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SOCIOLOGIA ECONOMICA – TRIGILIA Temi e percorsi contemporanei 2.La modernizzazione e lo sviluppo delle aree arretrate Nel secondo dopoguerra l’interesse della sociologia economica per il ruolo della cultura dei fattori istituzionali nel processo di sviluppo economico trova terreno favorevole nello studio delle aree più arretrate, da qui, la sociologia dello sviluppo. C’è la formazione di stati indipendenti a seguito della decolonizzazione. Queste nuove unità politiche si trovano ad affrontare problemi di crescita economica e costruzione di strutture istituzionali adeguate; il veloce contrapporsi di due blocchi a livello internazionale e il clima di guerra fredda rendono importante per gli USA il sostegno per lo sviluppo dei nuovi stati. In primo piano c’era l’economia, influenzata dalla rivoluzione keynesiana e, in riferimento ai problemi dei paesi arretrati, la teoria dello sviluppo indotto sottolineava l’importanza dell’intervento statale e degli aiuti internazionali per avviare il processo di industrializzazione. I primi passi della sociologia dello sviluppo si traducono nel tentativo di integrare il punto di vista degli economisti; viene sottolineata l’importanza dei fattori istituzionali e culturali, come elementi che condizionano le possibilità di successo di politiche economiche a sostegno dello sviluppo. In questo quadro prende vita la teoria della modernizzazione. Alla base di questo filone c’era l’idea che la modernizzazione occidentale costituisce una sfida che spinge le società meno sviluppate, sulla strada del cambiamento sociale. All’interno del filone gli approcci seguiti sono vari: - teoria della modernizzazione in senso stretto , prevalente negli anni ’50-‘60. Importanza dei fattori socioculturali e politici endogeni dei paesi meno sviluppati nel condizionare il cambiamento sociale. Inizialmente si crede che l’esito del cambiamento non potrà che avvicinare i paesi arretrati al modello di società di quelli sviluppati; - teoria della dipendenza, accento posto sui condizionamenti economici esercitati dai paesi più sviluppati sul cambiamento di quelli più arretrati; - political economy comparata, al centro dell’attenzione c’è il ruolo delle istituzioni politiche nel processo di modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi asiatici e quelli dell’America latina. La sociologia americana del secondo dopoguerra e la scienza politica erano influenzate dall’approccio sistemico allo studio della società elaborato da Talcott Parsons. Anche se l’autore ha trattato solo marginalmente il problema dello sviluppo nei paesi arretrati, la sua costruzione teorica ha costituito il principale serbatoio di strumenti concettuali usati negli studi della prima teoria della modernizzazione. Alcuni di questi studi si

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SOCIOLOGIA ECONOMICA – TRIGILIA

Temi e percorsi contemporanei

2.La modernizzazione e lo sviluppo delle aree arretrate

Nel secondo dopoguerra l’interesse della sociologia economica per il ruolo della cultura dei fattori istituzionali nel processo di sviluppo economico trova terreno favorevole nello studio delle aree più arretrate, da qui, la sociologia dello sviluppo.C’è la formazione di stati indipendenti a seguito della decolonizzazione. Queste nuove unità politiche si trovano ad affrontare problemi di crescita economica e costruzione di strutture istituzionali adeguate; il veloce contrapporsi di due blocchi a livello internazionale e il clima di guerra fredda rendono importante per gli USA il sostegno per lo sviluppo dei nuovi stati.In primo piano c’era l’economia, influenzata dalla rivoluzione keynesiana e, in riferimento ai problemi dei paesi arretrati, la teoria dello sviluppo indotto sottolineava l’importanza dell’intervento statale e degli aiuti internazionali per avviare il processo di industrializzazione. I primi passi della sociologia dello sviluppo si traducono nel tentativo di integrare il punto di vista degli economisti; viene sottolineata l’importanza dei fattori istituzionali e culturali, come elementi che condizionano le possibilità di successo di politiche economiche a sostegno dello sviluppo. In questo quadro prende vita la teoria della modernizzazione. Alla base di questo filone c’era l’idea che la modernizzazione occidentale costituisce una sfida che spinge le società meno sviluppate, sulla strada del cambiamento sociale. All’interno del filone gli approcci seguiti sono vari:

- teoria della modernizzazione in senso stretto, prevalente negli anni ’50-‘60. Importanza dei fattori socioculturali e politici endogeni dei paesi meno sviluppati nel condizionare il cambiamento sociale. Inizialmente si crede che l’esito del cambiamento non potrà che avvicinare i paesi arretrati al modello di società di quelli sviluppati;

- teoria della dipendenza, accento posto sui condizionamenti economici esercitati dai paesi più sviluppati sul cambiamento di quelli più arretrati;

- political economy comparata, al centro dell’attenzione c’è il ruolo delle istituzioni politiche nel processo di modernizzazione, anche attraverso un confronto tra i paesi asiatici e quelli dell’America latina.

La sociologia americana del secondo dopoguerra e la scienza politica erano influenzate dall’approccio sistemico allo studio della società elaborato da Talcott Parsons. Anche se l’autore ha trattato solo marginalmente il problema dello sviluppo nei paesi arretrati, la sua costruzione teorica ha costituito il principale serbatoio di strumenti concettuali usati negli studi della prima teoria della modernizzazione. Alcuni di questi studi si concentrano su aspetti culturali e strutturali delle società tradizionali, altri sulla scienza politica mettendo a fuoco aspetti e problemi politici della modernizzazione, altri ancora individuano diversi stadi di sviluppo che prefigurano un percorso verso la modernità; tuttavia possiamo riscontrare un nucleo comune, ovvero che l’idea che i paesi economicamente arretrati sono caratterizzati da un modello di società tradizionale, costituito da un sistema di elementi culturali e strutturali tra loro interdipendenti. La forza di resistenza della tradizione è l’ostacolo primario alla strada che porta allo sviluppo.I primi studi sulla modernizzazione sono stati orientati dalla scuola stuttural-funzionalista. Hoselitz e Levy hanno sottolineato come lo sviluppo economico dei paesi arretrati è condizionato da aspetti relativi alla cultura e alla struttura sociale, in particolare c’è attenzione su orientamenti culturali che caratterizzano le società tradizionali ostacolandone lo sviluppo economico. L'ascrizione piuttosto che il principio di prestazione alla base delle relazioni economiche: ciò implica che i ruoli economici (lavoro) o la distribuzione dei beni e servizi prodotti, sono assegnati sulla base di criteri di appartenenza a un determinato gruppo (sesso, razza) piuttosto che sulla base della capacità di svolgere un certo compito. A questi aspetti, Levy aggiunge la contrapposizione all'orientamento tradizionalistico (dove l'azione sociale e quella economica sono improntate al rispetto delle routine tradizionali) a quello razionalistico tipico delle società moderne (dove l'azione sociale ed economica sono influenzate dagli sviluppi della scienza e della tecnica e quindi più aperte all'innovazione). Poiché si avvii lo sviluppo è necessario che i modelli culturali e le strutture sociali si modernizzino avvicinandosi alle caratteristiche di razionalità, universalismo, prestazione e specificità funzionale, tipiche delle società moderne dell’occidente.  Da cosa

dipende l’avvio alla modernizzazione? In generale l’attenzione è posta sul formarsi di nuove èlite intellettuali, politiche ed economiche che introducono innovazioni rispetto ai modelli tradizionali; poi c’è la crescita dell’imprenditorialità dal basso. Si parla anche di differenziazione strutturale, qui il focus si sposta dagli attori ai problemi strutturali che ne condizionano l’azione sotto l’impulso della ricerca della maggiore efficienza, ovvero di una maggiore capacità di adattamento e controllo dell’ambiente da parte delle diverse sfere istituzionali; in pratica nella fase di transizione c’è il passaggio da strutture che svolgono una molteplicità di funzioni a strutture più specializzate.Più rapido è il processo di modernizzazione, più probabile è lo sviluppo di situazioni conflittuali, che coinvolgono soprattutto chi è stato sottratto alle forme di integrazione tradizionale, senza essere efficacemente integrati in forme nuove. In questo quadro i sociologi considerano importante il ruolo dello stato per promuovere le attività economiche e l’industrializzazione e per controllare i conflitti indotti dalla modernizzazione. L’intervento statale è più efficace quanto più riescono ad affermarsi le nuove èlite politiche capaci di ottenere una forte legittimazione. Gli aspetti politici della modernizzazione hanno attirato l’attenzione degli studiosi provenienti dalle scienze politiche, influenzati anch’essi dallo struttural-funzionalismo. È stato formulato il concetto di sviluppo politico, inteso come processo di differenziazione delle strutture di secolarizzazione della cultura politica che porta ad aumentare le capacità di un sistema politico.Peso hanno avuto anche studi influenzati dalla psicologia sociale. Questi lavori condividono il quadro idealtipico basato sulla distinzione tra la società tradizionale, quella moderna e quella in transazione.Un primo lavoro che introduce questa prospettiva è quello del sociologo Lerner su alcuni paesi del medio oriente: si tratta di una ricerca empirica dove si considera il contatto con le società occidentali come fattore stimolante il cambiamento e che spinge nuove èlite a modernizzare. Così si innesca un processo già seguito dalle società occidentali misurabile con crescita dell’urbanizzazione, dell’alfabetizzazione e che favorisce la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa; qui prende forma la propensione alla mobilità. Si diffonde una personalità mobile, caratterizzata da razionalità ed empatia, cioè capacità di identificarsi con gli altri e desiderio di migliorare la propria posizione; ciò si accompagna ad una maggiore partecipazione economica e politica.Invece lo studioso McClelland cerca di dimostrare come lo sviluppo economico sia condizionato dalla presenza in una determinata società di personalità individuali caratterizzate da un forte bisogno di realizzazione. Influenzato dalla ricerca di Weber sui rapporti tra protestantesimo e spirito del capitalismo, lo studioso reinterpreta questa teoria dicendo che il protestantesimo aveva contribuito a creare una forte motivazione all’impegno individuale; da questo bisogno di realizzazione, che porta ad impegnarsi nel lavoro non per remunerazioni, trae beneficio l’imprenditorialità e di conseguenza lo sviluppo economico. Quindi non sono sufficienti le spiegazioni economiche e sociologiche, sono essenziali anche quelle psicologiche.Vicina a questa prospettiva è quella di Everett Hagen. Qui l’accento è posto sui meccanismi di socializzazione primaria che nel contesto tradizionale tendono a scoraggiare la formazione di una personalità innovativa e ne favoriscono una piuttosto autoritaria.Più vicina all’impostazione di Lerner è quella di Alex Inkels e David Smith, i quali, avendo un orientamento più sociologico, tendono a sfidare la tesi degli psicologi che la personalità si plasmi nei suoi tratti fondamentali essenzialmente nell’infanzia. Conducendo uno studio sui paesi del terzo mondo cercano di mostrare come la personalità moderna, intesa in termini di innovazione, tecnica,…, tende ad essere associata all’influenza che esercitano sui soggetti esperienze essenziali come la partecipazione scolastica, occupazione nel settore industriale. La conclusione è quella che la capacità dei paesi in via di sviluppo di potenziare il ruolo di queste istituzioni può avere conseguenze sulla personalità, che a loro volta possono rendere più agevole il passaggio verso la società moderna.Uno dei lavori più noti tra quelli sulla modernizzazione è “Gli stati dello sviluppo economico” di Walt Rostow, il quale, partendo da un approccio di storia economica, ci dà una sintesi di una serie di aspetti economici, sociali e politici. Rostow elabora una serie di stati di sviluppo più dettagliata rispetto alle precedenti; ne indica cinque: la società tradizionale, le precondizioni per il decollo economico, la spinta verso la maturità e la fase degli elevati consumi di massa.Molto importante è la fase di preparazione al decollo industriale. Rostow dice che per l’avvio di questa fase è necessaria l’intrusione delle società più sviluppate in quelle arretrate; questa influenza esogena determina una sorta di shock per la società tradizionale che verranno stimolate dall’intrusione delle società moderne.

La teoria della modernizzazione è stata sottoposta a diverse critiche fin dagli anni ’60, ma bisogna dire che non c’è una teoria della modernizzazione in senso stretto, piuttosto diversi approcci non sempre coerenti tra loro. Vale la pena soffermarsi su quattro elementi tra loro collegati: la concezione ottimistica dello sviluppo, la considerazione dei modelli idealtipici di società tradizionale e moderna come modelli contrapposti, l’idea che i rapporti tra le aree e i paesi arretrati stabiliscono con l’esterno abbiano un connotazione positiva, l’assunto che il motore del cambiamento sia endogeno.L’ottimismo sulle possibilità di sviluppo dei paesi arretrati è largamente condiviso e riflette il clima del primo decennio postbellico, che sembra aprire grandi possibilità alla crescita economica. Le nuove concezioni economiche che danno maggior rilievo all’interno dello stato e alla cooperazione internazionale piuttosto che al ruolo di mercato, contribuiscono a rafforzare la visione ottimistica; i sociologi, gli psicologi e gli storici economici si preoccupano di mettere in luce le variabili istituzionali che rischiavano di compromettere le potenzialità di uno sviluppo non problematico da un punto di vista economico. Un secondo elemento condiviso nei primi studi sulla modernizzazione riguarda la concezione della società tradizionale e moderna come modelli contrapposti, costituiti da elementi interdipendenti; anche in questo caso lo scarso fondamento storico-empirico porta a sottovalutare la concreta diversità delle società tradizionali, la cui immagine finisce per essere costruita deduttivamente.Il terzo aspetto riguarda la concezione che i rapporti con l’esterno abbiano una valenza abbastanza positiva per i paesi che devono modernizzarsi. Per Lerner e Levy il contatto con le società moderne stimola la modernizzazione degli orientamenti culturali e delle strutture sociali. Rostow insiste, sul terreno economico, sui vantaggi che possono venire dalla diffusione delle tecnologie e degli aiuti internazionali, ma questa impostazione trascura il fatto che il progressivo inserimento nel mercato internazionale comporta problemi per lo sviluppo economico oltre che opportunità. Questi problemi sono evidenziati dall’approccio dipendentista che rielabora la problematica dell’imperialismo di derivazione marxista; questo approccio si forma a partire da una riflessione sul fallimento dei tentativi di sviluppo di vari paesi latinoamericani. Comune a questo approccio è l’idea che l’incremento dei contatti con i paesi industrializzati invece di favorire lo sviluppo, provochino una situazione di sottosviluppo. Se le critiche dell’approccio dipendentista agli studi sulla modernizzazione si sono focalizzati soprattutto sui condizionamenti economici esterni come fattori che influiscono sul cambiamento, un’altra serie di interventi ha messo in discussione il modello di cambiamento evoluzionistico basato sulla differenziazione strutturale. Il riferimento a questo modello non è presente in egual misura in tutti gli approcci allo studio della modernizzazione, ma solo in alcuni influenzati dallo struttural-funzionalismo. Il meccanismo chiave è individuato nel processo di differenziazione strutturale; la spinta a costituire ruoli e strutture sociali più differenziate deriva dall’insoddisfazione crescente per il funzionamento di una certa struttura e quindi da una ricerca di maggiore efficienza che si traduce in una più alta specializzazione funzionale delle vecchie strutture che formano la precedente. Quindi il cambiamento è visto come un processo di adattamento delle società, vista come insieme di elementi interdipendenti rispetto ai problemi posti dall’ambiente fisico e sociale. È possibile individuare dei tipi strutturali più o meno evoluti, in base al grado di differenziazione strutturale. Possiamo distinguere tre tipi di critiche su questi assunti.

