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In Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, Utet. Voce: Esilio 1. Il termine (it. 'esilio', fr. 'exil', ingl. 'exile', ted. 'exil', sp. 'exilio') deriva dal latino 'exilium' ('ex+solum' 'fuori dal territorio' secondo l'etimologia di Isidoro di Siviglia) e indica l'allontanamento dalla patria. Più esplicito in questo senso il termine dell'antico greco 'exoriso' che letteralmente significa 'mandare fuori dai confini', alternato a 'ekdemos', che insiste di più sul significato sociale e civile dell'esclusione dalla comunità umana. In spagnolo un sinonimo è 'destierro', 'desterrar', 'allontanare dal territorio'. Nell'uso del termine al significato etimologico di 'allontamento dalla patria' si è affiancata l'accezione negativa di sradicamento, isolamento, privazione e quindi anche, per estensione, fuga, abbandono, solitudine; in inglese 'exile' significa anche devastazione e distruzione. Nella tradizione letteraria il termine viene usato anche come metafora di sofferenza, esclusione e diversità; l'esiliato è l'isolato, il solitario, colui che per motivi diversi vive in una condizione di ripiegamento interiore e di estraneità nei confronti della società. Nei testi sacri esilio indica anche la vita terrena, percepita come incompleta e inautentica rispetto a quella vera, ultraterrena. Tema polisemico, legato agli eventi politici e sociali della storia dell'uomo e allo stesso tempo ricco di potenzialità metaforiche,

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In Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, Utet.

Voce: Esilio

1. Il termine (it. 'esilio', fr. 'exil', ingl. 'exile', ted. 'exil', sp. 'exilio') deriva dal latino 'exilium'

('ex+solum' 'fuori dal territorio' secondo l'etimologia di Isidoro di Siviglia) e indica

l'allontanamento dalla patria. Più esplicito in questo senso il termine dell'antico greco 'exoriso'

che letteralmente significa 'mandare fuori dai confini', alternato a 'ekdemos', che insiste di più sul

significato sociale e civile dell'esclusione dalla comunità umana. In spagnolo un sinonimo è

'destierro', 'desterrar', 'allontanare dal territorio'. Nell'uso del termine al significato etimologico di

'allontamento dalla patria' si è affiancata l'accezione negativa di sradicamento, isolamento,

privazione e quindi anche, per estensione, fuga, abbandono, solitudine; in inglese 'exile' significa

anche devastazione e distruzione. Nella tradizione letteraria il termine viene usato anche come

metafora di sofferenza, esclusione e diversità; l'esiliato è l'isolato, il solitario, colui che per motivi

diversi vive in una condizione di ripiegamento interiore e di estraneità nei confronti della società.

Nei testi sacri esilio indica anche la vita terrena, percepita come incompleta e inautentica rispetto

a quella vera, ultraterrena. Tema polisemico, legato agli eventi politici e sociali della storia

dell'uomo e allo stesso tempo ricco di potenzialità metaforiche, allegoriche e simboliche, il

motivo dell'esilio subisce i condizionamenti dovuti all'urgenza dell'esperienza autobiografica

all'origine di molti testi memorialistici o strettamente legati alla situazione storica, ma si

costituisce anche come tema letterario autonomo, svincolato dalle circostanze esteriori. E'

opportuno inoltre distinguere tra una letteratura d'esilio (Exilliteratur in tedesco), che indica le

opere, che possono riguardare o meno il tema dell'esilio, scritte da un gruppo di esuli in un

determinato periodo storico (ad esempio gli émigrés francesi del periodo rivoluzionario o i

tedeschi che sfuggirono al nazismo) e una letteratura sull'esilio, reale o metaforico, che può

implicare o meno un contesto autobiografico. Controverso è il rapporto tra letteratura

d'emigrazione, un fenomeno che riguarda gli spostamenti, per motivi socio-economici, di gruppi

di popolazione, e letteratura d'esilio, legata a esperienze individuali di scrittori appartenenti già a

un determinato contesto culturale. Se in alcuni periodi storici possono esserci stati dei punti di

contatto, in genere il tema dell'esilio ha un suo sviluppo autonomo, caratterizzato da una forte

metaforizzazione e dalle escursioni semantiche cui si è accennato.

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2. L'Antico Testamento è all'origine di una tradizione negativa dell'esilio che si configura come

un segno del disfavore e della collera divina per i peccati commessi dagli uomini; le partenze, i

ritorni, le deportazioni di cui l'antica storia ebraica è ricca, sono la manifestazione della volontà

di Dio, che a partire dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre punisce con l'esilio gli

uomini per i peccati commessi; solo il riconoscimento, da parte dei singoli, delle proprie

responsabilità e la purificazione dai peccati, guidata da Dio, possono porre fine alla condanna e

restituire il popolo alla sua terra. Nell'esilio è quindi implicito, e in questa direzione insisteranno i

padri della Chiesa, il significato di una prova particolarmente dura che la comunità deve scontare

per essere riammessa nelle grazie del Signore. Nel libro dell'Esodo il ritorno in patria dall'Egitto è

infatti il segnale di un rinnovato accordo tra la divinità e il popolo degli ebrei, guidati da Mosè in

un itinerario che è assieme riconquista della sovranità territoriale e riconciliazione con Dio. Il

periodo della cattività babilonese si configura invece come una ritorsione punitiva del Signore,

adirato per il comportamento peccaminoso del popolo eletto. Nell'Antico testamento sono già

presenti alcuni dei topoi narrativi più ricorrenti legati all'esilio, che influenzeranno la tradizione

letteraria successiva: tristezza e malinconia, rimpianto e desiderio di vendetta sono espressi nei

salmi (si vedano in particolare il 41 e il 137); il libro di Ezechiele, uno dei più narrativi della

Bibbia, contiene l'immagine, divenuta poi canonica, del deportato che parte per l'esilio in modo

avventuroso, di notte, al buio, solo e con pochi bagagli; la gioia per l'intervento liberatore di Dio

che conclude il periodo di deportazione viene espressa in più momenti, soprattutto nei salmi e nel

libro di Isaia.

3. La possibilità di un riscatto dell'esule e quindi di una configurazione in chiave eroica

dell'esilio, esperienza non solo punitiva, ma proficua per l'individuo è presente, anche se in forme

diverse, fin dall'antichità greca. Se alcuni accenni autobiografici sono contenuti nei versi

licenziosi e sarcastici di Ipponatte, vissuto nel VI secolo a.C., cacciato da Efeso per aver

combattuto i tiranni, sono soprattutto Tucidide e Senofonte (nonostante i dubbi sollevati

recentemente da Luciano Canfora sulla attribuzione a Tucidide del passo della Storia del

Peloponneso che parla di un esilio ventennale, che sarebbe opera invece di Senofonte) condannati

per motivi politici, ad impersonificare, in una direzione ricca di sviluppi successivi, il ritratto

eroico dell'esule che mantiene, nonostante le avversità, tutta la sua dignità e la sua statura

intellettuale.

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Una netta valenza etica e morale dell'esilio è presente anche nelle tragedie di Sofocle; l'esclusione

coatta dalla comunità degli uomini è certamente una durissima condanna che colpisce l'uomo che

ha trasgredito al massimo grado le regole della convivenza civile, ma può anche trasformarsi, con

un movimento catartico, in un'esperienza di purificazione, in grado di riqualificare l'individuo,

facendogli acquisire, nella solitudine e nell'isolamento, un'identità superiore di saggezza e di

giustizia.

InEdipo re, Edipo minaccia l'esilio all'uccisore del re Laio e quindi, inconsapevolmente, a se

stesso, autoescludendosi in questo modo, alla fine del dramma, dalla comunità degli uomini.

Nella continuazione, l'Edipo a Colono, l'esilio diventa però non un segno di condanna, ma un

modo per valorizzare l'escluso, che proprio in quanto esule e quindi estraneo alle lotte, si riveste

di una sapienza pura e assoluta. L'esule viene come purificato e può diventare quindi il garante

super partes di una giustizia superiore. Anche nella tragedia Filottete, sempre di Sofocle,

l'isolamento forzato cui è costretto Filottete, malato e abbandonato dai compagni in un'isola

deserta, prelude all'acquisizione di una funzione eroica del protagonista, a un potenziamento

sacrale delle sue qualità; secondo la profezia degli indovini solo l'intervento armato del reietto,

riammesso a questo punto anche contro la sua volontà nella comunità degli uomini, potrà

permettere la vittoria dell'esercito acheo su Troia.

4. Se il filone biblico suggerisce una valenza sacra dell'esilio e introduce alcuni importanti topoi

narrativi e la cultura greca propone un modello positivo e eroico di esule politico e suggerisce il

motivo, anch'esso di grande fortuna, di una valenza purificatrice insita nell'esperienza

dell'estraneamento, è soprattutto nell'ambito della civiltà latina che si costituiscono dei modelli

letterari e filosofici paradigmatici, sui quali si fonda gran parte della fortuna successiva del tema:

l'esilio epico avventuroso, strettamente legato al tema del viaggio, raccontato nell'Eneide di

Virgilio; l'esilio visto non, in negativo, come allontanamento dalla comunità degli uomini ma

come esperienza positiva di recupero di una propria dignità intellettuale e incentivo alla

riflessione filosofico-morale (Cicerone, Seneca); l'esilio come sofferenza interiore, all'origine di

una poesia intimistica e consolatoria (Ovidio).

Nell'Eneide di Virgilio la parola 'exilium' ritorna soprattutto tra la fine del secondo libro e l'inizio

del terzo, quando Enea profugo a Cartagine presso la regina Didone, racconta le sue avventure,

dalla fuga da Troia in fiamme all'arrivo sulla costa dell'Africa: Enea sta per abbandonare Troia e

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la moglie Creusa, appena morta, gli profetizza «lunghi esili»; più avanti si allude a «esili diversi».

Alla peregrinazione di Enea si intreccia quella di Didone, che ha dovuto abbandonare la patria,

minacciata dalle trame di potere: l'esilio della regina fenicia, non indirizzato dagli dei a una

funzione solenne come quella di Enea, fondatore di Roma, si risolve nella tragedia del suicidio,

mentre Enea, guidato dal volere divino, prosegue nella sua missione eroica. L'esilio è dunque un

tema legato all'epos classico (l'avventura, il viaggio, la ricerca, secondo un'antichissima

tradizione letteraria di cui troviamo traccia fin dal romanzo egiziano del II millennio a.C.Le

avventure di Sinuhe), ma ha anche un significato sacrale, in quanto costituisce una prova

necessaria all'acquisizione di un'identità eroica del protagonista, che dalla distruzione di Troia,

attraverso le varie tappe del viaggio, persegue il suo scopo di creare una nuova civiltà, la cui

identità storico-culturale veniva solennemente celebrata nel poema.

Esule illustre, più volte condannato ad allontanarsi da Roma, Cicerone considerava l'esilio come

un'occasione di riscossa per l'intellettuale sottomesso a restrizioni e censure politiche, che poteva,

nell'isolamento, liberare lo spirito e dedicarsi alla riflessione filosofico-morale. Nelle

Conversazioni tuscolane scritte nel 45 a.C. sotto la dittatura di Cesare, questa valutazione

positiva dell'esilio è affermata sulla base di una riflessione filosofica di impronta stoica e

epicurea: da un lato il saggio stoico è indifferente alle condizioni materiali di vita e mantiene il

suo equilibrio interiore indipendentemente dalle circostanze esteriori; dall'altro la felicità

esistenziale e spirituale si trova ovunque, anche lontano dalla patria e dipende esclusivamente

dall'individuo. Seneca riprende il modello di Cicerone, che sarà poi teorizzato anche da Plutarco,

nel De exilio, dell'esilio come occasione di fortificazione e crescita spirituale: nella Consolazione

alla madre Elvia, scritta per confortare la madre affranta per la condanna del figlio al confino in

Corsica nel 41 d.C., Seneca afferma che l'esilio riguarda il corpo, ma non lo spirito, che rimane

libero di pensare; il distacco dal mondo si tramuta quindi, secondo la filosofia stoica, in

un'opportunità positiva per l'individuo.

Con Ovidio il tema perde ogni connotazione epico-avventurosa e anche morale-intellettuale e

diventa, grazie anche alla lezione dei potae novi, un tema intimo; i Tristia e le Epistulae ex

Ponto costituiscono un modello letterario ripreso da vari poeti di tutti i tempi, fino al Novecento;

la tristezza del poeta esule assume un valore emblematico, trascende l'esperienza contingente e

diventa uno sguardo doloroso rivolto al mondo. La poesia ha quindi una funzione consolatoria

per il poeta affranto per la lontananza dalla patria, ma è anche, ed è stato uno dei motivi della

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grande fortuna della poesia dell'esilio di Ovidio, apertura verso nuovi universali orizzonti

spirituali, occasione di meditazione e di scoperta dell'io e riflessione disincantata sulla morte,

sulla memoria e sull'infelicità.

5. In ambito romanzo, il tema sfugge a definizioni univoche, tra i condizionamenti dovuti,

soprattutto nella realtà comunale italiana, alla diffusione dell'istituzione dell'esilio politico e

l'elaborazione, nella poesia provenzale e toscana, della metafora letteraria dell'esilio come

condizione di sofferenza e infelicità.

Nelle chansons de geste prevale ancora però il tema dell'esilio-avventura; nel Cantare del mio

Cid, un poema epico castigliano scritto attorno alla metà del XII secolo, il motivo dell'esilio è

un'occasione per celebrare i valori cavallereschi: la virtù, il coraggio, l'audacia, la fedeltà alla

patria. Cacciato dalla corte del re Alfonso di Castiglia-Leon perché sospettato di aver sottratto dei

tributi che era stato incaricato di riscuotere, il Cid passa da una condizione di disfavore nei

confronti del re a una riscossa prestigiosa che conduce alla fine alla riabilitazione del protagonista

che rientra nelle grazie del sovrano. L'esilio è un'epopea ascensionale in cui lo scopo è

combattere il disfavore con il coraggio e l'azione in modo da trasformare l'esperienza negativa

della fuga in una celebrazione del patriottismo e del valore guerriero.

In Italia l'esilio politico diventa motivo letterario con modalità differenti: se gli accenni all'esilio

di Brunetto Latini nel Tesoretto e nella Rettorica si riducono a rapidi cenni autobiografici a

scopo informativo, Dante, nella Commedia, conferisce all'esilio una funzione sacrale,

coniugando la tradizione di origine biblica e classicista con la propria vicenda reale di esule

politico; il viaggiatore-personaggio, exul inmeritus, compie, nell'itinerario verso Dio, un percorso

di purificazione che carica l'evento reale di una fortissima valenza allegorica. Preannunciato con

enfasi crescente da diversi personaggi (Ciacco, Farinata degli Uberti, Brunetto Latini), l'esilio di

Dante si configura infatti, nell'episodio rivelatore di Cacciaguida (Par. XVII) come un'investitura

morale dell'autore, garante di una giustizia superiore, avvalorata dal sacrificio della propria

vicenda terrena; l'allontanamento di Dante dalla corruzione di Firenze assume quindi un rilievo

sacrale, che viene sottolineato anche dall'uso, soprattutto nell'incontro con Brunetto e in quello

con Cacciaguida, di espressioni attinte al linguaggio biblico. Il tema viene così mitizzato; sul

significato reale, in primo piano soprattutto nei canti politici dell'Inferno, prevale, in particolare

nel Paradiso, quello simbolico.

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Esule fu anche Guido Cavalcanti, anche se la lontananza dalla patria evocata nel gruppo di

poesie che hanno come parola chiave «disaventura» più che a una dimensione biografica

corrisponde (come ha ribadito, sulla scorta di una tradizione critica già notevole, Gianfranco

Contini) a un topos letterario (la condizione di lontananza dall'amata, il timore di morire senza

rivedere la patria), che appartiene, come ha sostenuto anche Corrado Calenda, «a un sottogenere

lirico legato alla provenzale canzone di eloignement», o dell'amor de lohn; siamo di fronte quindi

a un caso in cui il contesto biografico (l'effettivo esilio di Cavalcanti da Firenze per motivi

politici) ha indotto a un'errata interpretazione dei versi dell'autore, in particolare la celebre ballata

Perch'io non spero di tornar giammai, esempio di tematizzazione letteraria del motivo dell'esilio,

estranea però a qualsiasi coinvolgimento autobiografico.

Anche nel Canzoniere di Petrarca la sofferenza dovuta all'assenza e alla lontananza dall'amata è

paragonata a un esilio, più volte definito «duro», «misero»; la metaforizzazione del tema,

emblema dell'infelicità amorosa, assume caratteristiche quasi canoniche per la poesia successiva,

che si ritrovano anche nei versi di molti poeti petrarchisti dell'epoca rinascimentale, come

Philippe Desportes e Agrippe D'Aubigné.

Un esilio dissacrato è invece quello cantato da François Villon, che alterna nelle sue poesie

riferimenti autobiografici sull'infelice condizione di esiliato (si veda ad esempio la Lettera agli

amici(1461), nella quale l'autore si lamenta per la condanna subita e per le tristi condizioni di vita

e chiede agli amici di intercedere per ottenere il permesso di tornare a Parigi) a parodie del topos

letterario dell'esilio come metafora dell'assenza amorosa, come nel Lais del 1456, in cui il poeta

finge di essere stato respinto da una donna crudele e decide quindi di esiliarsi.

6. In epoca umanistico-rinascimentale i due filoni dell'esilio reale, legato a circostanze

autobiografiche e politiche e dell'esilio metaforico, tematizzato in chiave letteraria, come

emblema di tristezza amorosa o come insofferenza nei confronti della società e recupero di una

dimensione di innocenza e solitudine, sono entrambi molto vitali. Per il primo caso i testi sono

numerossimi, legati alle guerre politiche in Italia (cfr. le Lettere di Bartolomeo Cavalcanti, i

Medices legatus. De exilio libri II di Pietro Alcionio), o alle guerre religiose in Francia, delle

quali fu vittima Clement Marot, autore di una raccolta di versi, Il trionfo dell'agnello di

ispirazione biblica.

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Tuttavia nella società europea dell'antico regime, delle guerre di religione e dell'offensiva

controriformista, il tema letterario dell'esilio costituisce soprattutto un modo per esprimere il

disagio nei confronti di un mondo dominato da rigide e inautentiche regole di comportamento.

A Ovidio si ispira Joachim Du Bellay nei suoi Rimpianti (1553) composti in occasione di un

soggiorno a Roma, dove il poeta si era recato al seguito del cugino incaricato di una missione

presso il papa. Riprendendo il tono elegiaco dei Tristia, Du Bellay rimpiange la patria lontana e

disprezza il mondo romano, la corruzione e la malvagità che dominano l'ambiente ecclesiastico;

nonostante le circostanze esteriori (la lontananza dalla patria, il sentimento di estraneità al mondo

romano) quello di Du Bellay è un esilio interiore, che deriva dalla disparità tra i sentimenti

dell'autore e il mondo circostante.

Il tema dell'esilio come purificazione, distacco da un mondo politico e sociale corrotto è al centro

anche di un dramma di Shakespeare, Come vi pare (1599) in cui la costrizione a vivere in

campagna, lontano dalla città conduce i protagonisti alla riscoperta di un mondo di purezza e

libertà che si oppone alla rete di convenzioni e di costrizioni imposte, in città, dalla vita di

società. E' una sorta, come scrive Mario Praz, di risposta alla «civil conversazione» della civiltà

cortese e implica la riscoperta di rapporti veri e autentici, possibili solo in una condizione di

isolamento e di deviazione dalla norma. Nell Tempesta (1623) la situazione dell'esilio è connessa

a un rito di espiazione e di purificazione; nell'isola dove si svolge l'azione, un luogo emblematico

per la letteratura d'esilio, è la malvagità, domata inizialmente dai prodigi, ad essere allontanata e i

protagonisti possono ritornare alla vita sociale solo dopo aver toccato l'abisso della disperazione e

della aberrazione umana.

7. Nel Settecento elemento rilevante per il tema è lo sviluppo della memorialistica (politica, di

costume, letteraria, artistica) e della scrittura di sé. L'esilio si configura, nella Vita di Pietro

Giannone, come una prova traumatica e distruttiva, ingiustamente subita dall'autore che intende

dimostrare la propria innocenza e denunciare la congiura orchestrata contro di lui da parte delle

autorità ecclesiastiche e politiche. Nella Vita di Alfieri, la «spiemontizzazione» è invece una

scelta volontaria, indotta dal desiderio di ricercare una patria ideale che lo scrittore riconosce

nella Toscana, culla di civiltà linguistico-letteraria.

Tuttavia, al di là delle singole esperienze, un secolo come il Settecento, percorso da fervori

utopistici, da istanze di rinnovamento e da furori polemici, non poteva non elaborare un mito

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positivo dell'esilio del quale il massimo rappresentante fu Jean-Jacques Rousseau. Se in fondo

anche il Candide dell'omonimo romanzo di Voltaire è un esule viandante, uno sradicato alla

ricerca del «miglior mondo possibile», è soprattutto negli scritti privati di Rousseau (Confessioni,

Fantasticherie del passeggiatore solitario, Epistolario) che l'allontanamento dalla società,

imposto o deliberatamente scelto, si configura nei termini di un'esperienza proficua per

l'individuo, che nella solitudine può riacquistare la propria libertà interiore, in funzione di una

vita più autentica, lontana dalle falsità di una società considerata impositiva nei confronti

dell'uomo. Nell'isola di Saint-Pierre, all'interno del lago di Bienne, dove si rifugia nel 1765, lo

scrittore scopre l'estasi della solitudine e enfatizza la sua condizione di sradicato, che ritrova

all'interno della propria anima le risorse necessarie a uno stato di quiete e felicità.

