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Avv. Luigi Maria Sanguineti Il diritto civile ragionato 98 lezioni ragionate per agevolare la preparazione agli esami/concorsi Quinta edizione

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Avv. Luigi Maria Sanguineti

Il diritto civile ragionato

98 lezioni ragionate per agevolare la preparazione agli esami/concorsi

Quinta edizione

Collana “Il diritto ragionato” a cura dellaEnciclopedia giuridica del praticante

(www.praticadiritto.it)

Indice

Prefazione Pag. 7

Libro primo: Interesse dello Stato che nessun bene costituente la ricchezza nazionale resti inutilizzato. » 9

1 – L’interesse dello Stato allo sfruttamento ottimale dei beni » 112 – La gestione degli affari altrui » 143 – Cenni sulla dichiarazione di assenza e di morte presunta » 214 –Arricchimento senza giusta causa » 235 – Il possesso » 326 - La tutela giudiziaria : la “azione” di reintegrazione e la “azione” di manutenzione

7/8 – Usucapione » 49

9 – I diritti reali » 5810 –L’onere della prova nell’azione di rivendicazione » 6411 – In facultativis non datur praescriptio » 6712 – La prova nell’ambito dell’azione di regolamento di confini » 6813 – Le servitù prediali » 6914 – Comunione » 7415 – (Continuazione) Condominio di edifici » 84

Libro secondo: Dei vari tipi di obbligazione » 87

1 – Debiti pecuniari e principio nominalista. Debiti di valore e di valuta » 89

2 – Obbligazioni in solido » 953 – Obbligazioni divisibili e indivisibili » 1024 – Novazione oggettiva » 1085 – Delegazione » 1176 – Cessione di crediti » 1217 – Accollo » 1268 – Cessione del contratto » 1309 – Contratto a favore di terzi » 13410 – Pagamento su surrogazione » 138Libro terzo: Dei contratti in generale Pag. 145

1 – La funzione sociale del contratto » 142 - Obbligo di informare la controparte degli errori in cui sta per cadere3 - L'errore-vizio del contratto. Individuazione della parte che ha diritto che il

contratto abbia il contenuto da lei voluto

4 - La condizione di efficacia del contratto viziato da errore : la non riconoscibilità dell'errore

5. Quando il legislatore ritiene “essenziale” un errore

5bis – (Continuazione) I vizi del consenso causati da dolo » 1615ter – (Continuazione) I vizi del consenso causati da violenza » 1666 – L’interpretazione del contratto » 1717 – La tutela del patrimonio dell’incapace. Premessa » 1788 – L’incapacità naturale » 1819 – La nullità del contratto » 18310 – Possibili cause della nullità di un contratto: illiceità,

della causa, dello oggetto » 18611 – Della rescissione del contratto » 19512 – La condizione … » 20113 – La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità » 20914 – Dell’impossibilità sopravvenuta » 21715 – La diligenza nell’adempimento … » 22116 – I rimedi dati contro l’inadempimento » 22617. Noterelle sul risarcimento dei danni da fatto illecito » 230

Libro quarto: Diritto di famiglia » 243

Sezione prima: La fonte dei diritti e degli obblighi tra i coniugi: il matrimonio.Le condizioni per la sua celebrazione, la sua nullità. » 245

Lezione I: Premessa: perché il Legislatore tutela l’istituto famigliare » 245Lezione II: Le condizioni per poter contrarre matrimonio.

La nullità di questo » 251Lezione III: L’annullamento del matrimonio:

come il Legislatore cerca di evitarlo » 257Lezione IV: Breve commento agli articoli che prevedono

la nullità del matrimonio » 261

Sezione seconda: Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio » 284Lezione V: Gli obblighi, alla fedeltà, all’assistenza, alla collaborazione,

alla coabitazione » 284Lezione VI. L’obbligo di contribuzione » 296

Sezione terza: Disposizioni generali sui regimi patrimoniali –Il regime della separazione dei beni. » 304Lezione VII: Disposizioni generali » 304Lezione VIII: Il regime della separazione dei beni » 312Sezione quarta: La comunione legale Pag. 322Lezione IX: L’oggetto della comunione legale » 322Lezione X: L’amministrazione della comunione » 345Lezione XI: Le obbligazioni » 359Lezione XII: Lo scioglimento della della comunione » 368Lezione XIII: La divisione » 378

Sezione quinta: Comunione convenzionale dei beni – Fondo patrimoniale » 384Lezione XIV: La comunione convenzionale dei beni » 384Lezione XV: Il fondo patrimoniale » 390

Sezione sesta: Rapporti tra genitori e figli. » 395Lezione XVI: Rapporti tra genitori e figli – Premessa » 395Lezione XVII: L’individuazione del genitore biologico » 401

Lezione XVIII: Diritti e obblighi reciproci dei genitori e dei figli » 414Lezione XIX: L’adozione » 432

Sezione settima: Separazione e divorzio » 438Lezione XX: Cause giustificative e iter della separazione e del divorzio » 438Lezione XXI: Diritti e doveri dei coniugi dopo la separazione, in

mancanza di figli » 451Lezione XXII: La separazione in presenza di figli » 462Lezione XXIII: Il divorzio » 470Lezione XXIV: I patti tra coniugi » 479

Sezione ottava: Le alternative al matrimonio » 484Lezione XXV: Le Unioni civili » 484Lezione XXVI: La convivenza » 487

Libro quinto: Diritto ereditario » 491

Lezione I: I criteri per la scelta degli eredi » 493Lezione II: Accettazione e rinuncia dell’eredità » 501Lezione III: Eredità giacente. Poteri di vigilanza e

di amministrazione del chiamato all’eredità » 517Lezione IV: Diritto del chiamato all’inventario. Accettazione coatta.

Accettazione con beneficio di inventario » 525Lezione V: Della separazione dei beni del defunto » 540Lezione VI: Petitio hereditatis » 548Lezione VII: Rappresentazione – Accrescimento – Sostituzione » 556 Lezione VIII: Revocabilità della dichiarazione testamentaria –

I patti successori » 569Lezione IX: I legittimari – L’azione di reintegra della quota loro

riservata. Pag. 573Lezione X: Limiti alla volontà testamentaria – Condizioni –

Termini – Oneri » 581Lezione XI: Capacità di disporre per testamento. Forma di questo » 592Lezione XII: La divisione e il suo presupposto: la comunione ereditaria » 598 Lezione XIII: La divisione (continuazione): L’attribuzione, alle

quote, dei beni ereditari » 601

Lezione XIV: La divisione (continuazione): Le “imputazioni”, i “prelevamenti” » 605

Libro sesto: Miscellanea: Donazione – Tutela diritti » 609

Titolo I: La donazione e le obbligazioni naturali » 611Lezione I: La donazione » 611Lezione II: Le obbligazioni naturali … » 616

Titolo II: La tutela dei diritti » 621Lezione III: Espropriazione ed esecuzione in forma specifica » 621Lezione IV: Tutela e autotutela dei diritti … » 624Lezione V: Potere del debitore di disporre liberamente del suo

patrimonio » 626Lezione VI: Par condicio creditorum … » 627Lezione VII: L’ipoteca … » 628Lezione VIII: Il pegno » 632lezione IX: I privilegi » 635Lezione X: Dell’azione surrogatoria e revocatoria: premessa » 638Lezione XI: L’azione surrogatoria » 639Lezione XII: L’azione revocatoria … » 641Lezione XIII: Divieto del patto commissorio » 645Lezione XIV: L’inammissibilità di limiti alla responsabilitàpatrimoniale del debitore … » 64

Libro settimo:“Distanze” e parti comuni in un condominio spiegate con disegni » 651

Titolo 1: Commento ai disegni sulle “distanze” » 653

Titolo 2: Commento ai disegni sulle parti comuni in un condominio » 662

Appendice contenente i disegni » 667

Prefazione alla quinta edizione

Il libro, che con le presenti righe offro alla lettura, deriva, si può dire al ottanta per cento, dal compattamento di alcuni miei altri precedenti libri, che sono stati pubblicati in un arco di tempo che va dal 2011 al 2014, ma che io, in questa quinta edizione, ho cercato di aggiornare tenendo conto delle modifiche intervenute in sede legislativa fino ad oggi.

Da qui la diversità di stile che caratterizza le diverse parti del libro: alcune sono dialogate, altre, no; alcune sono fornite di note, altre, no.

La mia ambizione era di fare un’Opera che facilitasse, con una esposizione semplice e chiara, la comprensione dell’ardua materia civilistica. Mi sarebbe piaciuto a tal fine intercalare nel discorso anche disegni (e addirittura filmini: scandalo!!!). Di questa idea il lettore troverà nella parte VII un principio di attuazione, limitato alle “distanze” e alle parti comuni di un edificio condominiale; avevo anche raccolto disegni e fotografie per illustrare, come si costruisce un contratto per atto pubblico, come si fa una ricerca ai registri immobiliari, come si presenta una “visura”, un certificato catastale, una “mappa”, ma poi, preso da stanchezza, ho lasciato perdere.

La mia speranza é che uno Studioso, non conformista e dotato di spirito innovatore, accetti di sobbarcarsi il compito di ultimare l’Opera lasciata da me incompiuta. Se tale Studioso esiste, mi contatti (la mia email é: [email protected]). La mia intenzione sarebbe di fare un passo indietro e di lasciare il volenteroso libero di completare l’Opera come meglio crede; e, naturalmente, di accettarlo come coautore e di dividere con lui gli utili.

LIBRO I

Interesse dello Stato che nessun benecostituente la ricchezza nazionale resti inutilizzato

I. L’interesse dello Stato allo sfruttamento ottimale dei beni.

Doc. Lo Stato, qualsiasi Stato, sia rosso, verde o nero, ha interesse che mercati e negozi siano ben riforniti dei beni, di cui la popolazione desidera fruire e godere. Quindi ha interesse che i campi non siano lasciati incolti e ferme non siano lasciate le macchine delle fabbriche.Questo perché l’aumento della ricchezza nazionale é per uno Stato un aumento di potenza (aumentando la ricchezza, aumenta il prelievo fiscale e quindi i soldi e quindi i mezzi con cui lo Stato può attuare i suoi scopi); e, a parte questo, una popolazione soddisfatta é, per uno Stato, una forza e una sicurezza (le pance piene non fanno rivoluzioni).E allora il problema: a chi affidare la gestione dei beni costituenti gli strumenti per aumentare la ricchezza nazionale? Questo problema, é noto, viene dal nostro stato risolto con l’articolo 42 della Costituzione, che recita: “La proprietà privata é pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.La proprietà privata é riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.I modi con cui i beni vengono distribuiti tra i vari soggetti, di cui parla il primo comma dell’art.42 or ora citato, sono detti dall’articolo 922 del Codice civile, che recita:

“Modi di acquisto (della proprietà) – La proprietà si acquista per occupazione (923 ss.), per invenzione (927 ss.), per accessione (934 ss.), per specificazione (940), per unione e commistione (934 ss., 939), per usucapione (1158 ss), per effetto di contratti (1321 ss., 1376 ss.) per successione a causa di morte (456 ss,470 ss), e negli altri modi stabiliti dalla legge (1153 ss)”.(I numeri che seguono ai vari “modi di acquisto” si riferiscono agli articoli del codice civile che li disciplinano e sono stati da noi messi per permettere allo studioso una prima ambientazione nella sistematica del codice).E’ noto che lo Stato dà al soggetto, a cui ha attribuito in proprietà un bene, l’esclusivo godimento del bene stesso, contando così che egli da ciò sia pungolato a disporre di questo bene per renderlo al massimo grado produttivo e godibile.Questa esclusività, che il Legislatore riserva al proprietario nel godimento e nella disposizione del bene, risulta evidenziata nell’articolo 832 del C.C., che così definisce il contenuto del diritto di proprietà: “ Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

Disc. Sì, ma qual’é il perché di questa esclusività nel potere di disposizione di un bene?

Doc. Il perché é che due poteri assoluti di disposizione su una stessa cosa si bloccherebbero e paralizzerebbero a vicenda: Tizio vuole coltivare il campo a grano, Caio lo vuole coltivare a segala: il campo rimane incolto.

Disc. Però il legislatore pone dei limiti ai poteri del proprietario.

Doc. Sì, non é che il diritto di proprietà é quello che dà al suo titolare tutti i possibili e immaginabili poteri sulla res; no, esso é semplicemente quel diritto che dà al suo titolare il massimo di poteri su una res, che il legislatore ritiene di conferire a una persona. Il diritto di proprietà é semplicemente tra gli iura in re (i vari tipi di diritti di disposizione e godimento di una cosa che, come ci riserviamo di vedere meglio in seguito, lo Stato ritiene possibili) quello che conferisce al suo titolare i maggiori poteri.

Disc. Ma i limiti che il legislatore pone ai poteri del proprietario da che cosa sono dettati.

Doc. Possono essere dettati dalle più varie considerazioni (alla volontà del legislatore, almeno alla volontà del legislatore costituzionale, non si possono mettere restrizioni). Ma qui riteniamo opportuno far notare che la massima parte di tali limiti sono posti nell’interesse della stessa classe dei proprietari. Mi spiego meglio con un esempio: il legislatore fa obbligo al proprietario Tizio di permettere l’accesso nel suo fondo al vicino, Caio, che ne abbia necessità per riparare un muro (vedi meglio l’art. 843), e questo é senz’altro un limite posto a Tizio nel godimento del bene; però é un limite che giova anche a Tizio, dato che anche questi può trovarsi, per compiere delle riparazioni al suo fondo, nella necessità di accedere in quello del vicino.

Disc. Tu hai detto che il legislatore conferisce a una persona, a Tizio, la libera disponibilità di un bene (meglio, la più libera disponibilità compatibile con l’interesse pubblico), nella speranza che questi renda al massimo produttivo un bene; ma se questa speranza é mal riposta, se Tizio per nulla si occupa del bene, per nulla lo rende produttivo?

Doc. A questa domanda Ti risponde l’articolo 838, che recita: “ (…..) quando il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte dell’autorità amministrativa, premesso il pagamento di una giusta indennità”.

Disc. Il Legislatore ci va cauto prima di ordinare la espropriazione dei beni che il proprietario non si cura di gestire; io sarei più drastico: “Tu, proprietario di un terreno, non lo coltivi? Te ne esproprio”.

Doc. E facendo così....faresti il danno dell’economia nazionale, dato che é fisiologico che chi possiede un patrimonio sia costretto a trascurare la gestione di un bene che lo compone: Tizio ha due campi: il campo A e il campo B; ma non ha i soldi per gestire convenientemente tutti e due i campi (o non ha braccia tanto forti da coltivare tutti e due campi): ha bisogno che la coltivazione del campo A gli renda tanto da poter investire, col suo reddito, anche nella coltivazione del campo B (o che il figlio ancora bambino cresca tanto da aiutarlo nella coltivazione del campo B). Se tu non gli dai tempo e respiro, qualsiasi mastro Don Gesualdo, che come una bestia lavora per accumulare un patrimonio, sarebbe da ciò disincentivato dal pericolo di essere espropriato di uno o più beni da lui così faticosamente acquisiti, solo che si trovasse

in temporanea difficoltà di gestirli.

II. La gestione di affari altrui.(Attenzione, le note sono in calce al paragrafo)

Abbiamo visto nella precedente lezione che il Legislatore attribuisce al proprietario di un bene il potere esclusivo di disporne: solo tu, Tizio, proprietario della casa A con annesso terreno circostante, puoi decidere, se coltivare questo, se riparare il tetto di quella, se pitturarne le facciate in rosso o in giallo.E qui possiamo aggiungere che, nel secondo comma di un altro importante articolo del codice, l’articolo 1372, il legislatore stabilisce che “il contratto non produce effetto rispetto ai terzi (….)”.Cosicché si può affermare l’esistenza nel nostro Ordinamento di un principio che vieta l’ingerenza negli affari altrui. E la ragion d’essere di tale principio noi già la abbiamo, sia pure marginalmente, detta: evitare una paralisi nella gestione dei beni costituenti la ricchezza nazionale - paralisi che, nata dai possibili conflitti nella gestione, di coloro che vi fossero contemporaneamente ammessi, finirebbe per diminuire, di tali beni, l’ottimale sfruttamento e godimento.Però ci sono dei casi in cui l’ingerenza di un terzo nella gestione di un affare altrui, giova, anziché nuocere, all’economia nazionale: esempio classico: la casa di Tizio brucia, e Tizio si trova nell’interno dell’Africa a cacciare tigri ed elefanti: vogliamo dire a Caio, che generosamente sarebbe disposto a combattere contro il fuoco, “Stop, non puoi il violare il sacro principio che solo il proprietario può gestire le sue cose; e se lo violi, guai a te, rischi di incorrere addirittura nei rigori della legge penale (ad esempio, rischi di incorrere nei rigori dell’articolo 635 Cod. Pen. sul danneggiamento, se sfondi una porta per impossessarti di un attrezzo o se calpesti le aiuole dei fiori) e naturalmente, se provochi danni, li devi risarcire”?

Disc. No, di certo: si cercherà invece di incoraggiare Caio a intervenire. Prima di tutto assicurandolo che non incorrerà in nessuna responsabilità penale e civile anche qualora non esistessero gli estremi dello stato di necessità (art. 54 Cod.Pen) (1): “Tranquillo, Caio, vai pure a spegnere l’incendio, perché così facendo eserciti un “diritto” che la legge ti dà, ciò che ti esenta, per l’articolo 51 C.P. (2), dalle sanzioni penali previste dal reato di danneggiamento e, per la mancanza del requisito della “ingiustizia” del danno, dall’obbligo di risarcimento previsto dall’Art. 2043”.(3)In secondo luogo, riconoscendogli un rimborso e un risarcimento per le spese e i

danni da lui nell’occasione subiti.

Doc. Bravissimo, ma meno bravo del legislatore il quale si fa carico non solo di escludere una responsabilità penale o civile del “gestore” (tale la veste giuridica che verrebbe a rivestire il Caio del tuo esempio) in base agli articoli da te con tanta encomiabile precisione citati, non solo si fa carico (nell’articolo 2031, che subito andremo a leggere) di tenere indenne il gestore dalle spese, ma, pensando al caso che il “gestore” abbia stipulato dei contratti per ben gestire l’affare dello “interessato” o “gerito” come si preferisca chiamarlo, insomma di Tizio, fa obbligo a questi di adempiere le obbligazioni che Caio con il contratto ha assunte.

Disc. Ma perché mai il gestore dovrebbe trovarsi nella necessità di stipulare dei contratti?

Doc. Ma perché i casi in cui é necessaria l’ingerenza di Caio (nell’interesse di Tizio) possono essere i più vari e alcuni di essi possono ben richiedere la stipula di un contratto da parte del gestore. Pensa al caso in cui, nell’assenza di Tizio, occorra stipulare un contratto di appalto per riparare un tetto o un muro che minacciano di crollare, pensa al caso in cui Caio trova Tizio, esamine in mezzo alla strada (caso di c.d. “soccorso spontaneo”), per cui occorra noleggiare un’auto per trasportarlo all’ospedale, pensa al caso in cui Caio trova la figlioletta di Tizio piangente sotto la pioggia e in cerca di un riparo, per cui occorra farla ospitare in un albergo, pensa al caso in cui Caio per evitare un incidente con l’auto di Tizio sia costretto a una manovra di emergenza, che porta allo sfascio della sua auto, così che Caio deve stipulare un contratto con un carrozziere a che la rimetta a posto.

Disc. Ho capito, ma per chiarirmi meglio le idee vorrei leggermi la disposizione di legge, che tali obblighi, al gerito, impone: qual’è?

Doc. E’ il primo comma dell’articolo 2031, che recita: “(Obblighi dell’interessato) – Qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, l’interessato deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui, deve tenere indenne il gestore di quelle assunte dal medesimo in nome proprio e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili (….)”.

Disc. Però mi pare di capire, in base all’incipit dell’articolo da te riportato, che, se il Caio del nostro esempio non riuscisse a spegnare l’incendio, non verrebbe rimborsato

di nessuna spesa.

Doc. No, hai capito male. A che il gestore abbia diritto al rimborso delle spese ecc. basta l’utiliter coeptum, cioé che al momento in cui gli atti gestori furono compiuti essi apparissero utili: Caio ha cercato di spegnere l’incendio, ma non c’é riuscito: poco importa, ha diritto al rimborso delle spese, se c’erano buone probabilità che l’opera di spegnimento desse buon risultato.

Disc. Dunque Caio che, visto il tetto di Tizio che fa piovere in casa, incarica una ditta di ripararlo, ha diritto di essere rimborsato di quanto, a tale ditta, pagato. Ma se Caio, non ha dato l’appalto, ma, volendo fare economia, ha provveduto di persona alle riparazioni? Non avrà diritto oltre al rimborso delle spese (per calce e piastrelle ecc.), anche a vedersi pagate le ore spese per fare le riparazioni?

Doc. La logica vorrebbe una risposta positiva alla tua domanda, ma secondo alcuni Studiosi ne impone invece una negativa la necessità di evitare il pericolo delle così dette “spese imposte”: Tizio fa il muratore e si trova disoccupato, se vede la facciata della casa di Tizio che avrebbe bisogno di una bella imbiancatura, sarebbe probabilmente tentato di mettersi, lui, a darle il bianco, qualora sapesse che la sua fatica troverebbe una renumerazione, ma ci penserebbe due volte, qualora non avesse a sperare altro che il rimborso delle spese.

Disc. Certo, tenere conto dell’esigenza di evitare le “spese imposte” é cosa fondamentale nella disciplina della “gestione di affari altrui”: ogni persona deve essere libera nella scelta delle spese da fare e tu ne hai ben spiegato il perché nella precedente lezione. E certo tale esigenza trova una sua tutela nel limite posto alla liceità della gestione dal requisito dell’utiliter coeptum e, come or ora tu mi hai spiegato, dall’esclusione di un compenso al gestore. Però una tutela insufficiente; che non impedirebbe, per esempio, a Caio, a cui dispiace vedere maltenuta la facciata della casa del vicino Tizio (anche per ragioni economiche: la vicinanza di una casa brutta svalorizza anche una casa bella) di dare l’appalto di rifare tale facciata a una ditta e poi....di presentare il conto a Tizio.

Doc. E’ così; ed effettivamente ulteriori limiti vanno apposti alla gestione di affari altrui, - limiti ricavabili, con una interpretazione sistematica, basata soprattutto sul primo comma dell’articolo 2028 e sul secondo comma dell’articolo 2031 del Codice Civile, ma anche sull’articolo 54 Cod. Pen., 48 Cod.Civ., 54 Cod.Civ.

E io ritengo che, a conclusione di tale lavorio interpretativo, si possa dire che presupposti di una valida gestione d’affari altrui sono i seguenti: I - Primo presupposto: il difetto di un divieto, esplicito o implicito, dello “interessato”. Tale presupposto si argomenta dal secondo comma dell’articolo 2031, che recita: “Questa disposizione (idest, la disposizione contenuta nel primo comma dell’articolo, che dà diritto al gestore di ottenere un rimborso spese ecc.) non si applica agli atti di gestione eseguiti contro il divieto dell’interessato, eccetto che tale divieto sia contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. E’ vero che la disposizione or ora riportata si limita, presa alla lettera, solamente ad escludere il diritto al rimborso delle spese, ma essa va chiaramente interpretata in senso estensivo, nel senso cioé che escluda tout court il “diritto” di gestire un affare altrui contro il divieto dell’interessato (con la conseguenza che Caio, il quale, contro il divieto del dominus Sempronio di potare gli alberi del suo giardino, in questo entra lo stesso, non solo non avrà diritto a un rimborso delle spese incontrate nella potatura, ma sarà responsabile dei reati e degli illeciti civili che, per eseguire la potatura, fosse venuto a commettere (si pensi al reato di violazione di domicilio – art, 614 C.P – per essere entrato nelle “appartenenze” di un luogo di privata dimora, così com’è considerato un giardino). II- Secondo presupposto: la c.d. absentia domini, intesa però in senso lato, come impossibilità dell’interessato a gestire l’affare (metti perché malato o all’estero). Questo presupposto si argomenta dal primo comma dell’articolo 2028, che recita: “Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, é tenuto a continuarla e a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso”.III -Terzo presupposto: la “attualità” della gestione, nel senso che questa, se procrastinata, potrebbe non risultare più utile. In altre parole, fino a che si può sperare che la cessazione della absentia dell’interessato avvenga in tempo per permettergli di decidere, lui direttamente, sull’opportunità di gestire l’affare, la gestione del terzo é inammissibile. Questo presupposto si argomenta (sia pure facendo un po’ di violenza alla logica) dal primo comma dell’articolo 51, che recita: “Non é punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (…)”.IV- Quarto presupposto: la gestione deve apparire utile. Questo presupposto, come abbiamo già avuto occasione di vedere, risulta dall’incipit del primo comma art. 2031.V – Quinto presupposto: la gestione deve mirare solo alla conservazione del patrimonio (o, naturalmente, della vita dell’interessato o di un suo parente verso cui

questi ha un obbligo di assistenza: sua moglie, suo figlio). Caio non ha diritto a provvedere nella absentia di Tizio a costruire nel giardino di questi una piscina (ancorché l’esistenza di una piscina possa valorizzare il giardino e quindi possa considerarsi come utile), ma ha, questo sì, diritto a riparare il tetto (della villa di Tizio) che rischia di andare in rovina. Questo presupposto si ricava dalla parte finale dell’articolo 48 C.C., che, in caso di “scomparsa” di una persona (e, bada, il caso della scomparsa di una persona é, rispetto ai casi previsti dall’art. 2028, un caso più grave e che di per sé autorizzerebbe una più forte ingerenza nei suoi affari), dà, sì, all’autorità giudiziaria il potere di adottare provvedimenti nell’interesse dello scomparso, ma solo se “necessari alla conservazione del patrimonio dello scomparso”.Va da sé che, essendo vietate le gestioni non miranti alla conservazione del patrimonio dello “scomparso”, sono con ciò stesso vietati gli atti di alienazione dei suoi beni (atti che vengono autorizzati, ma con particolari cautele, solo nel caso di uno “scomparso” di cui sia dichiarata la “assenza” - vedi meglio l’art. 49 e l’art. 54).VI- Sesto presupposto: la scientia aliena negotia gerendi, la consapevolezza cioé di stare gerendo un affare altrui e nell’interesse altrui (se Caio si mette a riparare il tetto della casa sapendo che questa é la casa, non sua, ma di Tizio, però fa questo solo perché, preso possesso (abusivo) della casa, vuole dormirci senza che vi piova dentro, non si rientra nell’ipotesi che sto facendo). Questo presupposto (della scientia aliena negotia gerendi) si ricava dall’incipit dell’articolo 2028, e dà la giustificazione di due, diciamo così, vantaggi che il legislatore concede al “gestore”: il vantaggio di essere rimborsato delle spese (vedi meglio, il primo comma art.2031) anche nel caso che la gestione iniziata utilmente, alla fine non si riveli utile e il vantaggio di vedere “moderato il risarcimento dei danni” (vedi il secondo comma dell’art. 2030) conseguenti a un difetto di quella diligenza che, come detto prima, il dominus negotii avrebbe avuto diritto di pretendere da un suo mandatario.

Disc. Quindi non é vero che il gestore, come prima tu hai detto, è esentato dal risarcimento dei danni, da lui provocati durante la sua gestione.

Doc. Effettivamente avrei dovuto chiarire. Bisogna distinguere: il gestore é esente dal risarcimento di quei danni che qualsiasi mandatario, ancorché diligente, avrebbe causato nel contesto della gestione dell’affare (Caio per arrivare prima dove si é sviluppato l’incendio, calpesta un’aiuola di fiori). Mentre é tenuto al risarcimento dei danni, che un diligente mandatario non avrebbe causato (Caio nel potare un ramo che minaccia di cadere, calpesta per distrazione i fiori). In questo secondo caso, però, il

giudice può “moderare” l’ammontare del risarcimento da lui dovuto.

Disc. Dalla citazione del primo comma dell’articolo 2028, che tu prima hai fatta, sembrerebbe doversi dedurre che dalla gestione di affari altrui derivano, non solo diritti, ma anche obblighi.

Doc. E’ così. Dalla “gestione” deriva, non solo, come abbiamo or ora visto, un obbligo di eseguirla con la stessa diligenza che si richiede a un mandatario, ma anche l’obbligo “di condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso”.

Disc. Ma perché vincolare, chi ha iniziato a compiere una buona azione... a continuarla (chi mai penserebbe di obbligare Tizio, che ha dato l’elemosina di dieci, a continuare a dare. ..l’elemosina di dieci? ).

Doc. Ma perché certe volte una buona azione, se non continuata, rischia di trasformarsi in una....cattiva azione. Io vedo Sempronio sanguinante sull’asfalto e mi fermo per dargli assistenza: Caio, un altro utente, della strada che, se avesse visto Sempronio bisognoso di assistenza si sarebbe fermato, vedendolo assistito tira dritto. Di conseguenza se a un certo punto io, guardo l’orologio, vedo che faccio tardi a un appuntamento e ….. pianto in asso il povero Sempronio, si può ben dire che io, assumendo in un primo momento l’assistenza di questo, ho fatto, non il suo vantaggio, ma il suo danno. Un danno che dovrò risarcire. Vi é inoltre da considerare che Caio, che subentrasse a Tizio che ha iniziata la gestione, per bene svolgere questa dovrebbe sapere cose che solo Tizio sa (ad esempio, l’esatto contenuto del contratto di appalto da lui stipulato). Anche questo non é un buon motivo per escludere....la staffetta nel corso della gestione? per far quindi obbligo, a chi l’ha iniziata, di continuarla?

Disc. Torniamo un poco indietro. Tu prima hai detto che, presupposto di una lecita gestione, é il difetto di una prohibitio domini; ma, dall’ultima parte del secondo comma art.2031, risulta che, all’esistenza di tale presupposto, é prevista un’eccezione.

Doc. Sì, e l’eccezione prevista è data dai casi in cui la prohibitio é contraria “alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (comma 2 art. 2031).Si rientra in tale eccezione, ad esempio, nel caso che il proprietario di un muro, che

minaccia di crollare sulla pubblica via, fa divieto di ripararlo (col rischio che il muro crolli e uccida dei passanti); sempre in tale eccezione si rientra, nel caso che un padre snaturato, non solo lasci il figlioletto privo del necessario per vivere, ma faccia anche divieto a terzi di alimentarlo e soccorrerlo.La ragione dell’eccezione de qua é intuitiva: il legislatore lascia decidere al dominus negotii l’opportunità di compiere, o no, un atto di gestione, perché parte del presupposto che, la decisione di chi é il più interessato alla migliore gestione di un affare, sia anche quella che più corrisponde all’interesse pubblico. Ma tale presupposto si dimostra fallace in tutti i casi, in cui il dominus negotii non vuole compiere un atto, che lui, il legislatore, ha ritenuto conforme all’interesse pubblico (tanto da fare obbligo di compierlo). Ecco perché in un tale caso il legislatore fa una deroga al principio dell’illiceità degli atti gestori compiuti contro la volontà del dominus.

Disc. Un altro passo indietro. Abbiamo visto quali sono i presupposti per la liceità della gestione; e quindi per avere il diritto: a un rimborso delle spese che questa comporta, a una esclusione del risarcimento dei danni causati senza colpa (ancorché tali danni non si sarebbero verificati, se la gestione non fosse avvenuta), a una riduzione del risarcimento nel caso di danni causati con colpa. E tra tali presupposti tu hai indicato la scientia aliena negotii gerendi. Ma allora, Caio che ha riparato il tetto della casa di Tizio, credendo che fosse la propria casa (metti, perché egli credeva che la vecchia zia fosse morta senza fare testamento, lasciandolo così erede legittimo, mentre invece lo aveva fatto, diseredandolo a favore di Tizio) o Sempronio che, sì, in mala fede ha preso possesso della casa, però compiendovi delle riparazioni e addirittura dei miglioramenti, non possono pretendere nessun rimorso delle spese fatte?

Doc. Sì, anche nei casi da te citati - casi che rientrano nella c.d “gestione impropria”o “anomala” - il gestore (anomalo) potrebbe aver diritto a un indennizzo, ma in base a presupposti diversi da quelli prima da noi considerati. Vedremo ciò trattando dell’istituto dello “arricchimento senza giusta causa”. Però va sottolineato già da adesso, che il gestore anomalo non avrà diritto a un rimborso delle spese fatte per la gestione, se questa, non si é conclusa utilmente (quindi non sarà per lui sufficiente dimostrare lo utiliter coeptum per vantare un diritto a tale rimborso) e non avrà comunque diritto a quella “moderazione” dell’ammontare del risarcimento prevista dal secondo comma art.2030.

Disc. Quale la ragione di tale diversità di disciplina?

Doc. Evidentemente il legislatore, disciplinando l’istituto della negotiorum gestio ha avuto in mente il caso di colui che, in grado di intervenire per gestire l’affare altrui, non ha nessun interesse (egoistico) a tale intervento (come invece sarebbe il caso del vicino, che interviene a spegnere l’incendio sviluppatosi nel fondo del vicino, per impedire che il fuoco si propaghi anche al suo fondo), ma a tale intervento può essere sollecitato solo da un sentimento di altruismo; e, quindi, cerca di creare un incentivo alla “buona azione” eliminando quei timori (timore di non essere rimborsato delle spese in caso di gestione fallita, timore di dover risarcire i danni) che potrebbero costituire, al compimento di tale buona azione, altrettante remore. Giustamente, però il legislatore non ha ritenuto di creare degli incentivi alla gestione, per chi ad essa sarebbe comunque mosso da motivi egoistici.

Disc. Ma quello che tu chiami “gestore anomalo” dovrà risarcire i danni compiuti durante la gestione?

Doc. Se ritiene di gestire un affare proprio (é il caso di Tizio che si crede erede ab intestato, mentre in realtà erede é stato nominato Sempronio), no: ognuno delle sue cose é padrone di fare quel che vuole, anche di distruggerle a martellate. Potrebbe però discutersi se egli sia tenuto a un obbligo di risarcimento nei casi in cui riteneva, sì, di gestire un affare proprio, ma per ignoranza colpevole. Mutatis mutandis merita la stessa risposta il caso del gestore anomalo che, dopo aver iniziata una gestione, non la porta a termine, causando così dei danni.

Disc. Da quanto hai detto consegue che, chi causa dei danni gestendo un affare altrui sapendo che é altrui (ma agendo nel proprio interesse esclusivo) é tenuto al loro risarcimento. Ma é tenuto a tale risarcimento, anche chi gestisce un affare altrui, sapendo che é altrui, ma anche nel proprio interesse (sto pensando la caso del vicino che interviene per impedire che il fuoco si propaghi al suo fondo)? A me tale soluzione sembrerebbe ingiusta e penso che si debba evitarla applicando l’art. 2045 sullo stato di necessità.

Doc. D’accordo con te sull’iniquità di tale soluzione, ma non sull’applicabilità dell’articolo 2045 (mancando, per l’applicazione di tale articolo, l’estremo del “danno grave alla persona). Penso, però, che nella maggioranza dei casi si potrebbe giungere a escludere l’obbligo del risarcimento, applicando l’art. 2044 sulla

“legittima difesa”; dato che l’esenzione da responsabilità deve ritenersi, a mio parere, non solo quando si causi un danno all’altrui cosa per difendere la propria o l’altrui persona, ma, come si argomenta facilmente dall’art. 52 C.P., anche quando si rechi un danno all’altrui cosa per impedire un danno alla propria o altrui cosa, e anche se tale danno deriva, non da un comportamento doloso del terzo danneggiato, ma anche da un suo comportamento dovuto a semplice colpa – colpa certamente ravvisabile, salvo la prova del fortuito di cui all’art.2051, in caso di omessa custodia di una res connessa a una abesntia domini.

Note(1) Art. 54 Cod. Pen.: “ Non é punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (….).(2)Art. 51 C.P.: L’esercizio di un diritto o l’adempimento id un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”(3) Art. 2043 Cod Civ.: “ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

3 – Cenni sulla dichiarazione di assenza e di morte presunta.

Doc. Abbiamo visto come il Legislatore cerca di favorire la gestione di affari altrui (durante la absentia domini); e ne abbiamo visto anche il perché: perché vuole impedire che ciò che costituisce la ricchezza dello Stato (in primis, certo, la vita e la salute dei cittadini, ma anche i beni mobili e immobili nel Paese disponibili) resti improduttivo o addirittura si deteriori o perisca.Senonché chi pur, in via di massima, sarebbe intenzionato ad attivarsi per compiere atti gestori a favore di una persona, trova precise remore a farlo (“Sì, se io dovrò sostenere delle spese, l’interessato avrà l’obbligo di rimborsarmele, ma egli adempirà veramente a questo obbligo? meglio che sia un altro ad attivarsi”) e dei precisi limiti (egli, certo. può “assumere delle obbligazioni” “in nome” dell’interessato – obbligazioni che questi é vincolato, dal primo comma dell’art. 2031, ad adempiere, - ma non é facile trovare un terzo, che accetti di mettere la sua firma a un contratto, la cui efficacia per l’assente potrebbe essere resa dubbia da cavilli e discussioni; certo, il gestore può compiere degli atti conservativi di questo o quel bene, che gli risulta in pericolo, però non può compiere atti di alienazione – eppure la salvaguardia del valore di un patrimonio richiederebbe che un bene fosse venduto, quando la sua esistenza si rivelasse un peso morto o quando potesse essere scambiato con soldi o un altro bene, che fossero di maggior valore).La consapevolezza di tali remore e di tali limiti, spinge il legislatore a intervenire con

più decisione nei casi in cui la absentia domini diventa chiaramente patologica (il dominus negotii non é più solo “assente”, non é più solo impossibilitato a intervenire per la gestione di questo o quel suo bene, ma é “scomparso”, cioé si tratta di una persona che, come recita l’incipit dell’articolo 48, “ non é più comparsa nel luogo del suo ultimo domicilio e dell’ultima residenza e non se ne hanno più notizie”); e a intervenire concedendo sempre più ampi poteri gestori, quanto maggiore é il tempo che é passato dalla scomparsa del dominus.All’inizio gli interventi hanno carattere settoriale: qualcuno (di solito un famigliare) segnala con un ricorso la necessità di questo o di quello atto gestorio al tribunale e questi nomina un “curatore” a che (con le spalle coperte dalla decisione del tribunale e sicuro di non rimetterci le spese), tale atto gestorio, compia.Però alla reale salvaguardia di un patrimonio non bastano interventi settoriali (che permettono di riparare il tetto della casa di via Roma, ma che si dimenticano di riscuotere quanto dovuto dagli inquilini di via Garibaldi o si dimenticano di seminare il campo della valle del Chianti): occorre che vi sia chi gestisca tutto il patrimonio o almeno tutto un settore del patrimonio – pungolato a una buona gestione dalla speranza di farne suoi i frutti, e, col passare di un certo numero di anni, di diventare proprietario dei beni stessi. In considerazione di ciò il legislatore “trascorsi due anni dal giorno in cui risale l’ultima notizia” dello scomparso, ne dichiara l’assenza e immette,“ nel possesso temporaneo dei beni” di questi, i presumili eredi (vedi meglio gli artt. 49, 50).

Disc. E che dà in concreto agli “immessi” la dichiarazione di assenza?

Doc. Dà “l’amministrazione dei beni dell’assente, la rappresentanza di lui in giudizio e il godimento delle rendite” (godimento totale o parziale a seconda della “prossimità” nel grado successorio dell’immesso - vedi meglio l’art.52 e ss).

Disc. Certo però i limiti, di cui ancora soffre la gestione, non ne possono non limitare la efficacia.

Doc. E proprio in considerazione di ciò, il legislatore dà al Tribunale il potere di dichiarare la morte presunta dell’assente “ quando sono trascorsi dieci anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia” (vedi meglio l’art. 58).

Disc. E che comporta tale dichiarazione?

Doc. Comporta che “ coloro che ottennero l’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente (…) possono disporne liberamente ” (e che “il coniuge può contrarre nuovo matrimonio” - vedi meglio gli artt.63 e 65).

4. Arricchimento senza giusta causa.(Attenzione le note sono in calce al paragrafo)

Doc. Il caso di chi si é arricchito senza giusta causa é previsto e disciplinato, in via generale, dagli articoli 2041 e 2042; numerose norme poi contemplano e disciplinano casi particolari di arricchimento senza giusta causa.L’articolo 2041 - sotto la rubrica “Azione generale di arricchimento” - recita: “Chi, senza una giusta causa, si é arricchito a danno di un’altra persona é tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale.Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata,colui che l’ha ricevuta é tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda”.A sua volta l’articolo 2042 così chiarisce: “ L’azione di arricchimento non é proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.

Disc. - Veniamo al dunque, quali sono i presupposti a che Caio possa agire contro Tizio con l’azione di arricchimento generale?

Doc. Sono i cinque seguenti: 1) che il patrimonio di Tizio abbia avuto un incremento (al campo che Tizio ha in riva al fiume – faccio l’esempio con riferimento all’articolo 944 - si é aggiunto un appezzamento di terreno) (1);2) che Caio abbia subito un danno (il campo che Caio ha in riva al fiume ha perso quel appezzamento di terreno che si é andato ad aggiungere al fondo di Tizio),;3) che tra l’incremento avuto dal patrimonio di Tizio e il danno subito da Caio (per la perdita dell’appezzamento di terreno di cui sub 2) vi sia una correlazione, nel senso che lo stesso fatto (nell’esempio, l’onda di piena del fiume) che ha determinato l’incremento ha anche determinato il decremento (2);4) che non sussista una giusta causa per l’incremento patrimoniale di Tizio (l’esempio che si porta é quello di Caio, che ha donato un anello prezioso a Caia: certamente, in seguito alla donazione, Caia ha avuto un incremento patrimoniale e Caio un decremento p., ma tale incremento e decremento hanno la loro giusta causa

nel contratto di donazione) (3).

Disc. Tanto basta a che Caio possa chiedere a Tizio di essere indennizzato del danno subito?

Doc. Sì, tanto basta. Ma Caio dovrà tenere presente che potrà chiedere un indennizzo a Tizio solo nei limiti dell’arricchimento da questi avuto: se il danno é di sei e Tizio ha avuto un arricchimento solo di cinque, Caio potrà chiedere solo cinque.Ancora, Caio dovrà tenere presente che l’arricchimento riportato da Tizio dovrà essere valutato con riferimento al momento in cui verrà proposta la domanda di indennizzo: se l’incremento di valore del campo di Tizio in seguito all’aggiunta dell’appezzamento di terreno avulso doveva, al momento dell’avulsione, essere valutato in cinquemila, ma, per il peggiorare del mercato immobiliare, al momento in cui l’azione é proposta va valutato in tremila, Caio può chiedere solo tremila.Infine, Caio dovrà tenere presente che a Tizio potrà chiedere un indennizzo solo nei limiti dell’arricchimento di questi esistente al momento della domanda: se il fiume, capriccioso, dopo aver incrementato il campo di Caio dell’appezzamento avulso al campo di Tizio, con una nuova ondata si riprende tale appezzamento per portarlo chissà dove, cosa per cui al momento della domanda il campo di Tizio da nulla risulta incrementato, Caio potrà chiedere a Tizio......nulla.

Disc. Mi sembra di aver capito, ma fammi vedere se ho capito bene. Mettiamoci nel caso che Marieto, spendendo 150 (centocinquanta), abbia messo su un bel night club: il night ha successo, e dei bei soldi entrano nel portafoglio del nostro Marieto, ma ecco il punto, dei bei soldi entrano anche nella saccoccia della Beppa che ha una pizzeria a cinquanta metri dal night, pizzeria in cui entra a frotte la gente dopo aver ballato nel night di Marieto: da quel che ho capito, Marieto potrà dire alla Beppa, tu ora guadagni di più perché io prima ho tolto dal mio portafoglio centocinquanta per creare il night, quindi tu, che ti stai arricchendo a mie spese, devi rimborsarmi parte di quei centocinquanta da me spesi. Sbaglio?

Doc. Sì, sbagli, perché secondo i principi (o, se preferisci in analogia a quanto dispone, per il caso di arricchimento, il secondo comma dell’articolo 2041 poco sopra riportato) chi ebbe a subire l’impoverimento può chiedere l’indennizzo solo di una diminuzione patrimoniale ancora esistente al momento in cui propone la domanda stessa. Ora é vero che, al momento in cui creava il suo night, Marieto ha avuta una diminuzione patrimoniale di 150, ma é anche vero che in seguito e come effetto di

tale diminuzione patrimoniale (idest, della spesa di 150) ha avuto un incremento di trecento, per cui al momento della domanda di indennizzo il suo patrimonio risulta aver avuto, e, si ripete, come effetto della spesa prima fatta, un incremento, non un decremento patrimoniale.

Disc. Ma se non l’avesse avuto, tale incremento, mentre invece la Beppa, lei, sì, l’avesse avuto? Mi spiego con un altro esempio forse più chiaro: il produttore di un film inserisce in questo una scena in cui il protagonista chiede al bar un certo, preciso tipo di birra. Il film non fa cassetta, il produttore é in passivo; però la fabbrica di “quella birra” ha visto, in seguito al film, incrementare le sue vendite: non ti pare giusto che questa indennizzi (naturalmente nei limiti del suo arricchimento) il produttore del film?

Doc. Se il produttore del film riesce a provare che effettivamente l’incremento delle vendite di birra é dovuto a questo (e non, metti, a un miglioramento della qualità della birra, o a un particolare exploit dei suoi piazzisti).........

Disc...... ma questa difficoltà di provare che l’arricchimento del convenuto é correlato solo al danno subito dall’attore, penso, sussista per tutte le cause basate sull’art.2041....

Doc.. ..se non in tutte, certamente in molte, lo debbo riconoscere; e questo é un po’ il tallone di Achille dell’azione di cui stiamo parlando; ma, riprendo il discorso, se effettivamente il produttore (del film) prova che l’arricchimento della fabbrica di birra é connesso al suo impoverimento (alias al suo “danno”, alias alle spese da lui fatte per girare il film, o meglio la scena in cui il protagonista chiede proprio “quella birra”), ebbene, sì, io riterrei che gli si dovrebbe riconoscere un diritto all’indennizzo.

Disc. A questo punto fai qualche esempio meno romanzesco di danneggiato, che può valersi del disposto dell’art. 2041, per ottenere un indennizzo.

Doc. Un primo esempio ce lo offre la normativa in materia di risoluzione dei contratti: Caio fa l’imprenditore edile e, in base a un contratto da lui stipulato con Tizio, ha costruita per questi una villetta. Tizio non paga, non ha un soldo in tasca: Caio chiede la risoluzione del contratto. E le spese che ha fatte per la costruzione della villetta? Le recupererà agendo ex art. 2041.

Disc. A patto che il valore della villa risulti superiore all’ammontare delle spese. Il che potrebbe anche non darsi: metti che Tizio, illo tempore miliardario, avesse avuto lo sghiribizzo di fare costruire la villa in cima a una montagna: é ben difficile che si trovi qualcuno disposto ad acquistare una villa a cui é tanto difficile arrivare. Cosa per cui il valore di questa verrà ad essere inferiore alle spese fatte per costruirla.

Doc. Sarebbe una delle tante situazioni in cui noi giuristi dobbiamo dire al cliente....”porti pazienza”. Ma lasciami portare un secondo esempio, costruito, non da me, ma da un autorevole Studioso della materia (dico ciò per rassicurarti sulla sua serietà). In questo esempio entra in ballo l’articolo 535 (apri il codice e dacci un’occhiata, ti servirà per comprendere meglio il discorso che passo a farti). Poniamo, ecco l’esempio, che Tizio, credendosi in buona fede erede, venda la casa che apparteneva al de cuius: per l’articolo 535 egli, il prezzo, lo deve “restituire all’erede” ed é cosa senz’altro giusta. Ma le spese da lui sostenute al momento di fare la compravendita (spese per la agenzia immobiliare, spese per l’avvocato...)? ce le deve rimettere? No, si risponde autorevolmente, potrà chiedere il loro rimborso all’erede, se sarà in grado di provare che la casa si é venduta sovraprezzo grazie alla sua abilità nel trattare l’affare.

Disc. Finora abbiamo costruito, noi, dei casi in cui l’impoverito ha diritto a un indennizzo e li abbiamo costruiti in vista di un’applicazione dell’articolo 2041 (che é la norma che, come abbiamo già visto, in via “sussidiaria” prevede un diritto di indennizzo per l’impoverito). Mi pare interessante, però, vedere anche dei casi in cui il legislatore con una norma ad hoc stabilisce (o nega) il diritto dell’impoverito all’indennizzo (per cui l’articolo 2041 non entra più in gioco).Prima però ti vorrei rivolgere ancora tre domande, soprattutto per chiarire il differente ambito di applicazione degli istituti della negotiorum gestio e dell’arricchimento senza giusta causa.Prima domanda: parlando delle negotiorum gestio tu hai detto che il grosso pericolo, che presenta la sua ammissibilità é quello delle c.d. “spese imposte”: Tizio, il dominus, viene costretto a rimborsare cento al gestore per la riparazione fatta da questi al tetto, mentre egli avrebbe ritenuto più urgente spendere quelle cento per riparare il muro di cinta, che minaccia di crollare: tale pericolo (delle “spese imposte”) non sussiste anche concedendo a Caio, l’impoverito, il diritto di chiedere a Tizio, l’arricchito, un indennizzo?

Doc. No, non sussiste. E’ vero che Tizio, aprendo il portafoglio per pagare

l’indennizzo, si priva di quei cento, che avrebbe potuto più utilmente spendere in altro modo. Quel che importa però é che il pagamento dell’indennizzo, essendo limitato all’arricchimento, non incide sul budget programmato prima: Tizio, prima di avere l’arricchimento, aveva programmato di spendere tot per A e tot per B e continua ad avere la possibilità di fare tali spese, anche se indennizza Caio.

Disc. Ed ecco la seconda domanda: abbiamo visto, parlando della negotiorum gestio, che il legislatore fa obbligo al gerito di rimborsare le spese al gestore, anche se l’affare, prima, utiliter coeptum, poi, si rivela di nessuna utilità. Perché identica soluzione non é adottata anche in materia di azione ex art. 2041?

Doc. Perché allora effettivamente, il pericolo per una persona di essere coinvolta in spese inconsulte dall’iniziativa di un terzo, ci sarebbe, eccome! Pensa al caso di Marieto, che vuole fare il commerciante (senza averne la stoffa) e spende fior di quattrini per aprire un night, che poi non dà soldi: é forse giusto che la Beppa venga coinolta nell’iniziativa pazzoide di Marieto e debba sopportare parte delle spese da questi ideate, solo perché. ..se l’iniziativa avesse avuto successo anche lei si sarebbe arricchita?!

Disc. Terza e ultima domanda. Per quale ragione il legislatore dovrebbe preoccuparsi che l’impoverito sia indennizzato dall’arricchito, se il danno del primo non é causato dalla colpa del secondo? Per rifarci all’esempio da te prima fatto, perché il legislatore dovrebbe preoccuparsi che Caio, il quale ha subito un danno dall’onda di piena del fiume, sia indennizzato da Tizio a cui, l’onda di piena, verso di lui tanto benefica quanto malefica era stata verso Caio, ha regalato (senza un suo pur minimo intervento, senza sua colpa) un appezzamento di terreno (sia pure lo stesso appezzamento di terreno rubato a Caio)?

Doc. Io mi rendo conto delle tue perplessità: si comprende che il legislatore, come abbiamo visto, obblighi il gerito al rimborso delle spese che sono state necessarie per la gestione (spese che sono altrettanti danni per il gestore): infatti questo é un modo per pungolare una persona a intraprendere quella gestione che eviterà il deterioramento o la perdita di uno dei beni costituenti la ricchezza nazionale. Si comprende ancora che il legislatore, come vedremo trattando la materia del risarcimento del danno (art.2043 ess), obblighi Tizio, che ha causato per colpa un danno di cento a Caio, a risarcire questo, dandogli cento: infatti la società ha beneficio se il portafoglio delle persone, che, come Caio, fino a prova contrario sono da considerarsi diligenti amministratori dei beni

loro affidati (dalla società), di tanto si ingrossa quanto dimagra quello delle persone, che, come Tizio, si sono dimostrate negligenti (e tali si dimostreranno presumibilmente ancora nell’amministrazione dei beni loro, dalla società, affidati). Ma perché, ripeto la tua domanda, il legislatore dovrebbe costringere Tizio (l’arricchito) a indennizzare Caio (l’impoverito) dato che quello non ha nessuna colpa dell’impoverimento di questo?Ebbene non c’é un’unica risposta a questa tua domanda, ma ce ne sono varie, così come sono vari i casi dell’arricchimento di una persona conseguente all’impoverimento di un’altra. E queste risposte sono certe volte facili, certe altre volte difficili, com’é difficile quella relativa al caso, a cui tu ti sei, poco prima, riferito.

Disc. Ebbene comincia a dare la risposta più difficile.: perché in caso di avulsione (art. 944) Tizio, l’arricchito, deve indennizzare Caio, l’impoverito.

Doc. Io penso che questo “perché” vada visto nel fatto che il legislatore sente come un danno per la società la destrutturazione di un patrimonio – destrutturazione che può verificarsi a seguito di un improvviso danno, dal dominus, subito.

Disc. Ma che cosa intendi per “destrutturazione” di un patrimonio?

Doc. Pensa a Caio, che fa l’agricoltore: per rimediare allo shock di un danno subito deve vendere il trattore; ma, vendendo il trattore, mangia per quell’anno, e poi, non potendo più coltivare la terra, l’anno venturo, per procurarsi pane e companatico, é costretto a vendere il suo fondo a Cornelio, che, al contrario di lui, non fa il contadino ma l’avvocato. Senonché questo fondo ha un’organizzazione (il pollaio, la conigliera, il capannone per gli attrezzi) che, utile per un agricoltore, non é utile per l’acquirente-avvocato, che pertanto la spazza via (ciò che comporta distruzione di beni - il pollaio, la conigliera ecc. - beni costituenti la ricchezza nazionale). Ecco cosa intendo per destrutturazione di un patrimonio. Stando così le cose si comprende perché il legislatore cerchi, quando può farlo, di evitarla. E, per venire al punto che qui ci interessa, il legislatore ritiene di poterlo fare, nei casi in cui può eliminare o alleviare l’impoverimento di una persona, prelevando in modo indolore i necessari soldi da un altro patrimonio; così com’è nel caso dell’esempio da te fatto: Tizio, che si é arricchito in seguito all’avulsione, é portato a non lamentarsi (troppo), se, la parte dei beni di cui si é arricchito, gli é tolta per eliminare l’impoverimento di Caio: perché? ma perché su tali beni non si era abituato a fare conto e quindi ne può fare a meno senza sofferenza.

Disc. La tua risposta é stata un po’.... faticata, ma in fondo mi sembra convincente. Passiamo ora a risposte più facili.

Doc. Una risposta molto più facile si può dare al “perché” il dominus, arricchitosi per i miglioramenti apportati al bene dal suo possessore (in buona o mala fede, poco importa), deve indennizzare questi dalle spese sostenute per farli.

Disc. Spiegati meglio.

Doc. - Mentre Tizio era in Africa a cacciare elefanti, Caio si é impossessato del suo terreno e ha provveduto ad asfaltare la strada che conduce alla casa padronale: opera questa che anche Tizio é costretto a riconoscere come un miglioramento. In un tal caso Caio ha diritto un indennizzo da parte di Tizio per il disposto dell’articolo 1150 co 2, che recita: “(Il possessore, anche se di mala fede) ha diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione”.

Disc. Bene, ora però devi dire il perché di tale disposizione.

