in gergo tecnico ‘riformato’ è equivalente di ‘calvinista’. Chi cade in questo equivoco si affretta a sottoscrivere dottrine che caratterizzano un solo ramo del protestantesimo, quello calvinista, senz’altro rispettabile, autorevole e pregevole ma decisamente non unico poiché, è ben noto, il protestantesimo (o l’evangelismo, o l’evangelicalismo 2, fa lo stesso) è caratterizzato da una gran quantità di orientamenti diversi tutti degni di rispetto autorevolezza e pregio di rilievo… non meno del calvinismo. Questo impianto teologico neocalvinista ha indubbiamente il carattere della sistematicità e pertanto a

2 Evangelicalismo è un anglismo di conio recente, meglio sarebbe dire

evangelismo.

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chi lo prende in considerazione esso fornisce la sensazione di avere una risposta per ogni domanda. Si aggiunga che è caratterizzato, come vedremo in queste pagine, dalla dottrina della predestinazione, sovente della doppia predestinazione, a motivo della quale una persona tendente, o che ha bisogno di avere un’alta stima di sé rischia di nutrire un suo ego già ipertrofico sentendosi migliore degli altri3. A nulla vale ricordare che si è pur sempre peccatori salvati non per meriti ma per grazia; sta di fatto che il ‘salvato’ è ora nella posizione di privilegio tale da giudicare l’universo mondo… sensazione tremendamente appagante e gratificante. Chi sottoscrive una dommatica di tale impianto sistematico solitamente critica l’altrui pensiero giudicandolo ‘fluido’, cioè non ben incardinato e schematizzato. Intendiamoci bene: la Bibbia offre certezze, ed è su queste che bisogna costruire. Sono certezze di tipo spirituale, personale e intimo, ma sono anche solidi fondamenti dottrinali. Tuttavia dobbiamo essere onesti e, con umiltà, concordare con Paolo di Tarso allorquando asseriva che noi ora in parte conosciamo e in parte profetizziamo 4 , intendendo con quest’ultimo termine il parlare a nome di Dio e delle cose di Dio. Benvenuti i sistemi di pensiero solidi, purché siano corredati dalla onesta e logica ammissione di contenere aspetti ancòra poco chiari proprio perché non essenziali alla prospettiva di salvezza che è cara alle Scritture. Noi possiamo paragonare la nostra convinzione dottrinale a una casa granitica la quale però abbia al suo interno opportuni rubinetti da cui attingiamo l’acqua, elemento fluido ma preziosissimo ed

3 Diventa secondaria in queste fragili psicologie il fatto che l’eletto è tale non

per suoi meriti ma soltanto per grazia. Sovente individui reduci da frustrazioni annose e situazioni di emarginazione trovano una compensazione a tutto ciò nel fatto di sentirsi predestinati alla gloria e così giganteggiano nei loro nuovi àmbiti atteggiandosi a maestri e giungendo addirittura a disprezzare chi si sottopone invece alla fatica dell’apprendimento autentico.

4 1 Cor. 13,9.

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essenziale alla vita. Nella saggezza di discernere le parti solide dalle parti fluide sta l’equilibrio del cristiano e la sua capacità di essere pervaso da un amore per il prossimo che sia almeno pari al desiderio di conoscenza e senz’altro superiore alla bramosia di assoluta sistematicità.

Con queste premesse e, più ancòra, con questi sentimenti possiamo ora procedere nell’indagine su un problema per il quale i cristiani, dando pessima testimonianza, nei secoli passati si divisero giungendo a scomuniche, lotte fratricide, esili, carcerazioni e persino uccisioni. Mentre procediamo nella esposizione dei dati preghiamo Iddio affinché tali guerre e tutte queste controversie rimangano un ricordo del passato e lascino spazio, specialmente nella nostra Italia, a una intesa sinergica tra le varie anime dell’evangelismo.

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Capitolo secondo

Il problema della predestinazione prima della Riforma

2.1. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento.

Le fitte pagine della raccolta che noi chiamiamo Antico Testamento sono pervase da una filigrana costante che proclama il popolo d’Israele quale popolo di Dio con cui il Signore ha stipulato il Suo patto. Non si parla mai di predestinazione, bensì di ‘elezione’. I due vocaboli gravitano in una simile sfera di significato. Se leggiamo con attenzione le pagine che parlano di tale status per Israele ci rendiamo conto che questa chiamata di Dio non solo vale a esprimere il carattere gratuito della misericordia di Dio ma è strettamente finalizzata al servizio da rendere all’umanità tutta. Dunque non è un privilegio di tipo ‘etnico’5 o razziale, ma è un incarico a servire. Questo è il concetto chiave che partendo dal nucleo vetusto di Abramo a cui fu promessa copiosa progenie, perviene alla più tarda letteratura profetica la quale individuava tempi in cui nel culto del Dio unico i ‘gentili’ si sarebbero affiancati ai giudei. Gesù è tappa fondamentale in questa parabola di aperture: è totalmente giudeo ed ai giudei si rivolge, tuttavia il Suo messaggio ha il carisma dell’universalità, la Sua chiamata è per tutti, in prima fila coloro che erano fuori dall’orizzonte dell’elezione: pubblicani, prostitute, peccatori, etc. Paolo ancòra di più apre questa prospettiva di predicazione, appello, chiamata a 360 gradi e lo fa a tal segno da essere per antonomasia chiamato “Apostolo dei gentili”, cioè dei pagani. Dunque l’elezione di Dio non è un favore largito a una minoranza, ma attraverso questa, bussa alle porte dell’umanità intera. Prova ne è il fatto che ogni volta che Israele si è inorgoglito pensando a un suo particolare

5 Dal greco ἔθνος. Il vocabolo allude a una comunità caratterizzata da tratti

comuni fisici, culturali (pertanto anche religiosi) o anche di territorio talché lo si potrebbe rendere sinonimo di ‘razza’.

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status da privilegiato, Iddio ha ben fatto comprendere con la profezia e con eventi storici il Suo pensiero sulla definizione, la portata, la finalità dell’elezione.

Personalità corporativa. Oggi viviamo in una società individualista. L’ossessiva attenzione alla privacy sfocia sovente nell’individualismo e ognuno ha la sensazione di essere un’isola che non comunica con il resto della società. Nelle società di modello anglosassone è norma costante che il figlio, raggiunti i diciotto anni, lasci la casa genitoriale e viva la sua vita scrivendo ogni Natale della sua vita una cartolina augurale, riservandosi di fare poi un salto al funerale se l’agenda di lavoro lo permetterà. Oggi da soli si sopravvive e si sopravvive anche bene, secondo i parametri edonistici naturalmente. Così non era affatto nell’evo antico, specialmente all’epoca dell’Antico Israele. Il clan, la tribù, il popolo era l’unità entro la quale l’individuo necessariamente viveva e al di fuori della quale non sopravviveva. I vincoli di solidarietà erano talmente stretti che il bene di uno si commutava in benessere per gli altri e, naturalmente, anche il contrario. Ciò, tra l’altro, spiega come mai in alcuni dei dieci comandamenti vi siano promesse di ricompensa e minacce di castighi sulle future generazioni dei soggetti agenti, cosa che per noi moderni è incomprensibile.

Nel mondo dell’Antico Testamento un intero popolo è una personalità corporativa così come può esserlo una singola persona. Nella vicenda di Adamo trasgressore non si narra del peccato di un solo individuo ma della caduta di tutto ciò che costui rappresenta: l’umanità intera. Così Abramo non è un singolo individuo, ma è parte, figura e sostanza di un intero popolo. Lo stesso va detto per Mosè e per re Davide: sono personalità corporative. L’elezione di Dio si riferisce sempre a individui che rappresentano un popolo: sono, ripetiamolo, personalità corporative. Dio non compila l’elenco dei buoni e dei cattivi ma elegge attraverso una personalità corporativa un intero popolo a servirLo e ad essere di giovamento all’umanità intera.

In età ellenistica, e più ancòra alla vigilia della conquista romana da parte di Pompeo Magno nel 63 a.C., vi fu una ‘secolarizzazione’ del potere sacerdotale, cioè una riprovevole

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commistione tra potere politico e vita religiosa. Questo indusse l’allontanamento da Gerusalemme di gruppi animati da un desiderio di rigore e di purezza di fede. Ad esempio, è il caso degli esseni che posero a Qumran, nei pressi del Mar Morto, i loro quartieri. Nella loro letteratura, venuta alla luce in quelle grotte a far data dal 1947, è attestata la loro consapevolezza di costituire un popolo particolare: “figli della luce” contrapposti a “figli delle tenebre”, cioè l’universo mondo, compreso l’Israele decaduto. Tutto ciò comportava una fobìa per le contaminazioni e per le impurità che li relegava in quelle aride solitudini e accentuava la loro presunzione di essere eletti, predestinati da Dio per essere, loro e loro soltanto, gente a Lui gradita. Contrario, molto contrario, è il caso dei seguaci di Gesù. Costoro in luogo di tenersi separati, sull’esempio del Maestro, andavano deliberatamente incontro a chi, avendo bisogno della Buona Notizia, si riteneva fosse in uno stato di peccato o impurità. Gesù non ha mai parlato ai predestinati, anzi siamo certi che quanto più lontani dalla grazia di Dio erano i suoi interlocutori tanto più la sua attenzione era pronta e la sua disponibilità immediata.

I ventisette scritti del Nuovo Testamento, pur essendo tra loro molto diversi sotto molteplici aspetti, condividono tutti con pari enfasi la dottrina dell’assoluta sovranità di Dio. D’altro canto è un elementare requisito di logica riconoscere tale sovranità assoluta a Colui che il cosmo ha creato e lo regge con quell’armonioso complesso di leggi che da Lui stesso principiano. La sovranità di Dio non si discute quando si prende in considerazione il tema della ‘predestinazione’.

Il problema è indagare il come tale sovranità si dispieghi nei riguardi dell’uomo, creatura che da Dio stesso è stata costituita con una capacità nella quale consiste anche la sua “immagine e somiglianza” a Dio: la capacità di discernere il bene e il male, senza la quale il nostro agire non avrebbe alcuna dimensione etica. Che valore morale possiamo riconoscere a chi agisce con una pistola puntata dietro la schiena? Oppure è costretto per forza maggiore in una condizione dalla quale non potrebbe derogare? La libertà è la condizione preliminare (conditio sine qua non) affinché un’azione abbia una sua filigrana etica: che amore potrebbe essere quello di

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una ragazza che, per esercizio di volontà altrui, è costretta a sposare chi non desidera?

I cristiani della prima ora ben sapevano tutto ciò quando combattevano senza mezzi termini il fatalismo astrologico. La loro scelta di fede li sottraeva al dominio delle potenze astrali restituendo loro la speranza, la certezza, l’esercizio di una vita nuova libera da quei fardelli e capace di darsi un indirizzo ben migliore.

Incominciamo con il rilevare che in tutto il Nuovo Testamento non troviamo mai un vocabolo che corrisponda all’italiano ‘predestinazione’. Né mai troviamo espressa l’idea, che gran fortuna avrà nella tradizione calvinista, di una predestinazione alla dannazione di una massa d’individui. Anzi, a prender la Bibbia sul serio, come ci sembra il caso di fare, emerge proprio il contrario, che cioè l’intenzione di Dio sia quella di salvare ogni uomo. Prendiamo ad esempio le inequivocabili parole di 1 Timoteo 2,3-6: «Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità. Infatti c'è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, che ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti»; e poi anche Giovanni 3,16: «Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna».

Il verbo greco che noi traduciamo ‘predestinare’, nelle sue varie forme, è or…zw il quale contiene a sua volta il vocabolo oroj che significa limite, confine. Noi lo troviamo in vari brani, come

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Atti 2,236; 10,427; 17,26.318; Romani 1,49; Ebrei 4,710. Ma in tutti questi testi chi è ‘predestinato’ non è certo un gruppo di uomini particolari, bensì Gesù Cristo nella sua missione salvifica. Dunque l’idea forte sottesa a questi brani è quella che Dio porta a compimento, mette a segno un Suo proposito. In realtà, come osserva Giorgio Tourn11: «In questi testi il soggetto di tutte le azioni, di tutte le determinazioni espresse da orizo, è Dio, ma un altro fatto è caratteristico: l’oggetto dell’azione di Dio non è l’uomo in generale ma Gesù Cristo ed in particolare Gesù nella sua figura di salvatore. Sviluppi teologici successivi hanno caricato di significazioni che non necessariamente gli si attagliano, come il decidere a priori che tutti vanno a eterna sofferenza tranne alcuni».

Passiamo ora ad esaminare i testi in cui troviamo or…zw con il prefisso pro il quale corrobora l’idea di un piano disegnato. Ecco i brani in cui lo si trova

Atti 4,28: «27 Proprio in questa città, contro il tuo santo servitore Gesù, che tu hai unto, si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme con le nazioni e con tutto il popolo d’Israele, 28 per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero

6 Quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la

prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste.

7 E ci ha comandato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è colui che è stato da Dio costituito giudice dei vivi e dei morti.

8 Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione… perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell'uomo ch'egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti».

9 Riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore

10 Dio stabilisce di nuovo un giorno - oggi - dicendo per mezzo di Davide, dopo tanto tempo, come si è detto prima: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!»

11 La predestinazione nella Bibbia e nella storia. Una dottrina controversa, Torino 1978, p. 24.

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(ποιῆσαι ὅσα ἡ χείρ σου καὶ ἡ βουλὴ προώρισεν γενέσθαι)».

1 Cor. 2,7: «Esponiamo la sapienza di Dio misteriosa e nascosta, che Dio aveva prima dei secoli predestinata a nostra gloria (ἣν προώρισεν ὁ θεὸς πρὸ τῶν αἰώνων εἰς δόξαν ἡµῶν)».

Rom. 8,29-30: «29 Perché quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati (ὅτι οὓς προέγνω, καὶ προώρισεν) a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30 e quelli che ha predestinati li ha pure chiamati (οὓς δὲ προώρισεν, τούτους καὶ ἐκάλεσεν); e quelli che ha chiamati li ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati li ha pure glorificati».

Ef. 1,5.11: «4 In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo (καθὼς ἐξελέξατο ἡµᾶς ἐν αὐτῷ πρὸ καταβολῆς κόσµου) perché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui, 5 avendoci predestinati (προορίσας) nel suo amore a essere adottati per mezzo di Gesù Cristo come suoi figli, secondo il disegno benevolo (κατὰ τὴν εὐδοκίαν) della sua volontà, … 9 facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo il disegno benevolo che aveva prestabilito dentro di sé, … Esso consiste nel raccogliere sotto un solo capo, in Cristo, tutte le cose: tanto quelle che sono nel cielo, quanto quelle che sono sulla terra. 11 In lui siamo anche stati fatti eredi, essendo stati predestinati secondo il proposito (προορισθέντες κατὰ πρόθεσιν) di colui che compie ogni cosa secondo la decisione della propria volontà».

Nei primi due testi l’oggetto della ‘predestinazione’ non è l’essere umano bensì (in Atti) gli eventi salvifici della passione di Gesù e (in 1 Cor.) la sapienza di Dio nascosta nelle età passate ma ora palesata). Il terzo brano ci riporta in un contesto apocalittico dove le sofferenze del mondo presente sono bilanciate dalla prospettiva di rovesciamento, quindi di salvezza: Dio ha pre-

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destinato coloro che ha preconosciuto; in altri termini nel disegno di Dio chi ha fede abbraccia il suo beato destino salvifico; il Signore, che tutto conosce, ha previsto ciò, pre-destinando i credenti al premio. Nel quarto brano l’autore, parlando agli efesini, specifica il fine della predestinazione che è quello per il credente di essere uno con Cristo: il sacrificio salvifico rientra nel disegno previsto da Dio, coloro che ne fanno propri i benefici associandosi a Cristo rientrano corporativamente nel piano predestinato. Anche in questi ultimi brani l’accento non è tanto sulla pattuglia di coloro che sono scelti, bensì sul piano di Dio e su Cristo come salvatore a cui si associano i credenti rientrando, pertanto, nel piano prestabilito di salvezza tramite Cristo.

Rimane da prendere in considerazione il capitolo nono dell’Epistola ai Romani nel quale Paolo introduce la sua sofferta digressione sull’incredulità del (suo) popolo giudaico e sulla prospettiva della sua salvezza. All’apostolo sta a cuore mettere a tacere le rimostranze di qualche suo interlocutore giudeo il quale vantando il suo status di ‘eletto’ giungeva a contestare l’afferenza dei (pagani) credenti in Cristo al nuovo popolo di Dio. Paolo, attenendosi a un genere letterario proprio della letteratura giudaica, interpreta le vicende di patriarchi ebraici alla luce del fatto cristiano. Così ricorda come Abramo pativa per la mancanza di prole a motivo della sterilità della moglie Sara e, tuttavia, la sua fede nella promessa di Dio fu poi premiata con la nascita di Isacco. E poi quest’ultimo si trovò nella medesima situazione essendo sua moglie Rebecca sterile; ma anche qui Dio intervenne concedendo il concepimento e la nascita di due gemelli: il primogenito Esaù e il secondogenito Isacco. Paolo continua ricordando come Dio non si attenne al tradizionale vantaggio riservato ai primogeniti ma benedì il secondo nato in luogo del primo. In questa vicenda l’apostolo delle genti ravvisava una raffigurazione esemplare del favore di Dio che ora si manifestava a beneficio dei pagani. La famosa frase “Ho amato Giacobbe ed ho odiato Esaù”, che è una citazione da Malachia 1,2-3, non è certo da intendere alla lettera, quasi che Iddio covasse sentimenti d’odio ma è una espressione forte per rappresentare la Sua sovranità nell’accogliere nella dimensione salvifica della grazia coloro che non ci si aspettava,

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secondo una logica umana, di veder inclusi. La predestinazione di Dio non consiste in un biglietto con i nomi dei vincitori prima che si giochi la partita, ma nella Sua sovranità di stabilire le regole della stessa.

2.2. La chiesa antica.

La produzione letteraria degli antichi cristiani, sia prima che dopo la svolta filocristiana di Costantino12, fu vastissima. Non vi troviamo ciò che possa essere assimilabile ai moderni manuali di teologia sistematica, mentre abbondano testi di esegesi biblica, epistole, sermoni, apologie e così via. A quegli antichi credenti stava a cuore attingere direttamente dalle Scritture orientamenti di dottrina e di costume, senza troppo preoccuparsi di ridurre quella ricchezza di dati in un sistema affine alla coeva trattatistica filosofica. Quest’ultima esigenza fece capolino quando iniziò a prendere corpo il fenomeno che l’illustre storico Adolf von Harnack definiva l’ellenizzazione del cristianesimo. Il trasferimento della missione dai giudei ai pagani, infatti, comportò un necessario accomodamento della predicazione alle forme di pensiero e di espressione del mondo classico. Ora in tutta questa copiosa produzione non troviamo quasi niente che riguardi la dottrina della predestinazione così come noi oggi la consideriamo.

Si è soliti attribuire ad Agostino d’Ippona la prima profonda riflessione sul tema della predestinazione. Ciò è vero solo in parte poiché cogliamo spunti di riflessione sul tema già nei primi quattro secoli d.C. anche se tale riflessione prende le mosse dalla necessità d’intendere alcuni brani biblici piuttosto che dalla prospettiva di definire il carattere di Dio e il Suo relazionarsi con l’umanità per quanto riguarda il tema della salvezza di quest’ultima.

L’idea generale che dal divino tutto fosse stato stabilito quanto all’uomo era, in realtà, alla base sia dei tradizionali culti di quel che noi oggi chiamiamo paganesimo, sia dell’astrologia.

Quanto ai primi va detto che al di sopra del volere stesso degli dèi, siano gli olimpici della tradizione ellenica siano i componenti del pantheon romano, v’era la mòira (latino: sors) una entità divina

12 La si data dal secondo decennio del IV secolo d.C.

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variamente personificata ma in ogni caso individuata per la sua attività di disporre ogni cosa da far valere tra gli uomini come tra gli dèi. I greci divinizzavano anche la thyche identificandola e personificandola come il destino proprio di una città o di un popolo. V’era poi anche l’eimarmene che in greco significava la ferrea concatenazione causale la quale lega gli eventi con carattere di necessità qui sotto, nella fascia del cosmo che è sottoposta alla sfera della luna.

L’astrologia in età romana imperiale non era soltanto lo ricerca relativa ai corpi celesti e del loro moto, insomma quel che noi oggi chiameremmo ‘astronomia’, ma era anche lo studio di come queste dinamiche celesti si influenzavano tra di loro e, a loro volta, esercitavano una ferrea attività di coercizione sull’umanità. L’incidenza degli astri era ritenuta inevitabile, proprio come i loro movimenti in cielo. Il “tema natale”, quel che noi oggi chiamiamo ‘oroscopo’, era un tracciato su carta che registrava per ciascun individuo, considerando luogo o orario di nascita, la precisa posizione degli astri e l’influenza di ciascuno di questi sull’uomo il quale, pertanto, era senza via di scampo inchiodato a un destino già scritto in alto.