L'intensa prospettiva rousseauiana di un isolamento positivo, risolto in chiave di arricchimento e

crescita personale, sarà rivalutata, anche se in circostanze diverse, in piena modernità, tra Otto e

Novecento; alla fine del Settecento invece il tema dell'esilio, prima di diventare, con gli eventi

rivoluzionari, un tema centrale della memorialistica politica ottocentesca, conosce ancora una

nuova veste: il desiderio di evasione e di fuga dalla società possono anche coincidere con una

ricerca che, in anni di crisi dei lumi e di perdita di riferimenti culturali, non conduce a

un'intensificazione della conoscenza interiore, ma a un appagamento disincantato dell'individuo

nella bellezza e nell'arte, in una dimensione fantastica e irreale. Nel romanzo Ardinghello e le

isole felici (1787) Wilhelm Heinse racconta la storia di Prospero Frescobaldi, esiliato a Venezia

per le lotte politiche fiorentine nel tardo '500, sotto il finto nome di Ardinghello; dopo varie

peripezie che lo portano a Roma, dove si innamora dell'umanista pagana Fiordimona e in un

eremo isolato, il protagonista approda finalmente, in compagnia della sua amante, alle Isole

beate, ricche di bellezze naturali, dove vive appagato, nel culto della bellezza e dell'edonismo.

L'esilio reale, dovuto alla situazione politica prelude quindi a un esilio in un mondo fantastico,

proiezione semplificata e risolta in chiave artistico-estetica delle mitiche «età dell'oro» che

percorrono tutto il secolo.

8. In epoca rivoluzionaria si sviluppa, soprattutto ad opera dei francesi costretti a lasciare il loro

paese, una ricca letteratura legata all'esilio politico che comprende opere narrative e scritture

memorialistico-autobiografiche, come i Dieci anni d'esilio (1818) di Madame de Staël, o le

Memorie da Sant'Elena di Napoleone.

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Nel romanzo di Gabriel Senac de Meilhan, L'emigrato (1797), prevale invece, sull'aspetto

documentario tipico dei documenti autobiografici, l'elemento avventuroso; eroismo e sacrificio si

mescolano in un libro in cui l'amore è il tema dominante, strettamente legato al motivo della

gloria e l'esilio serve a dare un maggior impulso romanzesco all'intreccio. Il protagonista, un

esule francese, diventa ufficiale dell'esercito prussiano; catturato dai suoi compatrioti, si uccide

davanti al tribunale rivoluzionario, seguito dall'amata che impazzisce di dolore e muore.

In Italia si sviluppa una letteratura d'esilio negli anni delle Repubbliche giacobine (1797-1799) e

soprattutto alla fine del triennio. Il libro più famoso legato a questa esperienza, scritto dopo la

pace di Campoformio con la quale Napoleone restituiva Venezia agli Austriaci costringendo i

patrioti veneti alla fuga, sonoLe ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, romanzo

epistolare fondante per il tema dell'esilio nel Risorgimento italiano. Per Foscolo l'esilio

metaforico, vissuto come proiezione letteraria, emblema di una condizione di disagio esistenziale

e di una dimensione continua di ricerca artistica e intellettuale, si sovrappone e si interseca con

l'esilio reale, con le fughe e gli spostamenti continui dell'autore tra i vari stati italiani e europei.

Nelle lettere, nel romanzo, nei sonetti (in particolare In morte del fratello Giovanni, dove

l'impossibilità del ritorno in patria svela l'identità non contingente ma assoluta della lontananza)

l'esilio diventa il simbolo di una ricerca artistico-esistenziale in perenne evoluzione, che si

alimenta della sua stessa essenza, mentre ogni possibile realizzazione rimane sempre illusoria.

L'esilio romantico, che si sviluppa nella prima metà dell'Ottocento, riflette proprio questa

strettissima, irrinunciabile relazione tra la vita e l'opera d'arte; artisti e scrittori ricercano una

patria ideale e vivono la condizione di sradicamento come uno stato di elezione; la scrittura è essa

stessa ricerca e proiezione verso un mondo ideale, e allo stesso tempo un atto di consapevolezza

dell'illusorietà di questa ricerca assoluta. Per Wordsworth, Byron e Shelley la scelta di esiliarsi

in Francia, Italia o Grecia, ha uno scopo liberatorio, rientra in quel processo di ricerca di una

dimensione incontaminata ideale, anche se il viaggio conduce in realtà anche all'acquisizione

della consapevolezza dell'illusione. Attraverso le loro opere (cfr. Ode a Venezia, La profezia di

Dante di Byron) e soprattutto la loro esperienza biografica essi contribuirono a una mitizzazione

dell'esilio che troverà riscontro in tanti scritti ottocenteschi.

Un indissolubile intreccio tra biografia e dimensione letteraria è contenuto anche nelle Memorie

d'oltretomba (1848-50) di Chateaubriand, che coniugano il mito dell'esilio romantico con il

motivo dell'esilio politico. L'autore enfatizza l'esperienza vissuta e la ripercorre in chiave

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letteraria, caricandola di un valore emblematico. All'inizio, ad esempio, egli definisce il suo

trasferimento, da neonato, dalla casa dei genitori alla casa più salubre della nonna, come il suo

«primo esilio»; l'autore intende quindi presentare, fin dall'inizio, la sua vita come quella di un

predestinato in cui sradicamento, inquietudine, ricerca continua sono non solo condizione

esteriore, determinata dalle circostanze storiche, ma anche tensione interiore, segno di una

eccezionale personalità artistica e intellettuale. Nei capitoli dedicati agli anni del soggiorno

inglese (1793-1800), caratterizzato, soprattutto nel primo periodo, da povertà e privazioni, non

mancano descrizioni realistiche e a tratti cronachistiche della vicenda. Tuttavia l'esilio viene

decisamente enfatizzato in senso letterario; Chateubriand insiste sul nesso esilio-scrittura, sul

legame tra la lontananza forzata dalla patria e l'insorgere della volontà di scrivere, di dedicarsi

alla letteratura come spazio di ricerca personale e serbatoio di ricchezza interiore.

In pieno Risorgimento italiano l'esilio oltre a essere un momento centrale dei racconti

autobiografici di numerosi intellettuali impegnati nelle lotte per l'unità (si vedano le Memorie

autografe di un ribelle di Giuseppe Ricciardi, le Reminiscenze dall'esilio di Carlo Beolchi, il

Diario intimo di Tommaseo, le Note autobiografiche di Mazzini) è al centro di alcune opere

narrative.

Giovanni Berchet, in I profughi di Parga esalta la capacità di resistenza di ogni popolo, che

afferma la propria dignità anche nell'esilio. Giovita Scalvini, in Il fuoriuscito (1825) lamenta

l'infelice condizione dell'esule, privato dei più elementari diritti umani e civili. Nel poemaL'esule

Pietro Giannone rappresenta la figura romantica dell'eroe che vendica i soprusi e le ingiustizie in

nome di un ideale nazionale che domina tutto il libro, in un'atmosfera di esaltazione dei valori

patriottici. Stessa atmosfera di redenzione e di purificazione, risolta però prevalentemente in

chiave letteraria, troviamo nel romanzo di Tommaseo, Fede e Bellezza, il cui protagonista

Giovanni è spinto alla fuga dall'Italia più da motivazioni esistenziali che politiche e trova

nell'isolamento e nella lontanza un ambiguo acquietamento delle proprie turbolente passioni.

Nell'esilio londinese che quasi conclude il lungo intreccio delle Confessioni di un italiano di

Ippolito Nievo, è invece la figura di Pisana, che qui muore martire immolata sull'altare di un

effimero e sfuggente ordine finale, a risultare purificata dalla prova durissima della lontananza

dalla patria; tutta la vicenda di Carlino e Pisana, iscritta all'interno di una storia agitata da

passioni contrastanti, trova un sua più nitida e chiara configurazione proprio attraverso il filtro di

una lontananza che libera gli individui dalle colpe e li riconsegna a loro stessi e al loro destino.

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I lunghi anni d'esilio politico (dal 1852 al 1870) lasciarono un segno indelebile anche in Victor

Hugo, che riflette, nei suoi scritti, una dissociazione tra l'esilio reale e l'esilio come tema

letterario; in relazione a una situazione reale, il soggiorno nell'isola di Jersey, che, come risulta da

alcune testimonianze, appare tutto sommato soddisfacente, quasi idillica, nella scrittura epistolare

e soprattutto nei versi delleContemplazioni (1830-1855), l'esilio viene invece evocato, attraverso

il filtro del discorso letterario, come un'esperienza distruttiva, traumatizzante, avvilente, secondo

la tradizione ovidiana, ripresa da Du Bellay e da altri.

Il tema dell'esilio divenne comunque talmente comune nella società del tempo che, mentre il

pittore Delacroix dipingeva Ovidio al bando sul Mar Nero, Balzac raffigurava anche il tipo

dell'emigrato nella sua Commedia umana, che aspirava ad essere un affresco della società

contemporanea nel suo complesso; nel racconto I proscritti (1831), l'autore finge che Dante, nel

1308, si sia recato anche a Parigi nel corso delle sue peregrinazioni; la dolorosa vicenda dell'esule

fiorentino rinvia in realtà alla situazione contemporanea e diventa l'emblema del difficile rapporto

tra intellettuale e società e tra intellettuale e potere politico.

Va infine ricordata una ripresa ottocentesca del tema elegiaco ovidiano da parte del drammaturgo

austriaco Franz Grillparzer, che scrisse i Tristia ex Ponto (1826-33), caratterizzati da una forte

tendenza al compianto e all'infelicità. Toni elegiaci e autobiografici hanno anche i versi di

Púskin Prigioniero del Caucaso (1820-1), scritti durante l'esilio in Russia meridionale, cui il

poeta fu condannato dal 1820 al 1824 per aver composto dei versi politici; tema principale della

raccolta è il desiderio di fuga da ogni legame e dalle metaforiche prigioni della patria.

9. Nella cultura decadente otto-novecentesca, l'esilio diventa l'emblema di una condizione

esistenziale di isolamento e autoemarginazione dalla società, vista come realtà inautentica dalla

quale fuggire alla ricerca di esperienze più intense sul piano artistico e intellettuale. Baudelaire

riconduce l'esilio a una condizione esistenziale, non contingente; chiunque si sottrae alle

costrizioni della società contemporanea è in fondo un esule, rappresentato dall'immagine

emblematica e struggente del cigno (Le cygne, 1857), al quale è negata la possibilità del volo e

che può solo sbattere tristemente le ali nella polvere.

Nella raccoltaGli esuli (1867) Théodore de Banville riprende invece l'ideale romantico

dell'isolamento assoluto dell'artista, per il quale la solitudine e l'incomprensione della comunità

degli uomini sono il segno di un forte sentire, prerogativa solo delle anime elette che trovano

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esclusivamente nella bellezza della natura e nello spettacolo dell'arte una dimensione ideale e

consolatoria. Corbière in Il poeta assente (1873) si paragona a un eremita, che si autoesilia

dall'opaca e chiusa comunità degli uomini, invitando la donna amata a raggiungerlo nel suo

volontario isolamento. Autoesule per ritrovare una dignità umana e un'identità eroica sempre più

irraggiungibili, è anche Jim, protagonista del romanzo di Conrad, Lord Jim (1900), perso in

tortuose investigazioni del proprio io che solo in un artificioso microcosmo può trovare un

effimero equilibrio, pronto a infrangersi di fronte all'evidenza della realtà. In Nostromo (1904),

dello stesso autore, sullo sfondo delle lotte politiche europee e del Sud-America, si incrociano e si

sovrappongono i destini di individui ai quali è negata per vari motivi (politici, personali, ideali) la

possibilità di uno scambio proficuo con la collettività. In Sotto gli occhi dell'Occidente (1911) è

la comunità di esuli russi in Svizzera al centro del racconto; l'oppressione e l'inautenticità

prevalgono nei rapporti tra le persone e l'esilio è solo una fuga illusoria che non restituisce agli

individui la loro libertà morale.

Isolamento e autoemarginazione possono però anche risolversi in una dimensione di ricerca

intellettuale che trae dalla condizione dell'esilio una nuova linfa vitale. Nel dramma Esuli (1910),

Joyce distingue tra l'esilio economico, dovuto alla necessità di guadagnare, e l'esilio spirituale,

concepito come una ricerca e un arricchimento intellettuale non solo per il singolo, ma anche per

la stessa vita culturale delle nazioni. La storia di Riccardo, fuggito dall'Irlanda per sottrarsi a

censure sulla sua vita privata e poi tornato e reintegrato in un ruolo di prestigio nella vita pubblica

di Dublino, indica proprio questa necessità di cercare al di fuori dei confini nazionali la linfa per

il nutrimento spirituale dell'uomo moderno. In modo ancora più esplicito il romanzo Ritratto

dell'artista giovane (1916), sempre di Joyce, riconosce nella scelta dell'autoesilio un passaggio

necessario alla costruzione di un'identità estetica e filosofica dell'intellettuale moderno. E anche

Nietzsche attribuiva all'esilio, all'isolamento, la facoltà di purificare e arricchire l'individuo: «Ho

scelto l'esilio per poter dire la verità».

Sulla stessa linea si situa anche l'opera di due autori provenienti dagli Stati Uniti, un paese in cui

l'esilio reale è sconosciuto, Ezra Pound e Thomas Eliot, per i quali la lontananza voluta dalla

patria naturale si configura come una ricerca artistica che deve avvenire sulla base di un

confronto con orizzonti più aperti, lontano dal provincialismo della cultura americana. I

contemporanei definirono i due autori con disprezzo degli «espatriati» e rimproverarono loro di

non aver voluto rivalutare l'eredità della cultura americana. Pound in Patria mia teorizza la

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necessità artistica di sentirsi un esiliato; nella poesia In prigione egli descrive la sua insofferenza

nei confronti delle costrizioni formali e territoriali, al centro della sua opera più famosa, i Cantos.

Per Eliot, autore di La terra desolata (1922), lo sradicamento diventa una condizione esistenziale,

indipendente dall'identità anagrafica: pur avendo preso la cittadinanza inglese, egli riconosceva

infatti di sentirsi straniero ovunque.

10. Nel Novecento i sommovimenti politici hanno creato diverse ondate di esili e alimentato una

folta letteratura, in cui prevale la componente autobiografica: a partire dal 1917 cominciò la fuga

dei russi dalla rivoluzione; seguirono italiani, spagnoli e tedeschi che lasciarono i loro paesi in

seguito all'avvento di fascismo e nazismo; dopo la seconda guerra mondiale l'esodo interessa gli

stati del blocco comunista e negli anni '70 i paesi dell'America latina retti da dittature.

In Germania con Exilliteratur si indica la letteratura degli anni dell'emigrazione tedesca anti-

nazista, dal 1933 al 1945, contraddistinta da una rappresentazione drammatica dell'esilio, ridotto

a cruda e spietata cronaca, raffigurato in tutta la sua dilaniante verità e privato di ogni retorica

letteraria e di ogni possibile lettura in chiave eroica. Molte delle opere scritte in questo periodo

contengono situazioni autobiografiche. Esilio (1940) si intitola un romanzo di Lion

Feuchtwanger, che fa parte di una trilogia dedicata alla vita politica e sociale della Baviera negli

anni del nazismo, ricco di particolari che sottolineano le difficoltà della vita dell'esule, al quale è

negata qualsiasi possibilità di resistenza eroica. Di ispirazione autobiografica anche i romanzi di

Anna Seghers, caratterizzati da un'attitudine cronachistica; in Visto di transito (1943) viene

descritto lo smarrimento degli esuli che aspettano ansiosamente il visto per imbarcarsi a

Marsiglia per l'America. Anche Bertold Brecht dedicò i Dialoghi tra i profughi, (1940-1) alla

descrizione dello stato d'animo dei fuggiaschi. Klaus Mann, figlio di Thomas che in esilio

scrisse alcuni dei suoi capolavori, nel romanzo Vulcano (1939) descrive l'ambiente degradato

degli esuli affollato di spie, delinquenti, figure ambigue. Stesso tono nel romanzoI privi di diritto

di Walter Hasenclever, pubblicato postumo del 1963. Nel dopo-guerra Frank Thiess utilizzò il

termine di inneren Emigration ('emigrazione interna') per difendere l'operato degli scrittori

tedeschi che durante il terzo Reich non emigrarono all'estero, ma non si impegnarono con il

nazionalsocialismo e opposero una resistenza passiva all'ideologia nazista.

Per Saint-John Perse, esule politico negli Stati Uniti per aver preso posizione contro il governo

di Vichy nel 1941, autore della raccolta Esilio il tema dell'esilio va invece oltre il riferimento

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storico immediato, si mescola al tema del vuoto dell'esistenza e finisce per coincidere con la nuda

adesione dell'uomo agli elementi cosmici e alla forza insondabile del mare.

Le lotte intestine che hanno interessato numerosi paesi con conseguenti ondate di migrazioni,

hanno fatto sì che negli ultimi decenni del secolo esule diventasse sinonimo, soprattutto in alcune

aree geografiche, di rifugiato politico; in Francia ad esempio, in seguito all'arrivo, dal 1970 in

poi, di numerosissimi sud-americani fuggiti dal loro paese per le dittature militari si è sviluppata

un'abbondante letteratura su conflitti politici, prigionia, sradicamento.

La realtà autobiografica è spesso però un punto di partenza per una considerazione globale

dell'esperienza dell'esilio che si libera dal dato contingente e si confronta, ancora una volta, con la

tradizione letteraria.

Vintila Horia, scrittore rumeno espatriato dopo il 1945 scrisse Dio è nato in esilio svolto come

un finto diario di Ovidio durante il confino nel Ponto, l'odierna Romania. La sofferenza causata

dall'esilio spinge Ovidio a interrogarsi sul senso dell'esistenza, a mettere in discussione valori e

certezze; ne risulta un'esaltazione dell'esperienza dello scavo interiore indotta dall'esilio, preludio

al riconoscimento di una forza spirituale religiosa legata al cristianesimo. L'esilio può essere

dunque un'occasione di ricerca spirituale, ma può trasformarsi anche in un'esperienza intellettuale

e morale estrema, all'origine di una letteratura intesa, alle soglie del nuovo millennio, come

assoluta esperienza conoscitiva. Rovesciando la concezione espressa in Minima moralia (1951)

dal filosofo tedesco Adorno, che vedeva nell'esilio una duplice condanna, in quanto privazione

della patria ma anche della parola e della possibilità di comunicare e quindi della memoria, lo

scrittore sovietico Josef Brodski, in un discorso del 1987La condizione dell'esilio, afferma che

per uno scrittore l'esilio è un evento linguistico, in quanto lo sradicamento conduce a una

condizione in cui tutto ciò che rimane all'uomo è se stesso e la propria lingua. L'esilio conferisce

quindi un'intensità assoluta alla parola, che assolve in modo più completo al compito, necessario

perché una letteratura si possa davvero definire tale, di «acceleratore della comprensione

dell'universo».

Altri testi

Lamartine, A. de, L'esilio della vita (L'exil de la vie, in Premières meditations, 1820)

Genlis, Madame de, Memorie (Mémoires), Parigi 1825

Balzac, H. de, Il colonnello Chabert, (Le colonel Chabert, 1830)

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Mazzini, G., L'esule , in «Indicatore livornese», 1830

Pepe, G., Memorie del generale Guglielmo Pepe intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia,

Lugano 1847

Daudet, A., Les rois en exil, 1879

Tolher, E., Eine jugend in Deutschland, 1933

Mann, K., Der Wendepunkt, 1944

Zweig, S., Die Welt von gestern, 1944

Seghers, A., Das siebte Krenz, 1946

Mendoza, P., Años de fuga, 1975

Mircea Eliade, Le promesse dell'equinozio. Memorie I; Le messi del solstizio. Memorie II

(Memorii (1907-1960) 1991), Milano 1995.

Bibliografica critica

Mounier, J. (a cura di), Exil et littérature, Paris 1986

Seidel, M., Exile et the narrative imagination, New Haven London 1986.

Sechi, M. ( a cura di), Fascismo ed esilio, Pisa, I-II, 1988-1992.

Heers, J., Bec, C.(a cura di),Exil et civilisation en Italie (XII-XVI siècles), Nancy 1990.

Cheyne, J., Crisafulli Jones, L. M. (a cura di), L'esilio romantico: le forme di un conflitto, Bari

1990

Marchand, J.J. (a cura di), La letteratura dell'emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel

mondo, Torino 1991.

Ulysse, G. (a cura di), L'exil et l'exclusion dans la culture italienne, Actes du colloque franco-

italien, Aix-en-provence 1991.

Magnan, A. (a cura di), Expériences limites de l'épistolaire. Lettres d'exil, d'enfermement, de

folie, Atti del convegno di Caen, 16-18 giugno 1991, Parigi 1993.