Il primo resta all’interno della tradizione funzionalista ma sottolinea come la differenziazione non por forza comporta l’incremento atteso di efficienza perché può accompagnarsi a problemi di integrazione che determinano fenomeni di instabilità e blocco della modernizzazione;

una seconda critica rigetta il funzionalismo ma non è necessariamente incompatibile con una prospettiva evoluzionistica. Viene criticata la possibilità di individuare gli stadi di sviluppo basati su un grado maggiore o minore di capacità di adattamento; per riuscire nell’obiettivo bisognerebbe conoscere quali saranno i problemi ambientali futuri che una società dovrà affrontare;

un terzo ordine di critiche investe l’idea che sia possibile stabilire delle sequenze evolutive sulla base delle esperienze storiche passate, perche si ipotizza una società come sistema tendenzialmente chiuso e coerente. Si sottolinea come il cambiamento non sia solo un processo endogeno di adattamento, ma sia condizionato dai rapporti tra le società e l’ambiente esterno.

Il mutamento è un processo complesso dove si intrecciano condizionamenti politici, economici e culturali provenienti dall’esterno, anche singoli eventi come le guerre e anche caratteristiche interne a una certa società.

Tra queste importanza deve essere data alle spinte ad una maggiore efficienza che vengono dall’economia, ma anche al ruolo delle èlite politiche, ai processi di mobilitazione politica, all’intervento dello stato. Questa prospettiva tende a guardare all’analisi storica comparata per mettere a fuoco i processi specifici di cambiamento per i quali non è possibile tracciare leggi generali.

È possibile mostrare come i problemi relativi al cambiamento dei paesi arretrati siano stati affrontati con un approccio influenzato dalle critiche ai primi studi e dai risultati della sociologia storica comparata. Si è quindi affermata una pratica di ricerca sui problemi della modernizzazione che pur non usando esplicitamente questo concetto ha interpretato il processo di cambiamento in modo più differenziato e orientato ad un’analisi storico-empirica.Negli anni ’70 e ’80 il quadro delle esperienze di sviluppo dei paesi del terzo mondo si fa più variegato; le difficoltà per alcuni dei nuovi stati continuano, e specie nel continente africano si aggravano, mentre in altri contesti, America latina ed est asiatico, si sono verificati processi rilevanti di sviluppo. Questa situazione ha orientato la ricerca in due direzioni.

Per prima cosa ha fatto mutare una crescente consapevolezza dei limiti della prima teoria della modernizzazione e di quella della dipendenza. Gli studiosi dei due approcci tendono a presentare la realtà dei paesi più arretrati in termini omogenei, anche se gli uni avevano una visione ottimistica e gli altri pessimistica, ma nessuna delle due teorie era in grado di render conto della crescente differenziazione dei processi di cambiamento;

si fa strada l’idea che per capire meglio i fenomeni di dinamismo, stagnazione e regressione è necessario servirsi maggiormente di comparazioni tra un numero limitato di casi. Molti studi hanno messo a confronto i paesi dell’est asiatico, dell’America latina,…; ha così preso forma negli anni ’80 un approccio definito come nuova political economy comparata.

Negli studi sulla modernizzazione l’attenzione era prevalente sulla dimensione culturale, nell’approccio sulla dipendenza sulla dimensione economica mentre nella political economy il focus è posto sul ruolo dello stato.Un secondo aspetto che contraddistingue la political economy riguarda i rapporti con l’esterno, i fattori esterni, in particolare la dimensione geopolitica, sono visti come insiemi di opportunità e vincoli. Quali sono i fattori che influenzano l’efficacia dell’intervento statale? Essenzialmente due. Il primo è costituito da burocrazie statali competenti e più orientate al servizio di interessi collettivi, quindi una macchina statale efficiente ed efficace indispensabile per guidare lo sviluppo industriale. Il secondo fattore è una leadership politica orientata allo sviluppo, autonoma dagli interessi sociali ed economici della società.I principali strumenti di cui si servono le politiche pubbliche negli stati orientati allo sviluppo sono il sostegno alle esportazioni, la selezione del credito e la leva fiscale per indirizzare gli investimenti privati nel settore su cui si punta per la penetrazione nei mercati internazionali, invece negli stati predatori prevalgono rapporti collusivi tra burocrazie ed èlite politiche.Fino agli anni ’80 la political economy comparata pone l’attenzione sul ruolo svolto dall’alto da stati forti e sulle strutture socioculturali dal basso nei paesi arretrati. Esaminiamo queste tendenze con riferimento a tre direzioni di ricerca:

1. Stato e capitale sociale. È Peter Evans, impegnato nella prospettiva della political economy comparata e nello studio dei paesi asiatici, a sostenere l’integrazione delle teorie sul capitale sociale con quelle sul ruolo dello stato per capire il ruolo di quest’ultimo nello sviluppo. Inizialmente focalizza i suoi studi sulle strutture statali, successivamente dice che lo sviluppo non deve essere associato esclusivamente al ruolo di efficaci strutture e politiche statali, né solo alla presenza di una buona dotazione di capitale sociale, inteso in termini di rapporti cooperativi tra soggetti pubblici e privati. È piuttosto l’economia radicata degli stati a fare la differenza e connettersi alle èlite economiche in modo da lavorare insieme ad una strategia di sviluppo;

2. Imprenditorialità dal basso nel capitalismo asiatico. L’enfasi si sposta dal lato della società; il punto di partenza è costituito dall’individuazione di alcune caratteristiche specifiche dell’industrializzazione di questi paesi che non riguardano solo il ruolo dello stato nell’economia ma soprattutto forme di organizzazione dell’attività produttiva e le relazioni di lavoro. C’è una comparazione tra il percorso giapponese e quello cinese.

Il percorso giapponese è guidato dall’alto delle èlite politiche su basi di stretti rapporti con i rappresentanti delle imprese. I giapponesi studiarono le esperienze occidentali con l’obiettivo di trapiantarle nel loro paese, si crearono così grandi gruppi di imprese che comprendevano banche e attività manifatturiere tra loro integrate. Il percorso cinese è diverso, le trasformazioni in direzione di un’economia capitalistica si producono per una spinta dal basso, attraverso la crescita delle imprese familiari di imprenditori provenienti dal commercio, artigianato e cultura. La famiglia e la parentela hanno un ruolo molto importante nella società cinese; l’impresa non si separa dalla famiglia e non cresce verticalmente, aumentando il numero di occupati e internalizzando nuove funzioni produttive, come nell’esperienza occidentale. La crescita avviene orizzontalmente con la creazione di piccole e medie imprese, guidate da familiari o altri amici e che hanno un ruolo complementare le une con le altre;

3. Transazione dei paesi postcomunisti verso l’economia di mercato. Uno dei filoni di ricerca di sociologia economica che ha riscosso successo è il cambiamento dei paesi che fino alla fine degli anni ’80 sono stati guidati da regimi comunisti in Europa e in Asia. In che modo le società dell’est europeo hanno affrontato i cambiamenti? Si confrontano così i vari casi rispetto ai modi in cui le politiche economiche nazionali riconoscono e valorizzano le risorse che si generano nei network di imprese basati su reti di relazioni fiduciarie. Bruszt e Stark affiancano all’idea della centralità dello stato e della funzione di intermediazione delle istituzioni burocratiche, il ruolo di network di imprese come risorse fondamentali per i processi di ristrutturazione che possono stimolare lo sviluppo economico e limitare il potere autoritario dello stato.

Nel complesso la political economy comparata si presenta come una nuova sintesi caratterizzata da elementi che ne distinguono l’approccio da quelli precedenti e lo rendono più ricco teoricamente e nell’analisi dello sviluppo dei paesi e aree arretrate. I fattori di condizionamento esterni, economici e politici, sono importanti ma le loro conseguenze sono diverse nei vari contesti: per esempio l’influenza americana ha facilitato lo sviluppo di alcuni paesi asiatici e ha avuto un ruolo meno favorevole in America latina. Le conseguenze dei fattori esogeni non sono predeterminate, non sono per forza positive come la teoria della modernizzazione o inevitabilmente negative come per quelle della dipendenza, ma sono mediate dalla capacità strategica dello stato. Questa a sua volta dipende dal formarsi di coalizioni di interessi economici e sociali che favoriscono o meno l’autonomia delle èlite politiche; fattori culturali ed istituzionali condizionano quindi il processo politico ma non è possibile predeterminare gli esiti e le conseguenze.Il tentativo di stabilire collegamenti tra funzionamento dello stato, organizzazione dell’economia e tradizione culturale è presente nel dibattito sul capitalismo asiatico e chiama in causa l’influenza del confucianesimo. Gary Hamilton è giunto alla conclusione che ci si trova di fronte a specificità della sfera istituzionale, economica e sociale, oltre che a quella politica. Ma come spiegare le origini di queste differenze sia nell’organizzazione delle attività economiche, sia nel diverso ruolo giocato dalle istituzioni politiche? Ci sono caratteri generali che chiamano in causa i modelli di legittimazione del potere, i quali rimandano ad alcuni tratti culturali diffusi in una vasta area, rinviano a delle visioni del mondo che hanno una matrice originaria nell’influenza delle grandi religioni. Per il capitalismo asiatico importante il ruolo del confucianesimo; la sfera di influenza di una grande religione tende a delimitare lo spazio di una civiltà, intesa come un’insieme di società che condividono tratti culturali ed istituzionali. Qui è necessario richiamarsi all’analisi comparata delle civiltà avviata da Max Weber, usando le visioni del mondo che sono alla base delle grandi civiltà. È da intendere che il confucianesimo costituiva un quadro di riferimento culturale tale da ostacolare lo sviluppo capitalistico.

3.Lo stato sociale keynesiano e la political economy comparata

Nel corso degli anni ’70 c’è una ripresa dello studio da parte della sociologia economica dei paesi più sviluppati. Nel secondo dopoguerra i motivi che portano alla frammentazione della tradizione di ricerca ereditata dai classici e alla specializzazione disciplinare sono la grande crescita postbellica e la ridefinizione dei confini tra economia e sociologia. La situazione si modifica a partire dagli anni ’70, gli strumenti dell’economia keynesiana sembrano meno capaci di fornire un’adeguata interpretazione della nuova fase di difficoltà che investe le economie dei paesi più industrializzati, con contemporanea crescita di inflazione e disoccupazione, i quali negli anni della grande crescita si manifestano con violenza.

Si parla di crisi/declino dello stato sociale keynesiano e ci si interroga sulle origini del fenomeno, soprattutto sulle differenze che emergono tra i paesi industrializzati nel far fronte a nuove sfide. La comparazione tra i diversi casi nazionali si afferma come metodo utile per mettere a fuoco in che modo i fattori istituzionali influiscono sulle tensioni economiche e sociali emergenti, tra questi fattori quelli di rilievo sono la dimensione politica e il ruolo giocato dallo stato; si manifesta così una ripresa della sociologia economica come political economy comparata, un approccio simile a quello usato per i paesi arretrati.Inizialmente il problema di ricerca è costituito dall’origine dell’inflazione e dal suo grado di controllo nell’occidente più industrializzato, la prospettiva di analisi è prevalentemente a livello macro. Successivamente l’approccio affronta la questione più generale della competitività e del grado di dinamismo dei diversi tipi di capitalismo. In questo spostamento di ricerca gli aspetti macro si fondono con quelli micro; si vuole analizzare a livello micro le trasformazioni intervenute nella grande impresa di produzione di massa (sviluppo postbellico). Questa tendenza, alla quale si fa rifermento con il termine nuova sociologia economica, vuole studiare le trasformazioni del modello organizzativo di produzione fordista e l’emergere di nuovi modelli flessibili.