Contro questo greve fatalismo astrologico i cristiani si sono da sempre scagliati in nome della libertà da parte di chiunque, anche del peggior malfattore, sia di accettare Cristo come suo salvatore sia di cambiar vita mettendosi al Suo sèguito. Noi cogliamo un accenno di ciò già in Paolo di Tarso quando, in Romani 8,38 insegna che niente può separare il credente dall’amore di Dio in Cristo Gesù. Egli, infatti, afferma che da tale amore non potranno separarci “né altezza, né profondità”: qui egli usa termini tecnici del linguaggio astrologico adoperati per indicare la distanza di pianeti dall’equatore celeste o tra di loro. Possiamo senz’altro dire che una delle cause che portò la fede cristiana alla vittoria rapida e, pertanto, sorprendente sui culti tradizionali, antichi e consolidati, fu proprio il suo messaggio di libertà: l’individuo umano non era vessato irrimediabilmente da un destino già deliberato (da divinità o da corpi celesti), ma aveva la capacità, la libertà, la facoltà di accettare da Cristo un programma di salvezza che lo avrebbe reso

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diverso e davvero libero; questo piano, inutile dirlo, era concepito come fruibile non solo per pochi eletti ma per l’umanità tutta.

Ritorniamo a considerare il mondo cristiano. L’apologeta Giustino (II sec. d.C.) concepiva la

predestinazione dei credenti in termini di previsione della loro conversione, la quale sarebbe stata ben nota a un Dio ritenuto onnisciente. Contemporaneamente vigoreggiava tra i cristiani il movimento gnostico. Gli gnostici erano persuasi di possedere una conoscenza (greco: gnosis) salvifica e questa consisteva nella consapevolezza che la loro anima era diversa da quelle di tutto il resto dell’umanità, poiché era una particella divina incarnata nel corpo materiale e, pertanto, scagliata in questa dolorante esistenza terrena. Un loro autorevole maestro, Valentino di Alessandria, che fu attivo anche a Roma, insegnava che gli uomini erano divisi in tre distinte e diverse nature: gli pneumatici, loro stessi eletti da Dio e dotati d’anima divina; gli psichici, gente dotata di semplice anima che si sforzava con ogni buona opera d’esser gradita a Dio; gli ilici (dal greco: yulé, materia), irrecuperabili peccatori, inconsapevoli di loro stessi e del tutto dediti alle cose bieche di questo mondo. La qualifica di ‘salvati’ attribuibile agli gnostici non era meritata da buone opere che costoro avessero adempiute, né da un libero e virtuoso esercizio della loro volontà ma era un dato di fatto stabilito da Dio prima ancòra che fosse iniziata l’umana vicenda. Questi maestri gnostici appoggiavano le loro convinzioni a brani come Galati 1,15-16, dove Paolo si proclama “messo da parte” per la sua missione sin dal seno di sua madre, oppure Malachia 1,1-2 ripreso da Romani 9,10-13 con il noto motivo di “Ho odiato Esaù ed ho amato Giacobbe”, tutti temi, guarda caso, che sarebbero stati cari all’apologetica calvinista per dimostrare che la scelta di Dio precede non solo l’agire umano, ma il suo stesso venire in vita. Sia ben chiaro: non ho detto che la dottrina calvinista deriva da quella gnostica: no! Così non è. Mi limito a rilevare che i due sistemi di pensiero presentano una certa analogia relativa all’idea di una distinzione tra persone umane la quale sia stata fissata antecedentemente alla loro stessa creazione e non dipenda dal comportamento che costoro avrebbero avuto.

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Ad Alessandria, una o due generazioni dopo lo gnostico Valentino, visse il grande teologo Orìgene che si diede tra le sue priorità la confutazione delle dottrine gnostiche. Origene ritornò sui versetti utilizzati dai suoi avversari e parlò del proposito di un Dio che prevedeva tutto e, proprio in previsione di ciò che le sue creature avrebbero fatto e di come si sarebbero comportate, avrebbe indirizzato chi a dannazione chi a salvezza eterna. A suo parere il piano di Dio, chiaro prima della fondazione del mondo, prevedeva l’incarnazione delle anime preesistenti nei corpi materiali 13 e questo era fissato rigidamente, ma come discrimine tra le due diverse categorie di salvati o condannati vi sarebbe stato l’esercizio libero della fede in Gesù. Ora se la divisione in due categorie era predestinata, non così poteva dirsi per i singoli casi: qui ciascuno aveva facoltà di scelta e Dio, che tale scelta prevedeva, già pre-conosceva la destinazione di tutti. Il pensiero origeniano è chiaro nel suo commento a Romani 8,28-29:

Il principio della vocazione e della giustificazione non è la predestinazione. Se fosse questa il principio, quelli che sostengono l’assurda dottrina delle nature (diverse, cioè gli gnostici) sarebbero in possesso degli argomenti più persuasivi. Ma prima della predestinazione c’è la prescienza: “quelli che ha prima conosciuti, dice, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo”. Avendo, dunque, Dio fissato in anticipo il suo sguardo sulla catena degli avvenimenti futuri e avendo conosciuto l’inclinazione della libertà di certi uomini verso la pietà, come pure lo slancio verso la pietà che segue l’inclinazione, avendo conosciuto ancora che questi uomini si sarebbero dati interamente alla vita virtuosa, li ha conosciuti in anticipo, egli che conosce sia le cose presenti che quelle future. E quelli che ha così conosciuti in anticipo, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del figlio suo… Non si deve perciò pensare che la prescienza di Dio sia la causa degli avvenimenti futuri.

13 Qui Origene è seguace del filosofo Platone.

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In riferimento alla vocazione di Paolo, Origene insegnava che egli fu chiamato non in virtù di una sua speciale natura (diciamo una condizione che prescindeva dalla sua volontà), bensì grazie alle azioni che prima furono conosciute da Dio e poi Paolo avrebbe compiuto, secondo la libera scelta dell’Apostolo. Insomma per Origene in nessun caso la prescienza di Dio annullava la libertà dell’uomo.

Tra i pensatori dei primi secoli cristiani Origene non viene considerato un “padre della Chiesa” dal magistero cattolico romano in considerazione di altre sue dottrine che suscitarono la lunga “controversia origenista” e che furono poi condannate in alcuni sinodi. Tuttavia Origene figura tra i maestri di teologia nel canone della Chiesa Anglicana.

La lezione di Origene ebbe gran successo tra i cristiani del secolo terzo e seguente, tanto in oriente quanto in occidente. Girolamo, il grande traduttore della Bibbia in latino, capolavoro noto come la Vulgata, fece tesoro dell’esegesi origeniana e, infatti, è dal suo Commentario alla lettera ai galati che attingiamo le più copiose notizie relative alla controversia sulla predestinazione che ebbe luogo tra Origene e gli gnostici.

Così nella Roma dell’età del vescovo Damaso (366-384) un notevole esegeta di lingua latina, indicato come l’Ambrosiaster, commentava Romani 8,28-29 ripetendo la tesi origeniana: Dio non predestina a prescindere dalle azioni dell’uomo, ma le prevede e formula il proprio disegno conformemente a tale prescienza. Lo stesso può dirsi dell’altro grande esegeta latino Ilario il quale considerava la perseveranza nella fede un dono di Dio, ma collegava l’iniziale adesione alla fede a un libero atto dell’uomo preconosciuto da Dio e motivo, pertanto, della sua destinazione beata.

2.3. Agostino d’Ippona e la polemica con Pelagio.

Il problema della elezione dei santi è intimamente connesso a quello del peccato, della sua definizione e della sua portata. Ora nei primi tre secoli di storia del pensiero cristiano l’attenzione dei predicatori e degli scrittori era prevalentemente rivolta al peccato inteso come individuale condotta da cui emendarsi; dunque non era

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sviluppata quella che sarebbe stata poi una teologia del peccato ‘originale’.

Si parlò di predestinazione nelle prime due decadi del secolo quarto d.C. e ciò in occasione della predicazione di un certo Pelagio. Costui era un asceta nato in Britannia, dai costumi irreprensibili e certamente non privo di cultura. Giunse a Roma dove ebbe a esercitare una rilevante attività di predicatore specialmente tra gli strati sociali più alti delle comunità cristiane. Egli si ispirava anche a quella rigorosa etica filosofica, in auge specialmente presso i seguaci dello stoicismo, la quale spronava l’uomo all’esercizio della volontà rivolta verso il bene, allo sforzo per compiere azioni elogiabili ed eroiche. Insomma in lui l’ideale evangelico di una vita santa si fondeva con quello eroico modellato dalla paidea14 classica che faceva appello all’eroismo dell’uomo virtuoso. Successivamente Pelagio si recò in Africa, terra allora posta al riparo dalle invasioni barbariche e sede delle attività pastorali di Agostino. Al sèguito del pensiero di Pelagio si misero due notevoli personaggi: il monaco Celestio e il vescovo Giuliano d’Eclano.

Come per ogni personaggio storico di spessore dobbiamo distinguere in Pelagio varie fasi di sviluppo del suo pensiero e della sua attività. La sua azione a Roma fu condizionata dalla predicazione coeva di Gioviniano il quale, insieme ad altri, contestava l’insegnamento monastico secondo il quale la condizione del celibe sarebbe stata più gradita a Dio di quella di chi aveva contratto nozze. Egli asseriva che chi aveva avuto fede e aveva ricevuto il battesimo mai sarebbe stato poi soggiogato dal demonio; inoltre per tutti i credenti non si dava questione di merito poiché erano tutti uguali agli occhi di Dio: digiuni e forme ascetiche non erano meritorie agli occhi di Dio. Non stiamo qui a ricordare quella quantità di sinodi, assoluzioni e condanne che riguardarono Pelagio. A noi qui interessa, nelle linee generali, il suo pensiero.

Per Pelagio tutto si giocava proprio nel libero esercizio della volontà. Il battesimo dei bambini, che allora iniziava a diventar prassi ordinaria, era respinto in quanto azione dove l’elemento della volontà era mancante o, meglio, Pelagio non credeva che il 14 Termine greco che significa: formazione dei giovani, insegnamento.

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battesimo di incoscienti e innocenti potesse cancellare la colpa di Adamo e interpretava quel sacramento come una semplice consacrazione del bambino a Dio. In termini di esegesi biblica per Pelagio la caduta di Adamo non era stata tale da inficiare questo libero esercizio di volontà nei suoi discendenti; e se si doveva parlare di grazia questa la si doveva piuttosto ravvisare: 1. Nel dono datoci da Dio di una volontà libera di scegliere il bene; 2. Nelle Scritture che ci mostravano il retto cammino da seguire; 3. L’esempio di Cristo ubbidiente a Dio, di contro a quello di Adamo trasgressore. Per Pelagio la grazia di Dio non determinava la possibilità di accettare Cristo da parte dell’uomo (altrimenti impotente a farlo) ma costituiva un aiuto mirabile, ma esterno, all’esercizio di tale libertà di agire che era comunque e sempre connaturale all’uomo.

Pelagio continuava rilevando che gli infiniti esempi di trasgressione alla legge di Dio che circondavano i credenti non mancavano di esercitare su questi condizionamenti negativi talché l’aiuto di Dio era necessario per corroborare la volontà dell’uomo a scegliere la via del bene. All’inizio la controversia pelagiana si basò esclusivamente sulle sue forti esortazioni all’impegno personale, al sacrificio, all’esercizio di virtù da parte del credente, poi si spostò sul piano antropologico e soteriologico e qui nacque una profonda antitesi tra due scuole di pensiero.

Sembra che Pelagio sia stato turbato da una preghiera di Agostino d’Ippona con la quale quest’ultimo chiedeva a Dio «Dammi quel che comandi e comanda quello che vuoi». Queste parole gli sembravano spia di un atteggiamento passivo con il quale si rinunciava a un impegno etico personale, insomma a quell’esercizio autonomo della volontà verso il bene nel quale consisteva l’assunto di tutta l’etica filosofica antica.

Agostino d’Ippona visse tra la fine del secolo quarto d.C. e il primo tentennio del seguente. Il suo pensiero di teologo e di filosofo (oltre che di pastore e di esegeta delle Scritture) fu stimolato da una gran quantità di controversie che gli offrirono lo spunto per chiarire in modo sistematico diverse questioni. Tra i bersagli della sua vis15 polemica vi fu anche Pelagio. 15 Vis, roboris in latino: forza.

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Come era avvenuto spesso, Agostino mise a frutto l’occasione di questa polemica per produrre e sistemare una sua linea di pensiero organico sui grandi temi del peccato, della grazia, della libertà e della predestinazione. Gli anni della polemica di Agostino contro Pelagio e i suoi seguaci sono quelli della sua canizie quando, addensandosi all’orizzonte anche la minaccia di scossoni e crolli della civiltà antica minacciata dai barbari, il pensiero naturalmente si disponeva a farsi colorare, sia pur nobilmente, da una filigrana di pessimismo.

Quando studiamo l’opera vastissima di Agostino dobbiamo sempre tener presente due avvertenze metodologiche: 1. Il suo pensiero fu soggetto a cambiamenti e adattamenti lungo tutto l’arco della sua vita. Egli stesso ebbe a comporre un’opera che di tali ripensamenti trattava ed a cui pose il titolo di Retractationes; 2. Bisogna stare attenti a non leggere il pensiero di Agostino con l’ottica degli sviluppi e delle interpretazioni che a proposito fiorirono nei secoli successivi: valga sempre la regola d’oro degli studi storici: è sempre il prima che spiega il poi e non viceversa.

Possiamo dire che Agostino partiva dalla Scrittura e, dopo averla interpretata, sviluppava e sistemava i dati che da questa attingeva in un complesso teologico - esegetico che ambiva anche ad avere fondamento filosofico.

Attingendo dalla Scrittura Agostino interpretava la grazia come un dono gratuito della benevolenza divina il quale non ci viene elargito in proporzione ai nostri meriti. Così pure è un dono di Dio sia l’inizio della fede sia la perseveranza finale. Tutto ciò non escludeva i meriti degli uomini, ma li rendeva dipendenti dalla grazia: “Quando Dio corona i nostri meriti non corona altro che i suoi doni”.

La grazia viene elargita in base alla predestinazione. E qui egli definiva quest’ultima “la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio con i quali sono certamente liberati tutti coloro che sono liberati”16. Attenzione: Agostino distingueva la prescienza dalla predestinazione; se il conferimento della grazia salvifica era collegato alla prima, non si poteva però dire che la lunga serie di peccati sarebbe stata determinata dalla seconda, questo avrebbe 16 De dono perseverantiae 19,35.

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significato rendere Dio autore del male. Così pure Agostino affermava che Dio permetteva il male ma non disponeva che esso fosse. Il motivo di questo permesso rimaneva un mistero.

Agostino si pose il problema di conciliare la predilezione di Dio verso gli eletti con il suo amore verso l’umanità tutta giungendo alla conclusione che i salvati sono tali per dono di chi li salva, invece coloro che periscono patiscono ciò che meritano, come sintetizzerà poi un canone del Concilium Carisiacum dell’853.

Queste affermazioni agostiniane certo non risolvono l’aporia: perché Dio per alcuni interviene con la grazia e per altri lascia che le cose vadano secondo una giustizia che perviene ad altro (e triste) esito? Il teologo si arroccava dietro la persuasione secondo la quale la giustizia di Dio esige che non vi sia pena senza colpa e quindi, e contrario, non vi sia neanche colpa senza pena. Sta di fatto che con questo suo ordine di pensieri Agostino condannò quella che potremmo dire la dottrina della “doppia predestinazione” cioè l’idea che Dio abbia deliberatamente, parimenti e parallelamente predestinato alcuni (molti) alla condanna, altri (pochi) alla beatitudine. Altra ferma convinzione agostiniana era relativa al carattere universale dell’espiazione compiuta di Cristo: Gesù morì per tutti gli uomini e non solo per coloro che ne avrebbero accettato i benefici.

Commentando 1 Timoteo 2,4 Agostino 17 definiva la sua dottrina quella caratterizzata da una grazia che nessun cuore, per quanto duro, respinge proprio perché è data per togliere la durezza del cuore: «Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità». Si tratta di quella “grazia preveniente” che tanto spazio avrebbe avuto nella teologia wesleyana. Io ne ravviso una illustrazione mirabile in quel versetto di Luca 15,20 che raffigura il padre del figliuolo prodigo il quale prima ancòra che costui avesse fatto ritorno alla casa, fu mosso a

17 De praedestinatione sanctorum 8,13.

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compassione, gli si recò incontro correndo per poi abbracciarlo e baciarlo18: ecco la grazia preveniente!

Agostino si trovò di fronte ad alcuni passi biblici che sembravano attribuire a Dio la volontà di indurre a cattive azioni alcune persone. Egli seppe spiegarli tutti mantenendo sempre chiaro l’insegnamento secondo il quale se Dio è amore e volontà di bene e se, inoltre, permette il male, non per questo sia da considerarsi autore del male stesso. Ecco i brani:

In Esodo 7,3 si parla dell’indurimento del cuore del faraone: Ego indurabo cor Pharaonis. Agostino commentò questo testo già prima di diventare vescovo e così lo interpretò: «Sul Faraone la risposta è facile: per i demeriti precedenti in quanto afflisse nel suo regno i pellegrini, diventò degno che il suo cuore s’indurisse...». Nell’ Esposizione di alcune proposizioni della lettera ai Romani riscontriamo uno stesso orientamento esegetico: «Si è indurito il cuore di Faraone... ma per il giudizio di Dio che retribuisce la dovuta pena alla sua incredulità».

Queste esegesi risalgono al suo periodo giovanile, tuttavia le riscontriamo confermate anche successivamente. Nelle Questioni sull’Ettateuco (opera composta nel 419) leggiamo: «Indurirò il cuore del Faraone... Dio si serve bene dei cuori cattivi per ciò che vuol mostrare ai buoni o vuol fare ad essi Egli stesso - e continua - ...quale cuore uno abbia nel male, dipende dal vizio di ognuno, vizio che ha origine dal libero arbitrio... che dunque il Faraone avesse un tal cuore che per la pazienza di Dio non si muovesse alla pietà ma all’empietà, vitii proprii fuit». E aggiunge: «Dobbiamo inoltre vedere se l’Io indurirò non si possa anche intendere così: dimostrerò quanto sia duro». In un trattato composto verso il termine della lunga controversia contro Pelagio egli ritornò sul tema del cuore indurito del faraone concludendo che Dio non gli tolse per questo il libero arbitrio: Nec ideo auferatis a Pharaone liberum arbitrium... Poi rilevando che sempre il libro dell’Esodo19 riporta: Il Faraone indurì il suo cuore (Es 8,28) conclude: «Perciò Dio indurì [il cuore di Faraone] per un giusto giudizio, e Faraone indurì [se stesso] per mezzo del libero arbitrio».

18 Egli dunque si alzò e tornò da suo padre. Ma mentre egli era ancora lontano,

suo padre lo vide e ne ebbe compassione; corse, gli si gettò al collo e lo baciò.

19 8,28.

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Questo stesso criterio esegetico lo riscontriamo a proposito del passo di Paolo in Romani 9,8 che si riferisce, del resto, alle già citate parole dell’Esodo: «Egli fa misericordia chi vuole e indura chi vuole»: la volontà di Dio, commenta Agostino già nelle prime opere, iniusta esse non potest. L’indurimento infatti “proviene da reconditi suoi antichi comportamenti”. Dopo che Agostino maturò appieno la sua dottrina sulla grazia come dono gratuito di Dio, scrisse a Simpliciano: «...non c’è iniquità presso Dio; bisogna credere perciò, tenacemente e fermamente, che ciò che l’Apostolo dice: Dio ha misericordia di chi vuole e indurisce chi vuole, cioè ha misericordia di chi vuole e non ha misericordia di chi non vuole, proviene da un’equità occulta e ininvestigabile dalla mente umana». Dio non induce nessuno a peccare: «si dice che indurisce alcuni peccatori, perché non ha misericordia di loro, non perché li induca a peccare (non quia impellit ut peccent)».

Infine, in una delle ultime opere nella quale parla molto del potere di Dio sulle volontà degli uomini, cita, oltre l’espressione or ora ricordata, un’altra espressione biblica che attribuisce a Dio la ‘seduzione’ del profeta, e commenta: «Quando sentite il Signore che dice: “Io, il Signore, ho sedotto quel profeta” 20 e ciò che dice l’Apostolo: “Usa misericordia di chi vuole e indurisce chi vuole”21 tenete per certo che in colui che permette sia sedotto o indurito ci sono i meriti cattivi»22. E poco sopra, spiegando la maledizione lanciata contro Davide e le umili parole di Davide: “Lasciatelo maledire, perché il Signore gli ha detto di maledire”23 spiega così: «Non viene taciuta la causa per la quale “[Dio] miserit vel dimiserit” condusse, vale a dire abbandonò il suo cuore malvagio verso questo peccato: “affinché il Signore veda la mia umiltà e mi renda del bene in cambio della maledizione di oggi”»24.

Altrove è il tema dell’accecamento che crea difficoltà: «Ha accecato i loro occhi e ha indurito il loro cuore». Agostino spiega: «Il Signore che conosce il futuro ha predetto per mezzo del profeta l’infedeltà dei giudei, l’ha predetta, non l'ha fatta... In questo modo infatti Dio acceca, in questo Dio indurisce: abbandonando e non 20 Ezechiele 14,9. 21 Romani 9,18. 22 De gratia et libero arbitrio 23,45. 23 2 Re 16,10. 24 2 Re 16,11-12.

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aiutando; ciò che può fare con un giudizio occulto, ma non può fare con un giudizio iniquo»25. E quando nello stesso contesto legge: “non potevano credere”26 spiega: «Se mi si chiede perché non potevano, rispondo subito: perché non volevano "27.

Anche a proposito dell’abbandono dell’uomo in potere del demonio Agostino fa chiara la distinzione tra il fare e il permettere28. Egli spiega: «non si deve intendere quasi che Dio lo abbia fatto o abbia comandato che fosse fatto, ma che lo ha solo permesso, tuttavia giustamente »29.