Berthold, W. (a cura di), Exilliteratur und Exilforschung: ausgewahlte Aufsatze, Vortrage una

Rezensionem, Wiesbaden 1996

Niderst, A. (a cura di), L'exil, Actes du colloque CERHIS, Paris 1996.

Ciccarelli, A., Giordano, P. (a cura di), L'esilio come certezza. La ricerca d'identità culturale in

Italia dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, "Italiana" (1998).

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Testi citati

Antico testamento

Ipponatte, Versi

Senofonte, Anabasi

Tucidide, La guerra del Peloponneso

Sofocle, Edipo re (430 a.C. ca), Edipo a Colono (prima rappresentazione postuma 401 a.C.),

Filottete (409 a.C.)

Virgilio, Eneide

Cicerone,Tusculanae Disputationes (45 a.C.)

Ovidio, Tristia, Epistulae ex Ponto

Seneca, Consolatio ad matrem Helviam

El cantar del mio Cid

Brunetto Latini, Rettorica, Tesoretto

Dante Alighieri, Commedia

Cavalcanti, G., Perch'io no spero di tornar giammai

Petrarca, F., Canzoniere

Desportes, Ph., Gli amori di Diana (Les amours de Diane )

D'Aubigné, A., La primavera, (Le printemps , L'Hécatombe à Diane.)

Villon, F., Lettera ai suoi amici, (Epitre à ses amis), Le Lais (1456)

Filelfo, F.,Commentationes de exilio

Cavalcanti, B., Lettere

Alcionio, P., Medices legatus. De exilio libri II (1522)

Marot, C., Il trionfo dell'agnello, (Le triomphe de l'Agneau., 1534)

Du Bellay, J., Rimpianti, (Les regrets , 1558-9)

Shakespeare, W., Come vi pare, (As you like it , 1599)

idem, La tempesta, (The tempest, 1623)

Voltaire, Candido (Candide,

Rousseau, J.J., Confessioni, (Confessions, 1765-70), Fantasticherie di un passeggiatore solitario

(Rêveries d'un promeneur solitaire, 1776-78)

Giannone, P. (1676-1748), Vita scritta da lui medesimo , (1736-1741), Napoli 1940

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Alfieri, V., Vita (1790-1803), 1807

Heinse, W., Ardinghello e le isole felici (Ardinghello oder die glückselingen Inseln ,1787)

Foscolo, U., Le ultime lettere di Jacoco Ortis (1802), In morte del fratello Giovanni (1802)

Staël, G. Madame de, Dieci anni d'esilio (Dix années d'exil, 1818), s.l. 1945

Napoleone, Memoriale di sant'Elena, (Mémorial de Sainte-Hélène )

Senac de Meilhan, G., L'emigrato, (L'Emigré, 1797)

Puskin, Prigioniero del Caucaso (1820-1)

Byron, Ode a Venezia (Ode to Venice, 1818), La profezia di Dante (The prophecy of Dante )

Shelley, P. B., Lines written among the Euganean Hills (1818)

Berchet, G., I profughi di Parga, Parigi 1823

Grillparzer, F., Tristia ex Ponto (1826-33)

Carlo Beolchi, Reminiscenze dall'esilio, Londra 1830

Giannone, P. (1792-1872), L'esule, Parigi 1829

Scalvini, G., Il fuoriuscito (1825), in Scritti di G.S. ordinati per cura di Niccolò Tommaseo,

Firenze 1860

Tommaseo, N., Diario intimo, Torino 1946(3), Fede e bellezza

Mazzini, G., Note autobiografiche (1861-66), Firenze 1943

Balzac, H., Les proscrits, 1831

Chateaubriand, F. R., Memorie dall'oltretomba , Paris 1848-50

Hugo, V., Contemplations (1830-1855)

Baudelaire, Ch., Il cigno (Le cygne), in I fiori del male , Parigi 1857)

Giuseppe Ricciardi, Memorie autografe di un ribelle, Parigi 1857.

Nievo, I., Confessioni di un italiano (1867)

Banville, Th. de, Les exilés (1867)

Corbière, T.,Poète contumace, in Les amours jaunes, Parigi 1873

Conrad, K., Lord Jim, Nostromo, Under western eyes

Joyce, J., Esuli, (Exiles, 1910), Ritratto dell'artista da giovane, (A portrait of the Artist as a

Young Man)

Feuchtwanger, L., Exil, (1940)

Seghers, A.,Transit (1943)

Adorno, Th. W., Minima moralia

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Brecht, B., Dialoghi di profughi, (Flüchtlingsgespräche , 1940-1)

Mann, K.,Vulcano (Vulkan , 1939)

Hasenclever, W., I privi di diritto (Die Rechtlosen , 1963)

Pound, E., Cantos, In durance (In prigionia, ), Patria mia (1912)

Eliot, Th., The waste land

Saint-John Perse, Esilio (Exil 1942), Milano 1985

Horia, V., Dio è nato in esilio (Dieu est né en exil),Torino 1979

Brodskij, I., La condizione che chiamiamo esilio (The condition we call Exile , 1987), Milano

1988

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Dante Frascati La forza della poesia 7-11 maggio 2012

Esilio

All’inizio del Convivio, nel secondo capitolo del primo trattato, Dante si giustifica per il fatto di

affrontare questioni che lo coinvolgono in prima persona; parlare di sé è lecito solo quando

bisogna difendersi da «grande infamia o pericolo» come aveva fatto Boezio nel De consolatione

philosophiae «per escusare – scrive Dante - la perpetuale infamia del suo essilio».

Anche per Dante è l’esilio a giustificare la superbia di parlare di se stessi. E tuttavia

all’argomentazione filosofica così retoricamente controllata dei paragrafi in cui egli espone e

spiega la sua ritrosia a parlare di sé (Cv, I, II, 12-14), succede un impeto emotivo e Dante

continua, nel capitolo successivo (ivi, I III 3-5), in questi termini:

Ahi, piaciuto fosse al dispensatore dell'universo che la cagione della mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate.

Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato -, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.

Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato: nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare1.

In questo brano scritto a ridosso degli eventi nei primi anni della partenza da Firenze, l’esilio è

esperienza tragica, perdita di riferimenti affettivi, rinuncia forzata e ingiusta alla condizione di

cittadino: Dante è il fiorentino sconfitto politicamente e posto al bando dalle istituzioni comunali.

1 Si cita dall'edizione del Convivio, a cura di F. BRAMBILLA AGENO, Firenze, Casa editrice Le Lettere, 1995 [Le opere di Dante Alighieri, Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana].

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Pesano come un macigno gli eventi storici, la dinamica della lotta politica: le due condanne del

27 gennaio e del 10 marzo 1302, con le accuse di baratteria e illeciti guadagni, ma anche di

opposizione al papa e a Carlo di Valois e di turbamento della pace a Firenze. La prima sentenza si

risolve in una condanna pecuniaria, nel confino e nell’interdizione dai pubblici uffici; la seconda

sentenza – è noto - punisce Dante con la morte2.

Per comprendere le dimensioni di questo evento e il suo impatto sulla coscienza di Dante e dei

contemporanei, bisogna ricordare che nel diritto germanico, ripreso dalla legislazione comunale,

colui che è bandito dalla comunità è assimilato allo scomunicato e al dannato; è definito wargus,

lupo, perché condannato a vagare nei boschi ed è privato di ogni diritto3. Molto più che nel diritto

romano, la condizione dell’esule è assimilata a quella dell’escluso e del reietto4. La parola ha

tutto il peso della sua etimologia: essilio, ex-solum, fuori dal territorio, dal suolo natio, non solo

in termini geografici e territoriali, ma come esclusione radicale da una comunità; per Dante, chi

lo esclude è la comunità fiorentina, alla quale egli ha dedicato impegno intellettuale, morale e

politico. E più che il peso affettivo di una estraneità definitiva, è il rischio della condanna morale

e politica che pesa sullo scrittore.

In questi termini ci raccontano l’esilio le cronache, prima fra tutte quella di Giovanni Villani,

vicino di casa degli Alighieri, che anni dopo avrebbe scritto che Dante era stato ingiustamente

condannato5 e sottoposto a un confino politico, per cui – scrive Villani – «Bene si dilettò in quella

commedia di garrire e sclamare a guisa di poeta forse in parte più che non si convenia ma forse il

suo esilio glielo fece».6

Di fronte a questo momento tragico dell’esistenza pubblica e privata, la scrittura - e Villani

sembra averlo intuito – diventa, come sempre nell’esilio, in tutti i tempi, il luogo 2 Per la ricostruzione biografica cfr. V. RUSSO, Dante "exul inmeritus". Variazioni compositive sul/dal tema, in «Esperienze letterarie» 1992, 2, XVII, pp. 3-16; poi in ID., Il romanzo teologico, seconda serie, Napoli, Liguori, 2002, pp. 31-44; M. SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna, il Mulino, 2011, in particolare pp. 337-339. 3 Cfr. G. DE MARCO, L’esperienza di Dante exul immeritus quale autobiografia universale, in «Annali d’italianistica», 2002, XX, Exile Literature, pp. 21-54.4 Cfr. anche A. BATTISTINI, in Dante e le città dell’esilio, Atti del Convegno internazionale di studi, (Ravenna, 11-13 settembre 1987), a cura di G. DI PINO, Ravenna, Longo, 1989, p. 158, in cui l’autore parla della necessità di «risemantizzare l’esilio restituendolo alla sua tragicità medievale».5 «e ‘l suo esilio di Firenze fu per cagione, che quando Messer Carlo di Valois de la casa di Francia venne in Firenze l’anno MCCCI, e caccionne la parte bianca, come adietro ne’ tempi è fatta menzione, il detto Dante era de’ maggiori governatori de la nostra città e di quella parte, bene che fosse Guelfo; e però sanz’altra colpa co la detta parte bianca fue cacciato e sbandito di Firenze», G. VILLANI, Cronica, tomo II, libro X, CXXXVI, Torino, Einaudi, pp. 795-796.6 Ivi, p. 796.

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dell’elaborazione dell’esperienza; e per Dante questo non può non avvenire attraverso la messa in

gioco di molteplici implicazioni culturali e filosofiche.

Già nel Convivio, esilio e scrittura, non solo scrittura di sé, ma scrittura filosofica e scrittura

sacra, sono strettamente legati, appartengono a una stessa esperienza di vita e di elaborazione

morale e intellettuale. L’esule si identifica totalmente con lo scrittore e con il poeta: la scrittura

conferisce un’identità rinnovata al reietto e suggerisce anche ai destinatari un percorso di rilettura

degli eventi.

Ma non c’è solo questo. Per sopravvivere all’umiliazione dell’esilio e per convertirlo in

un’esperienza conoscitiva e fondante della sua scrittura, Dante lo rovescia di segno, lo sottrae a

considerazioni sentimentali e personali e ne fa un asse portante della sua esperienza di scrittore

sacro, legittimato a dire la verità, a svolgere la funzione di poeta vate.

Lo sguardo dell’esule è uno sguardo che assume una maggiore lucidità dalla lontananza e

coincide con lo sguardo dell’uomo di lettere, che coltiva, nella solitudine ed estraneità alla patria,

nella sofferenza e nell’anelito al riscatto, la possibilità di un’esperienza critica e conoscitiva più

integra, penetrante e intensa.

Già nel De vulgari eloquentia Dante avvia una riflessione su esilio e lingua che lo candida a

essere, anche in questo campo, un iniziatore, uno sperimentatore in grado di cogliere lo stretto

rapporto tra lingua e appartenenza, lingua e identità, un problema fondamentale dell’esilio, che

sarà poi esplorato con tragica intensità da altri esuli illustri a noi più vicini come Theodor

Adorno, Joseph Brodski, Primo Levi e tanti altri.

La lingua crea un legame fondamentale, la cui intensità si avverte nella privazione, nonostante la

scelta di un riscatto della ragione, preludio a un’interpretazione in chiave autopromozionale

dell’esperienza dell’esilio. Ecco cosa scrive Dante nel De vulgari eloquentia:

Nam, quicunque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium vulgare licetur, idest maternam locutionem, et per consequens credit ipsum fuisse illud quod fuit Ade. Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut quia dileximus exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus. Et quamvis ad voluptatem nostram, sive nostre sensualitatis quietem, in terris amenior locus quam Florentia non existat, revolventes et poetarum et aliorum scriptorum volumina, quibus mundus universaliter et membratim describitur, ratiocinantesque in nobis situationes varias mundi locorum et eorum habitudinem ad utrunque polum et circulum equatorem, multas esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam

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Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos.7

Dante trovava in autori a lui vicini ed essenziali nella sua formazione esempi di una

rielaborazione nobilitante dell’esilio, che si innerva nella scrittura stessa. L’identificazione tra

esule e letterato o meglio tra l’esule che riscatta un’identità integra e una legittimità di

cittadinanza attraverso la scrittura, è debitrice nei confronti di una lunga tradizione che attraversa

tutta la letteratura occidentale, da Sofocle e il ciclo edipico in cui Edipo, esule a Colono assume

una valenza quasi sacrale proprio grazie all’isolamento che ne purifica le colpe, a Virgilio,

Cicerone, Ovidio, Seneca, Boezio, citato espressamente, a questo proposito, all’inizio del

Convivio.

Se la cultura greca aveva proposto, anche attraverso Tucidide e Senofonte, un modello positivo e

eroico di esule politico e suggerito il motivo, di grande fortuna, di una valenza purificatrice insita

nell'esperienza dello straniamento8, è soprattutto agli autori latini che Dante guarda come a

modelli letterari e filosofici per l’esperienza dell’esilio.

Virgilio, innanzitutto: nell’Eneide, Enea è definito più volte un esule, exsul («feror exsul in altum

cum sociis natoque Penatibus et magnis dis», Aeneis, 3, 11); l’esilio di Enea, la sua

peregrinazione attraverso tappe strategiche che lo portano ad assumere coscienza del suo ruolo,

ha un significato sacrale; dalla distruzione di Troia, attraverso i vari momenti del viaggio, l’eroe

deve raggiungere lo scopo di creare una nuova civiltà e fondare Roma. Già nell’Eneide dunque,

7 «Perché chiunque ragiona in modo così spregevole da credere che il posto dove è nato sia il più gradevole che esiste sotto il sole, costui stima anche il proprio volgare, cioè la lingua materna, al di sopra di tutti gli altri, e di conseguenza crede che sia proprio lo stesso che appartenne ad Adamo. Ma noi, la cui patria è il mondo come per i pesci il mare, benché abbiamo bevuto nel Sarno prima di mettere i denti e amiamo Firenze a tal punto da patire ingiustamente - proprio perché l'abbiamo amata - l'esilio, noi appoggeremo la bilancia del nostro giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento. Certo ai fini di una vita piacevole e insomma dell'appagamento dei nostri sensi non c'è sulla terra luogo più amabile di Firenze; tuttavia a leggere e rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nell'assieme e nelle sue parti, e a riflettere dentro di noi alle varie posizioni delle località del mondo e al loro rapporto con l'uno e l'altro polo e col circolo equatoriale, abbiamo tratto questa convinzione, e la sosteniamo con fermezza: che esistono molte regioni e città più nobili e più gradevoli della Toscana e di Firenze, di cui sono nativo e cittadino, e che ci sono svariati popoli e genti che hanno una lingua più piacevole e più utile di quella degli italiani.» Dve I VI 2-3; si cita dall’edizione di DANTE ALIGHIERI, Opere minori, vol. III, t. I, De vulgari eloquentia, Monarchia, a cura di P.V. MENGALDO e B. NARDI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996.8 Per una ricognizione sul tema dell’esilio in letteratura rinvio alla voce da me curata per il Dizionario dei temi letterari, a cura di R. CESERANI, M. DOMENICHELLI, P. FASANO, Torino, Utet, 2007.

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fonte essenziale – è noto – per Dante, l’esilio ha un significato iniziatico, è un’esperienza

fondante e conoscitiva che fa emergere la dimensione sacrale del protagonista. Ed è noto che

quando Dante (If. II 32) sottolinea la sua estraneità da Enea e san Paolo che lo avevano preceduto

nel viaggio nell’oltretomba («Io non Enëa, io non Paulo sono»), ribadisce in realtà l’eccezionalità

della sua esperienza, che si iscrive all’interno di un percorso eletto.

Altra fonte fondamentale per il tema dell’esilio è Cicerone, per Dante essenzialmente un filosofo

più che un oratore e un politico, inserito nel Limbo tra la «filosofica famiglia» che accompagna

Aristotele (If., IV 141). Nel Convivio, Cicerone figura come l’autore che, assieme a Boezio, ha

spinto l'autore a studiare la filosofia, attraverso la lettura del De amicitia9. Per Cicerone, ispirato

dagli stoici, il saggio è colui che è inattaccabile dalle avversità e quindi anche dall’esilio, che

raggiunge la felicità e la saggezza attraverso la forza della ragione, anche se sottomesso a

restrizioni e censure politiche, e che può anzi trarre vantaggio dall'isolamento, liberare lo spirito e

dedicarsi alla riflessione filosofico-morale. Tale interpretazione dell’esilio come riscatto arrivava

a Dante da diverse letture ciceroniane, dirette o mediate, forse anche le Tusculanae disputationes,

note a Petrarca e scritte da Cicerone mentre si trovava in esilio; sicuramente Dante conosce il De

Officiis che definisce un ideale di virtù come essenza propria dell’uomo, del vir, del cittadino, che

coincide con giustizia e amore di patria.

Un verso delle Metamorfosi di Ovidio, relativo al racconto di Ippolito divenuto la divinità latina

Virbio che dice di essere stato ingiustamente cacciato in esilio dal padre per la menzogna di

Fedra che lo aveva accusato di adulterio, è indicato come fonte per il motivo dell’esilio senza

colpa. Il verso è il seguente (Metamorphoses XV 504): «damnavit, meritumque nihil pater eicit

urbe». Paratore10 però precisa che la lezione che Dante evidentemente segue, presente nei codici

perduti sui quali si era basato il filologo olandese Daniel Heinsius, è «arguit immeritumque pater

proiecit ab urbe» 11; una lezione che insiste sull’assenza di colpa dell’esule12. Ma non è solo

l’Ovidio autentico, storico, a esercitare un influsso sulla poesia medievale dell’esilio; c’è anche lo 9 Cv II XII 3: «E udendo ancora che Tulio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando dell'Amistade, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello». 10 E. PARATORE, voce Ovidio, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1970. 11 M. PICONE, L'Ovidio di Dante, in Dante e la «bella scola» della poesia. Autorità e sfida poetica, a cura di A.A. IANNUCCI, Ravenna, Longo, 1993 pp. 107-144.12 Sul tema cfr. anche M. PICONE, Ovid and the "Exul inmeritus", in «Dante for the new millennium» (2003), pp. 389-407, poi in «Dante in Oxford» (2011), pp. 24-38, con il titolo Dante, Ovid, and the poetry of exile; ID., Dante Ovidio e la poesia dell’esilio, in «Rassegna europea di letteratura italiana», XIV, 1999, 7, pp. 7-23.

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pseudo Ovidio, al quale si attribuì De vetula, un poema scritto nella prima metà del Duecento, in

duemila esametri, che descrive la conversione al cristianesimo di Ovidio ormai privo della

speranza di tornare in patria e che fu determinante per suggerire la valenza metastorica e

universale dell’esilio13. Picone evidenzia l’importanza dell’influsso esercitato dai Tristia, meno

citati dalla critica rispetto alle Metamorfosi, nei quali si può riconoscere (eccetto che per la

conclusione) lo stesso schema narrativo della Genesi, che parte da una colpa iniziale, cui segue

una punizione, cioè la cacciata dalla patria/paradiso terrestre, un viaggio e il ritorno nella patria

originaria. Picone rintraccia dei debiti testuali di Dante, che nel delineare il Cocito e il lago

ghiacciato della fine dell'Inferno, prende spunto dalla descrizione che fa Ovidio, nei Tristia, di

Temi, città dove è confinato alle foci del Danubio, fredda e gelata14, inospitale e ostile rispetto

alla sospirata Roma, in cui il poeta latino non farà più ritorno.

Un altro scrittore esule che ha influito sul tema dell’esilio nella Commedia è Seneca, per il quale

l'esilio è occasione di fortificazione e crescita spirituale: se è certo che Dante conosceva le

Naturales Quaestiones, è molto probabile (Pasquini la cita come fonte per l’Epistola XII15) che

conoscesse anche la Consolatio ad Helviam matrem scritta, è noto, per confortare la madre

affranta per la condanna del figlio al confino in Corsica nel 41 d.C. per motivi politici; qui Seneca

afferma che l'esilio riguarda il corpo, ma non lo spirito, che rimane libero di pensare; il distacco

dal mondo si tramuta quindi, secondo la filosofia stoica, in un fattore positivo per l'individuo, che

trasforma la lontananza in un’opportunità speculativa. Inoltre appartiene alla natura dell’uomo il

cambiamento di stato e di luogo; da ogni angolo della terra anche il più inospitale, scrive Seneca

nel § VIII, l’uomo può guardare il cielo e contemplare la divinità; cosa importa quindi la terra che

calpesta?: «dum animum ad cognatarum rerum conspectum tendentem in sublimi semper

habeam, quantum refert mea quid calcem?»16.

