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Introduzione alla scienza politica Scienza politica Scienza e politica sono entrambe variabili che hanno molto variato, e variano in tempi diversi e con diverse velocità; prima che l'idea di scienza si incontri in modo significativo con l'idea di politica - dando vita alla Scienza politica - deve passare un bel po’ di tempo (fino all’inizio del Novecento): fino a quel momento una storia della Scienza politica si divarica in una storia a due voci: quella del concetto di scienza e quella del concetto di politica. 1

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Introduzione alla scienza politica

Scienza politica

Scienza e politica sono entrambe variabili che hanno molto variato, e variano in tempi diversi e con diverse velocità; prima che l'idea di scienza si incontri in modo significativo con l'idea di politica - dando vita alla Scienza politica - deve passare un bel po’ di tempo (fino all’inizio del Novecento): fino a quel momento una storia della Scienza politica si divarica in una storia a due voci: quella del concetto di scienza e quella del concetto di politica.

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La nozione di Scienza politica si precisa in funzione di due variabili:1. lo stato dell'organizzazione del sapere, che rinvia all’evoluzione della conoscenza scientifica;2. il grado di differenziazione strutturale degli aggregati umani, che rinvia all’evoluzione della società.

Storia della scienza

Tabella sinottica dei paradigmi scientifici proposti

paradigmi

dimensioni

paradigma metafisico-organicistico(antichità e medioevo)

paradigmaempiristico-meccanicistico(fine 1300-fine 1800)

"paradigmi" della complessità(dall'inizio del 1900)

rapportouomo-natura

organicistico meccanicistico eco-sistemico

linguaggio espressione di verità oggettivo convenzionale, contestualizzato

tipo di logica deduttiva(generale particolare) v. sillogismo

induttiva(particolare generale) v.metodo sperimentale

induttiva e abduttiva

tipo di spiegazione causa metafisica causa efficiente condizione probabile, causazione adeguata

epistemologia dominante

della corrispondenza logico-ontologica

della rappresentazione

della costruzione

valori guida primato della filosofia e primato

primato dell'individuo e

sviluppo umano sostenibile

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della teologia fiducia nel progresso

PARADIGMA METAFISICO-ORGANICISTICO

Organicismo: l’uomo è considerato come parte essenziale del Cosmo e della Natura. La Natura è intesa come un grande organismo vivente, gerarchicamente ordinato, dove ogni parte ha senso in quanto occupa un posto significativo all’interno di questo organismo. Il tutto quindi domina sulle parti. Le leggi che regolano la Natura sono leggi sovrumane, non definite dall’uomo né da esso modificabili. Ne segue che la concezione organicistica considera la politica, in altre parole l’attività con cui gli uomini regolano la propria vita associata producendo delle norme vincolanti, come un’attività strettamente dipendente dai vincoli che derivano dalle leggi naturali e/o divine.Questa concezione del rapporto tra uomo e Natura è strettamente legata, sul piano conoscitivo, al primato di una conoscenza scientifica di tipo metafisico e, sul piano del pensiero politico, all’organicismo politico, cioè a quella teoria politica che interpreta la società alla stregua di un organismo antropomorfo, ossia di una totalità gerarchica di funzioni, nella quale ogni parte, o classe, è destinata a svolgere una determinata mansione che, pur essendo "inferiore" o "superiore", risulta comunque indispensabile alla vita del tutto.Nel pensiero politico moderno possono essere ricondotte ad una concezione organicistica le ideologie nazionalistiche e quella comunista in cui il tutto (la nazione, la classe) domina sulle parti.

Linguaggio come espressione di verità:- sofisti: dubitavano che fosse possibile scoprire qualcosa di realmente vero ed insegnavano ai loro allievi l'arte retorica, cioè del convincere senza realmente avere conoscenze certe.- Socrate: capire la natura di una cosa non è un'impresa da poco e a questo scopo Socrate sosteneva che il modo più opportuno per conoscere filosoficamente la realtà era il dialogo allievo-maestro. Socrate infatti si rifiutò di usare la scrittura tanto come strumento didattico, quanto come mezzo per esprimere il suo pensiero, poiché riteneva che solo il dialogo attivo potesse essere in grado di seguire la variabilità del ragionamento, mentre la scrittura, che tende a fissare una volta per tutte lo stile espositivo ed argomentativo, tende inevitabilmente a distorcere il fluire del pensiero entro schemi rigidi e predefiniti che rischiano di diventare dogmatici. Al contrario intendere la ricerca filosofica sotto forma di dialogo significa concepire la filosofia come una ricerca continua, inesauribile e mai conclusa, come uno sforzo verso la verità cui l’uomo tende, ma che non possiede mai totalmente. Ciò vuol dire pure che la

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conoscenza filosofica non può essere mai completamente insegnata, ma rappresenta il risultato di un percorso di crescita umana e personale: una forma di saggezza, simile alle filosofie orientali.- Platone: per capire la natura di una cosa, è necessario ricorrere alla sua "forma" o "idea", in quanto la virtù si manifesta in diverse maniere. Eppure, essa viene identificata con una sola parola. Quindi esiste una "forma", potremmo chiamarla "essenza", comune a tutte le virtù, e "la virtuosità" che esiste a prescindere dai casi singoli di comportamento virtuoso (il coraggio, la bontà ecc.). A differenza di Socrate, Platone però utilizzò anche la scrittura per discutere di filosofia, usando soprattutto la forma dei miti.- Aristotele: conoscere filosoficamente significa essere in grado di classificare la realtà entro categorie analitiche precise di cui il linguaggio filosofico è espressione. Aristotele quindi abbandona il metodo dialogico, l’uso di miti e metafore, l’idea stessa di filosofia intesa come ricerca aperta e continua. Con Aristotele il passaggio dal dialogo alla scrittura è ormai compiuto: lo stile espositivo di Aristotele è analitico, descrittivo ed essenziale, spogliato da ogni riferimento a figure mitiche o metaforiche. La conoscenza filosofica consiste ora in un sapere enciclopedico, che può essere insegnato e comunicato completamente attraverso la conoscenza della logica. Il filosofo adesso è un sapiente, non più un saggio.

Logica deduttiva: Il ragionamento deduttivo coincide per Aristotele con il procedimento del sillogismo stesso, il quale, se vuole essere dimostrativo, deve sempre partire da premesse universali capaci di riferirsi alla sostanza o all’essenza necessaria degli oggetti considerati (dal generale al particolare). Il sillogismo è il ragionamento per eccellenza in cui, poste alcune premesse, ne segue necessariamente una conclusione.Per esempio:premessa maggiore: Ogni animale è mortalepremessa minore: Ogni uomo è animaleconclusione: Ogni uomo è mortale

Causa metafisica:- Platone: oggetto proprio della conoscenza scientifica sono, per Platone, le idee intese come entità immutabili e perfette che esistono per loro conto, indipendentemente dal pensiero umano e si trovano infatti in una zona diversa dalla nostra, chiamata metaforicamente dal filosofo iperuranio. L’ambito della conoscenza viene distinto in due diversi gradi di conoscenza: l’opinione e la scienza (dualismo gnoseologico, relativo alla conoscenza) cui corrispondono due diversi tipi di essere, che sono le cose e le idee (dualismo ontologico, relativo all’essere reale). - Aristotele: egli al contrario del suo maestro Platone, privilegia la conoscenza del mondo delle cose anziché quella del mondo delle idee che considera un inutile doppione. Qui la causalità finisce per assumere le sembianze di un nesso logico (sillogismo) in virtù del quale la causa

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funge da ragione necessaria del suo effetto, il quale è perciò deducibile da essa. In altri termini, l’effetto viene dedotto dalla causa, non è un evento separato da essa, ma è contenuto in essa come logica derivazione della causa stessa.

Epistemologia della corrispondenza logica-ontologica (Aristotele): le proposizioni sono enunciati dichiarativi, cioè un’espressione linguistica di senso compiuto che esprime dei giudizi e può essere detta quindi vera o falsa. La proposizione costituisce l’espressione verbale di un pensiero che procede componendo o dividendo concetti, a seconda che essi siano congruenti tra loro. Secondo Aristotele possiamo attribuire un giudizio di verità o falsità non a dei termini o concetti isolatamente presi ("uomo", "bianco") ma solo ad una qualche combinazione tra essi. La verità o falsità quindi sta nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa. D’altra parte, ciò che misura la verità è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso. In altri termini il vero, per Aristotele, consiste nel congiungere ciò che è realmente congiunto e nel disgiungere ciò che è realmente disgiunto (realismo gnoseologico e linguistico). Di conseguenza per Aristotele fra linguaggio, pensiero ed essere esistono necessari legami.

Primato della filosofia: Platone: la superiorità della conoscenza filosofica, come conoscenza assolutamente certa e immutabile, secondo la dottrina delle idee platoniche, va letta in opposizione al relativismo sofistico che aveva caratterizzato il periodo della democrazia della polis. Se l’umanesimo sofistico e socratico poneva nell’uomo, e non fuori dell’uomo, la fonte dei giudizi e il criterio del conoscere e dell’agire, Platone pone invece la fonte di ogni conoscenza fuori dal mondo umano. Aristotele: Egli distingue infatti tra filosofia prima (o metafisica) che considera l’essere in quanto tale, prescindendo dalle determinazioni che formano l’oggetto delle scienze particolari, e filosofie seconde che approfondiscono lo studio di particolari ambiti. Ma in questo caso il primato della filosofia non ha alcuna implicazione politica, poiché per Aristotele occorre distinguere tra la sapienza (sofia), la forma di conoscenza più alta derivante dallo studio della filosofia, e la saggezza (fronesis), cioè la capacità di agire convenientemente nel campo delle faccende umane che rende in grado di distinguere ciò che è bene da ciò che è male per l’uomo, derivante dall’esperienza del vivere: secondo Aristotele è bene che i governanti siano saggi piuttosto che sapienti. Con Aristotele la filosofia e la politica acquistano così due ambiti di competenza e due finalità conoscitive distinte e separate.Primato della teologia: Cristianesimo l’unità tra filosofia e religione quindi è un

presupposto, un dato di partenza, che guida e sorregge tutta la ricerca filosofica dei pensatori cristiani.S. Agostino: in polemica con lo scetticismo, si rifà alla teoria della conoscenza di Platone, sostenendo che nell’uomo esistano delle verità o dei criteri di giudizio che non possono derivare dalla mutevole percezione dei sensi, ma da idee innate che per Agostino provengono

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direttamente da Dio. Dio quindi è il fondamento di tutto ciò che è, Egli è la causa prima di tutte le cose e il fine verso cui tutte le cose tendono (spiegazione teleologica). S. Tommaso d’Aquino: rileggendo Aristotele in chiave cristiana, definisce rigorosamente il rapporto tra filosofia e religione, tra ragione e fede, sostenendo che, poiché l’uomo ha come suo fine ultimo Dio, non può fare affidamento sulla sola ricerca filosofica, fondata sulla ragione, per giungere alla conoscenza di Dio; ecco allora che si è resa necessaria la rivelazione divina che ha avuto la funzione di istruire l’uomo fornendogli le certezze di cui aveva bisogno per giungere alla conoscenza della verità.

PARADIGMA EMPIRISTICO- MECCANICISTICO

Meccanicismo: secondo questa concezione la Natura viene pensata come "un grande orologio" governato da leggi naturali che l’uomo, come osservatore esterno, può indagare e scoprire attraverso il metodo empirico. La natura quindi non è più concepita come un organismo antropomorfico, bensì come un grande meccanismo nel quale vi è un ordine oggettivo, causale, relazionale. La scienza che studia la natura quindi non è più di tipo qualitativo, bensì quantitativo, non si illude cioè di conoscere le essenze metafisiche ma indaga invece le proprietà evidenti e quantificabili dei fenomeni: figura, grandezza e movimento. La concezione meccanicistica nel pensiero politico si fonda sulla contrapposizione tra lo stato di natura, dove domina la legge del più forte, e la società civile fondata su un pactum unionis, su un accordo tra gli individui, con cui viene istituito lo Stato, cioè un’autorità sovra-individuale le cui leggi (umane) s’impegnano ad osservare. Con la concezione meccanicistica il potere politico si emancipa quindi dal potere religioso. il meccanicismo concepisce il tutto come la sommatoria delle sue parti: adesso è l’individuo che sta all’origine del vivere sociale. Lo Stato moderno occidentale, secondo la concezione meccanicistica, nasce infatti come società contrattuale e, quindi, come Stato di diritto e come Stato laico, legittimato dai componenti la società e non dall’alto.