Conclusione: nella sua esegesi Agostino fa uso ricorrente della categoria del ‘permesso’ del male da parte di Dio. Come e perché ciò avvenga egli ha l’umiltà di dichiarare di non saperlo: si arrende di fronte a un mistero grande. Quanto alla pena per i reprobi egli considera che sia un bene poiché è l’esito naturale della giustizia alla quale Dio non vuole derogare.

Agostino legò l’insegnamento dell’elezione da parte di Dio alla sua ecclesiologia ed alla sua dottrina dei sacramenti. Erano allora temi di attualità, questi, poiché la sua Africa era dilaniata dalla controversia contro i donatisti, cristiani rigoristi che avevano un concetto di chiesa come comunità di persone irreprensibili e, conseguentemente, dei sacramenti come atti validi soltanto se celebrati da ministri di culto irreprensibili, cioè appartenenti alla loro denominazione.

Per Agostino in Adamo tutta l’umanità aveva trasgredito all’ordine divino. Dunque questo peccato poteva ben dirsi originale ed universale. Era come un oceano nel quale tutti erano affondati: l’umanità come massa damnationis. Giusto, dunque, poteva dirsi Dio che al peccato faceva seguire morte e punizione per i trasgressori, cioè punizione eterna. Su questa base il vescovo di Tagaste inseriva la sua lettura di Paolo di Tarso preso molto sul 25 Is. 6,10 e Gv. 12,39. 26 Gv. 12,39. 27 In Io Ev. tr. 53, 6; cfr. ibidem 53, 9: «Dell’Onnipotente è stato detto: non

può. Come dunque il fatto che il Signore non può rinnegare se stesso è una gloria della volontà divina, così il fatto che quelli non potevano credere è una colpa della volontà umana».

28 Efesini 2,1 ss. 29 De Trinitate 13,12,16.

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serio: la legge era impotente a salvare il trasgressore / peccatore e si limitava a notificargli la sua condizione di fronte la quale egli avvertiva la sua impotenza; così, infatti, anche la volontà umana era del tutto inficiata e tendente al male, sin dal primo singhiozzo del neonato. Guardando a questa massa disperata Dio aveva scelto coloro che destinava a salvezza, sottraendoli così a un destino di eterna dannazione. Sulle orme di Paolo, Agostino ravvisava l’opera della grazia divina che interveniva mettendo il peccatore incapace di far da sé sia in condizione di convertirsi, sia di recare frutti congrui alla sua nuova posizione, cioè buone opere. A chi chiamava a sé Dio avrebbe dato anche il dono di perseverare nella sua grazia senza venir meno. Ad Agostino, pensando anche alla sua burrascosa giovanile esistenza, veniva spontaneo pensare all’intervento salvifico di Dio come anteriore a ogni umana decisione e come suscitatore della fede che l’uomo da solo era incapace di esercitare.

Connessa e coerente alla dottrina della predestinazione v’è in Agostino una particolare dottrina della chiesa che confluirà poi nel patrimonio ecclesiologico della chiesa romana: questa comunità dei salvati, osservata in una prospettiva che attraversa le epoche, costituisce una chiesa la quale è ben più di una comunità terrena organizzata, è la stessa comunità di santi e angeli solidali con Dio. La dottrina del peccato originale, universalmente diffuso, richiamava la prassi di battezzare i bambini. Il rito, inteso sempre meno come attestazione della conversione era sempre più interpretato come un conferimento di grazia da parte di Dio.

Tentiamo di formulare un giudizio sul pensiero agostiniano in merito alla predestinazione. Se nella Bibbia il disegno salvifico di Dio è un elemento della soteriologia, cioè illustra il messaggio della salvezza palesando la libertà dell’agire di Dio che apre le porte del suo favore anche a chi non appartiene al “popolo eletto”, con Agostino tale disegno diventa elemento caratterizzante Dio, è cioè tale da descrivere il carattere della Sua sovranità e i modi con cui essa si esercita. Nel ridurre l’esegesi biblica a sistema teologico Agostino è costretto ad avvalersi di un metodo e di uno stile di ragionamento che è filosofico: posta una premessa ne segue una conseguenza e questa, a sua volta, diventa premessa di ulteriori

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conclusioni. Così a catena si sviluppa un argomentare di cui i Riformatori avrebbero fatto tesoro però radicalizzandolo e impiegandolo immediatamente nella loro polemica anticattolica: Lutero da monaco agostiniano, non dimentichiamolo, e Calvino per il quale, come vedremo, la dottrina della predestinazione è un corollario30 logico della definizione di Dio.

2.4. Scolastici cattolici del medioevo.

Si definisce ‘scolastica’ quella vastissima corrente filosofica di età medioevale la quale s’impegnò a sistematizzare l’insegnamento della Bibbia e dei padri della chiesa antica armonizzandolo con gli schemi del pensiero filosofico classico specialmente aristotelico e platonico.

In questo quadro, nel secolo nono fu attivo il teologo Gotescalco d’Orbais (805-868), figlio del conte di Sassonia, dapprima monaco quindi sacerdote. Durante i suoi soggiorni nell’Italia Settentrionale diffuse la dottrina della doppia predestinazione, secondo la quale Dio avrebbe non solo predestinato alcuni a salvezza ma avrebbe anche, con pari e parallelo atto di deliberazione, predestinato tutti gli altri alla dannazione. Per questa sua dottrina fu condannato da un sinodo e imprigionato nel monastero di Hautevilliers. Tuttavia non abbandonò le sue tesi limitandosi a specificare che Dio, predestinando alla dannazione non per questo predestinava al male; ma quest’ultima chiarificazione costituiva in realtà un accomodamento per evitare di pervenire alla logica conclusione delle sue premesse: se Dio tutto prevede, decide e stabilisce e se positivamente predestina alla trasgressione e al conseguente castigo, dunque il male rientra tra ciò che Egli ha determinato. Alla dottrina della doppia predestinazione Gotescalco aggiunse l’altra, che con questa è coerente, della validità limitata ai soli eletti dell’espiazione di Cristo.

Contro le dottrine di Gotescalco scese in campo il filosofo (e teologo) Giovanni Scoto Eriugena (c. 810-880) con il suo trattato De praedestinatione. Questo robusto pensatore, a differenza di 30 Il termine significa verità derivante da una verità dimostrata

precedentemente.

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Agostino, aveva una profonda conoscenza della lingua greca grazie alla quale dominava la produzione teologica dei bizantini. Nella sua opera si confutava la tesi della doppia predestinazione sostenendo che la volontà di Dio è unica come la sua essenza, dunque da tale unica volontà non possono derivare due effetti diversi e opposti, la volontà divina è volta esclusivamente al bene; e ciò anche perché, come insegnava Agostino ripetendo motivi della filosofia platonica, il male non ha esistenza oggettiva ma è soltanto assenza di bene. Giovanni Scoto rileggendo tutti i brani dove sembrava che si parlasse di doppia predestinazione rilevava che le auctoritates31 invece parlavano per antifrasi32 di una unica predestinazione nel bene. Giovanni Scoto Eriugena, inoltre, faceva rilevare che Dio esiste al di fuori del tempo quindi non ha senso parlare di una Sua deliberazione in riferimento a umani accadimenti, tutti invece scanditi nella dimensione del tempo.

31 Per i filosofi scolastici l’auctoritas era costituita dalla Scrittura e

dall’insegnamento dei Padri. 32 L’antifrasi è una figura retorica, un modo di dire, che definisce in modo

opposto ciò che la frase in esame vuol dire. Esempio “Ora viene il bello!”, nel nostro caso: “Quanti il peccato ne condusse a morte!” per dire, al contrario: “Quanti furono sottratti al peccato dalla grazia!”.

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Capitolo terzo

Calvino e il calvinismo

3.1. Riformatori: Lutero, Erasmo, Melantone, Zwingli. La dottrina della predestinazione di Martin Lutero (1483-

1546) è compresa nella sua grande riflessione sulla giustificazione per sola fede. Nel 1517, prima ancòra che egli compilasse le famose 95 tesi, disquisendo di teologia scolastica ebbe ad affermare che: «l’elezione e la predestinazione eterna di Dio costituiscono l’unica disposizione e sicura preparazione alla grazia» 33 ; possiamo ravvisare qui il primo nucleo di una dottrina secondo la quale l’opera della grazia in noi è dono di Dio piuttosto che merito individuale.

Va tenuto presente che il riformatore era un frate agostiniano, pertanto familiare a tal genere di riflessioni. La predestinazione da parte di Dio coincide con la sua elezione, pertanto con la sua disposizione amorevole a salvare. Nel 1515 la sua riflessione sul tema si accentuava in sede di commentario all’epistola ai romani di Paolo. Era colpito dall’affermazione che leggeva in 1 Timoteo 2,4 dove si dichiarava che Dio desiderava che tutti gli uomini pervenissero alla salvezza. Gli sembrava inspiegabile che questa volontà di Dio non sortisse letteralmente il suo effetto e allora egli maldestramente extrapolava il detto di Gesù secondo cui il Figlio dell’uomo «non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti» e ne faceva derivare la conclusione secondo la quale Gesù sarebbe morto non per tutti gli uomini ma solo per alcuni34. Poi tirava in ballo un

33 «Optime et infallibilis ad gratiam praeparatio et unica dispositio est aeterna

dei electio et praedestinatio». 34 Lutero armonizzò i testi sinottici: Mc. 14,24 («Viene sparso per molti»);

Mt. 26,28: «che viene sparso per molti in remissione dei peccati»; cfr. anche Lc. 22,20 («Per voi»). Lutero, che non aveva le conoscenze linguistiche di cui oggi disponiamo non poteva prestare attenzione al fatto

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diverso testo, Romani 8,28, dove si parlava di «Coloro che sono stati chiamati secondo il disegno [di Dio]», intendeva disegno sinonimo di predestinazione e, così procedendo, deduceva dal senso restrittivo della frase che altri non erano stati chiamati secondo quel medesimo disegno. La predestinazione dunque si riferiva solo agli eletti, pertanto essa è misericordia che non si basa su una previsione di meriti dell’uomo ma su una scelta di Dio. A corroborare queste persuasioni venivano chiamati in causa le solite affermazioni su Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe contenute nei capitoli 8 e 9 dell’Epistola ai romani. Di fronte all’obiezione che faceva rilevare come Dio avesse discriminato con una scelta precisa coloro che sarebbero stati da salvare da tutto il resto da condannare, Lutero si rifugiava nel mistero ineffabile della divinità, tale da non consentire all’uomo di porre domande audaci al Creatore.

Le dichiarazioni di Lutero suscitarono un vivace dibattito con Erasmo da Rotterdam, (c. 1466-1536) persona profondamente interessata al progetto di riformare la chiesa ma che era egregiamente fornito di cultura umanistica e non era disposto a voltar le spalle al patrimonio del pensiero antico il quale incoronava l’uomo come soggetto responsabile delle sue scelte. L’umanesimo erasmiano non si conciliava con la dottrina di Lutero che annullava la libertà dell’uomo e concepiva quest’ultimo schiavo del peccato. Per Erasmo35

Il ruolo dell’uomo è quello di pregare Dio con assiduità, perché ci accordi il suo Spirito...; rendergli grazie se abbiamo potuto fare qualcosa di bene, di adorare in tutto la sua potenza, di ammirare in tutto la sua saggezza ed amare in tutto la sua bontà... Ma quando sento dire che il merito umano è talmente nullo che tutte le opere, anche quelle della gente per bene, non sono altro che peccato, che la nostra volontà non può nulla di più di quel che può l’argilla nelle mani del vasaio... il mio spirito prova grande inquietudine. Come si può parlare così spesso di ricompensa se non c’è merito? Perché comparire davanti

che in questi testi “molti” indica, secondo l’uso semitico, una totalità compresa in una pluralità.

35 In riferimento a Romani 9,14.

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al giudice supremo se tutto si compie in noi per pura necessità e non già secondo il nostro libero arbitrio?36.

Erasmo si domandava se davvero la volontà dell’uomo fosse semplice e passiva argilla nelle mani di un vasaio oppure se questa immagine, nell’àmbito del linguaggio biblico, non fosse solo un esempio, una similitudine che Paolo derivava dall’Antico Testamento e che, appunto, era da prendere come tale non intendendola legnosamente alla lettera.

Sul tema della predestinazione scrisse anche Filippo Melantone (1497-1560), ingegno precoce, altro grande teologo della Riforma. Nei suoi Loci communes lo riteneva un tema centrale del pensiero teologico poiché ne individuava lo stretto legame con la questione del libero arbitrio, tuttavia non ritenne di dargli spazio in sede di formulazione di una professione di fede; infatti lo tralasciò quando compose la Confessio Augustana, che è il manifesto del pensiero teologico luterano redatto nel 1530. Il pensiero della predestinazione divina nelle pagine di Melantone ricorse invece in sede di esegesi biblica, specialmente dell’Epistola ai romani. Il quesito di partenza era classico: se tutti nascono egualmente peccatori, perché Dio tra questi sceglie alcuni e ripudia altri? La risposta, certamente non esaustiva ma dettata da una professione di fede, è quella classica: la grazia divina prescinde da qualsiasi merito ed è attestazione della misericordia di Cristo. Nessun’altra parola di fronte al mistero profondo della inscrutabile volontà divina! Dio non deve rendere conto ad alcuno di ciò che fa, proprio come il vasaio non deve giustificare all’argilla il suo operato.

Ulrico Zwingli (1484-1531) realizzò la Riforma a Zurigo, in Svizzera. Della predestinazione trattò principalmente in un suo opuscolo che risale al 1530: De providentia Dei anàmnema. Anche qui l’azione divina è giustificata dalla libertà con cui Egli dispone ogni cosa, anche se tale libertà si ritiene possa essere esercitata soltanto nell’àmbito delle cose che sono giuste, buone e sante.

36 R. Jouvenal (curatore), Erasmo, Il libero arbitrio. Lutero, Il servo arbitrio, Torino 1969, 138-139.

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Zwingli parlò non tanto di un Dio giusto che dà corso alla ferrea legge che lega immancabilmente il castigo alla colpa, ma proclamò esclusivamente un Dio buono e sapiente il quale elegge. In questo contesto la predestinazione è la «libera decisione della volontà divina che sceglie coloro che devono essere beati».

In conclusione: i riformatori antecedenti Giovanni Calvino si posero il problema della predestinazione non come un corollario della definizione dell’attività di Dio ma come un aspetto della più generale dottrina della grazia gratuita e della salvezza. Le loro riflessioni sorsero in margine all’esegesi della Scrittura piuttosto che nell’intento di tracciare un corpus dottrinale sistematico. In ogni caso, tutti esclusero che Dio avesse deliberatamente destinato alcuni alla dannazione e limitarono l’azione della predestinazione alla positiva volontà salvifica di Dio. Le loro riflessioni erano influenzate da Agostino, autore che ben conoscevano da uomini di ampia cultura patristica quali essi erano. 3.2. Giovanni Calvino.

Giovanni Calvino (1509-1564) era figlio del segretario di un vescovo della regione francese della Piccardia. Dalla morte prematura della madre derivò il suo tratto pensoso e malinconico, così dall’esser stato accolto ed educato in una casa aristocratica derivò una finezza nei modi, nel pensare e nel comporre. In una condizione economica sicura e rasserenante poté dedicarsi agli studi di giurisprudenza e di discipline umanistiche. Padroneggiava alla perfezione il latino. Fu a Parigi che, al contatto di alcuni evangelici, maturò la sua profonda esperienza di conversione della quale non amò trasmetterci alcuna memoria. Dopo un burrascoso soggiorno in Italia, a Ferrara, andò poi a Basilea dove trovò un contesto più favorevole alla sua scelta e qui, nel 1536, pubblicò la sua grande opera Institutio religionis christianae sulla quale sarebbe poi successivamente ritornato. Poi soggiornò a Ginevra e qui pose stabile dimora; a ciò era stato indotto dal cupo riformatore Guglielmo Farel (1489-1565) il quale era giunto a minacciargli la maledizione di Dio se non avesse dato ascolto alla sua imposizione. La conversione alla fede riformata da parte di questa città era stata

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funzionale a una scelta politica d’indipendenza verso il ducato di Savoia. Si trattava ora di dare un’anima a una scelta. Infiammato per questa causa, Calvino vi si dedicò con tanto rigore da venire allontanato da Ginevra appena nel 1538; fuggì a Strasburgo dove contrasse nozze. Ma poi ben presto fu richiamato e poté dedicarsi a dare una rigorosa spina dorsale ecclesiastica e dottrinale a quel popolo. Fu stabilito un Concistoro e furono fatti valere ferrei ordinamenti ecclesiastici. Polso fermo, dunque, e tanto rigore, così da non indietreggiare quando, nel 1558, proprio lì si accese un orrendo rogo che bruciò Michele Serveto accusato di eresia. Il poveretto era fuggito dai rigori dell’inquisizione cattolica illudendosi di trovar spazio e respiro a Ginevra. Qui, invece, lo attese un tremendo supplizio che, dopo averne bruciato il corpo mezz’ora tra le fiamme, lo consegnò alla più atroce delle morti. Questa brutta pagina appartiene alla lunga serie di situazioni in cui motivi religiosi si erano mescolati a istanze di tipo politico. Serveto è a giusto titolo considerato un martire della libertà di pensiero, al pari di Giordano Bruno, bruciato invece a Roma dalle autorità cattoliche. Calvinisti o cattolici che siano i carnefici, la piaga dell’intolleranza religiosa avrebbe ancòra mietuto moltissime vittime prima che tutta una serie di nobili pensatori, istituzioni, opere fosse riuscita a stabilire il diritto di pensarla differentemente dalla maggioranza. In molte, troppe regioni della terra, la libertà di religione è ancòra negata e dal rogo di Serveto promana ancòra un impulso a trasformare ogni credente in Gesù in un combattente pacifico per far sì che tutti possano godere di quella stessa libertà di cui noi desideriamo sempre avvalerci.

Calvino apparteneva, per così dire, alla seconda generazione dei riformatori; quella successiva a Lutero, Zwingli, Melantone e Bucero. Di costoro assimilò il pensiero, riformulandolo però in modo personale e originale con una particolare acribia impegnata nella confutazione sistematica della dottrina e della prassi cattolico romana.

In Calvino, più ancòra che in Agostino, l’impegno dell’esegeta della Bibbia si fondeva con un’esigenza di rigore

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razionale. Quest’ultimo aspetto si sarebbe ancòra più irrigidito nei suoi epigoni37, come vedremo a breve.

Dobbiamo onestamente riconoscere che nell’economia del pensiero calviniano38 la predestinazione non riveste tutta quella importanza sulla quale successivamente la sua scuola avrebbe insistito, fino ai nostri giorni. Del tema il riformatore parla nell’ultima parte del terzo libro della sua Institutio christianae religionis. Lo espone come un corollario logico dell’altro e ben più importante tema della glorificazione assoluta di Dio. Ancòra oggi i sostenitori delle tesi calviniste esordiscono nei loro discorsi dichiarando che bisogna rendere gloria a Dio e, di fronte a un pensiero che con il loro non coincida, protestano dichiarando di non vedere adeguatamente glorificato Dio. Poste così le cose sembra (erroneamente) che vi sia da una parte il cristiano che rende gloria a Dio, dall’altra chi non riconosce la maestà di Dio. Le cose stanno in termini ben diversi: nessun cristiano di buon senso potrebbe rifiutarsi di riconoscere la sovranità di Dio, il problema è piuttosto stabilire come questa sovranità venga (per la stessa volontà divina) esercitata di fatto.

In sintesi. In ogni caso la prioritaria esigenza di ogni sistema calvinista è quella di stabilire l’assoluta sovranità di Dio, questa esigenza, sì, è il cuore del sistema di pensiero calviniano. Dio ha voluto dar gloria a Sé e la maniera con cui ciò avviene è quella rappresentata dalla storia biblica: la trasgressione di Adamo, trasmessa all’umanità tutta ha reso giusta la sua condanna da parte di Dio talché nessuno potrà accusare l’Eterno di aver esercitato la Sua rigorosa giustizia. Tuttavia Egli, sempre per la Sua gloria, ha scelto di salvare alcuni e ciò, ancòra una volta, a Suo insindacabile e personale giudizio. Non lo si potrà accusare di aver trattato male la massa damnationis perché questa a buon diritto meritava la condanna in quanto contaminata dalla trasgressione e dal peccato. Né l’uomo può permettersi di chieder conto a Dio del Suo operato. Dio infatti non compie ciò che è giusto in sé ma, al contrario, rende giusta qualsiasi Sua decisione per il solo fatto che questa è, 37 Epigono significa successore. 38 Useremo il termine ‘calvinista’ piuttosto per indicare il pensiero dei successivi seguaci di calvino.

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appunto, la Sua decisione. Se dunque Dio è onnipotente, niente e nessuno potrà far sì che la Sua volontà, il suo eterno proposito fallisca: la Sua grazia è irresistibile, solo in virtù di questa, e mai per sua capacità, il peccatore perviene alla fede, che dunque pure è solo dono di Dio. Così anche il permanere nella grazia (perseveranza dei santi) è tutta e solo opera di Dio: chi veramente è destinato alla beatitudine mai potrà venir meno a questo destino.