Infine, un altro esule illustre molto vicino a Dante, Boezio, invitava lo scrittore a sminuire i

disastri della fortuna confidando nella divina ragione. Il Convivio si apre con l’esempio del De

consolatione philosophiae come giustificazione per la scelta apparentemente sconveniente di

parlare di sé, ma la riflessione di Boezio sulla precarietà della fortuna, sull’essenza della vera

felicità, sulla costanza del saggio anche contro avversità come l’esilio sono elementi determinati 13 Ivi, p. 8.14 Ivi, pp. 16-19.15 E. PASQUINI, Seneca in Dante, in Seneca nella coscienza dell’Europa, a cura di I. DIONIGI, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 111-136.16 L. Annaei Senecae dialogorum liber XII. Ad Helviam matrem de Consolatione, VIII, 6.

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che si intrecciano con l’esperienza personale di Dante. Fortificato dalla tensione morale della

solitudine, l’esule è nelle condizioni migliori per raggiungere, attraverso una serie di prove e di

esperienze, la virtù.

La rielaborazione di queste fonti permette allo scrittore di costruire l’immagine di sé come exul

inmeritus, come Dante, a conferma di un rovesciamento di segno, si firma ripetutamente,

nell’inscriptio delle Epistolae III, V, VI, VII e come si autodefinisce nell’Epistola II, rivolta a

Oberto e Guido conti di Romena, dopo la morte del loro zio Alessandro:

Doleat ergo, doleat progenies maxima Tuscanorum, que tanto viro fulgebat, et doleant omnes amici eius et subditi, quorum spem mors crudeliter verberavit; inter quos ultimos me miserum dolere oportet, qui a patria pulsus et exul inmeritus infortunia mea rependens continuo cara spe memet consolabar in illo17.

Ma non c’è solo questo. Se le suddette fonti letterarie suggeriscono l’identificazione tra l’esule e

il saggio, l’ Antico Testamento suggeriva l’altra fondamentale identificazione che agisce

profondamente in Dante tra l’esule e il cristiano, la cui condizione nella vita terrena è assimilata

a quella della lontananza da Dio. Dal peccato originale l’uomo vive in una condizione di esilio,

che si risolve solo quando il cristiano, dopo una serie di prove di purificazione, è riammesso nella

grazia di Dio. Secondo Iannucci infatti il tema dell’esilio nella Commedia non trova una

soluzione sul piano storico ma su quello anagogico, attraverso Beatrice salvifica che riscatta

Dante dall’esilio sia politico che spirituale18.

Nell'Antico Testamento, nei tanti episodi legati alla storia del popolo ebraico, l’esilio si configura

come un segno del disfavore e della collera divina per i peccati commessi dagli uomini e solo il

riconoscimento, da parte dei singoli, delle proprie responsabilità e la purificazione dai peccati,

guidata da Dio, possono porre fine alla condanna. Nell'esilio è quindi implicito, e in questa

direzione insisteranno i padri della Chiesa, il significato di una prova particolarmente dura che ha

però un esito positivo: la riammissione nelle grazie del Signore. Nei testi sacri è l’intera esistenza

17 «Si dolga, dunque, si dolga la più grande stirpe dei Toscani, che brillava per tanto uomo; e si dolgano tutti gli amici suoi e i sudditi, la cui speranza la morte ha crudelmente percosso; tra i quali ultimi bisogna ch'io misero mi dolga, io che cacciato dalla patria e esule senza colpa, la mia sventura considerando di continuo me stesso in lui consolavo con cara speranza.», D. ALIGHIERI, Opere minori, vol. III, t. II, Epistolae Egloge Questio de aqua et terra, a cura di A. FRUGONI, G. BRUGNOLI, E. CECCHINI, F. MAZZONI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996.18 A. A. IANNUCCI, L'esilio di Dante: "per colpa di tempo e fortuna", in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Firenze, Olschki, 1983, I, pp. 215-232.

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terrena del cristiano a essere vista come un percorso di allontanamento da Dio che si risolve nella

riammissione nella città divina. Si veda ad esempio san Paolo Lettera ai Corinzi, 2, 6-9: «Così,

dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio

lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo pieni di fiducia e

preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore. Perciò ci sforziamo, sia

dimorando nel corpo sia esulando da esso, di essere a lui graditi». Le parole di san Paolo sono

illuminanti perché la dialettica anima/corpo è alla base del viaggio di Dante, che compie il

viaggio ultraterreno con il suo corpo, e trasfigura l’esperienza dell’esilio terreno in esperienza

spirituale che riflette il suo stesso viaggio.

La Bibbia contiene inoltre già molti topoi narrativi ricorrenti legati all'esilio, che influenzeranno

la tradizione letteraria successiva a partire da Dante: tristezza e malinconia, rimpianto e desiderio

di vendetta sono espressi nei Salmi; si vedano in particolare il Salmo 41 - «Dirò a Dio: “Mia

roccia! / Perché mi hai dimenticato? / Perché triste me ne vado, /oppresso dal nemico?» e il

Salmo 137 - «Sui fiumi di Babilonia, /là sedevamo piangendo/ al ricordo di Sion. /Ai salici di

quella terra/ appendemmo le nostre / cetre. /Là ci chiedevano parole di /cantocoloro che ci

avevano / deportato, /canzoni di gioia, i nostri / oppressori: / “Cantateci i canti di / Sion!”. Come

cantare i canti / del Signore/ in terra straniera?».

Il Libro del profeta Ezechiele, uno dei più narrativi della Bibbia, contiene l'immagine, divenuta

poi canonica, del deportato che parte per l'esilio in modo avventuroso, di notte, al buio, solo e con

pochi bagagli; nella Bibbia egli assume la funzione di un simbolo per il popolo di Israele in una

direzione di significato traslato dell’esilio che sarà ricca di risonanze. Così parla Dio a Ezechiele:

Prepara di giorno il tuo bagaglio, come il bagaglio d'un esiliato, davanti ai loro occhi; uscirai però al tramonto, davanti a loro, come partirebbe un esiliato. Fa' alla loro presenza un'apertura nel muro ed esci di lì. Mettiti alla loro presenza il bagaglio sulle spalle ed esci nell'oscurità: ti coprirai la faccia in modo da non vedere il paese, perché io ho fatto di te un simbolo per gli Israeliti19

La gioia per l'intervento liberatore di Dio che conclude il periodo di deportazione viene espressa

in più momenti, soprattutto nei Salmi e nel Libro di Isaia: «Non trattenere; fa’ tornare i miei figli

da lontano e le mie figlie dall’estremità della terra, quelli che portano il mio nome e che per la

mia gloria ho creato e plasmato e anche formato»20 (Libro di Isaia, 43).19 Ez. 12.20 Is. 43.

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Secondo Singleton21, il motivo dell’esodo e del ritorno alla salvezza divina attraverso una discesa

e una redenzione è l’asse portante dell’intera Commedia, svelato all’inizio del Purgatorio e nel

Paradiso terrestre, al momento dell’incontro con Beatrice. Il versetto iniziale del Salmo 113 In

exitu Israel de Egypto (Pg. II 46) che cantano le anime dei penitenti trasportati sul vasello

dell’angelo nocchiere dalla foce del Tevere alla spiaggia del Purgatorio, suggerisce che l’esodo è

lo schema attraverso il quale interpretare la seconda cantica, che inaugura il processo ascendente

verso Dio, una conversione e un’ascesa riuscite, diversamente da quello che accade nell’Inferno,

quando invece l’ascesa al colle risulta fallimentare.

Questo è dunque il materiale filosofico, letterario e storico con cui si confronta Dante quando

scrive la Commedia: un’esperienza di vita tragica, di esclusione e sconfitta, che deve essere

riscattata da una spinta utopica sostenuta da un’accezione nobilitante dell’esilio; la necessità di

fare i conti con la sconfitta politica e con il degrado della società contemporanea; una tradizione

di scrittura letteraria e filosofica che rovescia di segno l’esilio rendendolo un’esperienza

formativa e morale; la dimensione cristiana che suggerisce molteplici significati metaforici tesi a

configurare l’esilio come un percorso sacro, universale e non personale, di redenzione verso Dio.

Dante è così l’esule politicamente sconfitto nelle vicende storiche contemporanee sotto il segno

della tragedia, della corruzione e della colpa, che si purifica nella sua rinnovata identità di

scrittore sacro, ma è anche l’esule cristiano per il quale la vicenda individuale assume un valore

universale, di riscatto della salvezza eterna.

La Commedia dispiega dunque tutta questa gamma di tematiche dell’esilio, da quelle consolidate

appartenenti al significato proprio del termine riferito all’esperienza storica, a quelle rielaborate

grazie alle stratificazioni di senso della tradizione letteraria e cristiana: amore e nostalgia della

patria e timore per le sue sorti (è il tema più diffuso, si veda ad esempio If X e XIV 1, Pg VIII 1-

3, Pd XVII), disprezzo per la corruzione presente, peregrinazione dei penitenti nel Purgatorio,

percorso di purificazione, prova spirituale di fronte a Dio.

La Commedia è quindi il luogo di una vera e propria polifonia dell’esilio. C’è innanzitutto,

nell’Inferno, una suspence che lo attraversa tutto, dal canto X dell’incontro con Farinata degli

Uberti, nel quale per la prima volta in modo esplicito si allude all’esilio, all’incontro struggente

con Brunetto Latini nel canto XV, all’invettiva di Vanni Fucci che impreca contro Dante nella

bolgia dei ladri nel canto XXIV; qui il significato di esilio oscilla tra quello proprio di esclusione 21 Cfr. CH. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, Bologna, il Mulino, 1978, in particolare il cap. «In exitu Israel de Aegypto», pp. 495-520.

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politica, ma anche degrado umano e oscura minaccia (e d’altronde i dannati scontano per prima

cosa la condanna a un «essilio perpetuo» da Dio), e, invece, recupero del senso morale, etico

della politica, invito alla riscossa, per cui il sacrificio del singolo deve servire al bene pubblico (è

il tema soprattutto del canto di Brunetto Latini). Fin dall’inizio d’altronde il tema assume il

duplice significato di un bando politico e di un bando dalla vita vera; e infatti così Dante si

rivolge a Brunetto, dannato ma magnanimo, in grado quindi di mantenere una dignità morale, pur

nella certezza della condanna divina: «Se fosse tutto pieno il mio dimando, / rispuos'io lui, voi

non sareste ancora / de l'umana natura posto in bando» (If, XV 79-81)

C’è un continuo controcanto tra lo sguardo dei dannati che attribuiscono al termine il suo

significato etimologico (lo stesso Farinata, Vanni Fucci) e insistono sull’esclusione di Dante dalla

comunità e, dall’altra parte, il significato traslato, di purificazione che l’esperienza è destinata ad

assumere nel percorso dantesco.

Il canto di Farinata è il canto della crudezza dell’esilio politico con quel collegamento di Farinata

alla storia del suo tempo fatto immediatamente attraverso il ricordo dell’esilio degli Alighieri:

«Fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte, / sì che per due fïate li dispersi» (If

X 46-48); a lui Dante risponde insistendo sulla tragedia dell’esclusione nella dinamica ancora

cocente quando scrive delle lotte intestine: «S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte, / rispuos'io

lui, l'una e l'altra fïata;/ ma i vostri non appreser ben quell'arte» (If X 49-51).

Il canto di Brunetto è invece fondamentale per la trasfigurazione del tema dell’esilio e per

l’intreccio di origine biblica tra immagini popolari e rinvii metaforici e per l’uso di immagini che

indirettamente iscrivono l’esperienza reale in un percorso traslato di purificazione:

Ma quello ingrato popolo malignoche discese di Fiesole ab antico,e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;ed è ragion, ché tra li lazzi sorbisi disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;gent' è avara, invidiosa e superba:dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,che l'una parte e l'altra avranno famedi te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane stramedi lor medesme, e non tocchin la pianta,

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s'alcuna surge ancora in lor letame, cui riviva la sementa santa

di que' Roman che vi rimaser quandofu fatto il nido di malizia tanta.22

D’altro canto una luce oscura si riflette su tutto l’Inferno in cui (canto XXIII) è usato il sintagma

«etterno essilio» riferito alla condizione dei dannati, un sintagma che ritorna nel Purgatorio,

sempre in riferimento ai dannati, quando Virgilio, nel XXI, incontra Stazio e di fronte al poeta

latino si autodefinisce anche lui, proprio rivolgendosi a un’anima che sta per raggiungere la

beatitudine, condannato invece all’«etterno essilio»: «Nel beato concilio / ti ponga in pace la

verace corte / che me rilega ne l'etterno essilio» (Pg XXII 16-18).

La polifonia dell’esilio si amplifica però e si arricchisce nel tracciato autobiografico-emotivo del

Purgatorio, che è il regno per definizione degli esiliati, con quell’incipit indimenticabile del

canto VIII (1-3) a indicare l’ora della sera, della meditazione e della nostalgia: «Era già l'ora che

volge il disio / ai navicanti e 'ntenerisce il core / lo dì c' han detto ai dolci amici addio».

L’intensità emotiva di questi versi si spiega con la loro componente autobiografica, rilevabile, nel

Purgatorio, anche nell’incontro con Oderisi da Gubbio (Pg XI 139-41) e nella sua oscura

profezia sul fatto che Dante sarà costretto a chiedere l’elemosina come aveva fatto Provenzan

Salvati, guadagnandosi in questo modo il Purgatorio. Assieme al breve cenno all’esilio compreso

nei versi che descrivono l’incontro con Corrado Malaspina (Pg VIII 133) e che contengono un

accenno all’ospitalità di cui Dante godrà presso i Malaspina, questi sono gli unici luoghi del

Purgatorio in cui si fa riferimento all’esilio reale. Il Purgatorio è però la cantica per eccellenza

degli esiliati (in senso traslato) perché i penitenti, i peregrini sono lontani dalla beatitudine,

ancora legati alle cose terrene poiché hanno peccato, ma anche pronti a riscattarsi e a essere

riabilitati, verso un percorso di espiazione. E proprio perché presente come sottofondo in chiave

traslata, come condizione del penitente che compie il suo viaggio verso Dio, una condizione che è

quella dello stesso Dante emblema dell’umanità, il tema risulta compresso come occorrenze

esplicite, nei riferimenti alla vita reale.

Infine, questa polifonia dell’esilio della Commedia si apre in un canto dispiegato nel Paradiso,

nell’incontro con l’antenato Cacciaguida, colui al quale spetta il compito di ripercorrere la

vicenda di Dante e di darle un senso nello scenario del Paradiso e all’interno dell’ordine divino.

Per Giuseppe Mazzotta, l’episodio di Cacciaguida ha una funzione strategica nella Commedia, 22 If XV 61-78.

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che va molto al di là del compito di rivelazione delle profezie che Dante ha raccolto nel corso del

suo viaggio: l’esilio non è qui solo esperienza contingente, ma apre una comprensione diversa del

tempo che altera sia i contorni della memoria del passato che quelli del presente; rovesciando

l’ordine convenzionale del tempo, diventa la prospettiva adottata dal poeta per la sua ricerca del

senso più profondo della storia e della tradizione23.

Ecco i famosi versi del canto XVII che racchiudono la descrizione dell’esilio, al futuro nella

finzione poetica, ma Dante - è noto - ha già sperimentato sulla sua pelle cosa significhi esilio:

Tu lascerai ogne cosa dilettapiù caramente; e questo è quello straleche l'arco de lo essilio pria saetta

Tu proverai sì come sa di salelo pane altrui, e come è duro callelo scendere e 'l salir per l'altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,sarà la compagnia malvagia e scempiacon la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empiasi farà contr' a te; ma, poco appresso,ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processofarà la prova; sì ch'a te fia belloaverti fatta parte per te stesso.24

È questa l’unica volta, nella Commedia, in cui «essilio» è esplicitamente pronunciato con

riferimento alla vicenda di Dante stesso. Nelle Epistolae invece, come già detto, Dante si

definisce un «exul inmeritus», cambiando quindi di segno un termine ricco di risonanze negative.

Nel Paradiso la parola ricorre invece proprio per indicare la condizione di esclusione dalla

beatitudine: in Pd X 129, ad esempio, indica l’anima santa di Boezio presentato da san Tommaso

che «da martirio / e da essilio venne a questa pace»; a pronunciare la parola «essilio» (Pd XXVI

116) è poi Adamo che la riferisce al peccato originale: «non il gustare del legno / fu per sé la

cagion di tanto essilio / ma solamente il trapassar del segno»; infine nel canto XXIII il concilio

dei beati e il trionfo di Maria sono riservati a coloro che hanno guadagnato la beatitudine mentre

vivevano nell’«essilio di Babillòn», cioè nella vita terrena: «Quivi si vive e gode del tesoro / che

23 G. MAZZOTTA, Musica e storia nel Paradiso 15-17, in Dante, oggi / 2, «Critica del testo», a cura di R. ANTONELLI, A. LANDOLFI, A. PUNZI, Roma, Viella, Università Sapienza, 2011, pp. 333-348. 24 Pd XVII 55-69.

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s'acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò l'oro.» (Pd XXIII 133-135). È

evidente che anche l’essilio di Dante spiegato da Cacciaguida non si riferisce solo alla vicenda

storica, ma, come confermano anche le altre occorrenze lessicali del Paradiso, alla vicenda

spirituale di Dante simbolo dell’intera umanità.

L’esilio dantesco è così assimilato, attraverso questo percorso di riappropriazione di fonti

bibliche e letterarie, a un’esperienza di acquisizione di sapienza e di purificazione e diventa una

prova esistenziale funzionale al conseguimento della salvezza eterna; lasciandosi alle spalle

l’«etterno essilio» dei dannati, la condizione di peccato dell’umanità che assorbe a questo punto

anche la patria Firenze, corrotta e divisa, Dante nobilita la sua esperienza personale, la sua storia

di reietto che si è salvato proprio grazie al bando, legittimando e sacralizzando così la sua

condizione di «exul inmeritus».

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Esuli e letterati. Per una storia culturale dell'esilio risorgimentale, in L'officina letteraria e

culturale dell'età mazziniana (1815-1870). Giornate di studio, a cura di Q. Marini, G. Sertoli, S.

Verdino, L. Cavaglieri, Novi Ligure, Città del Silenzio, 2013, pp. 89-100

L’esilio di diverse generazioni di patrioti italiani nel periodo preunitario si configura, grazie alla

propaganda mazziniana prima e a quella postunitaria poi, come un elemento costitutivo del mito

della nazione e come un attributo quasi necessario per connotare il vero patriota che sacrifica la

sua esistenza al comune progetto nazionale; esuli furono infatti i massimi esponenti della lotta

risorgimentale, da Foscolo a Santorre di Santarosa, da Berchet a Mazzini e via via fino a

Cattaneo, Guerrazzi, Tommaseo, Mamiani, Garibaldi, Gioberti. Nelle lettere, nelle memorie,

negli interventi pubblici l’esilio è presentato come un momento tragico dal punto di vista

personale, per il costo umano dell’esperienza di sradicamento e di perdita di riferimenti e affetti;

e tuttavia sono gli stessi protagonisti che, nei loro scritti e nelle testimonianze, lo trasformano in

un’esperienza collettiva ed eroica, aggregante e nobilitante, dotata di una forte valenza identitaria.

Nella letteratura risorgimentale e postunitaria (penso ai versi di Berchet, ai romanzi di Ruffini, ai

versi e romanzi di Tommaseo) l’esule ha un’enorme fortuna e diventa una figura paradigmatica,

ricca di richiami simbolici, una sorta di proto-italiano, modello ideale di cittadino integerrimo,

intriso di amor patrio, disposto al sacrificio. A partire dagli anni quaranta, quando si sviluppa il

genere del martirologio per celebrare i patrioti sconfitti, l’esule ne diventa figura centrale,

emblema dell’italiano eroico che sacrifica la sua esistenza al bene pubblico. Dante è, per questi

italiani fuori d’Italia, un padre riconosciuto, un mito diffuso e celebrato con enfasi, il poeta della

nazione e il cittadino virtuoso, ma costretto a vivere lontano dalla patria, con il quale gli esuli si

identificano doppiamente, proiettando sul presente risorgimentale la sua vicenda che assume un

valore esemplare.

A fianco di questa chiave di lettura basata sulla costruzione di una rete simbolica di significati,

che, in anni in cui bisognava rielaborare la sconfitta oppure celebrare la nazione appena

costituitasi, dava un senso alla vicenda spesso tragica di tanti patrioti, più recentemente l’esilio è

stato oggetto di studi che ne hanno approfondito la storia politica interna, e ne hanno evidenziato

il valore di esperienza militante attiva, partecipe del pensiero liberale europeo, in grado di

condizionare gli sviluppi della politica dei patrioti non solo italiani. Su questa linea si colloca il

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recente volume Risorgimento in esilio, di Maurizio Isabella25 che, pur trattando del periodo 1815-

1830 e solo di alcuni luoghi di destinazione degli esuli, affronta problematiche generali. Nel libro

di Isabella, l’esilio risorgimentaIe risulta un’esperienza centrale nell’elaborazione dei progetti

politici preunitari; la permanenza all’estero, seppure forzata, ha messo gli italiani in condizione di

frequentare stranieri di tutte le nazionalità e di elaborare strategie politiche a livello europeo.