Il secondo dopoguerra è caratterizzato da un crescente intervento dello stato in campo economico e sociale ma questo processo non è riconducibile al mero diffondersi delle politiche di sostegno della domanda delineate ed auspicate da Keynes; queste erano state concepite come strumento per favorire la fuoriuscita dell’economia da una situazione di depressione. Nel dopoguerra c’è uno scostamento da questo quadro in due direzioni, la prima riguarda il diffondersi del “keynesismo della crescita”, ovvero il tentativo di usare l’intervento statale come strumento per sostenere lo sviluppo economico, la seconda riguarda l’uso della spesa pubblica come mezzo per accrescere e consolidare il consenso attraverso la forte diffusione dei programmi di welfare. È con riferimento a questi due fenomeni che si può parlare di stato sociale keynesiano, intendendo un intervento pubblico che si allontana dalle concezioni originali di Keynes.Riguardo l’adattamento della teoria di Keynes ai problemi della crescita economica, l’idea di fondo è che la politica della domanda debba essere usata non solo per evitare recessioni ma anche per favorire lo sviluppo nel tempo delle risorse produttive, in sostanza lo sviluppo economico dipende dalla crescita degli investimenti, i quali generano un incremento della produzione/produttività; quindi la politica della domanda può essere indirizzata a sostegno degli investimenti anche se c’è piena occupazione.Anche per quel che riguarda le politiche a sostegno della domanda più tradizionali emergono delle differenze. C’è la contrapposizione di un modello di keynesismo debole contro un modello di keynesismo forte. Nel primo l’intervento pubblico, attraverso la politica fiscale, monetaria e quella in deficit, resta più vicino all’originaria ispirazione keynesiana e si limita a stabilizzare il ciclo economico sostenendo la domanda nei momenti di recessione e raffreddandola nei momenti di pieno utilizzo dei fattori produttivi. Dall’altra parte il keynesismo forte si caratterizza per un impegno più forte sul terreno della difesa della piena occupazione e della crescita economica, in modo da poter anche finanziare un aumento più consistente della spesa sociale.Ciò che caratterizza lo stato sociale keynesiano è la forte crescita delle politiche di welfare. I primo interventi in campo di protezione sociale risalgono alla fine dell’800 e poi tra le due guerre.Un fattore cruciale che ha inciso sull’evoluzione del fenomeno è la mobilitazione delle classi subalterne che si formano con lo sviluppo capitalistico e che tendono ad essere sganciate dalle forme tradizionali di protezione legate alle reti di reciprocità di tipo parentale e comunitario. C’è l’assoluta importanza delle organizzazioni politiche dei lavoratori se si guarda alle modalità di organizzazione dei sistemi di protezione sociale. La letteratura ha distinto tre idealtipi principali di welfare:

1. Istituzionale-redistributivo, copre i principali rischi per la popolazione nazionale sulla base dei diritti sociali come componenti essenziali della cittadinanza; comporta una maggiore espansione dei programmi pubblici che forniscono benefici uniformi a tutti i cittadini ( Svezia, Norvegia, Danimarca);

2. Residuale, la protezione sociale pubblica è volta a coprire una fascia limitata di popolazione che si trova in condizioni di particolare indigenza e bisogno ( Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia);

3. Remunerativo, l’assicurazione contro i principali rischi non si basa su un diritto di cittadinanza ma sull’appartenenza ad una categoria socio professionale ( Germania, Austria, Francia, Belgio, Italia).

Con gli anni ’70 si manifesta una serie di sintomi che rimettono in discussione il processo di stabilizzazione economica e sociale dei paesi più sviluppati. C’è una ripresa del conflitto industriale, i tassi di inflazione aumentano rispetto a quelli dei decenni precedenti, diminuiscono i tassi di crescita della produzione e torna a

salire la disoccupazione. È quindi un quadro che sfida l’egemonia teorica e pratica del keynesismo, in difficoltà di fronte ad un’elevata stagflazione. Quindi come spiegare le tensioni economiche e sociali degli anni ’70? Un modo utile è quello di considerare come il meccanismo di regolazione istituzionale dell’economia, basato sullo stato sociale keynesiano, tende a generale effetti perversi nel tempo. Il primo riguarda modifiche a livello micro in seguito al ridursi della disoccupazione, il secondo riguarda il livello macro e la difficoltà di controllo della spesa pubblica che si accompagna all’espansione dei sistemi di protezione sociale.Inflazione, rallentamento della crescita e disoccupazione sono gli effetti perversi dello stato sociale keynesiano, ma come capire il manifestarsi di questi effetti? Si sviluppa negli anni ‘70 intorno a questa domanda una crescente letteratura sulle origini dell’inflazione. Ci interessa notare come nei suoi aspetti più innovativi questa letteratura tenta di integrare nella spiegazione del fenomeno fattori di natura istituzionale; si possono distinguere due filoni di tipo istituzionale che cercano di interpretare i comportamenti dei governi, sindacati e delle imprese nelle relazioni industriali, e di vedere gli effetti sull’inflazione. In entrambi i casi si parla di nuova political economy. Il primo si propone di guardare ai fenomeni istituzionali applicando alla sfera politica un approccio economico di derivazione neoclassica, mentre l’altro, che si identifica meglio con la tradizione della sociologia economica, cerca di mettere in evidenza l’impatto autonomo dei fenomeni economici dei fattori politici e amministrativi.

1. La political economy delle teorie neoutilitarie. Il primo filone sviluppa un’analisi economica della politica e delle relazioni industriali per spiegare l’inflazione degli anni ’70. Si ricollega alle teorie neoutilitarie della politica che hanno come punti di riferimento originario le riflessioni di Shumpeter sulla politica democratica come mercato. E possibile far crescere la produzione e l’occupazione per un certo tempo grazie a stimoli monetari o fiscali, che successivamente provocheranno una più alta inflazione; c’è uno scarto temporale tra gli effetti espansivi sull’economia e il manifestarsi dell’inflazione; la memoria degli elettori è corta, quindi i politici in carica hanno meno da perdere dalla disoccupazione nella prima fase della loro attività;

2. la political economy della sociologia economica. Cerca di dare una spiegazione istituzionale dell’inflazione e parte dalla domanda piuttosto che dall’offerta. Ritiene necessario capire cosa spinge i governi ad intensificare la ricerca di consenso attraverso un’offerta crescente di moneta con la spesa pubblica.

→ Pluralismo e neocorporativismo pag.141, leggere

Fin’ora abbiamo parlato del modello di regolazione neocorporativo, tuttavia un aspetto importante che emerge dalla political economy comparata riguarda un terzo tipo di regolazione, diverso da quello neocorporativo e pluralista. I principali riferimenti sono la Francia e il Giappone; è interessante perché mostra una possibilità di regolazione industriale che dà buoni risultati sotto il profilo economico.Parlando del modello idealtipico in questione, Michele Salvati propone la categoria del decreto. È una situazione caratterizzata da un’elevata autonomia dei governi dalla pressione pluralista degli interessi, i quali sono deboli e l’assetto delle istituzioni pubbliche non ne facilita l’influenza sul processo di decisione politica. Il relativo isolamento istituzionale permette di gerarchizzare le domande diminuendo l’impatto inflazionistico. Il contributo di Salvati è utile per mettere a fuoco le differenze tra il tipo del decreto e altri due modelli, quello neocorporativo definito come accordo, e quello del pluralismo radicale definito come mercato. Il primo riguarda la forza della classe operaia nell’arena del mercato e dello stato; alla forza del movimento operaio nei contesti corporativi si contrappone la debolezza riscontrabile nel primo decreto e in quello di mercato. Riguardo il sistema politico si affianca la divisione politica del decreto, ovvero la presenza di forze politiche di sinistra stabilmente escluse dall’accesso al governo.Osserviamo la dimensione ideologica. Il riferimento è ai criteri di legittimazione dell’intervento dello stato, alle aspettative dei cittadini riguardo l’intervento pubblico. Per quanto riguarda il modello del mercato, l’attenzione è posta sulla centralità della società civile; si vuole sottolineare il forte radicamento del liberalismo economico e politico. L’individualismo liberale tende a limitare le aspettative di intervento dello stato nell’economia e nella società, e contrasta l’idea che i gruppi di interesse al processo di decisione politica.Un’ultima osservazione riguarda il modello del mercato. La political economy comparata insiste molto sui migliori risultati in termini di controllo della stagflazione, ottenuti dalla regolazione di tipo neocorporativo. Al mercato

deve essere riconosciuta una sua autonomia come modello di regolazione istituzionale dell’economia che può funzionare senza doversi trasformare nell’accordo neocorporativo.La scoperta del neocorporativismo degli anni ’70 ha portato al tentativo di integrare le tradizionali forme di regolazione dell’economia usate nella sociologia economica. È possibile distinguere tre tipi di regolazione con le relative istituzioni: lo scambio di mercato sulla base dei prezzi, con le istituzioni dei mercati autoregolati; la solidarietà sulla base delle obbligazioni condivise con una vasta gamma di istituzioni; l’autorità che si basa sulla coercizione, con le istituzioni dello stato o con l’impresa come organizzazione gerarchica. A questo quadro consolidato si propone di aggiungere la concertazione come forma di regolazione e le associazioni di tipo neocorporativo come istituzioni che la sostengono.È opportuno anche distinguere tre principi o forme di regolazione e sistemi di regolazione. I principi o forme di regolazione riguardano le regole secondo cui le risorse vengono combinate nel processo produttivo, il reddito prodotto viene distribuito e i potenziali conflitti tra i soggetti coinvolti nel processo economico vengono controllati. Con la categoria di sistema di regolazione ci si riferisce alla specifica combinazione ed integrazione tra diverse forme di regolazione che caratterizza una certa economia.Negli anni ’80 molti studiosi del neocorporativismo erano convinti che quello fosse il percorso che prima o poi tutti i vari capitalismi nazionali avrebbero finito per seguire.Due grandi sfide spingono a sperimentare nuove soluzioni: la necessità di controllare l’inflazione mettendo sotto controllo la spesa sociale e i salari, e quella di difendere l’occupazione e sostenere l’innovazione a fronte dell’accresciuta concorrenza dei paesi emergenti.Da un lato in alcuni paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, si afferma una visione di political economy secondo la quale per uscire dalle difficoltà economiche degli anni ’70 era necessario ridurre il ruoli delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, il sostegno a politiche di deregolazione dei mercati e liberalizzazione dei servizi pubblici; l’obiettivo è quello di ridurre il sistema di welfare in un quadro di rilancio del mercato e ridimensionamento dell’intervento pubblico dell’economia. Gli anni ’80 si configurano come il decennio della svolta liberista.Dall’altro lato persiste un modello diverso, più tipico dell’Europa occidentale, centrato su una protezione sociale più estesa e sulla partecipazione delle grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi alla definizione delle politiche pubbliche. Le risposte alle sfide del controllo dell’inflazione continuano ad essere orientate da una logica di concertazione tra il governo e i grandi interessi organizzati. Bisogna però sottolineare dei mutamenti che intervengono negli ultimi decenni. All’interno dell’Europa continentale persistono rilevanti differenze: la Francia continua ad essere lontana dal modello neocorporativo, con lo stato che svolge spesso il ruolo di supplente della contrattazione collettiva. In Spagna e Italia c’è un elevato volontarismo delle relazioni industriali e alternarsi tra concertazione e conflittualità.In secondo luogo nell’Europa continentale e scandinava vicini a forme forti o deboli di neocorporativismo, si verificano importanti cambiamenti. C’è una tendenza generalizzata al declino della contrattazione centralizzata; il secondo cambiamento fa riferimento all’affermasi di un nuovo tipo di patto sociale.Una serie di fattori minano la contrattazione politica centralizzata di tipo neocorporativo a partire dagli anni ’80: la frammentazione degli interessi del lavoro e l’indebolimento dei sindacati; la conseguente minor vulnerabilità degli imprenditori e dei governi rispetto alle rivendicazioni salariali e alla conflittualità; le tensioni interne alle associazioni imprenditoriali; i vincoli macroeconomici posti all’azione dei governi che riducono le possibilità di ricorrere a benefici politici nello scambio. In molti paesi si interrompe il predominio dei partiti di sinistra e appaiono sulla scena forze politiche di centrodestra che vanno al governo. Gli stessi partiti politici sembrano recuperare un ruolo di primo piano rispetto agli anni ’70. Il venir meno di quel complesso equilibrio socioeconomico che si basava sulla coppia fordismo-stato sociale keynesiano accresce la differenziazione economica e socioculturale e lascia spazio a forme di rappresentanza più pluralistiche.I nuovi patti sociali hanno come obiettivo la promozione della competitività e della coesione sociale attraverso soluzioni concentrate, mirate ad aumentare la flessibilità del lavoro e introdurre e rafforzare nuove forme di protezione sociale.

4.La crisi del fordismo e i nuovi modelli produttivi flessibili (da integrare con appunti sui distretti industriali)

Negli anni ’70 viene rimesso in discussione il rapporto tra stato ed economia, affermatosi nella fase di grande sviluppo postbellico, e le tensioni che investono il modello produttivo basato sulla grande impresa e la produzione di massa. Anche in questo caso il tentativo di capire le difficoltà e i cambiamenti si centra su fattori istituzionali; c’era da valutare come le istituzioni influenzavano l’offerta più che la regolazione della domanda: l’innovazione nei processi produttivi e nei prodotti, la crescita dell’imprenditorialità, la formazione professionale della manodopera,….Intorno a questi temi prende forma una nuova sociologia economica a livello micro, con al suo centro le origini e gli sviluppi di nuovi modelli di organizzazione produttiva basati sulla flessibilità, ovvero sul veloce riadattamento dei fattori produttivi per cogliere più rapidamente le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica e da mercati sempre più segmentati e instabili. C’è il tentativo, sia dal versante economico che da quello sociologico, di mettere a punto strumenti di interpretazione della varietà delle forme di organizzazione e di governo dei processi produttivi; accanto al mercato e all’impresa come organizzazione gerarchica, si sviluppano forme ibride, basate sulla collaborazione tra imprese.

Nel corso del ‘900 si afferma come modello di organizzazione economica quello fordista, che ha raggiunto l’apice del suo sviluppo nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale. Questo modello si basa su grandi imprese le cui principali caratteristiche sono:

le imprese sono verticalmente integrate, ovvero includono al loro interno diverse fasi produttive che prima erano svolte da più aziende;

le imprese sono impegnate nella produzione di massa, cioè nella produzione di beni standardizzati prodotti in grande quantità con macchine specializzate, il che permette di abbassare i costi sfruttando le economie di scala e i vantaggi delle nuove tecnologie;

la produzione è organizzata con manodopera scarsamente qualificata e con un’organizzazione del lavoro tayloristica, ovvero fortemente parcellizzata. Il lavoro è diviso in compiti semplici e ripetitivi che limitano l’autonomia degli operai.