Linguaggio oggettivo: poiché il fine della scienza è la conoscenza oggettiva del mondo e delle sue leggi, si presuppone che debba esistere un solo e unico linguaggio scientifico standardizzato, e quindi neutrale, che è poi il linguaggio della natura, in grado di rappresentare fedelmente i fenomeni naturali in modo oggettivo (realismo gnoseologico). La scienza viene concepita infatti come un sapere matematico che si fonda sul calcolo e la misura: la fisica (e gradualmente tutte le altre discipline che vogliono conformarsi al paradigma scientifico empiristico-meccanicistico), nello sforzo di darsi una veste rigorosa, procede ad una matematicizzazione dei propri dati, entro formule precise. La "quantificazione" si configura quindi come una delle condizioni imprescindibili dello studio della natura e come uno dei punti

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di forza del nuovo metodo inaugurato da Galilei che alla deduzione matematica assegna infatti un ruolo basilare nella stessa "scoperta" scientifica.

Logica induttiva: già Galilei deduzione ed induzione vengono perciò utilizzate entrambe in modo del tutto nuovo; infatti articola il lavoro della scienza in due parti fondamentali:a) il momento ipotetico-deduttivo, che egli chiama "risolutivo" o analitico, che consiste nello scomporre un fenomeno complesso nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili, formulando un’ipotesi matematica sulla legge da cui dipende, secondo la formula "se....allora";b) il momento osservativo-induttivo, che chiama "compositivo" o sintetico, che consiste nella verifica e nell’esperimento, attraverso cui si tenta di riprodurre artificialmente il fenomeno, in modo tale che, se l’ipotesi supera la prova, risultando veri-ficata (fatta vera), essa venga accolta e formulata in termini di legge; se invece non supera la prova e risulta smentita, possa venire sostituita da un’altra ipotesi.La novità sta nel fatto che ora la logica matematica permette di avanzare nuove ipotesi.Bacone afferma che l’induzione aristotelica, cioè l’induzione puramente logica che non incide sulla realtà, è infatti un induzione per semplice numerazione dei casi particolari. Invece l’induzione che è utile per la nuova conoscenza scientifica si fonda sulla scelta e sull’eliminazione dei casi particolari: scelta ed eliminazione che vengono ripetute più volte, sotto il controllo dell’esperimento, fino a giungere alla determinazione della vera natura e della vera legge del fenomeno. Anche Cartesio e Newton argomentano tesi a partire dal concetto di logica induttiva.

Causa efficiente: secondo Galilei la Natura è un ordine oggettivo causalmente strutturato di relazioni governate da leggi, e il metodo scientifico costituisce il modo in cui l’uomo può arrivare a scoprire quei nessi causali deterministici e certi che definiscono l’ordine naturale delle cose. Ponendosi contro ogni considerazione finalistica e quindi contro ogni spiegazione di tipo teleologico, Galilei sostiene che non dobbiamo cercare perché la Natura opera in un certo modo (causa finale) ma solo come essa opera (causa efficiente). La scienza deve descrivere i fenomeni, non ricercarne l’essenza. Galilei non intende con questo negare in assoluto l’esistenza di finalità e di essenze, ma semplicemente accantonarle, ritenendone metodologicamente non scientifica la ricerca.

Epistemologia della rappresentazione: con Kant avviene il riconoscimento della differenza del piano ontologico (cosa in sé) da quello gnoseologico (il fenomeno) con un ribaltamento del rapporto tra soggetto osservante e realtà conosciuta. Gli strumenti cognitivi (i giudizi sintetici a priori) dell’osservatore diventano cruciali per la conoscenza scientifica sul piano gnoseologico.

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Non vi è più corrispondenza necessaria tra la realtà della cosa in sé (che rimane sconosciuta all’uomo) e quella del fenomeno (che può essere conosciuto). Con Kant si cambia quindi concezione epistemologica: conoscere scientificamente non significa più indagare sulle essenze del vero essere sul piano logico-ontologico, ma cercare le cause dei fenomeni attraverso lo strumento conoscitivo dei giudizi sintetici a priori che, essendo concepiti come uguali per tutti gli uomini, possono produrre quindi conoscenza generale e universalmente accettata.Con Kant passiamo così da un’epistemologia dove piano ontologico e gnoseologico sono sovrapposti, che possiamo chiamare epistemologia delle corrispondenze logico-ontologiche, ad un’epistemologia della rappresentazione, dove la conoscenza scientifica si muove su un piano solo gnoseologico ed è in grado di fornire una rappresentazione fedele della realtà, simile ad una fotografia, che è un prodotto artificiale, ma rispecchia fedelmente la realtà dell’oggetto umanamente osservato.

Primato dell’individuo e fiducia nel progresso: mentre nel Medioevo si pensava che l’uomo fosse solo una parte di un ordine cosmico già dato (organicismo) che doveva essere conosciuto intellettualmente, nel Rinascimento si pensa invece che l’uomo debba costruire e conquistare il proprio posto nel mondo; quest’ultimo può essere pensato come il risultato dell’azione svolta dagli uomini e dagli altri esseri viventi (meccanicismo). Inizia così quel processo di laicizzazione del sapere che caratterizzerà l’età moderna, che consiste nella rivendicazione per ogni disciplina della propria libertà operativa. Ciò avviene attraverso un lungo e travagliato processo che coinvolge tutti gli ambiti umani di conoscenza.Il movimento filosofico e culturale del Positivismo nel XIX secolo vede nel metodo scientifico empiristico-meccanicistico la fonte del progresso e dello sviluppo dell’umanità. Secondo i positivisti, la scienza è l’unica conoscenza possibile, e il metodo scientifico empiristico-meccanicistico è l’unico metodo valido: ciò significa che la metafisica è priva di valore. La filosofia tende a coincidere quindi con la totalità del sapere positivo, in altre parole, con l’enunciazione dei principi comuni alle varie scienze: il suo compito diventa quello di realizzare una conoscenza unificata e generalissima (nomologica) che comprenda tutte le scienze empiriche. Il metodo scientifico va esteso quindi a tutti i campi, compresi quelli che riguardano l’uomo e la società, che fino allora ne erano stati esclusi. La sociologia, intesa da Comte come fisica sociale, diviene la scienza prediletta dai positivisti.

PARADIGMI DELLA COMPLESSITA’

Eco-sistemicismo: La "scoperta" di essere parte della natura ha prodotto una serie di vere e proprie rivoluzioni culturali in vari campi del sapere. L’approccio ecologico vede adesso

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l’individuo come un sistema complesso in cui si combinano elementi biologici, psichici e sociali. Anche l’ambito privato della vita di ognuno finisce con l’assumere così una valenza politica, e questo è proprio uno degli elementi che caratterizza le società complesse. il temine "eco-logia" ha, nella prima parte, la stessa radice tematica di "eco-nomia" (oikos=ambiente), ma si differenzia per la seconda parte tematica (logos=discorso o pensiero, anziché nomos=norma). Le due discipline propongono, infatti, due modalità radicalmente diverse di intendere il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, tra la parte e il tutto, e propongono sostanzialmente due diversi modelli di sviluppo, i quali partono da epistemologie diverse: l’economia si rifà alla fisica (dal modello empiristico-meccanicistico verso un modello probabilistico), l’ecologia si rifà alla biologia (dall’organicismo verso un modello di complessità sistemica).

Linguaggio convenzionale e contestualizzato:convenzionale: la crisi del meccanicismo dell'Ottocento innesca una sfiducia nelle certezze scientifiche e nella capacità dell'uomo di avere certezze riguardo alla realtà ed al futuro. Questa sfiducia, questa impossibilità di determinare come vanno e prevedere come andranno le cose, vede la nascita, nei primi del Novecento, del neopositivismo o empirismo logico. I massimi esponenti di questa tradizione sono F.L.G. Frege, A.N. Whitehead, B. Russell e in un primo momento L. Wittgenstein, i quali vedono nella filosofia un lavoro di "chiarificazione concettuale" del linguaggio scientifico al fine di porre delle basi empiriche alla conoscenza tramite un linguaggio unificato della scienza. Questo arduo e complesso compito porta i filosofi ad esaminare la natura del significato degli enunciati della lingua. Per i neopositivisti la conoscenza dipende puramente da fattori linguistici ed empirici e quindi da regole linguistiche e da procedure di verifica degli enunciati che determinano il significato e la verità delle proposizioni. Dal momento in cui si stabilisce che non esiste un metodo di verifica per vedere se un enunciato è vero, falso o addirittura privo di significato, per i neopositivisti la proposizione risulta priva di senso. Il criterio di verificazione, che permette appunto di stabilire se un enunciato ha significato o meno, riflette l'empirismo radicale del neopositivismo, permette di giungere alla conclusione che il linguaggio scientifico può essere costituito solo da enunciati sintetici in quanto solo questi sono riconducibili ad osservazioni o percezioni, di cui, utilizzando la terminologia di Russell, abbiamo conoscenza diretta ed immediata.Contestualizzato: i neopositivisti affermano che la lingua che parliamo non esprime la realtà così com'è: essa piuttosto proietta un ordine, un senso, e ciò fa sì che il mondo ci appaia così come la nostra lingua lo ha strutturato. W.V.O. Quine e i pragmatisti invece si distanziano molto dalla visione neopositivistica spostandosi verso un approccio decisamente pragmatico, poiché recuperano la dimensione analogica della comunicazione. Il significato per Quine è determinato da comportamenti linguistico-sociali e non da un riferimento diretto tra, appunto, parola e oggetto. In questo consiste la "relatività ontologica" di Quine in cui la realtà che noi pensiamo dipende non da come stanno effettivamente le cose che osserviamo, ma dagli stimoli

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che ci portano a comportarci in una maniera piuttosto che in un'altra, che sono stimoli linguistici e sociali. Inoltre i costruttivisti affermano che la nostra vita quotidiana si svolge inevitabilmente entro contesti diversi che incidono sulla nostra capacità di interpretare e dare significato alle azioni delle persone e dei luoghi con cui ci troviamo ad interagire e che, nello stesso tempo, ci suggeriscono come adeguare il nostro comportamento. Da cio deriva che è impossibile non comunicare e che nessuna comunicazione è decontestualizzata. Inoltre la comunicazione incontra spesso paradossi: ciò che è interessante per le scienze sociali è che ci si può imbattere:- in paradossi logici, o antinomie, nella costruzione per esempio di una teoria scientifica;- in definizioni paradossali, se non si definiscono attentamente le espressioni linguistiche utilizzate;- in paradossi pragmatici che sono spesso riscontrabili durante la ricerca empirica, come per esempio nei questionari e nelle interviste (paradosso del mentitore).

Logica induttiva e abduttiva: la sfida della complessità nel discorso scientifico viene affrontata almeno in due modi diversi che possono essere così riassunti:- se si crede che la ricerca scientifica consista nel semplificare una realtà complessa al fine di renderla meno problematica, si privilegia allora la logica induttiva, come è stato proposto dai neopositivisti che rimangono ancorati ancora entro un’epistemologia della rappresentazione;- se si ritiene, invece, che «la funzione della scienza sia piuttosto quella di trasformare in problema ciò che è convenzionalmente evidente» (Weber 1974), viene privilegiata allora la logica abduttiva, proposta dai costruttivisti (epistemologia della costruzione).Logica induttiva -> forma di ragionamento che nell'esame di uno o più casi particolari giunge ad una conclusione la cui portata si estende al di là dei casi esaminati.Logica abduttiva -> è un procedimento di prova indiretta, semidimostrativa, in cui la premessa maggiore è evidente, la minore invece è solo probabile, o comunque più facilmente accettata dall'interlocutore, che non la conclusione che si vuole dimostrare.