Inoltre lo studio delle dinamiche politiche dell’esilio ne evidenzia anche l’articolazione interna,

determinata dal fatto che, nel tempo lungo del Risorgimento, si alternano più generazioni di esuli

che hanno attivato diverse strategie politiche e modalità di rapporto con l’esterno, tra di loro e

con gli stranieri. La generazione di coloro che erano nati nell’Ottocento, con i mazziniani in

prima fila, e la generazione precedente, coinvolta nel triennio giacobino e nel periodo

napoleonico, hanno un approccio molto diverso nei confronti della politica europea. I patrioti più

legati alla cultura dei lumi e all’epoca napoleonica privilegiano la lotta per l’indipendenza,

rispetto a progetti unitari, e propendono per una considerazione transnazionale, cosmopolita del

nazionalismo; gli esuli delle generazioni successive, del pieno Ottocento, oscillano tra un

atteggiamento di chiusura verso le identità separate ma equivalenti degli altri paesi, e un

atteggiamento invece di apertura, caratterizzato soprattutto dal pensiero mazziniano. La

generazione del pieno Ottocento guarda inoltre con una certa diffidenza anche alla generazione

degli esuli dei moti del 1820-21, di estrazione prevalentemente aristocratica, diversi dalla

generazione precedente e anche da quella successiva. Il piemontese Giacomo Durando, nato nel

1807, pubblica a Parigi nel 1846 il volume Della nazionalità italiana, in cui scrive che gli esuli

degli anni venti avevano formato per la prima volta «una patria errante», ma che la loro era una

generazione fallita. E uno dei motivi del fallimento per Durando era dovuto al fatto di guardare

sempre dietro di sé, «all’antico», un ostacolo alla crescita dell’Italia come nazione, alla creazione

di una «personalità nazionale»26, un termine alternativo a quello, di più recente fortuna, di

identità. Nel giudizio di Durando, attribuito proprio ai patrioti che nel «Conciliatore» si

proponevano, sul piano letterario e politico, di svecchiare l’Italia, si evidenzia l’intensità dello

25 MAURIZIO ISABELLA, Risorgimento in Exile. Italian Émigrés and the Liberale International in the Post-Napoleonic-Era, 2009, trad. it. Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Bari, Laterza, 201126 GIACOMO DURANDO, Della nazionalità italiana, Losanna, S. Bonamici e compagni, 1846: «Comunque sia noi siamo diseredati come società politica. Noi principali fondatori di tanti progressi sociali non abbiamo conseguito quello che vantano le più barbare genti, una personalità nazionale».

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stacco generazionale responsabile di modalità profondamente diverse di affrontare e giudicare gli

eventi storici.

La proposta di valorizzare l’esilio come esperienza militante attiva di portata europea e come

visuale dalla quale cogliere le diverse fasi del processo risorgimentale fornisce un quadro di

riferimento utile a inquadrare anche la cultura dell’esilio risorgimentale, l’insieme cioè di testi

letterari, edizioni di classici, pubblicazioni, giornali, articoli, lezioni universitarie prodotti dagli

italiani fuori d’Italia; dal momento che è evidente, di fronte a un quadro come quello, seppur

velocemente, delineato, che la cultura degli esuli e i risultati letterari della loro esperienza non

possono né essere valutati come esito esclusivamente personale, interno alla carriera dei singoli e

riconducibile solo a un percorso individuale, né possono essere classificati come momento di

ripiego o di compensazione rispetto all’impossibilità di svolgere fuori dagli stati italiani

un’azione politica.

Esiste invece una strategia culturale dell’esilio che ha ripercussioni politiche, sulla quale è

opportuno svolgere una ricognizione che tenga conto del dato generazionale, dell’incidenza della

provenienza geografica, dei legami con i gruppi di intellettuali europei, oltre che dell’esperienza

personale. La cultura e la tradizione sono state indubbiamente un fattore identitario unitario

fondamentale e questo è un dato sul quale esiste un consenso diffuso nonostante le diverse

posizioni che hanno anche recentemente animato il dibattito in occasione delle celebrazioni per i

150 anni dell’Unità, tra letture che insistono maggiormente sulla centralità della prospettiva

culturale e letture che propendono invece per una maggiore fedeltà a una storia soprattutto

politica del Risorgimento27; e tuttavia, se è un dato confermato che la letteratura e la lingua

letterarie hanno avuto una funzione aggregante e fornito un piano di confronto comune, sulle

modalità con cui questo processo si è svolto ci sono ancora molte indagini da compiere e

certamente lo studio della cultura dell’esilio apre in questa direzione prospettive di ricerca

importanti, per la diffusione del fenomeno e per la qualità dei personaggi coinvolti.

L’esilio ha in effetti la funzione di attivare, nell’alterazione di tutti i consueti riferimenti, dei

processi di accelerazione delle dinamiche culturali, della pratiche di organizzazione della cultura,

a livello di editoria e giornalismo e di scelte culturali; porta inoltre alla ribalta della scena

culturale ottocentesca non solo italiana una tipologia interregionale di letterato patriota rivolto

senza censure a un progetto comune, alla costruzione di una comunità coesa aggregata attorno a

27 Rinvio, per una visione d’assieme, da aggiornare relativamente alle numerosissime pubblicazioni del 2011, al libro di LUCY RIALL, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 2007.

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un progetto unitario (e a questo scopo sono rivolte tante pubblicazioni come biografie necrologi,

pubblicazioni che insistono sul ritratto dell’italiano ideale), che si riscatta inoltre dagli stereotipi

negativi sull’Italia e sull’italiano diffusi in Europa.

La scelta di dedicarsi a edizioni di classici, traduzioni, lavori eruditi o pedagogici risponde in

certi casi (si veda ad esempio il caso di Foscolo) alla necessità di trovare una collocazione

professionale nei paesi stranieri. Ma è indubbio che il letterato esule guardi alla tradizione come a

una risorsa da spendere in chiave politica, per l’affermazione di un’idea di Italia, la cui

riconoscibilità più evidente, soprattutto all’estero, va ritrovata proprio nella tradizione culturale.

Ma anche qui bisogna distinguere tra momenti diversi.

Secondo Isabella, che riprende una tradizione consolidata, dopo il triennio la scelta di dedicarsi a

studi culturali compensò la perdita di prospettive indipendentiste, dovuta alla politica

napoleonica. Ed è indubbio che in questa opzione ci sia stato un momento compensativo, che

agisce sicuramente molto a livello individuale (le lettere come alternativa all’impegno politico

concreto e come risposta all’esautorazione da incarichi pubblici), ma penso anche che il recupero

strumentale della tradizione come espressione della nazione abbia, in un’ottica di ampio respiro e

nel tempo lungo del Risorgimento, nel succedersi di generazioni diverse, un’intenzionalità che

corrisponde a un progetto politico e che l’insieme dei progetti editoriali, collane, testate

giornalistiche culturali mostra come ci sia un intento comune di costruzione identitaria attraverso

le lettere. Nell’esilio è enfatizzata la dimensione culturale perché è proprio quello culturale il

piano di confronto più consueto con i paesi europei, basti pensare alla non mai sopita questione

del primato; eppure le strategie culturali non sono dissociabili da un’intenzionalità politica. Nel

primo Settecento dalla polemica franco-italiana tra il marchese Orsi e Dominique Bouhours era

nato un moto di riscossa antifrancese che aveva unito i letterati italiani della repubblica delle

lettere; Muratori aveva posto la questione del primato italiano anche in termini politico-

amministrativi proponendo una sorta di federazione di stati italiani, sotto la guida del papato. Il

legame lettere-politica in chiave unitaria non è quindi nuovo; nuovo è ovviamente lo spirito

indipendentista, il movimento sociale legato al problema unitario, le questioni relative ai

problemi di comunicazione, di apertura a un pubblico più ampio rivolti alle lettere, la costruzione

di un’identità nazionale partendo da presupposti non esclusivamente letterari. Ma sono questioni

note e complesse sulle quali non posso soffermarmi. All’interno di queste problematiche però

l’esilio ha svolto sicuramente una funzione. Innanzitutto ha reso esplicito il significato politico

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dei testi letterari; si pensi ad esempio alla carriera di Berchet che fuori d’Italia può pubblicare i

Profughi di Parga composti in precedenza in Italia28, e che scrive e pubblica le Fantasie e le

Romanze tra Francia e Inghilterra29. Inoltre è indubbio che la rete di relazioni che si stabilisce fra

gli esuli tra loro e con altri esuli e le stesse circostanze relative al tipo di collocazione culturale e

sociale all’estero rinnovino il significato dello studio della tradizione; basta leggere anche solo le

prefazioni alle pubblicazioni che illustrano la condizione speciale dei curatori e che spesso

propongono una lettura attualizzante dei testi letterari (penso ad esempio alla Prefazione di

Gabriele Rossetti all’edizione della Commedia dantesca, tesa a sottolineare una lettura antipapale

del testo in chiave attualizzante30).

Esistono poi delle variabili che bisogna considerare. Da un lato certamente il contatto con l’estero

favorisce la sprovincializzazione della cultura italiana, attraverso il confronto con le letterature e

le prospettive critiche europee; la stessa qualità degli incontri degli esuli che attraverso i legami

italiani entrano in contatto con gli intellettuali più significativi dell’epoca mostra la rilevanza

dell’esperienza del radicamento all’estero per la cultura italiana. Dall’altro il contatto con

l’esterno, da sempre, sollecita invece la rivendicazione di una superiorità italiana31, che comporta

una decisa chiusura verso le influenze esterne e un atteggiamento difensivo della tradizione

italiana, che diventa un elemento costitutivo fondamentale dell’identità nazionale italiana. Queste

oscillazioni si ritrovano nel corso di tutto il periodo risorgimentale: dalle chiusure alfieriane

misogalliche si passa alla posizione dei giornalisti del «Conciliatore» aperti alle letterature

nordiche e al dialogo con la critica europea (basti pensare al lavoro di traduttore di Berchet anche

in esilio, alle riflessioni sul Faust di Scalvini32), alla posizione complessa di Mazzini, alle

chiusure di figure come Tommaseo, Gioberti che ritornano su posizioni di difesa del primato, di

contrapposizione della tradizione italiana alle suggestioni straniere.

A fianco di questo ambivalente ritorno alla tradizione, considerata necessaria per la costruzione

della nazione, ma sentita nello stesso tempo come eccessivamente vincolante di fronte all’Europa

28 Scritto negli anni 1819-1820, il poema poté essere pubblicato solo a Parigi nel 1823, grazie all’intercessione di Charles Fauriel: GIOVANNI BERCHET, I profughi di Parga, Romanza, Parigi, Nella Stamperia di Firmin Didot, 1823.29 Id., Le Fantasie, Parigi, Delaforet, 1829; G. Berchet, Poesie, Londra, 1824 e Londra, Taylor, 1826.30 La Divina Commedia di Dante Alighieri con comento analitico di Gabriele Rossetti , Londra, John, Murray, 1826. L’incipit della Prefazione è il seguente: «La Divina Commedia non è stata finor ben capita»31 Cfr. MAURIZIO ISABELLA, cit., p. 298 e AURELIO MACCHIORO, La raccolta Custodi. «Scrittori italiani di economia», in Pietro Custodi tra rivoluzione e restaurazione, a cura di Daniele Rota, 2 voll., Lecco, 1989, vol. II, pp. 139-164.32 WOLFGANG GOETHE, Fausto, Traduzione di Giovita Scalvini, Milano, Giovanni Silvestri, 1835.

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romantica, un altro fenomeno rilevante complessivo per l’esilio è lo sviluppo notevole del

pensiero critico. Foscolo ad esempio approfondisce il lavoro di critico soprattutto in esilio e

questo aspetto riguarda la sua storia personale e la sua necessità di trovare una collocazione

professionale, ma la scelta di dedicarsi a un lavoro critico è dato comune ad altri esuli per i quali

la lontananza dalla patria e dalla politica attiva è stimolo per svolgere una riflessione sulla

tradizione e sul presente. Salfi, Scalvini, Ugoni, Mazzini, Gioberti, Tommaseo diventano tutti in

esilio, se già non lo erano, critici e storici della letteratura; l’indagine sulla propria storia ha lo

scopo militante di definire la cultura della nazione in chiave unitaria, cercando le radici della

nazione, interrogandosi insistentemente sul rapporto tra letteratura e politica nel passato e nel

presente.

Ho individuato tre generazioni di esuli, che non sono rigidamente divise e si possono anche

intersecare, ma che costituiscono tre momenti dell’esilio attorno a cui riflettere. Premetto che mi

sono occupata soprattutto dell’esilio italiano in Francia e che quindi la mia riflessione parte

soprattutto dalla realtà francese, ma penso che alcuni aspetti possano essere generalizzati almeno

all’Inghilterra dove spesso si trovano ad operare gli stessi letterati che si spostano per motivi

politici o perché spinti da maggiori opportunità professionali. D’altronde è indubbio che Parigi

sia il centro più importante dell’esilio italiano almeno fino a tutti gli anni trenta; a fianco di

Parigi, probabilmente pari per importanza per i progetti culturali e editoriali, c’è Londra che negli

anni quaranta per la presenza di Mazzini è un centro fondamentale di elaborazione politica e

culturale; altri luoghi rilevanti sono il castello di Gaesbeck in Belgio, residenza dei coniugi

Arconati e meta di molti letterati italiani e stranieri, e la Svizzera, strategica per la vicinanza

all’Italia e sede della tipografia di Capolago che pubblicò e diffuse in Italia molti libri di

fuoriusciti italiani.

La prima generazione è quella che definirei degli esuli editori, promotori di un classicismo

dinamico, che comprende i letterati prevalentemente filonapoleonici che vivono in Francia nei

primi decenni dell’Ottocento, anche oltre il 1815; si fermano a vivere soprattutto a Parigi, e si

dedicano ad opere di diffusione della cultura italiana, collaborando con alcuni editori come

Baudry e Lefebvre che sono attivi nella pubblicazione di opere italiane. E’ una generazione sulla

quale mi sono soffermata in altri studi33, i cui risultati possono ora essere utili all’interno di una 33 MARIASILVIA TATTI, Bohème letteraria italiana a Parigi nell'Ottocento, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, Atti del convegno di Roma 7-9 novembre 1996, a cura di Mariasilvia Tatti, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 139-160 e Ead., Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli taliani in Francia nel 1799 , Parigi, Champion, 1999.

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prospettiva generazionale. Gli esponenti più importanti sono Francesco Salfi, Antonio Buttura,

Nicolò Biagioli, Carlo Botta. Sono personaggi molto diversi, accomunati da un gusto classicista,

in genere da un’avversione verso il romanticismo considerato una deriva rispetto alla tradizione

italiana; e sono accomunati anche dal fatto che svolgono un’attività continuativa sui giornali e

nell’editoria di diffusione della lingua e della letteratura italiane in Francia. Promuovono la

conoscenza di Dante, di cui esiste un’edizione commentata da Biagioli e una da Buttura34. La

straordinaria diffusione di Dante fuori d’Italia deve molto anche all’opera degli esuli che curano

numerose edizioni: oltre alle edizioni già citate si ricordano i lavori danteschi di Ugo Foscolo in

Inghilterra e l’edizione commentata da Gabriele Rossetti, sempre a Londra. Ci sono, tra l’altro,

degli intrecci curiosi tra le vicende degli italiani all’estero. Nicolò Biagioli35 pubblica la prima

edizione del suo commento alla Commedia di Dante a Parigi negli anni 1818-19, un’edizione che

sarà poi subito ripresa a Milano da Silvestri negli anni 1820-21. Nella prefazione Biagioli scrive

di basarsi su un manoscritto lasciato a Parigi da Alfieri, l’Estratto delle bellezze del Poeta, redatto

fino al XIX del Paradiso e conservato alla Bibliothèque de l’Institut di Parigi, dove si trova parte

della biblioteca alfieriana lasciata a Parigi.

Buttura pubblica presso l’editore Baudry la «Biblioteca poetica italiana» in 30 volumi e la

«Biblioteca di prose italiane» in 10 volumi; la stessa biblioteca è ripresa negli anni quaranta da un

esule politico del 1831, Antonio Ronna, che introduce un canone più moderno, comprensivo di

autori contemporanei come Pellico, Manzoni, Niccolini e che sistematicamente scrive delle

prefazioni dove riconduce il lavoro degli esuli editori a un progetto patriottico.36

La questione del primato della tradizione e la costruzione di una identità nazionale unitaria

attorno alla lingua e alla cultura italiana qui hanno un ruolo innegabile che unisce letterati

provenienti da diverse regioni come il piemontese Carlo Botta, il lombardo Antonio Buttura, il

calabrese Francesco Saverio Salfi.

Non si può parlare per queste iniziative e molte altre (ad esempio l’attività giornalistica di Salfi

sulla «Revue encyclopédique»), solo di un ripiego rispetto all’inattività politica, ma di un 34 Divina Commedia di Dante Alighieri con commento di G. Biagioli, Parigi, Dondey-Dupré, 1818-1819, 3 vv.; La Divina commedia pubblicata da Buttura, Parigi, Lefevre, 1820; l’edizione ebbe poi altre ristampe nel 1829 presso Aimé André, e nel 1838 presso Baudry, sempre a Parigi35 FILIPPO TIMO, Itinerari alfieriani nella critica dantesca del primo Ottocento: il caso di Niccolò Giosafatte Biagioli e del suo Commento alla Divina Commedia (Parigi 1818-1819), in «Atti del congresso nazionale del’ADI del 2009», in corso di pubblicazione.36 Si veda ad esempio (ma le citazioni potrebbero essere numerose) la prefazione al Teatro scelto italiano. Commedie, drammi, tragedie, da Antonio Ronna, Parigi, Baudry, 1837, dove si deplora la divisione politica dell’Italia.

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progetto di diffusione in Francia di testi della tradizione e della lingua italiane come processo

identitario; certo la questione dell’affermazione della nazione unitaria sulla base della tradizione

rimane circoscritta all’interno del mondo delle lettere e appaiono solo indiretti i legami con le

dinamiche politiche che caratterizzano invece il periodo successivo, ma tale strategia culturale di

potenziamento dell’immagine dell’Italia innesta comunque un processo di aggregazione e di

sensibilizzazione sul problema unitario e indipendentista. Inoltre la figura del letterato assume

una maggiore legittimità nel paese ospitante attraverso questo lavoro culturale, che gli fornisce

una certa autonomia; nello stesso tempo l’esule attivo culturalmente continua a confrontarsi

attivamente con il problema del ruolo pubblico del letterato. Infine, la difesa della tradizione, in

questa veste militante e dinamica, ha anche un altro scopo, che è quello di avversare le immagini

romantiche dei viaggiatori stranieri che offrivano un’immagine pittoresca, romanzesca e

decadente dell’Italia, come aveva fatto Lady Morgan ad esempio suscitando le reazioni di tanti o

come in Francia aveva osato Lamartine definendo l’Italia la terre des morts che per questo fu

sfidato a duello da uno dei tanti poeti soldati del Risorgimento, Gabriele Pepe. La ripresa di un

classicismo eroico e identitario, dei grandi autori del passato tra cui in primo luogo Dante, è

anche un modo per confutare gli stereotipi e per riprendere in chiave polemica la lezione dei

lumi, fatta riemergere anche attraverso la difesa del gusto classicheggiante.

Su questa prima generazione di esuli si innesta la generazione degli esuli del 1815-1821, che

definirei della letteratura militante aperta all’Europa: la questione del primato diventa secondaria

di fronte al dialogo con le culture europee instaurato dagli esponenti del «Conciliatore» già in

Italia. La rete dei milanesi-piemontesi soprattutto, di coloro che gravitavano attorno alla rivista e

quindi al conte Confalonieri e ad Arrivabene comprende i fratelli Camillo e Filippo Ugoni,

Giovita Scalvini, Giovanni Berchet, Giuseppe Pecchio; quasi tutti continuano a frequentarsi in

esilio, gravitano attorno al castello di Gaasbeek degli Arconati in Belgio che diventa una sede

fondamentale per la cultura italiana dell’esilio. Con esiti molto diversi, questi nomi rappresentano

una generazione di giovani intellettuali che viene dispersa dalla repressione: Pietro Borsieri dopo

aver passato tredici anni allo Spielberg assieme a Pellico, viene deportato in America e torna in

Italia solo nel 1838; Giuseppe Pecchio muore precocemente nel 1835 dopo aver passato anni

intensi in Inghilterra, dedito all’insegnamento e agli studi economici e di costume; Giovanni

Arrivabene trascorre molti anni in Belgio, impegnato in attività filantropiche e pedagogiche;

Giovanni Berchet torna in Italia solo nel 1845 (vivendo tra Nizza, Genova e Firenze), e a Milano

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solo nel 1848; Camillo Ugoni vive soprattutto in Francia e torna a Brescia solo nel 1838. Gli

autori citati sono tra le figure più significative di quest’ondata di patrioti grazie ai quali l’esilio,

nonostante la dispersione, comincia a diventare un laboratorio determinante di pensiero critico

che elabora, lontano dalla censura, le problematiche emergenti di questa fase della cultura

italiana: il problema della comunicazione innanzitutto di fronte a una diversa composizione

sociale del pubblico di possibili lettori; la riflessione sulla storia italiana e sulla tradizione

stimolata in esilio anche dalla frequentazione, durante il passaggio in Svizzera, di Simonde de

Sismondi, l’autore dell’ Histoire des Républiques italiennes, testo che aveva fatto tanto discutere

al momento della sua pubblicazione; il confronto dialettico, amplificato e modificato dal quadro

europeo, tra tradizione e modernità. La vocazione europea di questi esuli è innegabile e trapela

anche dalle scelte di lavoro culturale, in cui trovano spazio, a fianco di poesie e scritti vari, anche

traduzioni, saggi critici sulle letterature straniere; Scalvini ad esempio scrive su Goethe37 e

traduce il Faust; Camillo Ugoni collabora con vari giornali e contribuisce alla definizione di un

genere fondamentale per gli esuli delle generazioni successive, la biografia, l’elogio che si

trasforma poi in martirologio. Ugoni svolge infatti all’estero delle ricerche, per delle voci

biografiche, sulla vita degli italiani (come Alfieri, Casti, Lagrange) che avevano vissuto in

Francia; pubblica inoltre la biografia di Pecchio, un anno dopo la sua morte38.