Doc. Il perché é dato dalla volontà di incentivare il possessore alla migliore gestione del bene posseduto: “Tranquillo Caio, fai del tuo meglio per aumentare il valore e la produttività del bene, sapendo che, se il dominus si farà vivo, tu non avrai lavorato per niente: avrai pur sempre diritto a un indennizzo per i miglioramenti fatti”.E, la prova del nove che, la ratio dell’obbligo di indennizzo, é quella che ho detto, la trovi nel fatto che, invece, il locatario, se fa dei miglioramenti, non ha diritto a un indennizzo (v. art. 1592): il locatario non ha diritto a un indennizzo perché egli ha già il suo incentivo a compiere i miglioramenti, nel fatto che é sicuro che, per tanti anni quanti sono quelli corrispondenti alla durata della locazione, egli, tali miglioramenti, potrà goderseli.

Disc. Torniamo a Caio-possessore. Quindi egli sa che qualunque opera costruisca sul fondo da lui posseduto, metti una strada, metti addirittura una casa, per mal che vada, sarà sempre indennizzato delle spese fatte.

Doc. Questo non l’ho detto; e non l’ho detto perché non sempre un’opera costituisce, dal punto di vista del dominus (punto di vista che é l’unico che conta) un “miglioramento”; metti che Caio abbia costruita la casa di cui al tuo discorso, ma che

Tizio, il proprietario, abbia in progetto di costruire un grattacielo nello stesso posto in cui la casa si trova: in questa ipotesi, la casa non potrebbe essere considerata da lui un miglioramento, ma un ostacolo da eliminare.

Disc. E allora? Come si risolverebbe nel caso la controversia tra Caio, che vorrebbe l’indennizzo per le spese fatte per costruire la casa, e Tizio, che, invece, lo nega?

Doc. Si risolve come indicato nell’articolo 936: spetta a Tizio decidere se la casa per lui costituisce un miglioramento o no. Se la considera un miglioramento e pertanto decide di ritenerla, potrà farlo o pagando “il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera” o pagando “l’aumento di valore recato al fondo” - e naturalmente sceglierà questa seconda alternativa quando l’aumento di valore del fondo (idest, il suo arricchimento) é inferiore al valore delle spese sostenute per la sua costruzione(idest, al impoverimento di Caio). Come vedi, nel punto, l’articolo 936 é praticamente in linea col disposto dell’articolo 2041.

Disc. Mettiamoci ora in un caso, per cui mi pare più difficile trovare una spiegazione: Caio dà a Tizio cento credendosi debitore verso di lui di cento, mentre, invece, Tizio non può vantare nessun credito (di cento) né verso di lui né verso qualsiasi altra persona,; oppure anche, mettiamoci nel caso che Caio dia cento a Tizio credendosi debitore verso di lui di cento, mentre il reale debitore é Sempronio. E’ chiaro e intuitivo che in entrambi i casi va riconosciuto il diritto di Tizio a riavere indietro i soldi erroneamente dati; più difficile giustificare razionalmente tale soluzione.

Doc. E’ chiaro fino a un certo punto che Tizio debba restituire l’indebito ricevuto. Infatti, sia nel primo caso (caso così detto di “indebito oggettivo”) sia nel secondo (caso così detto di “indebito soggettivo”) potrebbero intervenire delle complicazioni, che potrebbero rendere dubbia quella soluzione che tu vedi tanto “chiara”.

Disc. Quali potrebbero essere queste complicazioni?

Doc. Nel primo caso potrebbe accadere che, chi ha ricevuto il pagamento indebito, ritenendolo dovuto, abbia speso i soldi, così ricevuti, per spese, di cui altrimenti si sarebbe astenuto: Tizio ha venduto il cavallo C a Caio e realizza, con i soldi così ricevuti, un sogno da lungo tempo coltivato: un viaggio nella favolosa India. Però il contratto aveva un vizio che ne provoca l’annullamento. Pertanto ex post, il credito, che Tizio credeva di avere verso Caio, non c’é più: é giusto in un tal caso obbligare

Tizio a risputare tutti i soldi ricevuti? La risposta a questo quesito (che il legislatore saggiamente rifiuta di dare) potrebbe ben essere dubbia. (4)

Disc. E quali sono le complicazioni, come tu le definisci, che potrebbero rendere dubbio l’obbligo del creditore Tizio alla restituzione, in caso di indebito soggettivo.

Doc. La più ovvia complicazione ci sarebbe nel caso in cui il creditore si fosse privato in buona fede (poco importa se per una superficialità e un’ imprudenza in cui un bonus pater familias non sarebbe caduto) “ del titolo e delle garanzie del credito”(5).Altre complicazioni si avrebbero nel caso in cui la cosa (data da Caio in adempimento di una inesistente sua obbligazione) fosse perita o deteriorata (6) oppure nel caso fosse stata alienata. (7)

Disc. Ma fingiamo che fortunatamente nessuna di tali complicazioni si sia verificata: dove la vedi tu la ratio del diritto (di chi ha pagato indebitamente) di ripetere quanto corrisposto?

Doc. Io tale ratio la vedrei nell’interesse dello Stato a scegliere, nelle soluzioni che dà alle controversie, quella meno “dolorosa”; in quanto, tale soluzione meno “dolorosa”, é anche quella che determina la minore tendenza alla “ribellione”, in chi la subisce e quindi pone meno in pericolo l’ordine pubblico. Ora la soluzione meno dolorosa é quella di obbligare alla restituzione chi ha ricevuto il pagamento, in quanto, così facendo, egli non deve che rinunciare ad un arricchimento - e tale rinuncia é meno “dolorosa” del sopportare un impoverimento - quell’impoverimento che dovrebbe sopportare chi ha pagato l’indebito, se non avesse diritto alla restituzione del pagato.

Note(1) Val la pena di notare, per la precisione, che, quel che determina l’aumento di valore del campo di Tizio, é la volontà legislativa di attribuire a questi la proprietà dell’appezzamento di terreno, non, in sé e per sé, l’evento naturalistico dell’avulsione dell’appezzamento di terreno e il suo trasporto nel fondo di Tizio.

(2) Questo é l’insegnamento della Giurisprudenza. Ma, in realtà, non é sempre così. Si pensi a questo caso: Caio, credendosi erede, vende un bene rientrante nell’asse ereditario, sostenendo

spese per pagare l’agenzia immobiliare. Si fa vivo il vero erede e a lui, per il secondo comma dell’articolo 535, Caio deve restituire il prezzo ricavato dalla vendita. Nessuno può dubitare, però, che Caio abbia diritto ad essere indennizzato delle spese sostenute per questa, se grazie alla sua abilità nel trattare l’affare ha spuntato un prezzo superiore a quello che offriva il mercato (sovraprezzo che costituisce l’arricchimento senza giusta causa dell’erede). Tuttavia, come si può facilmente constatare, il fatto che ha determinato il danno per Caio (pagamento dell’agenzia) é diverso dal fatto che ha determinato l’arricchimento dell’erede (fatto che, si ripete, é da vedersi nella vendita a sovraprezzo del bene).

3)A ben guardare, quel che esclude un diritto di Caio all’indennizzo (per il suo impoverimento conseguente al trasferimento del diritto di proprietà sul bene donato da lui a Tizio), é sic et simpliciter....la volontà legislativa di escludere l’indennizzo. Volontà legislativa che si argomenta dal semplice fatto, che, se il legislatore concedesse al donante un diritto di indennizzo, con ciò stesso renderebbe un non-senso la donazione.

4) E, per dare la risposta giusta, occorrerebbe operare delle distinzioni. Prima di tutto, bisognerebbe distinguere il caso di chi ha ricevuto il pagamento in buona fede, dal caso di chi lo ha ricevuto in mala fede. E’ chiaro che, chi ha ricevuto in mala fede, deve restituire tutto quanto ha ricevuto, Se, invece, era in buona fede, bisognerà distinguere ancora il caso in cui il vizio era dovuto a colpa di chi ha effettuato il pagamento, da quello in cui invece era dovuto a colpa della sua controparte.

5) La soluzione da darsi al caso la dà l’articolo 2036 disponendo, nel suo primo comma, che la ripetizione non é ammessa, e nel suo terzo comma, che “ quando la ripetizione non é ammessa colui che ha pagato, subentra nei diritti del creditore”.

6) La soluzione, in caso di perimento o deterioramento, é data dall’articolo 2037, nei suoi commi 2 e 3, che recitano: “Se la cosa é perita, anche per caso fortuito, chi l’ha ricevuta in mala fede é tenuto a corrisponderne il valore; se la cosa é soltanto deteriorata, colui che l’ha data può chiedere l’equivalente, oppure la restituzione e un’indennità per la diminuzione del valore – Chi ha ricevuto la cosa in buona fede non risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del suo arricchimento”.

7)La soluzione del caso é data dall’articolo 2038, che recita: ” Chi avendo ricevuta la cosa in buona fede, l’ha alienata prima di conoscere l’obbligo di restituirla é tenuto a restituire il corrispettivo conseguito. Se questo é ancora dovuto, colui che ha pagato l’indebito subentra nel diritto dell’alienante. Nel caso di alienazione a titolo gratuito, il terzo acquirente é obbligato, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito. - Chi ha alienato la cosa ricevuta in mala fede, o dopo aver conosciuto l’obbligo di restituirla, é obbligato a restituirla in natura o a corrisponderne il valore. Colui che ha pagato l’indebito può però esigere il corrispettivo dell’alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo. Se l’alienazione é stata fatta a titolo gratuito, l’acquirente, qualora l’alienante sia stato inutilmente escusso, é obbligato, nei limiti dell’arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito”.

5. Il possesso-

Lo studioso troverà in questo e nel seguente capitolo l'esposizione frazionata in “noterelle”. Ciò é dovuto al fatto che questa parte del libro l'ho scritta per poi pubblicarla su face-book ( su cui, com'é noto non é opportuno pubblicare scritti troppo ampi )

Prima noterella-

Tizio stanco di rompersi la schiena dando di vanga sul campo, un bel giorno, senza neanche chiudere la porta, se ne va a cercar fortuna in città. Renzi , bravo lavoratore disoccupato, vede la casa disabitata, il campo incolto, ha bisogno di pane e di companatico, e decide : “Prendo la vanga, che Tizio ha lasciata inutilizzata, e mi metto io a coltivare il campo, ricavandone del buon grano da vendere al mercato”.

Domanda : farebbe bene , o no, lo Stato a incoraggiare Renzi nella decisione che ha preso ?

Risposta ovvia : certo che si : la società ha bisogno che i mercati siano ricchi e ben forniti a che la gente, sazia, faccia funzionare fabbriche e uffici. Quindi lo Stato non può permettersi che un campo, così come del resto nessun altro bene, resti inutilizzato.

E vari sono i modi con cui lo Stato può incoraggiare il bravo Renzi a utilizzare il campo lasciato in abbandono : in primo luogo può proteggerlo contro chi vorrebbe di questo spogliarlo o molestarlo nella sua utilizzazione ( confronta gli artt. 1168 ss.sulle così dette “azioni possessorie”, su cui naturalmente ci intratterremo in seguito diffusamente ); in secondo luogo, può dargli la speranza che, se continuerà nel possesso del campo, ne potrebbe venire col tempo proprietario ( confronta gli artt. 1158 ss. sull'usucapione – anche su questi ci intratterremo a dire diffusamente in seguito ); in terzo luogo, può rassicurarlo che, anche se il proprietario tornerà a farsi vivo e riotterrà il possesso del campo, egli ( idest, Sempronio ), se ne avesse tratto dei “frutti”, se li potrebbe tenere, se avesse fatto spese per riparazioni, se le vedrebbe rimborsate e se avesse fatti dei miglioramenti, avrebbe diritto di avere, per essi un'indennità ( confronta, ponendo attenzione ai punti in cui il nostro diritto positivo si discosta parzialmente da quanto ora detto, gli artt. 1148 ss).

Seconda noterella -

Ma a tutti quelli che entrano nel campo lasciato abbandonato dal proprietario, per goderne e in qualche modo utilizzarlo ( metti, coltivandolo o semplicemente cogliendovi frutta e legna o ancor più semplicemente.... giocandoci al pallone), lo Stato concede i benefici e le tutele di cui si é parlato nella precedente “noterella” ?

Certamente, no : tali tutele e tali benefici li darà solo a chi vede animato da un serio proposito ( di utilizzare il campo ).

L'ideale sarebbe che lo Stato, una volta che sa che un bene é in stato di abbandono, facesse un bel concorso e tra i vari concorrenti scegliesse, per attribuirgli il potere di utilizzare tale bene, quello che desse più garanzie di, tale potere, effettivamente esercitare.

Chiaro che però si tratta di un ideale irrealizzabile. Per questo il legislatore non può che limitarsi a dare ai suoi magistrati dei criteri sul come individuare, tra le varie persone che potrebbero pretendere i poteri e le tutele di cui si é parlato, quella che più li merita ( li merita perché? perché dà più affidamento di utilizzare, nell'interesse, sì, suo, ma anche della società, il bene in stato di abbandono ).

Il nostro legislatore fa ciò nell'articolo 1148 – articolo questo che direttamente ci dice solo che cosa si deve intendere per “possesso” e quindi chi deve intendersi per “possessore” di un bene, ma che indirettamente ci dà la chiave per sapere quel che a noi giuristi soprattutto interessa, cioé chi é la persona a cui si riferiscono le varie norme del codice, che attribuiscono questo o quel potere, questa o quella tutela al “possessore” o a chi é “nel possesso” di un bene. E così, ad esempio se vogliamo sapere a chi si riferisce l'articolo 1150, quando recita : “ Il possessore, anche se di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni ecc.eec”, all'art. 1140 dobbiamo ricorrere.

Ma che dice questo così importante articolo 1140? Ecco quel che dice : “Il possesso é il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. - Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”

Terza noterella-

Diciamolo pure, l'articolo 1140 é un po' un....abacadabra. Certe cose che dice non si capiscono : ad esempio, perché definire il possesso come un “potere sulla cosa”.

Evidentemente con ciò il legislatore si riferisce , non a un potere giuridico, ma a un potere di fatto; se nonché per uno Stato non esistono dei “poteri di fatto” ( cioé dei poteri da lui non concessi) ma solo dei fatti ( da prendere in considerazione per concedere certi poteri giuridici ).

Tuttavia una paziente lettura dell'articolo ci permette di cavare, dalle nebbie che lo avvolgono, alcune conclusioni abbastanza certe sulle condizioni che debbono sussistere perché il nostro Renzi , entrato così volenterosamente a dar di zappa nel campo da Tizio abbandonato, se ne possa considerare possessore ( e quindi possa godere dei diritti e delle tutele che al possessore il legislatore concede ) .

Primo, egli deve poter disporre ( se non giuridicamente ) materialmente della cosa senza dipendere dalla autorizzazione o dal consenso di chicchessia : nel campo egli deve poter entrare quando gli pare e piace. La condizione della libera disponibilità del bene é importante perché implicitamente rimanda ad un'altra condizione , quella a cui gli antichi giureconsulti alludevano parlando di possessio corpore : Renzi deve “detenere” il bene, nel senso etimologico, di tenere il bene in modo che altri non glielo possano sottrarre; quindi Renzi non può starsene in un ufficio in città ( anche se ha in tasca le chiavi necessarie per entrare liberamente nel campo ) preoccupandosi solo di pagare le imposte dovute per il campo o anche di andarvi di tanto in tanto per controllare che non vada in rovina : no il legislatore vuole che Renzi utilizzi il campo e perciò vuole che stia sul campo corpore . Il legislatore non dice ciò claris verbis ma l'interprete può dedurlo dal contenuto del capoverso dell'articolo. Che dice questo capoverso? Ricordiamolo : dice che “si può possedere direttamente o a mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa”.

Quindi il legislatore riconosce il possesso anche a chi, dopo averla conseguita, ha ceduto ad altri la libera disponibilità del bene – metti, Renzi ha affittato il campo a Bianchi - purché la persona a cui e' stata ceduta tale libera disponibilità del bene ( nell'esempio, il Bianchi) “detenga” la cosa. Ma, ecco il punto, se il legislatore é disposto a riconoscere come possessore Renzi solo se la persona da lui immessa nel fondo “detenga” questo, significa che la “detenzione”del bene, la possessio corpore per il legislatore é un requisito ineliminabile del possesso, per cui é da escludersi che Egli ( idest, il legislatore ) sarebbe disposto a riconoscere “possessore” Renzi, nel caso non avesse nel campo immesso altri, se egli non lo “detenesse”.

Abbiamo visto come il legislatore é disposto a riconoscere la qualità di possessore ( con tutte le tutele e i vantaggi relativi ) anche a chi come il Renzi, avendo immesso altri ( il Bianchi ) nella “detenzione” - idest nella libera disponibilità del bene - con ciò stesso tale libera disponibilità del bene ha persa ( e infatti il Renzi non può più

entrare nel fondo una volta che vi ha immesso il Bianchi senza chiedere di questi l'autorizzazione ). Ciò significa che per il legislatore si può possedere animo. Però attenzione,per il legislatore , sì può , possedere animo ma non solo animo : il nostro Renzi se vuole godere dei vantaggi e delle tutele che il legislatore riserva al possessore, non può starsene in un ufficio cittadino “pensando al campo come un bene in suo possesso” e basta: in tal caso sognerebbe, si illuderebbe: egli o detiene direttamente il bene o se ne trasmette la detenzione ad altri (al Bianchi) deve riservarsi il potere di controllare che tale detenzione effettivamente sussista , per intervenire nel caso cessi ( Bianchi, stanco di zappare se ne é andato a vivere in città lasciando il campo in stato di abbandono ); perché é questo che fa supporre al legislatore il perdurare dell'interessamento del Renzi all'utilizzazione del bene e, in un certo senso, la garantisce, cioé garantisce che il bene non cada in stato di abbandono ; e tanto basta al legislatore per concedere al Renzi quegli stessi vantaggi e quelle stesse tutele che gli concederebbe se direttamente detenesse il bene, se, in altre parole, direttamente avesse la possessio corpore .

Quarta noterella.

Abbiamo visto nella precedente noterella la prima condizione a che a una persona, al Renzi, il protagonista dei nostri esempi, venga riconosciuta la qualità di possessore: la possessio corpore ( o quella che si potrebbe chiamare una “quasi possessio corpore” e con questo termine ci riferiamo all'ipotesi di Renzi che dà in affitto a Bianchi il campo in cui si era immesso – ma , per semplicità di esposizione, in prosieguo ci dimenticheremo di tale ipotesi e ci riferiremo solo al caso di una detenzione diretta : Renzi non da in affitto il campo ma lo coltiva direttamente ).

Tanto premesso, passiamo a dire della seconda condizione necessaria a che a una persona, al nostro Renzi, venga riconosciuta la qualità di possessore.

Seconda condizione. Renzi non solo deve avere la disponibilità materiale del campo, non solo deve detenerlo, deve anche utilizzarlo : da che risulta ciò ? Risulta dal primo comma dell'articolo 1140, l'articolo che stiamo cercando di interpretare : per tale comma é possessore chi compie sul bene detenuto le “attività corrispondenti all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale” .

Ma perché il legislatore riconosce i poteri e le tutele riservate al possessore solo a chi compie un'attività corrispondente a quella che può compiere il proprietario, l'usufruttuario, il titolare di una servitù (…..) e non a chi compie un'attività corrispondente ad esempio a quella che può compiere un affittuario? Ecco la risposta che sembra più logica : perché il legislatore non vuole riconoscere gli importanti

diritti e tutele che riconosce al possessore se non a chi ha un programma di ampio respiro nella utilizzazione del fondo.

Ma da che cosa risulterà questo programma di ampio respiro del detentore? Dalle attività dirette all'utilizzazione del bene ? Ciò potrà avvenire ma solo in casi rarissimi, dato che gli atti con cui l'affittuario utilizza un fondo, solo in casi eccezionali si distinguono da quelli con cui il proprietario lo utilizza ( per tali casi eccezionali si può pensare al taglio di un albero di alto fusto, taglio che non é consentito all'affittuario ).Il programma di ampio respiro in parola, piuttosto risulterà dalle opere fatte dal detentore del bene per salvaguardare la sua detenzione ( pensiamo alla recinzione del campo con filo spinato...) o da spese che si giustificano con una sua intenzione di una lunga permanenza nel campo ( riparazione del tetto, semina del campo, acquisto di una mucca...).

Terza condizione : le opere, da cui risulta il programma di ampio respiro nell'utilizzazione del bene, debbono “essere manifeste” cioé quivis de populo deve poterne avere conoscenza semplicemente guardando il bene ( senza necessità di consultare registri pubblici....).

Questa condizione noi la riportiamo perché effettivamente risulta dal'articolo ; ma a nostro modesto parere é ….un fuor d'opera. Infatti si giustifica solo per alcune tutele e diritti concessi dal legislatore : la tutela data dall'azione di reintegra, l'usucapione. Mentre non ha ragione di essere per altre tutele e diritti : i diritti del possessore al rimborso da parte del proprietario di alcune spese, l'azione di manutenzione. In particolare la legittimazione a questa ultima “azione” ( il non essere cioé, chi agisce, un semplice detentore, ma aver egli il possesso corrispondente a un diritto reale ) si potranno e dovranno dimostrare con la produzione del titolo che giustifica il possesso.

In subiecta materia si é soliti dire che il possesso é costituito da due elemnti la possessio corpore e l' animus possidendi. Sul primo concetto ci siamo già soffermati. Che dire del secondo ?é un concetto utile ? Secondo noi é un concetto ( non da sopravalutare ma ) utile: ad esempio per spiegare quando il possessore che ha immesso un terzo nella detenzione continua a essere considerato possessore; e anche per spiegare la rilevanza che ha il programma – il che vale a dire l'intenzione del detentore - di procedere a una utilizzazione di ampio respiro del bene.

Quinta noterella -

Abbiamo detto che il Legislatore concede dei poteri e delle tutele al possessore. Ora dobbiamo aggiungere che li concede per gradi.

Una volta che Renzi ha acquisita la detenzione del campo, lo possiede corpore, il che non significa che egli debba stare tutte le 24 ore di un giorno o tutti i sette giorni della settimana nel campo, basta che non lo perda d'occhio ( come il viaggiatore in treno che può anche lasciare il suo posto, ma mettendoci capello cioé stando attendo che altri non lo occupi ); una volta che ha svolto attività sul campo che dimostrano che egli vuole utilizzarlo a 360 gradi; una volta cioé che, sia con la detenzione del campo sia con l'ampiezza della attività da lui nel campo svolta, ha dimostrato di non essere un barbone che entra nel campo solo per prendervi la legna o la frutta e magari anche per dormirci, ma pensando di andarsene dopo pochi giorni o anche dopo pochi mesi ; allora il legislatore comincia a tutelare Renzi : come ? Impedendo ad altri di ostacolarlo nella utilizzazione del campo ( dove “utilizzazione del campo = apprensione delle utilità che il campo può dare : utilità che Renzi potrà offrire in un domani sul mercato per riceverne dei soldi , come le mele e il grano che dal campo può ricavare e utilità che egli direttamente può godere, come il dormire in un buon letto nella casa annessa al campo ).

Il legislatore impedirà anche quei comportamenti che impediscono una utilizzazione parziale del campo : un pastore fa pascolare le sue greggi in quella parte del campo in cui l'erba cresce particolarmente verde , impedendo a Renzi di seminarvi ) ? Certo : il legislatore punta al massimo : vuole incoraggiare Renzi a coltivare tutto il campo e non solo una sua parte.

Nasceranno in Renzi dal suo possesso del campo anche dei diritti verso il suo vicino ? Certo: nasceranno quei diritti il cui esercizio non ostacola la produttività del campo del vicino : Renzi, se gli vola il capello nel campo del vicino potrà andare a riprenderselo ( art. 843 ), se il vicino fa noiose immissioni di fumo potrà vietargliele ( art. 844 ), se il vicino non si preoccupa di evitare che dal suo campo derivino danni a quello da lui ( idest, da Renzi ) occupato ( si pensi al muro di Caio che minaccia di franare, all'albero di Caio che minaccia di cadere ), egli ( idest, sempre Renzi ) potrà tutelare il suo bene con l'esercizio delle c.d. azioni nunciatorie, azione di danno temuto e di nuova opera ( artt. 1171, 1172 ).

Sesta noterella -

Potrà Renzi, il possessore del campo, impedire - oltre alle attività del vicino Caio indicate nella precedente “noterella” - anche quelle attività del vicino che sono,sì,

dei “pesi” per il suo fondo ( idest, per il fondo di Renzi ) ma rappresentano utilità per il fondo del vicino ( perché permettono al suo possessore di prendere l'acqua necessaria per le sue bestie, di portare al mercato le mele e il grano da lui raccolti …) ? Bisogna distinguere. Non lo potrà fino a che, il suo perseverare nel possesso almeno per un tempo apprezzabile ( un anno ), non avrà dimostrata la serietà dei suoi propositi nell'utilizzazione del fondo. E non lo potrà per i seguenti due buoni motivi:

Primo motivo: perché non si comprenderebbe la ragione per cui il legislatore dovrebbe negare a Caio quel che ha concesso a Renzi : quando Tizio ( il proprietario del fondo ) se ne é andato a godere le delizie della città, é come se avesse lasciata una tavola imbandita alla discrezione di chiunque avesse fame : Renzi si é servito prendendo il più ( gli spaghetti e il pollo arrosto ) e va bene, ma perché impedire a Caio di prendere la frutta é il dessert?

Secondo motivo : e' vero che il peso imposto da Caio sul fondo di Renzi ne diminuisce la produttività, ma chi può escludere che il Renzi – dopo aver impedito a Caio di prendere acqua dal suo fondo, di passare con il suo autocarro nel suo fondo (….) - poi lasci baracca e burattini, per tornarsene in città ? In tal caso la società avrebbe perso il beneficio dato dall'aumento di produttività del fondo di Caio, senza avere,in compenso, il beneficio di un aumento di produttività del fondo di Renzi.

Solo quando Renzì – perseverando nel possesso almeno per un anno – avrà dimostrata la serietà dei suoi propositi, solo allora gli si potrà concedere il diritto di impedire al vicino la costituzione di servitù sul suo fondo. ( Ma, metti che Caio abbia iniziato il suo possesso di una servitù nell'agosto 2016 e Renzi abbia maturato un anno di possesso nel novembre 2017, Renzi potrà impedire a Caio di proseguire nel possesso della servitù nel 2017 e negli altri anni futuri ? No : egli potrà solo impedire di iniziare il possesso di una servitù a partire dal dicembre 2017 ).

6. La tutela giudiziaria : la “azione” di reintegrazione e la “azione” di manutenzione.

Continuiamo nella nostra esposizione sul “possesso”, sempre frazionandola in “noterelle”

Settima noterella-

Il legislatore concede al possessore ( nonché al detentore ) il beneficio di una particolare “azione”, la “azione di reintegrazione”, che é un po' una sorta di scorciatoia, che porta più rapidamente alla sentenza. Non é che il possessore possa usare di questa scorciatoia per tutelare ogni e qualsiasi suo interesse ( che venga leso ). E infatti non tutte le lesioni agli interessi del possessore richiedono un rapido intervento della Giustizia : il vicino immette fastidiose nubi di fumo nel campo detenuto da Renzi oppure impedisce a Renzi di raccogliere le mele cadute dal suo albero ( idest, dall'albero di Renzi ) nel suo terreno ( idest nel terreno del vicino ) ? sarebbe meglio che la sentenza ci fosse già il giorno dopo il fattaccio, ma pazienza se arriva dopo un anno ( o due ! ). Metti invece che Pinco Pallino abbia tenuto un comportamento che ha costretto Renzi ad abbandonare il campo o che, se perdura, finirà per costringere Renzi ad abbandonare il campo : qui é ben necessario un rapido intervento della giustizia : mica si può lasciare Renzi a dormire sotto le stelle !

Tanto premesso, vediamo cosa dice l'articolo che prevede la azione di reintegrazione , l'articolo 1168.

Art. 1168 : “ Chi é stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno del sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo. - L'azione é altresì concessa a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di ospitalità. Se lo spoglio é clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio. - La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto senza dilazione”.

Di seguito un commento, brevissimo, data la natura della presente opera.

L'azione é data quando il possessore è “spogliato del possesso” cioé impedito nella utilizzazione ( anche nella utilizzazione parziale – e il perché lo abbiamo detto in una precedente noterella ) del bene posseduto.

Lo spoglio ha da essere “violento” o “occulto” ? Assolutamente, no. Che lo spoglio debba essere compiuto “vi vel clam” lo insegnavano gli antichi giureconsulti romani che vivevano in una società in cui era sopratutto importante impedire gli atti che potevano turbare l'ordine pubblico ( per cui occorreva un rapido intervento della Autorità “ne cives ad arma veniant” ) . Nella nostra società, quel che interessa al legislatore civile é che non venga frapposto un impedimento alla utilizzazione e alla produttività di un bene : le modalità con cui é posto tale impedimento ( se di reale e vero impedimento si tratta ) non rilevano ( l'impedire il turbamento dell'ordine pubblico essendo riservato alle norme del codice penale : tu, Renzi, sei minacciato nel tuo fondo da Pinco Pallino ? chiama i carabinieri ). Quindi esempi di impedimenti

giustificanti il ricorso all'azione revocatoria sono, sì, quello di Pinco Pallino che, con la pistola in pugno ha estromesso Renzi dal fondo, ma anche quello di Pinco Pallino che con molta cortesia, dicendo “buon giorno e buona sera”, ha alzato una tenda in mezzo al campo ( posseduto da Renzi ) con la chiara intenzione di restarvi per un tempo indeterminato ma prevedibilmente lungo. E infatti in un tal caso come farà Renzi a dormire tranquillo nel suo letto ( “Non potrebbe quel Tizio venire in casa ad aggredirmi” ), come potrà Renzi decidersi a seminare il grano ( “ E se quel Tizio domani si sveglia deciso a scavare una piscina dove ho seminato? Inutile che mi affatichi domani a gettar la semente”). Chiaro che in una tale situazione Renzi è spogliato dal campo non meno che se questo Pinco Pallino lo avesse scacciato con la rivoltella in pugno.

Ottava noterella – L'articolo 1168 ammette all'esercizio dell'azione di reintegra , non solo il possessore, ma anche il c.d. detentore qualificato, Che deve intendersi per detentore qualificato ? Per tale deve intendersi chi ha un interesse suo proprio alla detenzione, come il locatario, l'affittuario e, anche, il mandatario (quindi non é detentore qualificato chi é nella detenzione per ragioni di servizio o per ragioni di ospitalità ).

Ora , perché il detentore qualificato viene ammesso all'esercizio dell'azione di reintegrazione contro gli spogli ; mentre, come vedremo, non é ammesso all'esercizio dell'azione di manutenzione contro le semplici turbative – cosa per cui, per farle cessare é costretto a contare solo sull'intervento di chi lo ha immesso nella detenzione ( il locatore...) ? La risposta più logica a tale domanda sembra la seguente : il detentore qualificato é ammesso a un diretto esercizio dell'azione di reintegra perché lo “spoglio” rappresenta una lesione più grave della “turbativa” e soprattutto una lesione che richiede quell'intervento rapido che non sarebbe possibile se per ottenerlo il detentore dovesse subire la lungaggine di richiedere l'interessamnto di un terzo ( il locatore...).

L'azione di reintegrazione può essere proposta ( come risulta dal primo comma dell'articolo in esame ) solo “entro l'anno del sofferto spoglio”. Ma questo termine, se lo spoglio é “clandestino” ( cioé , avviene senza che il possessore ne possa aver conoscenza, ancorché controlli con diligenza il suo possesso), viene fatto decorrere

dal terzo comma dell'articolo “dal giorno della scoperta dello spoglio”. Ora come può essere che una persona venga spogliata di un bene senza che ne possa saper niente ? Può essere : si pensi a Pinco Pallino che ai margini del latifondo posseduto da Renzi, si é messo a coltivare un suo orticello.

Nona noterella-

Il legislatore concede al possessore ( ma non al detentore ) di tutelare i suoi interessi ( meglio, alcuni suoi interessi) tramite una procedura dotata, come quella che abbiamo visto nelle noterelle precedenti, di una particolare celerità – a questa procedura ci si riferisce tradizionalmente con il nome di “ azione di manutenzione”.

Vediamo cosa dice l'articolo 1170 che la disciplina.

Art. 1170 : “Chi é stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili può, entro l'anno della turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo. -

L'azione é data se il possesso dura da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non é stato acquistato violentemente o clandestinamente. Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o clandestino, l'azione può nondimeno esercitarsi decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità é cessata.-

Anche colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino può chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le condizioni indicate nel comma precedente”.

Due parole di commento.

Autorevolmente, e secondo noi giustamente, si ritiene che l'azione di manutenzione presenti due aspetti : uno, previsto dal primo comma, conservativo, in quanto mira a far cessare le “turbative” ( facendo chiudere una veduta non regolamentare, facendo demolire un fabbricato costruito in violazione delle distanze legali....); l'altro, previsto dal terzo comma, recuperatorio, in quanto mira a far riottenere, a chi ne è stato privato, il possesso, anche nelle ipotesi in cui non sarebbe più azionabile la domanda di reintegra, mancandone i presupposti ( presupposti che, secondo la lettera della legge, sono la violenza e la clandestinità dello spoglio, mentre secondo noi sono semplicemente una situazione che impedisce la utilizzazione del bene ).

Circa l'aspetto conservativo dell'azione, va chiarito che questa può essere utilizzata solo per far cessare le turbative più gravi, che sono quelle che derivano da un'attività corrispondente all'esercizio di una servitù. Le turbative di altro genere ( quelle ad esempio generate da delle “immissioni” di fumi, di rumori ecc. ) potranno, sì, essere fatte cessare, ma agendo per le vie ordinarie. Ricordiamo, poi, che le turbative che il possessore molestato può pretendere di far cessare, sono solo quelle nate dopo che si é maturato l'anno del suo possesso.

E veniamo a dire due parole sull'azione di manutenzione nel suo aspetto recuperatorio. Con tutta evidenza essa si rivela utile solo nei casi in cui per recuperare il possesso di cui si é stati spogliati non si può esercitare l'azione di reintegra. Ma quali sono questi casi ? Sono, a nostro parere, solo quelli in cui uno spoglio, sì, c'é stato, ma é stato compiuto senza un vero animus spoliandi. E infatti quando manca questo animus la azione di reintegra non si può esercitare.

Due esempi di una mancanza dell'animus spoliandi nello spoliator . Pirmo esempio: Renzi se ne parte dal fondo posseduto, per un lungo viaggio. Sempronio vede sempre le finestre chiuse, nessuna anima viva che entra e esce: pensa che la casa sia disabitata, entra e si immette nel possesso ( in nessun modo pensando di stare ledendo il possesso altrui ). Secondo esempio : Renzi vende il fondo posseduto a Sempronio, che naturalmente si immette nel suo possesso. Il contratto per un qualche vizio viene annullato.

In tali casi Renzi non potrebbe, per rientrare nel possesso non potrebbe utilizzare l'azione di reintegra : infatti Sempronio si é immesso nel possesso della casa in perfetta buona fede e senza nessunissimo animus spoliandi. Però, Renzi può recuperare il possesso con l'azione di manutenzione

7/8 – Usucapione.

Doc. Lo Stato conferisce a Sempronio, che é nel possesso di un diritto reale di godimento, la possibilità di “usucapire” tale diritto, cioé di “acquistare” tale diritto “in virtù del possesso continuato” per un certo numero di anni (confronta la formula dell’articolo 1158). E abbiamo già visto perché lo Stato fa questo: lo fa perché pensa (giustamente! ) che, fino a che penderà su Sempronio la spada di Damocle di quel ritorno, del legittimo titolare del diritto, che lo priverebbe del bene posseduto, egli non sarà portato a preoccuparsi di conservare e migliorare il bene posseduto (“A che prò, io, Sempronio, debbo spendere tempo e denaro per fare questo e quello miglioramento, questo e quel atto di conservazione, se del bene così conservato e

migliorato, non io e i miei figli, ma il proprietario e i suoi figli verranno a godere?”).Non deve stupire, quindi, che lo Stato non dia la possibilità di usucapire a quei titolari di diritti reali, come l’ipoteca e il pegno, costituiti solo a garanzia di un credito; e infatti va escluso già in partenza che, titolari di diritti su beni al cui godimento non hanno interesse, abbiano interesse al loro miglioramento (e non deve trarre in inganno il fatto che l’articolo 1153, nel suo comma terzo, preveda l’acquisto mediante il possesso di uno di tali diritti, il pegno: e infatti, con tale articolo, il legislatore solo si preoccupa di rendere rapido e sicuro l’acquisto di certi diritti, e tra di essi ben può stare il diritto di pegno - e non di incentivare la migliore gestione dei beni oggetto di tali diritti).

Disc. - Ma lo Stato ammette l’istituto della usucapione solo perché mosso da un interesse alla migliore gestione dei beni?

Doc. No, egli é a ciò mosso anche dalla necessità di evitare - a chi é costretto a rivendicare, davanti a un giudice, la sua titolarità di un “diritto reale” - quella probatio diabolica, che diverrebbe la prova di questo suo diritto, se egli non potesse giovarsi dell’istituto dell’usucapione.

Disc. Capisco, potendosene giovare, basterà al rivendicante, per vedere accolta la sua rivendica, provare, che egli ha posseduto per un certo numero di anni tal diritto.

Doc. In ciò, aggiungi, essendo agevolato dalla possibilità, datagli dal’articolo 1146, di sommare, al tempo del suo possesso, quello del suo dante causa.

Disc. Che dice precisamente tale articolo 1146?

Doc. L’articolo 1146 recita:“Successione nel possesso. Accessione nel possesso – Il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione.Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti”.Applicazione del primo comma. Cornelio aveva acquistato in mala fede la proprietà del fondo A quattro anni prima di morire: l’erede Sempronio per perfezionare l’usucapione dovrà continuare il possesso per 16 anni, in quanto non potrà giovarsi dell’abbreviazione del tempo (necessario per usucapire) prevista dall’articolo 1159 (forse che egli non “continua” il possesso del de cuius? forse che questi non era in

malafede al momento dell’acquisto del fondo? forse che la malafede nell’acquisto non impedisce di giovarsi dell’articolo 1159 e non fa rientrare la fattispecie nell’usucapione ordinaria ventennale prevista dall’articolo 1158? ).Applicazione del secondo comma. Sempronio ha acquistato il fondo A da Cornelio. Egli ha acquistato in buona fede il fondo, mentre Cornelio era in perfetta mala fede quando due anni prima lo aveva acquistato da Lucrezia. In questo caso, Sempronio non deve aggiungere necessariamente il suo possesso a quello di Cornelio: può scegliere Se sceglierà di aggiungerlo non potrà, secondo l’interpretazione migliore, giovarsi del beneficio del termine abbreviato previsto dall’articolo 1159 e sarà costretto a perfezionare l’usucapione dopo diciotto anni (forse che il suo dante causa non era in malafede al momento di acquistare da Lucrezia? ). Se, invece, sceglierà di non aggiungere il suo al possesso di Cornelio, potrà beneficiare del termine abbreviato di cui all’art. 1159 e pertanto usucapirà in soli dieci anni.

Disc. Proprio vero che la vita é un gioco di prestigio! Ma torniamo a quello che mi sembra lo scopo primario dell’istituto della usucapione: l’incentivazione a conservare e migliorare i beni, che costituiscono la ricchezza nazionale. Mi pare che tale scopo dovrebbe indurre il legislatore a ridurre al massimo il tempo necessario per usucapire.

Doc. Certo che sì; ma senza esagerare, perché se esagerasse (nel ridurre il tempo necessario a usucapire), finirebbe per scoraggiare la classe dei proprietari; e Mastro don Gesualdo, se avesse a temere che, nell’arco di due o tre anni, solo che le circostanze della vita lo costringessero a trascurare un bene, rischierebbe di perderlo, non vivrebbe sonni tranquilli e soprattutto non spenderebbe tempo e fatica per acquisire dei beni e per conservarli e migliorarli.Il fatto é che l’istituto, che stiamo studiando, é come Giano Bifronte: una sua faccia é data dalla prescrizione acquisitiva, l’altra da quella estintiva. E se Sempronio in base alla prescrizione acquisitiva (alias, usucapione) acquisisce la proprietà sul fondo A, Mastro Don Gesualdo, in forza della prescrizione estintiva automaticamente perde la proprietà, che aveva sullo stesso fondo A.

Disc. Ma in base a che principi é disciplinata la prescrizione acquisitiva, l’usucapione di cui stiamo parlando.?

Doc. Dalle stesse disposizioni che regolano la prescrizione estintiva (forse che prescrizione estintiva e acquisitiva non sono aspetti diversi dello stesso fenomeno giuridico?).

Ciò risulta dall’art. 1165, che recita: “Applicazione di norme sulla prescrizione – Le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione e al computo dei termini si osservano in quanto applicabili, rispetto all’usucapione”.Quindi la usucapione potrà essere interrotta da parte del dominus con una domanda giudiziale (vedi meglio l’art. 2943); con l’effetto di dare inizio a un nuovo periodo di prescrizione acquisitiva (art. 2945). E sarà sospesa in considerazione dei rapporti che intercorrono tra parte usucapente e dominus (art. 2941) o della incapacità (interdizione, minore età...) o impossibilità, dovuta al servizio militare, del dominus (vedi meglio l’articolo 2942).

Disc. Ma risulta, dallo stesso articolo 1166 da te riportato, che vi possono essere disposizioni dettate per la prescrizione estintiva, che non sono applicabili per quella acquisitiva.

Doc. E in effetti vi sono. Ti cito le più importanti.Secondo l’interpretazione più accolta, non sono applicabili in materia di prescrizione acquisitiva né la disposizione dell’articolo 2944 né la disposizione di cui al quarto comma dell’articolo 2943.Ed effettivamente bisogna riconoscere che - mentre il riconoscimento del debito svolge un’utile funzione nell’economia, perché evita di costringere il creditore al pronto realizzo del suo credito, in una situazione in cui egli e il debitore avrebbero interesse a prorogarne il pagamento - invece, il riconoscimento del diritto del dominus, fatto dal possessore, se portasse all’interruzione dell’usucapione, non farebbe che prorogare una situazione di imperfetto sfruttamento di un bene con danno per la società.Anche l’inammissibilità di una interruzione realizzata in modo diverso dalla proposizione di una domanda giudiziale (metti, realizzata con una diffida a lasciare l’immobile, fatta per lettera raccomandata), secondo me merita approvazione. E’ vero che, costringere il dominus a proporre una domanda giudiziale per impedire la prescrizione del suo diritto, significa costringere, chi ha subito già un torto (quello dello spossessamento), a subire un ulteriore torto, quello di esborsi pecuniari anche non indifferenti (spese per un avvocato, spese giudiziali...); ma é anche vero, che l’interruzione di una usucapione non sembra opportuna, a meno che il dominus dimostri con una sua energica azione (com’é quella di proporre una domanda giudiziale) che, al bene da cui si é lasciato spossessare, tiene davvero, per cui si ha da sperare davvero che, una volta estromesso l’attuale possessore, lui si metta a gestirlo

e a farlo fruttare.

Disc. Queste, da te ora dette, sono le uniche diversità di disciplina tra usucapione e prescrizione estintiva?

Doc. No, ce ne sono altre, risultanti da precisi articoli del codice.

Disc. Che aspetti a riportare e a fare un breve commento di tali articoli?!

Doc. Comincio con riportare l’art. 1166.Art. 1166: “ Inefficacia delle cause d’impedimento e di sospensione rispetto al terzo possessore – Nell’usucapione ventennale non hanno luogo, riguardo al terzo possessore di un immobile o di un diritto reale sopra un immobile, né l’impedimento derivante da condizione o da termine, né le cause di sospensione indicate dall’art. 2942.L’impedimento derivante da condizione o da termine e le cause di sospensione menzionate da detto articolo non sono nemmeno opponibili al terzo possessore nella prescrizione per non uso dei diritti reali sui beni da lui posseduti”.Sappiamo che in base ai principi (vedi art. 2935) “ La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Quindi - se Caio ha acquistato l’immobile A, di cui Sempronio possiede il diritto di proprietà, nel gennaio 2016, ma nell’atto di acquisto si stabilisce che gli effetti di tale atto si produrranno solo dal gennaio 2021 - si dovrebbe pensare che solo dal gennaio 2021 decorra la prescrizione estintiva del potere, che ha Caio, di interrompere la usucapione di Sempronio. E così é, nel caso che, il termine fissato per l’usucapione dell’immobile A da parte di Sempronio, fosse inferiore ai venti anni. Però il legislatore, con la norma in commento, nel caso che tale termine fosse invece ventennale, ritiene giusto, proprio in considerazione della lunghezza di tale termine, di far decorrere la prescrizione estintiva già dal gennaio 2016.Mutatis mutandis il discorso va ripetuto per il caso che Caio vanti un diritto reale, metti un diritto di servitù, sul fondo posseduto da Sempronio. Esempio: quando Caio eredita il fondo B servito da una servitù di passo sul fondo A, mancano ancora dieci anni all’estinzione (per non uso) di tale servitù. Caio ha solo cinque anni di età e quindi diventerà maggiorenne solo tra tredici anni; ebbene il legislatore non sospende il corso della prescrizione estintiva del diritto di servitù, durante il periodo in cui Caio, minorenne e senza tutore, non é ancora in grado di tutelare i suoi interessi, per cui il diritto di servitù rischia di essere già estinto quando Caio sarà diventato

maggiorenne (certo é ben inverosimile che, in così gran lasso di tempo, non si nomini a Caio un tutore, il quale provveda all’interruzione della prescrizione, e proprio in tale inverosimiglianza sta la ratio della norma).

Disc. Forza, passa ad altri articoli, che contemplano una deroga alle disposizioni sulla prescrizione estintiva dei crediti-

Doc. Riporterò il secondo comma dell’articolo 1141 e l’articolo 1164.Art. 1141 comma 2: “Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo universale”Art.1164: “Interversione del possesso – Chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non é mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso é stato mutato”.Con le disposizioni sopra riportate il legislatore vuole impedire che un’usucapione si compia senza che il dominus, ancorché bonus pater familias, sia posto in grado di avvertirla. Quindi, lo dico subito, le disposizioni de quibus hanno la stessa ratio, che va attribuita all’articolo 1163, che, come vedremo subito, non permette l’usucapione al possessore “clandestino”.

Disc. Ma com’é possibile che il dominus non si accorga, che hanno iniziato a esercitare il loro possesso come se fossero proprietari, Sempronio che detiene il bene solo come affittuario o Cornelio che lo detiene solo come usufruttuario (e mi permetto di qualificare Cornelio come detentore, ancorché sia usufruttuario, perché mi pare che egli effettivamente, rispetto al dominus, vada considerato come detentore)?

Doc. Hai fatto benissimo a qualificare Cornelio come detentore perché tale effettivamente egli é (per cui il legislatore invece di due norme avrebbe potuto limitarsi a formularne una sola). Ma chiudo la parentesi e vengo alla risposta alla tua domanda. Il dominus, Sempronio, non può accorgersi che Caio e Cornelio hanno iniziato a possedere come proprietari, per la semplice ragione che, la più parte degli atti di gestione di un bene, che può compiere un proprietario, li può compiere anche

l’affittuario Sempronio e l’usufruttuario Caio (per riferirmi agli esempi da te fatti).Pertanto occorre che la mutatio animi (nel possesso o nella detenzione) risulti al dominus da un atto diverso da quelli con cui può venire gestito il bene da parte di un affittuario o usufruttuario - “atto diverso” che sia incompatibile col diritto dal dominus concesso e sia al dominus portato a conoscenza.

Disc. Ma perché non dovrebbe bastare un atto di gestione incompatibile col diritto detenuto: metti l’usufruttuario non “rispetta la destinazione economica del bene” (art. 981) oppure taglia alberi di alto fusto (art. 990) -?

Doc. Non può bastare, dato che c’é pericolo che tale atto (di abusiva gestione) possa sfuggire, anche per lungo tempo, all’attenzione pure di un bonus pater familias (dato che non si può pretendere, neppure da un bonus pater familias, che stia sempre con gli occhi addosso al usufruttuario o all’affittuario di un suo bene, per controllare che non abusi del diritto concessogli) Nel condominio, in cui tale pericolo non c’è (in quanto si suppone che non possa non cadere sotto gli occhi di un condomino quel che nel condominio accade), può in effetti bastare, a mutare il titolo del possesso del comunista (pur in assenza di una sua opposizione formale al diritto degli altri partecipanti alla comunione), anche un suo atto di gestione, che ecceda chiaramente i suoi poteri: e infatti il secondo comma dell’articolo 1102 si limita a dire che “ Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

Disc. Passa a un’altra norma, che deroga alle disposizioni sulla prescrizione estintiva dei crediti.

Doc. Articolo 1144, che recita: “ Atti di tolleranza – Gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso”.

Disc. Un articolo strano quello da te ora riportato, perché sembra considerare a favore del dominus, quella tolleranza del possesso altrui, che invece ritenevo fosse la giustificazione della spogliazione del dominus a favore del possessore tollerato.

Doc. C’è tolleranza e tolleranza: c’é la tolleranza che nasce dal disinteressamento del dominus alla gestione del bene (ed é questa, che il legislatore sanziona con la spogliazione del dominus), e c’é la tolleranza che nasce dalla benevolenza (la

tolleranza che porta Sempronio a dare il buon giorno, e con un bel sorriso, a Caio che passa sul suo terreno). E’ questa seconda, ovviamente, la tolleranza presa inconsiderazione dall’art. 1144, a tutela del dominus tollerante. Tutela contro che cosa? Anche qui, come nei due articoli precedentemente esaminati, contro il pericolo che si attui a danno del dominus una usucapione “clandestina”: Caio che fino ad allora é passato sul terreno di Sempronio con la sua tolleranza, decide di usucapire il diritto di passo e comincia a transitare sul terreno di Sempronio con l’animus possidendi. Sì, ma come fa Sempronio a saperlo: Caio transita ora come transitava prima, solo l’animus é mutato, ma. ..solus deus est scrutator cordium.

Disc. Ma Caio può ben comportarsi in modo da rendere palese il suo animus possidendi (ad esempio rifiutando a Sempronio il saluto)

Doc. Certamente, e in tal caso non si potrà più dire ch’egli passa sul sentiero grazie alla tolleranza di Sempronio ed egli potrà usucapire il diritto di passo.

Disc. Un altro articolo, sempre derogante alle disposizioni sulla prescrizione estintiva.

Doc. L’articolo 1163, che recita: “ Vizi del possesso – Il possesso acquistato in modo violento e clandestino non giova per l’usucapione, se non dal momento in cui la violenza e la clandestinità é cessata”.

Disc. Perché mai tale articolo deroga alle disposizioni di cui agli articoli 2934 e ss.?

Doc. Perché per nessuno di tali articoli il decorso della prescrizione é impedito dalla violenza, intesa a impedire la interruzione della prescrizione, o dalla clandestinità, diciamo così, del diritto di credito. Caio minaccia il suo creditore Sempronio di ucciderlo, se oserà chiedere al giudice la sua condanna al pagamento del debito? La prescrizione corre lo stesso, anche se la violenza subita impedisce a Sempronio di esercitare il suo diritto (certo però Caio dovrà risarcire i danni conseguenti al suo atto e tra tali danni ci sarà il mancato realizzo del credito)Cornelia addirittura sottrae al suo creditore il documento che prova il suo credito? Idem come sopra, la prescrizione corre lo stesso.

Disc. Quando si ha clandestinità del possesso? Quando il possessore ha usato artifici per nascondere al dominus la usucapione?

Doc. La clandestinità sussiste anche in difetto di un animus celandi del possessore, e si ha semplicemente quando vi é ignoranza del possesso da parte del dominus e tale ignoranza non é dovuta a un suo disinteresse alla gestione del bene. Per avere un esempio di possesso clandestino, pensa a Caio che, in un remoto angolo di un grande fondo, si mette a coltivare dei pomodori o dell’insalata: non si può pretendere dal proprietario di un fondo che vigili su ogni più piccolo angolo di questo! Altro esempio può essere la adprehensio di un appartamento, che viene utilizzato dal proprietario solo di estate e si trova in un remoto paesello di montagna.

Disc. Voltiamo pagina: parliamo degli elementi che costituiscono il presupposto necessario di un’usucapione.

Doc. Sono essenzialmente cinque: 1) il possesso, 2) l’essere il possesso continuo; 3) l’essere il possesso non interrotto; 4) l’essere il possesso pacifico e pubblico.; 5) la durata del possesso per un certo tempo.

Disc. Quando si ha un possesso mancante di continuità?

Doc. Quando il possessore dopo essersi spogliato del possesso lo riprende. In tal caso con la nuova adprehensio si ha un nuovo possesso; che potrebbe essere caratterizzato in modo diverso dal primo (possesso): il primo potrebbe essere possesso di buona fede e il secondo di mala fede. Metti, Sempronio, quando ha acquistato e preso possesso di quel tale immobile, era in buona fede, perché credeva di stare acquistando a domino - e quindi va considerato, come vedremo, possessore in buona fede; al momento, invece, della seconda adprehensio, sa che chi gli ha venduto non era il dominus, quindi é in mala fede e come in mala fede va considerato.

Disc. Ma quando può dirsi che Sempronio si é spogliato del possesso?

Doc. Certo, a ciò non basta un allontanamento dal corpus possessionis: Sempronio che, dopo essersi fatte le sue brave ferie estive nella sua casetta in montagna, se ne torna in città, non si spoglia certo del suo possesso di questa casetta. D’altra parte, non basta il solo animus possidendi, se Sempronio non si é preoccupato di lasciare segni inequivoci della sua volontà di tornare nel possesso pieno (cioé, animo et corpore) del bene.

Disc. Quando si ha interruzione del possesso?

Doc. Quando “il possessore viene privato del possesso” (co.1 art. 1167).(Ma l’interruzione “si ha come non avvenuta se é stata proposta l’azione diretta a ricuperare il possesso e questo é stato recuperato” - co. 2 sempre art. 1167).L’interruzione prevista dall’art. 1167 si dice “naturale”, e si distingue dalla interruzione civile prevista dall’articolo 2943, perché, mentre questa incide sul tempo necessario a usucapire (che deve riprendere ex novo), quella influisce sulla qualità (buona o mala fede) del possesso (per il che possiamo rinviare a quanto detto poco sopra a proposito della “discontinuità” del possesso).

Disc. Della pacificità e della pubblicità (dove “pubblicità del possesso” non é che il contrario di “clandestinità del possesso”) abbiamo già parlato a commento dell’articolo 1163. Quindi possiamo passare subito a parlare della durata del possesso.

Doc. La durata più lunga dell’usucapione é di venti anni (vedi art.1158,co.1, art. 1160 c.1 art.1161co.2), la più breve é di tre anni (vedi comma 1 art. 1162). Tra l’uno e l’altro estremo si situa una usucapione di durata pari a dieci anni (v. art.1160 c.2, art.1161c.1, art. 1162 c.2).L’usucapione che si compie in venti anni si chiama “ordinaria”, le altre si chiamano “abbreviate”.

Disc. Da che dipende la durata della usucapione?

Doc. Dipende dal tipo di bene posseduto (bene immobile, universalità di mobili, bene mobile registrato, bene mobile non registrato) e dall’esistenza o meno dei seguenti elementi: buona fede, astratta idoneità del titolo a trasferire il diritto usucapito, trascrizione del titolo.

Disc. Quando si ha buona fede?

Doc. Te lo dice l’art. 1147, che recita. “ E’ possessore in buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto.La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave.La buona fede é presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”.Ai fini dell’applicazione degli articoli 1158 e ss. (diversa soluzione potrebbe adottarsi

nell’applicazione, ad esempio, degli artt. 1148 e ss.), l’ignoranza, di cui parla il primo comma (dell’articolo sopra riportato), può essere definita come “ignoranza di acquistare a non domino”.Stante il disposto del terzo comma (sempre del soprariportato articolo), secondo cui l’ignoranza posteriore al “tempo dell’acquisto” non nuoce, diventa importante stabilire se, quando il compimento dell’atto giuridico fonte del diritto (pensa simpliciter a una compravendita) e la consegna del bene non coincidono nel tempo. l’acquisto, a cui si riferiscono gli articoli 1159 e ss., si perfeziona solo con l’ultimo di tali elementi o già col primo. Io ritengo che si perfezioni già col primo.