Questo quadro generale relativo alla dottrina della predestinazione fu poi man mano approfondito, sistematizzato e, possiamo dire, radicalizzato così che per molti storici del pensiero cristiano l’argomento è stato poi considerato centro e cuore di tutto il sistema di pensiero calviniano. Ma non tutti gli storici di ciò sono persuasi. L’autorevole studioso valdese Giorgio Tourn, al quale dobbiamo la traduzione italiana dell’opera di Calvino edita dalla torinese UTET, è persuaso che il tema della predestinazione abbia un rilievo pastorale, edificante e morale piuttosto che speculativo nell’economia del sistema di pensiero del riformatore ginevrino. Pertanto egli non parla di una dottrina organizzata sistematicamente bensì di una esigenza soddisfatta in varie maniere, secondo vari contesti ed epoche da Calvino. La dottrina dell’assoluta sovranità di Dio (da cui deriva quella della predestinazione) sarebbe stata enfatizzata per far argine al dilagare della controriforma cattolica e alle connesse spinte umanistiche le quali nell’uomo individuavano una fonte di valori e di volontà autonoma. Calvino, secondo Tourn, avrebbe esordito come lettore della Bibbia ma poi man mano si sarebbe fatto prendere la mano da un’esigenza logica e da un temperamento da giurista, quale era. Da qui la sistemazione compiuta delle sue annotazioni su Dio sovrano e la Sua elezione.

Le riflessioni dello studioso valdese sono senz’altro valide, anche in considerazione della sua autorevolezza in materia, tuttavia non possiamo trascurare alcune esposizioni inequivocabili sul tema provenienti dalla penna stessa di Calvino. Valga questa pagina, tratta dal suo Catechismo del 1537, la quale prende le mosse dalla questione: come mai non tutti si dispongono a credere?

La parola di Dio invita tutti ad essere partecipi di Cristo, ma molti, accecati e induriti dall’incredulità,

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disprezzano questa grazia tanto singolare. Perciò di Cristo gioiscono solo i credenti che lo ricevono quando è inviato a loro, non lo respingono quando è dato loro e lo seguono quando egli li chiama.

In questa diversità di atteggiamenti si deve cogliere il profondo segreto della volontà divina. Il seme di Dio, infatti, mette radici e porta frutto solo in coloro che il Signore ha predestinati ad essere suoi figli ed eredi del Regno dei cieli in base alla sua eterna elezione.

Per tutti gli altri, riprovati prima della fondazione del mondo in base alla stessa volontà divina, la predicazione della verità, anche quando sia chiara ed evidente, non può che essere odore di morte a morte.

Perché il Signore usa verso gli uni misericordia ed esercita invece verso gli altri il rigore del suo giudizio? Il motivo di questo lo conosce lui solo e se lo ha celato a noi non è senza fondati motivi; il nostro spirito infatti è troppo rozzo per sopportare così grande luce e siamo troppo piccoli per intendere così grande sapienza… Questo però dobbiamo ritenere fermamente: questa decisione del Signore, per quanto ci sfugga, è pur santa e giusta. Se infatti egli volesse mandare in perdizione tutto il genere umano avrebbe il diritto di farlo; in coloro che egli sottrae alla perdizione non si può vedere altro che la sua bontà sovrana. Riconosciamo dunque che gli eletti sono oggetto della sua misericordia (e lo sono veramente) ed i reprobi della sua ira comunque giusta.

Dagli uni e dagli altri ricaviamo motivo di esaltare la sua gloria. D’altro canto non cerchiamo per confermare la nostra salvezza, di salire (come fanno molti) fino al cielo ed investigare quel che Dio ha dall’eternità deciso di fare nei nostri riguardi (questo non può che renderci inquieti e angosciati); accontentiamoci dunque della testimonianza con cui egli ci ha, in modo sufficientemente ampio, confermato questa certezza.

Infatti quanti sono preordinati alla vita prima della fondazione del mondo sono stati eletti in Cristo ed è sempre in lui che abbiamo la caparra della nostra elezione se lo riceviamo ed accettiamo per fede. Che cosa

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infatti cerchiamo nell’elezione se non la vita eterna? E noi l’abbiamo in Cristo che è stato la vita sin dal principio e ci è offerto per la vita affinché quanti credono in lui non periscano ma abbiano vita eterna. Se dunque possediamo Cristo mediante la fede abbiamo la vita in lui, non abbiamo bisogno di investigare oltre la decisione della vita eterna di Dio; Cristo non è solo uno specchio nel quale c’è riflessa la gloria di Dio, ma è una caparra con cui la vita ci è come suggellata e confermata39.

3.3. La “scolastica protestante”.

Il termine ‘scolastica’, lo abbiamo già visto, sta solitamente a indicare quella corrente della filosofia medioevale, variamente articolata, la quale s’impegnò a sistematizzare secondo schemi organici e coerenti, l’enorme patrimonio della letteratura biblica e patristica dei secoli precedenti. Il modello di ogni compilazione era il filosofo greco Aristotele (sec. IV a.C.) il quale, specialmente nei suoi trattati di logica, aveva insegnato l’arte e la tecnica del ragionamento non solo coerente con la realtà presa in esame ma anche coerente in sé stesso e tra le sue parti. Il fondamento era il sillogismo, uno schema di ragionamento che si basava su tre proposizioni: due premesse e una conclusione. Ad esempio: se A è maggiore di B e B è maggiore di C, vuol dire che A è maggiore di C; oppure: se Antonio è più anziano di Mario e Mario è più anziano di Luigi, si conclude che Antonio è più anziano di Luigi.

Scolastica protestante. Dopo gli anni creativi ed esplosivi della Riforma, orientativamente nei decenni che vanno dal 1560 al 1630 si determinò negli ambienti che alla Riforma avevano aderito un’esigenza di sistemare tutta l’eredità biblica, patristica, riformata ricevuta in sistemi di pensiero coerenti. La grande sfida era quella di adattare una pletora di dati scritturistici, diversissimi per epoca e contesti di composizione, entro un’unica cornice di pensiero e secondo schemi che ricalcavano il procedere del sillogismo. Insomma nasceva la stagione delle “teologie sistematiche”.

A stimolare questa produttività concorsero svariati fattori. Da un lato la naturale esigenza dell’uomo di dar assetto armonico

39 Il catechismo di Calvino a cura di V. Vinay, Pinerolo 1935, pp. 35-36.

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al proprio ragionare, dall’altro la volontà d’interpretare e di trasmettere la lezione dei riformatori, dall’altro – e non fu causa secondaria – la necessità di far fronte alle critiche mosse dai pensatori cattolici della Controriforma. In prima fila, tra questi, il teologo e cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621) con la sua grande erudizione e il suo ancor maggiore desiderio di passare all’attacco non limitandosi ad arginare il diluvio protestante ma impegnandosi a cancellarlo del tutto da quei vasti territori un tempo fedeli alla Chiesa di Roma. Lo stile espositivo e controversistico di Bellarmino era sistematico e sillogistico, altrettanto si richiedeva, dunque, da parte protestante.

La scolastica protestante si sviluppò sia in ambiente luterano che calvinista, ma in quest’ultimo ebbe maggiormente a prosperare a motivo del rigore razionale che caratterizzava già la pagina del riformatore ginevrino. Se prendiamo in considerazione l’enorme produzione teologica dell’epoca possiamo individuare alcuni ingredienti costanti. Tra questi un ricorso al ragionamento logico al quale veniva riconosciuto rilievo quasi pari al dettato scritturistico. Si procedeva ponendo alcune premesse che apparivano più solide concettualmente e da queste si facevano derivare per deduzione conclusioni su temi correlati e secondari. Quest’arma era maggiormente impiegata a confutazione delle tesi degli avversari. I tomi che uscivano dalla penna erudita di questi teologi apparivano più simili ai trattati di filosofia che alle esposizioni scritturistiche. Ad esempio il problema della predestinazione, che in Calvino era stato presente ma non predominante, nella riflessione scolastica dei calvinisti acquisì una posizione centrale e occupò grande spazio nelle trattazioni relative alla natura e al carattere di Dio.

Il grande sogno degli scolastici protestanti e, in particolare, dei calvinisti era quello di ridurre la grande e varia policromia della Bibbia che, ricordiamolo, non è un libro bensì una biblioteca, a un’unità espositiva, a un sistema di pensiero dove ogni tessera del mosaico doveva essere assegnata al posto giusto. Non intendiamo dire che presso gli scolastici l’ossequio per la ragione era maggiore della sottomissione alla Scrittura, ma sta di fatto che il ricorso alla Bibbia era caratterizzato da un’ansia di organicità e coerenza. Se

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paragoniamo questa produzione letteraria a quella dei tempi eroici della Riforma notiamo che in quest’ultima prevale una fresca e torrentizia corrente di pensiero che, inebriata dalla riacquisita libertà, spazia sulle ali della fede e dell’impeto missionario, laddove nella produzione scolastica v’è sovente pedanteria e ansia di sistemare, ora limando ora smussando angoli, la quale conduce a sistemi che per preservare la loro coerenza interna non prestano soverchia, anzi dovuta, attenzione alla varietà delle voci bibliche. Insomma, potremmo paragonare gli scritti biblici (e gli appelli profetici dei riformatori) a un lussureggiante giardino nel quale l’impeto della natura fa liberamente fiorire una infinita quantità di alberi e di fiori che inebriano con il loro olezzo, laddove la produzione degli scolastici ci rammenta quei manuali di botanica che si sforzano di racchiudere le svariate meravigliose creazioni di Dio nei ristretti schemi di un tomo dalla tipografia.

3.4. La predestinazione nella tradizione calvinista.

Il riformatore ginevrino Giovanni Calvino, come abbiamo già rilevato, era un ottimo conoscitore della letteratura patristica. Egli si pose sulla scia di Agostino d’Ippona e, radicalizzandola, ne sviluppò la dottrina della predestinazione con una logica tanto rigorosa quanto severa. Dunque egli ritenne che Dio prima ancòra dell’inizio di ogni cosa avrebbe decretato l’eterna dannazione dell’umanità caratterizzata da una condizione di peccato, cioè di trasgressione della Sua volontà. Una condizione che, principiando dalla trasgressione di Adamo, si sarebbe a pioggia riversata sull’intero genere umano. Egli, però, avrebbe anche destinato alcuni a salvarsi da tale orribile destino. Questa dottrina si chiama della doppia predestinazione volendo dire che Dio non si è limitato a deliberare la salvezza di alcuni ma che è “passato oltre” la condizione di peccato e di perdizione di tutti gli altri, lasciando che essa producesse i suoi naturali esiti di dannazione e tormento eterno.

Una radicalizzazione della dottrina della doppia predestinazione, che caratterizza l’ipercalvinismo, vuole invece che Dio abbia deciso e predestinato alcuni (la maggioranza) all’eterna dannazione e ciò con un preciso e positivo atto di volontà,

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diremmo affine e parallelo con l’altro in virtù del quale ha eletto coloro che saranno salvati.

Mi permetto di osservare che, a proposito della dottrina della predestinazione, la differenza tra calvinismo e ipercalvinismo è questione bizantina e sofisticata: anche nel caso in cui Dio non decida di dannare ma “passi oltre” il destino della massa dannata, questo non ben definito passare oltre cos’altro sarebbe se non un compiere un’azione deliberata e voluta coscientemente. E poi nel caso di Dio, che oltre a essere onnisciente è anche onnipotente per definizione, come si potrebbe concludere diversamente?

L’elezione di Dio a salvezza oppure a condanna, secondo il pensiero di Calvino, sarebbe avvenuta senza alcun riguardo (e senza alcun rapporto di preconoscenza) al carattere, ai comportamenti, alle scelte dei salvati e dei condannati. La selezione poggiava soltanto sull’insindacabile e sovrana volontà di Dio e doveva considerarsi giusta proprio in quanto da Dio voluta.

Il noto storico e teologo dell’Università di Berlino, Jsaac August Dorner nella sua accurata e vasta Storia della teologia protestante, così sintetizza il pensiero calvinista:

Affinché i reprobi potessero precipitare al loro destino, Iddio li privò dell’opportunità di ascoltare la Parola ovvero li accecò e li induri mediante la predicazione medesima di essa, poiché molti divennero ancòra più ciechi mediante la luce di Cristo e ancora più sordi mediante la Sua voce. Perché Iddio fece così?... Qualunque cosa Iddio voglia, dev’esser considerata giusta poiché Egli la vuole40.

Sovralapsari e infralapsari. Si pone ora il problema di stabilire se Dio abbia così voluto prima della caduta (in latino: lapsus) di Adamo oppure successivamente a questa. E qui le strade dei calvinisti si dividono:

Per i sovralapsari Dio avrebbe decretato ogni cosa anteriormente alla caduta di Adamo e, per tanto, questo (sciagurato)

40 Traggo la citazione da H. M. Hughes, Principi fondamentali del cristianesimo, trad. it., Roma 1932, pp. 242-243.

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evento sarebbe stato a tale scopo pure voluto da Dio al fine di realizzare il Suo piano.

Per gli infralapsari Dio avrebbe pronunciato il Suo decreto soltanto dopo la caduta.

Non è chiaro per quale degli orientamenti Calvino si sia pronunziato.

3.5. Confessioni di fede della scolastica riformata (calvinista).

La diffusa e ferrea volontà di definire un pensiero teologico produsse tra i riformati d’orientamento calvinista tutto un fiorire di confessioni di fede. Erano testi a cui ci si doveva necessariamente piegare pena la dichiarazione di eresia con tutte le prevedibili conseguenze. Noi qui ne ricorderemo solo alcune e limitatamente al tema della predestinazione che ci sta a cuore41.

1559: Confessione di fede gallicana: Noi crediamo che da questa generale

corruzione e condanna in cui sono immersi tutti gli uomini Dio ritira coloro che, secondo il Suo eterno ed immutabile consiglio, ha eletto per Sua bontà e misericordia nel nostro Signore Gesù Cristo, senza alcuna considerazione per le loro opere, lasciando gli altri in questa corruzione e condanna, per mostrare in essi la Sua giustizia, come nei primi fa risplendere le ricchezze della Sua misericordia. In effetti, gli uni non sono migliori degli altri finché Dio non li distingue secondo il Suo immutabile disegno che Egli ha stabilito in Gesù Cristo prima della creazione del mondo e nessuno, d’altronde, potrebbe introdursi ad un tale bene con le sue proprie forze, visto che per natura non possiamo avere un solo buon movimento, sentimento o pensiero, fino a quando Dio non ci abbia anticipati e ci abbia a ciò disposti.

1561: Confessione di fede belgica: Crediamo che, essendo tutta la discendenza di

Adamo precipitata in tal modo nella perdizione e nella rovina a causa del peccato del primo uomo, Dio si è

41 In corsivo alcune frasi di particolare rilevanza.

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dimostrato quale egli veramente è, cioè misericordioso e giusto: misericordioso, ritirando e salvando da questa perdizione coloro che, nel suo eterno e immutabile consiglio, ha letto e scelto per sua pura bontà in Cristo Gesù nostro Signore, senza alcuna considerazione per le loro opere; giusto, lasciando gli altri nella rovina e nella perdizione in cui si sono precipitati.

1566: Confessione di fede elvetica posteriore: ...Quando si dice nelle Scritture o sembra che Dio

faccia qualche male, questo non significa che l’uomo non fa alcun male, ma che Dio, nel suo giusto giudizio, tollera che il male sia fatto e non lo impedisce, male che tuttavia egli avrebbe potuto impedire se lo avesse voluto, o perché fa ben usare del male degli uomini, come si è servito dei peccati dei fratelli di Giuseppe, o perché egli governa i peccati degli uomini, affinché non debordino oltre il necessario. A questo proposito, s. Agostino, nel suo Enchiridion, dice: “Anche ciò che si compie contro la volontà di Dio, in un modo meraviglioso e ineffabile non si realizza affatto indipendentemente dalla sua volontà; non avverrebbe, infatti, se egli non permettesse che avvenisse. Ora egli non lo permette per forza, ma di sua spontanea volontà. E colui che è sommamente buono non permetterebbe che avvenisse il male se non perché, essendo onnipotente, può trarre il bene dal male”. Ecco ciò che dice al riguardo. Per il resto, riguardo alle altre questioni, cioè se Dio abbia voluto che Adamo peccasse o se lo ha spinto alla caduta e alla trasgressione o perché non abbia impedito la sua caduta e altre questioni simili, noi le mettiamo nel numero delle domande indiscrete, se l’improntitudine degli eretici non ci costringesse a giungere fino ad esse e ad esporre anche queste cose nella misura in cui esse sono prese in considerazione dalla parola del Signore, come ne hanno trattato spesso i fedeli dottori della chiesa. Insomma, noi sappiamo che Dio ha proibito all’uomo di mangiare il frutto proibito e che ha punito la trasgressione di questo suo ordine (Gen. 2:17); sappiamo, inoltre, che i mali che avvengono non sono affatto dei mali dal punto di vista della provvidenza, della

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volontà e potenza di Dio, ma che sono tali solo riguardo a satana e alla nostra volontà contraria e ribelle alla volontà di Dio.

1643-1646: Confessione di fede di Westminster: Poiché Dio ha ordinato a gloria gli eletti, così Egli,

con un sommamente libero ed eterno proposito della Sua volontà, ha stabilito tutti i mezzi necessari per realizzare questo obiettivo. Di conseguenza coloro che sono stati eletti, essendo decaduti in Adamo, sono redenti da Cristo; vengono efficacemente chiamati alla fede in Cristo tramite l’opera dello Spirito, il quale opera a tempo debito; vengono giustificati, adottati, santificati, nonché custoditi dalla Sua potenza mediante la fede in vista della salvezza. Nessuno al di fuori degli eletti viene redento da Cristo, viene chiamato efficacemente, giustificato, adottato, santificato e salvato. Secondo l’inscrutabile consiglio della propria volontà per il quale Egli accorda o nega la misericordia come vuole per la gloria della sua potenza sovrana sulle sue creature, è piaciuto a Dio di tralasciare il resto dell’umanità e destinarlo a disonore e ad ira per il suo peccato, a lode e gloria della sua giustizia.

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Capitolo quarto

La controversia con Arminio

Le polemiche intorno alla dottrina della predestinazione che infiammarono l’Olanda protestante nelle prime decadi del Seicento si presentano fuse e confuse con accadimenti di storia politica. Ciò non deve meravigliarci poiché quasi sempre nella storia della cristianità si sono riscontrati questi perniciosi intrecci. Molto, troppo spesso interessi di tipo esclusivamente politico hanno assunto la maschera della controversia dottrinale ed hanno usato l’alibi della “sana dottrina” per eliminare individui o gruppi scomodi. La controversia arminiana non fa eccezione alla regola. All’inizio del Seicento l’Olanda, dopo aver abbracciato i princìpi della Riforma protestante, era una roccaforte del calvinismo. Questa dottrina veniva professata in una forma che forse potremmo definire moderata: era detta ‘condizionata’ poiché si credeva che i predestinati da Dio alla salvezza ottenessero la loro finale destinazione a condizione della loro perseveranza nella fede. Tuttavia alcuni calvinisti radicali, formatisi alla scuola di Ginevra, erano giunti nei Paesi Bassi ed avevano imposto il Catechismo di Hidelberg e la Confessio Belgica dove, specialmente in quest’ultima, si professava la dottrina della elezione incondizionata: Dio avrebbe portato a termine il Suo proposito di salvezza in ogni caso, anche se la persona si fosse opposta alla Sua grazia e, d’altro canto, avrebbe comunque lasciato perire i non eletti.

Giacobbe Arminio (1560-1609) era un convinto seguace di Calvino, aveva studiato dapprima a Leida (1575-1582), poi era stato a Ginevra alla scuola di Teodoro di Beza e ad Amsterdam a quella di Grineo. Era stato finalmente chiamato a insegnare teologia a Leida. Qui tra i calvinisti s’infiammava la polemica tra infralapsari e sovralapsari dei quali abbiamo già parlato prima. Ricordiamolo: ambedue credevano che Dio avesse stabilito perdizione e salvezza a chi riteneva con suo insindacabile giudizio.

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Per gli infralapsari la decisione era stata presa dopo la caduta di Adamo, per i sovralapsari ancor prima di questa e, di conseguenza, tale sciagurato evento sarebbe stato da Dio voluto e predisposto al fine di adempiere i Suoi piani. Quest’ultima dottrina era quella condivisa da Beza, antico maestro di Arminio. Ad Arminio fu affidato il còmpito di difenderla contro gli attacchi formulati dal teologo Teodoro Kornhert.

Man mano che Arminio approfondiva la questione si rendeva conto degli aspetti insostenibili di ambedue gli orientamenti, in particolare: se Dio avesse determinato la caduta di Adamo per perfezionare il Suo piano sarebbe stato Egli stesso colui che aveva creato o, almeno, provocato il male. In ogni caso in questi orientamenti calvinisti la grazia di Dio ne usciva limitata a un solo gruppo laddove, inoltre, l’aspetto etico dell’agire umano veniva del tutto negletto. Arminio mise per iscritto le risultanze delle sue riflessioni mai prevedendo che queste avrebbero suscitato reazioni scomposte che si sarebbero protratte ben oltre la sua morte avvenuta nel 1609. L’ortodossia calvinista non faceva sconti a nessuno e nel 1572 era giunta persino ad armare la mano di bande di naviganti olandesi che avevano trucidato a Gorcum ben diciannove sacerdoti e monaci cattolici impiccandoli e mutilandone poi i cadaveri. Il raccapricciante episodio, ancòra una volta, si inquadra nel contesto delle lotte politiche tra Olanda e Spagna e attesta orribilmente come la religione possa fare da alibi al fine di perpetrare stragi e come l’integralismo possa diventare terreno di coltura per la violenza.