Questo nuovo modello di organizzazione produttiva era al centro già dei primi studi di sociologia economica e si è esteso nel corso del ‘900 anche per una serie di fattori come la diffusione dell’elettricità come fonte di energia a basso costo facilmente distribuibile e per il miglioramento dei mezzi di comunicazione e trasporto.

Inizialmente sono state soprattutto le piccole imprese a destare particolare interesse. Il dinamismo di alcune regioni caratterizzate dalla presenza di molte aziende di piccola e media dimensione contrastava con la visione che vedeva nelle grandi strutture produttive la componente più vitale e innovativa dei sistemi economici, pero ci si accorge che i processi di cambiamento stanno investendo anche le grandi imprese. Nell’uno e nell’altro caso il tentativo di capire questi processi di adattamento di maggior successo porta a evidenziare fattori di natura istituzionale che influiscono sui modelli produttivi flessibili.In questa prospettiva un contributo importante è quello di Sabel e Priore che introducono il modello della specializzazione flessibile contrapponendolo a quello fordista della produzione di massa. Mentre in quest’ultimo caso domina la produzione di beni standardizzati fatta con macchine specializzate e manodopera semiqualificata, la produzione flessibile è caratterizzata dalla produzione di beni non standardizzati con macchine utilizzabili per modelli diversi, realizzati con manodopera qualificata. L’accento è posto sulle nuove tecnologie elettroniche che riducono il costo della produzione flessibile e diversificata. Questo nuovo modello si differenzia da quello tradizionale per il dinamismo tecnologico e le nuove possibilità innovative. I due autori notano come la specializzazione flessibile coinvolga anche le grandi imprese in trasformazione.Ci sono tre aspetti che contribuiscono a mettere meglio a fuoco. Il primo riguarda la possibile persistenza della produzione di massa nei termini del neofordismo. Il secondo aspetto si riferisce alle forme di specializzazione flessibile praticate dalle grandi e dalle piccole, con la loro trasformazione interna e la maggiore apertura a rapporti di collaborazione con imprese esterne. Il terzo ha a che fare con l’analisi più approfondita e dettagliata dei fattori istituzionali che consentono le forme di cooperazione tra management e lavoratori e quella tra imprese, buone condizioni di lavoro e alti salari.

Il fenomeno dei sistemi locali di piccole e medie imprese, detti clusters, e dei distretti industriali concentrati in alcune regioni, è stato riscontrato in diversi paesi. In alcuni casi erano aree caratterizzate da strutture produttive di questo tipo che però vengono coinvolte in una fase di forte dinamismo; in altri emergono nuove concentrazioni di aziende e specializzazioni produttive. I settori possono essere di tipo tradizionale (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, arredo, ceramiche, ecc…), o di tipo moderno (metalmeccanica, macchine utensili e speciali, elettronica, informatica,ecc…). Ci sono però due requisiti essenziali: è necessario che il processo produttivo sia divisibile in fasi diverse, tecnicamente separabili, in modo da consentire la specializzazione delle piccole imprese per fasi o componenti; in secondo luogo si tratta di produzioni soggette a elevata variabilità qualiquantitativa della domanda, che richiede forme di organizzazione flessibile.Non tutte le aggregazioni territoriali di piccole dimensioni danno luogo a veri e propri distretti industriali. Nei sistemi locali di piccole imprese (clusters) sono localizzate piccole e medie imprese specializzate in uno o più settori produttivi; le aziende godono di una serie di economie esterne legate alla disponibilità di manodopera qualificata per le loro produzioni, di infrastrutture e servizi comuni. Hanno un più basso livello di integrazione orizzontale rispetto ai distretti industriali, ovvero ciascuna unità è più autonoma rispetto alle altre, molte hanno accesso ai mercati finali. Nel caso di veri e propri distretti industriali si possono riscontrare tre aspetti distintivi. La specializzazione produttiva in un determinato settore è molto marcata, e se presenti altri settori, sono legati a quello prevalente. In secondo luogo l’integrazione tra le aziende del processo produttivo di un determinato bene è più elevata, ci sono poche imprese che accedono al mercato finale, dove acquisiscono gli ordini e vendono i prodotti, ma i beni sono realizzati con complesse reti di subfornitori prevalentemente localizzati nella stessa area. Infine l’integrazione nel processo produttivo di molte unità relativamente autonome richiede una capacità di collaborazione ancora più elevata rispetto ai sistemi locali di piccole imprese. Senza questa attitudine a cooperare è difficile coordinare la produzione in tempi rapidi e mantenere alta la qualità dei prodotti. Nel caso dei distretti è rilevante un’identità culturale territoriale che alimenta reti di relazioni sociali cooperative ed accresce la produttività.

• I distretti industriali in Italia

Nel corso degli anni ’70 si nota una forte crescita delle piccole imprese particolarmente concentrata nelle regioni del centro e del nordovest, questa area viene definita come Terza Italia per distinguerla dal nordest, zona di prima industrializzazione, e dal sud, dove il processo di industrializzazione era ancora fortemente limitato.Le piccole imprese hanno una particolarità evidente, sono concentrate in sistemi locali, ovvero in aree urbane di piccole dimensioni, formate da uno o più comuni vicini. In questi sistemi locali c’è un mercato del lavoro integrato ed un certo grado di specializzazione settoriale: i settori più presenti sono quelli tradizionali ma non mancano quelli più moderni, soprattutto la meccanica e la produzione di macchinari. Quando la specializzazione settoriale e l’integrazione tra le piccole imprese sono molto elevate si formano veri e propri distretti industriali.Le ricerche sui distretti hanno contribuito a mettere a fuoco due aspetti: la capacità di rispondere in modo flessibile ai cambiamenti del mercato si basa sull’uso delle nuove tecnologie da parte delle singole aziende, ma soprattutto sui rapporti di cooperazione. In secondo luogo la capacità di innovare e migliorare la qualità dei beni prodotti è sostenuta dall’esistenza di economie esterne alle singole aziende, ma interne all’area in cui sono localizzate. Si tratta della disponibilità di collaboratori specializzati, di una manodopera anch’essa specializzata, di servizi ed infrastrutture collettive, ma in larga misura si tratta anche di fattori immateriali che influiscono sulla produttività.Quanto alle origini, tre fattori istituzionali sono cruciali per lo sviluppo dell’economia diffusa e dei distretti. Essi si riscontrano in forma tipica nelle regioni del centro e del nordest. Anzitutto una rete di piccoli e medi centri nei quali c’erano tradizioni artigianali e commerciali diffuse, non erose dalla prima industrializzazione, dall’urbanizzazione e dall’immigrazione. Da queste tradizioni sono venute in larga misura le risorse di imprenditorialità per le piccole imprese; in molti casi è stato importante il ruolo di buone scuole tecniche locali. Un secondo fattore istituzionale di rilievo riguarda i rapporti di produzione in agricoltura prima dell’industrializzazione, specie la presenza della famiglia appoderata nelle campagne, che ha sostenuto la formazione originaria di un’offerta di lavoro flessibile a costi ridotti e con conoscenze e motivazioni congruenti con lo sviluppo di piccola impresa. Un terzo fattore è costituito dalla forte presenza nelle aree in questione di tradizioni ed istituzioni politiche e locali legate al movimento cattolico e a quello socialista e comunista. Si tratta di aree caratterizzate da subculture politiche territoriali. Queste hanno contribuito a rafforzare un tessuto

fiduciario importante per lo sviluppo della piccola impresa; in secondo luogo hanno influenzato le relazioni industriali e l’attività dei governi locali.

• Distretti e istituzioni

A partire dagli anni ’70 e nel decennio successivo, il fenomeno dei distretti è stato segnalato e descritto anche in contesti diversi: in vari paesi europei, in Giappone, negli Stati Uniti.I distretti industriali orientati alla produzione flessibile sono legati a specifiche risorse cognitive e normative. In particolare si possono segnalare questi aspetti:

1. per quel che riguarda gli aspetti cognitivi, ci sono due ordini di fattori che influiscono sulle conoscenze e sulla formazione dell’imprenditorialità. In molti cosi sono importanti le tradizioni artigianali precedenti (come nel caso italiano con buone scuole di formazione). In altri le risorse cognitive derivano dalla vicinanza di istituzioni di ricerca pubbliche e private e in particolare dalla presenza di importanti università che sviluppano scambi con le imprese;

2. la variabilità delle diverse esperienze è ancora maggiore per quel che riguarda la dimensione normativa. Si può dire che la capacità di cooperazione e la disponibilità di un tessuto fiduciario sono risorse cruciali e sono in genere influenzate da identità locali distinte che si riproducono nel tempo. In alcuni possono avere una matrice religiosa, in altre politica, in altre ancora etnica. L’innervamento del distretto in una comunità locale appare un tratto costante;

3. le risorse cognitive e normative sono importanti per le origini dello sviluppo di tipo distrettuale ma anche per la sua riproduzione nel tempo. Per quanto riguarda le conoscenze e il far sapere, occorre guardare all’esistenza di istituzioni e servizi che svolgano questo ruolo nelle diverse situazioni locali adeguando le economie esterne e le forme di cooperazione ai nuovi problemi che si pongono. Di solito ci sono istituzioni che hanno il compito di facilitare la comunicazione tra il sapere contestuale locale e le conoscenze scientifiche e tecniche in continua evoluzione;

4. molto variegata è la situazione sotto io profilo delle risorse normative, specie per la regolazione dei rapporti di lavoro. La flessibilità richiede un’elevata capacità di cooperazione e anche un coinvolgimento crescente per migliorare la qualità da parte dei lavoratori. Per garantire questo tipo di partecipazione del lavoro non bastano solo le appartenenze culturali tradizionali. Esistono due soluzioni tipiche, con casi intermedi. Da un lato ci sono realtà di scarsa presenza delle relazioni industriali; in queste situazioni condizioni salariali e di lavoro che possono anche essere sfavorevoli, si accompagnano ad elevate possibilità di mettersi in proprio da parte dei lavoratori dipendenti. L’altra soluzione è quella di relazioni industriali più istituzionalizzate ma a carattere cooperativo, che spingono verso forme di flessibilità più contratta e compensata. L’esperienza italiana mostra come ci possa essere anche uno spostamento graduale nel tempo della prima alla seconda soluzione.

• I cambiamenti dei distretti industriali

Come tutti i modelli di organizzazione produttiva, anche quello dei distretti industriali è soggetto al cambiamento con l’affermasi di nuove condizioni nei mercati, nelle tecnologie e nelle comunicazioni. Sono state messe in luce le sfide che il processo di globalizzazione pone ai distretti, specie a quelli specializzati in produzione di qualità più bassa. Essi risentono maggiormente della concorrenza dei paesi emergenti, con più basso costo del lavoro. La globalizzazione, con la maggior apertura nei mercati e l’incremento degli scambi, si accompagna ad un incremento delle esportazioni nei paesi in via di sviluppo, in particolare in quelli asiatici, verso l’area dei paesi più industrializzati. Successivamente più che di declino dei distretti è opportuno parlare per l’Italia e altri paesi avanzati, di una trasformazione in corso del modello distrettuale. C’è un passaggio in forme diverse del distretto come sistema localizzato di medie imprese che coordinano subfornitori locali ed esterni, si internazionalizzano ed estendono la loro attività verso la distribuzione. Questo non vuol dire che il distretto nelle sue modalità organizzative originarie non sia presente o in crescita; distretti industriali e clusters di piccole e medie imprese sono segnalati con crescente frequenza come fenomeni emergenti nei paesi in via di sviluppo, specie nel capitalismo asiatico, in India e in America latina. Questa tendenza suggerisce che i sistemi produttivi locali possono essere una formula organizzativa adatta allo sviluppo dei paesi arretrati, specie dove sono presenti risorse locali di saper fare e reti

sociali fiduciarie che permettono un efficace coordinamento di produzioni flessibili, capaci di rispondere rapidamente ai cambiamenti del mercato.

Dopo la scoperta dei distretti industriali, l’indagine si è estesa anche alla trasformazione delle grandi imprese che hanno iniziato a sperimentare anche loro modelli di produzione flessibile.Il punto di partenza è costituito dall’instabilità e frammentazione dei mercati. Si riducono la prevedibilità, requisito essenziale del modello fordista, e la possibilità di elevati investimenti in macchinari specializzati, che rischiano di non poter essere riutilizzati per i rapidi cambiamenti della domanda e obsolescenza dei prodotti. Quindi si sperimenta una riorganizzazione che mira all’obiettivo di offrire più prodotti ed attrezzarsi per produrre rapidamente ciò che verrà domandato dal mercato. D’altra parte si diffondono sempre di più le nuove tecnologie di comunicazione; nella loro applicazione alla produzione consentono di abbassare i costi per produzioni più flessibili di volumi ridotti di beni.