Disc. Quando difetta l’astratta idoneità del titolo a trasferire il bene?

Doc. In due casi: 1) quando il titolo non é idoneo a trasferire il diritto oggetto dell’usucapione (ad esempio, nel titolo si trasferiva un diritto di usufrutto mentre il diritto posseduto, é la proprietà); 2) quando il titolo é nullo.

Disc. E se é solo annullabile?

Doc. Il titolo si considererà valido (ai fini dell’usucapione).

Disc. Ma perché il titolo nullo non si considera valido a tale fine?

Doc. Perchè sarebbe illogico che il legislatore, da una parte, stabilisse la nullità del titolo per impedirgli di produrre effetti giuridici, e in primis l’acquisto del diritto (che ne é oggetto) da una delle parti, e, dall’altra, agevolasse tale acquisto abbreviando i tempi dell’usucapione.

Disc. E se il titolo annullabile viene effettivamente annullato?

Doc. L’annullamento avendo effetto retroattivo, anche, l’abbreviazione del tempo utile a usucapire, viene meno.

Disc. Perché subordinare l’abbreviazione del termine alla trascrizione del titolo?

Doc. Naturalmente per pungolare le parti alla trascrizione; e questo, a sua volta, perché la trascrizione può servire a permettere al terzo proprietario (il vero proprietario! ) di aver conoscenza (con un po’ di fortuna), dell’usucapione in corso.

In altre parole, il subordinare, l’abbreviazione del termine ad usucapionem. alla trascrizione, rientra nella politica del legislatore di ammettere l’usucapione solo quando lo svolgersi di questa é percepibile dal pubblico (del resto non é sempre per questa politica che il legislatore dichiara inusucapibili – vedi art. 1061 - le servitù non apparenti? ).

9- I diritti reali

Disc. Sempronio - che ha stipulato un contratto, con cui, lui, pianista famoso, si é obbligato a esibire, il giorno primo aprile, la sua arte al teatro “La Scala” - può scegliere tra adempiere l’obbligo assunto e il risarcire il danno (“ No, alla Scala non vado, vado al Metropolitan, che paga le mie prestazioni il doppio, e, alla Scala, risarcirò il danno”) -?

Doc. Sì, in pratica, lo può fare (anche se formalmente l’art. 1453 rimette solo alla sua controparte creditrice, la scelta tra adempimento e risoluzione del contratto): come potrebbe lo Stato costringere un debitore ad adempiere a una prestazione infungibile, ad adempiere cioé a una prestazione che solo lui può effettuare? forse uno Stato potrebbe giungere fino al punto di impacchettare e portare sul palcoscenico (che vuol disertare) il pianista renitente, però, certo, non potrebbe costringerlo a mettere le mani sulla tastiera del piano e a suonare!

Disc. Lo Stato però potrebbe revocare gli effetti del contratto, con cui Sempronio ha assunto l’ obbligazione di suonare al Metropolitan (lo stesso primo aprile in cui dovrebbe suonare a La Scala) - obbligazione incompatibile con quella da lui precedentemente assunta (con la Scala). Perché, no?!

Doc. Lo potrebbe fare, ma non lo fa (leggiti l’articolo 2901), perché non corrisponde all’interesse pubblico vincolare sempre e strettamente un debitore all’adempimento. E infatti l’interesse pubblico vuole che, se una persona (Sempronio) deve scegliere tra due sue prestazioni, scelga quella che soddisfa il maggiore e più pressante interesse (della società). Ora, se la Scala, é disposta a dare 100, e il Metropolitan, é disposto a dare il doppio, c’é da supporre che nel Metropolitan vi sarebbero (per gioire dell’arte del pianista) il doppio delle persone che sarebbero a “La Scala”, cosa per cui si dovrebbe ritenere che Sempronio, suonando al Metropolitan, soddisfi il doppio delle persone che soddisferebbe suonando a La Scala.

Disc. Capisco, che, quindi, l’interesse della Società é che Sempronio suoni al Metropolitan. Non capisco però il senso di tutto il tuo dicsorso, dove vuoi arrivare?

Doc. Voglio arrivare a mostrarti che per la Società certe inadempienze possono risultare utili; cosa per cui un Ordinamento giuridico può scegliere di non impedirle(anche quando lo potrebbe).E a questo punto, ti faccio un altro esempio, che ci porta più vicino al traguardo a cui voglio arrivare. Sempronio possiede un terreno con una bella piscina e ha assunto l’obbligo di lasciare per due anni che Flavio ogni Domenica vi vada a nuotare. Bene. Però un bel giorno Caio gli fa la proposta “ Il tuo terreno mi serve per costruirvi una fabbrica (una fabbrica grandiosa in cui lavoreranno centinaia di persone): se me lo vendi ti dò un milione”. Quale sarebbe nel caso l’interesse pubblico: quello di vincolare Sempronio all’adempimento dell’obbligo assunto con Flavio? Chiaramente, no: l’interesse pubblico sarà che Sempronio non adempia a tale obbligo, risarcisca Flavio e stipuli il contratto con Caio.

Disc. Ma Caio non diventerà, lui, obbligato a permettere a Flavio la domenicale nuotata (nel qual caso il suo progetto di fabbrica andrebbe in fumo)?

Doc. No, perché gli obblighi del dante causa verso terzi non si trasmettono all’avente causa; no, ancora, perché il contratto tra Sempronio e Caio, pur presupponendo la violazione di un obbligo (l’obbligo di Sempronio verso Flavio) ha pur sempre una “giusta causa”, in quanto corrisponde pur sempre all’interesse generale.Nell’esempio ora fatto, dunque, il legislatore concede a Sempronio - (almeno secondo la migliore interpretazione degli articoli 1571 e 1599, che porta a non riconoscere un contratto di locazione in quel contratto, che non assicura il godimento continuativo di una res) -, il potere di privare di efficacia un suo precedente contratto, stipulandone un altro con esso incompatibile.Vi sono poi casi in cui il Legislatore, non riconosce al nostro Sempronio un potere vero e proprio in tal senso, ma solo gli apre in tal senso una possibilità, una chance (che lui potrebbe essere tentato di sfruttare).

Disc. Fa degli esempi.

Doc. Pensa a Sempronio che ha dato in locazione a Caio I il suo appartamento di via Cavour per 100. Dopo qualche giorno gli si presenta Caio II che, per aver in

locazione lo stesso appartamento, gli offre il doppio, 200. Se Sempronio é rapido e deciso: stipula subito il contratto (di locazione) con Caio II, subito introduce questo nell’appartamento. ...il gioco é fatto: sarà Caio II a godere dell’appartamento e il contratto con Caio I dovrà considerarsi inefficace (anche se pur sempre fonte di un obbligo risarcitorio per Sempronio).

Disc. Da che risulta tutto questo?

Doc. Risulta dall’art. 1380, che recita: “Conflitto tra più diritti personali di godimento – Se con successivi contratti, una persona concede a diversi contraenti un diritto personale di godimento relativo alla stessa cosa, il godimento spetta al contraente che per primo lo ha conseguito.Se nessuno dei contraenti ha conseguito il godimento, é preferito, quello che ha il titolo di data certa.Sono salve le norme relative agli effetti della trascrizione”.

Disc. Quindi vi sono casi in cui il Legislatore dà il potere o, se vogliamo, la possibilità a chi ha stipulato un contratto, di mutilarlo nei suoi effetti, stipulandone un altro con esso incompatibile.Però, senza dubbio, esiste anche l’esigenza di alcuni contraenti di acquisire la sicurezza che, il diritto da loro acquisito con il contratto, non rischia di essere messo nel nulla da un ripensamento di chi, prima, lo ha concesso.

Doc. Senza dubbio tale esigenza esiste, ed essa viene in certi casi tutelata dal legislatore, appunto escludendo, nel dante causa di tale diritto, la possibilità di un efficace ripensamento, cioé escludendo il suo potere di stipulare un contratto, che venga a prevalere su quello con cui, prima, tale diritto ha concesso.La maggior parte degli Studiosi (salvo quanto subito verremo a dire) qualificano i diritti, la cui esistenza, non é, per così dire, alla mercé di un ripensamento di chi, in un primo momento, li ha costituiti o trasferiti (o di un suo avente causa), col nome di “diritti reali” - quasi a indicare che la loro esistenza non dipende dall’adempimento di una obbligazione altrui (e quindi da un ripensamento di chi sarebbe gravato da tale obbligazione).

Disc. Ma quand’é che un diritto può dirsi “reale”?

Doc. Bisogna intendersi sulle parole. Ad esempio. Volendo intendere come “diritti

reali” quei diritti, la cui esistenza non dipende ecc., sono usucapibili e sono tutelabili da tutte le quattro azioni possessorie, vanno fatti rientrare in essi: i diritti di proprietà, i diritti di enfiteusi, i diritti di usufrutto, i diritti di uso, i diritti di abitazione, i diritti di servitù Volendo intendere,invece, come diritti reali solo quei diritti, la cui esistenza non dipende ecc, sono tutelabili dalle quattro azioni possessorie (ma non sono usucapibili), puoi (ma la cosa é discutibile) aggiungere alla lista ora fatta il diritto di ipoteca e di pegno. Infine, volendo ritenere che basti che l’esistenza di un diritto non dipenda più dalla volontà di chi lo ha ceduto o costituito (una volta stipulato il contratto relativo), perché possa essere qualificato come diritto reale, allora devi ritenere diritti reali anche i diritti che nascono per il conduttori da un contratto di locazione (vedi meglio, l’art.1599).

Disc. Il carattere di “realità” di un diritto, dipende dalla volontà delle parti contraenti? Ad esempio, mettiamo che Sempronio stipuli con Caio un contratto con cui si riserva il potere di un qualche facere nel fondo di questo, metti, di giocarvi al pallone: possono Sempronio e Caio di comune accordo inserire nel contratto una clausola con cui dichiarano che tale diritto va considerato come diritto reale (cosa per cui l’esistenza di quel diritto non dipenderà più dall’arbitrio di Sempronio, in quanto, anche se questi venderà il suo fondo, Caio potrà continuare a giocarvi, cosa per cui tale diritto sarà usucapibile e potrà essere tutelato con le azioni possessorie)?

Doc. Certamente, no (e sarà “no”, qualunque delle definizioni di diritto “reale” tu voglia accettare). E proprio perché solo il legislatore può stabilire quando un diritto ha il carattere della “realità”, si può dire che i “diritti reali” costituiscono un “numerus clausus”.

Disc. Tu prima hai parlato di iura in re aliena: a che ti riferivi?

Doc. Con questo termine intendevo riferirmi – non solo ai diritti, di enfiteusi (art. 957 e segg.), di usufrutto (art.978 e segg.), di uso (art. 1021 e segg.), di abitazione (art. 1022 e segg.), di servitù (art. 1027 segg.) - ma anche a quello di locazione (art. 1571 e segg.) e, in genere, a tutti quegli altri diritti che possono nascere dal fatto che, il proprietario di una cosa, rinuncia o trasferisce alcuni dei poteri che formano il contenuto del suo diritto, a favore di un’altra persona (che viene così ad acquistare, su quella stessa cosa, dei poteri).La facoltà del proprietario di costituire dei iura in re aliena (ancorché non scevra di inconvenienti) presenta il vantaggio di consentire il coordinato e razionale

sfruttamento di più fondi appartenenti a diversi proprietari (così come accade nel caso di una servitù, altius non tollendi, non aedificandi, di acquaeductus....) e l’integrale sfruttamento di un patrimonio (Tizio ha due fondi: uno é in grado di coltivarlo subito, per l’altro dovrebbe aspettare che il figlio cresca e gli dia una mano: invece di lasciarlo inutilizzato, nel frattempo lo darà in usufrutto; oppure, ha la fortuna di avere nel suo terreno una fonte che getta dieci ettolitri al giorno, mentre a lui ne basterebbero cinque; invece di lasciare sprecare gli altri cinque ettolitri, concederà al vicino, che di acqua ha penuria, una servitus acquae haustus).

Disc. Però la coesistenza, su uno stesso bene, del diritto di proprietà e di uno (o più)dei diritti minori, di cui tu prima hai parlato, penso che farà sorgere dei problemi.

Doc. Certo. Problemi che principalmente attengono a: la durata (dello ius in re aliena), la modificabilità della res (da parte del titolare dello ius in re aliena), le riparazioni (da effettuare sulla res, in vigenza dello ius in re aliena).

Disc. Da che nascono i problemi relativamente alla durata?

Doc. Nascono dal fatto che – mentre l’interesse della Società é quello che tutti i beni siano al massimo resi produttivi, i limiti che sono connaturati allo ius in re aliena, tolgono al suo titolare la possibilità e l’incentivo ad attivarsi per vaste e radicali opere di miglioramento della cosa.

Disc. E come cerca di evitare questo inconveniente, il legislatore?

Doc. Cerca di evitarlo limitando nel tempo la durata dello ius in re aliena. E così vediamo nel nostro codice un articolo 1573, per cui “ la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni”, e un art. 979 per cui “ la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario”.

Disc. Il legislatore si preoccupa di porre un limite temporale a tutti gli iura in re aliena?

Doc. No, da tale limite esenta, l’enfiteusi, le servitù e il diritto di superficie. Ma per tale esenzione c’è una ragione. L’enfiteusi può essere perpetua (v. art. 958) senza determinare una stagnazione delle iniziative migliorative, data l’ampiezza dei poteri ad essa connaturata e la concessione (art. 971) all’enfiteuta del potere di

affrancazione (che gli dà la possibilità di godere dei frutti delle sue iniziative). La perpetuità (peraltro solo eventuale) delle servitù, se può anche frenare la produttività del fondo servente (in alcuni limitati casi), senz’altro incrementa quella del fondo dominante. E, mutatis mutandis, quel che ho detto ora per le servitù può ripetersi per il diritto di superficie.

Disc. Tu hai parlato di problemi che nascono da possibili iniziative del titolare dello ius in re aliena intese a modificare la res.

Doc. E infatti tali iniziative potrebbero comportare una modifica in peius del valore che la res avrà per il proprietario (rispetto a quello che per lui aveva al momento della costituzione del ius in re aliena).

Disc. Come può accadere questo?

Doc. Te lo spiego con un esempio. Sempronio costituisce sul suo aranceto un diritto di usufrutto a favore di Caio. Se questi trasforma il fondo ricevuto, da aranceto in uliveto, può anche, così facendo aumentarne il valore commerciale. Ma rischia di diminuire il valore che esso ha per il suo proprietario, per Sempronio.

Disc. Perché?

Doc. Perché questi sa come si trattano gli aranci e dove si trovano i loro compratori all’ingrosso, ma nulla sa sul commercio degli ulivi e quindi non saprà sfruttare adeguatamente l’uliveto. - il che é come dire che, restituendoglielo trasformato in uliveto, Caio gli restituirebbe il fondo diminuito di valore.Questo spiega perché il legislatore, dopo aver detto, nell’art. 981, che “l’usufruttuario ha diritto di godere della cosa” continua dicendo “ ma deve rispettarne la destinazione economica” - vedi anche per un’altra applicazione del principio sopra enunciato, l’art. 1587, che impone al conduttore di “prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze”: vedi ancora l’art. 1102, che chiaramente non riguarda un ius in re aliena. ma che mi piace qui citare perché in definitiva costituisce anch’esso pur sempre un’applicazione del principio sopra detto, là dove, dopo aver dichiarato che “ciascun partecipante (alla comunione) può servirsi della cosa comune”, aggiunge “ purché non ne alteri la destinazione”.

Disc. E veniamo al problema che nasce dalla necessità di riparazioni alla res.

Doc. Più che un problema é un rompicapo.

Disc. Perché? perché é difficile individuare il criterio a cui ispirarsi, nei casi in cui si tratta di stabilire chi gravare (il proprietario o il titolare dello ius in re aliena) delle spese necessarie per le riparazioni?

Doc. In teoria tale criterio potrebbe essere individuato. E’ la sua applicazione pratica che diventa impossibile.

Disc. E quale sarebbe tale criterio applicabile in teoria?

Doc. Sarebbe quello che permetta il raggiungimento dei tre seguenti scopi: primo, creare una dissuasione al eventuale negligente uso della res da parte del titolare dello ius in re aliena; secondo, non venire, però, a gravare troppo questi (dato che questi, per il fatto stesso di non essere economicamente in grado di comprarsi la res, va considerato la parte debole del rapporto), cosa per cui dovrebbe essere sollevato dalle spese che dovrebbero presumersi per lui particolarmente pesanti, in base al tipo, più o meno “ricco” della res, e del reddito che questa produce (a meno che tali spese fossero da lui prevedibili); terzo, evitare un arricchimento del proprietario (il che si avrebbe qualora, la cosa riparata, continuasse ad essere utilizzabile per lungo tempo, dopo la estinzione dello ius in re aliena).

Disc. Però questo criterio, dicevi, non é in pratica adottabile. E allora?

Doc. E allora...io lascio la parola a un illustre Studioso, il G. Provera - il quale, trattando dell’art. 1570, dopo aver rilevato (in, Locazione, Commentario Scaialoja-Branca, Bologna-Roma, 1980, p.196) che la “distinzione fra manutenzione ordinaria e straordinaria (o fra riparazioni ordinarie e straordinarie o fra spese ordinarie e straordinarie) non si presenta affatto agevole”- così continua: “ In mancanza di una definizione legislativa, la dottrina ha cercato di individuare criteri sufficientemente precisi, comunque tali da consentire la soluzione di ogni problema derivante dalla distinzione sopra indicata. Si tratta, però, di criteri tanto elastici da lasciare al giudice un ampio margine di discrezionalità. In via largamente approssimativa si può ritenere che le opere di manutenzione ordinaria sono quelle che, oltre ad essere normalmente prevedibili entro un certo lasso di tempo, comportano altresì una spesa tutto sommato

modesta rispetto al valore e al reddito della cosa, tanto da potersi considerare inerente alla sua produzione. Le opere di manutenzione straordinaria, invece, sono quelle, che non sono prevedibili come effetto normale a breve o medio termine, che consistono nella sostituzione o nel ripristino di parti essenziali della struttura della cosa e il cui costo normale risulta sproporzionato al reddito normale” (le parole da me messe in corsivo costituiscono una citazione, fatta dal Provera, del Pugliese, in Usufrutto, p. 512 e ss.).

10 – L’onere della prova nell’azione di rivendicazione

Che significa provare la proprietà di un bene? come norma, significa provare l’acquisto a titolo originario (di solito per usucapione) del diritto (di proprietà su tale bene) in capo a sé o al proprio dante causa o al dante causa del proprio dante causa e così via: una probatio diabolica, anche se mitigata nel suo rigore dagli istituti della successio e della accessio possessionis (art. 1146) e dalla possibilità di giovarsi come prove, non solo di scritti e documenti, ma anche di testimonianze e presunzioni.Si pensi al caso di A, che conviene in giudizio B, che come lui ha acquistato da C: se B contesta la validità dell’acquisto di A e C, ma ammette l’esistenza di un diritto di proprietà di C (e si dovrà presumere che l’ammetta, anche se si limita a non contestarlo (1), A (l’attore in rivendica) potrà ritenere pacifica l’esistenza di tale diritto (e limitarsi a provare la validità del suo acquisto (2)).E se invece B (il convenuto in rivendica) contesta il diritto del suo stesso dante causa (idest, di C)? Qui secondo noi bisogna distinguere: se B è nel possesso del bene, la contestazione costringe A a provare l’esistenza del diritto di C (in pratica li costringe alla probatio diabolica), se invece B non è nel possesso del bene (3), la sua contestazione non grava (necessariamente) (4) A, il rivendicante della probatio diabolica (5).Si pensi ancora (per avere un altro esempio di esenzione dalla probatio dabolica ad A, che conviene in giudizio B, a cui ebbe precedentemente a dare in comodato (o in locazione o in deposito …) un bene. e che ora rifiuta di restituirglielo, contestando il suo diritto di proprietà. Nessun dubbio che ad A basterà, per ottenere la condanna alla restituzione del bene, la prova di averlo prima dato in comodato (o in locazione ….) a B. Guai se si costringesse, chi ha stipulato un contratto, che implica il trasferimento all’altra parte della detenzione di un bene, a dare la prova (come si è spiegato, difficilissima) della sua proprietà per riaverlo indietro: il traffico giuridico si bloccherebbe: tutti esiterebbero a stipulare simili contratti per il timore di perdere definitivamente il bene trasferito. A questo punto lo studioso dirà “Tutti quelli finora

fatti sonno bei discorsi e anche convincenti: ma che dice il codice?”.Ebbene il codice sul punto della prova (che è il punto focale della reivinidicatio) nulla dice. Infatti il comma 1 dell’art. 948 si limita a recitare “(Azione di rivendicazione). Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno”. Però l’art. 948, se non aiuta il giurista a risolvere il problema della prova (e forse è bene che sia cosi), toglie alcuni ostacoli (non piccoli) a chi è costretto ad agire in rivendica. In primo luogo, consentendogli l’azione nei confronti sia del possessore che del detentore (6). In secondo luogo, stabilendo la perpetuatio legitimationis, consentendo cioè la prosecuzione della rivendica contro il possessore, che, dopo la proposizione della domanda, abbia cessato di possedere.

Note.(1) Infatti presumere che B contesti e disconosca il diritto di proprietà di C significherebbe presumere la sua malafede al momento dell’acquisto di C, in quanto solo un uomo di mala fede è disposto a comprare da chi sa non essere il proprietario. Questo mentre invece la buona fede va sempre presunta.(2) In definitiva, nella fattispecie in esame (diverso il discorso per la fattispecie che dopo esamineremo), non si fa altro che applicare il principio processuale che solleva l’attore dalla prova dei fatti, dal convenuto, non contestati.Nella dottrina e nella giurisprudenza francese ha buona accoglienza la c.d. “doctrine du droit meilleur” secondo cui ragioni pratiche ed equitative convincono in certi casi ad attenuare il rigore della prova e a ritenere che “on ne puisse réclamer du revendiquant que la preuve d’un droit meilleur ou plus probabile que celui du defendeur”.In Italia tale teoria è rifiutata. E anche noi, lo vogliamo chiarire scanso di equivoci, condividiamo le affermazioni giurisprudenziali che “l’attore ha l’onere di provare il suo diritto di proprietà anche se il convenuto non vanti su di essa (idest, sulla cosa) un proprio diritto” e che neppure se il convenuto abbia invocato “un proprio diritto sulla cosa e la sua prova sia fallita vien meno l’onere dell’attore di provare il diritto domenicale”- cfr su tali citazioni S. Ferrari (Rivendicazione, dir. Vig., in Enc. Dir., p. 56).Però si deve riconoscere che in nessuno dei casi ora citati (a differenza del caso esemplificato nel testo) vi è una ammissione, neppure implicita, del convenuto sulla esistenza del diritto del dante causa (proprio e dell’attore). Per tale ipotesi (per l’ipotesi cioè che il convenuto riconosca il diritto di proprietà del comune dante causa) acquista invece rilievo l’insegnamento giurisprudenziale che, il rigore dell’onere probatorio nell’azione di rivendica, va commisurato alle concrete particolarità della singola controversia, dovendo il giudice tenere conto delle ammissioni del convenuto (Cass. 24 Dicembre 1977 n. 5669) e che “l’intensità e l’estensione dell’onere probatorio del rivendicante

devono (…) subire opportuni temperamenti a seconda della linea difensiva del convenuto” (cfr. Cass. 10 Marzo 1969 n. 771).Nella Dottrina, il Martino (Della Proprietà, in Commentario Scialoja-Branca, 1964, p. 415) ritiene che “qualora il convenuto eccepisca un titolo di acquisto, che non contrasti con la proprietà del dante causa dell’attore, questi non è tenuto a provare il dominio del suo attore” e giustifica tale soluzione così: “Si tratta di un limite logico dell’onere della prova, che deve essere valutato sempre in relazione alle pretese delle parti.(3) Caso in cui, a dire il vero, non ci si trova più in un’ipotesi di azione di rivendicazione, ma di accertamento.(4) E non lo graverò se egli riuscirà a dimostrare semplicemente di avere “le droit meilleur”: egli ha, ad esempio, acquistato in buona fede, mentre B era in mala fede.(5) E questo perché noi riteniamo che l’azione di accertamento (cioè l’azione volta a far dichiarare il diritto di proprietà nei confronti di chi non è né possessore né detentore del bene) necessiti di una minor prova che l’azione di rivendica.Ciò che è il linea col principio, secondo cui lo Stato, per accogliere la domanda dell’attore, deve chiedergli una prova tanto più rigorosa, quanto più pesanti sono i danni che, dall’accoglimento di tale domanda, deriverebbero al convenuto. Ora appunto, una sentenza che accolga una rivendica, risulta più pesante per il convenuto di una sentenza che accolga un’azione di accertamento: nel primo caso infatti si ha uno spossessamento del convenuto, nel secondo no.Sul fatto che l’azione di accertamento necessiti di prova meno rigorosa vedi Silvia Ferrari (Rivendicazione, p. 56) con numerose citazioni di Autori pro e contro. Vero è che molti Autori accolgono la tesi del minor rigore di prova per il fatto che l’attore può vantare in caso si azione di accertamento una “presunzione di proprietà fondata sul possesso”, ciò che impedisce a noi di giovarci della loro autorità nell’esempio fatto nel testo (in cui si suppone che né l’attore né il convenuto abbiano ancora conseguito il possesso della res).(6) Tale “alternativa consentita dall’attore”- spiega Silvia Ferrari (Rivendicazione, p. 52) –“trova la sua ragione d’essere nello scopo di sollevare l’attore dalla necessità di specificare preventivamente la natura della relazione di disponibilità materiale del convenuto nei confronti della cosa rivendicata”.Tale possibilità concessa all’attore (dal codice), è controbilanciata dalla possibilità, riconosciuta (dalla giurisprudenza) al detentore convenuto in giudizio, di effettuare la c.d. laudatio actoris: il detentore può ottenere di essere estromesso dal giudizio indicando il soggetto in nome del quale detiene.Le ragioni della concessione al detentore di tale possibilità “consistono, da un lato, nell’economia dei giudizi così realizzata evitando all’attore di doversi procurare un nuovo titolo esecutivo nei confronti del possessore mediato, ove questi abbia ottenuto la restituzione del bene, dall’altro, nell’interesse del detentore a sottrarsi al giudizio e al rischio di dover risarcire al proprio autore, nel casi di soccombenza, il danno per la perdita del bene” – sul punto cfr. Silvia Ferrari (Rivendicazione, cit., p.53).

11- In facultativis non datur praescriptio

Abbiamo avuta già occasione di vedere che il legislatore ritiene fisiologico e normale che una persona non usi di tutti i beni, che vengono a formare il suo patrimonio. A maggior ragione Egli non può non ritenere fisiologico e normale che un proprietario (un enfiteuta, un usufruttuario …) non colga tutte le utilità che il bene (oggetto del suo diritto) potrebbe offrirgli. Caio non potrà disporre della somma necessaria per costruire nel suo fondo quel grattacielo, che ne costituirà il maggior ornamento, se non tra cinquant’anni? Aspetti pure tranquillo, senza nessun timore di perdere la (preziosa) facoltà di edificare (e senza essere costretto dal timore di decadere da tale facoltà a costruire una casupola invece che un grattacielo o a venire a patti con un’agenzia immobiliare strozzina!).Perché il legislatore ammette, si, il non uso di un diritto (in re aliena),ma solo per un certo periodo di tempo (oltre il quale ne determina l’estinzione), mentre invece per la “facoltà” esclude ogni forma di prescrizione estintiva? Perché, mentre l’estinzione del diritto (in re aliena) non usato, apre la possibilità ad altri (e precisamente al proprietario) di utilizzare (di nuovo o più ampiamente) la cosa, l’estinzione di una facoltà comporterebbe sic et simpliciter la perdita di una utilità (che la cosa potrebbe invece ancora offrire): se, ragionando ad absurdo, Caio, il proprietario, perdesse la facultas aedificandi dopo 20 anni che non ne avesse usato, il suo terreno diventerebbe sic et simpliciter inedificabile, mentre invece se Sempronio perdesse per non uso il suo diritto di usufrutto sul campo A, ci penserebbe Caio, il proprietario, a cogliervi le mele e a seminarvi il grano.Ma se il legislatore riconosce l’opportunità di un’estinzione (per non uso) di una servitù di veduta, in quanto pensa che tale estinzione sbloccherà, per così dire, energie e iniziative economiche nel proprietario del fondo servente (Caio il proprietario del fondo servente potrebbe decidersi a fare una veranda o, addirittura, a costruire una villetta là dove prima aveva ragione di temere che il vicino aprisse un importuno balcone), perché Egli (idest, il legislatore) non riconosce l’opportunità di una estinzione (col tempo) di una facoltà di aprire una veduta? Evidentemente – ecco la risposta più o meno soddisfacente, ma la migliore che noi si sappia trovare – perche egli, il Legislatore, pensa che la possibilità dell’apertura di una veduta col rispetto delle distanze legali non sia sentito dal vicino come un pericolo tale da fargli astenere da una qualsiasi apprezzabile forma di utilizzazione del fondo.

12- La prova nell’ambito dell’azione di regolamento di confini

E’ un’applicazione del principio commentato nel paragrafo precedente (cioè del principio, In facultativis non datur praescriptio) che il proprietario di un fondo

costituito, metti, da tre diversi appezzamenti – A (un bosco), B (un prato), C (un terreno seminativo) – non perda il suo diritto su uno di tali appezzamenti, anche se per lunghissimo tempo non vi ha mai messo piede e minimamente se n’è curato.E in definitiva è sempre un’applicazione di tale (fondamentale) principio che una persona possa acquistare col tempo la proprietà di tutto un fondo (come in un prossimo paragrafo spiegheremo, possa usucapire tutto un fondo), anche se di fatto non ne abbia posseduto che alcuni appezzamenti (Tizio, per rifarci all’esempio prima introdotto, nel bosco non ha mai messo piede e tuttavia ne usucapisce anche il bosco, se è nel possesso del terreno seminativo e del prato).(1)Che cosa c’entra tutto questo con l’azione di regolamento dei confini, si domanderà a questo punto lo sbigottito studioso? C’entra: metta, lo studioso, che Caio si veda contestata tutta la proprietà del fondo: basterà ch’egli dimostri, di aver pascolate le sue pecore nel prato di B e di aver seminato nel terreno di C, per 20 anni, e con ciò stesso avrà dimostrato il suo possesso di tutto il fondo e la sua usucapione. (ergo, la sua proprietà) di tutto il fondo. Ma metta ora lo studioso che a Caio venga contestata solo la proprietà sull’appezzamento A (il bosco): è ben possibile ch’egli su tale apprezzamenti mai abbia messo piede e che, ciononostante, ne sia proprietario (per quanto detto prima): quindi assurdo sarebbe imporgli di provare la sua proprietà (sul bosco) con il suo possesso continuato (del bosco)!Il legislatore è di ciò ben consapevole e per questo nell’art. 950 stabilisce che nell’azione di regolamento di confini (azione che si risolve in definitiva nella controversa sulla proprietà di un particolare appezzamento di terreno) “ogni mezzo di prova è ammesso” e che “in mancanza di altri elementi, il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali”.

(1) “Perché si abbia il possesso di un fondo, ai fini dell’usucapione, non è necessario compiere atti di possesso su ogni punto di esso, ma è sufficiente tenerlo come proprio nella sua completa individualità, con la possibilità di esercitarvi il potere di fatto su ogni parte, sempre che lo si voglia” (Cass. civ., 28 marzo 1958, n. 7077, in Giur.it. Rep., 1958, v. Usucapione, n.6).

13 – Le servitù prediali

Che cosa deve intendersi per “servitù”? Ce lo dice l’articolo 1027, che recita: “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario”.Quindi, perché ci si trovi di fronte a una servitù occorre che la limitazione dei poteri di disposizione e di godimento imposta al proprietario di un fondo (il “peso”

impostogli, per usare il termine legislativo) abbia i requisiti della: I, predialità; II, alterità; III, utilitas.Predialità. Tale requisito ha i tre seguenti significati:Primo significato: le “limitazioni” (di cui abbiamo parlato sopra) debbono riguardare i poteri di disposizione e di godimento su un predio, su un fondo. Se il proprietario del fondo A si obbliga a recarsi ogni giorno ad innaffiare i fiori del vicino, egli senza dubbio accetta con ciò una limitazione dei suoi poteri di disposizione, ma sulla sua persona (e non sul suo predio!) e pertanto non ci troviamo di fronte ad una servitù prediale.Secondo significato: se A vende il fondo a M su cui ha costituita una servitù, questa continua a sussistere, solo che grava non più lui ma chi ha acquistata la proprietà da lui. Così come se fosse una qualità (negativa) inerente al fondo (non diversa dall’essere questo argilloso, franoso, da pascolo …).Terzo significato: il peso (per usare il termine legislativo) imposto dal fondo (c.d. servente) deve ridondare a vantaggio di un altro fondo (ma - si domanderà lo studioso – i fondi posso avere dei vantaggi? No, di certo, i fondi, come tutte le cose inerti e insensibili, non possono avere dei vantaggi, ma dire che il peso imposto al fondo servente – melius al proprietario del fondo servente - deve ridondare a vantaggio di un altro fondo, è un modo immaginifico e un po’ suggestivo, comunque tradizionalmente accettato, per significare che i vantaggi che ridondano sul proprietario del fondo dominante debbono presentare le caratteristiche che …. se lo studioso ha un po’ di pazienza gli diremo subito.Fermiamoci un po’ su questo punto perché è il punto nodale in subiecta materia: non hanno diritto di cittadinanza nel nostro diritto le servitù personali (1): il mobilificio Fabris potrà acquistare dal proprietario del fondo A il diritto di cavarvi il marmo, che gli necessita per adornare i suoi mobili, ma tale diritto (salve le migliori precisazioni che daremo in seguito) non potrà assurgere alla dignità di diritto reale: se il proprietario del fondo A venderà questo ad un terzo, tale terzo non sarà obbligato a permettere al mobilificio di continuare a cavare marmo dal fondo. Perché questo? perché questa caratteristica della “predialità”? Perché le limitazioni imposte a un fondo, da una parte, potrebbero non essere particolarmente vantaggiose per chi ne beneficia, dall’altra, potrebbero rivelarsi un grave intralcio allo sviluppo economico: Caio ha acquistato il diritto di fare footing ogni mattina nel fondo vicino: bene, ma non sarebbe assurdo che l’esistenza di tale diritto impedisse l’acquisto del fondo (servente) da parte del cavalier Rossi, che vi vorrebbe costruire un supermercato? Chiaramente, sì: l’interesse di Caio alla corsetta mattutina deve soccombere di fronte all’interesse della collettività ad avere il supermercato. Quindi il legislatore è disposto

a riconoscere il carattere della realità (nel senso spiegato nel nono paragrafo) a un diritto che implica limitazioni (di disposizione, di godimento) su chi possiede un fondo (il fondo “servente”), solo quando la sua esistenza corrisponde a una particolarmente forte utilitas del suo titolare. E siccome la valutazione della forza, della intensità che deve avere tale utilitas (per riconoscere il carattere della realità, ecc.ecc.) il legislatore non la può rimettere alla discrezionalità dell’Autorità Giudiziaria (dato che ogni potenziale acquirente di un fondo vuole sapere con sicurezza se esso gode o è gravato da una “servitù”), Egli, (idest, il Legislatore) cerca di dare un criterio - e particolarmente chiaro e sicuro (ancorché in alcune marginali fattispecie possa comportare delle irrazionalità) – per determinare quando tale forte utilitas ci sia (alias, quando ci sia una servitù prediale) e quando, no. E tale criterio (netto e sicuro) Egli lo trova nel fatto che, la limitazione ai poteri del proprietario del fondo servente (il “peso “ imposto al fondo servente), soddisfa un interesse legato al possesso di un altro fondo: con ciò volendosi intendere che. il venir meno della tutela di tale interesse, verrebbe anche a vanificare o a ridurre in modo apprezzabile l’utilitas, dal possesso di tale secondo fondo, ricavabile.Qualche esempio. Io sono proprietario di un fondo, bello ma intercluso (oppure, mancante d’acqua …): costituisco una servitus itineris (una servitus acquaedoctus…) a carico del fondo limitrofo: nessun dubbio che tale servitù abbia il carattere della predialità: infatti, se venisse meno la tutela al mio interesse a passare sul fondo vicino, verrebbe meno (o almeno scemerebbe moltissimo) anche ogni utilità che il fondo potrebbe dare (a me e a chiunque acquistasse da me il fondo!): che valore può avere un fondo in cui ci si può recare solo con l’elicottero?!?Altro esempio (che ricaviamo da un famoso frammento del Digesto) (2): Nigerio nel suo fondo A raccoglie frutta e prepara marmellate che vende in vasetto d’argilla (da lui fabbricati). L’industria di Nigerio è attiva in quanto e solo in quanto egli può prendere la materia prima dei vasetti (l’argilla) nel terreno limitrofo di Sempronio: c’è anche il terreno di Cornelio che è argilloso, ma è una decina di chilometri e il costo di un trasporto da così lontano si mangerebbe tutti i guadagni. Nigerio, quindi, da uomo prudente, prima di impiantare l’industria conserviera (e spendere il soldi per i relativi macchinari), si è assicurato dal vicino il diritto di prendere argilla: può essere qualificato, tale diritto, come servitù prediale? Senz’altro, se è vero che, venuta meno la possibilità di prendere l’argilla dal vicino, verrebbe meno per Nigerio (e per chiunque altro acquistasse da lui il fondo e la fabbrica da lui costruita sul fondo!) anche l’utilità di esercitare l’industria conserviera (e quindi l’utilità di possedere il fondo su cui tale industria è impiantata). (3) A questo punto può essere utile per lo studioso porre a confronto quest’ultimo

esempio con quello (introdotto all’inizio) del mobilificio Fabris che, pur avendo sede in Bologna, si procura i marmi in quel di Carrara, nel fondo A del Bianchi. Il venire meno della possibilità di cavar marmi dal fondo di A, non incide per nulla sull’utilità, o meno, del mantenere la sede del mobilificio dov’era prima: se la sede in via Pastolozzi di Bologna ci stava bene prima, ci starà bene anche ora: non è cambiando sede che il mobilificio risolve il problema economico creatogli dall’impossibilità di continuare la cava nel fondo A: egli può pensare di risolvere tale problema solo acquistando un altro diritto di cava da un altro fondo carrarese. Invece, il venire meno della possibilità di cavar argilla, pone effettivamente a Nigerio il problema della convenienza, o no, di sbaraccare: quale indice più chiaro che, nel primo caso, ci troviamo ad una servitù personale e, nel secondo, ad una servitù prediale?Dagli esempi ora portati, risulta (implicitamente) che non è un requisito essenziale delle servitù la vicinitas (forse che Nigerio non potrebbe avere interesse a cavar l’argilla tanto necessaria alla sua industria, da un fondo distante anche un chilometro? Forse che pure in tale ipotesi il venir meno della cava non potrebbe vanificare o ridurre l’utilitas di conservare l’industria e il fondo su cui è impiantata?!)(4).Oltre alla predilità sono invece, come già si è accennato, ulteriori requisiti della servitù: la utilitas e la “alterità” del fondo.Alterità del fondo. Questo requisito viene tradizionalmente espresso col brocardo “Nemini res sua servit”; e sembra essere il corollario più di una legge logica che di una legge giuridica: è logico che nessuno possa chiedere una tutela giuridica contro se stesso!Però sulla portata di questo principio bisogna intendersi: nulla impedisce a Caio, proprietario di due fondi finitimi, A e B, di costituire su B un diritto di enfiteusi a favore di Cornelio, nello stesso tempo costituendo, sempre su B ma a favore del fondo di cui conserva la piena proprietà, una servitù (metti di passo, di presa d’acqua…).Utilitas. Già gli antichi giureconsulti ritenevano che tale requisito dovesse intendersi in senso lato, comprensivo dell’amoenitas; e la chiara lettera dell’art. 1028 (5) toglie ora ogni possibile dubbio sul punto (6).Discutibile, invece, se l’utilitas debba essere di entità apprezzabile o se basti, invece, per ritenere l’esistenza di una servitù, ch’essa arrechi una qualsiasi utilità, anche minima, al fondo dominante. Noi riteniamo valida la prima alternativa (la servitù deve arrecare un’apprezzabile utilità): Tizio ama fare il footing e il suo giardino è troppo piccolo per dar sfogo alle sue energie: egli acquista dal vicino Cornelio il diritto di correre nel suo fondo. Certamente si può dire che il venir meno di questo diritto diminuirebbe per Tizio il gusto e il piacere del viver nel suo fondo (idest,

l’utilitas di questo), tuttavia noi negheremmo a una tale diritto la qualità di “realità” (7) (alias, che sia un diritto di servitù).È invece pacifico che non sia un requisito della servitù la c.d. “perpetua causa”(8): certamente un diritto di servitù può essere costituito ad tempus (per soli 30,40 anni, metti) e in risposta ad un bisogno transeunte del fondo dominante (9).

Note.(1) Il Branca (Delle servitù prediali, in Commentario Scalja-Branca, Bologna, 19547, p. 292) nota che l’inammissibilità di servitù personali – in cui si esprime il principio del favor libertatis dei fondi – si spiega con la considerazione “ l’utilizzazione parziale del fondo importa un frazionamento irrazionale dei poteri (con residui di godimento e di suo a favore del proprietario)” cosa che “la società non può vedere di buon occhio almeno nell’ambito dei rapporti con vincolo erga omnes”.(2) D.8.3.6. pr. citato anche dal Branca (Delle servitù.cit.,p.299).(3) Per il capoversi dell’art. 1029, l’utilità – che la servitù è diretta a procurare- può “essere inerente alla destinazione industriale del fondo”.Da questa formulazione (a dir vero un po’ confusa) della legge, si vuole dedurre che, per l’esistenza della servitù, non basta che essa miri a rendere economicamente vantaggiosa un’industria esercitata in un fondo, ma occorre pure che, ai fini dell’esercizio dell’industria, siano state fatte opere od eseguire delle modifiche nel fondo (alias, ai fini dell’esercizio dell’industria si siano investiti nel fondo, pochi o tanti, dei capitali).Ma è meglio che qui noi lasciamo la parla al già citato, Cod. civ. ann. a cura del Perlingieri (sub art. 1028, p. 330), che così sintetizza il prevalente orientamento giurisprudenziale e dottrinale sul punto: “Per destinazione industriale s’intende l’esistenza o la predisposizione nel fondo dominante di quei mezzi particolari che consentono l’esercizio dell’industria”.Le servitù di cui stanno parlando vengono chiamate “servitù industriali”, nel gruppo di tali servitù sono fatte rientrare le “servitù di non concorrenza, consistenti ad es. nel divieto di costruire sul fondo servente uno stabilimento che produca cose eguali o simili a quelle prodotte nello stabilimento del fondo dominante”.Si distinguono dalle servitù industriali e non hanno diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento le cc.dd. “servitù aziendali, nelle quali il vantaggio va esclusivamente all’industria e non al fondo”.Sui punti in questione vedi l’ottimo Perlingieri (Op.cit. p. 330 e 331) che, come sopra, fornisce numerosissimi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. Noi crediamo che, se lo studioso seguirà criteri da noi dati nel testo, approderà alla giusta soluzione dei casi che la Professione gli presenterà (senza arenarsi nelle secche di distinzioni bizantine: quando mai si può dire che un vantaggio va al fondo e non all’industria?!).(4) Sul punto che né la vicinitas né tanto meno la contiguità dei fondi siano requisiti essenziali per la costituizione della servitù, sono unanimi la dottrina e la giurisprudenza. Confronta per tutti, Grosso e Deiana, Le Servitù prediali, Torino, 1963,I,p.202.(5) L’articolo 1028 recita: “(Nozione dell’utilità) – La utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Può del pari essere inerente alla destinazione industriale del fondo”.

In base alla formulazione dell’art. 1028 si ritiene che con la costituzione di una servitù possa “essere soddisfatto qualunque bisogno del fondo dominante, da quello che assicura una maggiore amenità, abitabilità, comodità (…) a quello di evitare rumori o esalazioni o esercizi che abbiano una destinazione spiacevole o fastidiosa” – sul punto già citato il Cod.civ.ann., sub art. 1028, p. 329, con ivi citazioni dottrinali e giurisprudenziali.La formulazione dell’art. 1027 (dove si parla della servitù come di un peso imposto ad un fondo “per l’utilità di un altro fondo”) parrebbe suggerire l’idea di un carattere oggettivo dell’utilitas: in altri termini perché a un ius in re aliena possa attribuirsi l’efficacia erga omnes (la qualificazione di servitù) occorrerebbe che l’utilitas, che mira ad assicurare, possa essere apprezzata come tale, non solo da chi, lo ius in re aliena, ha costituito, ma anche da qualsiasi altra persona, in particolare da un eventuale acquirente del fondo (dominante). Per ciò stesso, la costituzione di una servitù dovrebbe comportare un aumento del valore del fondo (dominante, naturalmente).Certamente noi escluderemmo che la qualifica di un diritto come servitù possa dipendere solo dall’arbitraria decisione di Caio proprietario del “fono servente” (decisione che, si badi, verrebbe a vincolare anche Sempronio che, putacaso, acquistasse da lui il fondo!). Però il fatto che, come vedremo, una servitù si possa costituire anche in risposta ad un bisogno non permanente del fondo, ci porta a non escludere che la regola, valida come criterio di massima, che la servitù per essere tale deve essere tale da comportare un vantaggio anche per un eventuale acquirente del fondo (dominante), possa avere delle eccezioni: quel che veramente importa è che l’utilitas che dà la servitù al fondo dominante sia tale da giustificare che sia assoggettato al suo vincolo anche un eventuale acquirente del fondo servente.Eguali perplessità ci sembra avere il Branca, il quale osserva come “l’aumento stesso de valore di un fondo come conseguenza dell’attribuzione di un diritto al proprietario di questo, non è un criterio universalmente sicuro per concludere che si tratti di servitù” (Delle servitù, cit..p.298).(7) Confortati in tale sede dal ben noto cifr. Latino (D.8.1.8.) in cui il Giurista precisa che coglier frutta, passeggiare, pranzare nel terreno altrui, non possono essere il contenuto di una servitù. E questo, non perché, come dice il Branca (Delle servitù, cit.,p..297), in tali casi “l’utilità è normalmente personale”. Non c’è diritto (e a ciò quelli di servitù non fanno di certo eccezione!) che non miri ad assicurare una “utilità personale”. Però in alcuni casi essa è talmente apprezzabile da far attribuire al diritto il carattere della realità, e in altri (come quelli esemplificati nel citato frammento), no.(8) Branca (Delle servitù.cit.,p..297) ritiene ammissibile la servitù “quando c’è un sanatorio o un albergo, a vantaggio dei quali sono stato assicurati i diritti di camminare, passeggiare ecc, in alieno”. Il che ci trova pienamente consenzienti; qui l’utilitas del fondo dominante è veramente apprezzabile.(9) Confronta sul punto, per tutti: Lucchese, Il requisito della perpetua causa e le servitù irregolari, in Vita notarile, 1975,p.85 ss.(10) Si fa però giustamente osservare che il bisogno del fondo dominante, pur non dovendo essere permanente, deve avere una certa stabilità e durevolezza (Albano, Della proprietà, in Commentario al codice civile; UTET, 1968,II,p,294).

14 - Comunione

Poniamo che A, B, C stipulino un contratto di compravendita per l’acquisto di un terreno, metti un aranceto: conseguenza (effetto giuridico del contratto nei loro confronti) sarà ch’essi risulteranno titolari di un eguale (1) diritto sull’aranceto – diritto che però non sarà più un diritto di proprietà (tre diritti di proprietà non possono coesistere su una stessa cosa)(2) ma un quid, un diritto diverso, che si può chiamare “diritto di comproprietà” (nella fattispecie – e che sarebbe invece diritto di cosufrutto, diritto di coservitù, se oggetto dell’acquisto fosse stata una servitù e così via).La coesistenza di tali diritti darà senza dubbio luogo a dei problemi (3); problemi che il nostro codice cerca di risolvere negli articoli 1100 e segg. (4) e di cui noi di seguito evidenzieremo i principali.

I. Limiti al diritto d’uso di ciascun comunista.

Per l’articolo 1102 “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.L’importante principio che stabilisce questo articolo, è che B, C (gli altri comunisti), non hanno diritto di proibire al comunista A un dato uso della res communis, se questo uso non impedisce loro di usare della stessa (scilicet, non solo nelle stesse forme di A, ma anche in forme diverse)(5). Quindi mentre i comproprietari B e C (per rifarci all’esempio prima introdotto) potrebbero dire a un terzo qualsiasi, che volesse venire a zappare e a cogliere i frutti nel fondo da loro lasciato in abbandono, “Si, è vero, noi non coltiveremmo né in altra maniera useremmo del terreno, ma ciò nulla significa; se vuoi zapparci, se vuoi coglierne i frutti tu devi darci tot di soldi”; tale discorso essi non potrebbero ripetere a C (il terzo comproprietario): egli potrebbe benissimo totalmente usare della res, se totalmente gli altri comproprietari non la usassero (5bis): “Voi, B e C, non volete usare dell’appartamento comprato insieme? Ebbene io vado a dormirci tutti i giorni.Non è forse questa una soluzione naturale, una soluzione corrispondente all’interesse dello Stato a che tutti i beni costituenti la ricchezza nazionale siano al massimo utilizzati? Certamente, si!Ma diverso è il caso in cui l’uso, che della res communis faccia un comunista, impedisca agli altri comunisti di usarne loro: A e B, comproprietari di un cavallo, vogliono montarlo nello stesso giorno e nella stessa ora. In tal caso l’interesse di A e quello di B hanno pari dignità e pari diritto alla tutela dello Stato: si tratterà per

Questi (idest, per lo Stato) di trovare il criterio più adatto per arbitrare e risolvere il conflitto (insorto tra A e B) - e di ciò parleremo in seguito.Il comunista, come deve astenersi da quei comportamenti che impediscono un uso (un uso qualsiasi), che della res un altro comunista intende fare, così anche deve astenersi da quei comportamenti che semplicemente rischiano di impedire un uso, che altro comunista potrebbe in futuro voler fare. E ciò spiega il divieto di “alterare la destinazione” della res (che l’art. 1102 impone). Infatti, se A trasforma l’aranceto, acquistato con B e C, ma lasciato in abbandono da B e C, in un uliveto, non potrebbe certo dirsi che con ciò impedisca a B e C di farne sul momento uso (dato che B e C sul momento sono in città presi in tutti altri pensieri che la coltivazione del campo), però potrebbe ben dirsi che con ciò rischia di impedire il possibile uso che B e C potrebbero in futuro voler fare del campo: B e C hanno comprato l’aranceto perché, commercianti in agrumi, si riservano un domani di cavarne arance da vendere al mercato: ora, che uso essi potranno fare del campo, una volta che è stato trasformato in uliveto? Essi conoscono il mercato delle arance e non delle ulive. A, mutando la primitiva destinazione del campo, in pratica ha impedito loro di farne (in un domani) uso.Più in generale si può dire che il partecipe alla comunione deve astenersi da un uso della cosa – sia che tale uso assuma le forme di un uti vero e proprio (passeggiare, cavalcare, abitare…nella cosa comune) o di un frui (cogliere le arance dell’aranceto, riscuotere e far esclusivamente proprio il canone dell’appartamento locato…) - tutte le volte in cui è possibile che il suo comportamento contrasti col programma di utilizzazione della res di un altro partecipante: tu, A, comproprietario dell’aranceto vuoi cogliere le arance? Non puoi farlo, a meno che non vi sia il consenso espresso o tacito degli altri partecipanti. “Ma le arance sono mature”: “tu, le giudichi mature, B e C potrebbero ritenerle ancora acerbe”; “ Ma io mi prendo solo un terzo”; “Dici tu che ti prendi un terzo, B e C potrebbero ritenere che prendi di più”.Questa regola, a ben guardare, corrisponde a quell’elementare principio del diritto che fa divieto a una persona di farsi ragione da sé: bisogna che sia un terzo a dire se essa ha veramente ragione o ha invece ragione chi vuole tenere un comportamento col suo contrastante.E questo terzo in una comunione non può che essere la maggioranza dei comunisti riunita in assemblea (o quella sorta di mandatario di tale maggioranza, che è l’amministratore)(6).Nel dirimere i conflitti insorti sull’uso della res communis, l’assemblea non dovrà proporsi di tutelare un interesse sacrificando l’opposto, ma di trovare un modus vivendi, un’armonizzazione tra gli interessi in conflitto (modus vivendi che consisterà

di solito in una divisione nello spazio (7) o nel tempo (8) del godimento). In ogni caso l’assemblea dovrà osservanza a quanto dispone il capoverso dell’art. 1101: il concorso dei partecipanti, tanto dei vantaggi quanto nei pesi della comunione, dovrà essere in proporzione delle rispettive quote: se A, in caso di scioglimento della comunione, avrebbe diritto a metà della res (9), pure a metà dei “vantaggi” che questa arreca (durante lo stato d’indivisione) egli avrà diritto: e ciò significa, non solo che, se si vota, il voto A varrà quanto quello di B e C messi insieme, ma, per quel che più interessa, che nel godimento del bene egli avrà diritto a quanto B e C messi insiemehanno diritto (se sono disponibili 4 posti macchina nel parcheggio, due ne toccheranno a lui, e gli altri due a B e C insieme) (10).II. Limiti al potere di amministrazione della res communis.