A insorgere contro Arminio fu un suo collega dell’università di Leida, Francesco Gomar (1563-1641). Possiamo congetturare che gelosie professionali abbiano agito da catalizzatore positivo sull’infuriare delle polemiche. Così Gomar giungeva ad argomentare:

Nel primo atto o momento, Dio volle condannare alcune creature razionali, ma non poteva condannarle se non fossero esistite; nel secondo momento decretò la creazione dell’uomo; ma avrebbe dovuto condannarlo giustamente (cioè con motivazione) e per questo era necessario che l’uomo peccasse, quindi lo creò senza peccato e gli impose alcune leggi; nel terzo momento determinò

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che le trasgredisse. In questo modo assicurò il fine della creazione, cioè la condanna di creature razionali per la sua gloria.

Arminio morì nel 1609 ma le sue istanze furono portate avanti da suoi discepoli. Tra questi vanno ricordati almeno Simone Episcopio (1583-1643) e Ugo Grozio (1583-1645), quest’ultimo filosofo e giurista di gran valore, considerato il fondatore del moderno Diritto Internazionale. Anche due importanti uomini di governo si schierarono a favore di Arminio: l’Oldenbarneveldt (1547-1619) e il governatore (statholder) Maurizio di Nassau (1567-1625). Questi ultimi si sarebbero poi in sèguito contrastati per motivi di egemonia politica, così che Maurizio di Nassau sarebbe diventato il più acerrimo avversario degli arminiani.

Un anno dopo la morte del loro maestro, nel 1610, gli arminiani sintetizzarono in cinque punti il loro pensiero e, dopo averlo fatto sottoscrivere da quarantacinque ministri di culto, presentarono il documento al parlamento degli Stati Generali. Queste proposizioni sono conosciute come Rimostranze (remonstrances) e, pertanto, i loro sostenitori vennero appellati ‘remostranti’. Eccole in sintesi:

1. Elezione condizionale: Dio ha esercitato la Sua volontà di eleggere a salvezza o meno in previsione (preconoscenza) della fede o meno degli uomini.

2. Espiazione universale: Iddio volle che l’espiazione compiuta da Gesù in croce avesse valore per tutti gli uomini, benché non tutti si salvino.

3. Necessità della rigenerazione: affinché gli uomini possano compiere buone opere è necessario che precedentemente abbiano sperimentato la rigenerazione.

4. Salvezza condizionata: la grazia di Dio è indispensabile per ogni atto della vita spirituale, però non è irresistibile, cioè all’uomo viene riconosciuta la capacità di rifiutare i benefici di tale grazia.

5. Perseveranza dei santi: L’opera della grazia divina e l’aiuto dello Spirito santo sono indispensabili per vivere cristianamente e per resistere al peccato, tuttavia l’uomo

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può anche volgere le spalle a tale aiuto e decadere dalla sua beata condizione.

Gli anni che vanno dal 1610 al 1618 videro dei tentativi di conciliazione, ma furono tutti frustrati. A niente valse neanche una Risoluzione di pace con la quale si chiedeva di non insistere su tali controversie. I calvinisti erano determinati a veder riconosciute le loro convinzioni come uniche vere e non esitarono a invocare anche la scomparsa fisica dei loro avversari ove mai le ragioni della dialettica avessero fallito.

Vi fu una saldatura tra Guglielmo di Nassau e il teologo Gomer e questa velocemente e violentemente valse a far prevalere le ragioni calviniste. Si incominciò con la carcerazione degli avversari, come l’Oldenbarneveldt e persino il rinomato giurista Grozio.

Il Sinodo di Dordrecht o Dort. Fu il governatore Guglielmo di Nassau a convocare un sinodo dirimente nella citta di Dordrecht. I lavori si protrassero dal 13 novembre del 1618 al 29 maggio del 1619. I ‘rimostranti’ (seguaci di Arminio) non furono introdotti come parte da ascoltare ma furono collocati sul banco degli accusati oppure allontanati. A far la parte del leone furono teologi calvinisti fatti giungere da diversi paesi tra cui la Svizzera, l’Inghilterra, la Scozia, la Transilvania e la Germania. Non mancò anche un italiano: Giovanni Diodati (1576-1649) che da non molto aveva completato la sua classica traduzione della Bibbia in lingua italiana. Diodati partecipò in quanto rappresentate di Ginevra e pur tenendo saldi i princìpi calvinisti si distinse per la moderazione dei toni e per il suo appello a non esercitare una severa censura sulla stampa dei volumi.

Durante i mesi in cui si lavorò furono esposte punto per punto le dottrine professate dai rimostranti (arminiane). In corrispondenza di ciascuno dei loro cinque capi si esposero le tesi calviniste e la condanna delle connesse tesi contrarie. Queste convinzioni costituiscono i Canoni del sinodo calvinista di Dort del 1618-1619 che andarono ad aggiungersi alle confessioni di fede calviniste di cui abbiamo già parlato. Eccoli:

1. Depravazione totale.

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Si vuol intendere che l’essere umano nasce inguaribilmente avversario di Dio, preda indifesa del peccato, totalmente incapace di sollevarsi aiutando se stesso. Dunque soltanto l’iniziativa di Dio e il Suo intervento possono redimerlo. Fin qui la dottrina poteva considerarsi condivisa dagli altri corpi evangelici, tuttavia i calvinisti affermarono che lo stato di depravazione dell’uomo comportava la rigenerazione del peccatore prima ancòra che egli iniziasse a credere in Cristo; così la rigenerazione non si limitava a rendere il peccatore capace di credere ma, in modo irresistibile, induceva il peccatore a credere.

2. Elezione incondizionata. Si vuol intendere che il destino di dannazione o di salvezza non dipende dall’uomo ma esclusivamente dal decreto di Dio il quale è assoluto, incondizionato, insindacabile. La salvezza è condizionata dalla fede, ma anche questa è soltanto un dono di Dio. Dio, per eleggere a salvezza, non tiene conto del merito dell’uomo, delle sue azioni buone o di una previsione che costui avrebbe creduto. Il dono della salvezza per alcuni implica, comporta e corre parallelo al decreto di condanna eterna per tutto il resto dell’umanità che viene così predisposta all’ira finale di Dio. Dunque in forza di un decreto di Dio e al fine della Sua gloria, alcune persone sono predestinate alla vita eterna in maniera incondizionata, mentre altri sono lasciati (o forse anche deliberatamente condannati) alla morte eterna a motivo dei loro peccati. Sono così formate due categorie di persone ben distinte di fronte alle quali categorie non è possibile né pensabile alcun cambiamento. Secondo alcune forme radicali di calvinismo Dio avrebbe deciso di dar gloria al Suo nome proprio destinando a suo arbitrio alcuni individui all’eterna beatitudine e altri all’eterna dannazione pertanto, per perseguire questo scopo, Egli avrebbe deciso di creare il mondo e avrebbe predisposto la tentazione e la caduta di Adamo ed Eva.

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3. Redenzione limitata. Si vuol intendere che il sacrificio in croce di Gesù, in virtù della fede nel quale riceviamo salvezza, è efficace soltanto per coloro che sono stati predestinati alla salvezza e non per il resto dell’umanità (che è destinato alla dannazione). Possiamo dunque parlare di “redenzione particolare”. In effetti Cristo sarebbe morto soltanto a beneficio dei predestinati alla salvezza portando su di sé e al loro posto la punizione che costoro avrebbero dovuto meritare.

4. Grazia irresistibile. Si vuol intendere che anche se l’individuo decide di resistere alla grazia di Dio (cioè non vuole aprire il suo cuore al Vangelo) egli necessariamente sarà piegato dalla volontà sovrana di Dio e non potrà sottrarsi al destino per lui sancito. Per gli eletti la salvezza è inevitabile. Dio condurrà coloro che Egli ha eletto incondizionatamente, e per i quali (soltanto) Gesù è morto, alla fede in Cristo, e ciò avverrà in modo irresistibile. Qui si prospetta un paradosso: Dio sceglie che costoro scelgano di credere! Dunque se Dio fa a tutti proclamare il Vangelo (appello generale) egli lo rende irresistibile soltanto a coloro che ha predestinato (appello effettivo). Coloro che Dio non ha scelto rigetteranno per loro scelta il vangelo e altrimenti non potrà essere.

5. Perseveranza dei santi. Si vuol intendere che chi è stato da Dio destinato a salvezza non potrà mai venire meno al suo destino. Se poi peccherà, necessariamente avrà una finale riconciliazione. Se quest’ultima non avrà luogo vuol dire che egli non era stato realmente destinato alla salvezza. In definitiva la salvezza è opera esclusiva di Dio, dall’inizio alla fine. La perseveranza non dipende dal credente il quale può vacillare e venir meno peccando per un certo tempo, essa si basa piuttosto sulla continua grazia di Dio.

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Ecco l’articolazione del corpus di argomentazioni conosciuto come i Canoni di Dordrecht:

De divina praedestinatione et annexis ei capitibus: 27 canoni con 18 articoli e la condanna di nove errori.

De morte Christi et hominum per eam redemptione: 16 canoni con 9 articoli e la condanna di sette errori.

De hominis corruptione et conversione ad Deum, eiusque modo: 26 canoni con 17 articoli e la condanna di nove errori.

De perseverantia sanctorum: 24 canoni con 15 articoli e la condanna di nove errori.

La condanna finale fu severissima: gli arminiani furono riconosciuti come corruttori della religione, distruttori dell’unità della chiesa, pervicaci autori di gravissimi scandali. Vennero privati dei loro uffici ecclesiastici o dei loro impieghi. Furono dichiarati indegni di insegnare fintantoché non avessero soddisfatto quanto richiesto dalla chiesa (calvinista) con un serio pentimento provato senza ombra di dubbio con discorsi, azioni e impegno in senso contrario (alle loro eresie).

Fioccarono condanne pesanti. l’Oldenbarneveldt fu condannato a morte. Trecento ministri di culto furono multati, incarcerati o esiliati. Ugo Grozio fu condannato a orribile ergastolo, dal quale però poi riuscì a evadere.

Giuseppe Gangale (1898-1978), filosofo protestante italiano e convinto calvinista ebbe a scrivere su questo sinodo che fu “L’ultima parola di difesa integrale, di testardaggine eroica, irragionevole del calvinismo”42.

Nel 1625, alla morte di Maurizio di Nassau gli successe il fratello Federico Enrico il quale non volle prestarsi a far da braccio scolare ai calvinisti e, pertanto, consentì una maggiore tolleranza. Così ai seguaci di Arminio fu possibile ritornare in Olanda e ad Amsterdam, dov’era rientrato nel 1632, Episcopio organizzò una sua scuola. Dopo essere stato esiliato, a sèguito della condanna sinodale, Episcopio si dedicò alla stesura dei suoi trattati teologici tra i quali spicca l’Apologia pro confessione e la Responsio contro 42 G. Gangale, Calvino, Roma 1927, p. 59.

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i teologi di Leida; di lui rimangono anche parti delle Institutiones, opera che però non fu completata. Episcopio nei suoi discorsi e nei suoi trattati volle opporsi alla legnosa teologia calvinista nella quale ravvisava un intellettualismo astratto che conduceva a conseguenze radicali; nella sua visione la fede cristiana, più che in una rigida dommatica, doveva tradursi in sentimento interiore, in una costante tensione etica che rendeva l’essere umano responsabile.

Come s’è già accennato accanto all’aspetto teologico v’è anche quello di storia sociale da tener presente nella controversia d’Olanda. Qui, infatti, ebbero anche a fronteggiarsi due diverse maniere di concepire lo sviluppo dell’economia e dell’assetto di società e politica. Da un lato i calvinisti che rigorosamente s’attardavano nella polemica contro le ingerenze spagnole e, pertanto, contro la dottrina cattolica che ne costituiva l’anima ideologica, dall’altro i rimostranti che volevano avviarsi a investire nell’apertura verso idee, traffici e movimenti nuovi di persone. Insomma una nuova borghesia emergente. Quest’ultima vide la sua soccombenza teologica ma ebbe poi la sua rivalsa in politica quando, di lì a poco, l’Olanda divenne terra di tolleranza e, con questa, di grande prosperità economica. La mefitica alleanza tra calvinismo e potere politico non sarebbe infatti sopravvissuta alla fine del secolo. Il protestantesimo, nato come impeto di libertà interiore, non avrebbe potuto sopravvivere come sistema intollerante e come agente di repressione.

Possiamo concludere rilevando che l’arminanesimo non diede luogo a una chiesa organizzata. Tuttavia questa scuola di pensiero fu enormemente influente sul futuro del movimento protestante, come vedremo a breve. Possiamo individuare due direttrici di sviluppo: da un lato una tendenza razionalista che avrebbe condotto a posizioni unitariane 43 , dall’altro un’enfasi evangelistica sulla responsabilità del peccatore di accettare responsabilmente la grazia salvifica di Dio che sarebbe stata caratteristica specifica dei grandi risvegli evangelici e delle missioni dei successivi secoli.

43 L’unitarianesimo è un indirizzo teologico che nega la divinità di Cristo e, pertanto, la dottrina della Trinità.

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Arminianesimo, in ogni caso, divenne sinonimo di tolleranza religiosa e l’Olanda, voltate le spalle al rigoroso calvinismo e alla violenza con cui questo reprimeva il dissenso, si dispose ad essere un’oasi di tolleranza e ad accogliere una rilevante quantità di pensatori di diversi indirizzi i quali in questa terra trovavano la libertà per professare le proprie idee che nei loro paesi era invece impedita.

Per completare il quadro dobbiamo dire che se l’Olanda si avviò verso un clima di tolleranza, a Ginevra i rigori del calvinismo persistettero più lungamente.

Risale agli anni successivi la controversia arminiana e la condanna di Dort, l’attività di teologo del francese Mosè Amyraut (1596-1664). Costui fu avviato agli studi di giurisprudenza ma rimase affascinato dalla lettura delle Istituzioni di Calvino e decise di dedicarsi alla teologia. Divenuto docente all’Accademia teologica di Samur nel 1633, già nel 1634 pubblicò un suo Trattato sulla predestinazione nel quale mitigava i rigori della originaria dottrina calvinista e ciò anche al fine di difendere quest’ultima dalle agguerrite confutazioni cattoliche che allora circolavano in Francia. Il sistema teologico di Amyraut è conosciuto come amiraldismo o “calvinismo dai quattro punti” poiché rifiuta la dottrina secondo la quale l’efficacia della redenzione di Cristo sarebbe limitata ai soli eletti. In altri termini egli insegnò che il sacrificio di Cristo aveva originariamente efficacia redentiva a beneficio di tutta l’umanità: questa fu la prima disposizione di Dio anche se una successiva Sua disposizione pose come condizione l’esercizio della fede che però Dio stesso suscitava. Dunque grazia universale, ma elezione particolare. Inoltre Amyraut insegnava che l’individuo umano aveva la capacità naturale di credere, ma non aveva la disponibilità a credere a motivo della sua natura corrotta; dunque la grazia di Dio sarebbe intervenuta sulla volontà rendendola disponibile.

La diffusione delle idee di Amyraut suscitò tanto consensi in Francia quanto dissensi a Ginevra. A confutazione delle sue dottrine in questa città fu messo in campo il teologo di origini italiane (lucchesi) Francesco Turrettini (1623-1687). Con il Turrettini ci troviamo di fronte a uno strenuo difensore dei Canoni di Dirt e del calvinismo più coerente. Egli si consacrò a confutare

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le tesi dell’Accademia di Samur e di Amyraut. La sua Institutio Theologiae Elencticae vide la luce a Ginevra negli anni 1679-1685; è opera monumentale basata sull’antico metodo scolastico della quaestio a cui segue la responsio. Della scolastica, questa volta protestante, l’opera rappresenta l’acmé, il punto più alto, tutta sorretta da ragionamenti, sillogismi, premesse e conclusioni. Laddove Calvino qualche problema l’aveva pur lasciato aperto, il Turrettini ha voluto tutto definire e sistemare talché lo si considera comunemente l’esponente più significativo dell’ortodossia calvinista. Il primum teologico da lui stabilito è il “decreto di Dio” e da questo Turrettini fa discendere, con ricorso a citazioni scritturistiche, le tesi della doppia predestinazione e della grazia immeritata. Per impegno del Turrettini si ebbe la vigenza di una delibera della Venerabile Compagnia con la quale veniva vietato parlare della grazia universale di Cristo, della non imputabilità del peccato di Adamo, della possibilità di conoscere Dio tramite le opere della natura, della possibilità che i decreti di Dio possano essere irrevocabili.

Colpi di coda di una ‘politica’ ecclesiastica che avrebbe voluto imporre l’ortodossia attraverso decreti e condanne. Di lì a non molto nel mondo di lingua francese il Settecento avrebbe fatto irruzione come “secolo dei lumi” portando teismo e razionalismo. Nel mondo di lingua inglese, invece, questo Settecento avrebbe avuto un volto evangelico ed evangelistico, non in forza di decreti e condanne ma in virtù della predicazione wesleyana della grazia che abbraccia chiunque si disponga a credere.

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Capitolo quinto

John Wesley, teologo ed evangelista

5.1. John Wesley: chiamata e ministero.

Nella storia del cristianesimo riformato44 (ed evangelico) è centrale la figura di John Wesley (1703-1791). A sèguito della sua conversione e della sua vasta ed efficace azione missionaria ebbe luogo il famoso risveglio detto ‘metodista’ che infiammò non solo la Gran Bretagna del Settecento ma, in sèguito, le colonie americane d’oltreoceano e un po’ tutto l’evangelismo. Con Wesley la predicazione venne efficacemente rivolta a persone molto lontane da uno stile di vita cristiano, essa consisteva nella proclamazione dell’amore di Dio verso tutti i peccatori, nell’appello ad accettare la grazia salvifica, nell’esperienza della nuova nascita e della successiva santificazione. Riconosciamo in queste tappe il carattere della moderna predicazione evangelistica. Da questo filone di teologia e di vita cristiana, negli Stati Uniti d’America, nell’Ottocento sarebbero nati i Movimenti di Santità e da questi, agli inizi del secolo successivo, il movimento pentecostale.

All’epoca in cui Wesley nacque la Chiesa Anglicana era caratterizzata da formalismo e secolarizzazione. Enormi folle di diseredati erano costretti a miseri lavori, prevalentemente nelle miniere, per tirare a campare, sovente prede dell’alcol e di ogni vizio. La chiesa appariva lontana dalla società e i suoi circoli d’intellettuali sembravano parlare soltanto al loro interno. Il Settecento inglese fu caratterizzato da due fenomeni paralleli: la rivoluzione industriale, indotta dall’introduzione delle prime macchine e dall’organizzazione del lavoro a catena di produzione, e l’illuminismo inteso come metodo d’indagine della realtà, anche riguardante le cose di religione, basato esclusivamente sulle capacità dell’intelletto. La predicazione wesleyana seppe porre

44 Il vocabolo non è usato qui nel senso tecnico di ‘calvinista’, bensì

nell’accezione generale di seguace della Riforma.

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argine all’una e all’altra deriva coinvolgendo gli emarginati nell’esperienza di salvezza e presentando un Dio non concepito come puro raziocinio (alla maniera dei teisti45) ma che sapesse riscaldare il cuore della gente e guidarne la vita in ogni loro passo.

Dal punto di vista religioso la Chiesa d’Inghilterra era esposta a tre diverse influenze o, se così preferiamo, metodi per addivenire a una più compiuta identità. Da un lato l’influenza tradizionalista, liturgica ed episcopale che la riconduceva al modello cattolico, sia pur epurato dalle derive di obbedienza al papa di Roma; dall’altro il modello riformato continentale nel quale faceva la parte del leone il calvinismo con le sue pretese di sistematicità dottrinale e di esclusivo possesso della verità; la terza via era costituita dal non farsi condizionare da questi due poli opposti ma nel collegarsi direttamente alla vita della chiesa primitiva, abbracciando tutto il patrimonio neotestamentario e anche quello patristico purché non confliggesse con i precetti biblici. Wesley si pose in quest’ultima corrente così da essere chiamato Homo unius libri, cioè “uomo di un libro solo”, con allusione al fatto che si fondava e rimaneva saldo nelle Scritture. I suoi seguaci, chiamati, ‘metodisti’ erano scherzosamente designati come “le tignole della Bibbia” proprio per quel loro ricorrere di continuo all’insegnamento del sacro volume.

John Wesley nacque figlio di un ministro della Chiesa Anglicana, ma fu dall’insegnamento della madre, Susanna, che derivò un intimo ardente desiderio di Dio. Ebbe a cura il compimento dei suoi studi universitari nei quali eccelse. Fu infatti studente a Oxford insieme al fratello Charles (1707-1788) compositore di una infinità di inni religiosi che ancora oggi gioiosamente cantiamo. Ad Oxford i due riunirono un gruppo di colleghi studenti desiderosi di approfondire l’insegnamento biblico, di curare la propria pietà personale e di attendere a buone opere di carità. Per la loro metodicità nell’attendere a tutti questi

45 Il teismo è una corrente filosofica razionalista che concepisce la divinità

non con i caratteri della persona ma come un principio razionale che pervade e guida l’universo. Non lo si confonda con l’ateismo il quale nega l’esistenza di qualsivoglia divinità.

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còmpiti furono detti metodisti, nome che passerà poi a indicare i membri della chiesa che sarebbe originata dal lavoro dei Wesley.