Condizione probabile: usare il termine probabilità non vuol dire rinunciare al principio di spiegazione causale (causa => effetto), ma rendere questo principio di spiegazione più articolato e complesso, introducendo un fattore X di incertezza. Questa modalità di spiegazione non muta pertanto in modo radicale l’epistemologia della rappresentazione, anzi, nel momento di costruzione del campione vengono di fatto riproposti gli stessi requisiti di rappresentatività a specchio tipici dell’epistemologia della rappresentazione, anche se sotto una logica probabilistica.

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Causa adeguata: correlati alla visione probabilistica sono i concetti weberiani di possibilità oggettiva e di causa accidentale e causa adeguata, secondo cui un fenomeno per poter essere compreso nella sua complessità deve essere analizzato entro il suo contesto spazio-temporale. Partendo da queste coordinate, l’osservatore sarà in grado di individuare plausibilmente non una sola causa, certa o probabile, ma una possibilità, sufficientemente adeguata per quel contesto, e solo in questo senso "oggettiva", che gli consenta di poter comprendere, e quindi spiegare, il fenomeno indagato inserendolo entro il suo sistema di significazione della realtà.

Epistemologia dela costruzione: nell'ambito della conoscenza scientifica occorre tenere conto di quella particolare relazione tra:a) soggetto (sistema osservante o interpretante) eb) oggetto (sistema osservato entro il suo contesto, o referente), che si realizza attraversoc) l'intermediazione linguistica e dei sistemi di significato, che permettono a loro volta di giungere ald) prodotto di questo rapporto conoscitivo, che per comodità qui chiameremo sistema conosciuto.In primo luogo bisogna precisare che oggi ci troviamo in una fase di transizione verso il "paradigma", o meglio, il metodo della complessità, in cui coesistono, sul piano epistemologico, due diverse concezioni del "sistema conosciuto" che fanno riferimento a due epistemologie differenti e quindi devono essere attentamente distinte: neopositivismo e costruttivismo. Considerazioni: la complessità, secondo questa prospettiva, riguarda perciò la realtà oggettiva del fenomeno indagato, come avveniva secondo i "giudizi sintetici a priori" kantiani, ed è una caratteristica del modello analitico solo nella misura in cui quest'ultimo rappresenta la complessità dell'oggetto indagato (realismo gnoseologico). In questo caso si è portati a pensare che non vi sia il problema della separazione tra sistema osservato e sistema osservante, poiché si ritiene che la distanza tra soggetto e oggetto sia garantita dal procedimento della ricerca stessa. Invece, proprio perché l'osservatore non ammette, o non è consapevole, di essere parte attiva nel processo conoscitivo, diventa sempre più probabile la confusione fra i vari livelli (a), (b) e (c), e quindi si verifica l'ipostatizzazione del modello utilizzato, cioè la confusione del modello analitico (sistema osservante e concetti significanti) con la realtà oggetto di studio (sistema osservato). Ma il sistema conosciuto può essere inteso anche come una mappa costruita per analizzare la realtà; in questo caso, la distinzione tra sistema osservato e sistema osservante deve essere una preoccupazione costante del ricercatore, poiché è da questa distinzione che dipenderà la scientificità della sua ricerca. In questo senso Weber parla di avalutatività, cioè della necessità di distinguere il sistema di valore dello scienziato dal sistema di riferimento dell'oggetto della sua ricerca, al fine di aumentare la "lucidità" con cui il ricercatore può leggere i fatti sociali su cui sta indagando, senza dare nulla per scontato.

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Sviluppo umano sostenibile: La crisi di valori che segna la cultura del nostro tempo può essere letta come una conseguenza del processo di secolarizzazione culturale iniziato con la rivoluzione scientifica e proseguita con la crisi del mito del progresso. Non si può più credere in un progresso lineare e sempre crescente, come voleva il Positivismo, ma occorre anzitutto problematizzare proprio il concetto di sviluppo, individuandone i fini, gli attori, le responsabilità e soprattutto i limiti. Il concetto di sviluppo umano sostenibile, insieme alla pace e all’ambiente costituiscono le basi di riferimento di una nuova generazione di diritti di cittadinanza.

La scienza politica

Possiamo ritenere che la Scienza politica, nel senso moderno del termine, cominci a delinearsi come disciplina autonoma quando privilegia lo studio del potere politico, inteso come attività umana e non come istituzione politica storicamente e territorialmente definita.I primi a proporre questo oggetto di studio furono i teorici della "scuola machiavellica italiana" - Mosca, Pareto e Michels -, studiosi che provenivano da formazioni e da aree disciplinari diverse (rispettivamente il diritto costituzionale e la storia delle dottrine politiche, l'economia, la sociologia) e che rivolsero la loro attenzione alle modalità di formazione e di ricambio delle classi dirigenti e della "classe politica". In questo contesto la metodologia proposta è quella positivista che va alla ricerca di "leggi sociali".Tuttavia, l'esperienza del fascismo e del nazismo e della seconda guerra mondiale fecero sì che in Europa gli studi politologici e delle altre scienze sociali venissero emarginati. La Scienza politica ha cominciato pertanto a configurarsi come disciplina autonoma sia nella definizione dell'oggetto di studio sia sul piano metodologico solo negli anni del secondo dopoguerra, grazie soprattutto al contributo determinante del comportamentismo statunitense. Con il comportamentismo viene introdotto il metodo delle scienze empiriche, elaborato dal neo-positivismo: da questo momento si può parlare di "scienza empirica della politica" o di "scienza della politica".Nel contesto comportamentista si riapre il dibattito sul potere politico che vede contrapporsi le tesi dei pluralisti e degli elitisti. E dagli Stati Uniti, con Easton, giunge la proposta di privilegiare come oggetto di studio della Scienza politica l'analisi del sistema politico, inteso come insieme di strutture e processi decisionali attraverso cui vengono allocate in modo imperativo le risorse di una società.Sul piano metodologico, il comportamentismo propone lo studio empirico dei comportamenti manifesti e delle attività umane, secondo una prospettiva astorica, in contrapposizione allo studio delle istituzioni storicamente determinate. Le teorie scientifiche di ispirazione comportamentista si presentano pertanto come teorie astoriche e nomologiche, mentre la ricerca empirica fa uso, per la prima volta, di tecniche di

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rilevazione empirica quantitative, come i sondaggi, le interviste strutturate su questionari, l'analisi statistica multivariata, secondo le indicazioni dell'operazionalismo di Lazarsfeld.Anche il metodo comparato trova in questo periodo negli Stati Uniti un momento di grande espansione, sempre all'interno della scuola neopositivista: nasce così la Politica comparata come settore di ricerca specifico della disciplina.Parallelamente a questa "scienza di leggi" si sviluppa anche una "scienza di società" di matrice weberiana che, se trova spazio nella Sociologia, non ne trova invece, in questo periodo, presso gli studiosi di Scienza politica, formatisi prevalentemente, se non esclusivamente, secondo un orientamento metodologico neopositivista.Solo a partire dagli anni Settanta con la "scoperta" della complessità sociale si creano le condizioni per una "rivoluzione" nella ricerca politica e sociale, che Pasquino (1985, p. 31) ha definito "weberiana".Nella fase del post-comportamentismo, dalla fine degli anni Settanta a oggi, si riapre il dibattito sul metodo, si riprende a discutere e a problematizzare gli itinerari di ricerca, proponendo sostanziali innovazioni entro la disciplina sia sul piano metodologico sia su quello degli "oggetti" su cui fare ricerca.

La storia della scienza politica in Italia: durante il ventennio fascista la Scienza politica decadde a dottrina dello stato e per poter parlare di una Scienza politica consolidata bisognerà aspettare gli anni Sessanta. Nella cultura dominante del secondo dopoguerra vi erano infatti più elementi che concorrevano a far sì che la politica non venisse considerata come un ambito da analizzare scientificamente. In primo luogo, il neoidealismo di scuola crociana negava la possibilità di una scienza empirica della politica. In secondo luogo, la cultura marxista ufficiale alimentava un orientamento prevalentemente speculativo che impediva uno sviluppo delle scienze sociali empiriche.Leoni propone un oggetto di studio preciso per la disciplina, intesa come "scienza dello Stato". A partire da questo "oggetto" privilegiato, l'autore è in grado di elaborare i concetti empiricamente utilizzati nelle sue analisi.Bobbio riscopre le "radici culturali" della Scienza politica italiana e quindi le "fonti autorevoli" del metodo empirico, parlando un linguaggio accettabile per il mondo accademico italiano del tempo, con il risultato di ridare spazio e dignità scientifica alla nuova disciplina e al metodo empirico nella scienza politica.Sartori avvicina, negli anni Settanta, la Scienza politica italiana al comportamentismo statunitense, rafforzando di fatto, all'interno della disciplina, un'opzione epistemologica neopositivista.Solo nella fase più recente del post-comportamentismo (fine anni Settanta, anni Ottanta) si comincia a delineare anche in Italia un mutamento, tanto in relazione all'oggetto quanto in relazione al metodo di studio. L'analisi dei sistemi complessi orienta inoltre la ricerca verso la riscoperta delle istituzioni politiche entro cui si muove l'attore politico (neoistituzionalismo), ma

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anche dello Stato e della sua crisi, proprio perché quello dello Stato è il contesto istituzionale, storico e geografico entro cui si svolge la maggior parte le ricerche. Il caso del sistema politico italiano presenta inoltre una serie di caratteristiche peculiari, per esempio rispetto ai paesi anglosassoni, tanto sul piano culturale quanto su quello territoriale e politico locale, tali che non sembra possibile prescindere dall'analisi della sua vicenda storica, andando ben oltre le origini dello Stato unitario, per comprendere le logiche del sistema di azione e del sistema di valori che orientano la vita politica dei nostri giorni.

Oggetti e metodi della scienza politica: alcuni possibili percorsi di lettura

paradigma scientifico

paradigma empirico-meccanicistico

‘paradigmi’ della complessità

metodo

oggetto

epistemologia della rappresentazione epistemologia della costruzione

positivismo neopositivismo costruttivismo

analisi del potere politico

-teoria dell’elite

(Mosca, Pareto, Michels)

-comportamentismo

(elitisti, pluralisti, neoelisti)

-idealtipi weberiani

analisi del sistema politico

-strutturalfunzionalismo(Parsons, Almond)

-approccio sistemico(Easton)

-approccio della civic culture(Almond, Verba)

-politica comparata

-sistema politico come formazione storica(Farneti, Rokkan)

-comparazione per contesti e sistemi di significati

analisi dei sistemi complessi

-teoria dell’attore razionale

-neoistituzionalismo

Lo Stato

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Vi sono, nella teoria politica, almeno due grandi filoni di pensiero in cui si articola la riflessione riguardante lo Stato: - per il primo di essi, lo Stato non è un prodotto specifico della modernità occidentale, ma una realtà politica che si può riconoscere se non in ogni società ed in ogni periodo storico, sicuramente anche in una molteplicità di situazioni non riconducibili all’esperienza occidentale moderna. La filosofia della storia di Hegel (1967) associa il termine “Stato” a tutte «le istituzioni che realizzano, in ogni epoca, la sintesi di forza e valori etici entro società strutturate in senso in egualitario» (Portinaro 1999), ed anche autori ideologicamente lontani fra loro come Friederich Engels e Gaetano Mosca propendono per un’estensione dell’applicazione del concetto di “statualità” che vada ben oltre i confini della modernità occidentale.- un secondo filone, il cui riferimento principale è costituito da Carl Schmitt, connette la genesi della statualità al superamento delle guerre civili di religione in Europa e conseguentemente individua la modernità europea come “epoca dello Stato”. In questo secondo filone, possiamo trovare autori lontanissimi rispetto a Schmitt, come David Easton che sostiene esplicitamente: «Prima del secolo diciassettesimo per il lungo periodo durante il quale gli uomini vissero e si governarono l’un l’altro (…) non esisteva nessuno Stato. Al massimo vi fu una forma frammentaria di vita politica. La Grecia ebbe la sua comunità cittadina, mal tradotta oggi con l’espressione città-Stato; il medioevo ebbe il suo sistema di feudalità; le comunità esotiche di oggi hanno i loro consigli, dirigenti e capi. (…) Si tratta di forme politiche in transizione, pre-Stati o Stati nascenti» (Easton 1963).In questa sede però è importante capire la tipoicità dello stato moderno e il suo contesto; a partire dal XV secolo, e a partire dal continente europeo, lo Stato è divenuto la forma di gestione centralizzata del potere politico su un determinato territorio (Weber): la dispersione territoriale del potere tipica del Medioevo lascia il posto alla centralizzazione del potere che caratterizza la modernità.