Il godimento di un bene presuppone l’amministrazione del bene; e questo pone spesso vari complessi problemi (il campo lo si affitta o lo si coltiva direttamente? lo si coltiva a grano o a soia? si è verificato il tal danno: vale la pena di ripararlo? e a quale impresa rivolgersi?sostituire il mulino a vento con un mulino elettrico più funzionale?…). Se i partecipanti hanno, com’è possibile, idee diverse sulla soluzione da darsi a tali problemi, chi decide? Ovvio, la maggioranza. Ma deciderà secondo il principio del “ogni persona un voto” oppure si darà al voto di ogni comunista un peso proporzionale al valore della sua quota? È questa una domanda a cui, come abbiamo già visto, risponde in via di principio il cpv. art. 1101: il peso decisionale di ciascun comunista è proporzionale alla sua quota, e tale risposta viene ribadita per la “comunione in generale” dagli articoli 1105 e 1108, che calcolano le maggioranze necessarie per le varie delibere “ secondo il valore delle quote” (v. il co.2. art. 1105 e l’incipit del co.1 art 1108). E quella così data, è senz’altro un risposta dettata da un’arida ma giusta logica di mercato; per convincersene basta ritornare all’esempio fatto all’inizio: A, B, C intendono comprare quel certo terreno, ma a ciò occorre che A versi i due terzi del prezzo perché i portafogli esangui di B e C più di un terzo non danno: si convincerà mai A a ciò, se saprà che, poi, ad amministrare il bene saranno B e C che lo metteranno costantemente in minoranza? Certamente, no: A è disposto a sborsare di più, solo se sa che poi il suo voto conterà di più.Tuttavia a tale criterio, si ripete di per sé giusto, si è ritenuto di derogare per quel particolare tipo di comunione che è il “condominio di edifici”: l’art. 1136 calcola le maggioranze, occorrenti per l’approvazione delle delibere condominiali, non solamente in base al valore delle quote rappresentate da un voto, ma anche in base ai voti: per cui se, metti, si tratta di decidere a quale ditta appaltare il lavaggio delle scale comuni, il voto di A ancorché rappresenti i due terzi del valore non prevale se B

e C dicono di no (v.art. 1136 co.2). Evidentemente tale deroga è stata data dalla preoccupazione di salvaguardare la pace sociale in quella piccola comunità che è il condominio: se un condominio è costituito da 9 condomini + Paperon de Paperoni, la cui quota di comproprietà è uguale a due terzi, si possono anche calcolare le maggioranze solo in base alle quote, con la conseguenza che la volontà di Paperon de Paperoni prevarrà sempre, ma alla fine occorrerà…..mettere un carabiniere a piantonare l’appartamento e a salvaguardare l’incolumità fisica di questo!Abbiamo visto come si calcolano le maggioranze; ma per ogni delibera occorrerà sempre la maggioranza? No, alcune volte, occorrerà una maggioranza semplice, altre volte, una maggioranza qualificata; perché una maggioranza qualificata? Perché occorre dare (se non la sicurezza, almeno) una certa garanzia, a chi intende partecipare ad una comunione, contro il verificarsi di due eventualità (assai temute): la prima, è che l’aspettativa di poter trarre dalla res communis certe utilità (io compro questo aranceto per poi vendere arance sul mercato) venga frustrata (il che può avvenire, oltre che con il cambio di destinazione del bene: non provvedendo alla riparazione del bene, con la locazione del bene, specie se fatta per lungo tempo, e, a maggior ragione, con la costituzione di un diritto reale sul bene o addirittura con la vendita del bene); la seconda (eventualità temuta), è che si sia trascinati in spese eccessive (anche se utili: utilissimo cambiare il mulino a vento con un mulino elettrico, ma io, i centomila euro che mi costerebbe ciò, li impiego, in maniera ancora più utile per me, nel riparare il tetto della mia casa (11).Orbene una certa garanzia contro il verificarsi di tali eventualità il nostro codice civile già la dà, imponendo (negli artt. 1108, 1136) per certe delibere appunto la maggioranza qualificata (e così, dovendosi considerar una locazione di lunga durata, anche se infranovennale, atto di straordinaria amministrazione, per la sua delibera occorrerà la maggioranza qualificata; e ancora la maggioranza qualificata occorrerà per le “innovazioni”(12).Vi sono poi delibere che l’assemblea non può prendere neanche a maggioranza. Esse sono in primo luogo quelle che pregiudicano (ingiustamente) il diritto di un comunista sulla res communis: tali sarebbero le delibere che frustrassero l’aspettativa del comunista a ricavare l’utilitas dalla res, o disponendo il cambio della sua destinazione economica (cambio di un terreno da aranceto ad uliveto) o negando quelle riparazioni necessarie per la funzionalità della cosa (non si provvede a riparare il tetto della casa), o alienando, costituendo un diritto reale o una locazione ultranovennale sulla cosa; ancora tali (idest, tali da pregiudicare il diritto del comunista sulla res communis) sarebbero le delibere che procedessero a ripartire il godimento della res prescindendo dal valore della quota del comunista (A è

proprietario per ½ e gli viene riconosciuto un godimento pari solo a ⅓).In secondo luogo, l’assemblea non può prendere neanche a maggioranza qualificata le delibere che pregiudicano il diritto del comunista (non sulla res communis, ma) sulla res propria: se A è proprietario di un fondo confinante con quello che ha in comune con B e C, l’assemblea del fondo comune non può imporgli di astenersi nel suo fondo privato da una certa attività (ad esempio giudicata troppo rumorosa) (13).

III. Modi di formazione delle delibere assembleari.

Abbiamo visto come le decisioni relative all’amministrazione della res communis sono prese a maggioranza (variamente calcolata) dei partecipanti alla comunione, si, ma quali procedure seguire e quali modalità adottare, al fine di pervenire alla decisione migliore possibile? Certamente a ciò occorrerà riconoscere a tutti i partecipanti il diritto di “concorrere nell’amministrazione della cosa comune” (così, co.1 art. 1105); ma tale “concorso” non potrà consistere solo nell’espressione di un voto (“Consento all’installazione dell’ascensore” “Mi oppongo alla nomina di un amministratore”): esso dovrà anche comportare la possibilità di convincere gli altri (comunisti) a dare un certo voto, e quindi la possibilità di interscambio di opinioni tra i vari comunisti (A, informato che C vuole fare nominare un amministratore, parla con C per dirgli che no, la nomina di un amministratore è una spesa inutile) – interscambio che, di per sé, potrebbe avvenire anche in colloqui separati, ma che avrebbe una “resa” migliore se avvenisse in un’assemblea (se in un’assemblea A dice a C che l’amministratore non è necessario ecc., B, che lo sente, può replicare).Non occorrerà, ovviamente, che tutti i partecipanti alla comunione siano presenti all’assemblea (anche se sarà opportuno pretendere un dato quorum di presenze per ogni delibera); ma occorrerà che tutti siano stati avvisati (e infatti anche se, su 100 partecipanti alla comunione, 99 fossero presenti e avessero detto “si”, ma A, il centesimo non fosse stato avvisato, basterebbe questo per legittimare il dubbio che A, intervenendo, avrebbe fatto valere ragioni capaci di mutare i 99 “si” in “no”), e non solo, occorrerà anche che tutti (i partecipanti alla comunione) siano stati informati dell’oggetto della delibera (solo se A saprà che nell’assemblea si discuterà della nomina di un amministratore, potrà andare all’assemblea preparato, ad es. provvisto della documentazione necessaria, per dimostrare che no, l’amministratore non va nominato).Veniamo al diritto positivo, a quel che dice il nostro Codice, ebbene non è da credere che questo dia sempre precise disposizioni su tutti i punti sopra indicati: lo fa

abbastanza per quel che riguarda il condominio (v. art. 1136), ma per quel che riguarda la “comunione in generale” si limita a stabilire (nel co.3 art. 1105) che “per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione”; senza chiarire neanche se questa va presa nell’ambito di un’assemblea o no (ma la prima soluzione sembra preferibile).

IV. Le difese concesse al comunista contro le decisioni della maggioranza.

“Le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini” (14); si, se però sono prese effettivamente “a norma degli articoli precedenti” (tutti i comunisti sono stati convocati, si sono rispettati i quorum prescritti…) e comunque sono conformi “alla legge e al regolamento di condominio”(15) (non pregiudicano i diritti dei comunisti, non sono contrarie all’ordine pubblico…): ma se non lo sono? A tale domanda rispondono l’art. 1109 (per la Comunione in generale) e l’art. 1137 (per il condominio degli edifici) (16); entrambi ammettendo nel caso il ricorso all’Autorità Giudiziaria, ma entrambi sottoponendolo allo (strettissimo) termine di 30 giorni.I problemi soprattutto nascono sui limiti di applicabilità del termine di decadenza: oltre a delibere soggette al termine di decadenza di 30 giorni (c.d. delibere “annullabili”), ve ne sono altre che, a tale termine, sfuggono nel senso che possono essere impugnate in ogni tempo (c.d. delibere “nulle”)? Certamente, si: non si può pensare che, da tale brevissimo termine, siano iugulati anche ricorsi contro delibere, che potrebbero ledere diritti fondamentali del condomino: l’assemblea a maggioranza semplice ha deliberato di vendere l’immobile: possibile che tale delibera diventi inattaccabile solo perché il comunista (pregiudicato nei suoi diritti) non è stato tanto lesto da impugnare entro i trenta giorni? Chiaramente non è possibile; e si tratta allora di trovare un valido criterio per distinguere le delibere nulle da quelle solo annullabili. Criterio che, secondo noi, dovrebbe essere il seguente: ci troviamo di fronte ad una delibera solo annullabile, se l’assemblea, reinvestita della decisione sullo stesso oggetto, potrebbe, nonostante il voto negativo del condomino ricorrente, validamente prendere una delibera dello stesso contenuto di quella invalida (ad esempio, perché non erano stati convocati tutti i comunisti o non era stato rispettato un dato quorum): negli altri casi ci troviamo di fronte una delibera nulla (e pertanto sarà tale la delibera che approva a maggioranza la vendita del bene comune o la esecuzione di innovazioni che comportino “una spesa eccessivamente gravosa”)(17).

Quid iuris, se la maggioranza dei comunisti, non decide invalidamente, ma semplicemente “non fa”?In tal caso il comunista (interessato) potrà ricorrere all’Autorità giudiziaria; ciò in forza del 4° co. art. 1105, che recita: “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.”Ma oltre a ricorrere all’Autorità giudiziaria, entro certi limiti (posti ad evitare che l’eccesso di iniziativa di un comunista ponga gli altri di fronte a dei “fatti compiuti”) il comunista può “fare da sé”; ciò si argomenta dagli articoli 1110 e 1134. Infatti l’art. 1110 dispone che “Il partecipante che, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell’amministratore, ha sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso” e l’art. 1134 a sua volta recita (con formula parzialmente differente ma, secondo noi, con contenuto identico) che “Il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente”.

V. Scioglimento della comunione.

L’amministrazione di una comunione pone dei problemi la cui soluzione non è facile e finisce per creare tensioni, anche forti, tra i comunisti: communio mater discordarum; tanto più che spesso la comunione non è volontaria: pertanto i comunisti non si sono scelti, come i soci, intuitus personae, non vi è insomma tra di loro quell’affectio che permette ai soci di superare i conflitti.Si comprende quindi che il diritto (v. art. 1111) riconosce “sempre” “a ciascuno dei partecipanti il potere di “domandate lo scioglimento della comunione”: in comunione nemo compellitur invitus deteneri.

Note.(1) Eguali almeno qualitativamente; mentre quantitativamente, vedremo, che potrebbero essere diverso.

(2) Dal momento che il diritto di proprietà consiste “nel diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”- v. art. 832.

(3) Di solito, frequenti e usuranti: di immensae contentiones parlavano i giuristi dell’antica Roma (Paul.D.8,2,26) – cfr. G. Branca, Della Comunione, in Commentario Scialoja-Branca, cit., p.62.

(4) Ancorché si possono ipotizzare, non solo comunioni (alias, coesistenze su uno stesso bene) di diritti reali, ma anche di altri diritti (A,B,C acquistano con un contratto di locazione un “comune” diritto di conduzione su un appartamento), il codice, con gli articoli citati si propone di disciplinare solo i casi in cui la “proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone” (v. art.1100).Sul punto che “anche taluni diritti di obbligazione e più precisamente quelli che si usa chiamare “diritti (relativi) di godimento” sono interessati all’istituto della comunione”, cfr. Guarini (Comunione – dir. Civ., in Enc. Dir., VIII, 1961,p.246).

(5) E pertanto B e C potranno vantare un ius prohibendi, contro il fatto che A usi dell’immobile per fare dell’equitazione, anche se tale fatto non impedisca loro di fare dell’equitazione, ma di coltivare il terreno.

(5bis) Stando questa possibilità che ha un comunista A, di usare, nell’inerzia i nella tolleranza degli altri compartecipi, B e C, della res communis nel modo più ampio, si determina il pericolo del sorgere di un pericoloso equivoco: metti, A usa della res intendendone usucapire la solitaria proprietà (o anche, una quota o poteri maggiori di quelli a lui concessi dal titolo) e gli altri comunisti credono che egli si stia giovando solo della loro tolleranza, ma senza tendere o diminuire il loro diritto. Per impedire tale equivoco il 2° co dell’art.1102 stabilisce che “Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.”Insegna Branca (Della comunione, cit., p. 94) che al comunista “per usucapire il diritto di proprietà esclusiva su tutta la cosa, occorre comportarsi rispetto a questa come padrone; ma non sono sufficienti ad invertire il titolo, atti di mera gestione(per es. il raccolto di tutti i prodotti, ecc.), non basta però quel contegno che permetterebbe all’estraneo di usucapire la proprietà: occorre invece qualcosa che sia incompatibile col permanere del compossesso degli altri (…) è necessario che il possesso apparisca esclusivo nei loro confronti; ma non ne senso rigido dell’art. 1141, e non è necessario che degli atti di possesso gli altri siamo venuti a conoscenza: ad es. la presunzione di tolleranza non si regge facilmente se per venti anni un compartecipe ha, non soltanto raccolto lui solo, ma anche preso e utilizzato per sé ogni provento della cosa comune”.

(6) Previsto per la comunione dall’art. 1106, che recita: Con la maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente, può essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della cosa comune. Nello stesso modo l’amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti, o anche a un estraneo, determinandosi i poteri e gli obblighi dell’amministratore.L’amministratore, previsto solo come un optional per le semplici comunioni, è imposto come un obbligo per i condomini con più di quattro partecipanti (v.art.1129).All’amministratore, l’art. 1130 n.2 affida il compito (tra l’altro) di “ disciplinare l’uso della cosa comune”.

(7) La parte a sud del campo sarà coltivata da B, quella a nord, da A.

(8) A monterà il cavallo nei giorni pari, B, in quelli dispari.Sui diversi possibili modi di divisione del godimento della res communis si diffonde il Branca (Della comunione, cit., pp 61 ss).(9) E infatti la “quota”, di cui parla l’art.1101, “è rappresentativa di una aspettativa di diritto autonomo – aspettativa che si realizzerà in sede di divisione” – sul punto cfr. Guarino (Comunione, cit., p.253).

(10) Peraltro, come fa notare A. Guarino (Comunione, cit., p.256), nulla vieta che un regolamento speciale porti deroga al principio della rigida proporzionalità, ma è da dubitare che la deroga possa giungere al punto di ridurre a zero il concorso di uno o più comunisti ai vantaggi della comunione: il che non tanto si dice perché sia inammissibile una sorta di “comunione leonina”, quanto perché in diritto ridotto al nulla sarebbe una contraddizione in termini.

(11) Il partecipe ad una comunione, come non vuole essere trascinato in spese eccessive, così a maggior ragione, non vuole essere esposto a grossi rischi economici; il che inevitabilmente accadrebbe se, da membro di una comunione, si vedesse trasformato in membro di una società. Il che però può avvenire, perché l’amministrazione di una comunione tende certe volte a evolvere in attività caratterizzate da tale dinamismo e da tale rischio imprenditoriale da far apparire opportuno riferirsi alle norme sulla società, non solo per la disciplina della rappresentanza (A,B,C, i comproprietari del bene che supporta l’attività, non debbono più prendere le decisioni relative a questa in assemblea, ma possono prenderle individualmente, come individualmente possono assumere impegni verso terzi – v. communis artt. 2257 ss, 2266 ss.), ma anche per la disciplina della responsabilità per i debiti contratti per la res communis (A non può più liberarsi della responsabilità patrimoniale per tali debiti semplicemente rinunziando al diritto di proprietà – v. art. 1104 co.1 – ma a salvaguardia del suo patrimonio individuale, conserva solo un limitato beneficium escussionis – v. art. 2268).Per meglio rendersi conto di come gradualmente i comunisti possono passare da una amministrazione diciamo “statica e di scarso rischio economico”, ad una, invece, dinamica e di elevato rischio economico, consideriamo il caso di A, B, C comproprietari di un terreno,In prima ipotesi, essi possono limitarsi a usare e godere direttamente del terreno (vi passeggiano, vi colgono i frutti ch’essi consumano…): in questa ipotesi il rischio economico è praticamente ridotto a zero.Facciamo un passo avanti e mettiamoci nella ipotesi II: A,B,C decidono di coltivare il terreno per vendere a terzi i suoi frutti: in tal caso senza dubbio vanno incontro ad un certo rischio economico: essi potrebbero spendere tot per sementi e paghe ai braccianti e una grandinata potrebbe mandare in malora il raccolto; spese tante, utile niente.Ancora un passo avanti: ipotesi III: A,B,C decidono di comprare delle sedie, un telone, una macchina da proiezione, di pagare chi faccia questa funzionare e…di aprire un cinema a cielo scoperto: in tal caso ci troviamo chiaramente di fronte ad un’attività che richiede pronte decisioni (cosa che non sarebbe semplice se tali decisioni dovessero essere prese da A,B,C riuniti in

assemblea) e che comporta un notevole rischio economico (rischio per A, B,C, ma anche per terzi che fanno affari con loro, per cui parrebbe opportuno, a garanzia della serietà delle decisioni, che tale rischio assumono, non concedere più a A,B,C, di…svicolare dalle loro responsabilità semplicemente rinunciando al diritto di comproprietà della res communis).Problema: quale disciplina adottare per tali tre diverse ipotesi? Noi crediamo che la soluzione giusta al problema, non solo per l’ipotesi II ma anche per l’ipotesi III (e, in genere, per ogni altra ipotesi in cui i comunisti decidono di compiere un’attività a carattere speculativo: si fa una spesa per ricavarne da terzi un utile) sia quella di ritenere la coesistenza, accanto a una comunione (la comunione della res che supporta l’attività economica; nell’esempio, del terreno), di una società (che, negli esempi, avrebbe ad oggetto un’attività commerciale- ipotesi III – e un’attività agricola – ipotesi II); non diversamente di quanto accadrebbe se A,B,C avessero dato in locazione il loro bene a una società terza (metti la società “Buona terra” o la società “Filmica”). Con la conseguenza che per alcune decisioni e per alcuni atti (dei comproprietari-soci) si adotterebbero norme sulla comunione (ad esempio, per le decisioni relative alla riparazione della res communis), per altre decisione e per altri atti (ad esempio per decidere sul licenziamento di un operaio) si applicherebbero le norme sulla società.Può essere utile chiudere l’argomento con la seguente decisione giurisprudenziale (ancorché da noi non completamente condivisa) riportata sub art. 1100 dal Codice Civile commentato a cura di Trabucchi: “In tema di differenza tra società e comunione, in cui si verifica comunque un conferimento di beni o il fenomeno di una massa di beni in comune, rileva la prevalenza della comunione dell’elemento statico e nella società di quello dinamico, nel senso che i beni sui quali cade il condominio sino direttamente oggetto di godimento secondo la destinazione loro propria, mentre – nella società – sono strumento per il compimento di un’attività, i cui utili saranno impartiti fra le parti, senza che ad escludere l’esistenza di una società (occasionale) sia sufficiente l’unicità dell’affare (82/4446)”.(12) Ed inoltre per le innovazioni si richiederà che siano “dirette al miglioramento della cosa a renderne più comodo o redditizio il godimento, non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa” –v. il co.1 art. 1108, v. anche l’art. 1121.Può chiarire il concetto di innovazione la seguente citazione giurisprudenziale (tratta dal Codice civile, annotato dal Trabucchi, p.806). “Compie un’innovazione ai sensi dell’art. 1108 il partecipante alla comunione che. per fare migliore uso della cosa comune, compia su questa delle opere che ne importino un mutamento della materialità e della forma (69/2514)”.

(13) Chiaro, però, che l’assemblea potrà deliberare di agire giudizialmente contro A, ai sensi dell’art. 844, se ne sussisteranno gli estremi.Il problema delle interferenze (sulla proprietà privata) dell’organo amministratore della comunione (assemblea o amministratore) si pone sopratutto nell’ambito dei condomini, E non è sempre facile stabilire quando del condominio interferisca con l’attività intra moenia (e pertanto insindacabile) del condominio. Ad esempio: il condominio può imporre il “ silenzio” oltre una certa ora di notte? Sembrerebbe di no, salvo sempre l’applicabilità dell’art. 844. Il condominio può imporre di non esercitare una certa attività? Sembrerebbe di si, per alcune attività (ad esempio, per quelle mediche, dato che le persone malate, per entrare nell’appartamento del medico, debbono

pur passare dalle scale ed esporre quindi gli altri comunisti al pericolo d contagio). Il condominio può proibire di esporre il bucato dalle finestre? Sembrerebbe di si, dato che la biancheria viene ad utilizzare (però deturpandola) una parte comune dell’edificio. (14) Così recita il 1° co. art. 1137 (che è in materia condominiale, ma che sul punto può essere considerato di carattere generale).(15) Arg. dall’incipit del 2° co. art. 1137.(16) L’art.1109 recita: “Ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all’autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza:1) nel caso previsto dal secondo comma dell’articolo 1105, se la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune;2) se non è stata osservata la disposizione del terzo comma dell’articolo 1105;3) se la deliberazione relativa a innovazioni o ad altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è in contrasto con le norme del primo e del secondo comma dell’articolo 1108 - L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni dalla deliberazione. Per gli assenti il termine decorre dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione. In pendenza del giudizio, l’autorità giudiziaria può ordinare la sospensione del provvedimento deliberato.”L’art. 1137 co. 2 recita: “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti”.Come lo studioso avrà notato, l’art. 1109 sembra ammettere il ricorso in limiti più ristretti che l’art. 1137, ma ciò non può essere e non è: è semplicemente che il legislatore – nel caso della comunione, la cui disciplina è caratterizzata da maggiore semplicità rispetto a quella del condominio – ha ritenuto opportuno individuare i possibili casi di delibera in contrasto con la legge e non limitarsi al generico riferimento di cui al co. 2 art. 1137.(17) La giurisprudenza non sembra seguire criteri univoci per distinguere tra delibere annullabili e delibere nulle. Di seguito facciamo, comunque, qualche citazione (traendola dal Codice civile annotato a cura di P. Rescigno, Giuffrè, 2001,p.1060).Sono state ritenute nulle: le deliberazioni prese con maggioranze inferiori a quelle prescritte dalla legge (CC.8 agosto 2009/10427: CC.16 novembre 1992/12281); le deliberazioni che dispongono innovazioni lesive dei diritti di un condomino alle cose e servizi comuni e su quelle di proprietà esclusiva (CC.9 aprile 1980/2288); le deliberazioni adottate a maggioranza, con le quali si deroghi ai criteri legali di ripartizione delle spese (CC.5 maggio 1980/2928); le deliberazioni con cui sia stato approvato un nuovo regolamento che indebitamente riduca le parti comuni dell’edificio (CC.12 gennaio 1965/1197); le deliberazioni di approvazione delle tabelle millesimali adottate senza il consenso unanime dei condomini (CC.1 dicembre 1999/14037).

15 – (Continuazione)Condominio di edifici

Nel paragrafo precedente ci siamo riferiti, nei nostri esempi, solo ai casi di comunione volontarie; ma accanto a quelle volontarie, esistono le comunioni forzose (1) e di esse il principale esempio è dato proprio dai “condomini negli edifici”.

Questo tipo di comunione nasce dal fatto che alcuni beni (gli appartamenti (2) A,B,C siti nell’edificio), passibili di proprietà individua, hanno bisogno, per bene svolgere la loro funzione, degli stessi beni M,N,O,P (nel senso che M, si pensi alle scale o ai muri perimetrali dell’edificio, è destinato a servire sia l’appartamento A, che gli appartamenti B e C, N di nuovo serve sia ad A che a B e C e così via). Con la conseguenza che chi è proprietario di un bene (metti, dell’appartamento A), è bon gré mal gré costretto ad avere in comune con gli altri proprietari (i proprietari degli appartamenti B e C) un certo numero di beni (appunto i beni M,N,O. P: le scale, i muri perimetrali, l’androne, il tetto….dell’edificio). Come si può ben intuire i principali problemi che pone la situazione sono due: A) determinazione delle cose effettivamente comuni; B) determinazione dei pesi che sopportano e dei vantaggi di cui godono, rispetto queste cose in comune, i singoli proprietari.A) Determinazione delle cose in comune. L’art. 1117 cerca di farne un elenco esauriente (3), ma è pacifico che tale tentativo non è riuscito: l’elenco dell’art. 1117 non deve considerarsi tassativo (4).Comunque, passando in rassegna le “parti comuni”, dal legislatore, elencate, si vede che accanto a “parti” necessariamente comuni, in quanto mancando di esse i singoli appartamenti non servirebbe all’uso cui sono destinati (forse che la stessa struttura dei vari appartamenti si reggerebbe senza muri maestri e i tetti? forse che gli appartamenti sarebbero abitabili senza gli impianti idrici e fognari?), vi sono parti che, invece, non possono considerarsi necessariamente comuni, in quanto, anche in loro mancanza, i singoli appartamenti sarebbero abitabili (forse che l’esistenza, di locali per la portineria o di una lavanderia, è indispensabile per l’abitabilità di un appartamento?).Ora, mentre il primo tipo di “parti” e di “opere” (i muri maestri, gli impianti idrici…) non potrà cadere in comunione, a prescindere da quel che dica o non dica il “titolo”(5), il secondo tipo di parti (locali della portineria, lavanderia…) si presume, sì, in comunione, solo però “se il contrario non risulta dal titolo”) (6).B) Determinazione dei pesi e dei vantaggi relativi alle cose comuni. I criteri per la ripartizione dei “pesi” sono indicati dall’art. 1123 (7) e in teoria sono ineccepibili.È ineccepibile, ad esempio, che le spese di conservazione di un muro maestro gravino sui proprietari dei tre appartamenti A,B,C di cui è formato un edificio, in proporzione del loro valore (v. co.1 articolo citato): infatti, se, metti, gli appartamenti B e C valgono ciascuno 300, mentre l’appartamento A vale 600 cioè il doppio, chi può dubitare che il proprietario di A debba sostenere il doppio della spesa, dal momento che, dal crollo dell’edificio, subirebbe il doppio del danno?Ed è ancora ineccepibile (v. co2 articolo citato) che, se è crollato il lastrico solare, da

cui tutti i proprietari degli appartamenti traevano l’eguale utile di averne la copertura dell’edificio, ma da cui il proprietario di un appartamento traeva l’ulteriore utile di usarne in maniera solitaria per passeggiarvi e stendervi la roba, quest’ultimo proprietario debba contribuire per la ricostruzione del lastrico con un quid pluris.Dunque, si ripete, ineccepibili sono i criteri indicati dall’articolo 1123; è la loro applicazione alle situazioni concrete che diventa tormentata e difficile. Ad esempio, come quantificare quel quid pluris, che, chi ha “l’uso del lastrico solare”, deve, rispetto al quantum dovuto dagli altri comproprietari? L’art. 1126 lo stabilisce, ma inevitabilmente in maniera arbitraria. E il discorso va ripetuto mutatis per la ripartizione delle spese che il legislatore fa per le scale (art. 1124), per i soffitti, le volte e i solai (art. 1125).E passiamo ai vantaggi che ciascun singolo proprietario può trarre dalle cose comuni. La misura di tali vantaggi è indicata nell’art. 1118, che recita: “Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene. - Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni. - Il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.(…)”.Cuius commoda, eius incommoda: se il proprietario A deve contribuire il doppio nelle spese necessarie per tenere in piedi l’edificio, è anche giusto che tragga il doppio dei vantaggi dall’esistenza dell’edificio.

Note.(1) Sui diversi tipi possibili di comunione (volontaria, incidentale, forzosa) v. A. Guarino, Comunione, cit.,p. 253).

(2)Noi anche di seguito parleremo di “appartamenti”, anche se più correttamente si dovrebbe parlare, come fa il legislatore, di “piano o porzioni di piani”.

(3)L’art. 1117 recita: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi

centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.”

(4) Cfr. F.A. Marina. Giacobbe (Condominio degli edifici, Enc. Dir., p. 283).

(5) Con questa denominazione si deve intendere il particolare negozio giuridico inter vivos o mortis causa (ma in ogni caso consacrato per iscritto) da cui hanno avuto origine concreta i diritti dei proprietari di singoli piani o frazioni di piano in un determinato edificio ed in cui, nel contempo, sono state stabilite norme specifiche per l’uso ed il godimento di cose destiate a restare in comunione pro indiviso – e, perciò, fonte preminente nella disciplina dei rapporti di condominio, alla quale la legge subentra solo in via sussidiaria” – così Federico Alessandro Marina e Giovanni Giacobbe (in Condominio negli edifici, cit., p. 824).

(6) E, pertanto, se la ditta costruttrice del fabbricato, nell’atto con cui ha venduto il primo appartamento, ha specificato “ A Giobatta vendo l’appartamento A con annessi locali di portineria”, questi locali non saranno più di proprietà comune, ma di proprietà di Giobatta, anche se naturalmente nulla impedirà al condomino di prendere in affitto tali locali per farne sede della portineria.

(7) L’articolo 1123 recita: “Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione.Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne.Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

LIBRO SECONDO

Dei vari tipi di obbligazione

LIBRO TERZO:

Dei contratti in generale

Cap. I : La funzione sociale del contratto-Giur.- Mettiamo il caso : Tizio ha nel suo magazzino novanta quintali di grano : trenta di troppo, perché sessanta basterebbero a sfamarlo; ma nella sua scuderia non ha quel cavallo da corsa che desidera tanto. Gonzales, invece, ha tredici cavalli, uno di troppo perché dodici gli basterebbero, ma, ahimè, non ha nessun sacco di grano per sfamarsi. La cosa più logica sarebbe che Tizio desse a Gonzales quei trenta sacchi di grano che per lui hanno una uitlità zero e Gonzales desse a Tizio, uno dei suoi tredici cavalli.Tizio avrebbe interesse a fare questo scambio ma a ciò non si decide per timore che l'altra parte, Gonzales, ricevuto il grano, non dia il cavallo e, mutatis mutandis, identico timore ha Gonzales.E' a questo punto che interviene lo Stato dando a Tizio e Gonzales la sua solenne granzia: “Coraggio, promettetivi, l'uno, di dare i sacchi di grano e, l'altro, il cavallo, e io vi dò questa garanzia : se uno di voi non manterrà la sua promessa io userò tutto il mio potere di coercizione per fare sì che quanto promesso, bon grè mal grè, sia eseguito “.

Bert.- Perché lo Satto is scomoda a intervenire, perché dà questa solenne promessa ?

G.- Perché é suo interesse che la ricchezza nazionale aumenti, e lo scambio dei beni tra Tizio e Gonzales la fa appunto aumentare.

B. A me non sembra : prima c'erano novanta sacchi di grano e, dopo lo scambio, ce ne sono ancor novanta e prima c'erano tredici cavalli e dopo ce ne sono ancora tredici.

G.- Sì, é vero, ma la ricchezza di una nazione non é data dalla quanittà di beni che ha, ma dalle utilità che tali beni sono in grado di dare : prima l'utilità che davano i beni in possesso di Tizio era quattro ( mettiamo che appunto quattro fosse l'utilità che avrebbero potuto dare sessanta sacchi di grano a Tizio ) + zero ( perché zero che davano i residui trenta sacchi ) ; e similmente l'utilità che davano i beni posseduti da Gonzales era quattro ( così mettiamo fosse l'utilità che davano dodici cavalli a Gonzales ) zero ( perché zero era l'utilità che gli dava il resiudo tredicesimo cavallo ). In tutto uitlità 8. Dopo lo scambio, l'utilità del grano e del cavallo in possesso di Tizio é 4 + 2 ( mettendo che due sia l'utilità che gli dà il cavallo, suo nuovo acquisto ) e, mutatis mutandis , l'utilità dei beni in possesso di Gonzales sarà 4 + 2 ( mettendo che 2 sia l'utilità che danno a Gonzales i trenta sacchi acquistati da Tizio ) : quindi la Nazione si trova ad avere, dopo lo scambio, beni che danno utilità 12, mentre prima ( dello scambio ) aveva beni danti solo uitlità 8.

B.- Capisco. E penso che le parti, una volta che avranno ottenuta dallo Stato quella solenne garanzia di cui sopra si é detto, non esiteranno più a stipulare il contratto, perché completamente tranquillizzate.

G.- Tranquilizzate, invece, fino a un certo punto perché tale garanzia non elimina per loro totalmente il c.d. “rischio contrattuale”.

B.- Che rischio corre, che cosa ha da temere per esempio Gonzales, dopo la solenna promessa dello Stato ?

G.- Varie cosa egli ha da temere : A) che lo Stato con tutta la sua vantata forza non riesca a costringere Tizio ad adempiere la sua obbligazione : il potere coercitivo dello Stato ha dei limiti : se Tizio davanti a Gonzales apre il portafoglio vuoto e dice“ Mi rincresce tanto ma non ho più un soldo”, ebbene lo Stato in tale caso che può

fare ? ; B) che per un qualche equivoco o errore in cui la controparte é incorsa il contratto sia annullato; C) che per qualche fatto imprevedibile al momento della stipula il contratto sia risolto per una sua sopravvenuta eccessiva onerosità per la controparte. E con ciò ti ho detto solo alcuni dei pericoli che corre chi stipula un contratto ; vi sarebbe ancora da dire di altri non meno gravi pericoli che egli corre ( ad esempio, del pericolo che egli corre di una cattiva interpretazione del contratto per cui firmato un contratto con cui voleva obbligarsi solo ad A si vede obbligata a B). Ma data la natura della presente opera, nei seguenti capitoli 9,10,11, ci limiteremo solo all'esame dei pericoli sopra segnalati sub A, B,C e del modo con cui il legislatore cerca di contenerli: nel quale contenimento si realizza la c.d. “tutela dell'affidamento” delle parti ( nella validità, efficacia ed esecuzione del contratto ).

Cap. 2 : Obbligo di informare la controparte degli errori in cui sta per cadere.

B.- Rossi che nel corso delle trattative contrattuali si avvede che la controparte Bianchi é caduta in un errore ( rilevante per lei al fine di decidere sulla convenienza del contratto ) deve di ciò avvisarla ?

G.- In via di principio, sì. A questa risposta conducono due articoli, l'articolo 1338 e l'articolo 1337.

L'articolo 1338 ci consente di dire ( in via di principio, ripeto ) che Rossi deve avvisare Bianchi di quegli errori che giustificherebbero l'annullamento del contratto.

Infatti l'articolo 1338 recita : “La parte che conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte é tenuta a risarcire il danno da questa risentito per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto”

B.- Però a me sembra che ci sia un differenza, sia pur sottile, tra errore sulla validità del contratto ed errore che giustifica la invalidità del contratto.

G. Forse sì, forse hai ragione; però anche se l'art. 1338 si riferisse direttamente solo ai casi di errori cadenti sulla validità del contratto, nulla impedirebbe di applicarlo ( in base a un'interpretazione estensiva) anche agli errori che giustificherebbe l'invalidità del contratto.

E vengo al secondo articolo a cui prima mi sono riferito, l'articolo 1337 Questo articolo ci permette di dire che la controparte va avvertita anche degli errori che non giustificherebbero un annullamento del contratto. Infatti l'articolo 1337 recita : “ Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.

E non si può dubitare che sia contrario a buona fede il non avvisare la parte con cui si sta trattando di un errore in cui essa sia caduta; anche se tale errore non giustificherebbe l'annullamento del contratto ( Rossi si accorge che la controparte si appresta a firmare il contratto credendo che la cosa vendutale le sarà consegnata a domicilio, mentre nel contratto é scritto che invece dovrà essere lei a venire a prenderla.)

B.- Però tu prima hai detto che solo in via di principio tali articoli portano a dire che la parte deve avvisare la controparte degli errori in cui sta per cadere; e ciò mi fa pensare che tale principio subisca delle deroghe.

G. E infatti é così. L'obbligo diciamo così di informativa sussiste solo :

A )se si tratta di errore su un fatto e non su un ragionamento. E infatti non si può imporre a Rossi di salire in cattedra e mettersi a insegnare a Bianchi perché sbaglia a pensare così e colà. Faccio un esempio per farti comprendere la differenza tra errore sul fatto e errore sul ragionamento. Esempio : Bianchi dice a Rossi di volergli comprare cento quintali di grano per poi rivenderlo in Argentina, dato che in quel paese c'é stata una grande siccità e quindi la sua popolazione é disposta a pagare lautamente il grano che arriva dall'Italia. Se Bianchi sbaglia nel ritenere che vi sia stata in Argentina una siccità, sbaglia su un fatto. Se Bianchi sbaglia nel dedurre dall'esistenza della siccità un aumento dei prezzi tale da giustificare l'esportazione di grano in Argentina, sbaglia su un ragionamento.

-B.( L'obbligo di informativa sussiste solo ) se si tratta di un fatto su cui Rossi ha conoscenze certe . Infatti non si può obbligare una parte a dire cose che potrebbero essere errate. Mi spiego anche qui con degli esempi: Bianchi dice a Rossi di volergli comprare quel tal cavallo perché avendo esso vinto il Gran premio di Parigi vincerà anche il “gran premio” di Roma. Rossi sa bene che il cavallo non ha mai vinto nessun “gran premio” di Parigi ( perché lo ha avuto nelle sue scuderie fin dalla nascita), quindi deve informare Bianchi dell'errore in cui é caduto. Bianchi va da Rossi per comprare quel tal quadro credendolo un “Raffaello” : errore tale quadro é dovuto al pennello di un bravo imitatore di Raffaello e nulla più. Rossi deve dirlo a Bianchi ? No, e “no” perché tale sua convinzione egli la trae da una serie di deduzioni (il tocco della pennellata ecc. ) - deduzioni che ogni buon intenditore d'arte condividerebbe – ma che in definitiva potrebbero essere errate.

Distinguere tra errore sul fatto ed errore sul ragionamento é importante perché certi studiosi facendo d'ogni erba un fascio escludono dagli errori che giustificano l'annullamento ( errori che come vedremo si chiamano “essenziali” ) quelli che cadono sui “motivi” ( a stipulare il contratto ). No, un “motivo” non é altro che un ragionamento ( o se preferiamo, un “calcolo” ) basato su di un fatto : se l'errore cade sul fatto su cui si basa il ragionamento ( il calcolo ) può benissimo giustificare,

sussistendo le altre condizioni che poi vedremo, l'annullamento. Prova ne é che molti errori che pacificamente giustificano l'annullamento – come, ad esempio, l'errore sulla qualità ,sono “fatti” che hanno “motivato” la parte a stipulare il contratto in base a un ragionamento.

3. L'errore-vizio del contratto . Individuazione della parte che ha diritto che il contratto abbia il contenuto da lei voluto-

G. Torniamo a un esempio già introdotto: Tizio vuole prendere in locazione il cavallo di Gonzalez, che porta il numero tre, ma, per scarsa conoscenza della lingua spagnola, dice: “ Quiero alquiler el cabajo treze ( credendo erroneamente che “treze” in spagnolo significa tre, mentre invece significa tredici ). Se Gonzalez si rende conto dell'errore di Tizio e accetta la proposta con la volontà di dargli il cavallo tre, nulla quaestio : nonostante l'errore nell'espressione della volontà, in realtà nessun errore nel consenso ci é stato : il contratto é perfettamente valido e ha come contenuto quello voluto concordemente da Tizio e Gonzalez. Ma mettiamo che Gonzalez accetti la proposta, ma con la volontà di dare in locazione il cavallo tredici e non tre. Chiaro che , sia che si attribuisse al contratto il contenuto voluto da Gonzales o quello voluto da Tizio, il contratto perderebbe la sua funzione sociale di aumentare la ricchezza nazionale . Infatti se si attribuisse al contratto il contenuto voluto da Gonzalez, aumenterebbero,sì, le utilità che darebbero i beni in possesso di questi, ma non aumenterebbero le utilità dei beni che verrebbero ad essere in possesso di Tizio: questi era disposto a rinunciare all'utilità che gli davano i trenta sacchi di grano ( il prezzo della locazione ) al fine di avere la maggiore utilità che gli darebbe la disponibilità di un cavallo da corsa ( come in effetti é il cavallo tre ), mentre il cavallo tredici, che é un cavallo da tiro, a lui dà utilità zero. D'altra parte se si attribuisse al contratto il contenuto voluto da Tizio, si rischierebbe di diminuire le utilità che davano i beni in possesso di Gonzalez : metti, il cavallo da corsa per lui dava una utilità dieci, mentre i trenta sacchi di grano per lui danno solo una utilità cinque .

Insomma, l'errore delle parti crea un bel imbroglio. Vediamo le istruzioni che il legislatore dà al giudice per dipanarlo.

I- Per prima cosa , tu, giudice, devi ( con la cosiddetta attività interpretativa del contratto ) determinare qual'é stata la reale volontà di ciascuno dei due contraenti., di Tizio e di Gonzales.

II - Come seconda cosa, devi stabilire quale volontà una persona di media intelligenza avrebbe attribuito a Tizio e Gonzalez ( in base alle parole da loro usate e al comportamento da loro tenuto – v. 1362 ).

III- A questo punto, se ti accorgi che le due volontà divergono, sono diverse – ciò che significa che entrambe le parti sono cadute in errore : Gonzalex attribuendo a Tizio la volontà di prendere il cavallo tredici e Tizio attribuendo a Conzalez la volontà di dare il cavallo tre – devi verificare se una delle due volontà coincide con quella sub II (la volontà che l'uomo di media intelligenza avrebbe attribuito alle parti) Se il contenuto A voluto da una delle parti, coincide col contenuto al contratto attribuito come sub II ( da una persona di media intelligenza ), ebbene il contenuto A sarà quello che tu giudice dovrai attribuire al contratto.

E' evidente che nell'esempio fatto il contenuto da attribuire al contratto sarà quello voluto da Gonzalez, dato che ogni persona di media intelligenza avrebbe interpretato le parole dette da Tizio come espressione di volere affittare il cavallo tredici.

Chiaro che le cose non saranno sempre così semplici come nell'esempio fatto.

Potranno darsi dei casi in cui nessuna delle due volontà delle parti coincide con quella ricostruita come sub II: Tizio dice di volere il cavallo tre, Gonzales vuole dare il cavallo sedici e ciascuna persona di media intelligenza avrebbe capito che oggetto del contratto era il cavallo tredici.

Oppure le parole usate dalle parti sono un abacadabra, non si capisce assolutamente quale sia stata la loro volontà.

In tali casi il contratto é ( non annullabile, non nullo, ma ) inesistente.

4 - La condizione di efficacia del contratto viziato da errore : la non riconoscibilità dell'errore.

G.-Torniamo al nostro esempio : siamo giunti al punto, nella nostra telenovela giuridica, che al contratto va attribuito il contenuto, voluto da Gonzales, e, secondo il quale, in locazione, a Tizio spetta il cavallo tredici.

Ma ciò basta perché questo contratto possa essere davvero eseguito da Gonzalez ? perché egli possa pretendere i 30 sacchi di grano dando in cambio solo il cavallo tredici ?

No, perché ciò avvenga occorre che l'errore di Tizio non fosse stato riconoscibile da Gonzalez.

B.- Da che cosa risulta ciò ?

G.- Risulta dagli articoli 1428 e 1431 .

L'articolo 1428 recita : “L'errore é causa di annullamento del contratto quando é essenziale ed é riconoscibile”

L'articolo 1431 recita : “L'errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”.

B.- Ritenendo la validità del contratto, nel caso che l'errore non sia riconoscibile, é come se il legislatore dicesse a Gonzales “ Tranquillo Gonzalez, firma il contratto : se

non c'é nessun elemento che indichi che la tua controparte é caduta in errore, nessuno ti metterà nei guai chiedendone l'annullamento” : in buona sostanza quindi con gli articoli da te citati il legislatore vuole tutelare l'affidamento delle parti. Giusto ?

G. Giustissimo. Ma se Gonzalez é in colpa , perché poteva riconoscere l'errore di Tizio o, peggio, l'ha riconosciuto, allora cessa ogni ragione di tutela di Gonzalez. Salvo quanto diremo a proposito dell'errore essenziale, trattando del quale però distingueremo il caso in cui Tizio non ha riconosciuto l'errore, sia pure per colpa, dal caso in cui l'ha riconosciuto.

B.- Ma che c'entra l'errore essenziale col discorso che stiamo facendo ?

G.- C'entra perché la non essenzialità dell'errore giustifica un'eccezione all'eccezione: il contratto deve essere eseguito secondo la volontà di Gonzalez, salvo il caso ( prima eccezione ) che l'errore fosse riconoscibile, a meno che ( eccezione all'eccezione ) che l'errore non fosse essenziale.

B.- Quel che mi é chiaro, nonostante la tortuosità della tua esposizione, é che ci sono dei casi in cui il legislatore ritiene la validità del contratto tra Tizio e Gonzales nonostante che l'errore di Tizio fosse da Gonzalez riconoscibile. Ma come si giustifica ciò ?

G. Si giustifica sempre con la tutela dell'affidamento . Infatti l'annullamento del contratto può avere un costo pesantissimo per Gonzalez. Dimentica che oggetto del contratto fosse lo scambio tra un cavallo e del grano : mettiti nel caso che Gonzales col contratto avesse acquistato un terreno per costruirvi una villetta : passa qualche mese ( o qualche anno ) Gonzalez comincia a costruire la sua villetta, quando un bel giorno gli si presenta la ex controparte, Tizio, che gli intima “Alto là, tu non puoi costruire un bel niente, il contratto é annullabile”; oppure, ancora peggio, Tizio, ottenuto l'annullamento, chiede ( nei casi in cui naturalmente glielo permette il quarto comma dell'art. 936), che la villetta sia....tolta dal terreno. Un bel guaio per Gonzalez, no ( sia nell'un caso che nell'altro ) ?! Ecco perché il legislatore -

ponendosi nel caso, che evidentemente ritiene sia il maggioritario, della parte ( Gonzalez ) che, pur essendo l'errore riconoscibile non l'abbia riconosciuto ( e, bada, ponendosi solo in questo caso, non in quello in cui la parte ha riconosciuto l'errore – in tal caso infatti non ci sarebbe nessun “affidamento” da tutelare ) - ebbene, ripeto, il legislatore ponendosi nel caso in cui la parte abbia agito colposamente, l'obbliga , sì, al risarcimento dei danni, ma salva la validità del contratto.

B.- In tutti i casi ?

G.- No, questo sarebbe troppo : forse che il legislatore non deve preoccuparsi anche degli interessi di Tizio, della parte che é caduta in errore ? certo, cadendovi presumibilmente per colpa, ma forse che in colpa non é caduto anche Gonzalez, la sua controparte ?

B.- E allora ?

G.- Allora il legislatore mantiene la validità del contratto solo quando l'errore non sia essenziale.

B.- Ma quando un errore può dirsi essenziale ?

G. La logica vorrebbe che il legislatore , nel valutare l'essenzialità dell'errore che vizia un contratto - il che, in pratica, è come dire, nel valutare se annullare il contratto o mantenerlo valido - comparasse la gravità delle conseguenze che comporterebbe l'esecuzione del contratto per la parte ( Tizio ) caduta in errore sul suo contenuto e la gravità delle conseguenze dell'annullamento del contratto per la parte (Gonzalez ) caduta in colpa per non aver riconosciuto tale errore ; e poi optasse, per l'annullabilità, se le conseguenze di questa risultassero meno gravi delle conseguenze di un esecuzione del contratto; e viceversa.

L'appliaczione di tale criterio, però, implicherebbe la considerazione di vari elementi in realtà imponderabili, cosa per cui il legislatore sembra preferire criteri più sbrigativi ma di più facile applicazione. Nel prossimo capitolo li vedremo.

5. Quando il legislatore ritiene “essenziale” un errore- Perché, nei casi in cui l'errore é riconoscibile ed essenziale, non si ritiene la validità del contratto voluto dalla parte errante.

G.- Il legislatore fa nell'articolo 1429 un elenco di errori che ritiene essenziali.

Ecco quel che ci dice tale articolo.

Art. 1429 : “L'errore é essenziale:

1) quando cade sulla natura o sull'oggetto e del contratto;

2) quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso;

3) quando cade sull'identità o sulle qualità della persona dell'altro contraente, sempre che l'una o le latre siano state determinanti del consenso;

4) quando, trattandosi di errore di diritto, é stata la argione unica o principale del contratto”.

Alcuni esempi a spiegazione del dictum del legislatore.

Esempio di errore che cade sulla natura del contratto : Tizio ritiene erroneamente di stipulare un contratto di locazione, mentre invece sta stipulando una compravendita.

Esempio di errore che cade sull'oggetto del contratto : Tizio crede di acquistare l'appartamento di via Roma, mentre sta acquistando l'appartamento di via Garibaldi.

Errore sull'identità dell'oggetto della prestazione : Tizio crede di obbligarsi a dipingere un quadro, mentre mentre si sta obbligando a dare il bianco a un appartamento”.

Errore su una qualità dell'oggetto della prestazione : Tizio crede di acquistare porcellane di Gretz, mentre invece sta acquistando porcellane di Murano.

Errore sull'identità della persona dell'altro contraente : Tizio crede di dare in locazione la sua bella villa al miliardario Berlusca Vittorio mentre la sta dando in locazione al nullatenente Berlusca Antonio.

Errore sulle qualità dell'altro contraente : Tizio crede di stare assumendo per dirigere il suo ufficio contabile un diplomato in ragioneria mentre sta assumendo un laureato in belle lettere.

Esempio di errore di diritto : Tizio crede di comprare un terreno edificabile, mentre sta invece comprando un terreno con divieto di edificabilità.

B.- Ma l'elenco fatto dal legislatore é tassativo o esemplificativo ?

G.-Io credo che sia tassativo. Anche se con ciò si finisce per ammettere la validità di contratti effettivamente molto pregiudizievoli per la parte caduta in errore . Si pensi a questi casi : nel contratto il termine fissato, per il pagamento del prezzo di vendita, a Tizio é indicato nel 15 settembre 2018, mentre Tizio, credendo che il termine scadesse il 15 dicembre 2017, per l'ottobre del 2017 aveva assunto con terzi obbligazioni, contando di adempierle col prezzo ricavato dalla vendita.; e ancora : Tizio compra un cavallo nel Texas credendo che gli sarebbe consegnato in Italia, mentre invece deve andarselo a prendere nel Texas ( con i rilevanti costi che ciò ocmporta per lui ); e ancora: Tizio crede che il pagamento, che deve fare del prezzo, sia subordinato alla condizione sospensiva, che egli venda un altro suo terreno, mentre così non é.

B.- Domanda :il codice trattando dell errore ( come vizio del consenso ) contempla il caso di chi stipula, sì, un contratto per errore essenziale ( stipula l'acquisto dell'appartamento di via Roma mentre era sua intenzione comprare quello di via Napoli), ma l'avrebbe stipulato lo stesso, però a condizioni diverse, anche se non fosse caduto in errore ( Tizio ha acquistato l'appartamento di via Roma per cento, che lui era disposto a pagare solo per quello di via Napoli, però sarebbe stato disposto ad acquistare anche l'appartamento di via Roma, se, invece che a cento, gli fosse stato venduto a cinquanta) ?

G. No, il legislatore contempla questo caso solo nella trattazione che fa del dolo. Ma io credo che la normativa sul punto, anche se direttamente si riferisce solo a casi in cui la parte stipula il contratto perché indotta in errore con dolo, sia applicabile ( e a maggior ragione ) anche a casi in cui la parte stipula perché caduta in errore

spontaneo ( infatti tale normativa é sfavorevole alla parte errante, ora, se il legislatore é disposto a sacrificare l'interesse della parte errante nei casi in cui essa, essendo vittima del dolo della controparte, ci si aspetterebbe che fosse con particolare forza tutelata, é da pensare che egli, idest il legislatore, a maggior ragione sarà disposto a sacrificare tale interesse in caso di errore spontaneo, in cui essa non potrebbe vantare diritto a una particolare tutela ).

B.- Io comprendo la tutela che il legislatore fa dell'affidamento di Gonzales nella validità del contratto ; ma, una volta che sono venute a mancare le ragioni che giustificano tale tutela ( dato che l'errore della controparte Tizio era riconoscibile o addirittura riconosciuto ), perché il legislatore non tutela l'interesse di Tizio ( parte caduta in errore ) stabilendo la validità ( non più del contratto voluto da Gonzalez, ma ) del contratto da Tizio ( parte caduta in errore) voluto ? Tu, Tizio, credevi di comprare con trenta sacchi di grano il cavallo tre? Ebbene, Gonzalez sarà obbligato a darti il cavallo tre. . Infatti mi pare di aver capito che l'interesse ( indubbio!) della parte errante a veder riconosciuta la validità del contratto da lei voluto, non é per nulla tutelato.

G. Sì, hai capito bene: il legislatore riconosce alla parte errante solo un diritto all'annullamento del contratto ( e al risarcimento del danno ).

Perché questo? Perché potrebbe costituire una sanzione troppo sproporzionata all'inadempimento ( poco importa se colposo o doloso ) dell'obbligo che aveva Gonzalez di informare Tizio dell'errore in cui era caduto ( “Guarda, Tizio, nel contratto si parla del cavallo tredici e non del cavallo tre come pensi tu” ) vincolarlo a un contratto ( il contratto voluto da Tizio ) che potrebbe per lui risultare oltremodo gravoso ( si pensi al caso in cui il prezzo del cavallo tre, magnifico cavallo da corsa, era indicato da Tizio solo in dieci,così come se fosse solo un cavallo da tiro, mentre il giusto prezzo sarebbe stato cento ).

5bis. I vizi del consenso causati da dolo.

Disc. In questa lezione, continuando l’esame dei visi del consenso, parleremo dei vizi causati da dolo.Cominciamo col leggere l’articolo 1439, che, sotto la rubrica “Dolo”, così recita: “Il dolo é causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti

sono stati tali che senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato.- Quando i raggiri sono stati usati da un terzo, il contratto é annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio”.A me il secondo comma, dell’articolo ora letto, sembra veramente superfluo: chi avrebbe potuto dubitare che, se Tizio si mette d’accordo con il gatto e la volpe a che con raggiri convincano Pinocchio a un contratto per lui rovinoso, Tizio sia ritenuto autore di tali raggiri non meno che il gatto e la volpe?

Doc. Ma il secondo comma dell’articolo in esame, non si riferisce al caso di una parte, che si sia messa d’accordo con un terzo, a che questi con dolo carpisca ecc.ecc. No, in questo secondo comma il legislatore fa invece l’ipotesi che la parte, senza aver concorso nei raggiri, sappia di essi.

Disc. E naturalmente sappia che, raggiungendo il loro scopo,i raggiri hanno effettivamente fatto cadere in errore la controparte.

Doc. Che i raggiri, per essere rilevanti per l’annullamento del contratto, debbano aver fatto effettivamente cadere in errore la controparte, il legislatore esplicitamente non lo dice, ma risulta implicitamente dal fatto che il legislatore, pretenda, per decretare tale annullamento, che, dei raggiri, la parte si sia, per usare le parole testuali dell’articolo, “avvantaggiata”.Quindi in buona sostanza il legislatore con l’annullamento sanziona Caio, per una sua condotta omissiva: l’aver omesso di adempiere all’obbligo di avvisare la controparte dell’errore in cui é caduta. Obbligo che, lo diciamo subito ma sul punto ritorneremo, sussiste, nell’ipotesi di un errore provocato da dolo, anche in casi in cui l’errore, cadendo sui motivi, sia “essenziale”, quindi anche in casi in cui, nell’ipotesi di errore non provocato da dolo, diciamo così, di errore “spontaneo”, esso (idest, l’obbligo di rivelare l’errore alla controparte che vi é caduta),non sussisterebbe.

Disc. Quindi il comportamento doloso può concretizzarsi, non solo in un’azione, ma anche in una omissione?

Doc. A dir il vero si discute se, accanto a un dolo commissivo, possa esistere anche un dolo omissivo.Contro la configurabilità di un dolo puramente ommissivo depone il primo comma dell’articolo 1439, là dove parla di “raggiri” (“il dolo é causa di annullamento del contratto quando i raggiri ecc.ecc.” - così recita l’incipit dell’articolo in esame). Ma a

me pare chiaro che il secondo comma deponga in maniera inequivocabile sul fatto che, l’annullabilità di un contratto per dolo, può seguire anche ad un semplice comportamento omissivo.Vi é anche da considerare che - mentre é comprensibile che il legislatore penale, configurando nell’articolo 640 del Codice penale il delitto di truffa, pretenda che l’induzione in errore, operata dal deceptante sul deceptato, si qualifichi per l’esistenza di raggiri (più precisamente di “artifici e raggiri”) - mal si comprenderebbe perché, questa particolare qualificazione dell’induzione in errore, il legislatore civile dovrebbe pretendere.

Disc. Spiegati meglio.