La figura più emblematica di questa generazione, anche per la risonanza che ebbero le sue opere,

è quella di Giovanni Berchet, vissuto pochi mesi a Parigi e poi soprattutto a Londra e in

Germania. Figura chiave per l’attività letteraria di Berchet esule è quella di Charles Fauriel, che

svolse un ruolo fondamentale nei rapporti tra Italia e Francia nei primi decenni dell’Ottocento,

non solo come confidente e guida di Manzoni, ma anche come punto di riferimento per tutti gli

italiani che transitavano per Parigi. Fu lui che aiutò Berchet a pubblicare a Parigi sia i Profughi di

Parga39 che le Fantasie40.

L’appello Agli amici miei in Italia che funge da prefazione all’edizione delle Fantasie edite a

Parigi nel 1829 è un testo noto, che va però riletto tenendo conto del contesto, e in particolare

della cultura dell’esilio. E’ firmato Piccadilly 5 gennaio 1829; Berchet fa l’impiegato presso un

commerciante italiano; dopo pochi mesi diventerà il precettore di Carlo Arconati, figlio di

37 GIOVITA SCALVINI, Foscolo, Manzoni, Goethe. Scritti editi e inediti, a cura di Mario Marcazzan, Torino, Einaudi, 1948.38 CAMILLO UGONI, Vita e scritti di Giuseppe Pecchio, Parigi, Baudry, 1836.39 GIOVANNI BERCHET, I profughi di Parga, Paris, Didot, 1823.40 Id., Le fantasie, Paris, Delaforet, 1829.

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Costanza e Giovanni e con lui viaggerà tra Belgio, Germania, Francia approfondendo la

conoscenza delle culture europee.

La prefazione affronta alcune problematiche indicative e in parte anche peculiari della letteratura

d’esilio. Il problema del pubblico innanzitutto che Berchet aveva affrontato nella Lettera

semiseria di Grisostomo a suo figlio e che viene ora ripreso con più espliciti riferimenti anche

alla situazione politica; i destinatari ideali sono gli amici italiani, i sodali, i complici, i patrioti.

Non il pubblico straniero, escluso in modo esplicito, non i dotti, bensì gli amici che partecipano a

uno stesso progetto, che condividono le stesse aspettative: «Per poco ch’io ve l’asserisca, lo

crederete ben subito, o dilettissimi, che nel comporre i versi che oggi vi dedico, voi, voi soli, io

sempre aveva dinanzi alla mente, come lettori a cui soddisfare, s’io lo potessi. Ora che gli ho

ricopiati, li rileggo pensando a voi; né parmi che per voi abbiano bisogno di schiarimenti. Se mi

tocca di pubblicarli in terra straniera, non è per questo ch’io mi figuri che stranieri li vogliano

leggere […]. Ma io non ho in mira che l’Italia»41.

La prefazione affronta poi il problema della storia e dell’eroismo italiani partendo dalla

riflessione avviata da Sismondi; Berchet si confronta con il problema che avrà in seguito uno

sviluppo notevole, dell’eroismo italiano, del recupero di una storia gloriosa che affianchi il

primato culturale, tema che si presenta inizialmente anche in Foscolo editore delle Opere di

Raimondo Montecuccoli come recupero di un periodo glorioso della storia italiana, un retaggio

del Settecento, che recupera questioni che aveva posto già Muratori; e tema che diventa poi

soprattutto in Mazzini il problema di costruire un eroismo militare in Italia.

Alcuni temi risorgimentali sono qui affrontati per la prima volta da Berchet in termini espliciti,

lontano dalla censura: il problema della diffusione della conoscenza storica e della

interpretazione della storia in chiave attualizzante e antiaustriaca; l’utilità della storia per gli

obiettivi patriottici.

Pubblico, storia nazionale, poesia. La soluzione di Berchet è ancora, secondo Cadioli42, interna a

un orizzonte umanistico tradizionale, per la rivendicazione di una certa autonomia del poeta che

deve rivolgersi a un pubblico più ampio, ma deve mantenere un linguaggio ricercato, letterario.

E’ il nodo problematico attorno al quale poi negli anni trenta si confronteranno i patrioti delle

generazioni successive, fino al 1848 e oltre.

41 Id., Agli amici miei in Italia, in Lettera semiseria. Poesie, cit., pp. 304-305.42 Cfr. ALBERTO CADIOLI, Introduzione a GIOVANNI BERCHET, Lettera semiseria. Poesie, Milano, Rizzoli, 1992.

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Questa seconda generazione di letterati militanti ha costituito quindi una presenza europea

significativa che ha valorizzato l’attività degli esuli della generazione precedente, introducendo in

modo decisivo nell’esilio tematiche di attualità, strettamente legate al contesto storico-politico.

Fino a questo momento ci siamo mossi all’interno di problematiche che possiamo così

riassumere: la dialettica tradizione, cultura italiana / culture europee; lo spostamento da un

proposito di diffusione della letteratura italiana fuori dall’Italia, eredità settecentesca seppure

rivista alla luce dell’attualità politica, a un proposito di confronto attivo, che riformula anche il

problema del primato attorno a questioni diverse come la comunicazione, l’allegoria politica, la

storia nazionale. Quello che è chiaro è che le pratiche culturali degli esuli hanno sempre una

valenza politica o di intervento nella società civile, anche quando ci troviamo di fronte a

questioni apparentemente neutrali come la pubblicazione di classici.

La terza generazione di esuli potrebbe essere definita quella della critica nazionale (siamo

soprattutto negli anni trenta, inizio quaranta) che ha come rappresentanti più significativi

Mazzini, Tommaseo, Mamiani, Gioberti, Cattaneo e come obiettivo, nonostante le posizioni

politiche non omogenee, la costruzione deliberata, consapevole della nazione unitaria attraverso

la cultura e la lingua.

Gli interventi (ad esempio quelli raccolti nel 1836 di Tommaseo e di Mazzini sul giornale

«L’Italiano» pubblicato a Parigi, oppure la prefazione di Mamiani a Parnaso italiano. Poeti

italiani dell’età media datata Genova 1848 ma pubblicata a Parigi nel 184843; gli scritti di

Gioberti44) spostano l’attenzione su problemi che diventano particolarmente urgenti in questi

anni: la ricerca di moralità, utilità, verità e l’insistenza sul valore formativo della letteratura, ma

soprattutto un interrogativo su cosa sia una letteratura nazionale, che accompagni i processi

fondativi della patria. Per Mazzini, autore di diversi contributi sulla letteratura nazionale, la

cultura italiana è a una svolta dopo il superamento e il fallimento della letteratura eroica alfieriana

foscoliana e della rottura non costruttiva e non edificante della generazione romantica. Mamiani

insiste sul valore civile e politico della poesia ed esalta, riprendendo la linea già foscoliana,

Dante, Gravina e Muratori.

Da un lato quindi la critica diventa centrale e punta l’attenzione sul problema di una letteratura

che sappia infondere una virtù civile. Dall’altro, dalla prospettiva del rapporto esilio e letteratura,

43 Parnaso italiano. Poeti italiani dell’età media ossia scelta e saggi di poesie dai tempi del Boccaccio al cadere del secolo XVIII, per cura di Terenzio Mamiani aggiuntavi una sua prefazione, Parigi, Baudry, 1848. 44 VINCENZO GIOBERTI, Del Primato morale e civile degli Italiani, Brusselle, Meline, Cans e Compagnia, 1843.

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gli anni trenta – quaranta sono quelli davvero fondativi dell’esilio come istituzione e quelli nei

quali la letteratura diventa funzionale al progetto di mitizzazione dell’esilio. Elemento principale

di questo processo è la costruzione di una genealogia eroica, attraverso la creazione di miti che

coinvolgono l’esilio stesso. La memoria collettiva creata dagli esuli serve a trasformare il

Risorgimento in una causa popolare e moderata. Gli autori dei martirologi più importanti del

Risorgimento (Giuseppe Ricciardi, Atto Vannucci45) sono tutti esuli e scrivono o almeno

cominciano a scrivere in esilio, anche se spesso pubblicano poi in Italia i loro scritti quando,

come nel 1848, le circostanze lo permettono.

La genealogia dell’esilio si avvale di una ritualità simbolica in cui hanno un ruolo importante,

celebrativo e identitario, riti come i funerali, i necrologi, le biografie, le commemorazioni; tutto

concorre a creare il mito dell’esule. I funerali ad esempio uniscono in un rito commemorativo

esuli di tutte le generazioni; si veda ad esempio i funerale di Carlo Botta nel 1837 cui partecipano

Rossini, Mamiani, e molti altri italiani. Anche le numerosissime memorie (o i romanzi di

ispirazione autobiografica come le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo) scritte

soprattutto dopo il 1848, nel momento in cui bisognava rielaborare la sconfitta, contribuiscono a

sacralizzare la figura e l’opera degli italiani all’estero.

All’interno di questo contesto si comprende anche il recupero, da parte di Mazzini, del

personaggio di Ugo Foscolo, nonostante le profonde divergenze ideologiche e di pensiero; un

recupero che avviene sul piano mitico-letterario e che è funzionale alla creazione di una tipologia

di patriota italiano, disposto a spendersi per un progetto politico.

D’altronde il piano mitico dei riti dell’esilio è agevolato dal fatto che l’esule letterato, rispetto al

letterato non-esule, infonde alle pratiche letterarie una componente emotiva passionale dovuta

all’eccezionalità dell’esperienza, alla perdita di riferimenti consueti e alle numerose e diverse

sollecitazioni; l’esule perde qualsiasi connotazione accademica e di riferimento erudito e

inserisce nel lavoro letterario-culturale un fattore esistenziale che determina di fatto un confronto

continuo con la storia contemporanea.

Penso che la configurazione dell’esilio come istituzione, sancita da Cattaneo che come è noto

pensava a Foscolo all’alba dell’Unità, nel 1860 a Napoli46, sia stata possibile anche grazie alla

45 ATTO VANNUCCI, I martiri della libertà italiana nel secolo decimonono, Firenze, Società editrice fiorentina, 1848; GIUSEPPE RICCIARDI, Martirologio italiano dal 1792 al 1847, Firenze, Le Monnier, 1860. 46 CARLO CATTANEO, Ugo Foscolo e l’Italia, in Scritti letterari, a cura di Piero Treves, Firenze, Le Monnier, 1981, vol. I, p. 555.

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sinergia di queste diverse esperienze e al lavoro di valorizzazione della dimensione culturale

italiana anche slegata da un progetto politico unitario nettamente configurato (nell’età

napoleonica e fino al 1821); a partire da questo consolidamento è stato possibile, in una fase

ulteriore, ad opera di Berchet, Scalvini, e gli intellettuali del 1821, delineare un’identità aperta

alle letterature straniere che ha svolto un’indubbia funzione di stimolo e di confronto, e di

superamento di un certo modo troppo interno al mondo umanistico di considerare la cultura

italiana; infine l’esilio ha certamente favorito, sia per i rapporti con l’esterno sia per la ricerca

accelerata di una nuova identità del letterato esule, la svolta verso una letteratura civile e morale,

determinante per quanto riguarda la configurazione della «personalità» nazionale.

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Silvia Tatti

Esilio e identità nazionale nell’esperienza francese di Niccolò Tommaseo in Patrie e nazioni

nell’Europa mediterranea: Italiani, Corsi, Greci, Illirici, Convegno internazionale di studi nel

bicentenario della nascita di Niccolò Tommaseo, Atti del convegno di Venezia, 23-25 gennaio

2003, a cura di F. Bruni, Roma, Antenore, 2004, pp. 97-114.

Esilio risorgimentale e prospettive novecentesche

Vorrei premettere a queste riflessioni su Tommaseo e l’esilio alcune considerazioni di ordine

generale sull’esilio risorgimentale e sulla scrittura letteraria degli esuli, utili a inquadrare meglio

il significato di un’esperienza come quella dell’esilio, centrale per Tommaseo, ma fondante e

determinante per la nazione italiana e per un’intera generazione di patrioti.

Una prima considerazione riguarda la fortuna storiografica della letteratura d’esilio che viene

solitamente considerata per il valore di testimonianza autobiografica e per i contenuti militanti,

celebrativi e eroici, funzionali alla lotta per l’indipendenza e l’unità. La riflessione che si è

avviata negli ultimi anni sul problema dell’identità italiana nell’Ottocento ha però sviluppato

ulteriori prospettive e ha offerto spunti utili a riconsiderare anche un’esperienza come quella

dell’esilio e della letteratura ad esso legata che non è solo testimonianza autobiografica di

un’esperienza politica, serbatoio memoriale di eroismo patriottico, ma che fa anche parte, più in

generale, del canone letterario risorgimentale47, tappa fondamentale per la costruzione di

un’identità nazionale. La produzione degli esuli alimenta un immaginario letterario (al quale

contribuisce in modo consistente anche il melodramma) fatto di eroismo, sacrificio, virtù, lotta; si

crea un sistema di valori e di riferimenti, di esperienze e di sensibilità, si propongono tipologie

umane di eroi e di paladini, di potenziali nuovi italiani: e l’esperienza autobiografica

necessariamente amplifica e rende più veri tali motivi. Berchet pubblica Le Fantasie in esilio a

Parigi nel 1829; i testi offrono un ventaglio di situazioni di ribellione, riscatto, eroismo; esuli e

eroi si oppongono, in virtù di spirito di sacrificio, lealtà, abnegazione al dovere e alla patria, a

oppressione e prevaricazione; le circostanze autobiografiche richiamate nella premessa alla

pubblicazione (la dedica Ai miei amici in Italia) imprimono una nota di verità e di patetismo ai

componimenti che sono, d’altro canto, fortemente propositivi e pensati per un potenziale 47 Cfr. per questo aspetto A.M.BANTI, La nazione del Risorgimento. parentele, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.

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pubblico italiano pronto a far proprie le suggestioni letterarie e a trasformarle in azione politica.

Se l’Italia nasce quindi, effettivamente, come scriveva già Venturi, come «sforzo di volontà» 48, si

può approfondire quale sia l’apporto dei testi scritti durante l’esilio, in presenza quindi di

condizionamenti e limiti importanti, e nel complesso dell’attività letteraria degli esuli (edizioni,

traduzioni, pubblicazioni, giornalismo) a questo impeto volontaristico e costruttivo, all’origine

del processo unitario.

Ma c’è un ulteriore elemento da considerare nell’affrontare il nodo dell’esilio risorgimentale. Per

noi lettori del terzo millennio guardare a quell’esilio significa anche ripercorrere esperienze

successive che hanno segnato profondamente la nostra cultura; e confrontarci con testi letterari

che dell’esilio hanno fatto non solo un motivo centrale in epoche di disastri politici ma anche una

metafora di una tragica esclusione dalla vita e dalla società, un’esclusione che è fisica, materiale

ma che è anche, soprattutto per uno scrittore, linguistica e culturale.

L’evento dell’esilio scatena un totale annullamento dei riferimenti; a livello linguistico e

letterario questo significa abbandonare forzatamente il livello della comunicazione consueta,

quotidiana ma anche culturale, per recuperare una sorta di grado zero della lingua e attivare

un’esperienza linguistica e letteraria conoscitiva e consapevole. E’ come se, negata la possibilità

di una comunicazione quotidiana, si scoprissero nuove potenzialità della lingua e della scrittura,

scavando nel passato, attivando la propria memoria personale e quella storica, nazionale. L’esilio

costringe a uno straniamento coatto, che obbliga a una ridefinizione della propria identità;

proiettarsi nell’alterità, per quanto in virtù di una scelta obbligata e che non perde di vista la

situazione di partenza, costringe comunque a una visione critica e estrema, a una presa di

coscienza di limiti e potenzialità. Lo sguardo alienato è uno sguardo più lucido, che penetra in

profondità, che sradica ogni cosa dalle fondamenta; è come un lampo che, come scrive

Debenedetti, «illumina il temporale e risetta l’aria»49, permettendo di vedere con maggiore

chiarezza tutte le cose. L’esilio risorgimentale italiano non è quindi soltanto una tappa, per

quanto estremamente dolorosa e tragica, del processo storico unitario; è anche un’occasione per

48 F. VENTURI, L’Italia fuori d’Italia, [Storia d’Italia, vol. 3, Dal primo Settecento all’Unità], Torino, Einaudi, 1973.49 Cfr. G. DEBENEDETTI, Tommaseo. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1973: riporto per intero la bellissima citazione che si trova a p. 200: «Il trauma dell’esilio, come sempre succede nelle situazioni traumatiche, di choc, denuda, profila nella loro fisionomia più pura, elementare, in una specie di evidenza scenica e spettacolosa, quelle forze interne e opposte, che nella vita quotidiana diluiscono il loro drammatico antagonismo in un malessere cronico, nel più minuto susseguirsi degli errori, delle scontentezze, d’ogni ora e d’ogni giorno. Il trauma è come il temporale che risetta l’aria per un momento, e lava gli aspetti, li illimpidisce; o meglio è, come nel fitto del temporale, lo scoccare del lampo; il quale, diceva Proust, fotografa; dà, in una luce che sembra sovrannaturale, la visione momentanea ma nettissima delle cose; in una chiarezza irrefutabile come non mai».

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un’intera generazione di ridefinire il proprio statuto, di riflettere da una prospettiva nuova sulla

propria esistenza, sulla propria militanza di scrittori, sulla carriera professionale.

Il Novecento è segnato da molti esili senza ritorno, senza nessun progetto se non quello della

sopravvivenza; esili molto diversi quindi da quello risorgimentale, caratterizzato da una

progettualità politica e culturale di grande forza; penso alla tragica vicenda di Benjamin e a tutti

gli esili del nazismo e delle dittature da Brecht agli esuli argentini; penso a fughe da totalitarismi,

all’abbandono delle proprie radici e di una patria. Ma penso anche a esili come quello del

protagonista del dramma di Joyce, Exiles, per i quali lo straniamento significa il recupero di

un’integrità morale, di una prospettiva etica e intellettuale depurata da tutti i compromessi e gli

sviamenti che comporta necessariamente il rapporto con la propria realtà.

Tutte esperienze che, rielaborate, nella scrittura, alla luce della memoria di esili della tradizione

letteraria, passata al vaglio della sensibilità novecentesca, hanno dato origine a testi di grande

spessore gnomico, conoscitivo che hanno messo in relazione in modo nuovo l’esilio con il

problema della comunicazione linguistica e letteraria.

Cito per spiegare questo approccio alla scrittura dell’esilio, fra tanti che si potrebbero citare,

Joseph Brodski che ricorda nel suo discorso The condition we call Exile,50 che per uno scrittore

l'esilio è un evento linguistico, in quanto lo sradicamento conduce a una condizione in cui tutto

ciò che rimane all'uomo è se stesso e la propria lingua; l’esule è come proiettato nello spazio

all’interno di una capsula, dove la capsula è la lingua stessa, l’unica mediazione e difesa

dall’esterno. L'esilio priva l’uomo di tutti gli strumenti della comunicazione e di ogni

referenzialità, ma, nell’isolamento, conferisce un'intensità assoluta alla parola. L’esilio, il dolore

sembrano allora quasi intensificare la lucidità intellettuale dello scrittore che perde sì il suo

pubblico, la referenzialità del suo lavoro, ma acquista nuove potenzialità speculative. L’esule può

anche scegliere il silenzio, un silenzio eloquente come quello prospettato da Adorno nei Minima

moralia quando scrive che «non c’è più nemmeno il passato che possa sentirsi sicuro dal

presente, che torna a votarlo all’oblio nell’atto in cui lo rammenta»51: la lingua reificata e umiliata

nell’esilio annulla cioè la comunicazione anziché stabilirla.

Per gli esuli ottocenteschi invece, tesi alla realizzazione di un progetto ideale, la reazione sarà,

50 J. BRODSKI, The condition we call Exile, 1987, trad. it. Dell’esilio, a cura di G. Forti, Milano, Adelphi, 1988.51 T. W. ADORNO, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951, trad. italiana, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1954.

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come vedremo, prevalentemente di segno diverso; sulla tentazione del silenzio prevale la volontà

di dire, l’orgoglio del dire, che significa il recupero della memoria linguistica e letteraria, ma che

è anche testimonianza di un’identità presente che si costruisce attraverso il confronto con un’idea

di nazione che affonda le sue radici nel passato, ma assume un significato militante, diventa

fonte viva e primaria di identità nazionale.