Il sistema feudale: il rapporto imperatore-vassallo presenta, al contempo, elementi di gerarchia e di contrattualità: mentre il patronato della polis classica finiva per rafforzare e cristallizzare sempre più la struttura del potere diseguale della società (è necessario ricordare che le polis classiche si “tenevano insieme” sulla base dell’accettazione generale della disuguaglianza considerata come un fattore naturale), ed i clienti vivevano perennemente nel terrore che il potente revocasse le garanzie per la loro sussistenza, nel sistema feudale il vassallo si appropria degli strumenti per garantirsi la protezione adeguata (e al contempo per assicurare la sopravvivenza alle genti di cui è “signore”), garantendo, in cambio, l’impegno di fornire il proprio aiuto all’imperatore quando necessario, ed il riconoscimento formale della sua supremazia. In sostanza, in virtù di questo scambio il vassallo esercita personalmente entro il proprio feudo svariate funzioni di dominio, giungendo pertanto ad esercitare il potere di disporre dell’esistenza materiale della maggior parte della popolazione, in particolar modo dei contadini, e dei ceti più umili del mondo rurale. Inoltre se il rapporto imperatore-vassallo, pur nella sua evidente asimmetria presuppone un riconoscimento di onorabilità e rispetto reciproci,

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quello vassallo-sudditi resta di natura estremamente oppressiva: la maggioranza schiacciante della popolazione europea nell’età di mezzo vive una condizione di piena “eterodirezione”.Con l’incremento del potere de facto dei vassalli, l’intero potere politico reale si frantuma e si disperde. L’unità fondamentale dell’intera struttura diviene il feudo. Il feudatario, in virtù dei suoi redditizi diritti signorili e delle risorse umane di cui può agevolmente avvalersi, diviene più rilevante delle cariche pubbliche (conti e missi) nei rapporti con il potere centrale. Nel 1037, durante l’assedio di Milano, l’imperatore Corrado II è costretto a riconoscere espressamente il principio di ereditabilità del feudo, e con esso il ruolo sempre più influente assunto dalle élite nobiliari locali. Questa forma di legittimazione del potere ha delle conseguenze molto rilevanti, che configurano un ordine politico molto dissimile rispetto a quanto verrà realizzato nell’ambito della statualità moderna: non soltanto i sudditi, ma anche l’imperatore e i Signori territoriali sono vincolati all’osservanza della legge divina. Una legge che non prevede deroghe e non può contemplare, conseguentemente, alcuno stato d’eccezione (appartenendo, l’ambito della eccezionalità, all’esclusivo dominio di Dio).

La rinascita della città e il sistema dei ceti: Il ritorno alla centralità cittadina ha come cause la ripresa economica e il mutato clima culturale che fanno seguito all’avvento dell’anno Mille.

Notevole è il contributo di Weber in questo senso; egli, definendo la città in termini economici, afferma:a- la città viene concettualmente intesa come un insediamento circoscritto: essa è una borgata molto estesab- sotto il profilo economico, la città consiste in un insediamento in cui gli abitanti vivono prevalentemente di redditi industriali e commerciali, anziché di attività agricole.c- sotto il profilo politico-sociale la città rimanda ad un’idea di controllo del proprio mercato interno (inteso come fenomeno urbano).Weber distingue due grandi visioni del mondo e concezioni della vita. Di fronte all’Oriente in cui prevale l’elemento magico-rituale, l’Occidente svilupperebbe una concezione razionale del mondo, sin dall’emancipazione dalla magia presso gli ebrei, attraverso la polis greca ed il razionalismo giuridico e sociale di Roma, per giungere alla moderna ascesi intramondana dell’etica protestante, considerata come principale matrice culturale del capitalismo.Elemento forte di distinzione non può essere che la città: Weber si riferisce alla peculiarità occidentale della città come centro relativamente autonomo di potere, mentre in altri contesti storici la realtà cittadina si ritrova sempre subordinata a sistemi di potere più vasti.Inoltre Weber è consapevole di come la città tardomedievale sia portatrice di elementi di significativa novità e di sfida alle forma tradizionali di legittimazione dell’autorità politica. La peculiarità che Weber intende porre in evidenza è la dimensione propriamente politica della città ed il rapporto contraddittorio della medesima rispetto alla statualità.

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Con la rinascita delle città avviene l’ingresso di una nuova e dirompente forza nelle relazioni politiche precedentemente caratterizzate dal conflitto fra l’Impero e i feudi. La città, infatti, rinasce (dopo secoli di abbandono e decadenza) principalmente come centro produttivo e commerciale in espansione, ma al contempo anche come nuovo soggetto politico influente e relativamente autonomo. Il ceto è pertanto un’aggregazione di individui che si riconoscono sulla base di un’attività economica. Esso si dota di istituzioni di controllo dell’attività svolta dai propri membri, l’appartenenza dei quali è in relazione all’esercizio di una data professione. L’organizzazione politica del “sistema dei ceti” prevede la presenza di organi di ceto ufficiali, detti stati, espressamente costituiti per bilanciare il potere del signore territoriale. Nelle assemblee del sistema dei ceti la concezione culturale dei ruoli politici si modifica rispetto al feudalesimo: il Principe non viene più considerato come titolare di una carica feudale, ma pubblica. Il processo di “pubblicizzazione” del ruolo del Principe rende la sua figura istituzionalmente più elevata rispetto alle assemblee dei ceti: egli detiene una carica che prescinde dagli accordi congiunturali e revocabili dei ceti e rappresenta un riferimento politico stabile, proprio mentre le entità politiche locali cadono preda di una sostanziale instabilità e di violente lotte intestine per l’acquisizione delle cariche più influenti.

Evoluzione dei conceti di Stato e sovranità: la teoria politica generalmente attribuisce a Machiavelli un primo discorso organico ed articolato sullo Stato. Sebbene non vi sia ancora una teoria sullo Stato moderno egli propone una tipologia delle forme di governo: regno (governo di uno), aristocrazia (governo di pochi), politia (governo di molti), in cui ognuna di queste forme “rette” prevede una propria forma “degenerata” (rispettivamente: tirannide, oligarchia e democrazia, intesa come demagogia, lungo un continuum modulato dalla legge naturale dei cicli storici, la polibiana anakiklosis) ad una bipartizione: principato (governo di uno) e repubblica (governo dei più). Rimuovendo la distinzione fra forme di governo rette e forme degenerate, l’unico criterio per distinguere la buona dalla cattiva politica resta il successo, identificato con la capacità di conservare lo Stato (si impone la stabilità come valore). Per Machiavelli la religione diviene un instrumentum regni, subordinato alla razionalità strumentale orientata al mantenimento/rafforzamento del proprio potere.

Anche il concetto di sovranità ha una matrice decisamente pregressa rispetto alla modernità: ignoto nell’esperienza politica classica, il termine ha un’origine vernacolare, ovvero del tutto interna all’esperienza linguistica volgare, e si ritrova nel Medioevo: souverainetè compare per la prima volta nel XIII secolo. Qui il termine “sovranità” trova una prima definizione precisa, grazie ad un proemio che Marino da Caramanico premette alla sua glossa del Liber Costitutionum federiciano: “Il Re che non riconosce alcun superiore è Imperatore nel suo regno”. Anche da questa prima, embrionale, definizione emerge il carattere sostanzialmente duplice della sovranità: il potere del Re è comparato, all’interno del territorio del Reame, al potere dell’Imperatore (potestas legittima e “plena et rotunda”); contemporaneamente, però, il suo dominio (ciò che poi verrà chiamato “Stato”) emerge come nuova totalità parziale: perché

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a differenza del potere imperiale (che si considera sconfinato, coincidendo, il territorio imperiale, con il mondo civilizzato), quello del nuovo sovrano è drasticamente limitato territorialmente dalla vigenza di altri poteri aventi prerogative simili alle proprie. Ma la prima trattazione sistematica del tema della sovranità viene effettuata da Jean Bodin, il quale utilizza la categoria di “sovranità” per mettere fine ai sanguinosi scontri fra le opposte fazioni confessionali. Una distinzione fondamentale che Bodin introduce nella teoria della sovranità riguarda la differenza fra titolarità ed esercizio della medesima (una distinzione che risulta ancora attuale in ambito costituzionale, si pensi al dettato della Costituzione repubblicana italiana), articolando una prima distinzione fra “forme di Stato” e “di governo”. In virtù di questa distinzione Bodin può includere nel proprio sistema di pensiero anche quelle forme di ordine politico che la teoria classica ritiene “degenerate”. Distinguendo fra Stato (o meglio: regime) e governo, Bodin può considerare “degenerate” le forme puntuali di governo, come vizio nelle modalità di esercizio della sovranità (sia da parte di un principe, che di un consiglio di “ottimati”, o di un assemblea popolare democratica, che possono corrompere la propria azione calpestando le leggi naturali). In questo modo, la corruzione non è mai del “regime” in sé, ma del governo che in quel momento lo guida.

Lo stato assoluto: l’assolutismo implica il ridimensionamento in primo luogo delle pretese dei nobili, ma successivamente anche di quelle dei ceti e delle loro assemblee rappresentative (gli Stati generali francesi non verranno più convocati dal 1614 al 1789). Il processo di espropriazione del potere politico è subìto dai ceti con sentimenti spesso contrastanti: da un lato persiste la volontà di conservare le proprie prerogative politiche e di resistere alle pretese assolutistiche del Principe, ma dall’altro lato vi è la consapevolezza che un’adeguata tutela dei propri interessi necessita la costruzione di un ordinamento avente un’estensione territoriale e un’articolazione giuridica adeguate alle nuove sfide emergenti. Per lo stesso motivo la borghesia urbana accetta uno scambio in virtù del quale rinuncia alla possibilità di partecipare alla vita politica in cambio di ordine e sicurezza per i propri affari (una scelta destinata a ripetersi nella storia). Il mercantilismo è la politica economica del regime assolutista e consiste nell’istituzione di un sistema statale uniforme e articolato per il controllo dell’economia a tutela degli interessi dei ceti economicamente dominanti: il mercato concorrenziale nasce, infatti, dall’appropriazione monopolistica dello Stato.

- Hobbes: lo Stato viene ad assumere un compito epistemologico: deve stabilire (ricordiamo che siamo in un’epoca di conflitti asperrimi di matrice religiosa) la verità delle persone, cioè la loro identità sociale: è infatti l’incertezza (riguardo l’identità altrui) che rende impossibile la convivenza, sostiene Hobbes, e quindi deve essere abolita.Il progetto politico moderno, quindi, si origina connettendosi al grandioso tentativo di edificare lo Stato-macchina (che sia scomponibile e ricomponibile), come strumento tecnico di neutralizzazione (rimozione) del conflitto, di derubricazione del politico all’amministrativo, di

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frantumazione dell’idea di persona inserita nella complessa gerarchia delle appartenenze sociali a favore di quella di individuo atomizzato e suddito. Per giustificare il passaggio allo Stato assoluto come strumento tecnico di neutralizzazione del conflitto politico, Hobbes ricorre all’espediente antropologico dell’homo homini lupus: l’uomo allo Stato di Natura è identico e famelico, e quindi senza un’autorità distinta e dominante che faccia rispettare le leggi si perverrebbe alla catastrofe della guerra, palese o latente, di tutti contro tutti. Quindi, Hobbes si presenta come il principale difensore dello Stato assoluto in particolare contro la volontà eversiva dei suoi negatori puritani; ma in realtà l’intera opera di Hobbes si regge su una grande contraddizione per cui nel Leviatano possiamo riscontrare i più profondi fondamenti tanto dell’affermazione quanto della negazione dell’ordine statale, per la cui comprensione è necessario fare riferimento all’espistemologia hobbesiana che costituirà il paradigma analitico della modernità, in quanto «non solo Hobbes fu direttamente impegnato nelle controversie politiche dell’epoca, ma nelle sue opere riscontriamo un legame strettissimo tra l’impostazione metodologica e le risposte date alle concrete esigenze storico-politiche».L’analisi politica di Hobbes è condotta a partire dal particolare, secondo la presunzione meccanicistica per cui per la conoscenza del tutto è necessaria l’indagine della singola parte determinata, dalla quale il tutto viene a dipendere come il risultato di una costruzione meccanica. Viene così sovvertita la concezione aristotelica del rapporto fra il tutto e le parti che aveva retto per l’intero Medioevo; ed un siffatto cambiamento non potrà non coinvolgere globalmente la concezione dell’ordine morale e politico.Con il patto sociale, che istituisce la totalità artificiale dello Stato-Leviatano, il diritto naturale viene volontariamente sovvertito dai soggetti di natura. Si tratta di un pactum unionis che ricomprende in sé ciò che per i giusnaturalisti sono il pactum societatis (atto con cui una moltitudo diventa populus) ed il pactum subiectionis (patto che definisce i modi e i limiti della soggezione del popolo al sovrano); risulta evidente, da tutto quanto abbiamo fin qui ricostruito, quanto sia preponderante la dimensione del pactum subiectionis nella logica pattizia hobbesiana.