Per le grandi imprese che vogliono competere con successo nelle nuove condizioni dei mercati si fa strada la necessità di ridurre la separazione tra concezione ed esecuzione dei prodotti, tipica del fordismo. Questa separazione rende l’introduzione dei nuovi prodotti lenta ed elaborata; per ovviare a questi problemi si sperimentano forme di decentramento dell’autorità in modo da avvicinare le unità operative agli stimoli del mercato e da metterle in grado di operare rapidamente. In pratica le strutture centrali diventano più snelle e si occupano solo delle decisioni strategiche;

cambia l’organizzazione interna, in particolare quella del lavoro e vengono rimessi in discussione i modelli tayloristici. La possibilità di produrre beni differenziati in serie brevi, con aggiustamenti continui della domanda, porta alla necessità di eliminare risorse superflue, principio particolarmente sperimentato in Giappone con la pratica del just in time. Bisogna quindi ridurre gli scarti, i tempi morti e l’accumulo di scorte, sincronizzando il più possibile la produzione alla domanda proveniente dal mercato. Questo richiede un’elevata collaborazione della manodopera;

la grande impresa si riorganizza al proprio interno e si apre maggiormente con l’esterno potenziando la collaborazione con i subfornitori, spesso localizzati in aree di specializzazione produttiva. Visto che i costi di elaborazione dei nuovi prodotti crescono, mentre il loro ciclo di vita si accorcia, diventa difficile anche per le grandi multinazionali fare tutto da sole, quindi esse tendono a concentrarsi di più sullo sviluppo di alcune tecnologie chiave, sul design e sull’assemblaggio del prodotto finale. Invece le parti complementari vengono prodotte in collaborazione con una rete di subfornitori, i quali tendono a loro volta a decentrare le componenti o le fasi più semplici a subfornitori di secondo livello. Affinchè il ruolo dei subfornitori come partner, piuttosto che come unità dipendenti possa essere più efficace, si tende a evitare che lavorino solo per la casa madre. Infatti lavorando per più committenti la loro capacità di apprendimento aumenta;

anche nelle grandi imprese che imboccano la strada della specializzazione flessibile assumono un ruolo rilevante i fattori culturali ed istituzionali. Nel momento in cui cercano di sperimentare la nuova strada, diventano più dipendenti dall’ambiente di quanto non fossero le vecchie strutture fordiste. È il contesto istituzionale che influisce sulla possibilità di adattarsi rapidamente ai modelli produttivi flessibili;

il potenziamento delle capacità di apprendimento attraverso una più intensa ed efficace cooperazione tra le varie strutture e i vari soggetti che lavorano nell’ambito dell’impresa sembra favorito in quei contesti in cui il ruolo della gerarchia e la dequalificazione del lavoro sono stati mitigati rispetto al modello fordista tradizionale;

altro aspetto importante della strategia di potenziamento delle risorse cognitive per l’innovazione è costituito dall’apertura maggiore alle collaborazioni esterne; questo spinge le grandi imprese a cercare contatti con reti di subfornitori specializzati, di solito di piccole dimensioni e localizzati in aree di specializzazione produttiva. Da questo punto di vista la possibilità per le grandi imprese di sperimentare la specializzazione flessibile è condizionata dall’esistenza di piccole e medie imprese esterne. Di nuovo questo chiama in causa fattori culturali e istituzionali che hanno limitato l’impatto nel modello fordista sull’organizzazione economica, preservando forme di organizzazione produttiva non legate alla produzione di massa e tradizioni di tipo artigianale.

Le difficoltà del fordismo e le spinte al ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale hanno attirato l’attenzione anche verso forme di flessibilità nella produzione di beni e servizi diversi dalle precedenti, legate a

condizioni di minor dinamismo economico, di bassa capacità di innovazione e a rapporti di lavoro più sfavorevoli dal punto di vista salariale e normativo. Cresce l’interesse per l’economia informale come meccanismo di adattamento alla nuova situazione. Può essere considerata come l’insieme di attività di produzione e distribuzione di beni e servizi che sfuggono in tutto o in parte alla contabilità nazionale.Una definizione più specifica di economia informale si può basare su tre dimensioni: modalità di produzione di beni e servizi, tipo di beni e servizi prodotti, orientamento al mercato della produzione. L’economia formale è costituita dalla produzione destinata al mercato di beni e servizi leciti, realizzata secondo modalità che non violano la legge. Per contro quella informale sarà caratterizzata dalla mancanza di uno o più di questi requisiti, in particolare:

1. la produzione secondo modalità che violano la legge di beni e servizi anch’essi illegali configura la componente informale che si può definire come economia criminale;

2. la produzione di beni e servizi leciti, però realizzata con modalità che violano in tutto o in parte la legge, costituisce la componente dell’economia nascosta (o sommersa);

3. la produzione di beni e servizi leciti, realizzata secondo modalità che non violano la legge, non orientata al mercato ma all’autoconsumo familiare o di un gruppo sociale è chiamata economia domestica o comunitaria.

A partire dalla seconda metà degli anni ’70 l’attenzione della sociologia economica va in misura crescente alla diffusione dell’economia informale, in particolare a quella domestica, comunitaria e nascosta. In assenza di informazioni e misurazioni precise è difficile dire con precisione se e in che misura le attività dell’economia informale siano cresciute negli ultimi decenni. Nello sviluppo del capitalismo liberale la tendenza prevalente è stata quella ad un progressivo spostamento di attività informali verso la sfera dell’economia formale. Nel campo della produzione dei beni questo fenomeno si è accompagnato alla crescita delle grandi imprese e della produzione per il mercato. Nei servizi c’è stato il declino di forme tradizionali, regolate da meccanismi di reciprocità a base familiare e comunitaria, in parte sostituite dal welfare statale. L’inversione di tendenza si manifesta in relazione ad entrambe le dimensioni e va ricollegata alle difficoltà del fordismo e della produzione di massa, e anche alla presenza di elevata disoccupazione.

5.La nuova sociologia economica

Le trasformazioni del modello fordista hanno stimolato lo sviluppo di una nuova sociologia economica a livello micro per approfondire forme di organizzazione produttiva flessibili. Accanto a questo filone, più influenzato dalla ricerca empirica, si fa strada nell’ultimo ventennio un altro approccio al quale partecipano economisti e sociologi interessati a sviluppare nuovi strumenti per analizzare la crescente varietà dei modelli di organizzazione economica. Agli occhi degli economisti erano inadeguate le interpretazioni alle diverse forme di organizzazione delle attività economiche basate su fattori tecnologici. Sul versante sociologico lo sviluppo delle teorie neoutilitarie stimola una reazione a mettere in evidenza i limiti dell’approccio economico.

Dagli anni ’70 si sviluppa un’economia istituzionale che mette in discussione l’idea dell’impresa come funzione di produzione, ovvero come entità produttiva i cui confini sono definiti dalla tecnologia. Secondo gli studiosi di questo approccio la microeconomia tradizionale opera ad un livello di astrazione troppo alto per poter spiegare in modo efficace la fenomenologia concreta dell’organizzazione economica e rinvia la questione a determinanti tecnologiche concentrandosi sullo studio del mercato. Ma in questa soluzione è difficile spiegare perché alcune transazioni avvengono nel mercato ed altre all’interno dell’impresa. Il nuovo approccio vede nel mercato , nell’impresa o nelle forme di collaborazione tra aziende, delle istituzioni economiche che possono essere spiegate come reti di contratti tra soggetti che vogliono massimizzare il proprio interesse. A differenza del modello neoclassico tradizionale, si ipotizza l’esistenza di costi di transazione variabili, dovuti a condizioni di incertezza e carenza di informazioni. Da qui una serie di accorgimenti contrattuali volti a ridurre i costi di transazione che si presentano nelle situazioni di scambio economico

• L’analisi dei costi di transazione

L’economista di riferimento è Williamson, il quale si richiama a diversi filoni teorici per impostare la sua teoria. Sul versante economico si collega al contributo di Coase che per primo aveva legato l’origine dell’impresa all’esistenza di costi di transazione. Williamson ritiene che per capire i costi di transazione non è sufficiente riferirsi a fattori ambientali ma anche a fattori umani. Da questo punto di vista è indispensabile superare i postulati della piena razionalità e della condotta ottimizzante dei decisori, proprio del modello economico tradizionale. Senza mettere in discussione questi presupposti, gli stessi costi di transazione non si manifesterebbero, come ipotizza l’approccio tradizionale. Williamson individua nel concetto di razionalità limitata lo strumento essenziale per caratterizzare in forma più realistica le decisioni dei soggetti economici. Nel definire meglio l’azione economica è bene tener conto anche della tendenza all’opportunismo, ovvero della mancanza di sincerità e onestà negli scambi, che può portare al perseguimento del proprio interesse con l’inganno. Quando tra i fattori ambientali prevalgono condizioni di incertezza-complessità, legate alla difficile previsione di eventi futuri o condizioni di dipendenza, lo spazio per i vincoli derivanti dai fattori umani (razionalità limitata e opportunismo), cresce. Si manifestano quindi dei costi di transazione, determinati dalla difficoltà di definire anteriormente ed eseguire successivamente, un contratto per una specifica transazione. Secondo Williamson in questa situazione la scelta di coordinare per via gerarchica, attraverso l’internazionalizzazione dell’impresa, una determinata attività si farà strada per motivi di efficienza, cioè per ridurre i costi di transazione. Quindi a parità di costi di produzione si farà più ricorso all’impresa che al mercato quanto maggiori saranno i costi di transazione. Williamson rielabora e sviluppa il suo schema analitico in “Le istituzioni economiche del capitalismo”; i fattori umani mantengono un ruolo rilevante ma sono considerati sempre come dati, mentre per i fattori ambientali, l’attenzione si concentra sulla specificità delle risorse, ovvero sul grado di specializzazione degli investimenti che caratterizzano una certa transazione.

1. Il tradizionale scambio di mercato tenderà a prevalere per quelle transazioni che comportano bassa specificità delle risorse;

2. per transazioni occasionali a più alta specificità si farà ricorso al mercato, ma per ridurre i costi di transazione ci si varrà dell’assistenza di terze parti in qualità di arbitri o mediatori;

3. quando la frequenza di transazioni a più elevata specificità aumenta compaiono strutture di governo più complesse, si afferma cioè un governo bilaterale che si affida ad accordi di lunga durata, joint ventures, ecc…. Questo è un elemento di novità nello schema di Williamson che in questo modo si propone di render conto dello spazio crescente di forme di organizzazione intermedie tra il mercato e la gerarchia. Con essi si cercherebbe di ridurre i costi di tali forme di governo delle transazioni;

4. al crescere della specificità delle risorse la gerarchia appare come unica soluzione più efficiente per limitare i costi di transazione.

Rispetto allo schema di Williamson la sociologia economica ha una visione diversa. Riguardo i fattori umani, sia la razionalità limitata che l’opportunismo, rimandano a più ampi orientamenti cognitivi e normativi degli attori che non sono dati ma variabili, sono una costruzione sociale, un prodotto del processo storico di una determinata società. Un altro aspetto problematico riguarda le istituzioni, che tende a sottolineare le origini della ricerca razionale da parte di attori di soluzioni più efficienti. Questa prospettiva pone due problemi: da un lato trascura l’influenza dei fattori culturali e politici, delle reti sociali, sulle origini dei modelli di organizzazione economica che si affermano nei vari contesti; dall’altro tende a sottovalutare la persistenza di assetti organizzativi anche meno efficienti. Su entrambi gli aspetti, collegati alla considerazione di Williamson, si sviluppa la critica della sociologia economica.

Nella nuova sociologia economica confluiscono due approcci diversi, quello incentrato sulle reti sociali e il neoistituzionalismo sociologico. Parlando di ciò che li distingue e li accomuna, possiamo far riferimento a due aspetti tra loro collegati: la teoria dell’azione e le conseguenze derivanti per la spiegazione della varietà delle forme di organizzazione economica.Riguardo il primo aspetto, gli studi in questione condividono una teoria dell’azione tipica della sociologia economica: vedono l’azione come socialmente orientata e criticano l’atomismo e l’utilitarismo che resta prevalente nell’economia istituzionale; tuttavia si può dire che la critica della nuova sociologia economica non va solo alla concezione iposocializzata dell’attore, propria dell’economia, ma anche a quella ipersocializzata

presente nella sociologia. Si prendono le distanze da una visione in cui il comportamento dei soggetti è fortemente condizionato dalla cultura e dalle norme assimilate alle al processo di socializzazione.Quindi la nuova sociologia economica tende a sviluppare una teoria dell’azione più costruttivista, che risente delle critiche dell’approccio di Parsons avanzate dall’etnometodologia e dalla fenomenologia. A partire da questo terreno si aprono diversi percorsi; l’approccio strutturale sottolinea maggiormente la collocazione dei soggetti nelle reti sociali, come fattore che condiziona l’interazione e gli orientamenti, il neoistituzionalismo dà più peso alle componenti cognitive e normative della cultura che si producono nell’interazione sociale.Nonostante queste differenze entrambe le posizioni condividono la critica all’economia istituzionale per quel che riguarda le origini delle varie forme di organizzazione economica, le quali non appaiono riconducibili alla ricerca razionale di soluzioni efficienti per minimizzare i costi di transazione, ma risentono del radicamento sociale dell’azione economica. Per i sostenitori dell’approccio strutturale questo vuol dire che non è possibile capire l’organizzazione economica senza collegarla all’influenza autonoma esercitata dalle reti in cui i soggetti sono inseriti, invece per i neoistituzionalisti bisogna far riferimento al ruolo autonomo della cultura.Per gli autori riconducibili all’approccio strutturale l’azione è sempre socialmente orientata e non può essere spiegata solo sulla base di motivazioni individuali. Il radicamento sociale è visto in termini strutturali perché si assume che l’azione sia fondamentalmente influenzata dalla collocazione dei singoli soggetti nelle reti di relazioni sociali in cui sono coinvolti; reti stabili di relazioni costituiscono delle strutture che è necessario costruire per valutarne gli effetti sul comportamento economico. Tra i diversi autori di questo filone spicca Granovetter che ne ha chiarito in modo efficace i presupposti metodologici e le conseguenze applicative.Il punto di partenza di Granovetter è la critica alla teoria dell’azione. Williamson e la nuova sociologia economica istituzionale in genere, hanno una visione iposocializzata dell’attore, si sottolinea il peso dell’opportunismo ma si pensa che possa essere tenuto sotto controllo da istituzioni efficienti che hanno lo scopo di minimizzare i costi di transazione. L’inserimento dei soggetti in reti stabili di relazioni personali permette di diffondere le informazioni e tenere sotto controllo il comportamento, generando fiducia e isolando rapidamente chi non la merita. Come conseguenza di questo approccio, le forme di organizzazione economica non possono essere spiegate come risposte efficienti al problema dei costi di transazione da soggetti che perseguono razionalmente il loro interesse: questa visione implica una spiegazione funzionalista delle istituzioni come soluzioni che emergono automaticamente per far fronte a certi problemi. Per Granovetter e per i seguaci dell’approccio strutturale, esse sono socialmente costruite.Come già visto, l’approccio strutturale sottolinea l’influenza delle reti sociali sul comportamento economico in ambiti diversi: dal mercato del lavoro a quello dei beni e servizi, alle attività finanziarie. L’impatto dei reticoli sociali è differenziato. In alcuni casi la fiducia e le informazioni che circolano attraverso i rapporti personali limitano l’opportunismo e facilitano la cooperazione tra i soggetti nei mercati; ma le reti possono anche essere uno strumento che aggira o elude la concorrenza e quindi può ridurre l’efficienza attraverso forme di collusione tra i soggetti. Questa apertura delle reti sociali a esiti differenti sul piano delle attività economiche è ben esemplificata dal concetto di capitale sociale.L’uso di questo concetto si manifesta a partire dagli anni ’60 e il sociologo francese Pierre Bourdieu è uno dei primi ad introdurlo. Ma è soprattutto con il lavoro dell’americano James Coleman che l’espressione capitale sociale inizia a diffondersi e ad essere collegata ai problemi dello sviluppo.