Le suggestioni novecentesche e l’approccio al problema della scrittura d’esilio considerata non

solo come testimonianza autobiografica o istanza di denuncia quale si è andata affermando nella

critica soprattutto di ambito anglosassone, mostrano quindi le potenzialità gnomiche e speculative

della scrittura d’esilio e permettono di indagare da una prospettiva diversa da quella più consueta

legata alla storiografia patriottica risorgimentale l’esperienza complessa e contraddittoria

dell’esilio ottocentesco, fondante per la cultura italiana e con la quale è utile confrontarsi proprio

per riflettere sul nodo cruciale, sul quale ci si interroga ancora oggi, della costruzione di

un’identità nazionale.

L’esilio risorgimentale è innanzitutto a ben vedere un’esperienza paradossale; nasce infatti

dall’abbandono di una patria che esiste solo come progetto e ideale, di una lingua (l’italiano) che

non viene parlata52 e di un dialetto che è esperienza personale, familiare, prevalentemente

affettiva; gli esuli diventano inoltre subito stranieri per la patria appena partiti perché non

conoscono le generazioni che sono cresciute dopo la loro partenza53 e sono stranieri anche al loro

ritorno (Straniero in patria è ad esempio il titolo di un saggio di Guglielminetti su Scalvini54)

perché si riconoscono maggiormente nell’esperienza professionale e umana vissuta all’estero

piuttosto che nella realtà del luogo di origine. Essi vengono riconosciuti come un gruppo unitario

sulla base di un’identità comune che è priva in realtà di riscontri concreti, se non quello

52 Si veda questa lettera di Scalvini a Tommaseo datata Gaesbeck, 2 settembre 1836, pubblicata in Scritti di Giovita Scalvini, ordinati per cura di Niccolò Tommaseo, Firenze, Le Monnier, 1860, p. 234: «Ho passato la prima giovinezza in Brescia, in Milano, in Bologna; e sapete che dialetti si parlino in quelle città; e non fui che pochi giorni in Toscana. Ed ora da quindici anni son fuori d’Italia. Voi, che tanti anni siete dimorato in Toscana, facilmente non perderete mai la purezza della lingua: ma chi non ebbe la vostra ventura, in paese straniero a poco a poco perde il retto intendimento di essa; non la può più accattare fuorché ne’ libri; ignora a poco a poco ciò che sia vivo e ciò che sia morto, e diviene o pedante o licenzioso. E questo è pure uno degli strali che saetta l’arco dell’esilio, checché ne dicano coloro che voi giustamente chiamate Cosacchi.»53 «Una nuova generazione è cresciuta che lui esule non conosce; una nuova generazione se non più o meno ardente di lui, educata di necessità a sentire e parlare e operare altrimenti....L’esule è già uno straniero», N. TOMMASEO, Della famiglia e della vita di Giovita Scalvini, in Scritti di Giovita Scalvini, cit., p. 222.54 Straniero in patria è appunto il titolo del saggio dedicata da M. GUGLIELMINETTI a Scalvini, in Lo straniero, a cura di M. Domenichelli e P. Fasano, Bulzoni, Roma, 1997, pp. 623-631.

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linguistico e letterario o un progetto politico in corso di definizione. Questi aspetti particolari

mostrano come nel caso dell’esilio ottocentesco la memoria culturale (anticipo alcuni aspetti

approfonditi oltre) giochi un ruolo fondamentale, agisca più di ogni altra cosa come elemento di

raccordo e di riconoscimento; e questo spiega anche alcune caratteristiche dell’esilio

risorgimentale e della letteratura ad esso legata, spesso modulata su toni celebrativi e retorici, sul

recupero del passato e della storia. Ma questo spiega anche molte ambiguità e peculiarità

dell’esilio ottocentesco che si confronta con un’idea di Italia che si trascina in retaggi oscuri, che

si relaziona a esperienze complesse; il rapporto tra patria ideale e situazione reale, tra passato e

presente, il confronto tra diverse lingue e culture regionali, la relazione con immagini elaborate

dagli stranieri, spesso frutto di proiezioni letterarie del paese o di prospettive distorte.

Da questo punto di vista l’esperienza di Tommaseo è particolarmente interessante per

comprendere la natura problematica dell’esilio risorgimentale. Per Tommaseo si potrebbe anzi

utilizzare più che il termine esilio, polisemantico e variamente connotato in base a una tradizione

letteraria assai complessa, che comprende la prospettiva intimistica ovidiana, l’uso metaforico di

Petrarca, l’allegorismo cristiano e dantesco, il neologismo «dispatrio»55, più adatto a significare

l’appartenenza dello scrittore a più patrie, tra Oriente e Occidente. La condizione di Tommaseo

esule sui generis - «esule in casa mia, ma concittadino di più nazioni» come si ebbe a definire lui

stesso56 -, votato per la storia personale e per il contesto in cui visse al dispatrio, permette allo

scrittore di considerare, con uno sguardo estraniato e quindi più lucido, la stessa condizione di

esule, una condizione che si prospetta nella sua esperienza estremamente sfaccettata e della quale

ho considerato alcuni aspetti: l’ “esilio introvertito”, cioè il momento intimistico della scrittura

d’esilio che però in Tommaseo, come vedremo, interessa anche l’aspetto sociale e politico

dell’individuo-cittadino, nel quale si riflette un disegno provvidenzialistico cristiano; quindi, altro

aspetto, il rapporto tra esilio e memoria linguistica e letteraria in funzione della costruzione di

un’identità nazionale in un processo condiviso anche se con sfumature diverse con molti altri

esuli e infine, ultimo momento considerato, l’ “esilio pensato”, cioè il bilancio sull’esilio. Il

periodo preso in considerazione è il cosiddetto primo esilio francese57, dal momento che

55 Rinvio per l’uso di questo termine al contributo a due voci di F. SINOPOLI, M. TATTI, Migrazione ed esilio: dispatri reali e metaforici nelle letterature europee, in corso di stampa negli atti del convegno ADI Letteratura italiana e Letterature europee, tenutosi a Padova nel settembre 2002.56 Cfr. Mio testamento letterario, in N. TOMMASEO, Opere, a cura di M. Puppo, Firenze, Sansoni, 1968, t. II, p. 374.57 Su Tommaseo in Francia cfr. M. GASPARINI, Tommaseo e la Francia, Firenze, La Nuova Italia, 1940 e R.

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all’interno di un’esperienza come quella di Tommaseo votata come abbiamo detto al dispatrio,

l’esilio degli anni ’34-’39 risponde (nonostante sia volontario), per luoghi, tipologia,

frequentazioni a una vera e propria esperienza di lontananza forzata dall’Italia.

«Esilio introvertito» e metafora biblica

Il primo componimento scritto da Tommaseo appena giunto in Francia dalla Toscana, Esilio

volontario ha suggerito a Giacomo Debenedetti l’espressione «esilio introvertito»58:

un’esperienza morale e intima che purifica l’uomo e gli conferisce una più alta dignità interiore.

Secondo Debenedetti la poesia dell’esilio di Tommaseo non è infatti indugio sul dolore della

lontananza dalla patria ma lamento per la propria fragilità personale, per una condizione

esistenziale tormentata; l’inno patriottico si trasforma così in una «elegia autobiografica»,

all’interno della quale l’Italia, identificata con una figura femminile, è qualcosa di arcano,

misterioso e sacro e l’esilio, in questo contesto, è una prova che permette allo scrittore di espiare i

suoi errori. L’incipit di Esilio volontario è infatti una parola fortemente connotata in senso

religioso come «risorgi»: «Risorgi, rinfranca / la possa smarrita / o anima stanca / conosci la

vita»59.

L’idea dell’esilio come purificazione («La vita sia monda, / la speme sia pura» sono altri versi del

componimento), declinata in senso morale, appartiene in primo luogo a una tradizione letteraria

importante, a partire ovviamente da Dante, un autore che significativamente Tommaseo studia

con passione e continuità proprio in questi anni (nel ’37 esce a Venezia il Commento a Dante),

fino a, per arrivare a esempi più vicini a Tommaseo, Victor Hugo, che esule nell’isola di Jersey

rivendica la facoltà di dire la verità come risarcimento perché il destino avverso conferisce

all’individuo la possibilità di esprimere una parola che proprio perché risuona in uno spazio

vuoto («ignudo» dice anche Tommaseo60), lontano da ogni finzione, coincide con la verità. Anche

CIAMPINI, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni, 1945. Sul cosiddetto «primo esilio» cfr. il recente saggio di M. CINI, L’esperienza dell’esilio in Niccolò Tommaseo, in Niccolò Tommaseo e Firenze, Atti del Convegno di studi, Firenze, 12-13 febbraio 1999, a cura di R. Turchi e A. Volpi, Firenze, Olschki, 2000, pp. 287-306. Fonti importanti per questo periodo sono, oltre al Diario intimo dello scrittore, i carteggi con gli amici soprattutto fiorentini: N. TOMMASEO e G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, a cura di I. Del Lungo e P. Prunas, Bologna, Zanichelli, 1911; N. TOMMASEO e G.P. VIEUSSEUX, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciareanu, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1956; Il primo esilio di Niccolò Tommaseo, 1834-1839, lettere di lui a Cesare Cantù, Milano, Cogliati, 1904; N. TOMMASEO, Lettere inedite a Emilio de Tipaldo (1834-1835), a cura di R. Ciampini, Brescia, Morcelliana, 1953.58 Cfr. G.DEBENEDETTI, Tommaseo. Quaderni inediti, cit., in particolare le pp. 198-205.59 N. TOMMASEO, Poesie, in Opere, cit., vol. I, pp. 10-12.

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in un’altra poesia scritta da Tommaseo durante l’esilio All’oriuolo della mia stanza (1836)61, tutta

condotta sulla metafora della vita come navigazione tempestosa dove l’unica ancora di salvezza è

la fede, l’approdo a Dio, l’esilio è condizione esistenziale di ricerca della verità e della salvezza e

le traversie sono una prova che l’esule «errante» deve affrontare, librandosi in questo modo al di

sopra della banalità e dei compromessi dell’esistenza, in una dimensione che le circostanze

tragiche rendono superiore e aliena da condizionamenti: «Noi sul mar delle cose alziam le vele, /

nàutili erranti per l’onda fedele»62. E si noti che i termini «erranti», «erranza» ritornano spesso in

Tommaseo e sono una sorta di corollario dell’esilio, declinato sia in senso letterario attraverso la

memoria bifronte di Petrarca e di Tasso, sia in senso esplicitamente religioso come metafora della

condizione del credente che percorre il suo cammino, sempre sottoposto alle tentazioni del

peccato e dello sviamento. Il significato del termine «esilio» sul quale quindi Tommaseo si

sofferma con maggior insistenza è quello biblico e provvidenziale, che nei versi finisce per

sovrapporsi al significato storico-biografico; non solo esilio è usato frequentemente con il

significato di vita terrena contrapposta a quella vera, eterna, ma viene stabilita una

corrispondenza tra la dura prova della lontananza da casa, della solitudine e dell’abbandono, tra

l’esilio storicamente determinato e l’esilio come condizione esistenziale, prova che il credente

sconta per purificarsi ed essere degno di avvicinarsi a Dio. Nella poesia Libertà a un fuoriuscito,

si contrappone «l’inglorioso esiglio», inteso come esperienza quotidiana, reale, storica, connotata

in senso negativo, alle «tempeste» che «rifan più puro» lo spirito, che alimentano la fede; e

anche in Esilio volontario è presente un’ambiguità ricercata tra il significato reale di esule e

quello invece metaforico-biblico; l’esule è un «pellegrino», il pensiero della patria ha connotati

sacrali, tutto il discorso assume un rilievo più esistenziale-meditativo-religioso che storico-

cronachistico. E nell’ultima strofa si ammonisce il cieco che «travia dal suo corso» a ravvedersi

nel dolore: l’esule, il reietto, il «cieco» non deve abbandonare, nonostante e anzi proprio grazie

alle sventure, la retta via, la strada della redenzione e della salvezza cristiana.

L’esule puro può così ambire a una conoscenza più autentica, priva di compromessi. «Conosci la

vita» scrive Tommaseo in Esilio volontario ed è un motto programmatico che si può interpretare

sicuramente con Debenedetti in chiave psicologica, intimistica (Debenedetti distingue tra la 60 «E voi che le chiavi / del tempo tenete, / memorie soavi / di gioie segrete, / di taciti studi, / di quete virtudi, / di pianto e d’amor, // con l’ali librate / copritemi, e scudo / e verga deh siate / al povero ignudo, / che va pellegrino, / e il proprio destino, / andando, non sa», ivi, p. 12. 61 Poesie, in Opere, vol. 1, pp. 80-81.62 Ivi, p. 80.

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letteratura «militante» dell’esilio risorgimentale tesa a «fomentare la rivolta»63 contro l’Austria e i

governi responsabili dell’asservimento della nazione e la poesia dell’esilio di Tommaseo che

rielabora in chiave intimistica, morale e soprattutto religiosa l’esperienza di sradicamento più

ricercata che subita), ma che rinvia anche a una considerazione dell’esperienza dell’esilio per le

sue potenzialità speculative, potenzialità che riguardano, e non potrebbe essere altrimenti visto il

contesto, non solo l’individuo ma l’esule in quanto cittadino che investe nel progetto politico la

propria integrità morale (e vanno d’altronde in questa stessa direzione i versi scritti in questo

stesso periodo all’inizio del soggiorno in Francia dedicati a tematiche esistenziali L’uomo,

L’umanità, Il tempo: nell’ultima si ribadisce la natura formativa dell’esperienza dell’esilio, del

dolore e dello straniamento «Nell’ira villana, nel vile periglio, / nell’esule patria, nel libero

esiglio, / ne’ dubbi, nel sangue, s’impara ad amar»). Tommaseo rielabora l’esperienza dell’esilio

in chiave biblico-letteraria, ma spende tale integrità così acquisita in chiave etico-politica; l’esule-

Tommaseo è insomma un uomo che grazie a esperienze e prove acquisisce una forte dignità

morale ed è nello stesso tempo un cittadino più degno, che può ambire a intervenire nel disegno

storico della costruzione dell’Italia; da una lontananza che purifica e forte di un’esperienza che

annulla la natura eterodossa della sua identità italiana, l’autore dei libri Dell’Italia poteva

presentarsi così al suo pubblico con la maschera del profeta, reso sacro dalla recente esperienza

volontaria e riscattato in questo modo dal contraddittorio tormento esistenziale.

L’integrità sacrale dell’esule, così faticosamente costruita tra indugi intimistici e istanze militanti,

è spesa da Tommaseo nel periodo del soggiorno francese nella febbrile attività letteraria e

giornalistica per riempire di contenuti il progetto ideale e, come abbiamo visto, animato da una

spinta volontaristica (tutto anzi sembra avvenire sotto il segno della volontà, anche lo stesso esilio

«volontario») di costruzione di un’identità nazionale italiana, un progetto che appare tuttavia nel

contrasto tra la forza della proiezione ideale, l’intensa spiritualità religiosa, le difficoltà del

presente, qualcosa di indefinito e misterioso che lo stesso Tommaseo, appena giunto in Francia,

definisce un «tremendo mistero»: «D’Italia il pensiero – tremendo mistero – tien sempre nel

cuor». Questo «tremendo mistero» del pensiero dell’Italia, anche se espressione non priva di un

certo compiacimento letterario, rinvia a un significato oscuro, evoca una forza arcana e mistica,

richiama la prospettiva tutta romantica di una frattura, di qualcosa di inconoscibile e doloroso; si

distanzia nettamente da rievocazioni celebrative e retoriche e si ricollega a un significato di

63 G.DEBENEDETTI, Tommaseo. Quaderni inediti, cit., p. 200

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patria che è nello stesso tempo politico e religioso.

Ma cerchiamo di sviscerare alcuni motivi di questo «mistero», che è indubbiamente il

riconoscimento di una “italianità” che emerge dal trauma dell’esilio, da una situazione quindi di

privazione e dolore che però attiva, come tutte le esperienze di straniamento, una conoscenza più

intensa e profonda, ma che è anche un’indagine sulla propria identità di scrittore e uomo di

cultura, di poeta e letterato, e di esule, sottoposto a una prova che prima di essere politica è

soprattutto morale.

L’Italia dell’esule Tommaseo: identità linguistica e memoria letteraria

Il primo tassello di questo mosaico composito tra italianità e esilio riguarda la lingua: per uno

scrittore essere sradicato dal proprio contesto linguistico significa perdere ogni identità.

In Tommaseo la reazione a questa sottrazione come è noto è molto accesa sia per quanto riguarda

la riflessione teorica sulla lingua e sui rapporti tra lingua e scrittura in una situazione di

lontananza forzata dalla patria, (e ci sono molte testimonianze sulla consapevolezza della gravità

di questa sottrazione) sia per quanto riguarda la difesa dell’italiano di fronte al francese. La

posizione dello scrittore è tanto più significativa in quanto la sua identità italiana è prima di tutto

e in modo più esclusivo rispetto ad altri esuli che hanno riferimenti anche affettivi e familiari,

un’identità linguistico-letteraria .

La reazione di Tommaseo è per questo particolarmente aggressiva: nella prefazione alle Relations

des ambassadeurs vénitiens sur les affaires de France au XVI siècle , scritte in francese su

richiesta dell’editore per motivi commerciali64, Tommaseo drammatizza in toni enfatici la scelta

obbligata di abbandonare l’italiano: «Sous le poids d’une langue qui n’est pas la langue de mes

pensées je sens mon esprit chanceler et ma volonté défaillir». Di fronte a questa scelta obbligata

Tommaseo organizza una resistenza, che è tanto più agguerrita quanto più mette in gioco la sua

stessa identità di scrittore, intellettuale e cittadino. Sono notissimi gli appunti del Diario intimo

relativi alla cronaca delle giornate francesi: «Parlo italiano con dodici italiani e un francese» o

«Parlo italiano con otto italiani e tre portoghesi»65, che sottolineano con caparbietà la volontà

dello scrittore di mantenere assoluta fedeltà alla lingua. In alcune bellissime lettere a Cristina di

64 Relations des ambassadeurs vénitiens recueillies et traduites parM. Niccolò Tommaseo, Paris, Imprimerie Royale, 1838, 2 voll. 65 N. TOMMASEO, Diario intimo, in Opere, cit., vol. 2, p. 731.

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Belgiojoso Tommaseo invitava la principessa a non trascurare la lingua materna, proprio come

difesa della propria identità, come ricchezza individuale; la rimproverava perché la Cristina

sceglieva per questioni di opportunità, di comodità e di uso, il francese; e questo per Tommaseo

era inaccettabile perché implicava una perdita di identità, un’omologazione pericolosa66. Ma sono

solo alcuni esempi tra tanti che si potrebbero riportare.

Se Tommaseo reagisce con tale intensità è perché egli comprende (e in questo la sua osservazione

concorda con quella di tanti esuli soprattutto novecenteschi) come la mancanza della lingua

comporti una diminuzione dell’integrità dell’individuo, che obbligato a tradurre le proprie idee

diventa «minor di se stesso»67. Egli non si limita quindi a sostenere gli argomenti tipici

dell’annosa querelle tra la cultura italiana e la cultura francese, ma utilizza le proprie competenze

filologiche, erudite, la propria passione per gli studi e per i libri, per una polemica capillare e

insidiosa che si differenzia dalla consuetudine giornalistico-pamphlettistica ben radicata

nell’ambiente degli esuli; inoltre nella polemica contro la Francia68 interviene anche un forte

presupposto morale, teso a sconfessare la tradizione laica-rivoluzionaria della recente storia

francese, a fronte di una linea forte cattolica Dante-Manzoni attorno alla quale viene invece

ricostruita la tradizione dell’Italia.

L’astio per il francese, un mito negativo in parte poi ritrattato nel Testamento letterario69, se

esaminato nel complesso della riflessione di Tommaseo si configura non come gretta e sterile

66 Sul carteggio di Cristina di Belgiojoso con vari letterati italiani (tra cui Tommaseo) e francesi rinvio al mio lavoro M. TATTI, La scrittura epistolare di Cristina di Belgiojoso e le lettere inedite a Jules Mohl (1835-1868 ), in «Franco-italica», 1998, XIII, pp. 63-157. 67 «E quando m’ apparvero gl’ignudi massi della terra francese, irradiati ancora da un sole italiano; e quando l’accento francese mi spirò intorno all’anima quasi nuovo ambiente, e sentii la tediosa necessità di tradurre le mie idee, conobbi allora quanto sia facile ad un uomo che vive in terra straniera diventare minore di se stesso», N. TOMMASEO, Memorie poetiche, in Opere, cit., p. 316.68. Cfr. anche N. TOMMASEO, Considerazioni storiche sulla Francia, a cura di P. Misciarelli, in «Nuova Antologia», 1936, CCCV, pp. 276-284 (si tratta di alcuni aforismi che dovevano essere pubblicati come prefazione all'edizione delle Relations des ambassadeurs vénitiens, ma che furono censurati dallo storico Mignet); ID., Pensieri sulla Rivoluzione francese, a cura di R. Ciampini, in «Convivium», 1939, XI, pp. 121-132. Riflessioni generali sulla Francia si trovano anche in ID., Colloqui col Manzoni, in Opere, cit., vol. 2, pp. 511-640.69 «Dell’Italia in assai luoghi già dissi come gli amici di libertà le preparassero servitù nuove, e additai quelle che a me parevano di vera libertà le vie vere. Allorché quasi dappertutto seguivansi i modi e i pensari e il linguaggio di Francia, io, per isvogliarne gl’Italiani, dissi parole severe di quella gente, troppo severe; ma non le dettava né odio né astio; perché io da’ Francesi non ebbi se non favori, e le poche mie qualità furono con più indulgenza giudicate da loro che dagl’Italiani», N. TOMMASEO, Mio testamento letterario, in Opere, cit., vol. 2, p. 372.