- la critica di Vico: come per Hobbes, anche per Vico lo stato primitivo dell’umanità è uno stato ferino, caratterizzato da una realtà di vita irrelata, asociale, in cui non esiste neppure la famiglia, uno stadio primitivo in cui può insorgere solo un’autorità monastica (ossia “solitaria”, tipica dell’uomo non associato). Vi è una differenza sostanziale, però, che distingue la concezione originaria dell’uomo di Vico da quella di Hobbes: per Hobbes lo “stato di natura” è un’ipotesi razionale, che serve a dimostrare – in negativo – cosa sarebbe l’esistenza umana se non ci fosse un potere sovrano ad inibirne gli istinti, ma anche la prospettiva terribile che si pone di fronte alla società se viene meno l’autorità dello Stato (assoluto). Secondo Vico lo stato “ferino” è un evento storico collocato all’inizio delle vicende umane e, soprattutto, Vico sostiene che l’umanità non è passata direttamente dallo stato “ferino” all’ordine “statale”: fra questi due estremi il filosofo napoletano vi colloca una variante che rende molto più complessa la narrazione circa l’origine dell’autorità politica rispetto alle prospettive dei giusnaturalisti, uno

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stadio intermedio che non è più “preistorico”, ma non è ancora “statale”. Vico denomina tale stadio lo “stato delle famiglie”, poiché in tale stato si originano le prime forme di vita associata (le famiglie, appunto).Si può dedurre che per Vico, a differenza di Hobbes, esiste socialità anche prima dell’istituzione dello Stato. Tale stadio (“stato delle famiglie”) è più volte definito da Vico “stato di natura”: la differenza rispetto ad Hobbes (e ai giusnaturalisti) riguarda il fatto che per Vico lo “stato di natura” non è lo stato primitivo dell’umanità, ma il primo stato di socialità post-ferino. In questo stato, all’originaria autorità monastica subentra un’autorità economica (da oikos, casa, si tratta quindi di un’autorità familiare, in particolare è l’autorità del patriarca sulla famiglia di tipo “patriarcale”, quindi anche sui “servi”). Soggetti all’autorità economica sono i membri della famiglia e la servitù, ossia i “clientes” o famoli, cioè individui che, non ancora fuoriusciti dallo stato “ferino” e, pertanto, ancora necessitanti di protezione, non possono fare altro che sottomettersi alle prime famiglie.Confrontando la teoria politica vichiana con quelle precedentemente esposte, in particolare con la teoria politica di Hobbes, è possibile evidenziare alcune peculiarità: a) Vico, rispetto ad Hobbes, reintroduce la liceità dei giudizi di valore nell’analisi dei fenomeni politici; b) rispetto alle teorie cicliche aristotelico-polibiane dispone in modo inedito il succedersi delle forme classiche di governo (da monarchia-aristocrazia-democrazia a repubblica aristocratica-repubblica popolare-principato);c) mentre, all’inizio del corso storico, nel passaggio dallo stato ferino a quello delle famiglie la causa è esogena (il fulmine di Giove), gli altri passaggi avvengono per cause endogene: la rivolta dei clientes nel passaggio dallo stato delle famiglie alla repubblica aristocratica, la lotta dei plebei per il riconoscimento dei propri diritti nel passaggio dalla repubblica aristocratica a quella popolare, il conflitto fra le fazioni che conduce al principato. Ora, dato il giudizio di valore positivo espresso da Vico nei confronti delle ultime due forme di Stato del corso storico, si evidenzia che per Vico, a differenza che per Hobbes, il conflitto non è distruttivo, bensì – come per Machiavelli – è condizione essenziale per il miglioramento sociale e la difesa della libertà. Vico sviluppa la lezione di Machiavelli, che preannuncia – tramite l’accettazione della “disarmonia” politica – il tema moderno della “società civile”, ed esprime una concezione antagonistica e pluralistica della storia; d) la conclusione di un corso storico – e, quindi, il salto ad un ricorso, che si origina attraverso una nuova fase “ferina” – è imputabile secondo Vico al trionfo della barbarie della riflessione, cioè una “seconda barbarie” – una barbarie avente un’origine razionalistica – che rende gli uomini “fiere più immani” rispetto a quell’originaria “prima barbarie del senso” (v. cpv. 1106, della Scienza nuova seconda). Secondo Vico, pertanto, il processo di civilizzazione dell’uomo non è caratterizzato solo da effetti positivi, così come non lo è il processo di “statalizzazione”, dal momento che una “seconda barbarie” (più pericolosa della prima) si sviluppa proprio all’interno della forma politica statuale.

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- sovranità interna e sovranità esterna: (Ferrajoli) idea di sovranità di «due vicende parallele e divergenti»: quella della sovranità interna, ovvero del monopolio dell’uso legittimo della coercizione entro determinati confini, e della sua limitazione per mezzo della formazione degli stati costituzionali e democratici di diritto; e quella della sovranità esterna, «che è la storia della sua progressiva assolutizzazione, giunta al suo apice nella prima metà di questo secolo con le catastrofi delle due guerre mondiali. Neppure cronologicamente le due storie coincidono: quella della sovranità esterna è iniziata per prima e, diversamente da quella della sovranità interna, è ancora lontana dall’essersi conclusa e continua a prospettarsi come una permanente minaccia di guerra e distruzioni per il futuro dell’umanità».

Costruzione dello spazio politico moderno: Ferrajoli afferma che all’assolutizzazione della sovranità esterna nel diritto internazionale corrisponderà un percorso lungo e tortuoso nella direzione di una limitazione della sovranità interna, da cui scaturirà la fine dell’assolutismo regio e la transizione allo Stato liberale, un mutamento politico che comporterà il superamento della concezione della sovranità come potere superiorem non recognoscens. Per comprendere come si giunge all’imposizione di limiti interni alle prerogative dello Stato è necessario fare riferimento al concetto di società civile, ovvero ad un complesso di fenomeni relativamente autonomi rispetto allo Stato, generato dalle attività private degli individui. La società civile emerge, ed acquisisce coscienza di sé, proprio in virtù del passaggio dall’ordinamento cetuale a quello assolutistico: quando il monarca assoluto espropria i ceti delle loro prerogative politiche, questi si concentrano sugli aspetti prevalentemente privati dell’esistenza: si ritraggono dall’arena politica, ma rafforzano sfere relativamente autonome in cui il dominio assolutistico del Principe è meno intrusivo.

Locke e la società civile: la sfida all’assolutismo è condotta in virtù di una concomitanza di interessi economici e politico-filosofici: sono due le "gambe" sulle quali, secondo Locke, si regge la società civile che si sta progressivamente affermando come attore politico (prima in Inghilterra che nell’Europa continentale): il mercato e l’opinione pubblica . Nella società civile, quindi, avvengono degli scambi che non riguardano solo la circolazione delle merci, ma anche quella delle idee e dei giudizi politici.Secondo la teoria politica di Locke gli uomini, nell’edificare la società politica, hanno rinunciato, a favore del potere politico supremo, solo al potere personale di usare la forza contro un proprio simile, ma hanno conservato il potere di giudicare moralmente le sue azioni. Questo potere di giudicare in primi tempo si rivolge ad altri privati e poi si estende alla cosa pubblica.

Dai ceti alle classi sociali: Si è utilizzato il termine classe, in luogo di quello di ceto, per evidenziare un mutamento nella stratificazione sociale che caratterizza il passaggio dall’autunno del Medioevo all’età moderna. Se il "ceto" può essere definito come "un gruppo di individui aventi lo stesso status (ossia aventi lo stesso "trattamento" giuridico)", risulta

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un’impresa proibitiva pervenire ad una definizione altrettanto sintetica e, soprattutto, univoca di "classe" (studi di Marx e Weber).I confini di una classe dipendono da elementi complessi legati alla divisione sociale del lavoro, come detenere (o meno) la proprietà dei mezzi della produzione materiale, ed il possesso esclusivo della risorsa del capitale monetario, che consentono di assicurarsi sul mercato una porzione del prodotto sociale tale da procedere a nuove accumulazioni e nuovi impieghi del capitale stesso.

La "personificazione" dello Stato che abbiamo visto essere realizzata dalle dottrine hobbesiana, e la sua rappresentazione come "ente esterno e superiore" risponde alle esigenze delle élite borghesi di veder garantito (all’interno dei confini della classe) un certo equilibro fra le fazioni in competizione: il monarca assoluto essendo, di fatto, separato dal processo economico, risulta essere un soggetto "neutro" rispetto alle singole fazioni borghesi in competizione reciproca. Nello stesso tempo la forza militare dello Stato assoluto garantisce (all’esterno dei confini della classe) un’adeguata protezione dei traffici commerciali (sia sul versante interno del territorio dello Stato, contro le minacce di nobili feudatari e banditi, sia sul versante esterno nella competizione con i mercanti degli altri paesi). Il sistema assolutistico entra in crisi, quando le tendenze espansionistiche insite nel potere assoluto minacciano la proprietà e i delicati gangli del mercato, ovvero di quel contesto in cui la classe borghese consente ai suoi confliggenti interessi interni di trovare espressione, e quando le tendenze critiche insite nella società civile non restano più confinate alla dimensione privata, ma invadono anche la sfera pubblica corrodendo i presupposti assolutistici del potere sovrano.

La nascita del liberalismo: La teoria politica, tramite la quale la classe che "conta" economicamente rivendica il diritto di "contare" anche politicamente, la dottrina che si contrappone all’assolutezza del potere del principe e alla conseguente impotenza politica degli individui è il liberalismo. -> il parlamentarismo è la teoria istituzionale che ridisegna l’assetto dei poteri statuali nella mutata condizione generale.I due versanti della sovranità imboccano due tracciati opposti: mentre sul versante della sovranità esterna nulla si rivela in grado di limitare il potere degli Stati europei, il versante interno della sovranità statuale torna ad essere oggetto di controversia: il principe deve rispondere formalmente e sostanzialmente del proprio operato di fronte al parlamento. Lo Stato liberale assume la forma giuridica della monarchia costituzionale ma questo processo di costituzionalizzazione del potere politico non avviene simultaneamente in tutti i paesi europei, in quanto dipende dal livello di sviluppo e di consapevolezza assunti dalla società civile nei confronti dello Stato: risulta incontestabile che lo sviluppo della società civile sia avvenuto molto prima in Inghilterra, rispetto ai paesi dell’Europa continentale. L’effetto politico di questo grande protagonismo della società civile inglese consiste nella normalizzazione della critica al potere fuori e dentro il parlamento: nascono all’interno dell’assemblea parlamentare i concetti di "maggioranza" e "opposizione", termini che

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inizialmente stanno ad indicare i favorevoli alla politica del monarca e i contrari a tale politica. Nel parlamento si istituzionalizza una forma di lotta pacifica fra due settori distinti dell’élite dominante, i quali cercano di guadagnare il maggior consenso politico possibile nell’opinione pubblica che, fuori dal parlamento (nei club, nei coffee house, nelle società di pubblica utilità), si appassiona alle questioni socialmente più rilevanti.