Per comprendere l’essenza del messaggio wesleyano dobbiamo prestare attenzione ad alcuni momenti salienti della vita di John. Dopo essere stato ordinato pastore egli s’imbarcò per le colonie americane con il còmpito di evangelizzare gli indiani d’America. La sua fu un’esperienza frustrante. Di ritorno in Inghilterra la nave sulla quale viaggiava si trovò in una situazione di estremo pericolo. John rimase meravigliato dalla composta serenità di un gruppo di viaggiatori che apparteneva alla comunità dei Fratelli Moravi. Più tardi volle approfondirsi sulle peculiarità della loro fede e venne in contatto con il punto centrale della loro religiosità: l’incontro personale con Gesù e la piena fiducia nella grazia salvifica di Dio. Così, tornato a Londra, la sera del 24 maggio del 1738, alle ore 20,45, mentre attendeva a un culto dei Fratelli Moravi, il suo cuore si sentì insolitamente riscaldato alla lettura della prefazione di Lutero all’Epistola ai Romani: era l’esperienza della “nuova nascita”, cioè dell’accettazione di Gesù come proprio personale salvatore. Prima lezione: cristiani non lo si nasce, né lo si diviene studiando la Bibbia o essendo ordinato pastore; si diventa discepolo di Gesù aprendo il proprio cuore al Suo Vangelo! La fede in Gesù, e questa soltanto, aveva reso giusto John Wesley, e ciò era avvenuto in virtù non di un atto liturgico ma di un incontro personale: erano così poste le basi per la predicazione evangelistica del ‘risveglio’!

Poco dopo a John si aggiunse il fratello Carlo, nell’esperienza di salvezza che coincideva anche con quelle di potente testimonianza. A loro si associò George Whitefield (1714-1770) di ritorno da un soggiorno in America.

La predicazione dei primi metodisti non avvenne nel chiuso delle cappelle bensì all’aperto. L’appello alla conversione era rivolto principalmente a quelle folle che più vivevano lontane dal vangelo e oppresse dal vizio o da una vita grama: emarginati dei quartieri popolari di Londra, minatori della Cornovaglia o marinai avvinazzati del porto di Bristol, per citare solo alcuni esempi. Il metodismo, tuttavia, non ebbe carattere esclusivamente popolare: Wesley sapeva trovarsi perfettamente a suo agio tra folle di

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diseredati così come tra esponenti dell’aristocrazia locale. Il Vangelo era veramente universale e non v’era classe sociale o individuo che ne dovesse rimanere escluso.

5.2. La controversia con i calvinisti.

A questo punto bisogna dire che il rapporto con George Whitefield iniziò ad andare in crisi a motivo delle profonde convinzioni calviniste di quest’ultimo. La controversia tra Whitefield e Wesley offrì a quest’ultimo lo spunto per analizzare più approfonditamente il problema della predestinazione, specialmente come era emerso a sèguito della controversia arminiana sorta in Olanda nel secolo precedente e della quale abbiamo già parlato. Wesley prese decisamente le distanze dalle posizioni calviniste e, a proposito dei temi della grazia, della salvezza e della predestinazione, pervenne alla formulazione di punti di fede che così possiamo riassumere:

1. Il “decreto di Dio” era portare a salvezza tutti coloro che Egli già sapeva avrebbero poi conservato la loro fede in Gesù Cristo fino alla morte; di conseguenza ci sarebbe stata la condanna di coloro che Dio già sapeva che avrebbero continuato a non credere in Cristo ed a contrastare il suo appello alla salvezza fino alla fine della loro vita.

2. Gesù Cristo, con la Sua morte, fece espiazione dei peccati di tutto il genere umano; tuttavia soltanto i credenti avrebbero potuto partecipare a tali benefici divini.

3. Nessuno può da solo o con le forze della propria volontà generare la fede; l’uomo essendo di natura malvagio e incapace tanto di pensare quanto di fare il bene, ha bisogno di essere rigenerato da Dio, e ciò avviene

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per amore di Cristo e per opera dello Spirito Santo.

4. Questa grazia o energia divina che rigenera l’uomo è quella stessa che poi perfeziona tutto quanto si possa chiamare buono in lui. Tuttavia questa grazia non costringe nessuno contro la sua stessa volontà, infatti la volontà di chi la riceve può anche contrastarla o respingerla.

5. Coloro che vengono uniti a Cristo, sono forniti di grazia sufficiente al fine di poter vincere il peccato; tuttavia è possibile per l’uomo venir meno, perdere la grazia acquisita e decadere finalmente dal suo stato di grazia.

Va detto che Wesley pur tenendo saldi questi punti non ne fu mai un sostenitore fanatico e intollerante. È significativo l’episodio che coinvolse il signor Acourt, un metodista che aveva abbracciato le dottrine calviniste sulla predestinazione. Egli le andava predicando con insistenza nei circoli metodisti presentandole come l’unica corretta interpretazione delle Scritture. Tutto ciò suscitava tensioni nella sua comunità e per tale motivo Charles lo aveva allontanato. Successivamente Acourt si presentò a una riunione dove si trovava John e gli chiese se fosse stato espulso dal circuito metodista a motivo delle sue convinzioni. John cadde dalle nuvole e gli chiese quali fossero queste convinzioni. Sùbito Acourt rispose proclamando la dottrina della doppia predestinazione dei reprobi e dei santi, decretate prima di ogni tempo da Dio senza riguardo alcuno ai soggetti interessati e in più affermò che anche altri tra i metodisti di ciò erano persuasi. John rispose ammettendolo di nuovo nel gruppo ma chiedendogli di non turbare l’armonia dello stesso suscitando dispute in merito. A questo punto fu Acourt a tirarsi fuori protestando che il suo era il vero vangelo e che non avrebbe potuto fare a meno di correggere gli altri i quali erano tutti nell’errore.

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La risposta di Wesley fu lapidaria, dolce ma ferma: «Io temo che l’intervenire alle radunanze con tale scopo non recherà vantaggio né a voi né a noi». E così confermò la sentenza di esclusione46.

Questo episodio può dirsi significativo ed esemplare di una differenza netta di atteggiamento tra il ‘fronte’ calvinista e quello arminiano – welseyano. Per quest’ultimo, pur con piena convinzione delle proprie tesi, è possibile che un credente onori Dio e gli sia fedele professando la dottrina della predestinazione; al contrario un convinto calvinista non si disporrà mai ad ammettere che un arminiano abbia il diritto di professarsi tale e nello stesso tempo considerarsi fedele al messaggio biblico. Bisogna vigilare affinché questa differenza di atteggiamento non faccia qua e là capolino anche tra le file di noi evangelici dell’Italia odierna.

Al di là dell’episodio (marginale ma significativo) che abbiamo ricordato, la controversia tra Whitefield e Wesley sulla predestinazione diede lo spunto a quest’ultimo di precisare la sua posizione di fede e ciò avvenne prendendo sempre più le distanze dai rigori del calvinismo. Ne è testimonianza un’accorata predica di Wesley dal titolo Free grace (Libera grazia), pronunciata a Bristol nel 1740. La controversia, portata avanti tra conversazioni, sermoni e lettere non poté comporsi. Così dai due grandi predicatori si produssero due distinti movimenti. Tuttavia si trattava di due uomini autenticamente di Dio, trasformati e plasmati dalla grazia, strumenti potenti per l’avanzamento del Regno di Dio. Prima di morire Whitefield espresse il desiderio che a celebrare l’orazione funebre sarebbe stato il suo antico fratello John Wesley e così avvenne nel settembre del 1770 tra la generale commozione. Questo è un esempio di tolleranza al quale si dovrebbe guardare anche oggi!

Proprio in questo stesso 1770 a Londra, in una conferenza dei predicatori metodisti, si sollevò di nuovo una controversia a motivo del predestinazionismo calvinista. Questa volta i protagonisti erano gli antinomiani. Quest’ultimo complesso vocabolo è di

46 Per questo episodio cfr. E. Piggot, Breve storia del metodismo, Padova

1868, pp. 102-103.

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derivazione greca, dove la parola nomos significa legge. In parole povere antinomiano è sinonimo di persona che contrasta la legge.

Alcune persone, infatti, portavano alle estreme conseguenze la dottrina calvinista della perseveranza dei santi; erano cioè persuase che niente e nessuno avrebbe mai potuto mettere in crisi il loro destino di salvati, determinato da Dio e da lui decretato prima d’ogni cosa, a prescindere d’ogni cosa, anche dal comportamento del soggetto beneficiato. Da ciò costoro facevano derivare un certo lassismo per quanto riguarda il compimento di buone opere che sembravano loro non esser proprio da prendersi in considerazione ai fini della salvezza. Questa tesi venne condannata dall’assemblea; se ne redasse un verbale dal quale emergeva la necessità di compiere buone opere da parte del credente: in effetti una fede che non comporta frutti operativi congrui poteva mai essere considerata autentica? Questo verbale, messo in circolazione, offrì ai calvinisti lo spunto per accusare le guide del movimento di Wesley di tendenze filocattoliche poiché era proprio della dottrina cattolica la convinzione del merito agli occhi di Dio connesso alla realizzazione di buone opere. Si ebbe un fiorire di accuse e la faccenda pervenne anche alle orecchie della contessa di Huntington, una ricchissima nobildonna d’animo profondamente religioso che s’era messa al sèguito della predicazione di Whitefield. La conferenza metodista di Bristol, celebratasi l’anno successivo, offrì lo spunto per una chiarificazione: giammai era stato insegnato che la salvezza fosse acquisibile in virtù di buone opere, né tantomeno che queste fossero meritorie agli occhi di Dio; la salvezza era per grazia e in forza di questa soltanto e tuttavia non si dava un’autentica esperienza di salvezza se non tradotta in opere buone le quali, in realtà, costituiscono per così dire il lato tangibile e concreto di quella fede che è moto interiore dell’anima.

Al di là delle dichiarazioni, delle verbalizzazioni e degli accomodamenti rimaneva da sciogliere un nodo sostanziale, e questo rinnovava l’antica opposizione tra calvinismo e arminianesimo. Paladino di questa seconda fase della controversia fu il reverendo John William Fletcher (1729-1785), un ministro

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metodista di origine svizzera 47 considerato universalmente un uomo di Dio. Egli parlava e scriveva con il beneplacito di Wesley e così compose una serie di lettere indirizzate ai calvinisti, le raccolse in un tomo al quale mise il titolo generale di Checks to Antinomianism, cioè Argini all’antinomianismo. Sono scritti sorretti ad un tempo da una robusta vena controversistica e da una profonda pietà personale. Fletcher, tra l’altro, chiarì quella dottrina propria del metodismo relativa alla santificazione e parlò della seconda opera della grazia nel credente, successiva alla conversione, come del Battesimo di Spirito Santo. Sotto questo aspetto John Fletcher viene considerato l’antesignano del movimento pentecostale il quale, pertanto, già vediamo come nasca in una culla arminiano wesleyana.

5.3. Santificati davvero, o solo ‘dichiarati’ tali?

Giova dir qualcosa in merito alla dottrina della santificazione la quale, nell’economia del pensiero e dell’esperienza metodista, presenta medesimo valore di quella della salvezza ed a questa è intimamente connessa. Abbiamo visto come l’uomo nasca peccatore e sia incapace di recare salvezza a sé stesso. Interviene quindi l’opera della grazia preveniente, cioè che prepara i cuori alla conversione. Si ha la nuova nascita che comporta la giustificazione al cospetto di Dio. Da questo punto inizia una vita nuova, un percorso che conduce il credente a modellarsi secondo l’immagine di Cristo, questo processo si chiama santificazione e c’impegnerà lungo tutto l’arco dell’esistenza. Chi ha creduto in Gesù ed ha sperimentato la salvezza in Lui, ha realizzato il perdono dei propri peccati e, tuttavia, continua a lottare contro il peccato, inteso (al singolare) come una tendenza spontanea a preferire la propria volontà a quella di Dio. Questa è una lotta ìmpari e l’uomo è impotente a risolverla se non, ancòra una volta, in virtù della grazia di Dio. La grazia di Dio irrompe nella vita di chi è già credente dandogli la forza di mettere sul proprio trono interiore non già un ego arrogante, bensì Dio e la Sua volontà. Ecco la vittoria

47 Il suo nome originale era Jean Guillaume de la Flechère, nato a Noyon

presso Losanna.

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sul peccato da intendersi non come assicurazione che il credente non sarà più tentato o non potrà più avere cedimenti e imperfezioni. Possiamo però dire che il piano di Dio è ora completo, cioè perfetto in quanto erogato in pieno: Dio ha realmente vinto per noi sul peccato e ciò è accaduto in questa vita terrena!

L’esperienza della seconda opera della grazia, desunta dalle Scritture, dall’esperienza di tanti santi e dalla teologia metodista viene variamente chiamata. Per Wesley era la santificazione completa, detta anche la perfezione cristiana da intendersi non come perfezione umana ma come perfezionamento, cioè completamento, del piano di Dio per ogni uomo che a Lui si affidi. Per Fletcher, come sarà poi per i pentecostali, era il Battesimo, cioè l’immersione nello e dello Spirito Santo. Sotto questo punto di vista metodisti e pentecostali sono perfettamente allineati e in sinfonia, anche se per i primi l’evidenza è prioritariamente una vita rinnovata con i frutti dello Spirito e potenziata dall’opera dello stesso, per i secondi è costituita dal segno esteriore del parlare in lingue. Tuttavia un pentecostale non dovrebbe limitarsi al segno esteriore ma dovrebbe mettere in conto anche (e forse principalmente) la trasformazione interiore, la purificazione del cuore; così come un metodista non potrebbe escludere che tra i doni della grazia sovrana possa talvolta anche esservi quello misterioso ma pur contemplato dalle Scritture, della glossolalia.

A questo punto, sia pur in breve parentesi, dovremo chiamare in causa la dottrina cessazionista secondo la quale i doni e i carismi che caratterizzavano i primissimi tempi della chiesa, quelli di cui, per intenderci, Paolo parla nella sua Prima epistola ai corinzi, sarebbero cessati dopo quegli anni e mai oggi potrebbero aver luogo poiché il motivo del loro operare è venuto meno. Questa dottrina, per parlarci chiaramente, condanna senza mezzi termini l’insegnamento e la spiritualità pentecostale, colpendolo nel cuore. Il cessazionismo è tipico del pensiero riformato calvinista ma non necessariamente rientra nel sistema di pensiero wesleyano o dei movimenti di santità: anzi, le cronache delle primitive predicazioni metodiste, così come dei risvegli di santità ottocenteschi sono piene di episodi dove vediamo all’opera i diversi carismi che si

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dispiegano in una dimensione che potremmo definire ‘miracolistica’.

Soffermiamoci brevemente a sottolineare alcune divergenze tra il pensiero calvinista e quello metodista. Per il primo il peccatore riceve il perdono dei peccati poiché gli vengono attribuiti i meriti di Cristo; egli è dichiarato giusto e santo ma in realtà non lo è, rimarrà sempre un peccatore e soltanto al momento della morte potrà purificarsi della sua natura corrotta. Così per un cattolico romano la purificazione avverrà tramite le pene del purgatorio che pur intervengono dopo la morte. Nel pensiero (e nell’esperienza metodista) la grazia di Dio non comporta la semplice dichiarazione di vittoria sul peccato a riguardo di un individuo che morirà invariabilmente peccatore. Al contrario la seconda opera della grazia, certamente non per meriti ma – ripetiamolo – per grazia di Dio realmente ed effettivamente cambia la natura dell’uomo e da peccatore lo rende realmente capace di essere santo, cioè aderente al modello evangelico. Chiunque ha sperimentato nella sua vita l’esperienza della conversione a Cristo e il cammino conseguente della santificazione sa bene che se prima gli era difficile vivere conformemente al modello evangelico adesso, per grazia, ha acquisito una seconda natura per cui gli viene spontaneo amare il Signore e, conseguentemente, adempiere la Sua volontà. Questo, ripetiamolo, non significa aver raggiunto la perfezione umana, ma vuol dire che Iddio ha completato il Suo piano per l’uomo che oltre al perdono dei peccati comprende la vittoria sul peccato inteso come radice amara da cui provengono cattivi pensieri e azioni.

Noi possiamo toccar con mano la differenza tra queste due posizioni, calviniste e metodiste, e tra i loro esiti ‘liturgici’, quando prendiamo in considerazione gli inni di Charles Wesley e, più in generale, della tradizione musicale metodista, salutista 48 e pentecostale: sono gioiosi e celebrano un cambiamento effettivo intervenuto nella vita di chi era lontano da Dio o celebrano non solo la salvezza sicura ma anche la vittoria sul peccato. Gli inni della tradizione calvinista celebrano solennemente la maestà sovrana di 48 Aggettivo indicante l’Esercito della Salvezza, un’organizzazione

evangelistica fondata da un pastore metodista e professante la dottrina wesleyana ortodossa della perfezione cristiana.

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Dio ma, quanto all’uomo, sembra che sia sempre in lacrimevole stato di soggezione alla sua natura greve e tendente al male. Si tratta di una differenza non secondaria poiché la teologia di una comunità è scandita negli inni che questa canta. Ecco perché bisognerebbe oggi arginare la perniciosa tendenza a cantare durante il culto strofette e piccoli motti ripetitivi proiettati su un algido schermo da un computer e corredati da un ritmo ossessivo di batterie percosse al massimo dei decibel: sono motivetti di scarsa melodia e di nessuna teologia che scadono subitamente nella banalità, quando non nell’assenza di pensiero teologico. Il ricorso a tal discutibile musicalità comporta la condanna a morte (per avvenuta dimenticanza) della bella e gloriosa tradizione innografica dell’evangelismo classico.

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Capitolo sesto

La posizione del movimento pentecostale

6.1. Il pentecostalesimo, linee storiche e princìpi teologici identitari.

In un precedente paragrafo abbiamo visto come la dottrina della seconda opera della grazia, successiva alla conversione, consista in una visitazione con potenza dello Spirito Santo nel cuore di chi già è credente. Questa esperienza conferisce nello stesso tempo potenza per il ministero cristiano e, prioritariamente, purezza del cuore: nel temperamento di chi ha creduto una nuova natura santificata si sostituisce alla precedente, che era stata caratterizzata dalla costante tirannia del peccato inteso come avversione spontanea a Dio. Inoltre, questa stessa esperienza, come abbiamo visto, è definita dal metodista John Fletcher “Battesimo di Spirito Santo”: la medesima denominazione è in uso negli ambienti pentecostali. In ciò, in questa esperienza, sta il tratto caratterizzante del pentecostalesimo.

Wesley aveva insistito sulla dottrina della perfezione cristiana (altro nome per indicare la seconda opera della grazia) e l’aveva resa elemento caratterizzante del metodismo. Aveva anche composto un trattato dal titolo eloquente: Una semplice spiegazione della perfezione cristiana 49 . Tuttavia la storia del cristianesimo c’insegna che ogni movimento di risveglio ha i suoi esordi, il suo picco massimo, la sua istituzionalizzazione e il suo declino. Così in casa metodista questo aspetto dottrinale ed esperienziale andò man mano affievolendosi. Verso la fine dell’Ottocento erano pochi i pulpiti metodisti dai quali si poteva ascoltare con l’enfasi d’un tempo il messaggio della intera santificazione.

49 Oggi lo si legge in una magistrale versione italiana con commento a cura

di Massimo Rubboli edita dai Gruppi Biblici Universitari.

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Ciò comportò negli Stati Uniti la fuoriuscita dal mainstrem metodista di molti pastori e predicatori che volevano mantenersi coerenti con l’antico insegnamento e che desideravano trasmettere con la dottrina anche l’esperienza del battesimo di Spirito Santo. Si formò così, tra campagne di evangelizzazione, risvegli e pubblicazioni d’opuscoli tutto un variegato movimento d’uomini e di denominazioni che prese il nome di Movimento di santità. Si alludeva, con questa etichetta, all’importanza che la dottrina e l’esperienza della santificazione, in puro stile wesleyano, voleva mantenere. Tra costoro non v’era né la dottrina né l’esperienza della glossolalia. La sostanza e il segno esteriore del Battesimo di Spirito era costituito dai frutti dello Spirito in una novità di vita. Tra questi movimenti vanno ricordate almeno tre denominazioni. La Chiesa del Nazareno, la Chiesa di Dio50 e l’Alleanza Cristiana e Missionaria.

In stretta collaborazione con quest’ultimo gruppo operò Michele Nardi, un italiano emigrato negli Stati Uniti il quale nella città di Chicago portò la sua testimonianza all’altro suo collega italiano Luigi Francescon che sarebbe poi stato il pioniere51 del pentecostalesimo italiano. Francescon mantenne sempre un vincolo di discepolato con il Nardi e questa relazione è un chiaro exemplum di come la teologia pentecostale derivi sic et simpliciter da quella dei Movimenti di santità e questa, a sua volta, dal metodismo. Francesco Toppi, nella sua biografia del Nardi, opportunamente asserisce che il pentecostalesimo derivò dal suo insegnamento pari pari la dottrina e l’esperienza del battesimo di Spirito Santo tranne che per il fatto di individuarlo tramite il segno esteriore del parlare in lingue52.

Molti gruppi o denominazioni appartenenti al vasto e variegato Movimento di santità si definivano ‘pentecostali’ e

50 Con quartiere generale ad Anderson nello stato dell’Indiana. 51 Naturalmente insieme ad altre figure, cfr. G. Rinaldi, Una lunga marcia

verso la libertà. Il movimento pentecostale italiano tra il 1935 e il 1955, Chieti 2017. Edizioni Gruppi Biblici Universitari.