Doc. Voglio dire che è comprensibile pretendere che l’induzione in errore sia qualificata da quegli artifici e raggiri, che denotano una notevole capacità a delinquere, quando da essa (idest, dall’induzione in errore) si fanno derivare delle conseguenze gravissime (la reclusione fino a tre anni!). Mentre molto meno é comprensibile che l’induzione in errore sia qualificata dai raggiri, quando, le conseguenze che da essa si fanno derivare, si riducono solo all’annullamento di un contratto e a un obbligo risarcitorio. A me sembra che, per giustificare queste (negative) conseguenze ricadenti sulla parte deceptante, basti il semplice fatto che, l’obbligo di rivelare l’errore alla controparte, obbligo che essa omette di adempiere, acquista una particolare forza per essere tale errore causato dalla parte stessa o anche da terzi che hanno agito però per avvantaggiarla.

Disc. Con le tue parole tu giustifichi perché, nell’economia del dolo civile, non sono necessari i raggiri, però non giustifichi perché venga sanzionato allo stesso modo, cioé con l’annullamento del contratto e l’obbligo del risarcimento, sia il comportamento di Caio a cui si può addebitare solo la colpa di non avere riconosciuto l’errore della controparte ancorchè fosse riconoscibile (artt. 1428,1431), sia il comportamento certamente più grave di Sempronio che ha indotto in errore la controparte, sia pure senza raggiri, ma con un comportamento doloso (art 1439). Giustizia e logica vorrebbero che, comportamenti che hanno un disvalore diverso, avessero da parte dal legislatore un trattamento e una disciplina diversi.

Doc. Ed é così, infatti. Effettivamente il legislatore disciplina diversamente il comportamento di Caio e di Sempronio, ma non nelle conseguenze (che sempre si riducono ad essere l’annullamento del contratto e l’obbligo di risarcimento), ma nei

presupposti che danno luogo a tali conseguenze. Infatti, nel caso di Caio, tali conseguenze si verificano solo se l’errore, che Caio (non ha causato, ma) ha omesso di rivelare, cade su uno degli elementi indicati nell’articolo 1429 (natura e oggetto del contratto, identità e qualità della persona dell’altro contraente ecc – insomma, per essere brevi, cade su un errore essenziale, e non sui motivi). Nel caso invece di Sempronio, tali conseguenze, si verificano anche se l’errore della controparte cade sui motivi. Esempio: Sempronio ha convinto Tizio ha comprargli cento quintali di soia facendogli credere che la soia é ricercatissima sul mercato argentino. E’ chiaro che nel caso l’errore di Tizio cade sui motivi e pertanto Sempronio non avrebbe l’obbligo di rivelarlo, in base alle conclusioni a cui siamo giunti ragionando sugli articoli 1428 e seguenti. Però, essendo questo errore causato da Tizio, il legislatore gli fa obbligo di rivelarlo anche se, sui motivi, cade; o se vogliamo essere più precisi, gli fa obbligo di rivelare il suo comportamento deceptante (“Guardi, signor Tizio, quando le dicevo che la soia in Argentina vale moltissimo, glielo dicevo solo per convincerla a comprarmi la soia che mi marcisce nel magazzino. Poi, per l’amor del cielo, non voglio escludere che la soia valga veramente tanto; le dico solo che questo io non lo so e che se dicevo così e colà era solo per convincerla a fare il contratto”).

Disc. Quindi il contratto é annullabile, non perché Sempronio ha indotto in errore la controparte, ma perché non le ha rivelato la dolosità del suo comportamento.

Doc. Io credo che questa sia la migliore spiegazione della ratio, che presiede all’annullamento di un contratto per dolo; tanto é vero che, se il deceptante, prima della stipula del contratto, rivela il suo comportamento doloso a Sempronio e questi, testardo, il contratto lo stipula lo stesso, l’annullabilità di questo é esclusa. Poi stabilire se, a giustificare l’annullamento, sia l’induzione in errore o la mancata rivelazione della induzione in errore, é una questione di...lana caprina su cui io non ci perderei troppo tempo.

Disc. Andiamo avanti, allora. A me pare che l’errore in cui é caduta la parte, pur essendo indifferente che sia “essenziale” o cada sui motivi, debba pur sempre: primo, essere indotto; secondo, essere indotto dalla controparte o da terzi che volevano avvantaggiare la controparte, questa essendo di ciò a conoscenza; terzo, essere indotto dalla controparte o dai terzi consapevolmente (cioe il nostro Sempronio deve sapere di stare inducendo in errore la controparte). Ho detto bene?

Doc. Hai detto benissimo. Solo ti sei dimenticato un quarto requisito.

Disc. Quale?

Doc.Essere l’errore determinante. Qualora Tizio, ancorché a conoscenza dell’errore, avrebbe lo stesso stipulato il contratto, questo non é annullabile.

Disc. Quid iuris se l’errore cade su una clausola del contratto (la clausola A, con cui si stabilisce, metti, un’inversione dell’onere della prova, o la clausola B, con cui si stabilisce che il prezzo della merce deve essere tot) e la parte, se a conoscenza dell’errore, avrebbe lo stesso stipulato il contratto, ma pretendendo la espulsione o la modifica della clausola, su cui il suo errore era caduto?

Doc. Qui bisogna intenderci: se vuoi dire (prima ipotesi del tuo involuto pensiero) che Tizio, se a conoscenza dell’errore, non avrebbe stipulato il contratto, se non fosse stata espulsa o modificata la clausola, evidentemente ci troviamo di fronte a un errore determinante. Se, invece, vuoi dire (seconda ipotesi) che Tizio, venuto a conoscenza dell’errore, avrebbe desiderato, sì, che la clausola fosse espulsa o modificata, ma che, se la controparte non avesse accettata la modifica o l’espulsione della clausola, avrebbe lo stesso concluso il contratto, ebbene in tal caso certamente di errore determinante non si potrebbe parlare.

Disc. Mettiamoci nella prima ipotesi, Tizio, se la clausola non fosse stata espulsa o modificata, non avrebbe stipulato il contratto.

Doc. Ebbene io in tale ipotesi riterrei l’annullabilità del contratto. Questo argomentando dall’articolo 1419 che, sotto la rubrica “Nullità parziale”, recita: “La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che é colpita dalla nullità”. A me sembra che la soluzione, ritenuta valida per una clausola nulla, debba essere considerata valida anche per una clausola annullabile.

Disc. Ma perché ti metti ad argomentare da un articolo in materia di nullità: non c’é un articolo in materia di dolo, che chiarisca il punto?

Doc. C’é, sì, in materia di dolo, un articolo che si propone di dire qualche cosa per il caso da noi ora preso in esame, ed é l’articolo 1440, ma é un articolo talmente

confuso, che sembra inutile tentare di interrogarlo per avere da lui una chiara risposta.

Disc. Vediamo, leggiamolo.

Doc. L’articolo 1440, sotto la rubrica “Dolo incidente”, recita: “Se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso il contratto é valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse, ma il contraente in mala fede risponde dei danni”.

Disc. Perché parli di formulazione confusa dell’articolo?

Doc. Perché il suo incipit farebbe pensare, che il legislatore si pone nella prima ipotesi da noi prima fatta (l’ipotesi della parte che avrebbe stipulato lo stesso il contratto, anche se la clausola erronea non fosse stata espulsa): infatti, se non si ponesse in tale ipotesi, sarebbe illogico che dicesse che “i raggiri non sono stati tali da derminare il consenso”; pero, nella seconda parte dell’articolo, sembra che il legislatore si metta invece nella seconda ipotesi (l’ipotesi che la parte non avrebbe concluso il contratto, se la clausola non fosse stata espulsa). Infatti in questa seconda parte il legislatore fa l’ipotesi che senza i raggiri, cito le parole testuali “il contratto sarebbe stato concluso a condizioni diverse”: questo evidentemente perché la parte non avrebbe accettato di concluderlo se non a condizioni diverse.Dato lo stato confusionale in cui l’articolo é stato scritto, io penso che la migliore sua interpretazione sia questa: il legislatore - postosi nel caso in cui, anche senza la clausola erronea, il contratto sarebbe stato lo stesso stipulato – ha voluto stabilire che in tal caso, non solo il contratto deve ritenersi valido, ma deve anche ritenersi valida la clausola in cui é caduto l’errore, a meno che questa sia espellibile senza ledere la complessiva economia del contratto – e fermo in ogni caso che la parte deceptante deve alla parte deceptata un risarcimento.Tutto questo, ripeto, se risulta che, anche senza la clausola, la parte avrebbe lo stesso stipulato il contratto. Se invece risulta che, senza la clausola, la parte non avrebbe stipulato il contratto, questo deve ritenersi annullabile.

Disc. Un’ultima domanda, prima di passare a parlare del vizio del consenso derivante da violenza: che cosa si deve intendere per dolus bonus?.

Doc. Il dolus bonus é il comportamento di una parte diretto, sì, a trarre in errore la controparte, ma tollerato dalla morale e di uso frequente nel commercio. Proprio

perché di uso frequente, la popolazione ha sviluppato per così dire gli anticorpi che normalmente lo rendono innocuo. Un esempio di dolus bonus é dato dal commerciante di abiti che dice alla cliente, che se ne sta provando uno “Cara signora, quest’abito le sta a pennello, la fa sembrare una principessa”.

Disc. Ma se in un caso particolare quel dato comportamento normalmente innocuo risulta efficace, per la particolare rusticitas o ingenuità della controparte? Se il gatto e la volpe riescono a far credere a Pinocchio che mettendo sotto terra le sue monete l’indomani troverà un bel albero carico di monete?

Doc. In tal caso il dolo renderebbe il contratto annullabile. Infatti per il nostro diritto non rileva che il deceptato sia caduto in errore per sua colpa anche grave.

5ter- (Continuazione) I vizi del consenso causati da violenza

Disc. Per prima cosa spiegami: perché, dopo aver parlato del vizio del consenso dato per errore, sei passato a parlare del vizio del consenso carpito con dolo, senza uniformarti, invece, all’ordine del codice?

Doc. Perché il vizio del consenso dato per errore e il vizio del consenso carpito con dolo hanno un comune denominatore, il fatto che il consenso della parte é frutto di un suo errore sulla convenienza per lei di concludere il contratto.Nel caso del consenso estorto con violenza, invece, la parte non conclude il contratto, perché caduta in errore sulla convenienza del contratto: se Caio, puntandomi una rivoltella, minaccia di togliermi la vita se non gli vendo per cento quella villa, che vale mille; e io gli dico “sì, ti vendo la villa”, io il “si” glielo dico, non perchè caduto in errore sulla convenienza del contratto propostomi; e infatti - mentre il contratto simulato “vendita della villa per cento” non é per me conveniente - il contratto, che Caio mi propone realmente di concludere “trasferimento della villa in cambio di aver salva la vita”, é senz’altro per me conveniente: forse che la mia vita non vale più della mia villa?

Disc. E allora, perché il legislatore ritiene annullabile tale contratto?

Doc. Ma perché tale contratto (e mi sto riferendo, non al contratto dissimulato, ma al contratto reale “villa in cambio della vita”) manca di una reale funzione economica e sociale, manca di “causa”, per usare la abituale terminologia – e questo perché io con

tale contratto vengo a cedere il mio diritto sulla villa in cambio di quel diritto alla vita....che io ho già.E’ per questo che, da un punto di vista sistematico, la normativa attinente al consenso estorto con violenza, non dovrebbe accostarsi a quella sul consenso dato per errore o carpito con dolo; ma se mai, alla normativa attinente al contratto stipulato in stato di pericolo (articolo 1447) o in stato di bisogno (articolo 1448).

Disc. E in effetti debbo riconoscere che il caso (rientrante nell’articolo 1447) di Tizio, che accetta di vendere a Caio la sua villa, purché questi lo trasporti all’ospedale dove avrà salva la vita, é assai simile a quello (contemplato dalla normativa sulla violenza) di Tizio che vende la villa a Caio purchè non gli tolga la vita sparandogli. L’unica differenza é che Caio, nel primo caso, minaccia di togliere la vita a Tizio con un comportamento omissivo (idest, omettendo di trasportarlo all’ospedale), nel secondo, con un comportamento commissivo (idest, premendo il grilletto).

Doc. E val la pena però di notare che, nonostante questa similitudine tra i due casi, la disciplina che il legislatore, ad essi, dà, é diversa.

Disc. Diversa in che cosa?

Doc. Diversa in più punti. Per citare i principali, ti dirò che: nel caso di contratto stipulato in stato di pericolo o di bisogno, il contratto é rescindibile (artt. 1447 e 1448), non é convalidabile (art. 1451), la sua rescissione non pregiudica i diritti acquistati da terzi (vedi meglio l’articolo 1452); nel caso invece di contratto stipulato sotto la pressione della violenza, il contratto é annullabile (come vedremo subito), é convalidabile (art.144), il suo annullamento pregiudica i diritti acquistati dai terzi (ma vedi meglio l’articolo 1445).Ma a questo punto, senza più perdere tempo a rilevare le stranezze del nostro codice civile, passiamo a leggere il primo degli articoli, che costituiscono la disciplina della violenza: l’articolo 1434 che, sotto la rubrica “Violenza”, recita: “La violenza é causa di annullamento del contratto anche se è esercitata da un terzo”.

Disc. Ma, la violenza esercitata da un terzo, rende annullabile il contratto anche se di tale violenza, la parte che ne beneficia, nulla sa? Esempio: Sempronio minaccia di morte Tizio se non vende la villa a Caio; questi però nulla sa di tale minaccia e che Tizio si decide al contratto per timore di questa: il contratto tra Tizio e Caio é annullabile?

Doc. Certamente. E questa differenza tra la disciplina della violenza e del dolo (il dolo compiuto dal terzo, se ti ricordi, rileva per l’annullamento solo se conosciuto dalla parte, che se ne avvantaggia), si spiega con la maggiore gravità della violenza rispetto al dolo. Il contratto stipulato a causa di violenza dovrebbe addirittura essere considerato, non annullabile, ma nullo (in quanto mancante di causa). Se il legislatore lo considera annullabile, é solo per favorire la parte vittima della violenza, che potrebbe in un secondo tempo scoprire che, quello che credeva un contratto per lei svantaggioso, al contrario l’avvantaggia (metti per il sopravvenire di circostanze imprevedibili al momento della stipula: per una imprevedibile crisi del mercato edilizio, quella villa, che valeva mille ed era svenduta a cento, é venuta a valere solo cinquanta); e in tal caso – ecco quel che pensa giustamente il legislatore – perché dichiarare la nullità della vendita, perché aumentare il danno della vittima di questa? solo per avvantaggiare quel farabutto di Sempronio che ora, accortosi di aver fatto un cattivo affare, sarebbe ben contento se la vendita fosse dichiarata nulla?

Disc. Passiamo all’articolo 1435, che, sotto la rubrica “Caratteri della violenza”, recita: “La violenza deve essere di tale natura da fare impressione sopra una persona sensata e di farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole. - Si ha riguardo, in questa materia, all’età, al sesso e alla condizione delle persone”.

Doc. Prima notazione, che si ricava dall’articolo ora letto: la violenza che porta all’annullamento del contratto (e di cui ha parlato l’articolo 1434) é la violenza psichica, cosiddetta, vis compulsiva, e non quella fisica, detta anche vis absoluta: se il legislatore contemplasse, nella normativa data dagli artt. 1434 e seguenti, anche la violenza fisica, non avrebbe senso che si riferisse, nell’articolo 1435 in esame, alla “impressione “e al “timore” ingenerato dalla violenza. Quindi prima conclusione: la violenza fisica é causa non di annullamento, ma di nullità del contratto.

Disc. Ma quando si ha violenza psichica e quando violenza fisica?

Doc. La violenza psichica si ha quando é esclusa totalmente una collaborazione della vittima alla conclusione del contratto: é il caso in cui la firma nell’atto, che racchiudeil negozio, solo apparentemente viene posta da Tizio, in quanto la sua mano é mossa dal violentatore Caio.La violenza psihcica si ha quando, invece, la vittima collabora al contratto (fa muovere i muscoli della mano per apporre la sua firma, muove il muscolo della

lingua per dire “si” alla proposta del violentatore...): insomma si ha violenza psichica quando la vittima in definitiva il contratto lo vuole: lo vuole per evitare un danno ma lo vuole: coactus voluit sed voluit.

Disc. Quindi la violenza (psichica), per condurre all’annullabilità del contratto, deve aver causato un senso di timore nella vittima.

Doc. Di più, deve aver causato un senso di timore, che, a sua volta, ha determinato il consenso della vittima.. Questo, pur nel silenzio del legislatore, vuole la logica del sistema: se l’errore causato dal dolo, deve essere determinante per portare all’annullamento, anche il timore causato dalla violenza deve essere determinante per portare a tale annullamento: se, a prescindere dal timore che la violenza le ha causato, la vittima avrebbe lo stesso stipulato il contratto, questo non é annullabile.

Disc. Mentre però il legislatore, nel caso del dolo, non richiede, all’errore da questo causato, altro requisito oltre a quello di essere stato determinante del consenso, invece, nel caso della violenza, per ritenere l’annullabilità, egli non si accontenta che il timore sia stato determinante, pretende che sia qualificato da particolari elementi: deve nascere da una violenza capace di fare impressione “sopra una persona sensata” (questo mentre la normativa sul dolo non richiede, per l’annullamento del contratto, che, nell’errore in cui é caduto il deceptato, sarebbe caduta anche una persona sensata), inoltre deve riguardare un”male ingiusto e notevole”. Perché questo?

Doc. Evidentemente, a pretendere tali requisiti (del timore), il legislatore é mosso da due considerazioni.La prima considerazione é questa: l’annullamento del contratto produce effetti, non solo per Tizio e Caio che l’hanno stipulato, ma, come si é già accennato, anche per i terzi che da loro hanno acquistati diritti,. Ora, se per Tizio, la parte che ha usata violenza, si può anche fare il ragionamento: peggio per lui se, la sua controparte, Caio, é stata tanto pavida da lasciarsi intimorire da una minaccia leggerissima: se non voleva correre il rischio dell’annullamento, doveva semplicemente astenersi da ogni minaccia; tale ragionamento non si può ripetere per i terzi (che nessuna minaccia hanno proferita): essi non debbono essere danneggiati dalla particolare pavidità di Caio.La seconda considerazione, muove dalla necessità di evitare che, il richiamo alla violenza subita, dia un facile pretesto alla sua vittima per liberarsi da un contratto rivelatosi per lei svantaggioso.

Disc. Sono considerazioni che il legislatore avrebbe potuto fare anche a proposito dell’errore e del dolo; ma che né per questo né per quello ha fatte.

Doc. Forse perché il legislatore, nella disciplina dei vizi del consenso, si é lasciato troppo condizionare dalla tradizione a scapito della razionalità del sistema.

Disc. Comunque sia vediamo gli elementi che debbono qualificare il timore: l’ingiustizia del male temuto: quando questa si verifica?

Doc. Quando é minacciata la lesione di un interesse che il legislatore tutela: di un diritto insomma. Esempio di minaccia di un male ingiusto: Tizio minaccia Sempronio di bruciargli la sua villa se non gliela vende. Esempio di minaccia invece di un male, sì, ma non ingiusto: Tizio minaccia di non tollerare più il passo di Sempronio nel suo fondo, se non gli vende la villa.

Disc. Quindi la minaccia di far valere un diritto non potrà mai essere considerata minaccia di un male ingiusto.

Doc. Non potrà esserlo nel caso in cui il diritto, di cui si minaccia l’esercizio per ottenere una vantaggio di natura economica, sia anch’esso di natura economica, come é il caso, nell’esempio prima fatto, di Tizio che minaccia di non tollerare più il passaggio di Sempronio sul suo fondo, se questi non gli vende la villa. In un tale caso se mai, qualora ci fosse stata sproporzione tra la rinuncia al diritto che Tizio (il violentatore) offriva e il bene che richiedeva in cambio e Caio si fosse indotto ad accettare tale scambio per la situazione di pericolo o di bisogno in cui versava, ci sarà materia per richiedere la rescissione del contratto (articoli 1447 e seguenti).Quello che, invece, potrà essere considerato come “diretto a conseguire vantaggi ingiusti”, sarà l’esercizio di un diritto di natura non economica per ottenere un vantaggio economico. Esempio, Tizio minaccia di richiedere il divorzio se la moglie non gli vende la sua villa.Con questi limiti va interpretato l’articolo 1418 che, sotto la rubrica “Minaccia di far valere un diritto”, recita: “La minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto solo quando é diretta a conseguire vantaggi ingiusti”.

Disc. Il male minacciato, oltre che ingiusto, deve essere notevole. E il perché il legislatore richiede questo requisito é evidente, dopo quel che si é detto a proposito

della preoccupazione del legislatore di tutelare i diritti dei terzi (che verrebbero invece sacrificati in caso di annullamento del contratto).E’ anche evidente, sempre per i discorsi prima fatti, che la notevolezza del male va valutata con criteri obiettivi..

Doc. Vero é che, tale valutazione obiettiva della notevolezza del male minacciato, diventa difficile quando questo male minacciato riguarda beni e persone di terzi.

Disc. Perché il legislatore prende in considerazione il male minacciato ai terzi?

Doc. Sì, e lo fa nell’articolo 1436, ma, proprio in considerazione dell’inevitabile soggettività del timore, che un male minacciato a terzi, ingenera, lo fa ponendo precisi limiti alla sua rilevanza.L’articolo 1436 precisamente, sotto la rubrica “Violenza diretta verso terzi”, recita: “La violenza é causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di lui. - Se il male minacciato riguarda altre persone, l’annullamento del contratto é rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice”.

Disc. Ma la minaccia di un male notevole può non essere per nulla...notevole se scarse sono le probabilità di una sua attuazione: Tizio, sì, ha minacciato di bruciare la villa di Sempronio, ma egli é notoriamente un fanfarone, che non sa fare nulla, nemmeno il male.

Doc. Il legislatore tiene conto di ciò e, per concedere l’annullamento del contratto, richiede, non solo che il male minacciato sia notevole, ma sia tale “da fare impressione su una persona sensata”.

Disc. Un’ultima domanda: la violenza deve necessariamente tradursi in minacce?

Doc. Di solito sarà così, ma non é necessario che sia così. Come si può argomentare dall’articolo 1437 che, sotto la rubrica “Timore riverenziale”, recita: “Il solo timore riverenziale non é causa di annullamento del contratto”.Infatti il timore riverenziale, per definizione, é quello che si verifica in assenza di minacce: Tizio teme che il suo comportamento possa recare dolore o offesa a una persona verso cui porta affetto e venerazione o da cui può aspettarsi reazioni vendicative (ad esempio, la perdita del posto di lavoro).Ora, se il legislatore ha ritenuto necessario escludere che il timore riverenziale possa

portare all’annullamento, é, evidentemente, perché ha ritenuto che, la semplice mancanza di minacce, non sia buona ragione per escludere l’annullamento del contratto, quando la parte si é comunque indotta a questo per timore.

6 - Dell’interpretazione del contratto

Disc. Che cosa sì intende per interpretazione di un contratto?

Doc. A rigore per interpretazione del contratto dovrebbe intendersi l’attività volta ad accertare sia quale contratto ciascuna delle parti aveva intenzione di stipulare,sia quale contratto apparirebbe come voluto dalle parti, a un terzo di normale intelligenza che interrogasse le parole (o le lettere) da esse usate per esprimere la loro intenzione.La prima attività serve a stabilire se le parti avevano, per usare le parole del legislatore, una “comune intenzione”, cioé volevano un contratto dello stesso contenuto.

Disc. E la seconda attività a che serve? ’

Doc. Serve a stabilire, in caso di constata divergenza delle intenzioni delle parti, se il contratto, da una di esse voluto, corrisponde a quello che apparirebbe come, da entrambe le parti, voluto a quel terzo di normale intelligenza di cui si é fatta ora parola.

Disc. Ed é importante stabilire ciò?

Doc. Certo che é importante! Infatti se risulta una divergenza nelle volontà delle parti, Tizio ha voluto il contratto A mentre Caio, invece, ha voluto il contratto B,se questo contratto B corrisponde a quello che apparirebbe (come voluto da entrambe le parti) al terzo, questo contratto B viene, per così dire, privilegiato.

Disc. In che senso?

Doc. Nel senso che, se l’errore di Tizio, sulla esistenza di una “comune intenzione contrattuale tra lui e Caio, non era riconoscibile (art. 1428) si darà esecuzione al contratto voluto da Caio.

Disc. E se invece l’errore era riconoscibile?

Doc. Se invece l’errore era riconoscibile (e inoltre “essenziale”) Tizio potrà, sì, chiedere l’annullamento del contratto, ma non potrà chiedere alternativamente che venga eseguito il contratto da lui voluto.

Disc. Ho capito: anche se é vero che, se Tizio é caduto in errore sulla esistenza di una “comune intenzione” contrattuale tra lui e la controparte, anche Caio in identico errore é caduto, viene privilegiata la volontà contrattuale di Caio, perché corrisponde a quella volontà che risulta dalla “lettera” del contratto.

Doc. Sì, il legislatore dà una sorta di premio alla parte che, nelle trattative contrattuali e nella conclusione del contratto, ha dimostrata competenza e diligenza. E perché dia questo premio lo abbiamo visto nella lezione dedicata ai vizi del consenso.

Disc. Ma se Tizio vuole il contratto A e Caio il contratto B e dalla lettera, con cui si sono espresse le due volontà, risulterebbe come voluto il contratto C?

Doc. In tal caso il contratto é annullabile salva la possibilità di un parte di aderire al contratto voluta dall’altra (in applicazione analogica dell’articolo 1432).

Disc. Con ciò tu hai detto cosa dovrebbe intendersi per interpretazione secondo te. Ma cosa deve intendersi per interpretazione secondo il legislatore?

Doc. Il legislatore adotta un concetto più ampio di interpretazione: per lui l’interpretazione é l’attività volta a determinare sic et simpliciter il contenuto da attribuire al contratto. Quindi il legislatore ricomprende nel concetto di interpretazione, non solo l’attività volta a individuare le intenzioni delle parti, ma anche l’attività volta a supplire a tale intenzione qualora risulti “dubbia”o totalmente oscura.

Disc. A questo punto possiamo cominciare a passare in rivista i criteri che il legislatore dà all’interprete per individuare la intenzione delle parti.

Doc. Il primo criterio é dato implicitamente dall’articolo 1362: l’interprete deve partire dal presupposto che la volontà delle parti sia conforme a quella risultante dalla lettera del contratto. Questo naturalmente in mancanza di elementi contrastanti con tale conclusione.

Disc. Perché dici che il legislatore dà solo “implicitamente” tale criterio?

Doc. Perché esplicitamente il legislatore dice solo, nella seconda parte dell’articolo, che l’interprete non deve “limitarsi al senso letterale delle parole”. Ma naturalmente, se l’interprete non deve limitarsi a tenere conto del “senso letterale delle parole”, ciò significa che, del “senso letterale delle parole”, deve tenere conto.Più precisamente l’articolo 1362, sotto la rubrica “Intenzione dei contraenti” nel suo primo comma recita: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.

Disc. Però, mentre tu dici che l’interprete deve indagare quale é stata la intenzione di ciascuna parte, il legislatore, invece, dice che l’interprete deve indagare la “comune intenzione” delle parti.

Doc. Sì, però la “comune intenzione” delle parti”, ci può essere oppure no, mentre la intenzione, che ciascuna delle parti ha avuto nel concludere il contratto, non può non esserci. In realtà il legislatore, se ben avesse conosciuta l’arte sua, avrebbe dovuto formulare il primo comma dell’articolo 1362 così: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare la intenzione delle parti al fine di verificare se al momento della sua conclusione era comune.” Questo il primo comma, che avrebbe dovuto essere seguito da un secondo comma più o meno così formulato: “Ai fini del primo comma, si deve tenere conto sia del senso letterale delle parole usate dalle parti nella conclusione del contratto sia del loro comportamento” continuando poi come detto nell’attuale secondo comma dell’articolo in questione.

Disc. Ma leggiamolo bene, senza fretta, questo secondo comma.

Doc. D’accordo. Tale secondo comma recita: “Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.E’ quello, offertoci da secondo comma dell’art.1362, un criterio che si basa evidentemente sulla aspettativa che le parti abbiano tenuto, sia al momento della conclusione del contratto sia nella loro condotta anteriore e posteriore a tale momento, un comportamento coerente: se Tizio, prima di firmare il contratto di acquisto con Caio, commerciante in cavalli, si preoccupò di montare il cavallo B senza degnare di uno sguardo il cavallo A, é chiaro che, anche se firmò un contratto

in cui appariva venduto il cavallo A, egli voleva comprare il cavallo B.

Disc. Passiamo al terzo elemento che l’interprete deve tenere in conto per individuare la volontà delle parti.

Doc. Questo elemento lo indica o meglio pretende di indicarlo l’articolo 1363, che, sotto la rubrica, “Interpretazione complessiva delle clausole”, recita: “Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”.La prima parte dell’articolo offre un criterio (“Si deve interpretare la clausola A tenendo conto di quel che dice la clausola B e così via”) che, come già abbiamo visto essere per il criterio offerto dal secondo comma dell’articolo 1362, si basa sull’aspettativa di una coerenza nel comportamento delle parti, più particolarmente di una coerenza nella soluzione delle varie questioni che la materia disciplinata dal contratto presentava.

Disc. Questo per quel che riguarda la prima parte dell’articolo e per quel che riguarda la seconda? A me questa seconda parte francamente sembra ripetitiva della prima: infatti,siccome il “complesso dell’atto” é dato dalla somma delle clausole nell’atto stesso contenute, é chiaro che, quando hai detto che il senso di una clausola va stabilito tenendo conto del senso risultante dalle altre clausole, hai anche detto che il senso di una clausola va stabilito tenendo conto del senso risultante dal complesso dell’atto.

Doc. Ciò é evidente. Per cui, per escludere il difetto di una inammissibile ripetitività nella seconda parte dell’articolo 1363, bisogna interpretare questa come se dicesse che, nel dare, a una questione, una soluzione – soluzione che le parti hanno omessa o hanno data in maniera non chiara - bisogna tenere conto, di un quid, che il legislatore non esplicita, ma che a noi sembra ragionevole ravvisare nello scopo pratico perseguito dalle parti; quid risultante (non già dal “complesso dell’atto” cioé da tutte le clausole – il che sarebbe assurdo, ma) da questa o quella clausola contrattuale o anche da elementi extracontrattuali.Faccio un esempio: se Tizio vende a Caio delle mucche e risulta (non necessariamente dal contratto, ma anche da prove aliunde ricavate) che il campo di Caio é privo di un pozzo a cui abbeverare le mucche, siccome é chiaro che Caio, comprando le mucche, voleva fare un allevamento di mucche, é anche chiaro che la questione se Tizio deve o no lasciare abbeverare le mucche nel suo pozzo va risulta

positivamente per Caio.

Disc. Passiamo al criterio interpretativo offerto dall’articolo 1364, il quale, sotto la rubrica, “Espressioni generali”, recita: “Per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare”.

Doc. Questo articolo enuncia un principio di assoluta ovvietà: é chiaro che chi ha lo scopo di accertare la volontà delle parti (alias, l’interprete) può, sì, utilizzare la “lettera” del contratto, come strumento per realizzare tale scopo, ma una volta che, utilizzando strumenti esegetici diversi, é giunto ad accertare tale volontà, non deve cadere nell’assurdità di concludere che essa... non é come gli appare, ma come risulta dalla “lettera” del contratto.

Disc. Passiamo all’articolo 1365 che, sotto la rubrica “Indicazioni esemplificative”, recita: “Quando in un contratto si é espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali secondo ragione, può estendersi lo stesso patto”

Doc. Direi che l’enunciato dell’articolo 1365, più che ovvio é tautologico: se un caso é portato come esempio dell’applicazione di un patto é ovvio che ciò non esclude ma anzi, per definizione, presuppone che tale patto sia applicabile ad altri casi.

Disc. Passiamo all’articolo 1366 che, sotto la rubrica” Interpretazione di buona fede”, recita: “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede “-

Doc. Siccome le norme, che stiamo esaminando, sono rivolte, sì, anche alle parti, ma soprattutto sono rivolte al giudice (a cui spetta il compito, nel disaccordo delle parti, di dare l’interpretazione del contratto), é evidente che l’articolo in esame non vuol dire che chi interpreta il contratto lo deve interpretare in buona fede: infatti la buona fede del giudice é un “dato scontato” nell’applicazione di qualsiasi norma del codice (civile).Se così é, l’articolo in esame non può che significare, che il contratto va interpretato partendo dal presupposto che le parti, nelle trattative precontrattuali e al momento di concludere il contratto, si siano comportate secondo buona fede.

Disc. Ma il giudice deve partire da tale presupposto e attribuire a una parte, a Tizio,

un comportamento secondo buona fede, anche quando aliunde risulta che é un autentico farabutto?

Doc. Io ritengo di sì. Ritengo infatti che con l’articolo in esame si compia un salto qualitativo: dagli articoli con cui il legislatore si propone di dare all’interprete criteri per accertare la reale volontà contrattuale delle parti, si passa agli articoli con cui il legislatore mira ad attribuire al contratto quel contenuto che egli ritiene più giusto e opportuno – se del caso facendo violenza alla reale volontà delle parti.Attribuendo a Tizio quel comportamento in buona fede su cui la controparte Caio aveva ragione di confidare, il legislatore vuole premiare il bonus civis a scapito del malus civis; d’altra parte non é forse interesse della società che, i beni costituenti la ricchezza nazionale. vadano nei patrimoni dei buoni e non dei malvagi?

Disc. Passiamo all’articolo 1367, che, sotto la rubrica “Conservazione del contratto”, recita: Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. Anche per questo articolo si può dire che, pur in presenza di elementi maggioritari che imporrebbero di ritenere la nullità (o anche, perché no? la annullabilità) di una clausola o di tutto intero il contratto, a quella o a questo si deve attribuire, invece, il senso che la nullità (o annullabilità) porti ad escludere?

Doc. Io direi di no. Certo ha un buon fondamento la presunzione che le parti non abbiano voluto dare a una clausola o al contratto un contenuto, che porterebbe alla loro nullità - questo, se non altro, perché di solito le persone non gettano via il loro tempo per fare qualche cosa (che nel caso sarebbe il contratto o la clausola) che sarà poi gettato nel nulla. E di tale presunzione si deve tenere conto. Però, se pur tenendo conto di tale presunzione e di eventuali altri elementi che depongono per una validità della clausola (o del contratto), altri elementi più consistenti e forti depongono in senso contrario, cioé per la nullità, la calusola (o il contratto) dovranno essere considerati nulli. Solo quando una clausola é ambigua, cioé quando gli elementi, che depongono per un senso (quello che porterebbe a ritenerne la validità), sono controbilanciati, da elementi che deporrebbero in senso contrario (quello che porterebbe a ritenerne la nullità), si deve dare la preferenza ai primi.A tale soluzione conduce, sia la lettera dell’articolo, che parla di “dubbio”(e parlare di “dubbio” non sarebbe il caso quando la maggior parte degli elementi convince per la nullità), sia il criterio esegetico, che vuole che si possa attribuire al legislatore la volontà di fare eccezione a un principio (nel caso al principio del rispetto della

volontà delle parti contraenti). solo quando tale volontà chiaramente risulta.

Disc. Passiamo ora all’articolo 1368, che, sotto la rubrica “Pratiche generali interpretative”, recita: “Le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto é stato concluso.Nei contratti in cui una delle parti é imprenditore, le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui é la sede dell’impresa”.

Doc. L’articolo si basa su una presunzione (superabile però da elementi contrari!) - presunzione che, però, per quel che riguarda il secondo comma, risente un po’ del favor per l’imprenditore, che ispira spesso il nostro legislatore e che già risulta dal primo comma dell’articolo 1341 (il quale, come é noto, recita “Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto, questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”).

Disc. Il favor di cui tu hai parlato a proposito dell’articolo 1368 mi pare controbilanciato dal disposto dell’articolo 1370, che, sotto la rubrica, “Interpretazione contro l’autore della clausola”, recita: “Le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, s’interpretano nel dubbio, a favore dell’altro”.

Doc. Sì, questa disposizione é sfavorevole all’imprenditore ed evidentemente mira a pungolarlo alla massima chiarezza nella formulazione delle condizioni generali di contratto o nella redazione dei moduli e dei formulari.

Disc. Passiamo all’articolo 1369 che, sotto la rubrica “Espressioni con più sensi”, recita: Le espressioni che possono avere più sensi devono nel dubbio essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.

Doc. L’articolo fa l’ipotesi che l’interprete si trovi, come l’asino di Buridano, di fronte a due possibili contenuti del contratto (o di una clausola), che potrebbero essere egualmente considerati corrispondenti alla volontà delle parti. In tal caso, impone il legislatore, tu, interprete, devi attribuire al contratto (o alla clausola) “il senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”.

Disc. E siamo arrivati finalmente all’ultimo articolo disciplinante la interpretazione

del contratto: l’articolo 1371, che, sotto la rubrica “Regole finali”, recita: “Qualora, nonostante l’applicazione delle norme contenute in questo capo, il contratto rimanga oscuro, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, se é a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti se é a titolo oneroso”.

Doc. Il legislatore, mentre nell’articolo 1369 faceva l’ipotesi di un interprete, che si trova di fronte a “espressioni” che rimandano a due o più significati (plausibili), nell’articolo in esame fa invece l’ipotesi di un interprete che, poveretto, si trova di fronte a “espressioni” senza nessun significato (o con un significato inaccettabile, anche per elementi extracontrattuali). E allora adotta una soluzione....salomonica.

7 - La tutela del patrimonio dell’incapace. Premessa

Disc. Abbiamo visto nelle precedenti lezioni che l’accordo delle parti per lo scambio di beni e servizi é tutelato dallo Stato in quanto ritenuto utile ad aumentare la ofelimità della ricchezza nazionale (Caio ha tre quintali di grano, di cui però due sono per lui superflui, dato che un solo sacco basta alle sue necessità, e allora dà il secondo sacco a Mevio, che nei suoi magazzini non ha del grano ma un eccesso di mele, per avere un quintale di queste, e dà l’altro sacco a Sempronio, che ha un eccesso di formaggi, per avere un quintale di questi; e tutti e tre, Caio, Mevio, Cornelio vivono meglio).Però questo risultato (di una maggiore ofelimità della ricchezza nazionale) si raggiunge, se le scelte operate da Caio, Mevio, Sempronio sono oculate: se Caio dà via tutti i suoi tre quintali di grano per avere due quintali di formaggio e un quintale di mele, lasciando così vuoti i suoi magazzini del prezioso cereale....i conti non tornano: il benessere della società non aumenta, ma diminuisce.La decisione errata di Caio può essere semplicemente dovuta al fatto, che egli ha operato il suo calcolo economico credendo erroneamente, che esistessero circostanze ed elementi invece inesistenti (Caio per errore credeva di stare acquistando un sacco di mele mentre invece il sacco, datogli in cambio del suo grano, era pieno di pere, di cui nulla avrebbe saputo che fare). In tal caso il legislatore a certe condizioni (quelle condizioni di cui abbiamo parlato studiando i vizi del consenso), é disposto ad annullare il contratto stipulato da Caio.Senonché la scelta di Caio potrebbe essere sbagliata, non perché egli ha basato i suoi calcoli su falsi elementi, ma semplicemente perché....non é stato capace di calcolare.In tal caso si presenta per il legislatore il (grosso) problema: merita tutela il

patrimonio dell’incapace? E se si, come attuare tale tutela? Tu, a questo problema, che soluzione daresti?

Disc. La soluzione più conforme all’interesse della società - interesse che vuole che i beni costituenti la ricchezza nazionale siano gestiti da persone capaci e non da persone superficiali o fannullone. Quindi non annullerei i contratti stipulati rovinosamente da Caio, ma guarderei con simpatia, in quanto in definitiva cosa utile alla società, al travaso di beni dal patrimonio dell’imbelle Caio a quello dell’abile don Gesualdo.

Doc. Non é però detto che, chi é abile, sia anche onesto e corretto amministratore, e l’interesse della società potrebbe portare a preferire, all’abile ma disonesto don Gesualdo, il meno abile ma più onesto Repetto. Ma a prescindere da ciò, devono rendere cauto il legislatore, nella tutela dell’interesse da te segnalato, due considerazioni.La prima, viene in rilievo quando la incapacità prevedibilmente é destinata a cessare in un breve lasso di tempo. E’ il caso di Francesco che, avendo troppo libato a Bacco, ha sottoscritto un contratto disastroso, ma che già l’indomani, ritornato sobrio, si dimostrerà quell’ottimo e sagace uomo d’affari, che é sempre stato.E’ il caso ancora di Franceschino che, sì, ora, dalla giovane età, é reso inesperto e incapace, ma che in un domani, raggiunta la maggiore età, si rivelerà buon amministratore del suo patrimonio. In entrambi i casi non c’é ragione per dire che, i beni del patrimonio di Francesco e di Franceschino, sarebbero meglio amministrati, se si trovassero nel patrimonio dell’abile ma senza troppi scrupoli don Gesualdo. Più giusto appare annullare il contratto stipulato sotto i fumi del vino da Francesco, e nominare una persona che temporaneamente sostituisca Franceschino nell’amministrazione del suo patrimonio. Ciò lo vedremo meglio parlando della incapacità naturale, della responsabilità genitoriale e della tutela dei minori.La seconda considerazione é che, anche in caso di incapacità destinata a durare indefinitamente nel tempo, contrastano con l’interesse, da te segnalato e che porterebbe alla dispersione del patrimonio dell’incapace, un interesse della famiglia e un interesse dello Stato, che appaiono del tutto meritevoli di tutela e che premono per la conservazione del patrimonio dell’incapace.

Disc. Perché la dispersione del patrimonio di Caio nuoce alla sua famiglia.?

Doc. Perché vi sono persone che dipendono economicamente da Caio, l’incapace: la

moglie di Caio ha diritto ad avere da lui un assegno di mantenimento: se Caio si impoverisce non glielo può più corrispondere. I figli di Caio hanno l’aspettativa di ereditare parte dei beni, che compongono il patrimonio ora in proprietà del loro padre: prospettiva legittima dato che tali beni, non sono solo frutto del lavoro di Caio, ma anche di quello dei suoi antenati (Caio ha ereditato il campo, in cui ha seminato il frumento, da suo padre che l’ha acquistato a prezzo di dure fatiche e risparmi e l’ha trasmesso a Caio perché egli a sua volta lo trasmettesse ai suoi figli). Se il patrimonio di cui ora é titolare Caio si disperde, i figli nulla erediteranno.

Disc. D’accordo, la dispersione del patrimonio dell’incapace danneggia la sua famiglia. Ma in che danneggia lo Stato?

Doc. Lo danneggia perché, il depauperamento dell’incapace, lo obbliga a provvedere ai bisogni di questo con il denaro pubblico.

Disc. Mettiamo che sulla bilancia del legislatore pesino più i due interessi da te ora detti, che quello che vorrebbe dar via libera ai meccanismi economici, che porterebbero all’impoverimento dell’incapace. Come può operare, quali strumenti può usare il legislatore per impedire questa dispersione?

Doc. Nei casi che l’incapacità sia destinata a durare nel tempo, di certo non si può pensare di risolvere il problema della tutela del patrimonio dell’incapace, verificando di volta in volta se i contratti da questi posti in essere sono, o no, economicamente convenienti, per poi annullarli se non lo sono.L’unico strumento che lo Stato può utilizzare é quello dell’incapacitazione. Dove per“incapacitazione” di una persona deve intendersi che, tutti i negozi, tutti i contratti da questa persona posti in essere, possono essere annullati, senza necessità di provare che sono contrari all’interesse dell’incapace.

Disc. Ma chi chiederà l’annullamento di tali contratti?

Doc. La persona a cui appunto lo Stato avrà affidato il compito di tutelare il patrimonio dell’incapace. Persona che, beninteso, avrà, non solo il compito di provocare l’annullamento dei contratti posti in essere dall’incapace, ma anche, anzi soprattutto, di gestirne il patrimonio ponendo in essere i contratti a ciò necessari.

Disc. Senza preoccuparsi della persona dell’incapace?

Doc. Certo che sì, certo che dovrà preoccuparsi della persona dell’incapace; ma ciò ai fini del discorso che ora facciamo e che é limitato alla tutela del patrimonio, non interessa.

Disc. A questo punto il problema: il concetto di incapacità é un concetto relativo: il ragionier Rossi, confrontato alla media delle persone, può essere considerato una persona perfettamente capace, ma confrontato a un genio degli affari come il cavalier Berlusca appare come un incapace: allora chi “incapacitare” e chi no. A quali criteri riferirsi per dare risposta a questo (fondamentale) problema?

Doc. A criteri che limitino al massimo l’adozione della misura della “incapacitazione” - misura giustamente guardata, per gli abusi a cui si presta, con diffidenza dalla popolazione. Quali siano tali criteri lo vedremo parlando dell’interdizione, dell’inabilitazione, dell’amministrazione di sostegno.Nella prossima lezione ci limiteremo a parlare della cosiddetta incapacità naturale, quella che rende annullabili i contratti stipulati da una persona incapace, anche se questa non é minore di età e non é stata, incapace, dichiarata: il caso del nostro Francesco, che troppo si é lasciato tentare da una bottiglia di buon spumante.

8 - L’incapacità naturale

Nel caso di un minore o di un interdetto, inabilitato o beneficiario di una amministrazione di sostegno, per determinare se é invalido, o no, il negozio (posto in essere dal minore, dall’interdetto, dall’inabilitato, dal beneficiario), non occorre verificare se essi erano, al momento di porlo in essere, incapaci di intendere o di volere. Anzi, anche se addirittura fosse provato che il minore Rossi o l’inabilitato Bianchi o addirittura l’interdetto Verdi erano, al momento di firmare quel contratto, in uno stato di super-capacità (Rossi, ancorché sedicenne, sarebbe stato in grado di mettere nel sacco il diavolo, Bianchi, ancorché inabilitato, in quel caso particolare – l’eccezione che conferma la regola! - si dimostrò abilissimo uomo di affari....) ebbene l’invalidità del negozio andrebbe lo stesso dichiarata.Di contro a questa ipotesi ve ne sono però altre in cui, l’invalidità del negozio, andrà dichiarata solo se é provato, che, chi l’ha posto in essere, era, in quel momento, incapace di intendere o di volere. Il Legislatore disciplina queste ipotesi (definite col termine non proprio felice di “incapacità naturale”) nell’articolo 428.Questo articolo stabilisce l’annullabilità di un atto (si badi, di un atto qualsiasi, non

solo di un contratto) quando sussistono le seguenti condizioni.Prima condizione: dall’atto risulti un “grave pregiudizio” al suo autore. Tale condizione é stabilita, sia per non gravare il tribunale di troppe laboriose indagini (di quelle laboriose indagini che, invece, si renderebbero necessarie se il pregiudizio da accertare fosse lieve) sia per non colpire con una troppo pesante sanzione (quella sanzione sui generis rappresentata dall’annullamento di un contratto – contratto sulla cui base si sono forse già costruiti programmi e fatte spese) una controparte, che non appare meritevole di una particola severità, dal momento che sapeva, sì, del pregiudizio derivante (all’incapace) dall’atto, ma sapeva anche, che solo, di un lieve pregiudizio, si trattava.Seconda condizione – Per l’annullabilità occorre la “malafede dell’altro contraente”. Tale “condizione” é prevista dal secondo comma dell’art. 428 e si giustifica con tutta evidenza con la tutela del traffico giuridico. A avrebbe titubanza a stringere un accordo con B, se avesse a temere un suo annullamento anche in caso di un’incapacità di intendere o di volere di B, che da lui non potesse essere avvertita (né per la “qualità del contratto”, né per il pregiudizio che a B il contratto apportava, né per un’altra qualsiasi circostanza).A nostro parere la malafede non richiede la conoscenza del “pregiudizio”, che dall’atto può derivare alla controparte, ma solo della menomazione delle sue facoltà intellettive o volitive: non compete ad A la valutazione se il contratto, che si accinge a firmare con B, é a questo di pregiudizio o no: solo gli compete il dovere di non firmare un atto, che la controparte B non é in grado di valutare, se le é di pregiudizio o no.Terza condizione. Per l’annullabilità del negozio occorre (e questa é la condizione fondamentalissima!) che il suo autore, al momento di compierlo, fosse “incapace di intendere o di volere” (“qualsiasi” fosse la “causa” di tale sua incapacità!).E qui si pone il grosso problema: di quale gravità, di quale grado deve essere l’incapacità per consentire l’annullabilità dell’atto?Sembra logico ritenere che, se una persona ha una tale incapacità da essere interdetta, l’atto da lei compiuto debba essere annullato (purché tale incapacità fosse conosciuta dalla controparte). E in tal senso dispone chiaramente il quarto comma dell’articolo 427.Noi però riteniamo che si abbia annullabilità del contratto, non solo in tale ipotesi, ma anche quando l’atto sia compiuto a cagione di una disfunzione delle facoltà intellettive o volitive, che abbia ridotta e scemata la normale capacità di intendere o di volere del suo autore (anche se non l’ha ridotta e abbassata fino a un livello, in cui una incapacità di intendere o di volere giustificherebbe l’interdizione): l’alcool

ingurgitato da mister Rockefeller ha, sì, scemato visibilmente la sua capacità di intendere o di volere (egli non ha più l’abituale prontezza di memoria e di riflessi, né l’abituale, oculata, riservatezza....) ma non l’ha rimbecillito (anche con l’alcool nel sangue il suo cervello capisce l’affare trattato meglio di un cowboy del Texas e anche dell’uomo medio americano)? Fa niente, il contratto da lui sottoscritto é lo stesso annullabile: la male fede di chi ha profittato della sua menomazione per fargli concludere un affare, che, nel pieno delle sue facoltà, mai avrebbe concluso, va (appunto con l’annullamento del contratto) sanzionata.

9 – La nullità del contratto.

Doc. Abbiamo visto come l’incapacità (di intendere e di volere) e i vizi della volontà giustifichino l’annullamento del contratto, solo che in tal senso sia presentata – nel (breve) termine stabilito dalla Legge e senza che prima sia intervenuta convalida del contratto – una richiesta dalla parte (la cui volontà, al momento della stipula, era viziata o che era incapace).Ora cercheremo di vedere ciò che può giustificare (non l’annullamento, ma) la dichiarazione di nullità di un contratto.

Disc. Sì, benissimo, ma prima dimmi che cosa si intende per contratto nullo. Nullo é il contratto che il Legislatore considera mai esistito, tamquam non esset?

Doc. No, dire questo non sarebbe esatto: che Tizio abbia stipulato un contratto (ancorché nullo) é una realtà ed é una realtà su cui il Legislatore non può chiudere gli occhi.

Disc. In che senso?

Doc. Nel senso che – se pur gli effetti giuridici voluti (come conseguenza del contratto) dalle parti non sono, dal Legislatore, concessi – altri, da Lui, non possono essere negati.

Disc. Ad esempio?

Doc. Ad esempio il Conservatore dei Pubblici Registri Immobiliari non potrà rifiutarsi di trascrivere il contratto adducendo che é nullo (v. art. 2074). Inoltre, e direi soprattutto, il contratto (nullo) può essere convertito in un contratto a tutti gli

effetti valido.

Disc. Questo in forza di quale articolo?

Doc. In forza dell’articolo 1424, che recita: “Il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità”.

Disc. Ho capito, vi é una importante differenza tra contratto nullo e contratto inesistente. Ma ora dimmi, qual’é la differenza di disciplina tra contratto annullabile e contratto nullo?

Doc. La prima, e direi più importante, differenza, é che – mentre “l’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse é stato stabilito dalla legge” (così recita l’art. 1441) - invece (come recita l’art. 1421) “la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”.

Disc. Quindi la nullità non può essere fatta valere da quivis de populo, ma solo da chi “vi ha interesse”.

Doc. Beninteso, un interesse meritevole di tutela. Insomma,il Legislatore vuole evitare due cose: 1) che avanzi la domanda di nullità del contratto tra Caio e Sempronio, un qualsiasi Pinco Pallino che, non avendo nulla da perdere da un suo rigetto, neanche si sentirebbe impegnato a sostenerla efficacemente in un contraddittorio (che potrebbe prolungarsi nel tempo), col risultato che potrebbe alla fine essere dichiarato valido un contratto, invece, nullo; 2) che Caio, la parte del contratto che ne contesta la nullità, venga da più persone convenuta in successivi, sempre nuovi processi (Flavio nel 2012 conviene Caio per far dichiarare la nullità del contratto: la domanda é respinta; ma Claudio nel 2012 la ripropone ecc.ecc.), col risultato che Caio, defaticato, rinuncia a sostenere il contraddittorio e viene dichiarato valido un contratto che, invece, é nullo.

Disc. Fai ora un esempio di persona, il cui interesse a far valere la nullità, é tutelato dal Legislatore.

Doc. Pensa al fideiussore, che ha interesse a far dichiarare nullo il contratto, da cui

deriva l’obbligazione principale (dato che ciò lo libererebbe dal suo obbligo di garanzia).

Disc. Che altre differenze caratterizzano la nullità rispetto alla annullabilità?

Doc. Quella che – mentre l’azione di annullamento si prescrive in un termine molto breve (art. 1442) - “l’azione per far dichiarare la nullità non é soggetta a prescrizione, salvi gli effetti della usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione” (così l’art. 1422) e quella che – mentre il contratto annullabile può essere convalidato (art. 1444) - “il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente” (art. 1423).

Disc. Come si giustificano tali differenze?

Doc. La seconda, ovviamente si giustifica col fatto che la convalida non sarebbe altro che la ripetizione dell’atto nullo (e quindi nulla anch’essa), la prima (idest, la imprescrittibilità dell’azione) si giustifica col fatto che, quando il Legislatore stabilisce la nullità di un contratto lo fa per togliere alle parti la speranza di potersi valere della forza dello Stato per raggiungere lo scopo pratico a cui col contratto mirano e tale dissuasione riesce tanto più forte e recisa se le parti sanno di non poter sperare in una prescrizione dell’azione volta a dichiarare la nullità.

Disc. E se un qualsiasi Pinco Pallino ha acquistato da Caio, una delle parti del contratto nullo, un diritto, metti quel diritto di proprietà che Caio aveva a sua volta acquistato da Sempronio, l’altro contraente? anche il contratto tra Pinco Pallino e Caio si considererà nullo? Oppure, come abbiamo visto accadere per il contratto annullabile (art. 1445) l’interesse di Pinco Pallino a non vedere pregiudicato il suo acquisto dalla invalidità del contratto stipulato dal suo dante causa, verrà tutelato, almeno nel caso che egli sia in buona fede e il contratto sia a titolo oneroso?

Doc. No, non verrà tutelato, nel senso che Pinco Pallino non acquisirà la proprietà della res a lui, da Caio, trasferita; con tutto ciò, bada, commetteresti un errore nel considerare il contratto da lui stipulato con Caio come nullo, si tratterebbe infatti di un contratto perfettamente valido, anhce se risolubile (vedi melius l’art. 1478).

Disc. E tuttavia se il contratto stipulato da Caio, il suo dante causa, fosse stato annullabile, non nullo, Pinco Pallini avrebbe acquistato (se in buona fede ecc.) la

proprietà del bene, da Caio, alienatogli. Come si giustifica questa diversità di disciplina?

Doc. Si giustifica col fatto che – mentre nel caso di un contratto annullabile potrebbe essere difficile per un terzo accorgesi della causa di annullabilità, (come potrebbe il nostro Pinco Pallino sapere se la controparte di Caio, il suo dante causa, era caduta in errore, se questo errore era riconoscibile ecc.ecc.) - invece, nel caso di contratto nullo, non poteva non balzare agli occhi di Pinco Pallino, solo che fosse stato tanto diligente e prudente di recarsi alla Conservatoria dei Registri Immobiliari per leggersi il contratto stipulato da Caio, la nullità del contratto da questi stipulato (da tale contratto risultava che per acquistare l’immobile Caio si era obbligato a compiere un atto illecito? siccome in tal caso, come vedremo, il contratto é nullo, a Pinco Pallino, non poteva non apparire chiara la nullità del contratto stipulato da Caio).