Il modello societario e il modello statalista: Due processi di strutturazione dello spazio pubblico: “modello inglese” (societario) e “modello francese” (statalista). - modello societario: la fase assolutistico-cortese è molto breve e sostanzialmente incompiuta, la penetrazione del territorio non si traduce nell’annientamento dei corpi intermedi (fra Sovrano e singolo individuo), l’aristocrazia terriera riesce a riprodurre il proprio dominio anche nella nuova economia di mercato e a svolgere il proprio ruolo storico di intermediazione fra comunità locale e potere centrale, mentre l’esercizio del dominio politico (e conseguentemente della sua critica) si istituzionalizza nel Parlamento e si radica nello spazio pubblico. La società condiziona la formazione dello Stato e le sue politiche, secondo una logica che la scienza politica definisce bottom-up (dal basso all’alto).- modello statalista: l’assolutismo favorisce il processo di "spoliticizzazione" della proprietà terriera e, conseguentemente, la perdita di ruolo dell’aristocrazia come "classe politica" (la nobiltà cessa, cioè, di far parte della struttura verticale del potere politico, esautorata dagli apparati burocratici di Stato), la neutralizzazione dei corpi intermedi rende il rapporto fra lo Stato e i singoli individui im-mediato: qualsiasi organo amministrativo si frapponga fra i due estremi del sistema assolutista può mediare solo per ordine del sovrano: ogni potere cala dall’alto. È lo Stato che "manipola" la società, secondo una logica top-down (dall’alto al basso).

Codice napoleonico (1804): rappresenta un’opera immensa e di grandiosa presunzione intellettuale volta alla risistemazione dell’intero ordinamento giuridico secondo i dettami della Ragione: il codificatore presume di poter fornire risposte esaustive a qualsiasi problema possa insorgere dal proprio corpo sociale (ogni questione che viene sollevata dai membri della società civile trova la propria soluzione all’interno del sistema delle norme codificate, che si caratterizza, pertanto, per gli assunti di completezza e di coerenza).≠Common law: all’interno della tradizione di vigenza plurisecolare della common law (il cui nucleo fondamentale è costituito dalla cristallizzazione delle sentenze normanne e sassoni dell’XI secolo), il giudice produce la legge, dopo essere stato "attivato dal basso", ossia dopo che i soggetti privati hanno sollevato al suo cospetto una controversia, allo scopo di ottenere una sentenza.

Lo Stato liberale:

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- cittadinanza e nazione: è al termine del XVIII secolo che incomincia a diffondersi il concetto di cittadinanza, in riferimento all’appartenenza alla "comunità nazionale", come nuova forma di "legame sociale" in grado di sostituire i valori di riferimento tradizionali e religiosi dell’Antico Regime: la comunità nazionale è una produzione simbolica che riflette e legittima il sistema di potere strutturato intorno allo Stato e al mercato.La nazione come "mito politico" si afferma, pertanto, con la comparsa sulla pubblica "ribalta" di grandi masse, in cui i fattori trascendenti della morale religiosa si traducono meno autonomamente che in passato in qualificazioni di comportamento vincolanti sul piano politico. Si tratta di un mito che seduce le masse con una forza ancor maggiore rispetto al mito coevo del "progresso" e, non raramente, combinandosi con esso. Nello stesso tempo muta anche il significato di patria: mentre nell’Alto Medioevo essa indicava un paese, una provincia, un luogo d’origine; la Chiesa tardomedievale propone una concezione di patria communis per richiamare il concetto di Civitas Dei, oppure di Civitas romana sovraordinata rispetto ai domini particolari dell’ordine mondano. Ma è nella Francia di Luigi XIV che il termine nazione muta decisamente il proprio significato: per il monarca assolutista la nazione "consiste interamente nella persona del Re". Saranno poi i libertini, durante la rivoluzione francese, a contrapporre a questi significati un nuovo concetto di “nazione dei cittadini”.Il mito della nazione è diretto in primo luogo ai gruppi sociali che nella competizione regolata dal mercato risultano svantaggiati, la finalità per la quale viene inventata tale entità astratta consiste primariamente nel disinnescare la pericolosità degli effetti alienanti che scaturiscono da un assetto di potere che vede le istituzioni politiche egemonizzate dalla classe dominante nel mercato: a tal fine viene costruita l’idea di un legame naturale che connetta fra loro i singoli individui (compresi quelli appartenenti agli strati maggiormente indigenti).Al contempo, se si tiene presente come la definizione dei confini statuali e l’imposizione del monopolio della coercizione all’interno dei medesimi, abbia origine in atti di appropriazione violenta risulta comprensibile come l’idea di nazione, in quanto produzione simbolica unificante le esperienze politico-culturali di coloro che vivono in un determinato territorio, risponda alla necessità di contrastare la "vischiosità" dei sentimenti d’identità verso precedenti costruzioni politiche territorialiIn entrambi i casi, in quello dell’integrazione verticale relativa alla stratificazione delle classi sociali il mito della nazione alimenta e mantiene un comportamento di lealtà dei sudditi nei confronti dello Stato, consentendo alle elites dominanti di associare all’immagine del medesimo, quella degli interessi generali, appunto della "Nazione" .

- repubblicanesimo e nazionalismo: la cittadinanza moderna nasce da un’esigenza "difensiva": tutelare la sfera del singolo individuo dalle possibili altrui intromissioni, in modo tale che gli sia consentito di soddisfare i propri bisogni (economici) attraverso lo scambio fondato sul libero consenso. I diritti soggettivi vengono riconosciuti in virtù dell’appartenenza individuale all’entità territoriale della città e non al gruppo familiare o parentale. Si identifica

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però la tensione fra repubblicanesimo e nazionalismo: l’interpretazione fornita dal repubblicanesimo post-illuminista del patriottismo e della libertà nazionale (che in questa chiave interpretativa è sempre riferita alla "nazione dei cittadini"), non è affatto incompatibile con la tendenza al cosmopolitismo di derivazione kantiana, ovvero con la propensione all’intesa cooperativa e alla ricomposizione pacifica degli interessi con le altre nazioni. La tensione repubblicanesimo/nazionalismo pone in rilievo due differenti modalità di considerare il rapporto sovranità interna/sovranità esterna: se prevale una concezione costruttivista del repubblicanesimo, secondo la quale la formazione di una volontà democratica è connessa all’esistenza dei circuiti comunicativi di uno "spazio pubblico" politico imperniato sulle libere associazioni e sulla circolazione delle informazioni per mezzo della stampa e di altri medium di massa, l’attenzione viene posta sulle potenzialità del processo democratico di trasformazione del carattere e dell’esercizio della sovranità interna. Se, invece, prevale l’impostazione nazionalistica "schmittiana", secondo la quale per autodeterminazione democratica si deve intendere l’autoaffermazione e l’autorealizzazione dell’entità organica, naturale ed omogenea della "Nazione", acquisisce rilevanza centrale il versante della sovranità esterna.

- diritti di cittadinanza e diritti dell’uomo: tale linea di discrimine, che si viene così a determinare fra gli appartenenti alla comunità (inclusi) e gli altri (esclusi), porta Ferrajoli a considerare la cittadinanza l’elemento per cui «i diritti dell’uomo finiscono di fatto per appiattirsi sui diritti del cittadino. È in questo modo che la cittadinanza, se all’interno è la base dell’uguaglianza, all’esterno opera come privilegio e come fonte di discriminazione nei riguardi dei non-cittadini. Parallelamente, lo stesso concetto di "diritti umani fondamentali" necessita di ulteriori specificazioni: facendo riferimento al contesto entro cui la teoria dei diritti fondamentali ha avuto origine e si è sviluppata: l’esperienza dei diritti fondamentali non può essere considerata separatamente dall’esperienza delle grandi rivoluzioni borghesi che hanno segnato la storia dell’Occidente moderno e contemporaneo.Solo dopo un lungo processo, segnato da discontinuità e da notevolissime differenze territoriali, la cittadinanza riesce a produrre uguaglianza all’interno dei confini statuali.

- diritti di cittadinanza civile e politica: Marshall individua una "catena" esplicativa dell’estensione dei diritti di cittadinanza, secondo la quale il Settecento rappresenta il secolo del conseguimento della cittadinanza civile, l’Ottocento il secolo della cittadinanza politica, il Novecento di quella sociale.Diritti civili -> il diritto di proprietà incomincia a divenire centrale non solo per il borghese ma anche per i lavoratori: la rivoluzione industriale è anche resa possibile dal fatto che i contadini poveri abbiano il potere di disporre liberamente del proprio lavoro, ovvero possano "vendere" il proprio lavoro all’imprenditore contro la concessione di un salario. I nuovi rapporti sociali derivano dal libero consenso e, quindi, dall’accordo reciproco sulla spinta della necessità economica

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Diritti politici -> tale acquisizione, tuttavia, avviene in tempi diversi all’interno dei diversi paesi. Il suffragio universale maschile viene ottenuto in Francia nel 1848, in Germania nel 1871, in Italia nel 1912 e in Inghilterra solo nel 1918. Inoltre l’elettorato dell’800 è ristretto:vi sono solo maschi con un certo reddito e un certo grado di istruzione.

- i partiti politici: in questa fase, oligarchico-liberale, della storia delle istituzioni politiche europee, la competizione partitica si struttura attraverso il conflitto dei c.d. partiti di notabili: anche se sono sostanzialmente dei comitati elettorali, anch’essi (come tutte le organizzazioni partitiche), sono pur sempre in grado di condizionare la "mappa" delle candidature. Questo fatto evidenzia un elemento essenziale della competizione politico-elettorale moderna destinato a persistere: prima della selezione derivante dalla competizione elettorale, avviene quella (spesso meno evidente) compiuta dal gruppo dirigente dei partiti (che rappresentano le principali agenzie di reclutamento del personale politico). In questo periodo si nota la diffidenza dei partiti operai riguardo alle attività parlamentari (è considerato un tranello borghese). Esistono però i partiti popolari che hanno orientato la propria azione al superamento dello "stallo" oligarchico-liberale, al fine di ottenere politiche di redistribuzione del reddito e di sicurezza sociale, rispettando la divisione formale dei poteri.Successivamente con l’ingresso delle organizzazioni del movimento operaio nello spazio del sistema politico formale il contesto politico-sociale si trasforma in modo decisivo: si strutturano i partiti popolari di massa, che richiedono la presenza di figure con caratteristiche particolari, i c.d. "professionisti della politica". L’età aurea del partito di massa coincide con il lasso di tempo intercorrente fra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale e comporta delle comseguenze sociali molto rilevanti: i rappresentanti delle classi subalterne non possono avvalersi, come i borghesi liberali, di redditi propri che consentano loro di occuparsi di politica "a tempo pieno": inizialmente i rappresentanti dei partiti operai sono di estrazione borghese, successivamente le porte della carriera politica si schiudono anche, seppur con molte difficoltà, agli esponenti delle classi popolari.La remunerazione dell’attività politica professionistica inizialmente poggia sulle spalle del partito, tramite il meccanismo dell’autofinanziamento (che rappresenta la risorsa vitale anche per alimentare le componenti simboliche fondamentali della politica dei partiti di massa: tesserazione, cerimonie pubbliche, iniziative sociali, bandiere…), successivamente diviene un onere cui deve fare fronte lo Stato.L’ingresso dei partiti popolari di massa nelle istituzioni elettive liberali ne modifica sostanzialmente le dinamiche interne: il parlamento che, nella fase oligarchico-liberale era caratterizzato da rapporti fluidi e da alleanze sporadiche e mutevoli, ora si struttura in divisioni rigide in blocchi partitici contrapposti. Si notano inoltre figure di nuovi attori sociali.

Realismo politico e costituzionalismo: nella teoria politica post-rivoluzionaria la riflessione sul potere sovrano si articola, complessivamente, in due filoni distinti: il filone del realismo politico e quello del costituzionalismo.