Capitale sociale: insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale o collettivo dispone in un determinato momento

Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, informazioni o normative come la fiducia, che permettono agli attori di realizzare obiettivi altrimenti non raggiungibili, o lo sarebbero stati a costi più alti. Spostandosi dal livello individuale a quello aggregato si potrà dire che un determinato contesto territoriale risulta più o meno ricco di capitale sociale a seconda che i soggetti individuali o collettivi che vi risiedono siano coinvolti in reti di relazioni più o meno diffuse.Un’ampia dotazione di capitale sociale a livello aggregato tende ad essere in genere il sottoprodotto di relazioni sociali extraeconomiche presenti in un territorio, questo spiega perché alcune indagini identifichino il capitale sociale con una particolare cultura che favorisce la cooperazione e mettano in rilievo il suo radicamento nella storia precedente di un territorio.

La posizione dei neoistituzionalisti nell’ambito della nuova sociologia economica si differenzia da quella degli strutturalisti perché essi vogliono mettere in evidenza il ruolo autonomo dei fattori culturali; mentre per gli strutturalisti le reti determinano risorse e vincoli che condizionano il perseguimento razionale degli interessi da parte dei soggetti, per i neoistituzionalisti i fattori culturali contribuiscono a definire gli interessi stessi e le modalità attraverso le quali perseguirli.La teoria dell’azione dei neoistituzionalisti è più ampia di quella degli strutturalisti e ha carattere multidimensionale. In questo caso la critica alla nuova economia istituzionale si accompagna ad un interesse nelle istituzioni come variabili indipendenti, a una svolta verso spiegazioni cognitive e culturali e a un interesse verso le proprietà di unità di analisi sovraindividuali. Questa teoria prende le distanze dalla teoria parsonsiana ipersocializzata dell’attore, ma a differenza di quanto succede per gli strutturalisti, questa critica non si accompagna alla svalutazione del ruolo della cultura e delle istituzioni ma a una loro ridefinizione. Il neoistituzionalismo è influenzato dalla svolta a livello micro realizzatasi in sociologia con l’etnometodologia, l’approccio fenomenologico e anche dagli sviluppi della psicologia cognitiva; questo porta ad enfatizzare la dimensione cognitiva delle istituzioni rispetto a quella normativa, quindi possiamo dire che viene data più importanza alle regole costitutive che a quelle regolative. Di fronte alla carenza di informazioni e ai rischi delle transazioni non è possibile seguire una rigorosa scelta razionale delle soluzioni più efficienti; i soggetti individuali e collettivi si affidano non solo alle reti ma anche alle soluzioni considerate più appropriate nell’ambiente dove si collocano le loro interazioni sociali. Per questo motivo i neoistituzionalisti sono interessati a spiegare le aree di omogeneità nelle forme di organizzazione economica e i meccanismi sociali che la influenzano.Un’esemplificazione delle conseguenze sul piano applicativo dell’approccio neoistituzionalista è costituita dal contributo si Powell e Di Maggio sull’isomorfismo, volto a spiegare l’omogeneità dei modelli all’interno di un determinato campo organizzativo, il quale è costituito dall’insieme degli attori rilevanti in un certo campo di attività. Riferendoci all’economia, esso si estende non solo alle imprese che competono in un determinato settore ma anche a quelle che forniscono servizi alle strutture pubbliche, organizzazioni sindacali e di categoria. Powell e Di Maggio criticano la tesi della teoria ecologica delle organizzazioni secondo la quale un certo campo riflette la selezione delle unità che si adattano meglio alle caratteristiche dell’ambiente esterno in cui si muovono; questo avviene più nei settori aperti alla concorrenza con il mercato, dove prevale un isomorfismo competitivo, anche se anche in questi settori , specialmente in quelli più distanti dal mercato di concorrenza, agisce un isomorfismo istituzionale.La prima forma di isomorfismo istituzionale è quella coercitiva; la regolamentazione pubblica può comportare vincoli che obbligano ad assumere modelli simili, ma anche le relazioni industriali possono agire in questa direzione. Un’influenza coercitiva viene esercitata da organizzazioni forti verso altre da esse dipendenti.Invece l’isomorfismo normativo è legato al ruolo delle università e delle scuole specialistiche nella formazione dei manager, i quali attraverso la loro mobilità di carriera e per mezzo delle loro reti di relazioni, diffondono reti e standard professionali di comportamento che assumono un’elevata legittimità e vengono più facilmente seguite dalle imprese.Di gran rilievo è l’isomorfismo mimetico, specie in settori nei quali le unità organizzative sono piccole e dispongono di risorse limitate per valutare le soluzioni più efficienti. È probabile che per ridurre l’incertezza vengano seguiti modelli che appaiono più appropriati e quindi più legittimati nel campo organizzativo. Le varie forme di isomorfismo possono combinarsi tra loro rafforzando le spinte ad adottare un determinato modello.

• Cultura, reti, interessiConsideriamo alcune ricerche di tendenze in corso. La caratteristica che le accomuna si può individuare nel tentativo di combinare gli stimoli che vengono dai due diversi approcci della nuova sociologia economica. Questi studi danno rilievo alla dimensione culturale nella prospettiva del neoistituzionalismo, ma la combinano con la dimensione relazionale più propria dell’approccio strutturale e anche con quella degli interessi e rapporti di potere tra i gruppi sociali che essi configurano. Queste ricerche toccano anche le attività finanziarie a testimonianza del loro rilievo crescente nell’organizzazione economica, avvertito anche nell’ambito della sociologia economica. Un interessante studio condotto da Frank Dobbin ha affrontato il tema della grande trasformazione delle imprese americane negli anni ’80 - ’90, con un’indagine su 429 grandi imprese. Prima di allora il modello corrente era quello dei conglomerati di grandi imprese che diversificavano le loro attività in più campi. Il nuovo modello si

allontana dal vecchio per vari aspetti: le nuove imprese si focalizzano su uno specifico settore di attività, non sono più valutate sulla base di profitti e dividendi ma del valore delle azioni, la corporate governance (controllo d’impresa) è condizionata all’apertura del mercato dei diritti di proprietà, i manager devono dirigere le aziende in modo da massimizzare a breve il valore delle azioni per i rispettivi detentori e per questo le loro retribuzioni si basano in misura crescente su bonus e stock options, la posizione di dirigente delle attività finanziarie assume un ruolo di rilievo affiancando quella di amministratore delegato. Questo cambiamento avviene all’insegna del modello secondo il quale l’impresa deve orientare la sua azione alla creazione di valore per gli azionisti (shareholder value).

• Modelli a confronto

Abbiamo visto come i neoistituzionalisti si contrappongono all’economia istituzionale sottolineando il ruolo dei fattori culturali e politici in una visione più ampia di quella degli strutturalisti, i quali si concentrano sulle reti interpersonali. Soprattutto negli studi più recenti la dimensione relazionale tende a combinarsi maggiormente con quella culturale e politica; rispetto alla sfida costituita dalle nuove teorie economiche, la tendenza comune è quella di sottolineare il radicamento sociale, culturale e politico dell’azione economica, e le conseguenze che ne derivano per la varietà dei modelli di organizzazione. Questa prospettiva integrata è indicata dal maggior esponente dell’approccio strutturale , Granovetter, come obiettivo da perseguire in futuro nell’agenda teorica dell’agenda della sociologia economica. La prospettiva della nuova sociologia economica punta a dare maggiore autonomia all’attore e verificarne la varietà dei comportamenti nello spazio e nel tempo in rapporto con le risorse relazionali di cui dispone, gli orientamenti culturali che lo guidano, gli interessi e i rapporti di potere che lo condizionano. Questa varietà dell’azione aiuta a capire perché venga messa in discussione l’idea che le forme di organizzazione economica si possono spiegare come risultato di maggiore efficienza da parte di individui o soggetti collettivi che agiscono indipendentemente gli uni dagli altri nel perseguimento razionale dei loro interessi e questo porta a dire che non si possa individuare in qualsiasi momento un’unica forma efficiente di organizzazione.La nuova sociologia economica è più orientata alla comparazione e alla messa a punto dei modelli locali che possono rendere meglio conto della variabilità dei contesti.

I nuovi sviluppi della sociologia economica a livello micro, sia nell’approccio strutturalista che in quello neoistituzionalista, sono rimasti concentrati sul versante delle attività produttive di beni e servizi e di quelle finanziarie. Non ha avuto successo il tema dei consumi nonostante il suo rilievo nella tradizione della sociologia economica. Questo si può spiegare con il fatto che molti autori vicini al neoistituzionalismo prevengono dagli studi organizzativi. Abbiamo visto come la tradizione della sociologia economica si differenzia dall’approccio economico di tipo neoclassico sottolineando l’influenza di fattori socioculturali nella formazione delle preferenze e nelle modalità con le quali i soggetti cercano di soddisfarle, particolare rilievo è dato al valore simbolico dei beni. Il consumo è visto come una componente essenziale dei processi di identificazione con alcuni gruppi sociali con i quali si condivide un determinato stile di vita e al contempo di differenziazione da altri gruppi. Rispetto a questa tradizione gli sviluppi più recenti si muovono in due direzioni: da un lato prendono le distanze dal modello di ispirazione vebleriana che lega il consumo alla competizione per lo status sociale, dall’altro si contrappongono a quelle visioni che sottolineano la subordinazione passiva dei consumatori alle scelte imposte dalle imprese e sostenute dai meccanismi della pubblicità e dei mezzi di comunicazione di massa. Per mettere in luce queste tendenze è utile distinguere tra un filone neodifferenziazionista ed un altro più legato alla cultura nei fenomeni di consumo.Riguardo l’approccio neodifferenziazionista un esempio significativo è quello di Jean Baudrillard, che sulla scia di Veblen sottolinea il ruolo della competizione per lo status nei comportamenti di consumo. I modelli di consumo attraverso cui i soggetti tendono a differenziasi sono sempre più mediati dai mezzi di comunicazione di massa; in questa situazione i singoli individui si identificano socialmente per mezzo degli oggetti di consumo e sono impegnati in un’attività di manipolazione di questi oggetti come segni, cioè come portatori di un valore simbolico in termini di adesione a modelli culturali determinanti con i quali possono distinguersi. I consumatori hanno l’illusione di scegliere liberamente tra questi modelli ma in realtà sono condizionati dal sistema dei media che li impone.

L’approccio di Pierre Bourdieu è diverso. Anche per lui i comportamenti di consumo rispondono ad una logica di competizione per lo status che spinge ad identificarsi con gli stili di vita e gusti di alcuni gruppi a differenziarsi gli uni dagli altri. Tuttavia in questo caso l’attenzione non si focalizza sui media ma sui condizionamenti esercitati sugli individui dalla loro posizione nella stratificazione sociale. L’innovazione rispetto al modello vebleriano è riscontrabile nel carattere più complesso e multidimensionale che assume la distinzione sociale. Dalla combinazione tra le due diverse dimensioni emerge un quadro dettagliato di gruppi sociali che si distinguono gli uni dagli altri per specifici stili di vita.

6.La globalizzazione e la diversità dei capitalismiSe in un primo momento a suscitare l’attenzione degli studiosi sono stati i vantaggi delle economie coordinate di mercato ( capitalismo tedesco o giapponese), negli ultimi anni questa immagine è stata messa in discussione dai segni di ripresa dell’economia britannica e americana, ma più in generale dalla necessità di fare i conti con il fenomeno della globalizzazione. La crescente interdipendenza ed integrazione delle economie a livello mondiale sembra minacciare gli equilibri dei modelli di capitalismo più organizzato, dove lo spazio del mercato è maggiormente limitato ad altre forme di regolazione; il capitalismo anglosassone ha dimostrato di adattarsi meglio a questa nuova situazione, almeno fino alla crisi finanziario-economica del 2008. Si è aperto un dibattito sul possibile impatto della globalizzazione sulla persistenza dei sistemi di regolazione diversi dalle attività economiche, ovvero sulla varietà dei capitalismi nazionali. In questa discussione la sociologia economica mette in guardia dall’assumere in modo acritico l’ipotesi di una progressiva convergenza istituzionale, indotta dalla globalizzazione.