10 - Possibili cause della nullità di un contratto(illiceità della causa, dello oggetto...).

Disc. Abbiamo visto che cosa deve intendersi per nullità di un contratto; vediamo ora da che cosa può essere, la nullità, giustificata.

Doc. Le più varie sono le considerazioni che, per un Legislatore, possono giustificare la nullità di un contratto (e alcune possono essere giuste e altre errate, forse che il Legislatore é immune da errori, forse che non può prendere decisioni assurde e illogiche?). E questo impedisce al Giurista di dare una esauriente risposta alla tua domanda.

Disc. Però – dal momento che la nullità di un contratto viene dichiarata a prescindere da una richiesta delle parti che lo hanno stipulato (e quindi anche contro la loro volontà e presumibilmente contro il loro interesse) il Giurista almeno potrà dire che la nullità (al contrario dell’annullabilità) di un contratto viene, dal Legislatore, ritenuta per tutelare interessi confliggenti o almeno estranei a quelli delle parti del contratto.

Doc. Di massima può dirlo; ma solo “di massima”, dato che in alcuni casi la nullità viene ritenuta dal Legislatore proprio a tutela delle parti che l’hanno stipulato.

Disc. Comincia a portare i principali casi in cui la nullità viene ritenuta a tutela di interessi confliggenti o almeno estranei a quelli delle parti.

Doc. D’accordo, comincerò a portare dei casi in cui il comportamento a cui una parte vorrebbe vincolarsi col contratto frustra un interesse che il legislatore tutela.Primo caso: illiceità dell’oggetto del contratto-Esempio: Sparafucile si obbliga a uccidere il duca di Mantova e Rigoletto si obbliga a dargli tot.

Disc. E’ evidente il perché, il Legislatore, non può ritenere valido un tale contratto. Infatti, se tale lo ritenesse, cadrebbe in contraddizione in quanto verrebbe a tutelare un interesse (quello di Rigoletto all’uccisione del duca) confliggente con quello che, con l’articolo 575 Cod. Pen., Egli si propone di tutelare (l’interesse del duca alla vita); quindi ben si può dire che così facendo (idest ritenendo la validità del contratto) si darebbe la zappa sui piedi: nell’articolo 575 Cod. Pen. io, legislatore, minaccio di tot anni di reclusione Sparafucile per dissuaderlo dall’uccidere, e, poi, ritenendo valido il contratto da lui stipulato con Rigoletto, minaccio di obbligarlo al risarcimento se non uccide, di più, (verso Rigoletto) mi impegno (sempre io, legislatore) a procedere all’esecuzione forzata dell’obbligo (assunto da Sparafucile) di uccidere. Assurdo!Chiara dunque la nullità del contratto nei casi in questo vincola a un comportamento illecito. Ma c’é anche una norma da cui si evince tale nullità?

Doc. Certo, e, non una, ma due sono le norme da cui si evince tale nullità: l’articolo 1346 e l’articolo 1418.

Disc. Che dice l’articolo 1346?

Doc. L’articolo 1346 recita: “L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”.

Disc. E che stabilisce l’articolo 1418?

Doc. L’articolo 1418 stabilisce la nullità di un contratto quando il suo oggetto manca di uno “dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346” (l’articolo sopra riportato).Più precisamente l’articolo 1418 (sotto la rubrica “Cause di nullità del contratto”) recita: “Il contratto é nullo quando é contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga altrimenti. - Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso

indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346.- Il contratto é altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.

Disc. Hai fatto un caso di contratto ritenuto dal Legislatore nullo per la ragione che il comportamento a cui si vincolerebbe con esso una parte frustra un interesse tutelato dal legislatore, fanne un secondo

Doc. Ecco un secondo caso: l’illiceità dei motivi che hanno convinto le parti a concludere il contratto.Esempio: Rigoletto si obbliga a vendere un coltello a Sparafucile, il quale si obbliga a dare tot, coltivando (ecco il punto!) il proposito di usare il coltello per uccidere il povero duca.Qui di per sé, nessuno dei due comportamenti a cui si obbligano le parti é illecito, però é chiaro che anche qui il Legislatore verrebbe a darsi la...zappa sui piedi ritenendo la validità del contratto, dato che vincolare giuridicamente Rigoletto a dare il coltello a Sparafucile significherebbe agevolare questi in un comportamento (l’uccisione del duca) che lede un interesse tutelato da una norma.

Disc. Quindi il legislatore ritiene senz’altro la nullità del contratto tra Rigoletto e sparafucile.

Doc. E invece, no. Egli fa dei “distinguo”. Precisamente l’articolo 1345 (che porta la rubrica “motivo illecito” e, val la pena di notarlo é inserito nella sezione seconda intitolata “Della causa del contratto”) recita: “Il contratto é illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo per un motivo illecito comune ad entrambe”.

Disc. Ho capito: perché il contratto tra Rigoletto e Sparafucile sia considerato illecito, non basta che Sparafucile lo concluda per un motivo illecito, occorre che Rigoletto sappia del motivo (illecito) che spinge Sparafucile a concludere il contratto. E del resto questo é logico, la minaccia dello Stato a Rigoletto “Attento se vendi a Sparafucile il coltello che questi si propone di usare per uccidere, io, poi, non ti aiuterò a farti pagare il prezzo di tale coltello”, ha senso ed acquista efficacia intimidatoria solo se Rigoletto sa che Sparafucile intende usare il coltello per uccidere.

Doc. Sì, é così. Però bada, perché lo Stato rifiuti la validità del contratto non basta il sospetto che Rigoletto “sapesse”: occorre la certezza che egli “sapesse”. E siccome la

prova certa che Rigoletto “sapesse”, in pratica, é data dal fatto che egli si avvantaggiò oltre l’usuale nella vendita (chiese cento per un coltello che normalmente si vende a dieci), si può comprendere come da molti Studiosi si sostenga che, per ritenere l’illiceità del contratto (e, quindi, come vedremo subito, la sua nullità), non basti che la controparte (Rigoletto) sapesse, ma occorre un quid pluris: cioé che si avvantaggiò del fatto che la controparte era mossa da un motivo illecito.

Disc. Dalle parole usate dal Legislatore (e precisamente dall’avverbio “esclusivamente”: il contratto deve essere stato concluso “esclusivamente per un motivo illecito comune”) sembrerebbe che, se Sparafucile avesse comprato il coltello, oltre che per uccidere, anche....per affettarci il salame, il contratto sarebbe valido.

Doc. Ciò sarebbe assurdo. Chiaramente l’articolo va interpretato nel senso che, sempre restando fermo che il contratto deve considerarsi nullo solo che Rigoletto sapesse del motivo illecito, si deve presumere che non “sapesse”, qualora altri motivi, oltre quello illecito, potevano ispirare Sparafucile ad acquistare il coltello.

Disc. Tu hai parlato di nullità del contratto se la parte conosce il motivo illecito ecc.ecc.. Però a leggerlo bene l’articolo 1345 si limita a parlare di “illiceità” del contratto.

Doc. Sì, ma l’articolo 1345 va letto in relazione all’articolo 1418, che elenca tra le cause di nullità anche “la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345”.

Disc. Giusto. Passiamo a un terzo caso di nullità del contratto per la ragione che la parte vorrebbe con esso vincolarsi a un comportamento lesivo di un interesse dal Legislatore tutelato.

Doc. Terzo caso: illiceità della causa del contratto. Questo terzo “caso” si può ricavare dagli articoli 1343 e 1418.L’articolo 1343 (sotto la rubrica “Causa illecita”) recita: “La causa é illecita quando é contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”. L’articolo 1418, nel suo secondo comma, recita “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, l’illiceità della causa …..”.Disc. Ma che cosa intende il Legislatore per “causa” di un contratto?

Doc.Ah, questo il legislatore non lo dice, per la semplice ragione che é discusso e non

é chiaro tra gli Studiosi che cosa, la “causa”, sia. Tuttavia la maggior parte degli Studiosi ritiene che per “causa” di un contratto debba intendersi la sua “funzione economica-sociale”; per cui, ad esempio, la causa di un contratto di compravendita sarebbe il trasferimento della proprietà di un bene verso il corrispettivo di un prezzo, la causa di un contratto di locazione, sarebbe l’attribuzione del godimento di una cosa verso un corrispettivo, e così via.Siccome parlare di “illecita funzione economica e sociale” di un contratto ha tutta l’aria di un inammissibile ossimoro, tu, ai fini del discorso che ora facciamo, limitati a fare molto semplicemente l’equazione: causa = tipo di scambio di beni e servizi che le parti di un contratto si propongono.

Disc. Farò così, ma almeno dammi un esempio di causa illecita in quanto contraria a norme imperative.

Doc. Quest’esempio te lo dò rimandandoti all’art.166bis, che recita: “E’ nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”.

Disc.Abbiamo visto quando la “causa” di un contratto é contraria a norme imperative, vediamo ora quando deve considerarsi contraria all’ordine pubblico e al buon costume. Per cominciare cosa si deve intendere per “ordine pubblico” e “buon costume”

Doc. L’esatto significato di questi due concetti é dibattuto tra gli Studiosi. Personalmente ritengo che la distinzione tra “ordine pubblico” e “buon costume” sia artificiosa e che si possa tout court parlare solamente di “ordine pubblico”. Operata questa prima semplificazione, ritengo poi che si debba ritenere contrario all’ordine pubblico (“ordine pubblico interno”, contrapposto all’ordine pubblico internazionale) ogni tipo di scambio di beni e servizi, che venga a ledere una di quelle idee-forza che, secondo il Legislatore, consentono l’ordinato e armonioso svolgersi del vivere sociale.

Disc. Spiegati meglio.

Doc. Ogni società tutela alcune “idee-forza” nella convinzione che, se tali idee rovinassero, anche tutta la società rovinerebbe. Pensa al valore che in una società patriarcale potevano avere idee come: “la donna deve essere fedele al marito” “i figli debbono rispetto ai genitori” “la donna deve vestire da donna e l’uomo da uomo”.

Disc. Anche la nostra “società dei consumi” ha di queste “idee-forza”?

Doc. Certamente, pochine ma ne ha, pensa alle idee: “la donna é pari all’uomo” “i genitori debbono lasciare liberi i figli di scegliere la loro strada” “una persona ha diritto di disporre liberamente della sua vita sessuale”.Ora, continuando il discorso, é chiaro che le idee-forza perdono sempre più, scusa il bisticcio di parole, la loro forza, quanto più si verificano nella società comportamenti che le contraddicono: ad esempio, se in una società patriarcale aumenta il numero delle donne che girano per le strade con i calzoni, l’idea-forza, secondo cui “le donne debbono distinguersi nel vestire dagli uomini”, si affievolisce.Ora, questo affievolimento delle idee-forza (su cui si basa la società), é sentito come un danno dal Legislatore, il quale pertanto (con il combinato disposto degli articoli 1343 e 1418 co.2) rifiuta di considerare validi quei contratti (idest, rifiuta di mettere la sua forza al servizio di quei contratti) con cui le parti si vincolano a un comportamento lesivo di tali idee.

Disc. Fai qualche esempio di contratto nullo perché la sua “causa” é illecita in quanto contraria all’ordine pubblico.

Doc. Pensa al contratto con cui Tizio si obbliga a non divorziare; pensa ancora al contratto con cui Tizio si obbliga a vendere un suo occhio.

Disc. Mi sembra che si siano portati abbastanza esempi di nullità di un contratto dovuta alla ragione che il comportamento a cui, con esso, le parti intendono vincolarsi, contraddice un interesse dello Stato. Ma tu hai detto che certe volte la nullità del contratto é decretata in quanto esso viene a ledere l’interesse, non dello Stato, ma di terzi. Puoi portare di ciò almeno un esempio?

Doc. Pensa all’inosservanza della “forma, quando risulta che é prescritta dalla legge sotto pena di nullità” (vedi il combinato disposto art.1325n4 e 1418).Caso di nullità di cui l’esempio più importante é dato dall’articolo 1350 (l’articolo secondo cui “Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità: 1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili;2) i contratti che costituiscono, modificano o trasferiscono il diritto di usufrutto ecc.ecc. ecc.”).

Disc. Ma questo articolo non ha l’esclusivo scopo di tutelare le parti (Caio e

Sempronio),costringendole, prima che concludano il contratto, a quella battuta di arresto, che la redazione di questo per iscritto impone, e quindi a quell’approfondimento, che può evitare loro deprecabili errori sull’effettiva convenienza del contratto stesso?

Doc. Questo scopo nel Legislatore senza dubbio esiste, ma coesiste con esso lo scopo di rendere, il più possibile chiaro e soprattutto certo, il contenuto del contratto, stipulato tra Caio e Sempronio, ai loro futuri aventi causa. Insomma il Legislatore vuole che Tizio, che vuole acquistare da Caio quel fondo Corneliano, da questi, a sua volta, acquistato da Sempronio, possa sapere con certezza (con quella certezza che solo gli può dare la lettura di un contratto messo per iscritto), se Semprono nel vendere a Caio si é riservato, metti, qualche “servitù” sul fondo venduto.Proprio perché il legislatore, imponendo una data forma a un contratto vuole, sì, tutelare le parti di questo (Caio e Sempronio), ma anche e soprattutto vuole tutelare gli interessi dei loro futuri aventi causa, si spiega perché Egli stabilisca per il difetto di forma, non l’annullamento (cosa per cui, passato un certo tempo, prescrittasi la relativa azione,il contratto dovrebbe considerarsi valido), ma la sua nullità.

Disc. Abbiamo visto esempi di casi in cui il contratto viene ritenuto nullo in quanto lesivo di un interesse generale o di terzi; ma tu hai detto che il Legislatore può ritenere nullo un contratto anche in quanto lesivo di un interesse delle parti stesse.

Doc. Sì, tali casi esistono, e sono ricavabili dal combinato disposto degli articoli 1418 e 1325.L’articolo 1418 ci dice che “produce nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti dall’articolo 1325”. A sua volta l’art. 1325, recita: “I requisiti del contratto sono: 1) l’accordo delle parti;2) la causa; 3) l’oggetto; 4)la forma, quando risulta che é prescritta dalla legge a pen di nullità”.Ora esempi di casi, in cui la nullità é stabilita dal Legislatore a tutela delle parti del contratto, si possono ricavare dal difetto dei requisiti indicati (dall’art.1325) nel numero 1), accordo delle parti, e nel numero 2), “causa” (del contratto).

Disc. Parlando di difetto di accordo delle parti, penso che il Legislatore si riferisca, non a un semplice loro disaccordo sul contenuto del contratto (come lo abbiamo studiato parlando dell’annullabilità del contratto: Caio vuole vendere A e Sempronio capisce che voglia vendere B), ma a una vera e radicale mancanza di accordo: ad esempio,l’accettazione di Caio alla proposta fatta da Sempronio giunge quando già

questi l’ha revocata.

Doc. E’ così.

Disc. Allora é facile capire perché, la nullità di un contratto per difetto di accordo tra le parti, é dettata a tutela dell’interesse di queste: infatti ben si comprende come sarebbe contrario all’interesse di Sempronio l’essere vincolato da un contratto che egli mai si é sognato di stipulare; meno comprensibile é perché il legislatore non provveda a tutelare questo interesse (di Sempronio) semplicemente condendogli di annullare il contratto (quando venisse a sapere della sua esistenza).

Doc. In effetti ciò non é molto comprensibile.

Disc. Passiamo al secondo requisito del contratto, la cui mancanza determina, di questo, la nullità: la causa. Quando si può dire che un contratto manca di “causa”?

Doc. Per comprendere quando avvenga questo, tu devi ricordare quanto da noi detto nei discorsi fatti all’inizio della trattazione sul contratto stesso. Ricordi, vero, che noi si era detto che il Legislatore, riconosce una utile funzione economico-sociale ai contratti e quindi li ritiene “validi” (giuridicamente), in quanto, lo scambio di beni e servizi tra le persone, viene ad aumentare, di tali beni e servizi, la “utilità”?

Disc. Certo che lo ricordo.

Doc. Allora facilmente comprenderai come questa funzione economico-sociale nel contratto tra Caio e Sempronio, venga a mancare, quando Caio, che ha stipulato questo contratto per ottenere la tutela (giuridica) del suo interesse ad ottenere B, in realtà, per avere tale tutela, non aveva bisogno di stipulare nessun contratto (o perché già aveva B o perché, la tutela del suo interesse ad avere B, già gli era concessa).

Disc. Fai degli esempi.

Doc. Primo esempio: Caio e Sempronio stipulano una permuta: “Io, Caio, dò a te, Sempronio, l’immobile A, e tu, Sempronio, dai a me, Caio, l’immobile B”. Però l’immobile B, non era di Sempronio, ma già apparteneva a Caio.L’articolo 1478 non essendo nel caso applicabile, lo strumento contrattuale non svolgerebbe nel caso nessun funzione economico- sociale; anzi si rivelerebbe per

Caio una trappola, in quanto Caio, continuerebbe a subire la perdita di A (da lui dato in permuta a Sempronio) senza ricevere in cambio nulla, se fortunatamente il combinato disposto degli articoli 1325 e 1418 non gli concedesse di ottenere la dichiarazione di nullità del contratto.

Disc. Quindi, nel caso, l’applicazione di tale combinato disposto, avrebbe la funzione della “matta” nel gioco di carte o di un passe-partout capace di aprire le porte che una lacuna della normativa lascerebbe chiuse.

Doc. E’ così.

Disc. Passiamo ad un altro esempio.

Doc.Caio si obbliga a dare tot a Sempronio e questi in cambio si obbliga.....a non bruciargli la casa (attenzione! questo esempio é diverso da quello fatto in un precedente lezione, trattando della annullabilità dei contratti: l’esempio della precedente lezione era “Caio stipula il contratto con Sempronio perché questi gli minaccia di bruciare la causa” e la soluzione, del caso così esemplificato, era appunto l’annullamento del contratto e non la sua nullità, dato che, così si era ragionato, in prosieguo Caio avrebbe potuto trovare conveniente quel contratto che aveva stipulato solo sotto minaccia – qui però non é così).Chiaro che nel caso (idest, nel caso invece esemplificato nella presente lezione) manca la causa e il contratto é nullo, in quanto Sempronio, obbligandosi a non danneggiare Caio, si obbliga a quel che già, per l’articolo 635, era obbligato (quindi Caio ha stipulato un contratto per avere una tutela, che già la legge gli concedeva).

Disc. Abbiamo visto dei casi in cui il contratto viene ritenuto nullo perché lesivo di un interesse dello Stato o di terzi, abbiamo visto dei casi in cui il contratto viene ritenuto nullo perché lesivo degli interessi delle parti, ma ci sono dei casi in cui il contratto viene ritenuto nullo, non perché lede qualche interesse, ma perché é una cosa inutile, un ingombrante assurdo giuridico?

Doc. Sì, ci sono anche tali casi. E si possono ricavare, alcuni, dal combinato disposto degli articoli 1418 e 1346, altri dal combinato disposto degli articoli 1418 e 1325 n.3.Infatti da tali articoli risulta che il contratto é nullo quando il suo oggetto manca o é impossibile o é indeterminato o é indeterminabile.Ora é chiaro che un contratto con oggetto impossibile o indeterminato o

assolutamente indeterminabile, non potendo essere eseguito, neanche può ledere l’interesse di qualcuno: é come una macchina che non può partire e, non potendo partire, non può investire nessuno.

Disc. E se il contratto non é assolutamente indeterminabile, in quanto la sua determinazione é possibile ancorché rimessa all’arbitrio di una delle parti?

Doc. In tal caso, il contratto sempre nullo (per un interessante raffronto vedi quanto detta il Legislatore nell’articolo 1355 a proposito della condizione meramente potestativa), dovrebbe considerarsi tale, non per vizio dello “oggetto”, ma della “causa”.

11 – Della rescissione del contratto.

Doc. Negli articoli 1447 e seguenti vedremo come il Legislatore tenti di correggere i risultati economici a cui porterebbe la rigida applicazione delle leggi del mercato: queste vorrebbero che il prezzo di una cosa o di un servizio fosse dieci e invece il legislatore vuole che nel contratto risulti il prezzo di cinque.

Disc. Ma non avevamo detto che il legislatore riconosce validità e dà forza ai contratti perché riconosce che lo scambio dei beni e dei servizi aumenta la loro utilità e quindi la ricchezza nazionale?

Doc. L’avevamo detto ed é così. Però aumentare l’utilità di un bene non significa massimizzare l’utilità di un bene. Lo strumento contrattuale può aumentare l’utilità di un bene da tre a cinque, però questo bene potrebbe giungere a dare anche un’utilità 8 o anche dieci. Mi spiego meglio con un esempio: Epulone ha nei suoi magazzini quattro sacchi di mele, che gli danno un’utilità decrescente (dato che, quando Epulone, si sarà mangiato un sacco di mele, mangiare il secondo gli darà meno soddisfazione di quel che gli ha dato mangiare il primo e così via): mettiamo che l’utilità del primo sacco sia sei, l’utilità del secondo, sia cinque, l’utilità del terzo, quattro, quella del quarto, tre. Epulone ha nel suo magazzino anche sei sacchi di riso: il primo gli dà utilità sei e così via fino al sesto che gli dà utilità uno. Anche Lazzaro ha nel suo magazzino della roba, ma si tratta solo di due sacchi di mele: il primo gli dà utilità sei, il secondo, cinque. Quindi il povero Lazzaro per riempire il suo stomaco ha necessità di scambiare un suo sacco di mele con del riso. Lasciamo a questo punto agire le leggi del mercato: queste porteranno a uno scambio del sacco di mele con un

sacco di riso. Con questo risultato Epulone ci avrà guadagnato, senza dubbio, perché avendo dato via un sacco di riso (per lui, di utilità uno) ha ricevuto in cambio un sacco di mele (per lui, di utilità due). E senza dubbio ci avrà guadagnato anche Lazzaro in quanto in cambio del suo sacco di mele (per lui, di utilità cinque) avrà ricevuto un sacco di riso (per lui, di utilità sei). Ma questo é il massimo di utilità che potevano dare i beni scambiati tra Epulone e Lazzaro? No, il massimo di uitlità si sarebbe ottenuto se in cambio del sacco di mele (che per Lazzaro aveva utilità cinque) questi avesse ottenuto almeno due sacchi di riso (il sesto sacco di riso e il quinto, che per Epulone avevano utilità rispettivamente di uno e di due).

Disc. Ho capito. Ma ora cominciamo a commentare gli articoli a cui tu prima hai fatto riferimento.

Doc. Comincia con il leggere gli articoli 1448 e 1450.

Disc. Art. 1448 (sotto la rubrica “Azione generale di rescissione per lesione”):”Se vi é sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione é dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto.L’azione non é ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto.La lesione deve perdurare fino al tempo in cui la domanda é proposta.Non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori.Sono salve le disposizioni relative alla rescissione della divisione.”Art. 1450 (sotto la rubrica “Offerta di modificazione del contratto”): Il contraente contro il quale é domandata la erscissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”.

Doc. Risulta chiaramente dall’art. 1448, che tre sono i presupposti di una domanda di rescissione.Primo, “una sproporzione tra la prestaizone di una aprte e quella dell’altra”.Secondo: l’essere tale sproporzione dipesa “dallo stato di bisogno di una parte”.Trezo. L’aver “approfittato” la controparte di tale stato di bisogno “per trarne vantaggio”.

Disc. Cominciamo ad approfondire il presupposto sub uno: quando si realizza la spropèorzione di cui parla il Legislatore?

Doc. Te lo spiego con un esempio. Un disgraziato fulmine picchia contro delle balle di fieno e il fuoco che così si sviluppa minaccia di distruggere la villa di Sempronio. Per bloccare l’incendio occorrerebbe un estintore, ma Sempronio per procurarselo andando al supermercato occorrerebbe troppo tempo: Sempronio lo chiede al vicino Caio e is sente rispondere: Te lo vendo se ti mi dai centomila euro”. Il prezzo richiesto da Caio é del tutto sproporzionato rispetto a quello che chiederebbe il supermercato (massimo diecimila euro); ma Sempronio messo su un piatto della bilancia i centomila euro rihciesti da caio e nell’altro piatto, il miole che perderebbe se la villa andasse distrutta accetta. E chi può dargli torto? Chi può negare che il contratto (estintore contro centomila euro) sia conveniente, sì, per caio ma anche per Sempronio?

Disc. Effettivamente non vedo dove stia nel caso la sproporzione di cui parla il Legislatore.

Doc. No, la sporporizone c’é, ma non, come crede il legislatore, tra le due prestazioni (quella di caio e quella di Sempronio) ma tra il prezzo rihciesto da caio e quello che si pratica nel mercato.

Disc. E questa sproporzione mi pare che effettivamente renda ingiusto il contratto e quindi meritevole di rescissione.

Doc. Tu sbagli a parlare di “ingiustizia” del contratto (ma hai un’attenuante in questo tuo errore perché al concetto di “equità”, che in buona sostanza corrisponde a quello di “giustizia”, si riferisce il Legislatore nell’articolo 1450, là dove offre al contraente avvantaggiato, a Caio, di evitare la rescissione “offrendo una modificazione del contratto sufficinte a ricondurlo ad equità”).Disc. Perché sbaglio giudicando ingiusto lo scambio di beni intervenuto tra Caio e Sempronio?

Doc. Perché la giustizia non é che la logica applicata alla morale: tu puoi giudicare ingiusto il comportamento di Caio solo quando, essendo egli tenuto a trattare senza preferenze Flavio e Sempornio, prima, vende l’estintore a Flavio, mettendo il prezzo di soli diecimila euro dato che questi ne ha bisogno per spegnere l’incendio che

minaccia la sua villa, e, poi, vende a centomila l’estintore a Sempronio, sebbene pure questi dell’estintore abbia bisogno per spegnere l’incendio che minaccia la sua villa.

Disc. D’accordo il motivo per cui il Legislatore dispone la rescissione del contratto tra Caio e Sempronio non é la pretesa ingiustizia del contratto. Ma allora, qual’é la ratio dell’articolo 1448, qual’é il motivo che spinge il Legislatore a stabilire la rescindibilità del contratto tra Caio e Sempronio?

Doc. E’ lo stesso che lo porta a riconoscere un’utile funzione economico-sociale al contratto di assicurazione: impedire che il patrimonio di Sempronio venga a subire un imprevisto e forte scossone che lo destabilizzi.

Disc. E il Legislatore come riesce a impedire questo scossone?

Doc. Molto semplice: dando la possibilità a Sempronio di rescindere il contratto da lui stipulato con Caio. Mentre l’assicurazione impedisce che il patrimonio di Sempronio sia traumatizzato da un evento (l’incendio) provvedendo a risarcire il danno che tale evento provoca, il disposto dell’articolo 1448, nell’intenzione del Legislatore, impedisce che il patrimonio di Sempronio sia traumatizzato da un evento (pagamento a Caio di un esorbitante prezzo dell’estintore) dando la possibilità a Sempronio (dopo che ha usato l’estintore) di pagare l’esorbitante prezzo (o di farselo rimborsare).

Disc. Passiamo al secondo presupposto: l’essere dipesa, l’accettazione del prezzo richiesto da Caio (prezzo esorbitante rispetto a quello praticato nel mercato) “dallo stato di bisogno” di Sempornio.Dico subito che a me sembra superfluo il pretendere tale presuposto, dato che esso non può mai mancare: é chiaro che se uno é disposto a pagare un prezzo (esorbitante o non che sia) per ottenere una adta cosa o una data perstazione, lo fa perché ha bisogno di tale prestazione e di tale cosa.

Doc. Effettivamente stabilire a che cosa si voglia riferire il legislatore parlando di “stato di bisogno” della parte svantaggiata (di Sempronio) é un po’ un busillis.

Disc. Si potrebbe pensare che il Legislatore parlando di “bisogno” voglia riferirsi alla “qualità del bisogno”. E infatti una persona può aver bisogno di una cosa o di una prestazione per i più vari motivi: io potrei avere bisogno che un tassista mi porti in un

certo luogo, perché in tal luogo c’é una importante riunione di affari, perché vi si fa un ballo, perché vi sta un mio parente infermo. Insomma il legislatore potrebbe volere che la rihciesta del bene o del servizio sia fatta per provvedere alla soddisfazione di un interesse particolarmente meritevole di tutela.

Doc. Ammetto che questa potrebbe essere un’accettabile interpretazione dell’articolo 1418. Che io però non prediligo sia perché alla “qualità del bisogno” pone mente, come subito vedremo. il legislatore nell’articolo 1447, sia, soprattutto, il criterio dato così al giuidce per ritenere la erscindibilità o meno di contratto finisce per dargli un troppo ampio potere discrezionale.Io preferirei ritenere interpretare l’articolo 1448 nel senso che vi é lo stato di bisogno della parte quando questa si trovava impossibilitata a ricorre alle prestazioni e ai beni offerti dal mercato (erta notte, nevicava e il tassista che mi ha chieso un prezzo esorbitante era l’unico disponibile nel raggio di un chilometro)..

Disc. E veniamo al terzo presupposto: l’avere, il contraente contro il quale é domandata la rescissione, Caio, “approfittato per trarne vantaggio” dello stato di bisogno della controparte (Sempronio)

Doc. L’esistenza di tale presupposto implica: 1) che la parte “avvantaggiata”, sapesse che la parte “svantaggiata” (Sempronio) accettava il prezzo esorbitante perché instato di bisogno (e non perché, metti, turista ignaro dei prezzi del mercato, non sapeva valutare l’esosità del prezzo rihciesto); 2) non fosse indotta a rihciedere il prezzo esorbitante (a quello di mercato) per particolari circostanze che la coinvolgevano e le erndevano particolarmente “pesante” la prestazione o la rinunciua al bene venduto (tassista influenzato o che effettuare il trasporto deve rinunciare a presenziare, metti, al matrimonio della figlia).

Disc. A questo punto sciolti i nodi interpretativi più difficili possiamo procedere a passo più svelto.Chiaramente quella di arginare le domande di rescissione pretestuose, é la ratio del secondo comma dell’articolo 1448 (che limita l’ammissibilità dell’azione di rescissione al caso in cui la “lesione” superi la metà del prezzo che nel mercato aveva la prestazione: il tassista ha chiesto 120mila per un trasporto per cui nel mercato si chiede solo centomila? l’azione non é ammissibile),Ancora dovuta alla presumibile pretestuosità della domanda di rescissione é la sua inammissibilità,, stabilita dal terzo comma dell’articolo 1448, nel caso la “lesione”

sia venuta meno al momento della proposizione della domanda.E’ poi a ben vedere un corollario del terzo comma ora citato il disposto dell’art. 1450, secondo cui “il contraente contro il quale é domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”; infatti da tale disposizione si ricava implicitamente che la parte svantaggiata non può ricusare l’offerta, il che é come dire che non può più proporre la domanda di rescissione e il perché di ciò é evidente: con la proposizione della sua offerta la parte avvantaggiata ha fatto venir meno il perdurare della lesione.

Doc. A questo punto possiamo passare a un breve commento dell’articolo 1447, che (sotto la rubrica “contratto concluso in staot di pericolo”) recita:“Il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può essere rescisso sulla domanda della parte che si é obbligata.Il giudice nel pronunciare la rescissione può, secondo le circostanze, assegnare un equo compenso all’altra parte per l’opera prestata”.

Disc. A me sembra che tra l’art. 1447 e l’art. 1448 passi quello stesso rapporto che passa tra una species e un genus; dove naturalmente la species sarebbe l’articolo 1447 (melius, la fattispecie contemplata dall’art. 1447) e il genus l’art, 1448 (melius, la fattispecie in questo art. 1448 contemplata) e l’elemento specificante sarebbe la qualità del bene per salvare il quale la parte svantaggiata ebbe a decidersi al contratto – bene costituito dalla “persona” sua o di altri.

Doc.E’ così. E il legislatore, sente il bisogno di disciplinare a parte, il caso del contratto stipulato per “salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”, proprio per la speciale importanza del bene in pericolo – speciale importanza che avrebbe obbligato, non solo moralmente ma anche giuridicamente, a prestare il proprio aiuto a prescindere dall’esistenza di un contratto, la parte che invece ha voluto, da tale situazione di pericolo, trarre vantaggio.

Disc. Quindi Caio, così chiamerò d’ora in poi la parte avvantaggiatasi, era obbligata giuridicamente a prestare il proprio aiuto a Sempronio (la parte bisognosa di aiuto).

Doc. Sì, lo era per il secondo comma dell’articolo 593 Cod. pen. che sanziona con la pena della reclusione “chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza

occorrente o di darne immediato avviso all’Autorità”.

Disc. Ma l’articolo 593 non faceva propriamente sorgere in Caio un obbligo di prestare assistenza, dal momento che gli permetteva di scegliere tra il dare assistenza o dare avviso, della situazione pericolosa, all’Autorità.

Doc. Ciò é vero e ciò rende valido il contratto stipulato tra Caio e Sempronio – contratto che, se fosse esistito in Caio un obbligo di prestare assistenza a prescindere dal contratto, dovrebbe considerarsi nullo per mancanza di causa (dato che mancante di “causa” deve considerarsi un contratto con cui una persona assume un obbligo che...già la grava).Ciò non toglie che, l’obbligo giuridico di Caio di prestare (genericamente) aiuto, rende particolarmente odioso il suo rifiuto di stipulare, se non a certe condizioni esose, il contratto (da cui sarebbe disceso il suo obbligo, non di prestare aiuto semplicemente dando avviso all’Autorità, ma di effettuare direttamente una prestazione diretta ad evitare il pericolo minacciante “la persona”). A sua volta l’odiosità di tale comportamento di Caio spiega il perché il Legislatore non conceda a lui quel che invece, nell’articolo 1450, concede alla parte avvantaggiatasi: cioé il potere di evitare la rescissione “offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”. No, tu, Caio, ti sei comportato odiosamente, quindi puoi solo sperare che ti venga assegnato un equo compenso per l’opera prestata, in applicazione del secondo comma dell’articolo 1447, che precisamente recita: “Il giudice nel pronunciare la rescissione può, secondo le circostanze assegnare un equo compenso all’altra parte per l’opera prestata”.

Disc. Ma da che deduci che l’articolo 1450 non si applica a Caio?

Doc.Lo deduco dal fatto che a Caio non si applica la disposizione di cui al terzo comma dell’articolo 1448 (appunto perché espressa da un comma inserito nell’articolo 1448 e non in un autonomo articolo); e se a Caio non si applica tale terzo comma, neanche gli si può applicare l’articolo 1450, che, come abbiamo visto poco sopra, non é che un corollario di questo terzo comma.

Disc. Tu - dal momento che hai fatto riferimento all’obbligo giuridico nascente dall’art.. 593 Cod. Pen. per giustificare il pressante obbligo morale di Caio di consentire al contratto con Sempronio (a condizioni eque) - evidentemente ritieni che quando il legislatore parla di “danno grave alla persona” faccia riferimento solo a un “danno fisico alla persona”.

Doc. Sì, ma debbo dire che molti Studiosi autorevolmente insegnano che invece il danno alla persona, di cui parla il legislatore, può essere anche morale, più precisamente può anche consistere nella lesione di un qualsiasi diritto della personalità. Da tale interpretazione io dissento per due ragioni: 1) perché la difficoltà di stabilire quando un diritto rientri nella categoria dei “diritti della personalità” viene a lasciare troppo spazio alla discrezionalità del giudice; 2) perché escludere i diritti della personalità dalla previsione dell’articolo 1347 non li lascia, in definitiva senza tutela, dato che di questa possono pur sempre giovarsi per l’articolo 1448.

Disc. A questo punto sarà opportuno indicare sia pure brevemente i requisiti che debbono esistere a che Sempronio possa domandare, ai sensi dell’articolo 1447, la rescissione del contratto, da lui concluso con Caio.

Doc. Essi sono:1) l’avere Sempronio assunto con il contratto un’obbligazione a condizioni inique;2) l’avere Sempronio assunto tale obbligazione per la necessità di salvare sé o altri da un pericolo;3) l’essere tale pericolo “attuale”;4) riguardare tale pericolo “un danno grave alla persona”;5) l’esser noto a Caio, la controparte, che Sempronio assumeva l’obbligazione sub 1, nelle condizioni risultanti da sub 2,3,4.A proposito di tutti i sopraelencati requisiti possono essere ripetute, mutatis mutandis, le osservazioni già fatte a proposito dei requisiti di esperibilità dell’azione di rescissione prevista dall’art. 1348.Merita solo di essere chiarito, riguardando un requisito non contemplato nell’articolo 1438, che il pericolo di un danno va considerato “attuale” quando Caio, rifiutando la stipula del contratto e quindi la prestazione a lui richiesta, fa sorgere o rende (apprezzabilmente) maggiore il pericolo del grave danno alla persona.Quindi il contratto di trasporto all’ospedale – ancorché stipulato da Sempronia in stato di gravidanza e a esose condizioni - non sarebbe rescindibile ai sensi dell’articolo 1347 (salva pur sempre l’applicabilità dell’articolo 1348 sussistendone le condizioni), se Sempronia all’ospedale doveva recarsi per una visita di controllo; mentre sarebbe rescindibile se all’ospedale Sempronia doveva recarsi per sgravarsi.

Disc. Lasciamo l’articolo 1447 e poniamo mente all’articolo 1451; tale articolo esclude sia per il contratto stipulato in stato di pericolo (art. 1447) sia per il contratto

stipulato in stato di “bisogno” (art. 1448) la convalida (la formula legislativa più precisamente suona: “Il contratto rescindibile non può essere convalidato”). Non ne capisco il perché.

Doc. E neanch’io. Perché mai togliere la possibilità alla parte lesa di giovarsi di un contratto che, prima a lei sfavorevole, col tempo le é diventato favorevole (cosa che ben può accadere anche per il contratto stipulato in stato di pericolo o di bisogno come lo stesso legislatore dimostra di ritenere possibile col disposto del terzo comma art. 1448, che fa appunto l’ipotesi che la lesione venga a cessare col tempo)?

Disc. Un’ultima domanda: che effetti ha la risoluzione rispetto ai terzi?

Doc. Salvi gli effetti della trascrizione, praticamente nessuno, come risulta dall’articolo 1452, che recita: “La rescissione del contratto non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di rescissione”.Val la pena di dire che tale disposizione é in perfetta linea con quanto dispone l’articolo 1458 co. 2 per il caso di risoluzione per inadempimento.

12 – La condizione

Doc. Abbiamo visto (parlando dell’errore come causa di annullamento di un contratto) che la Legge non attribuisce nessuna rilevanza giuridica agli eventi, sul cui verificarsi o no, una parte ha basato il suo calcolo di convenienza relativo alla stipula del contratto: Caio ha acquistati da Sempronio cento quintali di grano al fine di venderli in Argentina, calcolando che questo Paese, venga colpito da una siccità che azzeri la raccolta del grano e renda prezioso quello importato dall’estero: il fatto che la siccità non si sia verificata nulla toglie all’efficacia del contratto: Caio dovrà lo stesso pagare a Sempronio il grano.

Disc. Quindi si può dire che Caio stipulando il contratto accettava che l’alea dell’evento “siccità in Argentina” ricadesse su di lui.

Doc. E’ così. Però il Legislatore offre a Caio un modo molto semplice di liberarsi da tale alea.

Disc. Quale?

Doc. Convenire con la controparte che gli effetti del contratto si verificheranno solo se si verificherà l’evento A (“siccità in Argentina”) o anche stabilire che gli effetti del contratto verranno meno se tale evento A non si sarà verificato.

Disc. Da quale articolo risulta questa utilissima possibilità data a Caio?

Doc. Risulta dall’articolo 1353, che (sotto la rubrica “Contratto condizionale”) così recita: ”Le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione di un contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro o incerto”.Quando la produzione degli effetti giuridici del contratto é subordinata al verificarsi, o no di un evento, si parla di condizione sospensiva, quando é invece subordinata, al verificarsi (o no) di un evento, la cessazione di tali effetti, si parla di condizione risolutiva.

Disc. Però l’articolo 1353 solleva Caio solo dall’alea connessa al verificarsi, o no, di un “avvenimento futuro e incerto”; mentre Caio potrebbe subire l’alea di un avvenimento passato ma per lui, soggettivamente, incerto (“Io, Caio, avrei la convenienza ad acquistare il grano in Italia per rivenderlo in Argentina, se questo Paese fosse stato colpito dalla siccità, ma purtroppo non so se tale siccità ci sia stata o no realmente”).

Doc. Ma il Legislatore non intende con il disposto dell’articolo 1353 togliere a Caio la possibilità di evitare l’alea, connessa a un evento passato ma per lui incerto, inserendo nel contratto una clausola che ne subordini l’efficacia o ne stabilisca la risoluzione a seconda che si sia verificato, o no, quell’evento. La possibilità di inserire tale clausola a Caio nessuno la contesta. Semplicemente tale clausola non si chiama “condizione” ma “supposizione” o “condizione impropria” e a lei non si applicano alcune norme che, alla “condizione propria”, si applicano – e stando che la individuazione delle norme che si applicano alla “condizione propria” e non a quella “impropria” é intuitiva, io neanche mi preoccuperò di indicartele e proseguirò il mio discorso con riferimento unicamente alla clausola etichettata “condizione”.

Disc. Limitiamoci allora a parlare solo della condizione propriamente detta: da quel che capisco Caio potrà realizzare il suo scopo pratico di sollevarsi dall’alea connessa all’evento “siccità in Argentina”, sia inserendo nel contratto una condizione sospensiva (“Il contratto avrà efficacia solo se si sarà verificata la siccità”) che risolutiva (“Il contratto perderà efficacia se la siccità non si sarà verificata”)

Doc. E’ così: la differenza sarà solo che, nel primo caso (condizione sospensiva), Caio potrà aspettare di pagare il prezzo e Sempronio potrà aspettare di dare la merce fino al realizzarsi della condizione; nel secondo (condizione risolutiva), Caio e Sempronio dovranno subito adempiere le loro obbligazioni, ma con l’obbligo, nel caso si verifichi la condizione (risolutiva), di dover restituire, il primo (Caio), il grano e, il secondo (Sempronio), i soldi.

Disc. Quindi inserendo la condizione sotto forma risolutiva implicitamente accetteranno il rischio, il primo (Caio), di...non rivedere più i suoi soldi e, il secondo (Sempronio), di non rivedere più i sacchi di grano o di rivederli deteriorati.

Doc. E’ così. Ma sul punto mi riservo di ritornare, se il tempo a mia disposizione mi permetterà di parlare dell’articolo 1361 – articolo che disciplina, sì, solo la sorte spettante agli atti di amministrazione compiuti dalla parte a cui, pendente la condizione, é spettata la gestione della cosa (oggetto del contratto), però dà l’occasione all’interprete di dire su quale parte vengono a gravare i danni intervenuti durante tale gestione (su chi viene a gravare il deterioramento del grano acquistato da Caio, per riferirci all’esempio prima fatto).

Disc. Le parti possono convenire che l’efficacia del contratto sia subordinata al verificarsi di qualsiasi tipo di evento?

Doc. A questa tua domanda risponde l’articolo 1354, che (sotto la rubrica “Condizioni illecite o impossibili”), nei suoi due primi commi recita: “E’ nullo il contratto al quale é apposta una condizione, sospensiva o risolutiva, contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. - La condizione impossibile rende nullo il contratto se é sospensiva; se é risolutiva, si ha come non apposta”.Potrai meglio comprendere, quando si abbia una condizione contraria all’ordine pubblico o al buon costume, ricordando quanto detto a proposito di questi concetti parlando della nullità del contratto dovuta a “causa illecita” (art. 1343) e potrai meglio comprendere, quando si abbia una condizione contraria a norme imperative, tenendo presente che tale é non solo quella condizione, che una norma proibisce di inserire in un contratto, ma altresì quella (condizione) che subordina l’efficacia o la risoluzione di un contratto a un comportamento illecito (insomma, il legislatore, parlando nell’articolo in esame di “condizione contraria a norme imperative”, vuole esprimere un concetto comprensivo sia della “causa illecita in quanto contraria norme

imperativa” di cui parla l’articolo 1343, sia dello “oggetto” illecito del contratto, di cui parla nell’articolo 1346).

Disc. Quindi sarebbe nullo il contratto a cui fosse apposta ad esempio la condizione “Se il capo dello Stato sarà ucciso, io, Caio, mi obbligherò a dare a te, Sempronio, tot, e tu. Sempronio, mi venderei l’immobile A”.

Doc. No, in tal caso il contratto non sarà per niente nullo.Infatti la ratio dell’articolo 1354 é quella di ritenere inammissibili le condizioni che possano sollecitare una delle parti (quella interessata all’avveramento della condizione) a un comportamento contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.

Disc. La condizione da me portata come esempio, però potrebbe sollecitare a ciò qualora una delle parti fosse un anarchico o comunque una persona interessata all’uccisione del capo dello Stato.

Doc. Giusta correzione: in realtà il giudizio sull’illiceità della condizione va ponderato tenendo conto della qualità delle parti e di tutto il contesto in cui il contratto é stipulato.

Disc. Quanto alla condizione impossibile, mi pare chiaro il perché essa renda nullo il contratto, se sospensiva (il contratto in tal caso é come una macchina senza motore che va...rottamata) e il perché vada, invece, considerata come non apposta, se risolutiva (“condizione risolutiva che non potrà mai avverarsi” = a macchina che sicuramente nella sua futura marcia non incontrerà intoppi, e allora perché mettere su tale macchina il cartello “Attenzione: possibilità che non si arrivi al capolinea”, ché tale é il messaggio che viene a dare la condizione risolutiva a chi la legge?)Pertanto passo a un’altra domanda: dovrebbero considerarsi validi dei contratti così “condizionati”: “Il contratto con cui, io, Caio, compro da te,Sempronio, il fondo A sarà efficace a condizione che io nel futuro tale lo dichiari”, “La compravendita con cui io, Caio, acquisto da te, Sempronio, la casa A, sarà valida a condizione che tu dia il bianco alle sue facciate”?

Doc. No, tali contratti dovrebbero considerarsi invalidi, ai sensi dell’articolo 1355, che (sotto la rubrica “Condizione meramente potestativa”) recita: “E’ nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione

sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”.

Disc. Quale la spiegazione di ciò?

Doc. La spiegazione che viene più spontanea – in quanto suggerita dal fatto che l’invalidamento del contratto assume la forma, non dell’annullamento, ma della dichiarazione di nullità – é che questa nullità, dal Legislatore, sia stabilia a tutela dell’interesse, non delle parti, ma di un terzo. E infatti ben potrebbe il contratto sottoposto a condizione meramente potestativa ledere, di un terzo, gli interessi.

Disc. Perché?

Doc. Perché una parte del contratto, Caio, per la prima parte dell’articolo 1357 (che recita “Chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può disporne in pendenza di questa”) potrebbe, ancorché sia ancora pendente la condizione, disporre dell’immobile A acquistato dalla controparte, Sempronio, vendendolo a Flavio; e perché, per la seconda parte dello stesso articolo 1357 (che recita “ma gli effetti di ogni atto di disposizione sono subordinati alla stessa condizione”) la condizione meramente potestativa verrebbe, in tal caso, automaticamente a gravare anche il secondo contratto (quello stipulato da Caio con Flavio).

Disc. Ma questa possibile lesione degli interessi del terzo si verifica, non solo in caso di condizione meramente potestativa, ma in ogni caso che una condizione venga apposta a un contratto: se Caio e Sempronio avessero apposto, al contratto da loro stipulato, la condizione semplice, non potestativa, “il contratto diventerà efficace solo se la nave partita dal Brasile toccherà i porti italiani”, ebbene anche in tale caso Flavio correrebbe il rischio, comprando l’immobile A da Caio, di vedere il suo contratto gravato da tale clausola. Evidentemente la nullità del contratto non é disposta dal Legislatore per tutelare l’eventuale affidamento del terzo, di Flavio; e del resto questi, se vuole tutelarsi contro il pericolo che, il contratto che sta per stipulare con Caio, sia gravato da una condizione (da lui non desiderata), non ha che da andare all’ufficio dei Registri Immobiliari e leggersi il contratto stipulato da Caio con Sempronio.In conclusione a me sembra più ragionevole spiegare la nullità del contratto sottoposto a condizione meramente potestativa, col fatto che il Legislatore ritiene

inammissibile che la efficacia di un contratto dipenda dalla mera volontà di una parte.

Doc. Neanche questa spiegazione é soddisfacente, perché risulta da alcuni articoli del Codice, che il Legislatore, di fronte ad accordi delle parti che fanno dipendere dalla mera volontà di una parte l’esistenza di un contratto o, più riduttivamente, l’adempimento di una obbligazione nascente da un contratto, non reagisce dichiarando la nullità dell’accordo, ma semplicemente si limita a vincolare a un termine l’espressione di tale volontà; e così il legislatore non dichiara la nullità del contratto a cui sia apposta la clausola cum voluero (art. 1183) e in particolare non dichiara la nullità del patto di opzione, del patto cioè che é disciplinato dall’art. 1331, il quale recita: “Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’art. 1329. - Se per l’accettazione non é stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice”.Proprio in considerazione di tutto questo, io ritengo che la migliore spiegazione della nullità del contratto subordinato a condizione meramente potestativa, sia che il Legislatore non ritenga ammissibile subordinare l’efficacia di un contratto al verificarsi di un quid (la dichiarazione della volontà di una parte di volere o non volere l’efficacia del contratto) che, potendo (appunto perché dipende dalla mera volontà di una parte), realizzarsi subito o in un determinato e ragionevole lasso di tempo, viene invece lasciato, nel tempo, indeterminato.

Disc. Però, se il legislatore veramente volesse che un contratto non sottostasse per un tempo indeterminato alla spada di Damocle del verificarsi di un futuro evento, dovrebbe...eliminare l’istituto della condizione, dato che buona parte delle condizioni, forse la maggior parte di esse, sono incerte, non solo nel an, ma altresì nel quando.

Doc. Ma una persona può rassegnarsi a un inconveniente quando non lo può evitare, e invece evitarlo quando lo può. Voglio dire, il legislatore può rassegnarsi all’inconveniente che l’efficacia del contratto dipenda da un quid il cui verificarsi sia indeterminato nel tempo, se eliminare tale inconveniente non gli é possibile, se non sacrificando l’aspettativa di una parte all’efficacia del contratto (l’aspettativa di Caio all’efficacia della compravendita e quindi all’acquisto dell’immobile A, nell’esempio prima fatto); mentre può decidere di eliminare tale inconveniente, se ciò gli é possibile.

Disc. E come gli é possibile eliminare l’inconveniente della mancanza di un termine posto alla parte, del tipo “Tu, Caio, entro tre mesi devi dichiarare se vuoi che il contratto sia o no efficace” -?

Doc. Gli é possibile, dichiarando la nullità del contratto e convertendo (ai sensi dell’articolo 1424) il contratto (così reso nullo) in un “patto di opzione” (con la conseguenza che il termine alla parte, a che dichiari la sua volontà, sarà apposto dal giudice ai sensi del secondo comma art. 1331).

Disc. Voltiamo pagina. Parliamo delle condizioni, non meramente potestative, ma potestative semplici (quindi non determinanti la nullità del contratto).Vuoi farne qualche esempio?

Doc. Ti farò due esempi di condizioni ritenute potestative semplici o da questo o da quello Studioso della materia (e poi mi riserverò di dire la mia opinione).Primo esempio: “Io, Caio, compro da Te, Sempronio, il terreno A, a condizione che tu presenti la domanda di concessione edilizia e il Comune, tale domanda, accetti”.Va subito notato che, nel caso esemplificato, l’efficacia del contratto dipende, sì, dalla mera volontà di una parte (dalla mera volontà di Sempronio che può decidere di presentare la domanda oppure no), ma anche da un quid aliud (che sarebbe, nell’esempio, l’accoglimento, da parte del Comune, della domanda presentata da Sempronio).Va ancora notato che la mancata presentazione della domanda non sarebbe per Sempronio indolore: infatti, tale mancata presentazione, venendo a costituire un inadempimento a un obbligo imposto dalla c.d. buona fede contrattuale, lo obbligherebbe al risarcimento.Secondo esempio: “Io, Caio, acquisto la villa A da Te, Sempronio, a condizione che tu, prima, dia il bianco alle sue facciate, restando inteso che se tu non darai il bianco e il contratto di conseguenza diventerà inefficace, tu dovrai pagare una penale”.Anche a proposito di questo secondo esempio, vi é da notare, che, il non dare il bianco, optando di conseguenza per l’inefficacia del contratto, avrebbe un costo per Sempronio: costo rappresentato evidentemente dal pagamento della penale.

Disc. Tu ritieni validi entrambi gli esempi?

Doc. No, ritengo valido solo il primo. Infatti, solo nel caso del primo esempio, manca

quella possibilità di fissare un ben determinato dies entro il quale, la parte interessata all’efficacia del contratto (nell’esempio, Caio), possa finalmente sapere se tale suo interesse ha avuto soddisfazione o no.. Possibilità, che viene ad evitare al legislatore la scelta secca: dichiaro nullo (ma senza conversione in patto di opzione, cioé si sarebbe tentati di dire “dichiaro assolutamente nullo”) il contratto, sacrificando le aspettative della parte che sarebbe interessata a che il contratto acquisti i suoi effetti(tanto interessata da tollerare il peso di una lunga e forse inutile attesa: Caio che nella speranza di acquisire l’immobile A sarebbe disposto anche ad aspettare per un lunghissimo tempo le decisioni di Sempronio), oppure, pur di non sacrificare tali aspettative della parte, ritengo valido il contratto?

Disc. Scelta secca che, mi pare di capire, il Legislatore non può non risolvere che nel senso della validità del contratto.

Doc. E certo, se il legislatore optasse per la nullità del contratto si comporterebbe come quel medico che, per guarire il paziente dal mal di denti, gli taglia... la testa: meglio per Caio aspettare pazientemente che si risolva il dile,mma “efficacia-sì” / efficacia-no” del contratto, piuttosto che perdere ogni speranza che il contratto diventi efficace. Si potrebbe anche dire: contento Caio, contento il mondo. Il Legislatore altro non può fare se non applicare il secondo comma della art. 1331, ben inteso quando l’applicazione di tale comma ha senso cioé ha veramente l’effetto di portare a fissare quel famoso dies in cui avrà risposta l’interrogativo sulla efficacia del contratto.

Disc. E mi pare di comprendere che, nel caso di cui all’esempio, l’applicazione di tale comma non conseguirebbe tale scopo.

Doc. No, non lo conseguirebbe; ed é chiaro perché: perché il giudice potrebbe porre, sì, un termine a Sempronio perché presenti la domanda di licenza, ma certo non potrebbe porre un termine al Comune perché decida se concedere o no la licenza.

Disc. E di conseguenza il dubbio sull’efficacia del contratto persisterebbe. Veniamo al secondo esempio.

Doc. Non nego che avendo, la decisione di Sempronio di optare per la inefficacia del contratto, un costo (il costo del pagamento della penale), Sempronio abbia anche delle remore a prenderla - remore che possono rendere più improbabile e in definitiva

più rara tale decisione.Ciò però non esclude l’inconveniente dell’indeterminatezza, perdurante nel tempo, sulla decisione di Sempronio. E’ quindi l’opportunità di eliminare tale inconveniente (dichiarando la nullità del contratto, convertendo poi questo in patto di opzione ecc.ecc.), cosa che si può fare solo ritenendo, la condizione la condizione de qua, meramente potestativa.

Disc. Un’ultima domanda sull’argomento: una condizione risolutiva può essere meramente potestativa?