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Filone realista: si incontrano molte teorie che si prefiggono di "svelare", dove, al di là dell’aspetto formale, effettivamente risiede il potere reale:per Marx il potere reale risiede nella classe economicamente dominanteper Mosca il potere risiede nell’élite politica per Pareto nella particolare frazione dell’élite sociale individuabile come "classe eletta di governo" per Wright Mills nel complesso della "élite del potere" (ovvero nelle strutture fortemente compenetrate del potere politico-amministrativo, di quello economico e di quello militare) secondo i pluralisti democratici come Dahl e Riesman il potere risiede, al contrario, in una molteplicità di gruppi sociali in competizione reciproca, che prende il nome di poliarchiaper i neo-elitisti Bachrach e Baratz il potere è detenuto da chi gestisce l’ambito delle non-decisioni e della mobilitazione del pregiudizio. Filone costituzionalista: mira in primo luogo a limitare il potere attraverso il diritto. Se ci si riferisce alle costituzioni rigide che caratterizzano l’orizzonte europeo continentale contemporaneo delle democrazie liberali, per difendere la vita delle persone dalle ingerenze del potere (legislativo), si ricorre alla "gerarchia delle fonti" che subordina le leggi ordinarie del parlamento alle norme costituzionali. L’attività di vigilanza sulla congruità delle leggi ordinarie rispetto alla norma costituzionale è svolta dalla Corte Costituzionale, la cui attività a difesa delle Costituzioni rigide rappresenta un elemento essenziale per gli equilibri della democrazia liberale. Il costituzionalismo si connota di elementi "valoriali" che consentono l’individuazione di "una cornice di regole, principi di giustizia e diritti per l’integrazione della società", entro cui strutturare il conflitto politico "regolato". Si afferma, quindi, il principio di costituzionalità come argine alle possibili derive decisionistiche dell’uso della legge ad opera degli stessi rappresentanti della comunità nazionale: la sovranità appartiene al popolo e viene esercitata tramite i suoi rappresentanti in Parlamento che, però, sono vincolati dalla Costituzione e controllati dall’apposita Corte.

Paradossi del positivismo (Kelsen): Hans Kelsen, influenzato dalla scuola neo-kantiana di Marburgo e dal neo-positivismo del "Circolo di Vienna", elabora la Dottrina pura del diritto, che tende a rimuovere il concetto stesso di sovranità e le sue insidie ed in base alla quale «la forma giuridica coincide con la peculiare figura della "validità" del diritto che consente di risolvere il "valore" della norma nella procedura attraverso cui viene posta. In questo contesto la legittimazione di una norma non si basa né nella sua giustizia e nemmeno nella sua intrinseca razionalità, ma soltanto nel suo essere una norma "valida", legittimata cioè da una norma di rango superiore». Si tratta di una concezione giuridica che concepisce la legittimazione dell’ordinamento sulla base della ragione procedurale. Conseguenze: si postula l’autonomia del diritto e lo Stato è ridotto al solo ordinamento giuridico. La critica di C. Schmitt: Kelsen deve separare drasticamente il diritto dalla natura (intesa anche come "natura dei comportamenti giuridici", ovvero sociologia del diritto),e dalla morale e dalla politica (cioè dalla valutazione "etica" della norma dal criterio giusto/ingiusto –

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che apparteine, appunto, all’etica – e dal criterio opportuno/inopportuno – che appartiene alla valutazione politica).

Lo Stato sociale: esso si prefigura a partire dagli anni trenta del novecento.

- i diritti di cittadinanza sociale: le basi dello Stato sociale keynesiano, così come oggi lo conosciamo in Europa, sono poste nella Gran Bretagna del 1942, con il rapporto Beveridge, il quale rappresenterà la base operativa della politica laburista del dopoguerra. Con la vittoria laburista in Inghilterra e, prima ancora, con il New Deal americano, lo Stato modifica il suo assetto, perché oltre alle funzioni “tradizionali” di intervento dello Stato nell’economia, si aggiungono altri compiti determinanti – e connessi fra loro – come il controllo del ciclo economico e delle crisi ed il controllo del consenso popolare.Il controllo del ciclo economico consiste nello stabilizzare con opportune misure di politica economica e finanziaria l’andamento ciclico dello sviluppo capitalistico: il ruolo dello Stato, secondo Keynes, consiste nell’accumulare risorse durante le fasi espansive (tramite la leva fiscale), al fine di sostenere la spesa aggregata (cioè il potere d’acquisto della popolazione) nelle fasi di recessione. La crisi del ’29 dimostra che il il mercato è incapace di autoregolarsi e Roosvelt vara una serie di misure d’intervento statali.Strettamente connesso alla questione di controllo dei cicli economici risulta il problema del controllo del consenso popolare: in società come quelle occidentali, alle classi dirigenti si pone la questione di gestire il consenso di masse molto numerose, nei confronti del sistema economico e politico. Le masse, dopo il terribile accadimento rappresentato dalla “Grande guerra”, risultano ormai sradicate rispetto alla loro collocazione tradizionale e facilmente mobilitabili da parte di elite politiche esterne alla vecchia matrice oligarchico-liberale: nazionalisti, fascisti, popolari, socialdemocratici, socialisti, sono presenti sulla ribalta politica e organizzano il proprio seguito di massa.Come si garantisce questo consenso? Sostanzialmente tramite un nuovo progetto di intervento politico orientato alla diffusione dei servizi sociali, al perseguimento del “pieno impiego” e al mantenimento della popolazione “eccedente”. Dunque, mentre lo Stato liberale classico “lascia fare” – regolando prevalentemente la condotta sulla base di prescrizioni normative – lo Stato sociale diviene soggetto di azione diretta, partecipa come soggetto fra i soggetti privati, si impone delle “finalità” sociali da perseguire (Bobbio). L’interventismo dello Stato sociale si può realizzare prelevando sacche di profitto non redistribuite per alimentare la spesa pubblica (lo Stato compera beni e servizi da parte dei privati), oppure diventando, lo Stato medesimo, “imprenditore” e creando nuovi posti di lavoro (è quanto avviene, seppur con modalità diverse, in tutta Europa nella seconda metà del Novecento, sull’esempio di quanto era accaduto negli Usa di Roosevelt).

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A tale proposito è utile ricordare che Zolo rileva una particolarità distintiva dei diritti sociali, rispetto alle altre fattispecie di diritti: mentre si può affermare che i diritti civili e i diritti politici, nelle moderne democrazie, almeno formalmente, possono essere difesi da un’autorità costituita (la Magistratura), sono cioè azionabili in giudizio, i diritti sociali non potrebbero essere difesi in questo modo; in quanto i diritti civili sono, solitamente, garantiti contro lo Stato (vengono formulati nel corso dei secoli XVII e XVIII, nella fase di transizione dall’assolutismo allo Stato liberale) e prevedono, per lo Stato stesso, una prescrizione di non-fare (tanto nell’originaria accezione lockiana della tutela dei diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà, quanto nelle più recenti formulazioni dei diritti all’integrità fisica o alla privacy), mentre i diritti sociali sono intesi come garantiti dallo Stato e prevedono, per il medesimo, una prescrizione di fare. I diritti sociali, cioè, contengono delle richieste di prestazione che dipendono dall’attività statale e sono legate, al contempo, da congiunture economiche il cui andamento esula dalla “buona volontà” dei governanti e dei governati di un singolo paese.

- il compromesso keynesiano e lo Stato fordista: il compromesso keynesiano, legato al modello di produzione di massa fordista, sostituisce, nel Novecento, l’ideologia liberista del mercato autoregolantesi tipica dell’Ottocento. Il modello socio-economico fordista-keynesiano condiziona anche la politica: nel corso del Novecento, lo spazio politico dei paesi europei si struttura sui partiti di massa, espressioni del movimento operaio socialista e cattolico; il compromesso fra le classi non si realizza soltanto all’interno della fabbrica, ma anche nel parlamento. Il sistema fordista-taylorista consente il compromesso sociale, a patto che vi sia abbondanza di ricchezza prodotta da redistribuire tendenzialmente "per tutti" (ciò determina, come si è sottolineato in precedenza, l’incremento continuo della produzione e la conseguente alimentazione del mito della "crescita illimitata"), innescando un "circolo virtuoso": l’aumento della produttività comporta degli aumenti salariali, quindi l’incremento della spinta al consumo e, perciò, l’aumento del prelievo fiscale da parte dell’erario.Inoltre, il modello si basa sulla "stabilità" sociale e sulla stabilità politica: se i lavoratori non accettano la disciplina – tayloristica – di fabbrica, se i sindacati interferiscono nelle attività produttive, il verificarsi di economie di scala è messo a rischio.Le conseguenze culturali per gli attori sociali sono molto importanti: la classe operaia nasce come soggetto politico antagonista rispetto al capitale ma, quando il compromesso fordista-keynesiano si rivela funzionale, accetta lo scambio: rinuncia all’antagonismo (e alle velleità rivoluzionarie), in cambio della legittimazione delle proprie rappresentanze (parlamentari e sindacali) e di incrementi salariali e politiche redistributive.

- i limiti dello sviluppo e i movimenti di protesta: durante i movimenti del ’68 a condurre la protesta sono i "beneficiari" dello sviluppo e ciò diviene un elemento fondamentale per l’analisi di queso fenomeno. La contestazione riguarda: gli autoritarismi vecchi ma anche nuove forme di costrizione legate alle componenti autoritarie del taylorismo e all’organizzazione del

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lavoro industriale, cercando di far emergere tematiche post-materialiste, fino ad allora marginalizzate sia dalla destra che dalla sinistra, come la tutela dell’ambiente, la qualità della vita, l’identità e la libertà sessuale, la riappropriazione del proprio corpo. Inoltre difficili sono i rapporti tra queste forme di protesta e i partiti della sinistra.Il mito dello sviluppo infinito si incrina nel 1973, in seguito al primo shock petrolifero, che colpisce particolarmente lo sviluppo fordista legato all’industria dell’automobile. Lo shock del ’73 si ripete nel 1977 incrinando anche il mito dell’esportabilità dello sviluppo fordista nel mondo. Le prima analisi di queste crisi rappresentano la base ideologica delle classi politiche successive (sin da Tatcher e Reagan): la crisi dello sviluppo è imputabile allo Stato sociale, ma non si tratta solo di apporre dei correttivi economici, anche l’eccessiva partecipazione rivendicata in particolare dalle generazioni più giovani è responsabile di un "sovraccarico" del sistema. Ne consegue un mutamento degli obiettivi dell’agenda politica: alla riduzione della spesa sociale si deve accompagnare il ripristino di "legge" e "ordine".Un "semplice" ritorno allo Stato liberale, nella seconda metà del Novecento, appare impossibile perché, nel corso dei decenni, la società ha subìto dei mutamenti sostanziali.Sostanzialmente, nel corso del XX secolo, la società si burocratizza ed esercita (attraverso l’attività di queste organizzazioni burocratiche) un grande potere di condizionamento nei confronti dello Stato. Nella società industriale avanzata, però, gli interessi (ed anche le opinioni) sono sempre più organizzati, attraverso l’attività continua ed istituzionalizzata di gruppi d’interesse e gruppi di pressione, cioè, come ci ricorda Michels, vengono interpretati da élite che non sempre (o molto raramente) mantengono un reale contatto con la propria base. Sulla ribalta, oltre ai partiti politici, vi sono, sempre, le organizzazioni imprenditoriali e i sindacati, ossia interessi organizzati politicamente rilevanti, che costituiscono la struttura dello Stato "neocorporato". Quando si parla di Stato "neocorporato", con riferimento alle esperienze democratiche contemporanee, ci si riferisce ad una condizione che non si traduce in ostilità al parlamento e alla democrazia e che definiamo corporativismo liberale. Esso rappresenta una prassi politica di governo consolidata con protagonisti i grandi gruppi d’interesse e gli interessi organizzati al fine di produrre un’economia "concertata" e controllata. La finalità del "neocorporativismo" (o corporativismo "liberale") è la riduzione del conflitto: una maggior "pace sociale" comporta l’aumento del reddito nazionale e, quindi, una maggiore solidità dello Stato.