52 Ben s’intende che ogni dottrina ed esperienza ha il suo fondamento primario nella Scrittura, tuttavia la lettura wesleyana del Nardi orientò i pionieri pentecostali ad essere tali.

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l’aggettivo era allora utilizzato in riferimento alla visitazione dello Spirito con potenza sui credenti nel giorno della festa della Pentecoste, come leggiamo nel secondo capitolo del libro degli Atti degli Apostoli, ma non comportava l’esercizio della glossolalia.

Come vuole una oramai consolidata tradizione storiografica, il primo episodio di battesimo dello Spirito Santo con il segno esteriore del parlare in lingue si ebbe con un’allieva della Scuola Biblica fondata e diretta a Topeka (nel Kansas) dal pastore metodista Charles Parham (1873-1929). Seguì poi la febbrile attività di un discepolo del Parham che poi si allontanò da costui: il predicatore di colore William J. Seymour (1870-1922) il quale, a Los Angeles, stabilì ad Azusa Street un centro di predicazione e di risveglio dove il segno e il dono delle lingue, insieme al dispiegarsi di altri plateali carismi, era all’ordine del giorno. Una più accurata ricerca storiografica, pur non cancellando queste realtà di fatto, ci persuade oggi che il fenomeno della glossolalia ebbe a manifestarsi più o meno contemporaneamente in altre parti del mondo come, per citare un solo esempio, nel Galles, regione dove era particolarmente fiorita la predicazione metodista.

L’esperienza dell’esprimersi in lingue sconosciute ebbe una diffusione rapida anche al di fuori del pur ampio contenitore metodista e di santità dove s’era originata. Anche cristiani appartenenti alla tradizione riformata, cioè calvinista, ne furono contagiati. In riferimento alla molteplicità delle provenienze di chi diventava pentecostale, si è soliti dividere due rami del pentecostalismo di allora e tale divisione la si vorrebbe far valere anche per quanto riguarda oggi:

1. Pentecostali dalle “tre esperienze”: erano coloro che, provenendo dalla tradizione wesleyana e di santità avevano già sperimentato la conversione e il battesimo di Spirito Santo inteso come seconda opera della grazia (purificazione del cuore, perfezione cristiana, intera santificazione, etc.). A queste due esperienze ora ne aggiungevano una terza ed era quella di un rivestimento di potenza dall’Alto (potremmo dire approssima-tivamente un “secondo Battesimo di Spirito Santo”).

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2. Pentecostali dalle “due esperienze”: erano coloro che, provenendo da una tradizione riformata (cioè luterana o calvinista) avevano conosciuto solo l’esperienza della giustificazione per fede (“nuova nascita”) e intendevano la santificazione come un lungo percorso spalmato lungo tutto l’arco della vita e mai terminato durante questa, bensì solo alla morte. Costoro avevano poi fatto l’esperienza del Battesimo di Spirito Santo come seconda visitazione della grazia attestata dalla glossolalia.

Questa divisione dicotomica potrebbe avere una sua ragion d’essere solo se applicata a quei lontani anni delle origini pentecostali. Oggi potrebbe valere solo nel caso (in verità esiguo quanto a numero) di un membro di una chiesa di santità che, dopo aver avuto il suo Battesimo di Spirito Santo senza il segno delle lingue, sperimenta ora la glossolalia. Ma nella stragrande, quasi totale, casistica così non è: il moderno pentecostale individua due momenti, due crisi, del suo percorso spirituale: conversione e Battesimo di Spirito Santo con il segno esteriore delle lingue; nel fare ciò non nega l’aspetto interiore e di purificazione dell’esperienza, ma individua nella glossolalia il segno esteriore dell’avvenuta esperienza. Dunque i due aspetti successivi alla conversione (crisi santificante e glossolalia) vengono fatti coincidere in un’unica esperienza nelle quale il primo aspetto è interiore, l’altro è esteriore.

A questo punto dobbiamo formulare alcuni importanti considerazioni. Anche il più fervente e convinto pentecostale dovrà ammettere che individuare l’esperienza del Battesimo di Spirito Santo esclusivamente per l’esercizio della glossolalia non solo non è corretto, ma può risultare pericoloso.

Non è corretto poiché nella storia delle religioni l’esperienza del parlare estatico (glossolalia) è ricorrente in molte tradizioni; basterà citare tra le moltissime attestazioni il fenomeno della mantica oracolare pagana: qui il ‘profeta’ era invasato ed esprimeva i suoi responsi in linguaggio poco chiaro, interveniva poi l’interprete che, appunto, dava senso e significato a quanto detto interpretandolo. Possiamo ritenere con buon margine di probabilità che molti problemi vissuti dalla comunità di Corinto alla quale

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Paolo scrisse derivavano da un passato pagano dei propri membri, abituati a un esercizio della glossolalia che, in quanto pagano, confondeva in chiesa idee e prassi relative al culto. Ogni sana teologia pentecostale dovrà ammettere che più ancòra importante del “segno esteriore” è la “realtà interiore” dell’esperienza la quale andrà ricercata in un conferimento di potenza dall’Alto. Ora, ci domandiamo, la potenza dello Spirito nella vita del credente che funzione ha? La risposta è semplice: il potenziamento della vita cristiana stessa e del ministero, dunque – inevitabilmente – una purificazione della vita interiore, una vittoria sulla natura peccaminosa, una nuova natura più a immagine e somiglianza di Cristo. Il Battesimo di Spirito Santo o si sostanzia in quest’opera interiore oppure è solo un appariscente dispiegamento di fonemi inarticolati.

Così riconduciamo in dottrina l’essenza del messaggio (e dell’esperienza) pentecostale alla sua radice wesleyana e di santità, come già avevamo fatto, su ottima base documentaristica, sotto il profilo della storia.

6.2. Esiste una teologia pentecostale?

Siamo pronti ora ad affrontare un altro tema del quale oggi si discute molto, specialmente nella nostra Italia evangelica. Esso può ridursi a un interrogativo: il pentecostalesimo ha una sua teologia oppure questa deve considerarsi un pensiero fluido? Non mancano, infatti, coloro i quali credono che l’esperienza pentecostale si risolva in un’enfasi nella predicazione, in preghiere gridate, in linguaggi ermetici, insomma in decibel in eccesso e platealità di gesti. Coloro che pervengono a questa diagnosi provengono prevalentemente da studi sociologici i quali, per loro stessa natura, si avvalgono delle ricostruzioni storiche soltanto in via secondaria mentre sono attenti a fenomeni, dati quantitativamente misurabili, assetti politici e così via. Il dramma è che anche tra alcuni pentecostali (che pure hanno preso la penna in mano e scritto!) serpeggia la convinzione d’esser privi di una spina dorsale teologica.

La conseguenza di quanto sopra è ben chiara e necessaria: il pentecostale che avverte l’esigenza di dotarsi di una riflessione

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critica e organica sulla sua identità, nella falsa convinzione di non aver nessun oppure scarso bagaglio dottrinale, si dispone a diventar allievo di chi parla più forbitamente oppure ostenta autorevolezza di teologo. Questi profili di maestri eternamente in cerca di discepoli numerosi e docili abbondano un po’ dovunque, ma la teologia riformata (leggasi: calvinista) è una vera e propria fonte perenne per la produzione di siffatti educatori. E tutto ciò perché, come abbiamo visto, il calvinista è da sempre proclive a sistematizzare il proprio pensiero in sistema coerente e poi si dispone a ritenere questo (e questo soltanto) la “retta dottrina” che si proclama fondata sulla Bibbia e di questa rispettosa ma, nella realtà dei fatti e della umana psicologia, è considerata alla stregua della Bibbia.

Incamminandosi su tale strada ed alla scuola di siffatti maestri, il pentecostale - tipo ha la sensazione di crescere enormemente in conoscenza. In realtà egli acquisisce e sviluppa una identità dottrinale che non appartiene al suo naturale DNA. È qualcosa di simile a un organismo geneticamente modificato. Diciamocelo chiaramente: viene colonizzato da chi trova buon gioco nella sua scarsità di preparazione adeguata e, fatto ancòra più grave, nella sua errata consapevolezza di non avere radici teologiche.

Ho assistito spesso a fenomeni di sdoppiamento ministeriale: un predicatore pentecostale che professa personalmente i dogmi del calvinismo ma che, nell’esercizio del suo ministero di evangelista o di predicatore, è perfettamente aderente al modello risvegliato wesleyano! E non parlo qui, per carità di patria, di quanto avviene a livello di ‘base’, dove la dottrina della sicura predestinazione di pochi eletti, della loro granitica sicurezza nella grazia, della condanna dell’universo mondo peccaminoso ingenera in un credente dalla psicologia fragile e friabile una ipertrofia dell’ego, un senso di infallibilità e di arroganza che sfiora il ridicolo quando non connota il tragico di una situazione comportamentale e, prima ancòra, mentale.

Prendiamo ora in considerazione l’argomento dal quale siamo partiti. La predicazione pentecostale si caratterizza per alcuni suoi tipici aspetti i quali la includono, senza ombra di

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dubbio, nella tradizione arminiana e wesleyana piuttosto che in quella calvinista:

a. L’appello alla conversione rivolto specialmente a coloro che più vivono lontani dal modello cristiano; l’enfasi con cui si chiede a chi ascolta di aprire il suo cuore al messaggio esercitando di fatto un’azione di volontà pur se sorretta da quella che Wesley chiama “grazia preveniente”. Infatti una critica ricorrente ai predicatori di risveglio è proprio quella di far troppa leva sulla capacità di scelta personale, su una decisione da prendere. Billy Graham, recentemente scomparso, pur avendo ricevuto elogi trasversali da vari ambienti evangelici, è sembrato a osservatori riformati (leggasi: calvinisti) portatore di un messaggio troppo caratterizzato dalla fiducia nella libertà e nella capacità di scelta dell’ascoltatore.

b. L’idea di santificazione come percorso da compiersi lungo tutto l’arco della vita ma che ha, tuttavia, un suo momento di ‘crisi’, puntuale e determinato: il Battesimo dello Spirito Santo. Ora la dottrina della santificazione come processo ma anche come crisi è tipica della tradizione dottrinale ed esperienziale del metodismo, mai del calvinismo.

c. La dottrina di un’azione dello Spirito che realmente trasforma la vita concedendo, per grazia di Dio e questa soltanto, la vittoria sul peccato. Ora nella tradizione wesleyana il credente è realmente, effettivamente, concretamente, tangibilmente cambiato: la sua è una santità vera, non come nella tradizione calvinista secondo la quale a chi crede la santità è solo imputata, come nel caso di un processo penale che termina con la concessione della grazia, lasciando l’imputato libero, sì, ma sostanzialmente come prima.

d. Il continuo appello alla perseveranza e la convinzione che un credente, sia pur salvato e anche battezzato con lo Spirito santo, possa mettere in pratica per sua scelta una

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condotta riprovevole e decadere dalla grazia. La dottrina che sta a monte di questa convinzione è l’esatto opposto di quella calvinista che abbiamo definito della perseveranza dei santi.

e. Come se tutto ciò non bastasse si tenga presente che un tratto caratterizzante della teologia calvinista, il cessazionismo, costituisce un’antitesi diretta e palese a ogni forma di pentecostalesimo.

f. Per il calvinista è di grandissimo rilievo l’impianto dottrinale laddove nella spiritualità protestante l’aspetto interiore, emotivo ed esistenziale siede in prima fila, pur non facendo a meno, come abbiamo visto, di una teologia con chiare coordinate.

Questi sono solo alcuni casi nei quali dottrina e prassi del pentecostale palesemente divergono da quelle di un buon calvinista. Certo non sono mancati, e non mancheranno in futuro, casi di esponenti del mondo pentecostale che hanno aderito al sistema calvinista e io stesso ho presentato al lettore italiano il saggio del pastore R. T. Kendall il quale, muovendo da posizioni wesleyane ha fatto propria l’esperienza della glossolalia in stile pentecostale e si è ‘convertito’ alla teologia calvinista: Fuoco sacro. Uno sguardo biblico equilibrato all’opera dello Spirito Santo nelle nostre vite53. Qui, in ogni caso, emerge il carattere di eccezionalità di questo abbinamento della dimensione carismatica con il calvinismo come, del resto, dimostra il carattere di ‘conversione’ che presenta la scelta del Rendall. D’altro canto l’autore non entra nel merito dottrinale delle sue opzioni ma si limita a svolgere, e lo fa egregiamente, l’aspetto parenetico 54 pastorale. La sua è una testimonianza edificante non una esposizione motivata dell’adesione a una tradizione dottrinale.

Mi sembra pleonastico far rilevare al mio lettore che le riflessioni sopra sviluppate non intendono proclamare la

53 Volume edito dalla Publielim di Milano con mia prefazione all’edizione italiana dalla p. 17 alla 24. 54 Parenesi è sinonimo di ‘esortazione’.

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preferibilità di un sistema (arminiano – wesleyano) sull’altro (calvinista), bensì vogliono far presente che:

1. Si tratta di due sistemi storicamente diversi; 2. L’impianto dottrinale ed esperienziale pentecostale

s’innesta profondamente nel primo; 3. Solitamente (e questo non è un giudizio di valore ma un

dato storico) il seguace dell’orientamento arminiano wesleyano sarà più disponibile ad ammettere serenamente che si possa essere fedeli alla Bibbia pur essendo calvinisti laddove il calvinista tipo è portato a condannare un punto di vista che non sia il suo.

Prova recente di quest’ultima mia asserzione è costituita da un testo noto come Dichiarazione di Londra stilato nel 2000 da alcuni teologi appartenenti all’Alleanza Riformata Mondiale, cioè calvinisti. Il testo ha il pregio di voler reagire contro il dilagare del relativismo teologico per stabilire fermamente alcuni fondamenti di fede. Lo fa tuttavia in maniera maldestra poiché se condanna in premessa tutti coloro che mostrano una “pretesa settaria che la verità si trovi solamente al proprio interno” immediatamente dopo, però, dà la stura a un profluvio di condanne (o, se preferite, ‘respingimenti’) a destra e a manca talché si potrebbe dire che meglio avrebbero fatto i firmatari a condannare l’universo mondo cristiano ad esclusione delle loro stesse firme. Ecco una scelta delle loro ‘scomuniche’:

Respingiamo anche l’insegnamento di Barth e dei suoi seguaci moderni che la rivelazione non sia da identificarsi con le parole stesse delle Scritture… Respingiamo pertanto anche ogni forma di sinergismo o semi-pelagianismo secondo cui all’uomo viene riconosciuto un ruolo di cooperazione nella sua rigenerazione, es. Arminianesimo… Respingiamo ugualmente qualsiasi ammorbidimento della soteriologia agostiniana, es. Amiraldismo (Calvinismo “a quattro punti”), e qualsiasi indurimento, es. Iper-calvinismo… Diffidiamo di nuove comprensioni bibliche che nascono all’interno di movimenti moderni poco legati all’ortodossia storica, fra cui menzioniamo ogni forma di pentecostalismo e dispensazionalismo…

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Respingiamo quindi gran parte di ciò che oggi si fa passare per adorazione, con il suo ethos centrato sull’uomo e che mira a stimolare ed intrattenere gli “adoratori” in modo che possano sentirsi bene e benedetti. In modo specifico respingiamo lo spettacolo soggettivo e spesso disordinato dell’adorazione stile carismatico, con tutte le relative pratiche, come il presunto parlare in lingue, le profezie, le “uccisioni nello Spirito”, etc.

Semplificando e chiarificando, dunque, risultano respinti dal gruppo degli ‘illuminati’ di Londra, estensori del predetto documento, i seguenti evangelici: valdesi (in quanto seguaci di Barth), tutti coloro che si pongono nella tradizione arminiana, quindi metodisti, esercito della salvezza, chiese di santità, chiesa del nazareno, chiesa di Dio, chiese di Cristo; pentecostali (delle ADI, delle Chiese Elim, Apostolici, della Federazione delle Chiese Pentecostali, e di ogni altro raggruppamento); carismatici e, naturalmente, cattolico romani. Questo breve ma incauto testo è in realtà un rigurgito di antiche lotte teologiche che credevamo dimenticate e che, come abbiamo visto, hanno causato nei secoli scorsi incarceramenti, maltrattamenti e anche persino uccisioni. Riproporre tutto ciò oggi, per giunta all’interno della cristianità evangelica italiana, è chiara attestazione di come la presunzione di essere gli unici nel giusto faccia ancòra oggi brutti tiri. Se da un punto di vista pastorale c’è da meravigliarsi per coloro che hanno dato a questo infausto documento, non così però da quello storico se solo si riflette come siano solitamente proprio i teologi di derivazione calvinista a ritenere che il loro sistema sia l’unico attendibile e a far coincidere l’approvazione del proprio sistema con la condanna di tutti gli altri.

6.3. Calvinisti in Italia.

Prima di entrare nel merito della posizione del pentecostalesimo italiano in riferimento alla teologia di Calvino e, più in particolare, di quel suo tratto caratterizzante che viene individuato nell’insegnamento della predestinazione, vale la pena richiamare alla memoria del lettore un interessante studio del

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valdese Paolo Ricca dal titolo Il neocalvinismo in Italia nel secolo XX. È un documento facilmente reperibile e scaricabile in internet. Vi si tratta della ‘fortuna’ del riformatore ginevrino fino ai nostri giorni. La Chiesa Valdese entrò a far parte del movimento della Riforma nel lontano 1532 a sèguito della deliberazione presa nel Sinodo di Chanforan. Fu lì che si sottoscrissero i documenti dottrinali allora disponibili. I valdesi dottrinalmente gravitarono poi nell’orbita calvinista, ma è anche vero che la legnosità di quel sistema andò gradualmente diluendosi e ciò avvenne principalmente nella stagione del risveglio ottocentesco, quando si trattava di evangelizzare l’Italia facendo appello alla fedeltà al puro vangelo, alla capacità, alla necessità di accoglierlo con un impeto di libertà dalle pastoie del dominante cattolicesimo romano. Dottrine come quella della doppia predestinazione e formule come quelle uscite trionfanti dal Sinodo di Dort non erano certo il balsamo consolatore e salvifico di cui necessitavano gli italiani!

Vi fu poi un altro momento nella storia del valdismo durante il quale la teologia del teologo riformato svizzero Karl Barth fu accettata con enorme entusiasmo e modellata per gli italiani da un pastore teologo di grandi capacità come Giovanni Miegge. Il barthismo sempre più tra i valdesi si amalgamò a scelte di tipo politico che resero l’immagine originale di Calvino elemento pressoché residuale. Un testo di agevole lettura come La predestinazione di Giorgio Tour ravvisa l’esito del dibattito su questa dottrina nella riformulazione compiuta da Barth.

Seguendo la già citata ricerca di Ricca, si individuano in Italia studiosi evangelici attenti alla lezione di Calvino. Il primo a essere ricordato è quel Giuseppe Gangale, battista, che ne pubblicò una pregevole biografia nel lontano 1927. L’ansia del Gangale era quella di modellare una cultura evangelica adatta all’Italia degli anni suoi e il sistematico Calvino gli appariva un esempio non sempre nel merito ma sovente nel metodo. Altri interpreti di Calvino, alla luce della lettura che ne aveva fatto Barth, in casa valdese sono stati, oltre al già citato Giovanni Miegge, Vittorio Subilia e Valdo Vinay, prevalentemente interessati ai temi dell’etica politica.

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Paolo Ricca riferisce anche che con tutt’altra lunghezza d’onde in Italia, a far data dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, un’accanita pattuglia di neocalvinisti si riunisce intorno al progetto dell’Istituto di Formazione e Documentazione Evangelica di Padova zelantemente promosso dai pastori Bolognesi e De Chirico. Dall’iniziativa è nata una denominazione di battisti riformati (CERBI) che onestamente proclama di attenersi alla Confessione di fede battista del 1689 e quindi porta l’orologio della storia del calvinismo italiano ben prima della svolta barthiana dei valdesi e si pregia di attenersi a un ritratto teologico calvinista più omogeneo all’originale (che abbiamo qui tentato di rappresentare nelle pagine precedenti). Il neocalvinismo di questo centro di studi e della connessa denominazione si attiene al rigore sistematico che non ammette alternative di un Francesco Turrettini, del quale l’IFED cura un benemerito progetto di pubblicazione integrale della vasta opera. È convinzione di questi fratelli nostri neocalvinisti che la loro visione sia l’unica fedele interprete non solo della Riforma ma anche della Scrittura stessa; costoro, con coerenza conseguenziale, di tale parere intendono rendere persuasi la nostra galassia evangelica italiana la quale invece non è, per sua storia e sostanza identitaria, calvinista o lo sarebbe soltanto in piccola, molto piccola parte, posto che il mondo valdese ha un ‘suo’ Calvino paradossalmente “poco calvinista” e che le maggioritarie denominazioni evangeliche affondano le loro radici teologiche, più o meno inconsapevolmente, nella tradizione arminiana: è il caso delle Assemblee di Dio e dei pentecostali tutti, dei metodisti, dell’Esercito della Salvezza, delle Chiese di Santità, delle Chiese di Cristo e anche delle Assemblee dei Fratelli presso i quali la (salutare) diffidenza verso trattazioni dogmatiche si abbina di fatto non raramente a simpatie dispensazionaliste.

Un’opera di formazione e, pertanto, di rispettoso servizio vorrebbe che le denominazioni siano aiutate a maturare secondo i loro princìpi identitari di partenza e non recependo modelli teologici loro estranei per natura ed esercizio, come un calvinismo partorito a Ginevra, sistematizzato a Dordrecht, corroborato sulle sponde del lago Michigan negli USA e rimbalzato in Italia.