Doc. La maggior parte degli Studiosi lo nega argomentando, sia dal fatto che l’articolo 1355 si riferisce solo alle condizioni sospensive sia dal fatto che il nostro Ordinamento offre l’esempio di condizioni risolutive meramente potestative, che però non rendono nullo il contratto (e con ciò gli Studiosi si riferiscono soprattutto alla c.d. “caparra penitenziale”, che concede un diritto di recesso per chi la presta – vedi l’articolo 1386).

Disc. Voltiamo pagina. Tu prima hai detto, commentando il primo esempio di condizione potestativa semplice, che la c.d. buona fede contrattuale farebbe obbligo a Sempronio di presentare la domanda di licenza. Debbo da ciò dedurre che le parti sono obbligate ad attivarsi per favorire l’avveramento della condizione?

Doc. No. Le parti non sono obbligate a ciò, a meno che un loro attivarsi tenendo un dato comportamento (dato, nell’esempio, dalla presentazione della domanda di licenza da parte di Sempronio) sia conditio sine qua non per il realizzarsi della condizione.Così vanno secondo me interpretati gli articoli 1358 e 1359, che recitano:il primo (l’articolo 1359): “Colui che si é obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”;il secondo (l’articolo 1359): “La condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa”.

Disc. Il secondo articolo da te riportato (l’articolo 1359) sembra partire dal presupposto che solo una delle due parti nel contratto, solo Caio o solo Sempronio,

possa avere interesse al non verificarsi della condizione. Invece a me sembrerebbe che entrambe le parti potrebbero avere un tale interesse. Chiarisco il mio pensiero portando questo caso: Caio propone l’acquisto del fondo A a Sempronio, il quale accetta pretendendo, però, che sia inserita nel contratto la clausola, secondo cui questo avrà efficacia solo quando arriverà in Italia quel certo suo parente portando quel certo bel pacco di dollari a cui lui, Sempronio, potrà attingere per pagare il prezzo. Ebbene, nel caso, sia Caio che Sempronio, potrebbero avere un ripensamento, che li porterebbe ad impedire l’efficacia del contratto (Sempronio potrebbe pensare col senno del poi “Chi me la fa fare di vendere per cento, come ho pattuito con Sempronio, dal momento che Flavio mi dà duecento” e Sempronio, a sua volta. potrebbe pensare “Chi me la fa fare di dare cento per quell’immobile che, a pensarci bene, non vale neanche cinquanta”. Dico bene?

Doc. Dici benissimo e il legislatore si esprime molto male: solo se il mancato avverarsi della condizione sarà dovuto a Sempronio, il contratto avrà esecuzione anche se la condizione non si é avverata (imputet sibi, Sempronio, se non avrà i soldi per pagare il prezzo: se non voleva esporsi al rischio di inadempienza, non doveva impedire il verificarsi della condizione).Se al contrario il mancato avveramento della condizione é dovuto a Caio (cioé alla parte che era disponibile a concludere il contratto anche senza la condizione, perché evidentemente pensava che, anche senza di essa, le era possibile eseguire il contratto e trarne vantaggi) naturalmente la condizione non si considererà avverata, e la controparte, idest Sempronio, potrà chiedere la risoluzione del contratto, e il risarcimento dei danni a Caio (é infatti chiaro che Sempronio non può essere obbligato ad eseguire il contratto, non essendosi verificato quell’evento, che gli rendeva possibile e vantaggiosa la sua esecuzione).

13 – Risoluzione del contratto per eccessiva onerosità

Doc.Interesse della società, lo sappiamo, é che i suoi membri si scambino tra di loro beni e servizi, in altre parole che facciano dei contratti.Senonché la gente non ama le avventure se non nei film, e, più il contratto appare ad essa un’avventura, più forti sono le remore che ha per stipularlo. Per superare tali remore il legislatore deve dare soddisfazione a due diverse esigenze delle parti: quella di certezza e quella di sicurezza, che però, ahimé, sono antitetiche, nel senso che, se dai soddisfazione ad una, quasi inevitabilmente, sacrifichi l’altra.

Disc. Non é che ti capisca molto; e per capirti meglio, ora farò un caso concreto e tu, poi, mi dirai che cosa vuole l’esigenza di certezza delle parti e che cosa vuole la loro esigenza di sicurezza. Caio vuol comprare da Sempronio il terreno A per edificarvi e naturalmente Sempronio, per stabilire il prezzo, si basa sull’utile che Caio potrebbe ricavare dall’acquisto: più questo utile é alto, più alto sarà il prezzo che pretenderà: tu, Caio, se ottenessi la concessione ad edificare ricaveresti dal terreno un reddito Tot = seicento, e, se non la ottenessi, ricaveresti un reddito pari solo alla metà di Tot. cioè a trecento? Allora il prezzo sarà oscillante tra trecento e seicento (e la sua fissazione dipenderà dall’abilità delle parti nel condurre le trattative).Mettiamo ora che Sempronio, abile e furbo uomo d’affari, spunti il prezzo di seicento: dimmi tu,cosa pretenderebbe la sua esigenza di certezza?

Doc. Semplice, l’esigenza di certezza di Sempronio pretenderebbe che, una volta stabilito che il prezzo é di seicento, poi, Caio non si possa rifiutare di pagarlo, dicendo, che egli aveva errato nei calcoli, che non aveva tenuto conto che il Comune, nonostante tante assicurazioni datigli dal Sindaco, non avrebbe dato la licenza e così via.

Disc. E in effetti di questa esigenza di Sempronio noi, studiando il vizio del consenso indotto da errore, abbiamo già parlato; e abbiamo visto che é tutelata dal combinato disposto degli articoli 1429 e 1431: tu. Caio, hai errato nel calcolo della convenienza per te del contratto (hai commesso un errore sui motivi)? peggio per te, anche se tale errore era da Sempronio conosciuto, tu non potrai chiedere l’annullamento del contratto. Questo perché Caio e Sempronio hanno diritto di concentrarsi ciascuno a fare il suo compitino, a calcolare la sua convenienza nel contratto: anche se Sempronio si é accorto che nei tuoi calcoli tu, Caio, non tenevi conto della possibilità che si verificasse il fatto A, egli non era tenuto a rompersi la testa per stabilire se, verificandosi il fatto A, il contratto non era per te conveniente: egli insomma non era tenuto a spendere tempo e fatica per studiare al tuo posto la convenienza per te del contratto.Chiarito quel che vuole la esigenza di certezza di Sempronio, dimmi però adesso cosa pretenderebbe la esigenza di sicurezza di Caio.

Doc. Pretenderebbe la risoluzione del contratto qualora il Comune non rilasciasse la licenza.Come vedi, soddisfare la esigenza di certezza di Sempronio, significa sacrificare la esigenza di sicurezza di Caio.

Disc. Io non sarei così pessimista: Caio e Sempronio potrebbero pur sempre salvare capra e cavoli stabilendo il prezzo a seicento, ma subordinando l’efficacia del contratto alla condizione che la licenza fosse concessa.

Doc. Ma, no, anche in questo caso la esigenza di certezza di Sempronio sarebbe lesa: egli infatti potrebbe essere, sì, certo che, una volta verificatasi la condizione, il suo diritto al prezzo di seicento non gli potrebbe essere più contestato, ma non potrebbe essere certo che la condizione si verificherà, che, quindi, il contratto avrà efficacia o no. E bada questa incertezza non sarebbe priva per lui di un danno economico: il Comune potrebbe aspettare mesi se non anni a decidere se dare o no la concessione, e durante questo tempo potrebbe bussare, alla porta di Sempronio un terzo, Flavio, per proporre per l’acquisto del terreno Tot - proposta che Sempronio dovrebbe rifiutare (bada, rifiutare col rischio che la condizione non si realizzi, e vada in fumo sia il contratto con Caio che quello con Flavio); ancora, sempre nell’incertezza che il contratto si faccia, Sempronio, sì, potrebbe coltivare il terreno, ma dovrebbe rinunciare a quelle migliorie che ne aumenterebbero il reddito (dato che, se la licenza fosse concessa, di tale maggiore reddito finirebbe per godere solo Caio). Come vedi tutti questi inconvenienti (e altri ce ne potrebbero essere) si traducono in soldi, soldi che Sempronio perde.

Disc. Mi rendo conto che l’inserimento della condizione, di cui prima ho detto, si risolverebbe in un rischio e quindi in un costo per Sempronio, ma tale costo potrebbe essere compensato da una maggiorazione del prezzo: questo, invece di essere fissato in seicento, potrebbe essere fissato in settecento.

Doc. Sì, indubbiamente l’apposizione al contratto, anche se con una correzione del prezzo, di una “condizione”, potrebbe essere una soluzione; ma non del tutto soddisfacente, però, in quanto l’esistenza della condizione verrebbe a creare un’alternativa secca: efficacia del contratto (se la condizione si realizza) oppure risoluzione del contratto (se la condizione non si realizza): tertium non datur, anche se le parti potrebbero avere ancora interesse alla stipula del contratto, solo che il prezzo fosse ridotto.

Disc. Ma chi impedisca a Caio e Sempronio di stabilire il prezzo in seicento con l’accordo che, se la licenza non viene concessa, il contratto non si risolve, ma si riduce il prezzo in modo da renderlo adeguato al minor reddito che, dal terreno, Caio

ricaverà, non potendo edificarvi ma solo potendo coltivarlo a patate e cavoli?

Doc. Nessuno. Ed in effetti proprio questa é la soluzione che il legislatore i adotta nella disciplina del contratto di appalto e negli artt. 1467 e segg.

Disc. Com’é la disciplina del contratto di appalto sul punto?

Doc. La disciplina del contratto d’appalto in sintesi (ma tu vedi melius gli articoli 1664 e 1660) prevede che “qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti e diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo” e che “se nel corso dell’opera si manifestino difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso”; questo nell’articolo 1664, nell’articolo 1660 poi prevede che se “per l’esecuzione dell’opera a regola d’arte é necessario apportare variazioni al progetto e le parti non si accordano, spetta al giudice di determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni del prezzo”.

Disc. E l’articolo 1467 che dice?

Doc. L’articolo 1467 (che ha la sua sede nella sezione terza intitolata “Dell’eccessiva onerosità” e ha per rubrica “Contratto con prestazioni corrispettive”) così recita:“Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti é divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458. - La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto.- La parte contro la quale é domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Disc.Data l’importanza di questo articolo é opportuno procedere a un suo più approfondito esame.Comincia a dire quali sono i presupposti a che Caio - che si é obbligato con Sempronio a consegnargli, cento tappeti persiani - possa ottenere la risoluzione del contratto ai sensi dell’articolo 1467.

Doc. Tali presupposti sono:I – La eccessiva onerosità della prestazione.II- La mancanza di una offerta della controparte di modificare equamente le condizioni del contratto.III.- L’essere dovuta tale eccessiva onerosità ad avvenimenti straordinari e imprevedibili.IV – L’essere intervenuta tale eccessiva onerosità dopo la stipula del contratto.

Disc. Un breve commento per ciascuno di tali presupposti cominciando dal primo: quando può considerarsi eccessivamente onerosa la prestazione?

Doc. Il legislatore non lo dice. Ma l’interprete può ricavare un criterio orientativo per determinare ciò, dagli articoli sull’appalto che sopra abbiamo riportati: il metro per misurare la eccessività della prestazione é dato dalla sua onerosità al momento della stipula; e non occorre, per ritenere eccessiva la onerosità, che essa sia raddoppiata, o triplicata, insomma aumentata di moltissimo: potrebbe anche ritenersi eccessiva, l’onerosità, quando supera di un sesto il valore della controprestazione. Ciò che va escluso é che il legislatore ritenga eccessiva l’onerosità solo quando essa ponga in difficoltà (economica) la parte che chiede la risoluzione - Caio, nell’esempio. Il legislatore non dà a Caio la chance della risoluzione per evitargli un tracollo economico, ma solo per permettergli di riportare a un giusto equilibrio le prestazioni sue e di Sempronio.

Disc. Quindi, a quell’equilibrio che tali prestazioni avevano al momento del contratto.

Doc. Non é detto. Ma questo lo vedremo meglio quando parleremo del terzo comma dell’articolo in esame.

Disc. Tu attribuisci all’articolo 1467 lo scopo di eliminare il disquilibrio verificatosi nel tempo tra le prestazioni di Caio e Sempronio; ma se così é, debbo concludere che la risoluzione può essere domandata da Caio, non solo quando é aumentato il costo della sua prestazione (perché é aumentato il costo della materie prime, il costo del lavoro, il costo del trasporto del tappeto finito ecc.), ma anche quando é diminuita per lui l’utilità della controprestazione di Sempronio: dopo che già Caio ha stipulato il contratto con Sempronio, bussa alla sua porta Flavio disposto a offrirgli, in cambio

dei cento tappeti, non Tot (il prezzo stipulato con Sempronio), ma il doppio di Tot, oppure, Sempronio si é obbligato a dare in cambio dei tappeti un autoveicolo e Caio si é accorto che, di tale autoveicolo, non ha più necessità (metti, perché tale autoveicolo serviva per trasportare e vendere dei tappeti a Bagdad, ma tale possibilità, di esportare i tappeti in tale città, é sfumata).

Doc. No, il legislatore non intende dare, con l’articolo 1467, la possibilità a Caio di risolvere il contratto nel caso di un calo di utilità della controprestazione. Ciò si ricava facilmente dall’articolo 1465. In base a tale articolo, se Sempronio, in cambio dei tappeti si é obbligato a dare a Caio quel certo quadro che adorna la sua casa e questo quadro (dopo la stipula del contratto) perde di valore, metti perché deterioratosi o addirittura viene distrutto, Caio non può chiedere la risoluzione del contratto perché l’utilità della controprestazione si é per lui ridotta (anche grandemente!) o addirittura si é azzerata. Del resto non mi risulta che qualcuno sostenga che, essendosi Sempronio obbligato a dare duecento euro ed essendosi svalutato l’euro metti del cento per cento, Caio possa chiedere la risoluzione del contratto, dal momento che il valore della controprestazione (la capacità di acquisto degli euro) si é ridotto alla metà.

Disc. Passiamo al secondo presupposto, che deve esistere a che Caio possa domandare la risoluzione: il non avere Sempronio offerto “di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Doc. Sì, se lo scopo dell’articolo 1467, concedendo la risoluzione del contratto, é quello di liberare una parte, Caio, dall’eseguire una prestazione quando il valore di questa é diventato squilibrato rispetto al valore della controprestazione, ben si comprende che il Legislatore (con il terzo comma dell’articolo in esame), tale risoluzione, escluda, una volta che la controparte, Sempronio, accetti di riequilibrare le due prestazioni.

Disc. Torno alla domanda che già prima ti ho fatta: la prestazione di Sempronio va modificata al fine di ricreare, tra essa e quella di Caio, lo stesso equilibrio che tra loro vi era al momento della stipula del contratto? Chiarisco l’idea: metti che Caio abbia preteso da Sempronio, al momento della stipula, duecento, mentre il prezzo che si operava nel mercato dei tappeti era la metà del prezzo, da Caio, preteso (cioé, cento), se l’onere della prestazione per Caio si fosse quadruplicato, Sempronio dovrebbe aumentare il valore della sua prestazione a ottocento oppure solo alla metà di

ottocento, cioé a quattrocento?

Doc. Anche se la cosa può essere discutibile, io ritengo che Sempronio sia tenuto a elevare la sua prestazione solo fino a creare il giusto equilibrio (cioé fino al livello di quattrocento) e non fino a ricreare il precedente equilibrio, quello esistente al momento della stipula. A tale conclusione mi porta la considerazione: 1) che nel terzo comma in esame, si parla di “modifica equa” del contratto; 2) che, il fatto che, in tale terzo comma, si parli di “modifica delle condizioni” (e non semplicemente della controprestazione), fa pensare che, quello che si chiede al giudice, non é un semplice calcolo matematico (la onerosità é aumentata del quadruplo, quindi, io, giudice, aumento del quadruplo la prestazione di Sempronio), ma un riesame condotto funditus delle precedenti condizioni contrattuali – riesame che mancherebbe di ragion sufficiente se mirasse solo a ritoccare la controprestazione di Sempronio; 3) dal fatto che negli articoli 1660 e 1664 (già riportati), sì, l’aumento di onerosità della prestazione dell’appaltatore, viene misurato in una percentuale del prezzo (dell’appalto), ma, l’aumento della prestazione del committente (l’appalto). viene, invece, determinato con riferimento all’equità; 4) che pare giusto che il Legislatore non si faccia complice di C nel perpetuare una prepotenza (economica), ma approfitti della domanda di risoluzione per eliminare (il più possibile) tale prepotenza.

Disc. Passiamo ora all’esame del terzo presupposto: l’essere dovuta l’eccessività dell’onere gravante a Caio ad “avvenimenti straordinari e imprevedibili”.

Doc. Che la risoluzione del contratto, a Caio, sia concessa solo quando era da lui imprevedibile l’avvenimento, che ha causato l’aumento dell’onerosità della sua prestazione, é giustificato dal fatto che, sia la risoluzione, sia la modifica del contratto per riequilibrare le prestazioni, comportano un danno per Sempronio (infatti, se il contratto é risolto, Sempronio perde la possibilità di conseguire quei vantaggi, che, col contratto, si era proposto, se, invece,il contratto non é risolto ma la sua prestazione viene modifica in aumento, Sempronio vede scombussolato il calcolo economico da lui fatto). Subordinare la risoluzione all’imprevedibilità dell’avvenimento significa pungolare Caio ad operare il calcolo di convenienza con diligenza.

Disc. Sì, ma con quale diligenza? Con una super-diligenza, così come porterebbe a credere la endiade (“avvenimenti straordinari e imprevedibili) o con la diligenza del buon padre di famiglia?

Doc. Con la diligenza che si pretende dall’operatore medio nel settore di commercio a cui si riferisce il contratto: se si tratta di un contratto di appalto, con la diligenza di un buon appaltatore.L’aggettivo “straordinari”, infatti, non deve essere considerato un rafforzativo dell’aggettivo “imprevedibili”; se non altro perché l’espressione “l’avvenimento A é straordinario” di per sé non significa che l’ avvenimento A sia molto probabile, ma solo che non si é verificato secondo il suo normale ordine di probabilità: se l’eruzione del Vulcano A avviene normalmente una volta ogni decennio, qualora tale eruzione avvenga due volte in un decennio, la seconda eruzione si qualificherà come evento straordinario, anche se, in definitiva, era poco probabile che si verificasse.

Disc. Allora qual’é la funzione di tale aggettivo?

Doc. Tale aggettivo ha la funzione, non di enfatizzare il grado di diligenza richiesto a Caio, ma di limitare, l’applicabilità dell’articolo 1467, subordinando la risoluzione, non a un qualsiasi avvenimento dannoso,sì, ma dannoso (in quanto abbia determinato l’aumento della onerosità) solo per a Caio (pensa all’incendio del magazzino in cui Caio teneva le materie prime occorrenti per fare i tappeti), ma a un avvenimento dannoso relativo a tutta una categoria di operatori economici: ad esempio, a tutta la categoria degli appaltatori (pensa a un aumento delle materie prime).

Disc. Passiamo (finalmente!) all’ultimo presupposto a cui é subordinata la proponibilità della domanda di risoluzione: l’essere intervenuta, l’onerosità, dopo la stipula del contratto.

Doc. Il legislatore evidentemente ritiene che, se, l’avvenimento determinante la maggiore onerosità della prestazione, esisteva prima della conclusione del contratto, lungi dall’essere imprevedibile, non poteva non essere da Caio conosciuto e tenuto presente nel calcolo della controprestazione da richiedere.

Disc. Noi abbiamo fatto finora l’ipotesi di un contratto a prestazioni corrispettive; ma non può farsi l’ipotesi di una prestazione (eccessivamente onerosa) che ha la sua fonte in un contratto con obbligazioni di una sola parte?

Doc. Certamente sì; e infatti il legislatore prevede tale ipotesi nell’articolo 1468 che(sotto la rubrica “Contratto con obbligazioni di una sola parte”) recita: Nell’ipotesi

prevista nell’articolo precedente, se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità”.

Disc. Però l’articolo 1468 non concede alla parte onerata, a Caio, il diritto di domandare la risoluzione, perché?

Doc. Perché, la concessione del potere di chiedere la risoluzione, può dare luogo ad abusi, se non vi é una controparte che può bloccarla – ma bloccarla naturalmente per ragioni la cui serietà é garantita dal fatto che essa é disposta ad accettare una modifica delle sue prestazioni; cosa quest’ultima che naturalmente nel contratto con obbligazioni di una sola parte non é concepibile (cosa potrebbe offrire di modificare il beneficiario dell’obbligazione di Caio, dal momento che egli a niente é obbligato?).

Disc. Ora ti faccio due casi e tu mi dici se rispetto ad essi é applicabile l’articolo 1467.Primo caso. Caio vende a Sempronio l’immobile A per cento – prezzo che sarebbe spropositato se sia Caio che Sempronio non partissero dal presupposto che il Comune rilascerà la licenza edilizia. Però invece accade proprio questo: il Comune non rilascia la licenza”.Secondo caso: Caio prende in locazione da Sempronio un appartamento su una via di Londra per cento al mese – prezzo che sarebbe spropositato se sia Caio che Sempronio non partissero dal presupposto che proprio per tale via passerà nel giorno tal dei tali il corteo della Regina – Purtroppo il giorno tal dei tali la Regina si prende... l’influenza e il corteo non si fa”.Domanda: può applicarsi nei due casi ora riportati l’articolo 1497?

Doc. Chiaramente, no. Infatti abbiamo visto che una parte non può chiedere la risoluzione per il fatto che é diminuita per lei l’utilità della controprestazione (e nei casi da te fatti, la domanda di risoluzione avrebbe la sua ragione, nel primo, nella diminuita utilità del terreno, in quanto non più edificabile e, nel secondo, nella diminuita utilità dell’appartamento, in quanto da esso non si può più vedere passare il corteo).

Disc. Però, a prescindere da una applicabilità dell’articolo 1467, il fatto che il prezzo(troppo alto) si giustifichi solo con il fatto che entrambe le parti presupponevano

ecc.ecc.. non rileva per ritenere la risolubilità del contratto?

Doc. Effettivamente non pochi Studiosi ritengono che questo fatto (il fatto cioé che le parti abbiano deciso di stipulare il contratto solo sul presupposto dell’esistenza di una data circostanza di fatto o di diritto) giustifichi (se la circostanza poi non si verifica) la risoluzione del contratto stesso; e pertanto tali Studiosi si sono fatti propugnatori di una teoria detta appunto della “Presupposizione”.

Disc. Più precisamente quando si ha secondo tali Studiosi una “presupposizione”?

Doc. Ti rispondo con le seguenti parole (da me lette nel vol. III, pag. 519, di “Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale”- opera diretta da. G.Alpa e M. Bessone): “Con massima pressoché costante la giurisprudenza afferma che si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto, desumibile dal contenuto del negozio pur in mancanza di un espresso riferimento, di cui le parti hanno tenuto conto in modo da costituire il presupposto obiettivo del negozio, risulta difforme da quella sopravvenuta indipendentemente dalla loro volontà”.

Disc. Ma questa teoria della presupposizione a te sembra valida?

Doc.Io non la ritengo tale. Infatti. O tu desumi da una norma di diritto che il contratto é risolubile quando le parti hanno consentito al contratto nel presupposto ecc.ecc – ma io non conosco nessuna norma da cui ciò si possa argomentare, oppure lo desumi dalla volontà delle parti - beninteso, però, da una volontà delle parti di subordinare l’efficacia del contratto alla condizione che un dato fatto (il fatto “presupposto”) non si verifichi.

Disc. E tu ritieni che negli esempi fatti, non avendo le parti espressamente subordinata l’efficacia del contratto al non verificarsi di tale fatto, cioé essendo la condizione, da esse voluta, rimasta implicita e non espressa, di tale condizione non si possa tenere conto?

Doc. No, io non dico che di una condizione non si possa tenere conto quando é solo implicita. Al contrario ritengo che, se, in via di interpretazione, si accerta che le parti hanno voluta una certa “condizione”, di essa debba tenersi conto, anche se non espressa (a patto, però, che per il contratto, a cui dovrebbe accedere la “condizione, non sia imposta la forma scritta, com’é nel primo “caso” da te portato; perché in tal

ipotesi, la necessità della forma scritta prevista per il contratto, sussisterebbe anche per la clausola che esprime la “condizione”). Dico solo che di una condizione si può tenere conto solo se é realmente...una condizione. E perché si possa parlare di contratto condizionato al verificarsi del fatto A, non basta che Caio e Sempronio, le parti del contratto, abbiano fissato un dato prezzo nel presupposto che tale fatto A sopravvenga, no assolutamente: occorre che le parti abbiano voluto subordinare al verificarsi di tale fatto il contratto, ciò che va provato e non può certo considerarsi provato dal semplice fatto che le parti avevano stipulato il contratto nel presupposto che si verificasse il fatto A, dato che io, Caio, posso benissimo accettare il prezzo di cento nel presupposto (e, sarebbe meglio dire, nella speranza) che si verifichi il fatto A, ma senza volere con ciò apporre una “condizione” che subordini l’efficacia del contratto al verificarsi del fatto A (metti, perché, come abbiamo visto, l’apposizione di una condizione, ha un prezzo, che a me Caio non piace pagare).

14- Dell’impossibilità sopravvenuta-

Doc. Parleremo oggi della “impossibilità sopravvenuta”: artt. 1463 e segg.L’impossibilità della prestazione quando sussiste al momento della conclusione del contratto, determina, come abbiamo visto in una precedente lezione, la nullità del contratto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1346 e 1418; quando invece é sopravvenuta, bisogna distinguere se tale impossibilità non é oppure é imputabile a un fatto del debitore.Questo perché - mentre in entrambi i casi, la prestazione non potrà essere eseguita (proprio perché “impossibile”) e il debitore non potrà chiedere la controprestazione - (perché altrimenti il sinallagma funzionale risulterebbe squilibrato a sfavore del creditore: Caio si é obbligato a dare A per avere da Sempronio B, se Sempronio, impossibilitato a dare B, potesse chiedere A a Caio, aumenterebbe il danno di questo, danno che invece il Legislatore si propone di alleviare al massimo) - solo nel primo caso (impossibilità non imputabile a fatto del debitore) il debitore, Sempronio, dovrà restituire la prestazione secondo le “norme relative alla ripetizione dell’indebito”

Disc. E questa é una differenza importante.?

Doc. Certo che sì, perché significa ad esempio che se, il debitore Sempronio, ha ricevuto in pagamento da Caio il fondo A e ne ha colti i frutti, egli (se in buona fede) dovrà restituire i frutti solo percepiti “dal giorno della domanda” (art. 2033) e se ha ricevuto, metti ancora, un autoveicolo che si é deteriorato, egli, se in buona fede, non

risponderà di tale deterioramento, anche se dovuto a fatto proprio. (vedi co. 3 art. 2037).Mentre nel secondo caso (impossibilità dovuta a fatto del debitore) Sempronio, il debitore, dovrà rimborsare Caio secondo le regole sul risarcimento del danno di cui all’articolo 1223; ciò che significa che, dovendosi considerare il mancato recepimento dei frutti e il deterioramento dell’auto, rientranti nel “danno emergente” subito da Caio, Sempronio, di tale danno dovrà risarcire Caio, poco importando che fosse, quando l’ha causato, in buona o mala fede.

Disc. Tutto questo da che risulta?

Doc. Risulta dal combinato disposto degli articoli 1463 e 1256.L’articolo 1463 (sotto la rubrica “Impossibilità totale” recita: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può richiedere la controprestazione, e deve erstituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito”L’art. 1256 (sotto la rubrica “Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea”) recita nel suo primo comma: “L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”.

Disc. Si dovrebbe argomentare a contrario dall’articolo 1256, che, quando la prestazione diventa impossibile per un causa non imputabile al debitore, l’obbligazione non si estingue; ma com’é possibile che non si estingua se é impossibile eseguirla?

Doc. Sì, hai ragione, anche in questo caso l’obbligazione si estingue; però dando origine al sorgere di altre obbligazioni (in primis, l’obbligazione di risarcire i danni); per cui il legislatore meglio avrebbe detto, se invece di parlare di obbligazione che si estingue, avesse parlato di obbligazione che si trasforma.

Disc. Fai qualche esempio di prestazione diventata impossibile.

Doc. Primo esempio: il tenore Caruso ha la faringe infiammata, per cui non può andare a cantare alla Scala di Milano. Secondo esempio: Sempronio si é obbligato a consegnare per il giorno 15 una torta nuziale all’Hotel “Cime bianche”, che sta sulla cima di una montagna e a cui si può arrivare solo passando su un ponte: questo cade il giorno quattordici, quando Sempronio non é più in grado di noleggiare un

elicottero, che lo faccia giungere in cima alla montagna.

Disc. Fammi ora un esempio di impossibilità dovuta a causa imputabile al debitore.

Doc. Sempronio il giorno 14 ha avuta la balzana idea di passare sul ponte, di cui all’esempio precedente, con un carrarmato e lo ha fatto crollare.

Disc. E’ chiaro che il Legislatore, dando rilievo alla circostanza che l’impossibilità della prestazione sia o no dovuta al fatto del debitore, intende fare applicazione del principio Causa causae est causa causati. Però la logica vuole che la causa causae, possa essere considerata causa causati solo se ha la stessa, diciamo così, qualificazione soggettiva della causa (la causa dell’evento dannoso): se io uccido una persona guidando l’auto mentre sono in stato di incapacità di intendere, rispondo di omicidio doloso o colposo, secondo i casi, solo se nello stato di incapacità di intendere mi sono messo io stesso colposamente o dolosamente. Logica quindi vorrebbe che, dell’inadempimento di una prestazione, Sempronio, il debitore, fosse considerato responsabile, solo qualora di tale inadempimento fosse chiamato a rispondere oggettivamente, mentre se invece fosse chiamato a risponderne solo per colpa, del fatto causativo dell’impossibilità dovrebbe essere chiamato a rispondere solo se tale fatto causativo, tale causa causae fosse dovuto a sua colpa.

Doc. Bravissimo, il tuo ragionamento non fa una grinza; e va pertanto ritenuto che il Legislatore, quando (negli articoli 1218, 1256...) si limita a parlare di “causa non imputabile al debitore”, dicit minus quam voluit.

Disc. Un’altra lacuna mi pare sia addebitabile al dettato legislativo: esso prevede il caso dell’intervenuta impossibilità della prestazione, ma non quello, diciamo così limitrofo ma non identico, del sopravvenuto sorgere di una difficoltà all’esecuzione della prestazione, difficoltà superabile solo con un maggior onere del debitore (maggiore onere, in termini di tempo, fatica, soldi...). Faccio qualche esempio. Primo esempio: Sempronio, si é obbligato a dare il bianco in casa di Caio per mille euro, ma si é rotto un braccio: egli non può più dare il bianco, ma lo potrebbe dare il suo collega Cornelio, che però pretende mille euro. Chiaro che, la rottura del braccio, comporta per Sempronio un aumento degli oneri connessi all’adempimento. Secondo esempio: Sempronio si é obbligato a consegnare la torta nuziale per il giorno 15 (mi sto rifacendo a un esempio prima fatto). Crolla il ponte, ma l’Hotel sarebbe pur sempre raggiungibile pagando un elicottero. Cosa che però aumenterebbe gli oneri

connessi all’adempimento, e non di molto, ma di moltissimo.Concludo: in tutti questi casi, Sempronio, il debitore, si considererebbe inadempiente se si rifiutasse di accollarsi i maggiori oneri (pagando il collega, noleggiando l’elicottero...)?

Doc. E’ discutibile e discusso quale sia la risposta da dare alla tua domanda; io però ritengo che essa richieda una risposta positiva: quando si verifica un aumento degli oneri connessi all’adempimento di una obbligazione, al Legislatore si pone il problema, se addossare al debitore lo svantaggio di sostenere tali oneri o se addossare al creditore lo svantaggio a lui derivante da una risoluzione del contratto; e, parlando dell’articolo 1467, abbiamo visto, che il Legislatore sottopone a rigorosi limiti la risoluzione del contratto per l’intervento di eventi, che rendono la prestazione più onerosa di quanto programmato dal debitore): il contratto é risolubile solo se, la sopravvenuta sua maggiore onerosità é “eccessiva”, solo se non era previsto o prevedibile l’evento che l’ha causata e, dulcis in fundo, solo se riguarda tutta una categoria di operatori economici. Oltre a tali limiti non si può andare.

Disc. Ma a me sembra assurdo che il povero Sempronio, per adempiere una obbligazione (la consegna della torta), che gli potrebbe rendere cento euro, sia costretto a spenderne diecimila e più (per noleggiare un elicottero).

Doc. Dura lex sed lex: ogni persona che mette la sua firma sotto un contratto sa di esporsi a dei rischi. Metti che Sempronio si fosse obbligato a consegnare il giorno quindici, non la torta, ma cento quintali di soia: il giorno quattordici il suo magazzino prende fuoco, della soia non resta più che la cenere e Sempronio deve comprare altrettanti sacchi di soia e consegnarli al creditore, se non vuole essere considerato inadempiente. E nessun Studioso, che io sappia, sostiene che Sempronio possa domandare la risoluzione del contratto, lamentando la sua sopravvenuta, maggiore onerosità.D’altronde non mancano a Sempronio, il debitore, gli strumenti giuridici per sottrarsi al peso, divenuto per lui eccessivo, dell’adempimento dell’obbligazione, o, almeno. della sua esecuzione in forma specifica.

Disc. Quali sono questi strumenti?

Doc. Sono il domandare la risoluzione per eccessiva onerosità, di cui già abbiamo detto, e sic et simpliciter....il dichiarare di non volere adempiere alla obbligazione, su

di lui gravante. In tal caso, naturalmente, il creditore potrà, anzi dovrà, considerarlo inadempiente (ma non potrà addossargli i danni che, se pur derivanti dall’inadempimento, erano da lui evitabili, una volta conosciuta la volontà del debitore di non adempiere).

Disc. Non vedo il vantaggio per il debitore di essere considerato inadempiente.

Doc. Il vantaggio invece c’é ed é quello di evitare l’esecuzione forzata in forma specifica e semplicemente sottostare all’esecuzione per equivalente (che dovrebbe essere meno per lui costosa, che l’esecuzione spontanea dell’obbligo). Questo in forza dell’articolo 2058 che (sotto la rubrica “Risarcimento in forma specifica) recita:“Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile.Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.

Disc. A questo punto possiamo, penso, passare all’esame dell’articolo 1464 che (sotto la rubrica “Impossibilità parziale”) recita: “Quando la prestazione di una parte é divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”Quindi, in caso di impossibilità parziale della prestazione dovuta da Sempronio, il creditore Caio può scegliere se chiedere l’altra (parziale) prestazione, ovviamente con una proporzionale riduzione della sua prestazione, oppure se recedere dal contratto.

Doc. Sì, però tieni presente che la sua non può essere una scelta arbitraria, non può costituire un comodo espediente per liberarsi da dei vincoli contrattuali diventati troppo pesanti: se Sempronio si era obbligato a dare dieci canarini e uno ha pensato bene di sfuggire dalla gabbia e rendersi uccel di bosco, Caio, il creditore, non potrà recedere dal contratto. Lo potrà se invece, avendo chiesto due orecchini, ne potrebbe avere solo uno, perché l’altro é andato smarrito.Ti può essere utile confrontare già da ora l’articolo in esame con gli articoli 1455 e 1181, di cui ci riserviamo di parlare in una delle prossime lezioni.

Disc. Sempronio, il debitore della prestazione divenuta parzialmente impossibile, non può anche lui recedere dal contratto, se la controprestazione, ridotta come preteso da Caio, per lui perde interesse?

Doc. No

15 - La diligenza nell’adempimento.

Doc. I presupposti (negativi) dell’adempimento sono: 1) la totale inesecuzione della prestazione quando essa é possibile; 2) la totale inesecuzione quando essa é, sì, impossibile ma per causa imputabile al debitore; 3) la esecuzione “inesatta” della prestazione.

Disc. Che significa inesatta esecuzione della prestazione?

Doc. Significa che la prestazione é stata eseguita senza la dovuta diligenza e senza rispettare il termine fissato per la sua esecuzione.Questo é almeno il significato con cui viene usato dal Legislatore l’avverbio “esattamente” nell’articolo 1218, che (sotto la rubrica “Responsabilità del debitore”) recita: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta é tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo é stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.Entrando più funditus nell’esame dell’articolo sopra riportato, e volendo basarci sulla sua formulazione letterale, dobbiamo concludere a contrario sensu che le cose che il Legislatore ci vuole con tale articolo comunicare sono le seguenti:1) che la totale o parziale inesecuzione della prestazione dovuta a impossibilità della prestazione,non costituisce inadempimento, se deriva da causa “estranea”, cioé non imputabile al debitore;2) che però la prova di tale impossibilità e che essa non é dovuta a fatto imputabile al debitore incombe al debitore stesso;3) che, non solo la esecuzione fatta con la dovuta diligenza e nel rispetto dovuto dei termini, esclude la responsabilità del debitore, ma la esclude altresì la esecuzione non conforme alla diligenza e non rispettosa dei termini, quando la non conformità alla diligenza e il mancato rispetto dei termini é dovuto a causa non imputabile al debitore;4) che però la prova dell’impossibilità sub 3 (idest l’impossibilità ad osservare la dovuta diligenza nell’esecuzione e i termini dovuti) incombe al debitore.

Disc. Insomma si può dire che con l’articolo 1218 il legislatore ha voluto dirci un

mucchio di cose – cose che però meglio avrebbe fatto ad esprimere in articoli separati. E per di più ripetendo cose che già risultavano da altri articoli; e con ciò mi riferisco a quanto detto sub 1) – che già risulta dal disposto dell’articolo 1256.

Doc. Cosa a dir il vero questa perdonabile in quanto dell’articolo 1256 risulta, sì, quanto sub 1; ma non quanto sub 2, che cioé la prova dell’impossibilità e del fatto che essa non deriva da causa imputabile al debitore va provata dal debitore.Vero é che, se é perdonabile l’errore per eccesso commesso dal legislatore, é più difficilmente perdonabile l’errore da lui commesso per difetto.

Disc. E da che sarebbe dato questo errore per difetto?

Doc. Sarebbe dato dal fatto che egli fa riferimento nell’articolo 1218 a uno solo dei tre diritti che, come vedremo studiando l’articolo 1453, nascono, nel creditore, dall’inadempimento: il diritto al risarcimento; dimenticandosi così il Legislatore degli altri due diritti: il diritto all’esecuzione coatta e alla risoluzione: forse che per tali diritti non vale la regola che essi nascono in caso di inesecuzione della prestazione o di inesecuzione inesatta della prestazione, se il debitore non prova che tale inesecuzione é dovuta a impossibilità ecc,ecc.?

Disc. Non guardiamo il pelo nell’uovo. Piuttosto dimmi perché il legislatore invece di dire “il debitore che non esegue esattamente la prestazione” non dice più chiaramente “il debitore che non esegue con la dovuta diligenza la prestazione”?

Doc. Qui il legislatore fa benissimo, infatti dal momento che, oggetto della obbligazione, é, per l’articolo 1176, la prestazione eseguita con “la diligenza del buon padre di famiglia” (o del buon professionista), se egli avesse detto che la prestazione deve essere eseguita con diligenza, sarebbe caduto in una sorta di tautologia, perché sarebbe venuto a dire che “la prestazione eseguita usando della diligenza del buon padre di famiglia deve essere...eseguita diligentemente”.

Disc. Ho capito, ma per capire meglio vediamo che cosa dice l’articolo 1176.

Doc. L’articolo 1176 (sotto la rubrica “Diligenza nell’adempimento” recita): “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia.Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività

professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

Disc. Sembrerebbe, dalla lettura del primo comma, che se Caio, metti perché in vena di risparmio, ha dato l’incarico di dare il bianco alla sua casa, non a un valente imbianchino, ma a un improvvisato imbianchino come Sempronio, e questi, com’era prevedibile ha...pasticciato, Caio possa accusare Sempronio di inadempienza. A me questo pare assurdo.

Doc. E tale infatti sarebbe, se il Legislatore non desse la possibilità alle parti di fare tra loro l’accordo che la diligenza nell’esecuzione della prestazione sarà valutata con riferimento, non a quella del buon padre di famiglia, ma a quella che si può pretendere da una persona, che ha le cognizioni e le abilità della parte (Sempronio) che deve eseguire la prestazione.E venendo al tuo esempio, il fatto che Caio abbia dato l’incarico di imbiancare la sua casa a Sempronio, cioé a persona di cui conosceva le defaillances, induce a concludere che, seppure tacitamente, tra le parti esistesse tale accordo (derogativo al disposto dell’articolo 1176)

Disc. Passiamo al secondo comma, che riguarda il caso che Caio si rivolga a Sempronio nella sua qualità di professionista (ché, se Caio si rivolgesse a Sempronio per richiederlo di un’attività professionale, sapendo che non é un professionista, si dovrebbe di nuovo tornare ai discorsi da noi fatti a proposito del primo comma).

Doc. Orbene, se Caio si rivolge a un professionista, ha diritto di pretendere, non la prestazione che sarebbe in grado di dare ciascun “buon padre di famiglia”, ma quella che sarebbe in grado di dare un “buon professionista” (tenendo presente che i professionisti possono essere di diverso livello).Quindi, se Caio si fosse rivolto a un Caruso, avrà diritto che questi canti la Traviata in modo da farsi applaudire da un pubblico raffinato, se invece si fosse rivolto a un cantante di basso livello, qualche “stecca” la dovrebbe tollerare.

Disc. Però tutto questo nel secondo comma non lo trovo scritto: lo dici tu.

Doc. Lo dico io perché é logico e vero; e ti spiego perché non lo dice il Legislatore, perché egli si limita a dire che la diligenza, nel caso che l’obbligazione sia inerente a un’attività professionale, “deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività

professionale”Questo “perché” sta in questo: che il Legislatore, nel dettare il secondo comma dell’articolo 1176, aveva soprattutto presente un problema che nasce dalla “natura” di certe professioni (pensa alla professione del medico, dell’avvocato). L’esercizio di tali professioni pone, si può dire continuamente, al professionista dei problemi la cui soluzione é inevitabilmente opinabile (e quindi molto probabilmente “opinata”,in senso contrario a quello adottato dal professionista, da un cliente “scottato” dal danno che la soluzione, adottata dal professionista, gli ha causato), dando così esca a un continuo, stressante (per il professionista) contenzioso davanti al tribunale. Cosa per cui il professionista sarebbe portato ad astenersi dall’esercitar tali professioni, mentre la società ha, invece, interesse che tali professioni siano esercitate (ha bisogno di medici, di avvocati...).Ecco, questo probabilmente é il problema che il Legislatore aveva in mente dettando il secondo comma dell’articolo 1176.

Disc. Problema che però l’articolo 1176 non risolve.

Doc. Lo risolve, però, o almeno tenta di risolverlo, l’articolo 2236, il quale (sotto la rubrica “Responsabilità del prestatore d’opera”) recita: Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”.

Disc. Non si comprende perché il professionista debba rispondere, dell’errata soluzione di un problema tecnico di speciale difficoltà, solo per colpa grave o dolo; logica vorrebbe che ne rispondesse anche se avesse mancato della diligenza che ha ciascun buon professionista, fermo restando però che egli dovrebbe andare assolto dalla responsabilità, per l’errore commesso, in considerazione del fatto che anche un buon professionista, tale errore, avrebbe potuto commettere.

Doc. La tua osservazione é giusta; e infatti, il riferimento ai “problemi tecnici di speciale difficoltà”, che il legislatore adotta, per evitare al professionista uno stressante contenzioso, non é felice. Meglio avrebbe disposto il legislatore se avesse detto che “Se la prestazione implica la necessità di affrontare problemi tecnici la cui soluzione si presta ad essere opinabile, il prestatore non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Questo contando che il cliente inferocito, non tenti la causa davanti al tribunale, sapendo che dovrà provare la colpa grave del professionista.

Disc. Abbiamo visto che l’articolo 1218 fa dipendere l’inadempimento, dalla colpa nell’esecuzione della prestazione (anche se expressis verbis alla colpa non fa riferimento). Però le parti non potrebbe concordare tra di loro che l’inadempimento venga ritenuto a prescindere dall’accertamento di una colpa del debitore ‘

Doc. Certamente che lo potrebbero. Basterebbe che concordassero che, se il debitore non raggiunge un certo risultato, tanto basti per ritenerlo inadempiente, a prescindere che egli abbia fatto il massimo sforzo e si sia comportato con la massima diligenza per, tale risultato, conseguire: tu, Sempronio, dovrai risarcire i danni ecc., a me, Caio, solo che tu non mi faccia trovare il 15 settembre davanti al magazzino cento quintali di grano; nulla importando che tu non ti sia potuto procurare i cento quintali per questo o quello motivo, o che tu, procuratiti i cento quintali, te li sia visti distruggere per questo e quest’altro evento.

Disc. In tal caso Sempronio dovrebbe essere disposto ad assumersi un rischio (di inadempimento), che secondo le regole generali non gli spetterebbe.

Doc. Ed é per questo che Sempronio difficilmente accetterà di stipulare una obbligazione di “risultato” (così si chiamano le azioni del tipo ora descritto) e preferirà assumere solo una “obbligazione di mezzi” (o come preferiscono dire certi Studiosi “di comportamento”) - cioé un’obbligazione che si considererà inadempiuta solo quando si accerti la colpa del debitore.Colpa però che il legislatore presume, dal momento che pone a carico del debitore di provare di aver “eseguito esattamente la prestazione”.

Disc. Ma questa inversione dell’onere probatorio in realtà non risulta dall’articolo 1218. Infatti tale articolo stabilisce l’inversione dell’onere probatorio solo per il caso che la prova verta sulla “impossibilità”in cui si é trovato il debitore di eseguire la prestazione secondo la diligenza del buon padre di famiglia o del buon professionista (“io, Sempronio, non mi sono comportato secondo la diligenza del buon padre di famiglia nel guidare l’auto perché colpito da grave malore” - “Io, Caruso, ho fatto delle stecche cantando, perché ero influenzato “) e non anche per il caso che la prova verta sull’esecuzione secondo diligenza della prestazione. (“io, Sempronio, ho guidato con la diligenza del buon padre di famiglia: l’incidente si é verificato per colpa esclusiva dell’altro automobilista”).

Doc. Così risulta effettivamente dalla lettera dell’articolo 1218, però non é così che tale articolo va interpretato; dato che sarebbe illogico stabilire l’inversione dell’onere probatorio, quando la prova verte sull’impossibilità della prestazione esatta, e non stabilire tale inversione, quando la prova verte sulla esattezza della prestazione. E tanto più illogico in quanto proprio in questa seconda ipotesi é maggiormente sentita la necessità di un’inversione dell’onere probatorio.

Disc. Ma questa necessità da che cosa trae origine?

Doc. Trae origine dalla difficoltà, che il creditore incontra, nell’accertare l’esistenza, o meno, di una colpa nel comportamento del debitore: “Tu, Sempronio, mi vieni a dire che hai guidato bene e che l’incidente si é verificato solo per colpa dell’altro utente della strada, ma io sul luogo dell’incidente non c’ero, come posso dire che é così, o no, come posso individuare le persone che possano testimoniare che é così o no? E tale difficoltà del creditore é ancora maggiore quando egli, per sindacare la diligenza o meno del debitore, dovrebbe avere quelle conoscenze tecniche, che il debitore ha: “come faccio io, Caio, a stabilire se il medico ha fatto bene o male a dare quel farmaco al mio parente infortunato, se io, non avendo mai studiato medicina, non so se e in quali circostanze quel farmaco doveva essere dato? ”.

16. I rimedi dati contro l’inadempimento.

Disc. Sempronio che contrattualmente si era obbligato ad A verso Caio, si rende inadempiente: il Legislatore dà degli strumenti a Caio per rimediare al danno, che l’inadempimento di Sempronio gli procura?

Doc. Sì, e questi rimedi sono tre: 1) la esecuzione coattiva dell’obbligo (inadempiuto) - esecuzione che naturalmente può essere disposta solo dall’A.G., e che quindi presuppone una domanda a questa in tal senso da parte del creditore; 2) la risoluzione del contratto; 3) il risarcimento del danno.Adottando il rimedio sub 1, Caio accetta implicitamente il diritto di Sempronio a chiedere la prestazione a cui lui (idest, Caio) si é obbligato; adottando il rimedio sub 2, Caio si libera dell’obbligo a lui gravante, ma naturalmente rinuncia a chiedere a Sempronio l’adempimento del obbligo che su di lui (idest su Sempronio) grava. Quanto al risarcimento del danno esso di regola serve a eliminare i danni che residuano dopo l’attivazione dei due rimedi precedenti; ma in teoria nulla esclude che Caio, accetti (non presentando una domanda di adempimento) che la prestazione

gravante su Sempronio resti ineseguita, accetti che ciò nonostante Sempronio continui a vantare un diritto su di lui (salva la exceptio inadimpleti di cui all’articolo 1460) e si limiti a pretendere il risarcimento dei danni che da tale situazione a lui derivano.

Disc. Da che articolo risulta ciò?

Doc. Risulta dall’articolo 1453, che (sotto la rubrica “Risolubilità del contratto per inadempimento”) recita: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”.

Disc. Presupposto dell’attivazione dei rimedi sopra elencati é il semplice inadempimento?

Doc. La risposta alla tua domanda, così come l’hai formulata, é, sì (questo per le ragioni dette nella precedente lezione). Se invece mi domandi, se, in una causa tendente all’adempimento o alla risoluzione o al risarcimento, si deve accertare l’esistenza di una colpa in ademplendo del debitore, io ti rispondo: certe volte, sì, certe volte, no.

Disc. Quando, “sì” e quando, “no”.

Doc. Di regola si dovrà accertare la colpa (o il dolo), quando il preteso inadempimento riguarda un’obbligazione di mezzi; mentre non si dovrà accertare la colpa (o il dolo), quando il preteso inadempimento riguardi un’obbligazione di risultato.Disc.Ma, presupposto della domanda di risarcimento, sarà pur sempre la colpa (o il dolo) del debitore.

Doc. Non é detto: alcune volte,lo sarà, altre, no. Se, per esempio, Tizio, che ti deve dare il giorno quindici un milione, il giorno quindici si rende uccel di bosco e non ti dà un bel nulla, egli é obbligato a risarcirti della sua inadempienza, anche se questa é incolpevole (metti, perché dei malvagi rapinatori l’hanno lasciato senza un euro in tasca: come avrebbe potuto pagarti?).Tieni presente che pure la regola che la domanda di adempimento e di risoluzione

vanno accolte, a prescindere dell’accertamento di una colpa del debitore, nel caso la obbligazione inadempiuta sia “di risultato”, ha le sue eccezioni.

Disc. Dammene un esempio.

Doc. Caio, che é un albergatore, ha commissionato a Sempronio la costruzione di un suo nuovo albergo. Sempronio lo costruisce, ma con un “vizio”: manca la ringhiera alle scale.Quello che é stata inadempiuta é senza dubbio un’obbligazione di risultato, direi anzi la tipica obbligazione di risultato. Però, ecco la eccezione che conferma la regola, il giudice, sul semplice presupposto dell’inadempimento, non accoglierà tutte le domande proposte da Caio (per ottenere l’eliminazione del danno causatogli dall’inadempimento stesso). Accoglierà, sì, su tale semplice presupposto, la domanda tendente all’eliminazione del vizio (con l’apposizione delle ringhiere); ma, se Caio avrà domandato il risarcimento per la ritardata apertura al pubblico dell’albergo, allora, no: il giudice subordinerà, l’accoglimento di tale domanda, all’accertamento di una colpa di Sempronio (vedi art. 1668).Mutatis mutandis il discorso può ripetersi nel caso di vizi della cosa venduta (vedi l’articolo 1492): anche qui le domande tendenti all’eliminazione del vizio (o alla riduzione del prezzo), cioé le domande volte a far valere il c.d. obbligo di garanzia, non necessitano, per essere accolte, dell’accertamento della colpa (o del dolo); le altre domande, invece, ancorché nascenti pure esse dall’inadempimento, ne necessitano.

Disc. Ma al creditore sarà sempre concesso di utilizzare tutti e tre “rimedi” (sia pure con l’onere di optare o per la domanda di adempimento o per quella di risoluzione)?

Doc. No. Ritorniamo all’esempio di Caio, committente deluso dall’operato dell’appaltatore Sempronio: egli non potrà chiedere la risoluzione del contratto a causa dei vizi riscontrati (a meno – vedi ultimo comma dell’art. 1668 “le difformità o i vizi dell’opera siano tali da renderla inadatta alla sua destinazione”).E così, per trarre un altro esempio dalla garanzia per vizi (ma questa volta relativa, non all’appalto, ma alla vendita – art. 1492) Caio, che ha comprato un computer viziato, potrà chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione dei vizi, ma non l’esecuzione in forma specifica (cioé la consegna di un altro computer o la eliminazione dei vizi).

Disc. Tanto premesso, possiamo passare ad esaminare i vari “rimedi” concessi

dall’articolo 1453.

Doc. In realtà ci potremo limitare all’esame del “rimedio” dato dalla risoluzione del contratto. Infatti al risarcimento del danno sarà bene riservare una lezione ad hoc; e sulla domanda di adempimento c’é poco da dire.

Disc. Dì allora, per prima cosa, quali sono le conseguenze, che comporta la risoluzione del contratto: Caio e Sempronio hanno stipulato un contratto di appalto e Caio ne ha ottenuta la risoluzione: cosa comporta ciò, sia per Caio sia per Sempronio?

Doc. Caio sarà liberato dall’obbligo di pagare il prezzo dell’appalto (effetto liberatorio della risoluzione); anche Sempronio sarà liberato dalla sua obbligazione, ma potrà essere gravato sia da un obbligo restitutorio (se avesse ricevuto un quid avrà l’obbligo di restituirlo - e abbiamo già visto in una precedente lezione che a tale obbligo non si applicano le norme sulla restituzione dell’indebito) sia da un obbligo ripristinatorio (qualora Sempronio avesse cominciato ad alzare un piano dell’edificio costruendo, dovrebbe demolirlo e liberare dai residui il terreno).

Disc. Ma addossare all’appaltatore l’obbligo restitutorio di cui sopra non contrasta con il quarto comma dell’articolo 936?

Doc. Ma tu vorresti sostenere che il committente deve tollerare sul suo terreno quell’aborto di costruzione fatto da Sempronio? Non sarebbe ciò contrario alla ratio dell’articolo 1453, che mira a sollevare il creditore di tutte le conseguenze negative dell’inadempimento? Chiaro, che sì. E il fatto che l’obbligo ripristinatorio si pone in contraddizione all’art. 636, ci dimostra solo che é semplicistico dire, che i diritti e gli obblighi delle parti nascenti dalla risoluzione, vanno determinati nel presupposto che tra esse non ci fosse stato mai un contratto. Questo invece c’é stato e bisogna tenerne conto (altrimenti neanche l’obbligo risarcitorio del debitore avrebbe senso: perché mai addossare a Sempronio l’obbligo di risarcimento, se si deve partire dal presupposto che nessun contratto vi é stato tra Sempronio e Caio? Se non vi é stato nessun contratto, non vi é stato neanche nessun inadempimento e quindi non vi può essere nessun obbligo nascente dall’inadempimento).

Disc. Però parecchio pesanti possono diventare le conseguenze di una risoluzione del contratto per il debitore.

Doc. Proprio per questo il legislatore pone un limite generale alla risolubilità dei contratti. Limite espresso dall’articolo 1455, che (sotto la rubrica “Importanza dell’inadempimento”) recita: “Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”.

Disc. Quello della “scarsa importanza” dell’inadempimento, non mi pare un criterio molto chiaro e sicuro per decidere sulla risoluzione di un contratto; e, penso, che l’applicazione di tale articolo darà luogo a una frequente litigiosità tra le parti (con conseguente perdita di tempo e di denari).