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difesa di un’idea astratta di primato ma come rifiuto della «cieca imitazione»70 in nome di un’idea

di cultura che non può essere scissa da un progetto morale e religioso che affonda le radici nella

storia e nella memoria. Sono la superficialità e l’uso strumentale dell’imitazione, l’omologazione

coatta che sconcertano Tommaseo, unite ovviamente alla volontà di difendere attraverso gli

strumenti in suo possesso l’identità italiana.

Ma cosa è Italia per lo scrittore in questo momento?

Il sentimento di italianità, tutto sommato recente per Tommaseo nel 183471, nasce in primo luogo

dal riconoscimento della tradizione linguistico-letteraria ed artistica e si riveste solo in un

secondo tempo, con la frequentazione degli amici fiorentini dell’«Antologia», di istanze anche

civili e politiche. In questo contesto l’esilio accelera la scelta di militanza patriottica, che ha il

primo significativo tassello nelle vibranti parole del Dell’Italia, e nello stesso tempo radicalizza

la coscienza di un’identità “italiana” che assume, tra proiezioni ideali e spirituali e confronto con

la situazione reale, significati aperti, per nulla lineari.

Alla fine dell’esilio, dopo la frequentazione dell’ambiente degli esuli italiani in Francia,

l’impegno per la difesa della cultura italiana e la militanza giornalistica, l’Italia, recuperata dalla

memoria e fatta propria attraverso la recente esperienza, si configura per Tommaseo come

un’entità più definita e reale, è una “sorella” che si identifica con una prospettiva spirituale

religiosa e con la tradizione artistico-letteraria: «Italia mia vedrò, l’amata e pianta / del pensier

mio sorella: i templi antichi / vedrò, dov’io pregai soletto a sera; / vedrò le tele e i marmi, onde la

prima / mi spirò intorno al core aura del bello»72.

Ma all’inizio dell’esilio l’Italia è un’entità da costruire, è ancora un «tremendo mistero», oppure,

con espressione più letteraria, «un sogno malinconico»: «Lasciai l’Italia. Il vapore che mi portava

lontano da Genova risospingeva il mio pensiero all’Italia fuggente: e le persone e i luoghi sacri a

me ch’io lasciavo forse per sempre, mi tornavano innanzi non come acuto tormento ma come

sogno malinconico»73. L’Italia, ed è un topos dell’immagine letteraria dell’Italia, è pensata come

qualcosa di lontano nel tempo, recuperato da un passato mitico, è un «sogno malinconico»

ammantato da un’aura sacrale74. E’ un mistero che arriva dal passato, da una lunga storia di attese

e rimpianti (da quel grido «Italiam Italiam» che gli esuli troiani, nell’Eneide, pronunciano alla 70 Ivi, p. 373.71 Cfr. F. BRUNI, Postfazione a N. TOMMASEO, Dell’Italia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003.72 A Stefano Conti di Ajaccio, in N. TOMMASEO, Opere, cit., vol. 1, pp. 20-22.73 ID., Memorie poetiche, in Opere, cit., vol. 2, p. 316.

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vista delle coste della penisola alla base di tante rievocazioni del paese, alla celebre invettiva

dantesca del VI del Purgatorio - «Ahi serva Italia» -, alla canzone All’Italia di Petrarca fino ai

componimenti dei patrioti ottocenteschi); e un mistero che per Tommaseo implica anche il

confronto con identità diverse (dalmata, veneziana , italiana) e con un proprio personale percorso

di acquisizione di un’identità linguistico-letteraria, civile, politica e solo in parte affettiva.

Per dare corpo a questo sogno, per conciliare rievocazione letteraria e impegno morale e uscire

dai confini di un’introversione che potrebbe trasformarsi in malattia morale, Tommaseo si

impegna, come la maggior parte degli esuli, in un lavoro di diffusione della cultura italiana. E’

questo il primo passo utile a definire in modo non astratto l’idea di Italia, la prima tappa

dell’esilio verso l’elaborazione di un’identità italiana.

Sull’intenso lavoro editoriale di divulgazione di testi della cultura italiana, scrittura di

grammatiche e dizionari, insegnamento, molte ricerche sono ancora da compiere e molti ambiti,

dal giornalismo letterario alla pubblicistica di ambito teatrale, dalla produzione di romanzi e

libretti d’opera alle traduzioni, sono ancora da esplorare75. Alla base di questi lavori esiste

sicuramente la necessità di guadagno, favorita dallo sviluppo del mercato editoriale nei paesi

europei nei quali gli esuli vivono. Tuttavia questo non basta a spiegare l’intensità e soprattutto la

natura, i contenuti di questa produzione, compresa quella giornalistica, sempre oscillante tra

politica e letteratura.

Alla base di molte iniziative culturali e editoriali degli esuli c’è la volontà di memoria, funzionale

alla tutela di una identità italiana per la quale la memoria è ovviamente fondamentale. Tommaseo

ad esempio ribadisce più volte nei suoi scritti l’importanza del genere letterario della biografia e

l’importanza della storia76, riprendendo quasi l’invito di Foscolo della Prolusione pavese

(«Italiani, io vi esorto alle storie») e scrive nei libri del Dell’Italia, in un capitolo intitolato

74 Non a caso i primi mesi dell’esilio sono dedicati al commento a Dante, nella lode del quale (il «poeta sommo», «l’uomo che...dopo i profeti, fu innanzi a tutti poeta») si chiudono le contemporanee Memorie poetiche, cit., p. 364.75 Per alcune indicazioni su questo ambito di ricerca rinvio ai miei lavori M. TATTI, Le tempeste della vita. La letteratura degli esuli italiani in Francia nel 1799, Paris, Champion, 1999 e Bohème letteraria italiana a Parigi all’inizio dell’Ottocento, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, a cura di M. Tatti, «Studi (e testi) italiani», 1999, III, pp. 139-160.76 «Nella storia veggendo fonte inesauribile di poema (perché la storia è indivisa dalla religione, così come il passato contiene in sé l’avvenire)...»; «La storia, come per istinto, io cercavo e trovavo per tutto; e quella mi pareva più schietta e fedele che è riposta ne’ libri i quali non sono di proposito storici, come opere letterarie, lettere familiari, commedie, e ogni scritto che parla di tutt’altra cosa», N. TOMMASEO, Mio testamento letterario, cit., p. 349 e 375.

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Letteratura: «Dire ai letterati italiani: scrivete per il popolo; commentate la storia in romanzo, in

dramma, in dialogo; conditela in mille modi, poi ministratela così com’è, perché nulla potreste

voi mai crear di migliore, e la storia contiene tutte le verità più efficaci e le meno vietate in

governo di despoti»77. Non è un caso che il genere della biografia sia stato ampiamente praticato

dagli esuli: si pensi a Giuseppe Pecchio che scrive la Vita di Ugo Foscolo, a Camillo Ugoni che,

oltre a scrivere a sua volta la vita di Pecchio78, raccoglie testimonianze per la vita di Alfieri, di

Casti e di tutti gli italiani che erano in Francia e scrive la vita di Francesco Milizia 79, fino allo

stesso Tommaseo che negli anni successivi scriverà la vita di Scalvini pubblicando i suoi scritti.

Ma non c’è solo un desiderio di memoria, di recupero di eventi storici e di rivendicazione di un

primato artistico e letterario, secondo un percorso tutto sommato consueto nella cultura

risorgimentale; esiste, da parte di Tommaseo sicuramente, ma anche di altri esuli, un progetto

preciso, militante, di costruzione di un’identità che si alimenta certamente di memoria

linguistico-letteraria ma anche di uno sforzo volontaristico per rendere vitali questi tasselli, per

inserirli in una disegno non solo politico ma morale. Nel trattato Dell’Italia, pubblicato non a

caso sotto il segno moralistico del Savonarola, c’è un paragrafo, compreso nel libro quinto

Rimedii, dedicato ai letterati, nel quale Tommaseo invita questi ultimi proprio a considerare

l’importanza della volontà e della ragione per ricondurre la letteratura a un nuovo ordine80.

In questo senso va intesa la polemica di Tommaseo contro la Francia, che non è la consueta

rivendicazione di un primato, ma è un’altra tappa per la definizione, questa volta per via

oppositiva, di un’identità italiana, di una linea italiana che si oppone a quella francese dominante

nel quadro europeo. Una linea che è linguistico-letteraria sicuramente, ma soprattutto morale; su

questa contrapposizione tra un’Italia cristiana e animata da uno spirito etico e una Francia laica

rivoluzionaria e immorale, insistono infatti tutti gli scritti di Tommaseo, non solo articoli di

giornali, lettere, scritture autobiografiche, ma anche l’anti-romanzo intimistico e lirico Fede e 77 ID., Dell’Italia, cit., Parte II, p. 134.78 C. UGONI, Vita e scritti di Giuseppe Pecchio, Parigi, Baudry, 1836.79 Lettere di Francesco Milizia al conte Francesco di Sangiovanni ora per la prima volta pubblicate, Parigi, presso Giulio Renouard, 1827 (contengono delle Notizie intorno alla vita e agli scritti di Francesco Milizia).80 «Ne’ tempi quando l’ispirazione predomina, quest’opera (un nuovo ordine del sapere umano n.d.r.) si fa da ciascuno uomo per istinto; e i lavori dello scrittore e dell’artista cospirano, senz’avvedersene, al fine a cui tutta la generazione cammina. Ne’ tempi quando il sentimento è occupato dal raziocinio, e talvolta soggiogato da quello, non è danno cercare razionalmente siffatta verità; e per tutte le vie ricondurre ad essa gl’ingegni traviati o esitanti», N. TOMMASEO, Dell’Italia, cit., Parte II, p. 135.

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bellezza, nel quale moralità, etica, integrità stanno tutti dalla parte italiana mentre la civiltà

francese è sinonimo di corruzione e degrado.

Nei Pensieri sulla Rivoluzione di Francia, tutta la storia francese viene vista come un progressivo

percorso verso la decadenza e la rovina; nell'epoca contemporanea, figlia della Rivoluzione,

proiettata verso un percorso di rovina e disfacimento, si possono vedere tutti i fermenti e le idee

distruttive «sordamente accolte per via sotterranea, scoppiare in Francia, quasi per aperto cratere,

e su tutta Europa versarsi od in fumo tetro o in minacciosa favilla»81. Ben lontana dall'essere un

faro di civiltà, la Francia, laica e rivoluzionaria, rappresenta per Tommaseo il culmine della

decadenza: «Dagli uomini, dalle idee, dalle istituzioni di Francia nulla è da sperare di bene:

credetelo»82; «La Francia va a rotoli e guai a chi s'appoggia a questa canna spezzata»83 scriveva a

Cesare Cantù, dopo averlo più volte dissuaso dal proposito di recarsi a Parigi e in una lettera a

Gino Capponi, quasi a corollario di tanti giudizi sulla Francia, Tommaseo ripeteva che a Parigi

gli piaceva chiudersi in camera ed «esiliarsi di Francia»84.

L’identità italiana si costruisce quindi per Tommaseo,attraverso la memoria linguistico-letteraria,

nella contrappozione culturale e etica alla Francia, e infine come entità autonoma ma inscindibile

dalla nazione europea. Il confronto con l’Europa è infatti un momento fondamentale per la

definizione di un’identità italiana.

All’Europa significativamente è dedicato il primo capitolo del trattato Dell’Italia85 che inizia con

queste parole: «Senza la libertà, senza la pace d’Italia, non avranno i popoli che la circondano

libertà piena né pace onorata»86. Italia e Europa hanno una storia comune e si definiscono nel loro

rapporto reciproco; «l’eredità della memoria» è fondamentale per uno sviluppo etico e sensato,

81. ID., Dell'Italia, cit., Parte I, p. 4.82. Il primo esilio di Nicolò Tommaseo, cit., p. 6.83. Ivi, p. 115.84. Lettera a Gino Capponi, in N. TOMMASEO E G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, cit., vol. I, p. 113. Sempre in una lettera a Capponi, Tommaseo ironizzava sull'ospitalità francese, costruendo un curioso gioco di parole. Per un'iscrizione su una moneta con l'effige di Dante offerta dal direttore Pescantini ai lettori dell'Esule, Tommaseo propone l'iscrizione ambigua «Ai francesi ospitabili» invece di «ospitali», giocando sull'uso ambiguo di «ospitabili» sostantivo o aggettivo e concludeva ironicamente: «Insomma: esule, lotto, Francia, quattrini, Pescantini, Dante: bellissima associazione di idee»: N. TOMMASEO e G. CAPPONI, Carteggio inedito, cit. vol. I, p. 213-4.85 La prima edizione di Dell'Italia uscì a Parigi nel 1835 col titolo Opuscoli di Girolamo Savonarola; sulle circostanze della stesura del trattato si veda ora la postfazione di F. Bruni alla recente ristampa anastatica dell’edizione del 1920-1921, cit., pp. 3-28.86 Ivi, p. 3.

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che si oppone al degrado e all’anarchia che minacciano l’Europa stessa e quando Tommaseo

nelle Memorie poetiche87 trascrive il manifesto programmatico di una raccolta poi non realizzata

di opere della letteratura italiana, definisce tale raccolta come «un frammento della istoria

generale dell’europea civiltà». Italia e Europa sono quindi associate in virtù di una memoria

comune, di una comune eredità culturale che si definisce all’interno di un umanesimo cristiano

per il quale storia, religione e cultura sono inscindibili.

Da qui l’importanza dell’educazione per superare il degrado politico che è prima di tutto

religioso, filosofico e morale; l’educazione permette di salvare la memoria culturale senza la

quale è impossibile la costruzione di alcun progetto unitario e di alcuna convivenza pacifica.

Tommaseo mostra quindi, anche nelle riflessioni del Dell’Italia spesso polemiche e

tendenzialmente enciclopediche nel loro tentativo di definire a tutto campo le condizioni del

futuro stato italiano, una vocazione unitaria umanistica di grande respiro, una considerazione del

problema nazionale articolata e mai scissa da un più ampio contesto europeo e mediterraneo che

per Tommaseo è non solo riferimento storico ma anche vicenda personale. L’esilio costituisce

quindi in questo contesto un osservatorio di grande modernità sulla storia contemporanea e sui

significati da attribuire a patria, nazione, Italia, Europa.

L’ «esilio pensato»

Ma c’è un’appendice a questo discorso sul dispatrio, un’ulteriore riflessione sull’esilio che si

conferma una condizione sacrale e di purezza, grazie alla quale l’uomo, e in particolare il

cittadino, può dire la verità e può assumersi delle responsabilità civili.

Nel componimento che Tommaseo scrive in Corsica, prima di tornare in Italia, l’esilio è

confermato occasione di crescita intellettuale e morale: «La terra d’esilio avrà gran parte / de’

miei pensier; che nell’esilio crebbe / l’anima pellegrina: e sa d’amaro, / ma nutre forte il pan della

sventura»88. Nella stessa poesia (v. 79) egli definisce se stesso un «poeta errante», dove è chiaro il

riferimento a un’erranza, fortemente connotata dal punto di vista letterario, che non è solo

geografica ma essenzialmente metaforica e morale ed è quindi un elemento positivo che

sottintende una dimensione continua di ricerca, di dubbio, e quindi di crescita, attraverso quello

che con linguaggio biblico viene definito «il pane della sventura».

Ma sull’esilio, oltre alle testimonianze analizzate, esiste anche un documento interessante che è il 87 N. TOMMASEO, Memorie poetiche, cit. p. 296.88 A Stefano Conti d’Ajaccio, vv. 33-36, in Opere, vol. 1, p. 20.

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commento agli Scritti di Giovita Scalvini raccolti da Tommaseo nel 186089. Scalvini aveva

affidato a Tommaseo i suoi scritti, tra cui dei quaderni di appunti non datati scritti dal 1808 alla

morte, che Tommaseo pubblica dividendoli per ambiti tematici; uno di questi è dedicato

all’esilio. L’edizione è corredata da una biografia dettagliata di Scalvini e da osservazioni scritte

da Tommaseo che riguardano l’esperienza politica e soprattutto esistenziale dell’amico; si

trattava di un omaggio a una memoria postuma che rientra nella consuetudine risorgimentale di

celebrare la memoria dei patrioti, di recuperare la storia dei singoli, spesso segnata dal sacrificio

personale e dalla dedizione, anche tragica, alla causa italiana. Lo scrittore parla in questa

occasione dell’esilio in generale e lo considera dal punto di vista del «rimpatrio», del ritorno a

casa, un ritorno che è stato tragico per Scalvini così come per molti altri perché contrariamente

alle aspettative inaugura una nuova fase di esclusione, ancora più drammatica perché avviene in

patria. L’esule che torna dopo tanti anni di lontananza non ritrova ciò che ha lasciato non solo da

un punto di vista familiare e affettivo, ma anche da un punto di vista politico e sociale; egli

diventa presto un escluso perché la sua esperienza è dimenticata e non è riconosciuta dalle nuove

generazioni90; la lingua in particolare è un segno esplicito di sconfitta e esclusione, doppiamente

sottratta all’esule, al momento dell’esilio e al momento del ritorno quando egli si accorge che

nella sua assenza «certe idee e parole, già fresche di giovanezza, invecchiarono; altre, già segreto

di pochi, diventarono trite e triviali o per ripetizione stolida o per peggior abuso»91.

Nella mente dell’esule si affollano oscurità, confusione di giudizio; la fine dell’esilio «può essere

cominciamento di prova più amara»92; non esiste insomma alcun risarcimento per l’esule che

dopo essersi sacrificato per la patria vive una nuova stagione di esclusione e isolamento, ancora

più tragica perché avviene in patria. Tommaseo scrive esplicitamente di voler presentare

l’esperienza di Scalvini accompagnata da meditazioni sull’esilio a vantaggio di «coloro stessi che

si trovano esuli tuttavia dall’Italia nel bel mezzo d’Italia, e che, per onorata e consolata che

abbiano la vita, non riposano sopra un letto di fiori, né possono guarentire a sé stessi che la patria

riacquistata non faccia ad essi un giorno desiderare amaramente l’esilio»93. E’ insomma una sorta 89Scritti di Giovita Scalvini ordinati per cura di Niccolò Tommaseo, cit.90 «Altra sventura a lui toccò, e non a lui solo; e anco questa è una delle moralità del presente libro, propria a non molti, ma forse più dolorosa a chi tocca: che nell’esiglio lungo tra genti di sentire e di abiti troppo diversi, gli si indebolì per quasi invincibile necessità il sentimento di quelle cose tra le quali egli era stato allevato», ivi, p. XV.91 Ivi, p. 225.92 Ivi, p. 221.93 Ivi, p. 219.

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di monito al disincanto, una desacralizzazione dell’esilio come esperienza storica e politica,

legata, nonostante l’enfasi e la retorica patriottica, a una brevissima stagione presto cancellata

dalla storia.

Tommaseo insiste quindi ancora a distanza di anni sulla natura non eroica e drammatica

dell’esilio, che va considerato quindi senza alcuna retorica patriottica; l’esilio va considerata

un’esperienza soprattutto morale e intellettuale; quella dell’esule è essenzialmente una maschera

di integrità e purezza che lo scrittore indossa e costruisce per poter dire la verità e diventare il

portavoce riconosciuto dei patrioti italiani.

Direi anzi che Tommaseo compie una contaminazione tra significati e esperienze diverse: da un

lato nella sua scrittura egli utilizza il significato letterale di esilio, cioè di lontananza dalla patria

per motivi di libertà politica, che lo riguarda in prima persona e che è all’origine di tanta

produzione anche poetica redatta su toni patetico-nostalgici o di denuncia; dall’altro però su

questo dato biografico si inseriscono altri significati metaforici, sicuramente desunti in parte dalla

tradizione letteraria (da Cicerone a Seneca al già ricordato Dante), che rinviano ad identità

diverse: l’esule puro, sacro, profeta (nei libri di Dell’Italia), assorto nell’orgoglio per la sua

integrità etica e morale, assume maschere che lo liberano da ogni contingenza, sono anche

paradossali (il paradosso è espatriarsi per poter parlare rettamente della patria) ma diventano

necessarie nell’opera dell’autore che alla fine della sua carriera letteraria e politica può definirsi,

nel Testamento letterario, con un uso spregiudicato del termine, «esule in casa mia»94, dove

l’espressione è intesa come sinonimo di «concittadino di più nazioni», a sottolineare le

potenzialità dello sguardo deviato che si arricchisce proprio nella pluralità di prospettive.

94 N. TOMMASEO, Mio testamento letterario, in Opere, cit., vol. II, p. 374.

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