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6.4. La galassia pentecostale in Italia

La storiografia sul movimento pentecostale italiano è ai suoi albori. Ne traccio un sintetico profilo in due miei diversi scritti al quale il lettore interessato potrà ricorrere con profitto. In generale si è ricostruita la vicenda che ha portato alla costituzione delle Assemblee di Dio, dapprima da parte di Roberto Bracco55, poi, principalmente, di Francesco Toppi56 e, in ultimo da chi scrive57 e da un promettente gruppo di ricercatori che mi ha recato vivo piacere presentare al pubblico dei lettori58. Si attende ancòra una simile ricostruzione storica che riguardi il mondo pentecostale non ADI, che pure merita attenzione per dinamismo ed esemplare impeto missionario.

Se la riflessione storica è avviata non possiamo dire altrettanto per quella teologica per la quale ancòra si rileva un debito verso testi in lingua inglese che vengono tradotti. Ma sono, questi, testi prevalentemente edificanti che non storicizzano quanto detto ma prevalentemente si sostanziano in centoni di citazioni bibliche.

Passiamo ora brevemente in rassegna gli articoli di fede delle principali denominazioni pentecostali italiane, limitatamente al tema della salvezza. Si nota immediatamente l’assenza di ogni accenno alla predestinazione o a qualcosa che a questa possa essere vagamente assimilata. E ciò a dimostrazione, ove mai ve ne fosse ulteriore bisogno, della lontananza della teologia pentecostale da quella calvinista.

6.3.1. Assemblee di Dio in Italia. Lineamenti dottrinali delle Assemblee di Dio in Italia

consistono in articoli di fede la cui formulazione attuale fu approvata nella XXVII Assemblea Generale svoltasi nel 1979 con ulteriori precisazioni ratificate successivamente dalla XXXVIII

55 R. Bracco, Il risveglio pentecostale in Italia, Roma 1955. 56 F. Toppi, E mi sarete testimoni. Sommario di storia del movimento

pentecostale e delle Assemblee di Dio in Italia, Roma 1999 57 G. Rinaldi, Una lunga marcia verso la libertà. Il movimento pentecostale

dal 1935 al 1955, Chieti 2017. 58 Di Iorio – S. Esposito – A. Iovino, Liberi per servire, Marchirolo 2017.

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Assemblea Generale del 1999. Esse, nelle intenzioni degli estensori e della denominazione, «riproducono nella sostanza quelli accettati nel primo Convegno Nazionale, tenutosi a Roma nel lontano ottobre 1928, che fu in realtà l’Assemblea Costitutiva delle nostre Chiese». A corredo dei brevissimi articoletti vi sono «note esplicative intendono chiarire ulteriormente la nostra professione di fede che è sempre stata, e rimane, cristiana, evangelica e di fede pentecostale»:

Crediamo che soltanto il ravvedimento e la fede nel prezioso sangue di Cristo, unico sommo sacerdote, siano indispensabili per la purificazione dal peccato di chiunque lo accetta come personale salvatore e signore59. Segue l’integrazione esplicativa:

L’uomo fu creato da Dio senza peccato, come essere morale e libero, quindi con potere di scelta. Tuttavia egli cadde per una trasgressione volontaria incorrendo così non soltanto nella morte fisica, ma anche in quella spirituale, che è separazione da Dio. Per questa ragione, per riconciliarsi con Dio, l’uomo ha bisogno della purificazione dal peccato, che si ottiene mediante il ravvedimento come aspetto umano della salvezza e al quale esortava Cristo con le parole: “Ravvedetevi e credete all’Evangelo”. Il ravvedimento non è un atto esteriore e formale che si collega a qualche rito particolare, ma è mutamento di mente e di cuore, è pio dolore per il peccato commesso e decisione di abbandonarlo per sempre. Questa decisione è accompagnata dalla fede attiva donata da Dio al credente che si dispone ad accettare Cristo come Salvatore. Infatti, questa fede, o fiducia totale, nell’opera redentrice che Cristo ha compiuto sulla croce versando il Suo sangue e donando la Sua vita per il peccatore, non viene da noi ma è il dono di Dio.

La dottrina delle Assemblee di Dio in Italia ha una impostazione decisamente arminiana e ciò è dimostrato anche dal

59 Citazioni bibliche a corredo: Romani 3,22-25; Atti 2,28; 1 Pietro 1,18; Efesini 2,8.

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fatto che la casa editrice denominazionale nel 2014 diede alle stampe la traduzione italiana del testo di Brian Abasciano I fatti della salvezza. Dottrine bibliche della grazia. L’autore è un autorevolissimo esponente della Society of Evangelical Arminians le cui opere sono gratuitamente fruibili sul sito internet evangelicalarminians.org

6.3.2. Chiese Elim in Italia. Due brevi articoli trattano, rispettivamente, del genere umano e della salvezza:

5. Il genere umano. Crediamo nella universale peccaminosità di tutti

gli uomini a causa della caduta, che rende l’uomo soggetto all’ira ed alla condanna di Dio. 6. La salvezza.

Crediamo nella necessità della salvezza tramite il pentimento verso Dio e la fede nel Signore Gesù Cristo, mediante i quali il peccatore è perdonato ed accettato come giusto agli occhi di Dio. Questa giustificazione è imputata per la grazia di Dio a causa dell’opera espiatoria di Cristo, è ricevuta solamente per fede ed è manifestata dal frutto dello Spirito e da una vita santa.

6.3.3. Movimento delle Chiese Cristiane Evangeliche Nuova Pentecoste

Ancòra più stringati gli articoli di fede concernenti la purificazione dal peccato e la rigenerazione:

6. Crediamo che l’unico mezzo di purificazione dal peccato sia il ravvedimento e la fede nel prezioso sangue di Gesù

7. Crediamo che la rigenerazione (nuova nascita) per opera dello Spirito Santo è essenziale per la salvezza.

6.3.4. Congregazioni Cristiane Pentecostali Una brevissima dichiarazione relativa alla salvezza:

Il perdono dei peccati e la purificazione sono prerogativa di Dio e si ottengono con il ravvedimento e la fede nell'opera espiatoria di Gesù Cristo.

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6.3.5. Federazione delle Chiese Pentecostali.

Una semplice affermazione di fede come base comune nel riconoscimento dei credi delle singole denominazioni federate:

Giustificazione per fede ed opera rigeneratrice dello Spirito Santo.

6.3.6. Chiesa Apostolica in Italia. Dal loro sito internet:

Crediamo che ogni uomo sia lontano da Dio come conseguenza del peccato originale che opera in noi, che siamo tutti peccatori meritevoli solo del giudizio divino e che le nostre opere, per quanto lodevoli, saranno sempre come “panni sporchi” agli occhi Suoi, ma che Dio come un Padre ha avuto pietà del nostro misero stato, ci ha cercati, ci ha donato la vita eterna in Cristo Gesù il Figlio, “Agnello di Dio” che ha pagato sulla croce per tutti i peccati di chi crede in Lui, e ci ha salvati per grazia, non per meriti nostri.

Sarà interessante riportare anche le dichiarazioni di fede di

due denominazioni che si collocano nella scia della tradizione arminiano wesleyana:

6.3.7. Esercito della Salvezza.

1. Noi crediamo che il Signore Gesù Cristo, mediante il proprio sacrificio, abbia espiato il peccato di tutto il mondo, affinché chiunque creda sia salvato.

2. Noi crediamo che il pentimento verso Dio, la fede nel nostro Signore Gesù Cristo e la rigenerazione mediante lo Spirito Santo, siano necessarie alla salvezza.

3. Noi crediamo alla giustificazione per grazia mediante la fede nel nostro Signore Gesù Cristo, e il credente ne porta la testimonianza in se stesso.

4. Noi crediamo che il mantenersi salvo (in stato di grazia) dipenda dalla fede perseverante ed obbediente in Cristo.

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Si noti come nell’art. 1 si proclami il valore universale dell’espiazione di Cristo e come nell’art. 4 si affermi la dottrina della indispensabile perseveranza dei santi per mantenersi nello stato di grazia.

6.3.8. Chiesa del Nazareno.

Gli articoli di fede pertinenti sono molto elaborati e saldamente ispirati alla dottrina wesleyana:

Articolo V. Il Peccato originale e quello personale: Noi crediamo che il peccato venne nel mondo a

motivo della disubbidienza dei nostri progenitori e che col peccato venne anche la morte. Crediamo, inoltre, che il peccato sia di due tipi: peccato originale o corruzione della natura umana e peccati individuali o azioni contrarie alla volontà di Dio. Noi crediamo che il peccato originale sia quella corruzione della natura di tutti i discendenti di Adamo a causa della quale ognuno si trova lontano dalla perfezione originale o stato di purezza in cui i nostri progenitori si trovavano quando furono creati. È in opposizione a Dio, senza vita spirituale, e continuamente propenso al male. Crediamo inoltre che il peccato originale continui ad esistere nella vita nuova della persona rigenerata finché il cuore non viene completamente purificato con il battesimo nello Spirito Santo. Noi crediamo che il peccato originale differisca dal peccato individuale in quanto costituisce una propensione ereditaria al peccato individuale; crediamo inoltre che nessuno sia responsabile del peccato originale fino a quando non rifiuti e trascuri deliberatamente il suo rimedio divinamente provveduto. Noi crediamo che i peccati individuali, invece, consistano nelle violazioni, da parte di persone moralmente responsabili, di una legge conosciuta di Dio. È evidente, dunque, che non bisogna confondere questi peccati con le involontarie e inevitabili imperfezioni, malattie, fallimenti, errori, mancanze o altre deviazioni da uno standard perfetto di comportamento, che sono gli effetti residui del peccato di Adamo. Tali effetti residui innocenti, infatti, non

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implicano necessariamente atteggiamenti o risposte contrarie allo Spirito di Cristo, i quali soltanto possono appropriatamente definirsi peccati. In conclusione noi crediamo che il peccato individuale sia prima di tutto ed essenzialmente una violazione della legge dell’amore; e che, riferito a Cristo, il peccato possa essere definito come incredulità60.

Articolo VI. Espiazione: Noi crediamo che Gesù Cristo, mediante le Sue

sofferenze, il versamento del Suo sangue e la Sua morte meritoria sulla croce, abbia compiuto l’espiazione completa per tutti i peccati dell’umanità, e che la sua espiazione sia l’unica causa della nostra salvezza e che essa sia sufficiente per ogni individuo della progenie di Adamo. Questa espiazione è efficace, per grazia di Dio, per la salvezza di coloro che sono incapaci di agire in modo eticamente responsabile e dei fanciulli nello stato d’innocenza; coloro che raggiungono l’età della responsabilità individuale, per ottenere la salvezza devono accettarla mediante il pentimento e la fede61.

Articolo VII. Grazia Preveniente: Noi crediamo che la creazione dell’uomo ad

immagine e somiglianza di Dio includa la capacità di scegliere tra il bene ed il male, per cui l’uomo è moralmente responsabile. Crediamo anche che, a motivo della caduta di Adamo, l’uomo divenne corrotto ed incapace di credere e cercare Iddio con le sue sole forze ed opere naturali. Noi crediamo altresì che la grazia di

60 Riferimenti biblici: Sul peccato originale cfr. Genesi 3, 6:5; Giobbe 15:14; Salmo 51:5; Geremia 17:9-10; Marco 7:21-23; Romani 1:18-25, 5:12-14, 7:1-8:9; 1 Corinzi 3:1-4; Galati 5:16-25; 1 Giovanni 1:7-8. Sul peccato individuale cfr. Matteo 22:36-40; (con 1 Giovanni 3:4); Giovanni 8:34-36, 16:8-9; Romani 3:23, 6:15-23, 8:18-24, 14:23; 1 Giovanni 1:9-2:4, 3:7-10. 61 Riferimenti biblici: Isaia 53:5-6, 11; Marco 10:45; Luca 24:46-48; Giovanni 1:29; 3:14-17; Atti 4:10-12; Romani 3:21-26; 4:17-25; 5:6-21; 1 Corinzi 6:20; 2 Corinzi 5:14-21; Galati 1:3-4; 3:13-14; Colossesi 1:19-23; 1 Timoteo 2:3-6; Tito 2:11-14; Ebrei 2:9; 9:11-14; 13:12; 1 Pietro 1:18-21; 2:19-25; 1 Giovanni 2:1-2.

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Dio per mezzo di Gesù Cristo sia concessa liberamente a ciascuno ponendo tutti coloro che lo desiderano in grado di volgersi dal peccato verso la giustizia, credere in Gesù Cristo per il perdono e la purificazione dal peccato, e compiere le buone opere che sono gradite al cospetto di Dio. Noi crediamo che l’uomo, benché in possesso dell’esperienza della rigenerazione e dell’intera santificazione, possa scadere dalla grazia, divenire apostata e, se non si pente del suo peccato, essere senza speranza ed eternamente perduto62.

62 Riferimenti biblici: sulla somiglianza a Dio e la responsabilità morale cfr. Genesi 1:26-27; 2:16-17; Deuteronomio 28:1-2; 30:19; Giosuè 24:15; Salmo 8:3-5; Isaia 1:8-10; Geremia 31:29-30; Ezechiele 18:1-4, Michea 6:8; Romani 1:19-20; 2:1-16; 14:7-12; Galati 6:7-8.

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A mo’ di conclusione Ci siamo limitati a esporre una lunga serie di tentativi

di risoluzione del grande problema della predestinazione. Così facendo abbiamo ricavato la sensazione di trovarci di fronte a un tema sul quale c’è sembrato quasi impossibile reperire una soluzione univoca, chiara, perentoria tale, insomma, da mettere tutti a tacere abilitando una sola voce a dir la sua.

Queste poche righe, qui poste a modo di conclusione, si limitano a sottolineare alcuni aspetti prima di congedare il lettore augurandogli di percepire dal suo Maestro interiore quella sapienza che, secondo l’esortazione contenuta nell’Epistola di Giacomo, ognuno deve chiedere a Dio quando s’accorge di esserne carente.

Il problema non è, come vorrebbe un certo calvinismo, separare quegli evangelici che riconoscono la sovranità di Dio (e gli rendono gloria) da altri che tale sovranità non riconoscono. No. Ogni sistema risolutivo (in primis quello di calvinisti e arminiani) dichiara sin dalle sue premesse di credere in un Dio sovrano e di onorarlo. Il problema è stabilire come tale sovranità venga esercitata. Tanto un capo tribù quanto un illuminato monarca costituzionale sono ‘sovrani’: la differenza è nello stile, e non è poco. Un capo tribù non è più onorabile poiché ha arbitrario e indiscusso potere di vita e di morte sui suoi sudditi. Preferiamo un monarca che abbia contemplato garanzie per coloro che governa, magari non come sudditi ma come cittadini.

Altro tema: di fronte all’arroganza dell’uomo e alla sua falsa consapevolezza di dominare tutto e tutti bisogna onestamente (e umilmente) ammettere che l’umanità fino ad ora è stata impotente a eliminare le grandi piaghe della miseria, della guerra, della disuguaglianza. Di fronte a questo bilancio riacquisisce significato il tema antico del “peccato originale”, cioè della trasgressione adamica. E, tuttavia, l’idea che la colpa di un protogenitore si riversi su infinite

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successive generazioni, che tale trasgressione materialmente e personalmente non hanno compiuto, non sorride a quell’uomo moderno per il quale il primo elemento della giustizia umana è la responsabilità personale dei reati e la non imputabilità dei discendenti di un reo per il misfatto di quest’ultimo.

Invece la pagina biblica nel libro della Genesi conserva e trasmette un messaggio di profondissima verità che non consiste in un episodio di cronaca ma nella proclamazione della generale corruzione del genere umano. Adamo non è un parente da cui proviene una indesiderata eredità a chi neanche l’ha mai conosciuto: Adamo è una “personalità corporativa” nella quale noi tutti siamo ritratti. Adamo siamo noi!

Di fronte alla sperimentata impotenza dell’uomo di mutare il corso della sua storia, cambiando prima il suo cuore e quindi il suo habitat, s’impone l’urgenza di aprire tale cuore a una istanza che gli sia superiore e che la Bibbia chiaramente indica come quel Dio largitore di grazia.

Ma come possiamo immaginare l’erogazione di questo dono della grazia? Ritengo che non sia adeguata l’immagine di un Dio il quale dall’alto della sua onnipotenza assoluta a piriori discrimini tra le sue creature quali debbano essere consegnate alla eterna beatitudine e quali invece ai peggiori tormenti immaginabili senza fine, senza che tali creature abbiano fatto niente per essere assegnati all’una o all’altra categoria. Altro che buona notizia, ove mai questo quadro fosse vero meglio potremmo definirlo oscuro incubo. Questa immagine, che mai troviamo nella Bibbia, è in ogni caso cancellata dalle reiterate parole di Gesù il quale c’insegnò a chiamare Dio ‘padre’. Ben s’intende, allora, che un padre dotato di un briciolo di serenità non possa e non voglia discriminare tra i figli (ugualmente immeritevoli) destinandoli implacabilmente a gioia oppure a sofferenza eterna prima ancòra che costoro siano nati. Figurarsi se questo possa farlo il Padre che, chiamandolo ‘celeste’,

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riteniamo sia dotato al massimo dell’attributo della saggezza e dell’amore!

No, Dio non discrimina in modo arbitrario. Noi abbiamo bisogno di una buona notizia che sia realmente tale, che sia davvero Evangelo. La ‘predestinazione’ esercitata da Dio è una volontà di destinare alla salvezza le sue creature tutte. E poco importa se queste sono naturalmente impotenti anche ad accettare il piano di Dio. La grandezza di Dio si manifesta nell’erogazione di una grazia preveniente, tale cioè da consentire al peggior delinquente di aprire il suo cuore al Vangelo e di diventare realmente una nuova creatura. E poi una grazia santificante, nel senso che metta il credente nella condizione di perseverare quale figlio di Dio, fedele alla Sua parola.

La predestinazione di Dio, determinata all’inizio dei tempi, è proprio il Suo piano di salvezza attraverso il sacrificio di Cristo. Possiamo essere certi che in questo sacrificio v’è abbondanza di redenzione per tutti a condizione che vi si creda abbracciandolo come proprio beneficio. Il piano di Dio per l’uomo naturalmente malvagio prevede la grazia che induce alla fede la quale, a sua volta, reca la salvezza. Faccia l’uomo la sua scelta: Dio gli consente di rispondere sì alla Sua chiamata e questa libertà non è certo un limite alla sovranità di Dio. Anzi ne è la conferma, poiché Dio stesso ha costituito l’uomo così com’è e lo ha reso oggetto di grazia. Le continue, infinite esortazioni della Bibbia ad accettare il Vangelo non avrebbero senso se l’uomo fosse un burattino sorretto da fili che lo manovrano.

L’uomo d’oggi non ha bisogno di una grazia che lo piloti senza che lui possa pensare o agire, secondo un canovaccio stabilito altrove, gli necessita invece una grazia responsabile, che cioè lo renda individuo imputabile per le proprie scelte.

Senza la facoltà di scegliere non v’è quella libertà che è fondamento dell’etica. Ora la grazia di Dio è proprio quella verità della quale Gesù disse che conoscendola saremo

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diventati ‘liberi’. La grazia di Dio non cancella l’etica, ma per il cristiano ne è fondamento.

L’immagine e la somiglianza a Dio che caratterizzavano l’uomo all’alba del suo essere non consistono certo in fattezze fisiche ma in quella qualità interiore che rende l’uomo persona, capace d’intendere Dio. Questa immagine è stata erosa dall’esperienza di peccato; e questa stessa la grazia di Dio intende restaurare.

Auspico che la predicazione di noi evangelici italiani sia così onesta verso i nostri connazionali da dichiarare il loro stato di necessità di accettare Gesù per iniziare una nuova vita, la potenza della grazia di Dio che salva, l’opera dello Spirito santo che santifica, un’etica di responsabilità che abiliti una facoltà del volere, diventata libera per grazia di Dio, a sempre meglio operare a beneficio tanto personale quanto della società intera: grazia responsabile!

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Aggiungi al carisma la formazione Quaderni di formazione continua in àmbito storico e teologico

a cura di Giancarlo Rinaldi Docente di Storia del cristianesimo Università degli Studi di Napoli l’Orientale

I volumetti possono essere richiesti all’autore o scaricati dal blog:

[email protected] - blog: giancarlorinaldiblog _________________________________________________

Programma della collana:

N° 1 – Infallibile?

L’autorità della Bibbia alla luce della Bibbia stessa, della storia e della ragione. (In preparazione).

N° 2 – Pagine indigeste dell’Antico Testamento. Il Dio dei cristiani è il Dio degli eserciti degli ebrei? (In preparazione).

N° 3 – Esiste una teologia pentecostale? Sulle tracce della spina dorsale teologica del pentecostalesimo. (In preparazione).

N° 4 – Glossolalia. Cosa significa realmente “parlare in lingue?”. (In preparazione). N° 5 – Fede evangelica e massoneria. Possibile un incontro? (Disponibile). N° 6 – Testimonianza evangelica e impegno politico. Come conciliare i doveri del cittadino con quelli del credente?

(In preparazione). N° 7 – “Preghino a capo coperto”. Le donne devono portare il velo in chiesa? (In preparazione). N° 8 – La donna pastore. Possibile e desiderabile? (In preparazione). N° 9 – Bibliografia ragionata sulla storia del movimento pentecostale

italiano. (Disponibile).

N° 10 – Pre- destinati ? Note sulla storia del dibattito sulla predestinazione. (Disponibile).

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