Nel corso degli anni ’70 il problema principale da affrontare per le economie dei paesi sviluppati è l’inflazione. Il modello del neocorporativismo indicava un tentativo di soluzione basato sull’accordo dei governi con grandi interessi organizzati, in questo caso inflazione e disoccupazione si mantenevano relativamente basse. Ma buoni risultati in termini di controllo di queste variabili otteneva anche il modello del decreto, basato su una maggiore autonomia dello stato dagli interessi. Nel caso di sistemi di tipo pluralista che si affidavano al mercato (Stati Uniti e Regno Unito), il controllo dell’inflazione sarebbe stato più difficile se si fosse accompagnato a livelli più alti di disoccupazione. Tuttavia una volta riportata sotto controllo l’inflazione l’attenzione si sposta sulla capacità di innovazione delle imprese.A partire dagli anni ’80 prende forma un ambiente dove la capacità delle imprese di un determinato paese di competere sul mercato internazionale diventa più rilevante per lo sviluppo economico e per l’occupazione. I confini delle economie si aprono sempre di più e l’economia di una nazione è influenzata da quella delle altre. Una quota crescente di produzione è orientata verso i mercati internazionali, il reddito di un paese diventa più dipendente dalla capacità delle sue imprese di vincere la concorrenza delle importazioni nei mercati interni e di competere con successo su quelli esteri; l’insieme di questi cambiamenti è associato al crescente fenomeno della globalizzazione dell’economia.Uno dei primi lavori sulla capacità di adattamento delle economie nazionali al nuovo contesto di integrazione internazionale è di David Soskice, che parte dai limiti del modello neocorporativo per interpretare la nuova situazione. Il problema cruciale non è più solo il controllo dell’inflazione ma la bilancia dei pagamenti, cioè la capacità delle imprese nazionali di innovare e aumentare le esportazioni rispetto alle importazioni, in un quadro di crescita complessiva più lenta dell’economia mondiale e di maggiore concorrenza tra i produttori. Questo richiede di non fissare solo l’attenzione sulle istituzioni che permettono di contenere i salari come nel modello neocorporativo. La moderazione salariale e il controllo dell’inflazione, ottenuta attraverso accordi centralizzati tra il governo e le grandi organizzazioni di interessi, non bastano a sostenere l’occupazione, la quale ora dipende dalla capacità delle imprese di innovare e mantenere ed accrescere quote del mercato internazionale. Questo a sua volta richiede un particolare contesto istituzionale che favorisca lo spostamento verso produzioni flessibili e di qualità per ridurre la competizione di prezzo proveniente dai paesi in via di sviluppo, con bassi costi del lavoro.In questa prospettiva tendono ad integrarsi gli approcci macro e micro; la variabile dipendente non è più il grado di controllo dell’inflazione e della disoccupazione, come nei primi modelli di political economy comparata, ma la capacità di innovazione delle imprese, da cui dipende la penetrazione nel mercato interno e internazionale e quindi il reddito e l’occupazione di un determinato paese. Di conseguenza cambia anche il quadro delle variabili

indipendenti, che si estende dalle istituzioni che influiscono sulle politiche macro e sul controllo del costo aggregato del lavoro a quelle che condizionano l’innovazione delle imprese a livello micro: finanza, meccanismi di governo delle imprese, ruolo del management, regolazione dei rapporti di lavoro, formazione della manodopera e servizi alle imprese. Soskice individua cinque condizioni essenziali dalle quali dipende la capacità delle imprese dei paesi più sviluppati di spostarsi verso una produzione flessibile di qualità, in modo da evitare la competizione di prezzo legata al costo del lavoro.

1. È necessaria una gestione manageriale a lungo termine. L’innovazione è un processo rischioso che richiede tempo e investimenti e non ha resa immediata. Solo un management proiettato nel lungo periodo e valutato su queste dimensioni può favorirlo;

2. il miglioramento della qualità dei beni è legato all’innovazione di processo e prodotto che richiede elevate competenze professionali, non solo nel management ma anche nella manodopera. Le risorse umane vanno continuamente aggiornate;

3. è importante anche la capacità di cooperazione tra management e lavoratori. L’innovazione richiede il superamento delle gerarchie rigide del fordismo e il coinvolgimento attivo dei lavoratori nella realizzazione degli obiettivi aziendali;

4. per una produzione flessibile di qualità è necessario che ci sia un’elevata capacità di cooperazione con clienti e subfornitori, infatti questo permette di instaurare reti fiduciarie che favoriscono l’innovazione;

5. non va trascurato il ruolo del contenimento salariale rispetto alla crescita della produttività. Se questa condizione non è soddisfatta gli sforzi per migliorare la produttività rischiano di essere compromessi.

In un contributo successivo Hall e Soskice sottolineano che l’innovazione dipende dal modo in cui l’impresa risolve i problemi di coordinamento tra manager e lavoratori, in modo da valorizzare il contributo dei lavoratori al perseguimento della qualità e alla crescita della produttività.Il passo successivo è quello di mostrare che le cinque condizioni precedenti non si determinano per una pure scelta del management delle imprese ma sono favorite o ostacolate dall’ambiente istituzionale esterno alle imprese, ovvero da un insieme di regole che agiscono a livello macro e micro e sono tra loro strettamente correlate. La letteratura sulla varietà dei capitalismi sottolinea in particolare tre aspetti:

1. Viene messa in evidenza l’origine non solamente contrattuale delle istituzioni. Queste si formano storicamente e non sono riducibili ad una scelta razionale di soluzioni efficienti da parte degli attori. In questo senso il filone di studi sulla varietà dei capitalismi condivide la posizione del neoistituzionalismo sociologico e la sua critica alla nuova economia istituzionale;

2. complementarità istituzionale. Si ipotizza che la presenza di determinate istituzioni tenda a collegarsi sistematicamente ad altre;

3. livello nazionale. Proprio il rilievo dato al percorso storico nel plasmare il patrimonio istituzionale porta a sottolineare il ruolo che lo stato nazionale continua ad avere nel complesso istituzionale dotato di una sua integrazione e specificità.

Torniamo all’influenza di diversi contesti istituzionali sulle condizioni che favoriscono l’innovazione delle imprese. Secondo gli studi sulla varietà dei capitalismi la situazione dei paesi più sviluppati può essere ricondotta a due modelli idealtipici; Hall e Soskice distinguono tra economie coordinate di mercato e economie non coordinate di mercato. Il primo tipo si caratterizza per un sistema di regolazione in cui il ruolo del mercato è più limitato rispetto a quello dello stato (Germania, Austria, Svizzera, Olanda, paesi scandinavi, Giappone); le seconde sono quelle dove il ruolo di regolazione del mercato resta più ampio ( Stati Uniti, Regno Unito, Nuova Zelanda, Australia, Canada).In che modo le economie coordinate favoriscono l’innovazione? Occorre analizzare diverse dimensioni della regolazione istituzionale.

1. Finanza e assetto proprietario delle imprese. È un elemento che influisce molto sulla condizione per l’innovazione legata alla gestione manageriale a lungo termine. Nelle economie non coordinate le esigenze di finanziamento delle imprese sono prevalentemente soddisfatte attraverso il reperimento di capitale sul mercato azionario. A loro volta le imprese sono quotate in borsa e la proprietà del capitale è condivisa con attori diversi: fondi di investimento, soggetti privati,…, comunque attori non vincolati a un rapporto di lungo termine con l’impresa. Quindi la decisione di vendere o tenere le azioni è influenzata da valutazioni sulla loro redditività; questo tende a scoraggiare una gestione delle imprese orientata a lungo

termine da parte del management e quindi ostacola l’innovazione che richiede investimenti a resa più rischiosa.Nelle economie coordinate, in particolare Germania e Giappone, il mercato borsistico è meno sviluppato che nei capitalismi anglosassoni. Le esigenze di finanziamento a lungo termine delle imprese sono soddisfatte soprattutto dalle banche; questi soggetti tendono ad intrattenere un rapporto di più lungo termine con le imprese e sono in grado di valutare le prospettive di redditività a lungo termine;

2. formazione professionale. È una aspetto che influenza la competizione dei lavoratori e la possibilità che questi acquisiscano quella polivalenza che li metta in grado di svolgere compiti diversi e partecipare più attivamente alla produzione, contribuendo alla flessibilità e qualità. Nelle economie non coordinate l’addestramento professionale è affidato alle imprese per la parte più specifica, legata al particolare tipo di produzione dove i lavoratori vengono usati, mentre la professionalità di base che il singolo lavoratore può offrire sul mercato è legata all’investimento che egli è in grado di fare;

3. relazioni industriali a livello di impresa. Influiscono sulla cooperazione tra management e lavoratori come fattori di innovazione. C’è una difficoltà a sviluppare un rapporto di cooperazione stabile e di coinvolgimento attivo dei lavoratori e degli stessi quadri intermedi, cioè la difficoltà a coltivare la flessibilità funzionale. Viene ad essere più scarsa una risorsa essenziale per l’innovazione nell’ambito della produzione flessibile e di qualità. Come viene affrontato il problema delle economie coordinate? Con il sistema di regolazione dei rapporti di lavoro; questo sistema è più rigido rispetto all’altro modello perché pone più vincoli alla flessibilità numerica e riconosce un ruolo più attivo alle rappresentanze sindacali nella gestione delle imprese. La regolazione dei rapporti di lavoro scoraggia la flessibilità numerica ma favorisce quella funzionale. Le imprese sono incentivate ad investire di più in formazione per valorizzare le risorse umane di cui non possono liberarsi facilmente , ma la maggiore stabilità dell’occupazione incoraggia il coinvolgimento più attivo dei lavoratori e lo sviluppo do forme di lavoro flessibili;

4. le economie non coordinate sono più povere di reti sociali informali e formali legate all’associazionismo imprenditoriale. Queste sono rilevanti per la produzione e la circolazione delle informazioni e della fiducia necessarie per l’innovazione in un ambiente economico in cui crescono la velocità e i costi di introduzione dei nuovi prodotti, mentre diminuisce la loro resa nel tempo sul mercato. Il capitalismo anglosassone tende ad affidarsi maggiormente al mercato e alla gerarchia come meccanismi di regolazione e questo ne limita le capacità di innovazione. L’opposto avviene per le economie coordinate. Non è solo lo stato a svolgere un intervento di regolazione più esteso ma sono largamente presenti reti di cooperazione basate su rapporti informali e sulla diffusione dell’associazionismo imprenditoriale;

5. aspetti istituzionali che influiscono sul problema del contenimento salariale rispetto alla crescita della produttività. Qui l’analisi di Hall e Soskice riprende e ridefinisce i risultati del modello neocorporativo. Le economie coordinate si avvalgono di forme di controllo legate alla contrattazione centralizzata tra sindacati forti, organizzazioni imprenditoriali e governi. Per quanto riguarda le economie non coordinate, in cui il ruolo delle organizzazioni sindacali è debole, il contenimento salariale deve fare maggiore affidamento sulla diffusione della disoccupazione come elemento di pressione sulle rivendicazioni salariali dei lavoratori. Ciò vale ancora di più nelle economie non coordinate perché queste dispongono di più bassi livelli di professionalità vendibile sul mercato dai lavoratori.

Il quadro tracciato dalla letteratura della varietà dei capitalismi alla fine degli anni ’80 viene rimesso in discussione per effetto di due fenomeni: il successo di Giappone e Germania subisce una battuta d’arresto significativa, mentre i capitalismi anglosassoni, soprattutto quello americano, mostrano nuovi segni di dinamismo, specie dal punto di vista occupazionale; in secondo luogo gli sviluppi della globalizzazione sollevano crescenti interrogativi sulla capacità di resistenza a lungo termine del quadro istituzionale delle economie coordinate rispetto alle sfide poste dalla globalizzazione.I successivi contributi dei protagonisti dell’approccio basato sulla varietà dei capitalismi hanno cercato di tener conto di questi cambiamenti e hanno condotto una revisione del modello iniziale. I primi lavori di Soskice e Albert si proponevano di spiegare il maggior successo in termini di crescita economica e più limitate disuguaglianze sociali delle economie coordinate di mercato. Soskice sottolinea come i due capitalismi abbiano vantaggi diversi

rispetto all’innovazione: quello anglosassone è più favorevole ad innovazioni radicali che aprono il campo a nuove frontiere tecnologiche, quello renano-nipponico è più forte nelle innovazioni incrementali che sfruttano il potenziale commerciale delle nuove piattaforme tecnologiche con un continuo lavoro di adattamento alle esigenze di un mercato di largo consumo. Hall e Soskice tornano sul tema dicendo che l’approccio dei due capitalismi non intende sostenere che uno è superiore all’altro, sia le economie liberali che quelle coordinate sembrano offrire livelli soddisfacenti di performance economiche di lungo periodo.La crescita dell’economia americana e britannica nel corso degli anni ’90 ha contribuito a ridimensionare l’immagine di capitalismo renano-nipponico come modello vincente sotto il profilo sociale ed economico. C’è da notare che la ripresa del capitalismo anglosassone si basava su un ruolo trainante della finanza e un indebolimento della struttura produttiva manifatturiera che ha sollevato dubbi sulla sua sostenibilità nel tempo; la crisi finanziaria del 2000 ha acuito queste preoccupazioni.Gli Stati Uniti hanno creato il più alto numero di posti di lavoro negli anni ’90 e nei primi 2000 soprattutto nei servizi e ridotto ai livelli più bassi il tasso di disoccupazione. Ma se consideriamo il caso inglese i risultati sono di più modesta entità e sempre concentrati nei servizi privati. Per quel che riguarda l’industria manifatturiera nel Regno Unito c’è un’inversione di tendenza rispetto al passato e le capacità innovative si mantengono basse, invece negli Stati Uniti, nel corso degli anni ’90 si è avuta una significativa ristrutturazione industriale. La produttività torna a crescere a tassi consistenti e l’occupazione rimane stabile, con uno spostamento verso nuovi settori che compensano quelli in crisi; resta comunque un imponente deficit commerciale.L’industria americana mostra alcuni punti di forza nel campo dell’alta tecnologia che sembrano essersi ulteriormente consolidati. Questa specializzazione è collegata ad alcune specificità del contesto istituzionale, sottovalutate nei primi studi sulla varietà dei capitalismi; da questo punto di vista va considerato l’impegno americano in campo militare, che alimenta consistenti flussi di spesa per la ricerca e innovazione tecnologica in settori ad alta tecnologia. Importante è anche la diffusione delle strutture universitarie e di ricerca di elevato livello, con connessioni molto strette con il mondo delle imprese e con frequenti passaggi di personale dal campo della ricerca a quello delle imprese innovative.Infine un importante ruolo è svolto da un altro fattore istituzionale: la presenza di venture capitals, ovvero istituzioni attrezzate e competenti nel fornire capitale di rischio per il finanziamento di progetti innovativi. Secondo Soskice questo spiega perché il capitalismo americano, in misura minore di quello britannico, fornisca un ambiente istituzionale più adatto alle innovazioni radicali; però questo stesso contesto è meno in grado di ottenere l’adattamento e l’utilizzazione sul piano della produzione manifatturiera di tali innovazioni, in sostanza lo sviluppo di produzioni flessibili e di qualità. Questo implica adattamenti ed innovazioni incrementali che richiedono un coinvolgimento a lungo termine dei ricercatori, alta qualificazione professionale della manodopera, rapporti di collaborazione tra il management e i lavoratori e tra impresa madre e subfornitori, cioè un contesto istituzionale più tipico delle economie coordinate.