- cause della crisi dello Stato sociale: cause esogene: alcuni analisti individuano l’origine della crisi del welfare in fattori esogeni, come l’inflazione internazionale legata alla guerra del Vietnam e l’incremento costante, sin dalla presidenza Kennedy, delle spese militari americane: essendo il dollaro la moneta di riferimento del commercio mondiale, gli USA hanno potuto "scaricare" l’inflazione sugli altri paesi (hanno, cioè, "esportato" inflazione), oppure gli shock petroliferi del ’73 e del ’77 che hanno profondamente turbato le economie del "Primo mondo". Oggi, appare plausibile anche un’altra ragione di crisi dello Stato sociale, legata alla fine del "socialismo reale": se il

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compromesso keynesiano è la risposta dell’Occidente capitalistico alla sfida dell’Ottobre sovietico in termini di prestazioni dello Stato a favore dei cittadini (politiche sociali), con la caduta del Muro di Berlino e la fine di quell’esperienza, viene meno l’esigenza di competere su quel terreno.cause endogene: altri analisti evidenziano i fattori endogeni della crisi: per alcuni teorici (Habermas, Offe, Ruffolo), la fine dei "Trent’anni gloriosi", ossia la crisi dello Stato sociale, è essenzialmente legata a una crisi di natura fiscale (O’Connor 1973). Il costo delle prestazioni sociali erogate dallo Stato diviene talmente elevato da determinare una pressione molto rilevante sui settori produttivi più dinamici, tanto da erodere le basi di consenso dell’intero sistema. Secondo alcuni autori, il compromesso istituito dal welfare state keynesiano non reggerebbe più, perché lo sviluppo economico e la diffusione di un maggiore benessere materiale hanno comportato la trasformazione da una società costituita in maggioranza da classi popolari, ad una società avente una struttura romboidale, in cui il peso della middle class (una vastissima ed eterogenea area che si frappone alla ristretta elite alto-borghese ed a una frammentata working class) diviene (socialmente ed elettoralmente) preponderante.In realtà, tale spiegazione convince solo parzialmente, in quanto la crescita dei ceti medi è solo in parte attribuibile al mercato, ed in buona percentuale è dovuta proprio anche alle politiche redistributive dello Stato sociale.Paradossalmente il successo dello Stato sociale è una delle cause della sua crisi: proprio perché esso si è imposto ed ha funzionato, tale riuscita ha posto le premesse della sua crisi.Sono particolarmente degni di considerazione anche gli effetti che scaturiscono da due "pilastri" dell’azione politica keynesiana, come il tendenziale perseguimento del pieno impiego e la riduzione dell’insicurezza sociale: il pieno impiego rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, mentre la riduzione dell’insicurezza sociale (tramite la previdenza, le assicurazioni, la sanità pubblica) affievolisce lo stimolo a ricercare il lavoro, la volontà di accettare le mansioni meno qualificate e la stessa capacità lavorativa (si pensi ai regimi socialisti dell’Europa orientale, la cui caratteristica primaria era la garanzia dei servizi sociali essenziali nella sostanziale assenza di competizione e la cui caratteristica derivata consisteva, infatti, in una bassissima produttività). Secondo l’approccio degli "effetti perversi", la combinazione di questi due elementi produce l’incremento delle richieste dei lavoratori (anche, ma non solo, a livello salariale), mentre le dinamiche dell’economia globale evidenziano contesti sociali, in altre zone geopolitiche, in cui l’assenza di protezioni sindacali mantiene il costo del lavoro a livelli incomparabilmente inferiori rispetto all’Occidente.

Gli strumenti d’intervento del welfare sul ciclo economico producono effetti perversi per ragioni endogene e strettamente politiche: in particolare l’utilizzo della spesa pubblica in funzione anticiclica. Nella fase di espansione dell’economia ("surriscaldamento"), lo Stato "raffredda" il sistema tramite il ricorso alla leva fiscale, mentre nelle fasi di "stagnazione" l’attore pubblico deve intervenire tramite l’utilizzo della spesa pubblica per favorire la domanda aggregata:

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s’incrementano i salari o si aumenta il numero dei dipendenti pubblici. Quando, però, gli indicatori segnalano il passaggio dalla stagnazione al surriscaldamento del sistema economico, lo Stato dovrebbe smettere questo tipo d’intervento per evitare l’implosione del sistema.Ma la classe politica, in un sistema democratico, è vincolata al consenso dei cittadini e, quindi, è indotta a predisporre aumenti della spesa pubblica – in particolare durante i periodi della campagna elettorale – ed è molto meno propensa a ridurre drasticamente le spese.L’attuale ridiscussione degli assetti politici e sociali comporta che non si discuta più solo della qualità dei servizi, ma anche delle modalità di accesso alle singole prestazioni: l’accesso ai servizi, in particolare a quelli sanitari, rappresenta un problema di grande salienza in tutti i paesi occidentali.

- dallo Stato gestore allo Stato regolatore: riassumendo -> i tratti distintivi dello stato sociale keynesiano sono l’intervento pubblico nell’economia mediante l’utilizzo sistematico della leva fiscale, i trasferimenti di risorse e la produzione di servizi e beni meritori (cioè di quei beni dei quali lo Stato impone l’utilizzo ai cittadini, come l’istruzione elementare o le abitazioni a prezzo politico per i ceti meno abbienti). Negli anni 70 questo tipo di stato ha vissuto una profonda crisi in cui viene rimesso in discussione il ruolo dello Stato come gestore diretto dell’economia, con riferimento particolare all’inefficiente gestione delle imprese pubbliche (mancanza di trasparenza, eccessiva interferenza di interessi politici e sindacali nella gestione di tali imprese). Tuttavia, le critiche neo-conservatrice non sono le uniche sollevate nei confronti dello Stato interventista: emergono considerazioni di carattere più generale riguardanti la difficoltà, da parte dello Stato gestore, di fronteggiare le crescenti sfide della complessità: la globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni, l’integrazione europea, l’emergere dei bisogni post-materiali (Inglehart). A ciò si attribuiscono cause endogene: lo Stato sociale, riuscendo ad elevare la condizione complessiva dell’uomo occidentale, ha creato, le premesse perché si articolassero nuovi bisogni: rivendicazione delle differenze (a cominciare da quelle di genere), di nuove autonomie, di nuove modalità di relazione sociale. Ma si attribuiscono anche cause esogene: i fattori che rendono sempre più difficoltoso il ruolo di gestore diretto da parte dello Stato (in primo luogo la globalizzazione dell’economia e della finanza, che sottrae alla leva fiscale il potere di tassare ricchezze molto ingenti, rendendo sempre più difficoltoso finanziare la vasta gamma di prestazioni sociali garantite dal Welfare), è possibile comprendere la rilevanza dei mutamenti in atto.

Alcuni studiosi propongono un approccio diverso e parlano dello Stato come ente regolatore: è la lettura proposta da La Spina e Majone, movendo dalla premessa che "l’attuale crisi delle politiche di gestione diretta nell’Europa occidentale è meno un problema di efficienza produttiva, e si atteggia piuttosto come crisi di una particolare modalità di regolazione dell’economia". Si tratta di una posizione che cerca di "salvare" i valori sottostanti alle politiche interventiste del Welfare, spostando l’attenzione dalle istituzioni ai mezzi che esse utilizzano per governare. In altri termini, se lo Stato gestore non pare più in grado di assolvere alle

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funzioni per le quali era stato progettato, ciò non dovrebbe significare, meccanicamente, la negazione della validità dell’intervento pubblico come garante delle politiche orientate a garantire (o, quanto meno, a promuovere) la coesione sociale e, conseguentemente, la sicurezza dei cittadini. In tale prospettiva, lo Stato regolatore riduce (talvolta in modo drastico) la propria area di intervento diretto, per porsi come garante delle interazioni fra i soggetti componenti la società civile, cui viene riconosciuta, pertanto, la capacità di aggregazione ed organizzazione autonoma oltre alla capacità di produrre autonomamente risorse integrative in grado di ricadere potenzialmente sull’intero corpo sociale. In questa ottica, lo Stato sociale viene ripensato sulla base della rinuncia, da parte dell’istituzione statale, all’erogazione diretta di beni e servizi, almeno parzialmente bilanciato dall’acquisizione, da parte delle istituzioni pubbliche in senso ampio (non solo dallo Stato, quindi, ma anche dagli altri enti, come i Comuni, secondo la logica della multilevel governance) del ruolo di coordinamento del sistema.

Verso la costruzione di uno spazio politico europeo: le esperienze, ancora embrionali, relative alla costruzione, anche politica, dell’Unione Europea ed al protagonismo politico delle realtà transnazionali mostrando la non esclusività della stessa forma-Stato, rendono ipotizzabile che il mutamento delle strutture produttive, delle tecnologie informatiche, delle modalità di trasporto e comunicazione, non rechi con sé, come proprio destino immanente ed ineluttabile, l’affermazione definitiva di un mercato globale e “senza regole”, ma possa consentire la realizzazione (o, almeno, la progettazione) di nuove forme di ricomposizione del conflitto politico (di nuove istituzioni politiche), forse di tipo glocale. In fondo, sia l’UE (a livello sovrastatale) che i distretti industriali (a livello infrastatuale) sono realtà (politiche e sociali) che sortiscono effetti sull’attività dei mercati, ma non sono prodotte dai mercati.

Secondo alcuni autori, lo stesso sviluppo del mercato necessita dell’affermazione di un certo tipo di relazioni sociali, basato sulla fiducia. Il mercato, quindi, necessiterebbe, per il proprio funzionamento di un livello minimo di trasparenza e di fiducia, un aspetto che dovrebbe convincere, nel lungo periodo, anche gli analisti più “cinici” a porsi il problema del contrasto dei gruppi criminali transnazionali e del riciclaggio del cosiddetto “denaro sporco”. Inoltrele società occidentali hanno cercato di edificare nuove istituzioni in cui ricreare forme di protezione, di mediazione e di garanzia della solidarietà e della fiducia nei rapporti sociali. La crisi del welfare, pertanto, ripropone, drammaticamente, la tematica della coesione sociale, confermando la convinzione che le incerte sorti dello Stato-nazione ed il faticoso, necessario, confronto riguardante le istituzioni politiche destinate, eventualmente, a succedergli, non potranno prescindere dalla questione della tutela del legame sociale, probabilmente la questione più rilevante del nuovo secolo.

È opinione molto diffusa, nella politologia contemporanea, che tali questioni debbano essere affrontate contemporaneamente a livello locale e ad un livello che sia sufficientemente ampio da consentire la coordinazione delle forme di regolazione locali e di condizionare, per quanto

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possibile, le dinamiche dell’economia globale. Per tali motivi, sia la politologia che la filosofia politica prestano grande attenzione ai processi contemporanei che riguardano la costruzione dell’Europa politica, ossia a quell’esperienza molto complessa e controversa che sta radicalmente modificando la tradizionale concezione dell’ordine politico basato sugli Stati nazionali sovrani.Un primo problema riguarda, pertanto, l’elaborazione di strategie che consentano di combattere l’etnocentrismo in tutte le sue forme. Infatti il particolarismo è una conseguenza diretta di ciò che Bauman definisce l’economia politica dell’incertezza; se l’Europa vuole garantirsi una consistenza politica e fronteggiare le spinte particolaristiche che si oppongono a tale progetto, deve partire dall’elaborazione di una concezione della cittadinanza che consideri anche il problema della sicurezza nei suoi vari aspetti. Per realizzare un sistema politico europeo è necessario, pertanto, che vengano considerati anche i vincoli metacontrattuali che «consentono ad un sistema politico di funzionare anche in presenza di non-convenienze per singoli membri o attori».

Si ripropone, pertanto, il problema dell’esistenza di un demos europeo: l’identità comune degli europei non può basarsi sulla ricerca di un ethnos. Il demos indica, invece, un’identità alternativa all’etnicità, costituita da un soggetto politico che sceglie di “stare insieme” sulla base di un progetto comune, di una mobilitazione condivisa. Guardare alla costruzione politica dell’UE, nell’era della crisi dello Stato significa, per la riflessione politica contemporanea, sviluppare le implicazioni della fine del paradigma uniformante hobbesiano ed esplorare nuove possibilità di costruzione dell’ordine politico che possono apparire, di primo acchito, paradossali, «possiamo, per ora, tenerci al dato di fatto che la Repubblica europea può presentarsi una nei principi e nei valori democratici di fondo e plurale nella loro articolazione istituzionale».

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