Negli anni 2000 la discussione sulla varietà dei capitalismi si è arricchita di nuovi contributi che possiamo dividere in tre principali direzioni. Si sviluppa un confronto sulla difficoltà del modello di Halle Soskice a ricomprendere alcuni casi nazionali rilevanti che non è facile attribuire alle economie liberali o a quelle coordinate; in questa chiave vengono proposte altre tipologie di capitalismi. In secondo luogo ci si chiede se sono i sistemi istituzionali più integrati e coerenti ad ottenere risultati migliori in termini di crescita economica o quelli più eterogenei. Infine alcuni autori hanno messo in dubbio la capacità delle istituzioni nazionali di spiegare in misura esauriente il comportamento delle imprese, a fronte di un peso crescente della globalizzazione e dei condizionamenti che esercita sulle strategie delle aziende.Hall e Soskice notano come lo schema basato sulla coppia economie liberali e coordinate lasci alcuni casi nazionali in una posizione più ambigua, tra questi paesi ci sono in particolare quelli dell’Europa mediterranea. Richiamandosi ad un contributi di altri autori, mettono in evidenza alcune caratteristiche che sembrano accomunare questi paesi in un capitalismo mediterraneo: presenza storica di un esteso intervento dello stato nell’economia che si è accompagnata a forme di coordinamento non di mercato nel finanziamento delle imprese e a meccanismi di controllo della proprietà delle aziende anch’essi poco aperti al mercato. Nel contempo questi paesi presentano un’ampia quota di rapporti di lavoro più regolata dal mercato e investita da processi di liberalizzazione; i livelli di protezione sociale sono più ridotti che nel welfare continentale ed è più forte il ruolo assegnato alla famiglia per far fronte a problemi riguardanti la cura dell’infanzia, i malati, gli anziani.

In questo modo entra nella discussione l’idea di tipi misti; Robert Hanckè, Martin Rhodes e Mark Tatcher si concentrano su quelle varietà di capitalismo intermedie, che rimanevano marginali al modello di Hall e Soskice, come ad esempio il caso francese, spagnolo e italiano. Allo stesso tempo gli autori si concentrano anche sulle economie di mercato emergenti, ci si inizia quindi ad interessare ad altre varietà di capitalismo e mostrarne vincoli ed opportunità in termini di promozione e sviluppo. Più rilievo è dato allo stato nei diversi tipi di capitalismo; nel lavoro dei tre autori si trova una tipologia sui possibili ruoli ricoperti dallo stato nel differenziare i vari tipi di capitalismo. Prendendo in considerazione due dimensioni, rapporto tra stato e arena economica, e livello di frammentazione nelle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, individuano quattro modelli di capitalismo. L’esempio del primo tipo, dirigismo, è dato dal caso francese fino agli anni ’90, quando lo stato ha avuto un ruolo importante nella promozione dell’economia e nelle scelte delle imprese a fronte di organizzazioni di rappresentanza degli interessi molto deboli. Il secondo , lo stato che compensa, è rappresentato dal caso italiano negli ultimi decenni, con lo stato che interviene molto ma dirige poco. Il terzo tipo, stato non interventista, è più vicino alla tipologia originaria di Hall e Soskice, in particolare al modello delle economie liberali con organizzazioni degli interessi più frammentate. Il quarto, stato che concerta, è molto vicino al modello originario delle economie coordinate, ben rappresentato dal caso tedesco; lo stato non interviene direttamente nell’economia ma organizza un vasto intervento nel campo del welfare.Un altro contributo che parla di una tipologia più complessa e dettagliata delle varietà di capitalismo è costituito dal lavoro di Bruno Amable, il quale prende in considerazione diverse sfere istituzionali: il mercato dei prodotti e il governo delle imprese, quello del lavoro e le relazioni industriali, il sistema finanziario, il welfare e la protezione sociale, e il sistema educativo. Su questa base vengono individuati cinque tipi di capitalismo contemporaneo: incentrato sul mercato ( Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada), socialdemocratico ( Danimarca, Finlandia, Svezia), europeo continentale (Germania, Francia, Belgio, Austria), europeo mediterraneo (Spagna, Portogallo, Italia, Grecia), asiatico (Giappone, Corea). Il lavoro di Amable va oltre l’approccio dualistico di Hall e Soskice e allo stesso tempo usa una diversa metodologia di comparazione. L’autore sottolinea la presenza di tipi eterogenei , che non rispondono al loro interno ad una logica istituzionale: quella del mercato o del coordinamento non di mercato; questi due tipi si possono identificare con il modello incentrato sul mercato dei paesi anglosassoni e con quello europeo continentale ( caso tedesco).L’analisi di Hall e Soskice è stata criticata perché si ritiene che trascuri il cambiamento dei vari tipi di capitalismo nel tempo, sarebbe quindi un’analisi statica. I due autori ritengono che le pressioni esterne tendano a rafforzare i due tipi di capitalismo. La loro argomentazione si può così riassumere: la complementarità istituzionale dà ai paesi che si avvicinano di più ai due tipi puri un vantaggio per le strategie delle loro imprese; a fronte di pressioni esterne i conti delle imprese e i ricavi degli investimenti possono peggiorare; in questa situazione chi detiene risorse mobili ( meno vincolate dai meccanismi di regolazione) cercherà di recuperare margini di profitto altrove, investendo in paesi con più basso costo del lavoro, se sono imprese manifatturiere, o spostando i capitali verso altri impieghi se si tratta di detentori di capitale finanziario; invece nel caso di imprese e detentori di capitale delle economie coordinate, i vincoli all’uscita sono più elevati e quindi gli operatori economici cercheranno di rafforzare i meccanismi di coordinamento all’interno dei vari paesi per far fronte alle nuove sfide.Gli autori in realtà fanno delle ipotesi sul mutamento ma ritengono che la complementarità istituzionale maggiore dei capitalismi nazionali più vicini ai tipi puri li metta meglio in condizione di reagire agli shock esterni rispetto ai tipi ibridi e misti; questa reazione spingerà a rafforzare le diversità tra i due tipi allontanandoli.

C’è un’ulteriore e più precisa argomentazione che mette in discussione l’idea della varietà dei capitalismi. Non si tratta di sottolineare i vantaggi competitivi del capitalismo anglosassone nell’immediato ma viene messo in evidenza come questo modello possa mostrare a lungo termine migliori capacità di adattamento ai vincoli posti dalla globalizzazione. Dall’altra parte le nuove condizioni di competizione prevalenti a livello internazionale verrebbero a determinare una progressiva erosione delle istituzioni regolative delle economie coordinate. Il risultato finale sarebbe una convergenza nel tempo verso il modello istituzionale del capitalismo anglosassone. Qui il concetto di globalizzazione non si riferisce solo alla crescita dell’apertura e dell’interdipendenza delle economie nazionali ma assume che la globalizzazione implichi un’estensione dei modelli regolativi basati sul numero. In che misura considerare fondata questa ipotesi? Consideriamo una serie di tendenze che alimentano il fenomeno della globalizzazione sul piano empirico e ne valutiamo le conseguenze per il futuro dei capitalismi.

• Le componenti della globalizzazione

Dobbiamo tener conto che la fase di bassi tassi di crescita delle economie dei paesi più sviluppati inizia nei primi anni ’70 e continua nel periodo successivo. Questa bassa crescita si accompagna ad un forte aumento del commercio internazionale. L’ammontare complessivo dei flussi di scambio annuale tra i diversi paesi è cresciuto molte volte di più del PIL mondiale; tra i paesi aderenti all’Ocse la quota delle esportazioni sul PIL è cresciuta sensibilmente e questo vuol dire che la torta da dividersi cresce poco ma la concorrenza tra i vari paesi per aggiudicarsene fette più ampie aumenta. Cambia anche la geografia della produzione mondiale, con un declino del peso percentuale di Stati Uniti ed Europa e una crescita concentrata soprattutto nei paesi dell’Asia.Un secondo indicatore è dato dagli investimenti diretti all’estero. Anche questi sono in aumento, trainati dalla ricerca da parte delle imprese di localizzazioni più favorevoli per controllare i mercati di sbocco e per godere dei vantaggi in termini di costi.Il terzo aspetto che segna in misura più marcata l’interdipendenza tra le diverse economie è costituito dall’integrazione dei mercati finanziari. L’internazionalizzazione commerciale e industriale stimola il movimento di capitali necessario a finanziare il commercio e gli investimenti, per scongiurare rischi valutari, per spostare gli utili ottenuti all’estero, ecc…. La rottura del sistema monetario basato sui cambi fissi (inizio anni ’70) ha accelerato questo processo facendo crescere il mercato dei prodotti finanziari come i contratti a termine o opzioni. Se teniamo conto di tutti e tre gli indicatori possiamo cogliere sul piano descrittivo il fenomeno della globalizzazione economica intesa come crescita del livello di apertura e insieme di interdipendenza delle diverse economie nazionali.

• Il futuro dei capitalismi

Per quel che riguarda la portata dei processi di globalizzazione sul piano empirico, vari contributi hanno sottolineato che il commercio internazionale e gli investimenti diretti all’estero sono in forte crescita, però nei paesi più sviluppati non di piccole dimensioni la gran parte della produzione è ancora rivolta al mercato interno. Persistono differenze nei tassi di crescita, di occupazione, di profitto, che rimandano all’influenza esercitata dal contesto istituzionale. È vero che il costo del lavoro sensibilmente più basso in molti paesi in via di sviluppo è una minaccia soprattutto per le economie coordinate che puntano alla produzione flessibile e di qualità con più alte retribuzioni e maggior stabilità del lavoro. Tuttavia è anche vero che i capitalismi più organizzati dispongono di un livello di economie esterne e un complesso istituzionale che le mette in condizione di controllare i processi di innovazione e le fasi produttive a più elevato valore aggiunto.I sostenitori della tesi della convergenza potrebbero obiettare che ciò che conta è la tendenza complessiva. Ci si può aspettare che in futuro la convergenza si realizzerà? Suzanne Berger individua tre tipi di argomentazioni portati da coloro che rispondono positivamente a questa domanda, e che sono ancora validi.

1. C’è la pressione dei mercati e della crescente concorrenza a livello internazionale. Questo aumenta i costi economici della protezione sociale esercitata dagli stati, sia direttamente tramite interventi redistributivi, sia indirettamente tramite la regolamentazione del mercato del lavoro;

2. processi di imitazione di regole istituzionali che danno buoni risultati in termini di rendimento economico;3. introduzione contrattata, tramite accordi internazionali, di forme di regolazione simili. Gli accordi

internazionali di questo tipo, che servono ad abbattere le barriere protettive e promuovere la liberalizzazione dei mercati e introdurre standard tecnici comuni sono numerosi.

A queste argomentazioni Berger ne contrappone altre che gettano dubbi sulla portata dei processi di convergenza istituzionale.

1. Ambiguità delle pressioni esercitate dal mercato. L’accresciuta concorrenza segnala delle esigenze di aggiustamento ma non è in grado di imporre anche una soluzione istituzionale standard a tali problemi. È più probabile che tale soluzione emerga sulla base dei condizionamenti esercitati sulle scelte degli attori del patrimonio istituzionale ereditato dal passato e dai confini di interesse tra i sostenitori delle vecchie regole;

2. rispetto ai problemi competitivi possono emergere nei vari settori risposte diverse dal punto di vista istituzionale che tuttavia si equivalgono come capacità competitiva, muovendosi negli stessi mercato;

3. esistenza di forme specifiche di interdipendenza tra le diverse istituzioni che caratterizzano una determinata realtà nazionale e che sono legate a una comune matrice culturale maturata storicamente. Si può ipotizzare una ridefinizione delle economie coordinate che si accompagni al persistere di equilibri multipli, ovvero sistemi istituzionali da punti di forza e debolezza differenziati.

In conclusione ci sono buone ragioni per presupporre che le tendenze della globalizzazione si accompagneranno a mutamenti istituzionali significativi e alla ridefinizione di confini tra i diversi modelli di organizzazione dell’economia. Questa prospettiva si lega all’idea di equilibri multipli, piuttosto che un solo equilibrio che si afferma gradualmente. La globalizzazione dei mercati creerà delle pressioni e vincoli che continueranno a essere filtrati e interpretati alla luce degli specifici contesti istituzionali ereditati dalla storia. Ci potranno così essere vantaggi o svantaggi per i vari paesi o regioni nell’affrontare la competizione economica. Alcune società potranno scegliere di crescere di meno in termini economici e mantenere un quadro sociale più coeso; altre potranno optare per un equilibrio diverso. Il problema che ciascuna di esse si troverà ad affrontare è quello di mettere a punto una regolazione intelligente e consapevole, un’azione che cerchi di usare al meglio il patrimonio istituzionale ereditato dal passato per rispondere alle sfide nel modo più efficace perché congruente con i diversi presupposti culturali e di civiltà.In questa prospettiva ci sarà in futuro molto lavoro per la sociologia economica che contribuirà a chiarire i processi di costruzione sociale del mercato; in un dialogo costante con l’economia potrà mettere a confronto modelli istituzionali diversi nello spazio e nel tempo, individuando punti di forza e debolezza dal punto di vista economico e sociale.