Doc. E’ proprio così. E, proprio perché é così, il Legislatore dà alle parti la possibilità di indicare concordemente, in via preventiva, quando un inadempimento non deve considerarsi di “scarsa importanza”. Più precisamente l’articolo 1456 (sotto la rubrica “Clausola risolutiva espressa”) recita: “I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite.In questo caso la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”.

Disc. Le parti possono anche concordare che un termine debba considerarsi “essenziale”, nel senso che, se non vi é adempimento della obbligazione entro tale termine, il contratto si risolve?

Doc. Sì. E in tal caso, come risulta dall’articolo 1457, la risoluzione si verifica anche se la parte interessata non ha dichiarato di volersi valere della clausola, che stabiliva la essenzialità del termine.

17. Noterelle sul risarcimento dei danni da fatto illecito

Premessa – Nel trattare la non facile materia del risarcimento dei danni da fatto illecito, ci é sembrato, più facile per noi e più utile per il lettore, procedere con brevi “noterelle”, in cui, partendo da una caso concreto, passiamo a fare brevi osservazioni ( si spera utili a chi ci legge ).

Prima noterella – Rossi alla guida della sua autovettura investe quella del ragionier Bianchi e la rende un rottame. Un bene componente la ricchezza nazione é andato perduto e occorre ricostituirlo spendendo, ahimé, dei soldi, metti, diecimila euro.

Prima domanda : questi soldi dovranno uscir fuori dal portafoglio dell'investitore Rossi o da quello dell'investito Bianchi ? Risposta, che tutti, nel caso, sapremmo dare: ad essere salassato dovrà essere il portafoglio di Rossi, il quale, presi diecimila euro, li dovrà passare a Bianchi - così che di conseguenza il patrimonio di Rossi subirà una contrazione ( più o meno dolorosa ) mentre quello di Bianchi, ( non aumenterà certo, ma almeno) sarà riportato al livello ante-incidente .

Seconda domanda : perché il legislatore trasferisce il danno subito da Bianchi su Rossi?

Risposta : per due motivi.

Primo motivo: perché su Bianchi grava il sospetto ( e molte volte la prova ) di aver causato l'incidente tenendo un comportamento ( metti, caratterizzato da imprudenza, guida a velocità eccessiva ) che lo qualifica, non solo come cattivo guidatore, ma anche come cattivo amministratore del suo patrimonio ( patrimonio che, non solo lui, ma anche lo Stato ha interesse sia ben gestito ). Ora lo Stato , dovendo necessariamente prodursi la diminuzione di un patrimonio ( quello di Bianchi o quello di Rossi ) , quale sarà il patrimonio che avrà interesse a veder diminuito ( a preferenza dell'altro) ? Ovviamente quello di Rossi su cui grava il sospetto di essere un cattivo amministratore, e non quello di Bianchi che ( così si spera fino a prova contraria! ) é un buon amministratore.

Secondo motivo ( per cui Lo stato trasferisce il danno dall'investito all'investitore ) : perché così facendo é come se mandasse un messaggio a tutti coloro che sarebbero tentati di comportarsi negligentemente o imprudentemente alla guida della loro auto : “Attenti, essere negligenti o imprudenti, vi può costare caro, come é costato caro a Bianchi”. E tale messaggio, così si spera, avrà l'effetto di diminuire i danni conseguenti alla circolazione automobilistica.

Seconda noterella – Nella prima noterella ci siamo messi nel caso in cui chi ha causato un danno é obbligato al suo risarcimento. Ma tutti i danni vanno risarciti ? Facciamo questo caso : Bianchi, un bel giorno ha un'idea : costruire in quel tal suo terreno su cui ora nascono solo sterpaglie un grattacielo. Buona l'idea per Bianchi, che vedrà elevarsi insieme al grattacielo la quantità di soldi che ha nel portafoglio, ma apportatrice di grave danno al vicino, Rossi : questi, che ogni mattina , alzatosi da letto, poteva bearsi della stupenda vista del golfo di Genova, una volta costruito il grattacielo, dovrà rassegnarsi a guardare solo dell'arido cemento. Domanda : Rossi per il danno che riceve può ottenere un risarcimento ? No perché si ha diritto al risarcimento, non per ogni danno ( subito ) ma solo per i danni consistenti nella

lesione di un interesse che il legislatore tutela imponendo, a chi lo lede, un obbligo risarcitorio - ci si perdoni la tautologia ). Quindi , perché esista un obbligo risarcitorio non basta che sia leso un interesse tutelato giuridicamente, occorre che tale interesse sia tutelato con l'imposizione di un obbligo risarcitorio. E' importante rilevare ciò perché ci sono interessi che sicuramente il legislatore ritiene meritevoli di tutela, ma che non tutela imponendo un obbligo risarcitorio a chi li lede. Esempio : la autovettura di Bianchi viene ridotta a un rottame da quel cattivo e spericolato conducente che é Rossi . Naturalmente ciò viene a creare non pochi disagi a Bianchi ( scrivere all'assicurazione, andare in ufficio nella ressa di un treno regionale anziché comodamente nella sua auto...) - e chiaramente tutto ciò rende rabbioso, verso Rossi, Bianchi ( che ben volentieri, se il codice penale non glielo impedisse, darebbe una legnata a Rossi ) : insomma con il suo comportamento colposo Bianchi é venuto a ledere, non solo un interesse patrimoniale di Bianchi, la perdita dell'auto ( creando così un danno che senza dubbio dovrà risarcire ), ma anche suoi interessi non patrimoniali e in particolare il suo interesse a condurre una vita serena e non rosa dalla rabbia e dai litigi. Questi interessi non patrimoniali sono ritenuti meritevoli di tutela dal legislatore ? Senza dubbio, sì , e tanto é vero che se se Bianchi avesse distrutto l'auto di Rossi, non colposamente ma dolosamente, il giudice lo avrebbe condannato a risarcirli. E tuttavia nel caso che la loro lesione avvenga colposamente, risarciti non sono. Vedremo poi il perché . Ora ci basta aver fatto rilevare l'erroneità dell'assunto che vuol fare derivare dal semplice fatto che una norma costituzionale ritenga meritevole di tutela un interesse ( metti, l'interesse alla libertà ) deducono che il Legislatore ( addirittura il Legislatore costituzionale ) voglia obbligare al risarcimento chi , tale interesse, lede.

Terza noterella- Il laborioso Bianchi nel compiere una delle sue attività ha omesso un quid. Qualsiasi buon cittadino ( qualsiasi bonus pater familias, per usare un'espressione inflazionata nel parlare di noi giuristi ) sarebbe caduto nella stessa omissione dato che in fondo c'erano solo tre probabilità su mille che da essa un qualche danno derivasse. Il diavolo ci mette la cosa, e dall'omissione un danno si verifica. E' giusto condannare Bianchi al risarcimento anche se ogni bonus pater familias si sarebbe, come lui, comportato? Io rispondo di sì. Ma, mi si può contestare, non é eccessivo obbligare a un risarcimento, che potrebbe essere molto gravoso, chi ha commessa, sì, un'omissione, ma quando questa aveva solo tre probabilità su mille di causare un danno ?

Risposta a tale obiezione, che parrebbe dettata dal buon senso ( e che invece é solo dettata da un superficiale sentimentalismo ) : no, non é eccessivo : tale può apparire

solo quando si ponga mente al momento della applicazione delle pena e non a quello della sua minaccia : infatti la minaccia rivolta dal legislatore a Bianchi “Se tieni il comportamento A ci sono tre probabilità su mille che ti obblighi al risarcimento” , é perfettamente congrua col fatto che vi sono tre probabilità su mille che dal comportamento A derivi un danno: forse che la severità di una sanzione ( se come tale vogliamo considerare il risarcimento ) non dipende, sì, dal quantum di pena minacciato, ma anche dalle probabilità che tale quantum di pena sia affettivamente applicato ?!

Questa osservazione, valida per il penale, ancor più valida é per il civile : Rossi ha causato un danno di centomila a Bianchi con un comportamento che aveva tre probabilità su mille di provocare tale danno : si tratta di stabilire, se del peso di tale danno va gravato il patrimonio di Rossi o quello di Bianchi. Si dice : é ingiusto gravare quello di Bianchi perché vi erano solo tre probabilità su cento che il danno si verificasse ; bene, si può rispondere, ma questo é un buono motivo per lasciare il danno sulla gobba di Bianchi ? forse che anche per lui non vale il ragionamento

“ solo tre probabilità vi erano ecc.ecc.”? Quando i piatti di una bilancia sono in perfetto equilibrio basta una piuma per farla pendere da un lato anziché dall'altro ; e la piuma in subiecta materia é che, chi era nella posizione migliore per evitare il danno, volere o volare, era Rossi e non Bianchi. E' per questo che gli antichi giureconsulti insegnavano “In lege aquilia ( cioé in materia di risarcimento di un danno causato da fatto illecito) etiam levisissima culpa venit”.

Inoltre va considerato che l'alternativa alla soluzione proposta è....l'assoluto arbitrio lasciato al giudice in materia di risarcimento. Infatti il giudice per decidere se condannare o no ( al risarcimento ) Rossi, deve accertare due fatti : primo, che dal comportamento di Rossi derivavano tot probabilità che un danno conseguisse; secondo, che alla constatazione che dal comportamento A avrebbero potuto conseguire tot probabilità di danno, ogni pater familias si sarebbe astenuto da esso. E sia nell'accertamento del primo che del secondo fatto non ha nessuna guida sicura ( chi può dire veramente se le probabilità di danno sarebbero state tot o tot + 10 o tot meno dieci? chi può dire veramente se un pater familias, questo fantomatico personaggio che noi giuristi tanto spesso introduciamo nei nostri discorsi, davanti a tot probabilità di danno si sarebbe astenuto dall'agire o no ? ), tutto é rimesso a una valutazione arbitraria del giudice, tal chè é perfettamente verosimile che due diversi giudici perverrebbero a due soluzioni diametralmente opposte della medesima causa e non si saprebbe dire chi dei due ha visto giusto e chi sbagliato. D'accordo si dirà a questo punto, non facciamo dipendere la condanna al risarcimento di Rossi dall'accertamento della sua colpa, dato che tale accertamento inevitabilmente é

arbitrario e opinabile, ma l'alternativa qual'é ? Rispondo: fare dipendere la condanna sic et simpliciter dall'accertamento del nesso di causalità tra il comportamento del Rossi e l'evento dannoso; dato che questo accertamento verte su fatti obiettivi e di solito facilmente accertabili . Questo salvo che nei casi in cui il danno derivi da attività, pericolose ma permesse dal legislatore in considerazione della loro utilità . Ma di questa eccezione e del suo perché ci riserviamo di dire in seguito.

A questo punto chi ci legge sarà curioso di sapere quel che dice il codice . Ecco quel che dice ( nell'art. 2043 ) : “Qualunque fatto doloso o colposo , che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Quindi, quel che ha scritto il legislatore nel codice, sembrerebbe rigettare la soluzione da noi proposta . Ma che importa quel che ha scritto un legislatore nella cui testa si riflette tutta la confusione presente in quella di coloro che dovrebbero guidargli la mano, i giuristi

Quarta noterella- Rossi guidando la sua auto a eccessiva velocità, 90 Km/h, cozza contro quella di Bianchi, anche lui procedente a eccessiva velocità, 60 Km/h. Sempronio, che si trovava nell'auto di Bianchi subisce in seguito all'incidente danni, metti pari a cento. L'incidente é addebitabile sia al comportamento imprudente di Rossi sia a quello di Bianchi: chi dei due tirerà fuori dal suo portafoglio i soldi necessari per risarcire Sempronio? Rossi, Bianchi o tutti e due?

Se fosse vero, così com'é vero, che, in caso di distruzione di un bene costituente la ricchezza nazionale, il Legislatore ritiene giusto accollare il relativo danno a chi, cagionandolo, si é comportato colposamente, in quanto ravvisa in tale suo comportamento colposo un indice della sua incapacità ad amministrare con la dovuta diligenza un patrimonio (nell'interesse suo e della società tutta), ebbene, se questo fosse vero, ci si dovrebbe aspettare a rigor di logica che il legislatore accolli tutto il risarcimento solo a quello, dei due concausanti l'incidente, che ha tenuta la condotta più colposa: a Rossi,quindi, che andando a 90 Km/h (mentre Bianchi andava a solo 60 Km/h) ha dimostrata maggiore imprudenza e quindi minore capacità ad amministrare di Bianchi. E infatti, così ci si dovrebbe aspettare, in prima battuta il Legislatore dovrebbe giungere a questa conclusione: è preferibile che io legislatore accolli il danno, non a Sempronio ma a Rossi e Bianchi; e, in seconda battuta dovrebbe giungere a quest'altra conclusione: dovendo scegliere se accollare il risarcimento in parte al Rossi e in parte al Bianchi oppure se accollare al Rossi anche la parte di risarcimento spettante al Bianchi, io, legislatore scelgo la seconda soluzione e accollo tutto il risarcimento al Rossi , e infatti é meglio sottrarre il più possibile beni al patrimonio del Rossi che ne è presumibilmente un cattivo

amministratore e lasciare integro il patrimonio del Bianchi, che é presumibilmente un migliore amministratore del Rossi. Invece il legislatore obbliga al risarcimento sia Rossi che Bianchi, sia pure in proporzione delle rispettive colpe. Questo con l'art. 2055 cod. civ., che recita : “Se il fatto dannoso é imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. - Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. - Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”.

Perché questo? Perché, contro la soluzione di addebitare tutto il risarcimento (che potrebbe essere gravosissimo) a Rossi, depone l'esigenza di evitare il più possibile che la gestione di un patrimonio sia posta in crisi dalla necessità di sostenere una spesa (nel caso la spesa che comporta il risarcimento) troppo forte. E infatti, la necessità di provvedere a una grossa spesa improvvisa, può costringere chi gestisce un patrimonio a operazioni antieconomiche (e, quindi, nocive alla società tutta: ad esempio, vendere, e a vil prezzo, quella macchina trebbiatrice che tra pochi mesi permetterebbe di portare a termine un ottimo raccolto di grano).

Quinta – Rossi mentre guidava a velocità eccessiva investe il pedone Bianchi mentre questi imprudentemente attraversava la strada. Bianchi subisce danni, pari, metti, a cento.

Come nel caso studiato nella precedente “noterella” anche qui vi é un concorso di colpa nella causazione del danno. La particolarità é che uno dei concorrenti nella causazione del danno é quello che l'ha subito: in altre parole, Bianchi si é autodanneggiato.

Nel caso, il legislatore mette a carico anche di Bianchi una parte del risarcimento (cosa che in pratica ottiene riducendo l'obbligo risarcitorio di Rossi). Infatti il primo comma dell'art. 1227 cod. civ. recita : “Se il fatto colposo del creditore (nell'esempio, Bianchi) ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento é diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”.

E' chiara la logica della disposizione legislativa: il cittadino che comportandosi imprudentemente o negligentemente danneggia la sua persona o i suoi beni danneggia, sì, se stesso, ma anche la società tutta. Quindi il legislatore carica su Bianchi parte del risarcimento per dire a tutti i cittadini “Attenti, non pensate di esporvi con leggerezza al rischio di subire i danni causati dalla colpa contando che, intanto, pagherà il il terzo che vi ha danneggiato. Non sarà così: certo parte del danno io lo accollerò a chi vi ha danneggiato, ma parte la accollerò a voi”.

A questo punto ci si domanderà: se il legislatore ritiene giusto sanzionare la colpa di chi danneggia le cose proprie concorrendo con la colpa altrui, perché non sanziona la colpa di chi distrugge le cose proprie a prescindere del concorso di una colpa altrui (perché non sanziona la condotta di Caio che con la sua imprudenza ha portato la sua auto a sfracellarsi contro un muro?). Se vi fosse una logica nelle leggi umane, l'unica risposta che si potrebbe dare a tale domanda non potrebbe essere che questa: il legislatore non sanziona la colpa di chi si autolede o lede le sue cose, per la difficoltà che incontrerebbe ad accertare tale colpa mancando chi avesse (essendone danneggiato) interesse a denunciarla.

Sesta noterella- Un legislatore può rinunciare al risarcimento di un danno “ingiusto” ( in quanto lesivo di un interesse meritevole di tutela ) in considerazione dell'impossibilità di giungere a una quantificazione del risarcimento di tal danno che non sia arbitraria– e questo perché preferisce l'ingiustizia di non risarcire tale danno all'ingiustizia di sentenze che venissero ad attribuire a danni perfettamente identici risarcimenti diversi ? E' quel che cercheremo di vedere in questa e nelle seguenti due “noterelle” .

Prima cosa, vediamo qual'é il danno che effettivamente si risarcisce e cosa singifica risarcirlo, partendo dall'esame dei seguenti due casi.

Rossi I, guidando spericolatamente ha fatto vil rottame della splendida fuoriserie di Bianchi I. Rossi II, sempre guidando spericolatamente ha mandato all'ospedale Bianchi II, da cui questi, entrato con due gambe, ne é uscito con una gamba sola, l'altra essendogli stata imputata.

Tanto premesso, domandiamoci qual'é il danno che ha subito Rossi I: Si dirà, il suo danno é di aver persa la sua bella autovettura. No, la perdita dell'autovettura é solo la perdita di uno strumento, la vera perdita è quella delle cose uitli e belle che il Rossi realizzava usando tal strumento. Prima, avendo la macchina, poteva alla domenica andare al mare, fare dei bellissimi tuffi, di giorno, di notte andare a ballare, poteva nei giorni feriali andare al lavoro per guadagnarsi il suo bel stipendio e frequentare quel club in cui poteva fare conoscenze utili per aumentare ancor più tale stipendio e....potremmo continuare ma qui pensiamo di poterci firmare. E infatti a questo punto é facile dire qual'é il vero danno subito da Rossi I : é il non poter più andare al mare, non poter più andare in ufficio, non poter più andare al club (….).

Passiamo ora al secondo caso da noi preso in esame e poniamo che Bianchi II avesse gli stessi gusti e gli stessi interessi di Bianchi I : anche lui alla domenica se ne andava al mare, anche lui nei giorni feriali se ne andava in ufficio e al club eccetera eccetera.

Se ora domandiamo a chi ci segue, quali sono i veri danni subiti da Bianchi II , egli in base a quanto detto prima, senz'altro dirà : i veri danni subiti da Bianchi II , non sono dati dalla perdita della gamba in se e per sé : la gamba era semplicemente uno strumento, i veri danni sono dati dalla perdita delle cose utili e belle che Bianchi II si procurava utilizzando tale strumento :fare dei bei tuffi e ballare, la domenica, recarsi al club nei giorni feriali ecc.ecc.

Se tale risposta fosse giusta e lo é, noi dovremmo concludere che i danni subiti da Rossi I sono ( almeno in gran parte ) dello stesso tipo di quelli subiti da Rossi I. Giunti a tale conclusione, poniamoci le seguenti due domande.

Prima domanda : cosa significa dire che Bianchi I e BianchiII hanno subito un danno? Dovendo andare funditus ( e non rimanere alla superficie del problema ), a tale domanda dobbiamo rispondere: significa dire che in seguito all'incidente di cui sono stati vittime Bianchi I e Bianchi II il loro stato di “bene essere” si é abbassato ( non potendo più fare i tutti, andare al club...). Seconda domanda : e che cosa significa risarcire Bianchi I I e Bianchi II ? Significa ripristinare lo stato di “ben essere” che prima avevano.

Il che é facile nel caso di Bianchi I : nel suo caso non occorrerà neanche domandarsi quali cose “belle e utili” egli poteva procurarsi quando aveva la macchina, per poi industriarsi a procurargliene di altrettante. No, basterà comprargli un'altra macchina ( o dargli i soldi perché se la compri da sé ). Fatto questo si sarà ridato a Bianchi I lo strumento perché possa procurarsi da sé le cose che prima dell'incidente gli erano utili o lo facevano felice. Questo tipo di risarcimento che é di facile attuazione e non dà adito al pericolo che si elevi il benessere di Bianchi ( dalla bassura in cui era caduto ) a un livello inferiore a quello che aveva al momento dell'incidente ( o, perché no? a un livello superiore ) si chiama risarcimento patrimoniale . Perché, “patrimoniale”? Perché molto semplicemenet si ottiene ricostituendo il patrimonio di Bianchi I al livello quo ante : ricostituendo il patrimonio di Bianchi a tale livello si riporta sicuramente anche il suo livello di “ben essere” al livello quo ante.

Ben più complicato é il risarcimento dei danni subiti da Bianchi II ( ancorché tali danni siano in definitiva dello stesso tipo di quelli subiti da Bianchi I). Ma questo lo vedremo nella prossima noterella.

Settima noterella- Torniamo a parlare del povero Bianchi II, che, nell'incidente causato dalla imprudenza di Rossi II, ha perso una gamba. E vediamo, più analiticamente di quanto ci é stato possibile fare nella precedente “noterella”, i danni

che ha subito. Con qualche piccola imprecisione, che il lettore ci perdonerà data la natura del presente lavoro , essi si possono così elencare:

I- Perdita della serenità psicologica, dovuta alla frustrazione e alla rabbia, da lui provata per il torto subito ( “Che rabbia vedersi così ridotto dalla imprudenza di un cretino!”);

II- Perdita della serenità psicologica dovuta all'angoscia per il futuro problematico che l'aspetta ( “Che altri dolori mi attendono ? riuscirò a superare le difficoltà che la mutilazione mi arreca?”);

III- Dolori fisici ( subiti durante la degenza in ospedale...);

IV- Rinuncia a varie cose belle della vita ( farsi una bella nuotata, ballare....);

V- Rinuncia a varie cose utili della vita ( quella frequenza al club che gli procurava amicizie utili per avanzamenti in carriera....);

VI- Rinuncia a quel suo lavoro che gli procurava un bel stipendio mensile di euro duemila grazie al quale poteva, procurarsi le belle cose A e B ( una crociera? un pranzo sontuoso?...) e allontanare le brutte cose C e D ( un mal di denti ? il gelo di un inverno rigido?...).

Vediamo se e come sono risarcibili i danni sopra elencati.

Danni sub VI- Essi sono senz'altro facilmente risarcibili , con la stessa tecnica vista nella precedente “noterella” : quanto guadagnava Bianchi II prima dell'incidente ? cento al mese ? Ebbene gli si dà ogni mese cento ( o, più sbrigativamente, gli si dà la somma, che rappresenta la capitalizzazione di cento misurata sulla sua presumibile vita lavorativa , in modo che, investendola, Bianchi II possa avere il reddito di cento ) e con quei cento Bianchi II ritornerà ad avere la possibilità di procurarsi le benefiche cose A e B e di allontanare le malefiche cose C e D. Chiaramente i calcoli così fatti presenteranno un margine più o meno ampio di discrezionalità : le statistiche dicono che a Bianchi II sarebbero rimasti venti anni di vita lavorativa, ma é pur vero che la vita lavorativa di Bianchi II potrebbe essere minore ( metti a causa di un licenziamento o di un nuovo incidente, questa volta mortale ); sempre secondo le statistiche, lo stipendio di Bianchi II sarebbe aumentato dopo dieci anni di altri cento, ma come si può escludere che tale aumento di stipendio Bianchi II , grazie alla sua straordinaria efficienza, lo avrebbe raggiunto dopo soli cinque anni ? Peraltro questa possibilità di errori é limitata dai metodi di calcolo, particolarmente sofisticati, oggi usati dagli esperti in infortunistica.

Danni sub V – Per i danni a Bianchi II dipendenti da quegli aumenti di stipendio che, le utili frequentazioni del club, gli avrebbero potuto procurare, si farà il calcolo di probabilità del loro effettivo realizzarsi e ,come visto prima commentando i danni sub VI. mutatis mutandis, si darà a Bianchi II, a tacitazione di tali danni, una somma di denaro.

Veniamo ora a dire dei restanti danni sub IV,III,II,I.

Danni sub IV, III,II,I . Ahimé qui si palesano tutti i limiti che incontra il giurista nel risarcire un danno. Egli ha come strumento per fare ciò solo dei soldi. Ma questo strumento é valido solo quando una persona é stata privata ( dal comportamento colposo o doloso di un'altra ) di soldi ( o di cose che si possono tramutare in soldi o che si possono acquistare con i soldi ). Ma dimmi tu, come risarcisci Bianchi II del piacere che dà una bella nuotata o un tenero ballo sotto il chiaro di Luna? Dimmi tu, come ripaghi i dolori fisici e psichici che Bianchi II ha subito in seguito con l'incidente ? Con i soldi?!

Si dirà , ma si possono dare a Bianchi II tanti soldi che egli possa fare o procurarsi cose che gli danno piaceri equivalenti a quelli che ha perduto o che lo ripaghino dei dolori subiti, non é vero che chiodo scaccia chiodo ? Sì, è vero (o almeno si può fingere che sia vero). Però non c'é chi non veda l'arbitrio in cui può cadere un giudice nel calcolare, in una siffatta maniera, le somme da dare a Bianchi II per risarcirlo dei danni di cui stiamo ora parlando. Come può, il giudice, sapere quanto ( in felicità, in piacere ) rappresentava per Bianchi il fare questo o quello ? Come egli può sapere quanto ( in felicità, in piacere ) possono per lui rappresentare quelle cose che, con i soldi datigli in risarcimento, egli si potrebbe procurare ? Dall'inevitabile arbitrarietà di un calcolo del risarcimento siffatto, c'é ben da aspettarsi l'ingiustizia di una sentenza che dia troppo o troppo poco e l'ingiustizia insita in due sentenze che risarciscono con somme differenti identici danni.

.Verò é che, in materia di danni alla persona, almeno questa seconda forma di ingiustizia viene eliminata dalla tecnica risarcitoria adottata dai nostri giudici. In che consiste tale tecnica ? Detto in estrema sintesi consiste in questo. Si attribuisce all'integrità fisica e alla salute un dato valore, metti un milione. Poi si attribuisce ( più o meno arbitrariamente ) a questo o a quel organo del corpo umano una percentuale – che é la percentuale con cui la malattia o la perdita di quel organo diminuisce l'integrità o la salute di una persona. A questo punto il calcolo diventa semplice : tu, Bianchi II, hai, in seguito all'incidente, persa una gamba ? qual'é la percentuale attribuita alla perdita di una gamba? 10 per cento ? Allora ti tocca in risarcimento un milione diviso cento moltiplicato per dieci. Si tratta senz'altro di una tecnica che riduce il pericolo di una contraddittorietà delle sentenze ( dato che il

valore da darsi alla salute e ai vari tipi di lesione che la possono diminuire é scritto in “tabelle a cui tutti i giudici debbono uniformarsi) e che é anche molto.......democratica, ma si tratta anche di una tecnica risarcitoria molto rozza: dal momento che il risarcimento ha la funzione di riportare il danneggiato allo stato di “ben esser” che aveva prima dell'incidente, nel calcolarlo si dovrebbe tenere conto dei suoi gusti, dei suoi interessi, e, perché no? della sua ricchezza (sì, anche di questa : se io dò centomila, come risarcimento della gamba amputatigli, a Lazzaro che é abituato a dormire sotto i ponti e a mangiare fagioli e patate, egli si sentirà al settimo cielo e perfino potrebbe spingersi a dire grazie a chi lo ha investito, se li dò a un miliardario, questi ci sputerà sopra ).

Ma a questo punto il lettore si domanderà : ma che ha deciso il legislatore, ammette egli il risarcimento dei danni non patrimoniali ? L'ammette con dei limiti ( evidentemente preferendo l'ingiustizia di non risarcire alcuni tipi di danno, all'ingiustizia di un risarcimento calcolato in modo arbitrario e col risultato che identici danni potrebbero essere risarciti in modo diverso da diversi giudici). Ciò risulta chiaramente dall'art. 2059, che recita : “ Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. Quindi la non risarcibilità dei danni non patrimoniali dovrebbe essere la regola a cui solo una norma di legge potrebbe apportare eccezioni. Ora l'unica norma di legge, che fa espressa eccezione alla regola ora detta, é l'articolo 185 Cod. Pen. , che nel suo capoverso recita:“ Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento (….)”. ( E come si spiega tale eccezione? Si spiega col fatto che un risarcimento basato su calcoli arbitrari tende a trasformarsi in una sanzione e ad essere basato su elementi – gravità della colpa, ricchezza del danneggiante (…) - analoghi a quelli di cui il giudice penale deve tenere conto nell'applicazione di una sanzione penale : di conseguenza un risarcimento-sanzionatorio é pur sempre una nota stonata, ma una nota stonata che stride meno ed é tollerabile in un processo penale ).

Va aggiunto però a quanto sopra detto, che la Suprema Corte ha aumentato il numero dei danni che, pur essendo non patrimoniali, sono risarcibili, accogliendo la tesi, autorevolmente sostenuta, che, pur nella mancanza di un esplicita norma in tal senso, debbono essere ritenuti risarcibili i danni non patrimoniali conseguenti alla lesione di un interesse tutelato dalla Costituzione.

Ottava noterella – Abbiamo visto in una precedente “notterella” come Rossi che ha causato un danno a Bianchi veda ridotto il suo obbligo risarcitorio in caso di concorso di colpa di Bianchi. Ricadono però nella previsione legislativa anche casi in cui Rossi, il terzo danneggiante, vede, nel caso di concorso di colpa del Bianchi, il

danneggiato, non solo ridotto, ma addirittura azzerato il suo obbligo risarcitorio. Questo risulta dal capoverso dell'art. 1227, che recita : “ Il risarcimento non é dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.

Il caso classico di applicazione di tale capoverso é il seguente : Bianchi vede che nel suo appartamento vi é un'infiltrazione di acqua partente dal piano superiore : evidentemente il vicino si é dimenticato di chiudere il rubinetto della sua vasca da bagno. L'infiltrazione potrebbe danneggiare preziosi dipinti appesi alle pareti : per evitare ciò bisognerebbe traslocare in una camera asciutta questi dipinti. Bianchi non lo fa: i dipinti sono danneggiati. Ora i casi sono due .

Primo caso ( di dolo ): Bianchi non interviene, non fa nulla per salvare i dipinti, perché fa il ( perverso) ragionamento : “Che i dipinti vadano pure in malora, tanto ci penserà il Rossi a ricomprarmene dei migliori”. In tale caso all'azzeramento di ogni obbligo risarcitorio del Bianchi si arriverebbe già con l'applicazione del capoverso dell'articolo 2055 ( da noi già richiamato nella precedente “notterella” sei e che, come si ricorderà, stabilisce che, i concorrenti nella causazione di un danno, debbono risarcirlo in proporzione della loro colpa : nel caso, la colpa ( più precisamente, il dolo ) di Bianchi sarebbe tale da rendere insignificante il risarcimento di Rossi , cosa per cui é più pratico azzerarlo.

Secondo caso ( veramente, di colpa ) : Bianchi rimane inerte, perché non si rende conto che l'umidità può danneggiare i dipinti. Come spiegare in questo caso l'azzeramento dell'obbligo risarcitorio del Rossi ? Non é cosa facile. La spiegazione più accolta é questa : si deve fare cario a Bianchi di tutto il danno ( escludendo del tutto un obbligo risarcitorio del Rossi ) perché egli ( idest, il Bianchi ) aveva l'obbligo di correttezza di impedire il danno. A noi questa sembra la classica spiegazione che....va spiegata. Posto che un l'inadempimento di un obbligo può essere doloso o colposo, perché mai l'inadempimento colposo di un obbligo che concorre con il comportamento colposo di un terzo deve portare a soluzioni diverse da quelle accolte per il caso di un qualsiasi comportamento colposo che concorra con altro comportamento colposo di un terzo ( soluzioni che, come abbiamo visto, comportano la ripartizione del risarcimento tra i due autori dei due comportamenti ) ? Non si capisce. Il capoverso dell'art. 1227, bisogna riconoscerlo, é un vero busillis!

L'unica proposta passibilmente accettabile di una sua applicazione mi pare questa.

Si applica il primo comma dell'articolo 1227 ( che riduce, ma non annulla il diritto al risarcimento del danneggiato in colpa ) nei casi in cui il Bianchi (futuro danneggiato) si é potuto rendere conto del comportamento colposo del Rossi ( questi andava a velocità eccessiva ) quando per il suo comportamento colposo ( anche lui andava a

velocità eccessiva ) non poteva porre in essere un comportamento che evitasse il danno.

Si applica il secondo comma ( che azzera il risarcimento ) nei casi in cui il Bianchi, dopo essersi reso conto del possibile verificarsi del danno, avrebbe avuto tempo di adottare un comportamento idoneo a impedirlo, e non l'ha adottato.

Nona noterella -

Bianchi guidando in via Garibaldi a 55 km.h non riesce ad evitare quell'investimento di un passante che invece avrebbe potuto evitare se fosse andato alla velocità regolamentare di cinquanta km.h. : é obbligato a un risarcimento, metti, di centomila euro.

In via Mazzini, nella stessa ora dello stesso giorno. Rossi guida alla velocità pazzesca di 100 km.h : ha fortuna, non investe nessuno, nessun risarcimento deve pagare.

Non stride questa soluzione ? Non sembrerebbe giusto che a pagare i centomila euro fosse il Rossi e non il Bianchi ?

Un altro giorno ma nella stessa via Garibaldi ( dato che ci é piaciuto prendere questa via come teatro dei nostri esempi ) il sig. Lazzaro mal guidando cagiona al sig. Verdi un danno di un milione; il cui risarcimento la vittima ben difficilmente riscuoterà ( Lazzaro, il nome dice tutto,é ,ahimé! nullatenente ).

In via Mazzini, nello stesso giorno e nella stessa ora, il sig. Epulone, anche lui mal guidando, cagiona il danno di cento al signor Viola, il quale é ben sicuro di vedersi risarcito ( Epulano é un miliardario ).

Non stride questa soluzione ? Non sembrerebbe giusto che a Verdi fosse assegnato come debitore il sig Epulone e a Viola il sig. Lazzaro ?

Certo che sì, certo che le soluzioni sopra viste stridono.

Nella società di utopia ( di cui la nostra società non é che una caricatura )lo Stato durante l'anno prenderebbe buona nota, da una parte, di tutti i comportamenti negligenti o imprudenti potenzialmente produttivi di un danno e, dall'altra parte, di tutti i danni verificatisi ; e poi condannerebbe, gli autori dei comportamenti più gravemente imprudenti o negligenti, a risarcire i danni, assegnando, ai danneggiati più gravemente, i colpevoli più ricchi e, ai danneggiati meno gravemente, i colpevoli meno ricchi.

Invece, scesi con i piedi in terra, cosa vediamo ? Vediamo che lo Stato individua quelli, tra gli autori di comportamenti imprudenti o negligenti, da condannare al risarcimento in base al criterio dell'esistenza di un nesso di causalità tra il loro comportamento e un danno verificatosi; e che assegna come debitore del risarcimento di un danno colui che tale danno ha provocato.

E' questo, lo abbiamo visto negli esempi prima fatti, un criterio ben rozzo . Non meno rozzo di una individuazione mediante sorteggio delle persone da condannare al risarcimento ( e del resto, forse che non é pur pura sorte che Bianchi viene condannato al risarcimento e Rossi no ?forse che non é per pura sorte che al sig Viola, che ha subito un danno gravissimo, viene assegnato come debitore un nullatenente ? ).

Però questo criterio viene preferito (da tutti i legislatori, non solo dal nostro ) al sorteggio perché presenta due vantaggi.

Primo vantaggio. Facilita enormemente lo stato nella individuazione di quei colpevoli (di un comportamento colposo) da assoggettare all'obbligo di risarcimento. Questo perché ? Perché sarà il danneggiato stesso che - sapendo che se non individua il responsabile del suo danno non sarà risarcito - si darà da fare per individuarlo e indicarlo all'autorità giudiziaria fornendo le necessarie prove.

Secondo vantaggio: permette di dar soddisfazione al sentimento di vendetta del danneggiato. Mettiamoci nei panni di Bianchi, che si é visto mutilare di un braccio dal Rossi che conduceva la sua auto a una velocità pazzesca : egli vuole vendetta . Un risarcimento a carico di Verdi non può avere lo stesso gusto per lui che un risarcimento a carico di Rossi. E c'é il rischio che, se vedesse condannato a risarcirlo Verdi invece che Rossi , egli correrebbe a casa di questo con un bastone per fargli pagare, es non con i soldi con la pelle, la sofferenza che gli ha causato.

Nella prossima “noterella” vedremo le critiche che all'adozione del criterio del nesso di causalità sono state mosse

Decima noterella -

Da quel che abbiamo detto nella precedente “noterella” risulta che il giudice può pervenire alla condanna, mettiamo di Rossi, al risarcimento dei danni patiti, mettiamo da Bianchi, in base a questo semplice ragionamento :”Io, giudice, condanno Rossi al risarcimento, perché ho accertato :I- che Rossi ha tenuto il comportamento A; II- che l'ha tenuto con colpa o dolo; III- che vi é un nesso di causalità tra il comportamento di Rossi e l'evento dannoso che ha colpito Bianchi ( dove per nesso

di causalità si intende quel che si intende nel parlare comune, in cui si afferma che un dato comportamento ha causato un dato evento quando, mancando tale comportamento, sarebbe mancato anche tale evento ).

Non pochi Studiosi però ritengono viziato tale ragionamento e ne trovano la prova nel fatto che in certi casi può portare a condanne ( secondo loro ) inique. E il vizio che tali studiosi trovano nel ragionamento sopra riportato, non starebbe nel concetto di colpa o dolo ( di cui sub II ) , ma nel concetto di nesso di causalità (di cui sub III ) : occorre pertanto sostituire – essi sostengono - il concetto di causalità naturale ( così essi si riferiscono al concetto di cui sub III) con altri concetti ( di nesso di causalità ).

A questo punto vediamo due degli esempi, che tali Studiosi danno, per dimostrare la fondatezza della loro critica ( al concetto di causalità naturale ).

Primo esempio : Rossi, andandosene in bicicletta, arrivato a un incrocio calcola che nessun altro veicolo sopravvenga e continua dritto : errore, sopraggiunge Bianchi ed egli lo investe:la velocità era tutt'altro che forte, le lesioni subite da Sempronio sono state tutt'altro che gravi, ma ciò non di meno si rende necessario il trasporto di Bianchi all'ospedale. Dove succede il fattaccio : il chirurgo sbaglia l'operazione e...manda al Creatore il povero Bianchi

Secondo esempio : Sempre il solito Rossi investe il solito Bianchi, sempre causandogli lievissime lesioni. Ciò nonostante Bianchi va trasportato all'ospedale : purtroppo durante il tragitto l'autoambulanza viene investita da Tizio, e Bianchi viene ucciso.

In entrambi i casi gli Studiosi di cui sopra pongono la domanda ( retorica) : non é iniquo condannare il Rossi a un risarcimento milionario per aver tenuto un comportamento, che non era assolutamente prevedibile, che potesse causare così gravi danni ? E, a tale domanda rispondendo positivamente, sostengono che il giudice, non deve limitarsi a constatare l'esistenza di un nesso di causalità naturale tra un dato comportamento e il danno, ma deve altresì accertare che, in base alle statistiche ( criterio proposto dai seguaci della “teoria della “causalità adeguata” ) o in base alle cognizioni scientifiche più avanzate ( criterio proposto dai seguaci della causalità scientifica e accolto dalla Corte Suprema di Cassazione ), nessuno potesse prevedere la possibilità che, dal comportamento del Rossi, sortisse il danno poi effettivamente verificatosi.

Che cosa si può contestare alle teorie sopra indicate ( della causalità adeguata e della causalità scientifica ) ?

Primo, che con le loro teorie, non vengono a sostituire, ma solo a integrare il concetto di causalità naturale - ma questa, a dir il vero, non vuol essere una ( malevola ) contestazione, ma solo una correzione, che ci pare utile per sgombrare il “tavolo della discussione” da elementi che potrebbero ingenerare confusione ( confusione già di per sè creata dal nome di “nesso di causalità” dato a quel quid pluris – perché non chiamarlo Pinco Pallino?! - che, per arrivare a una condanna, dovrebbe aggiungersi al nesso di causalità vero e proprio )

Seconda contestazione : le teorie contestate pretenderebbero basarsi su elementi “obiettivi”, cioé che prescindono dalle tecniche usate per l'accertamento della colpa , ma tale pretesa é del tutto infondata. Infatti, per stabilire se il comportamento del Rossi é stato, o no, colposo, come dovremmo procedere ? Evidentemente con una parametrazione, comparazione tra le previsioni fatte dal Rossi ( “Non é prevedibile che all'incrocio sbuchi un altro veicolo” ) e le previsioni fatte da un altro essere umano, chiamiamolo Pinco Pallino ( “Sì, é prevedibile che un veicolo sbuchi; sì é prevedibile – oppure non é prevedibile - che una persona, portata all'ospedale, abbia la sfortuna di morire sotto i ferri di un chirurgo incapace” ). Ora, che le previsioni di Pinco Pallino siano consacrate in documenti statistici o in libroni di medicina ( o , di ingegneria...) non rileva assolutamente : si tratta comunque di previsioni fatte da esseri umani.

Terza contestazione : Non vi é nulla di iniquo se, essendo derivato da un comportamento denotato solo da una levissima culpa un danno gravissimo, l'autore di tale comportamento viene condannato a un ingentissimo risarcimento. Abbiamo visto che tali irrazionalità sono connaturate al sistema di risarcimento che il legislatore ha scelto ( e non poteva non scegliere ). Un danno ( ingentissimo ) si é verificato : il legislatore deve scegliere se accollarlo a Rossi, che lo ha causato sia pure con lievissima colpa, oppure a Bianchi, che di nessuna colpa si é macchiato : tertium non datur. Perché mai si dovrebbe ritenere più giusto far pesare il danno sull'innocente Bianchi anziché sul colpevole Rossi ?

A questo punto, va notato che negli esempi portati a dimostrazione della necessità di liberare Rossi da ogni responsabilità ( per l'inquità ecc.ecc. ) c'é sempre “di mezzo” ( queste parole sono usate a ragion veduta ) un terzo su cui accollare il risarcimento ( il chirurgo maldestro, l'autista che investe l'autoambulanza ). Ed é chiaro il perché : se, per riferirci al secondo esempio, l'autoambulanza fosse stata distrutta, non da un'altra auto, ma, metti, da una bomba sganciata da un aereo, per cui liberare Rossi ( il ciclista maldestro ) dall'obbligo risarcitorio, significherebbe lasciare l'infortunato Bianchi senza risarcimento, la pretesa iniquità di obbligare Rossi a risarcire apparirebbe ancora ? Noi pensiamo di no.

Questa osservazione ci spinge a domandarci se l'equa soluzione dei casi, proposti dai fautori delle teorie della causalità adeguata e della causalità scientifica, non vada basata su una intelligente interpretazione, dell'ultima parte dell'articolo 1223 e del capoverso dell'articolo 1226.

Undicesima noterella- Ben può essere che un evento dannoso una volta verificatosi a sua volta provochi un altro evento dannoso ( che rispetto all'azione causativa del primo evento può giustamente qualificarsi come danno indiretto ). Esempio : Rossi versa della stricnina nel vino di proprietà di Bianchi rendendolo imbevibile – primo evento dannoso; Bianchi beve il vino avvelenato e muore – secondo evento dannoso (“danno indiretto”). Altro esempio : Rossi danneggia l'auto di Bianchi – primo evento dannoso; non potendo utilizzare l'auto per recarsi a un convegno d'affari, Bianchi perde un milione – secondo evento ( “danno indiretto” ) . Altro esempio ancora : Rossi uccide Bianchi, primo evento dannoso; la moglie di Bianchi e l'amante di Bianchi, non ricevendo più l'assegno alimentare, che prima il Bianchi loro passava, cadono in miseria – secondo evento (“ danno indiretto” ).

A questo punto leggiamo, facendo soprattutto attenzione alla sua ultima parte, l'articolo 1223 – il quale recita : “ Il risarcimento del danno (…..) deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.

La ratio di tale articolo viene generalmente rinvenuta, o nella volontà del legislatore di evitare che, chi ha tenuto un comportamento colposo o doloso, venga costretto a risarcimenti troppo gravosi ( essendo il danno verificatosi troppo grande ) o nella difficile prevedibilità dei danni indiretti. Ma entrambe le interpretazioni mancano di un serio fondamento.

Assurdo é infatti far derivare dalla gravosità di un risarcimento la sua esenzione : se si esenta il danneggiante dall'obbligo di risarcire il danno di un milione perché si ritiene troppo “severo” diminuire di un milione il suo patrimonio , si viene, si ripete assurdamente, a diminuire di un milione ( il milione che non viene risarcito ) il patrimonio del danneggiato.

Assurdo anche attribuire all'articolo in esame la volontà di esentare l'autore del comportamento causativo dei danni, da quelli indiretti, perché questi sarebbero da lui difficilmente prevedibili : e infatti vi sono di danni indiretti effettivamente difficilmente prevedibili, ma anche vi sono danni indiretti facilmente prevedibili e addirittura danni indiretti previsti e voluti ( come nel caso di Rossi che versa della

stricnina nel vino di Bianchi per determinarne la morte ) : assurdo pensare che il legislatore abbia voluto fare …..di ogni erba un fascio.

A noi sembra che bastino queste poche osservazioni per convincere che l'articolo 1223, senza una radicale opera di correzione da parte dell'interprete, non é applicabile

( e infatti, é la stessa Corte Suprema di Cassazione a dire che l'articolo 1223 interpretato alla lettera non é applicabile ).

Allora in che senso dovrebbe essere corretto tale articolo ? Secondo noi nel senso che preveda il caso che, dopo che il comportamento colposo ( o doloso ) di Primus ha provocato un evento dannoso , vi sia l'intervento di Secundus, che col suo comportamento potrebbe eliminare o al contrario aggravare il danno già verificatosi : si pensi al caso proposto dai fautori della teoria della causalità adeguata e dai noi riportato nella “noterella” decima : dopo che Rossi gli ha provocato lievi lesioni ( evento primo e “diretto” ) , Bianchi é portato all'ospedale dove deve essere operato dal chirurgo Verdi . Chiaramente il legislatore, in un tal caso, deve fare il massimo di pressione su Secundus ( il chirurgo Verdi ) per spingerlo a fare l'operazione con la dovuta diligenza. Ora tale pressione sarebbe, non irrobustita, ma indebolita dalla previsione di un obbligo solidale di Rossi a risarcire il danno del fallimento dell'operazione : infatti un obbligo solidale di Rossi significherebbe riduzione del risarcimento, che il chirurgo dovrebbe dare in caso di fallimento dell'operazione. Questa non potrebbe essere stata considerata dal legislatore una buona ragione per esentare, l'autore del primo evento dannoso ( il Rossi ), dal risarcimento del secondo

( e indiretto ) evento dannoso ( la morte sotto i ferri di Bianchi ) ? Noi diremmo di sì.

Insomma la ratio dell'articolo 1223 verrebbe ad essere, seguendo la interpretazione qui proposta, la stessa di quella che presiede al capoverso dell'articolo 1226 : si ricorda lo studioso il caso, che abbiamo fatto, di Bianchi, che, accortosi dell'infiltrazione d'acqua provocata da Rossi e che minaccia di distruggere dei suoi dipinti, potrebbe essere tentato di non intervenire (traslocando i dipinti in luogo asciutto), se avesse a credere che comunque il danno della distruzione dei dipinti sarebbe in tutto o in parte risarcito dal Rossi – ciò che opportunamente il legislatore invece gli esclude, appunto col capoverso dell'art. 1226 ?

Disc. A questo punto, penso che noi si possa passare a una rapida rassegna degli articoli in cui il Legislatore contempla varie specie di comportamenti colposi. Cominciamo dall’articolo 2050, il quale (sotto la rubrica “Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”) recita: “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, é tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure

idonee a evitare il danno”.Ma a quali “attività pericolose” si riferisce il legislatore con l’articolo ora riportato? Dico questo perché é ben raro che un’attività non presenti un certo pericolo: solo che io mi limiti a mettere la mia valigia nella reticella del treno, ecco che ho posto in essere un’attività pericolosa, dato che la valigia potrebbe cascare in testa ad un altro viaggiatore.

Doc. Il Legislatore non lo dice; ma sembra chiaro che egli, dettando l’articolo in esame, aveva soprattutto in mente quelle attività portate dal progresso tecnico, che, pur provocando dei danni, sono tollerate nel presupposto che le utilità, che danno alla società, siano superiori a tali danni.

Disc. Ma, la fondatezza di tale presupposto, si può verificare solo dopo che, per un certo periodo di tempo, tali attività sono esercitate: se, le somme ricavate dal loro esercizio (e rappresentative delle utilità, di cui il pubblico per il loro esercizio ha beneficiato), superano le somme dovute a titolo di risarcimento per tutti i danni, da tali attività arrecati, solo allora si potrà dire che l’esercizio di tali attività é vantaggiosa per la società.Ma il legislatore impone all’Autorità tale verifica?

Doc. Direi di no: egli sembra affidarsi alla legge del mercato. E in effetti, se veramente, tutti i danni causati dall’attività (pericolosa), fossero risarciti, qualora l’ammontare di tali risarcimenti superasse i ricavi, chi esercita l’attività sarebbe costretto a dichiarare fallimento, a chiudere.

Disc. Questo però se effettivamente egli fosse obbligato a risarcire tutti i danni. E’ così per l’articolo 2050?

Doc. No, non é così. Infatti, dalla lettura di tale articolo, risulta che il Legislatore esenta dal risarcimento: 1) i danni contro il cui verificarsi la tecnica non offre “misure idonee”; 2) i danni che si verificano nonostante l’adozione delle misure offerte dalla tecnica, in quanto esse si limitano a ridurre la probabilità che si verifichi il danno, ma non lo escludono.

Disc. Quindi risulta dall’articolo 2050, che il legislatore permette l’esercizio anche di attività la cui utilità per il pubblico é inferiore ai danni che esse gli arrecano. Perché questo?

Doc. Il “perché” può essere il più vario: perché l’attività é utile alla difesa nazionale, perché é utile alla salute pubblica, perché si spera che lo stesso esercizio dell’attività porti a scoprire le misure idonee ad evitare i danni che provoca.

Disc. Quindi i danni non risarciti verranno a essere, in tal caso, una sorta di imposta; anomala, però, perché viene a gravare, non su tutta la popolazione, ma solo su quella sua parte, che ha subito tali danni.

Doc. E’ così.

Disc. L’articolo 2050, però, stabilisce un’inversione dell’onere probatorio a vantaggio del danneggiato: infatti nella sua ultima sua parte recita “(chi esercita un’attività pericolosa) é tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

Doc. Per nulla. Infatti secondo i principi il danneggiato non ha che da provare che l’esercizio della attività causativa del danno era pericolosa (alias, che esercitandola era prevedibile che il danno si sarebbe verificato). Non deve provare che non sono state adottate misure destinate a ridurre le probabilità che questo si verificasse.Come che sia, bisogna riconoscere che l’onere, imposto a chi esercita un’attività pericolosa, di dar la prova di aver adottato le misure idonee a evitare il danno, é più che opportuno. Infatti, gravare di tale onere il danneggiato, significherebbe gravarlo, il più delle volte, di un onere, se non impossibile, almeno di difficilissimo adempimento per lui, in quanto solo chi ha delle cognizioni specialistiche può, il più delle volte, sapere che esistono misure per evitare i danni, che una certa attività provoca.

Disc. Passiamo a parlare più particolarmente di quell’attività pericolosa, che é la conduzione di un autoveicolo.

Doc. A questa e più genericamente alla conduzione di ogni veicolo “senza guida di rotaie (quindi anche di un carro a trazione animale), il Legislatore dedica un articolo ad hoc, l’articolo 2054.

Disc. Dandole un disciplina diversa da quella prevista nell’articolo 2050?

Doc. Sì, parzialmente diversa.

Disc. Dilla, allora.

Doc. Sì, la dico subito, però premettendo che bisogna distinguere tra il caso che il danno derivi da uno scontro tra veicoli o no.Nel caso che non derivi da un scontro tra veicoli, va applicato il primo comma dell’art. 2054, che recita: “Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie é obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”Quindi tu, ragionier Parodi, se hai investito con la tua auto un pedone, per esimerti da responsabilità, non basta che provi di aver adottato le misure imposte dalla legge, metti, di essere andato, nel centro abitato, a 50 Km.h., occorre che tu provi che, andando a tale velocità, non era possibile, a un automobilista perito e attento, bloccare l’auto prima del punto d’urto.

Disc. Passiamo al caso che il danno derivi da uno scontro tra veicoli.

Doc. Allora va applicato il secondo comma dell’articolo 2054, che recita: “Nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli”Se tu, rag. Parodi, ti sei scontrato con l’auto del ragionier Brambilla, e la tua auto ha avuto danneggiato un parafango, spesa per ripararlo, mille, e quella del ragionier Brambilla ha avuto danni al motore, spesa per ripararli tre mila, siccome si presume che la tua colpa sia stata uguale a quella del Brambilla, tu dovrai dare millecinquecento euro a Brambilla e questi dovrà dare cinquecento euro a te.

Disc. E se il danno derivato dall’incidente non fosse alle cose ma alla persona, metti se nell’incidente il Brambilla si fosse rotto un braccio?

Doc. Allora, si applica il primo comma e il Brambilla avrà diritto di aver risarcito integralmente dal Parodi il danno relativo alla rottura del braccio, se il Parodi non prova di aver fatto tutto il possibile per evitarlo.

Disc. Metti che l’incidente si verifichi mentre é alla guida, non il proprietario, il ragionier Brambilla, ma il figlio. Il ragionier Brambilla risponde dei danni?

Doc. Sì, a meno che non provi che il figlio si é messo alla guida contro la sua volontà (e non basterebbe l’espressione solo verbis della volontà che l’auto non sia usata, occorrerebbe che il Brambilla avesse adottate le cautele necessarie per impedire l’uso dell’auto contro la sua volontà).Così mi pare debba essere interpretato il terzo comma dell’articolo in esame, che recita: “Il proprietario del veicolo,o, in sua vece, l’usufruttuario o l’acquirente con patto di riservato dominio, é responsabile in solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo é avvenuta contro la sua volontà”.

Disc. Quindi il Legislatore presume una culpa in eligendo o in custodiendo del Brambilla, salva prova contraria. Severo il Legislatore.

Doc. Ma vedremo che é ancor più severo negli articoli 2051 e 2052, che escludono la responsabilità del custode “salvo che provi il caso fortuito”.

Disc. E, il fatto che l’incidente si sia verificato per un vizio di costruzione, esimerebbe da responsabilità il Brambilla?

Doc. No. Il proprietario non é esentato da responsabilità, non solo nel caso di un difetto di manutenzione, e questo é naturale, ma neanche nel caso di un vizio di costruzione, e questo, bada, anche se tale vizio non era da lui conosciuto o conoscibile. E questa severa disposizione é estesa anche al conducente che proprietario non é, pretendendosi dal legislatore che, chiunque si mette alla guida di un veicolo, prima accuratamente controlli la sua buona funzionalitàTutto questo risulta dal quarto comma che recita: “In ogni caso le persone indicate dai commi precedenti sono responsabili dei danni derivanti da vizi di costruzione o da difetto di manutenzione del veicolo”.Peraltro va notato che la responsabilità per danni, dovuti a vizio di costruzione o di manutenzione, del proprietario di un veicolo, trova una perfetta corrispondenza nell’articolo 2053, che prevede una uguale responsabilità per il proprietario di un edificio.

Disc. Leggiamolo allora questo articolo 2053.

Doc. L’articolo 2053 (sotto la rubrica “Rovina di edificio”) recita: “Il proprietario di un edificio o di altra costruzione, é responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non é dovuta a difetto a difetto di manutenzione o a vizio

di costruzione”.

Disc. Però, mentre l’articolo 2054 esenta da responsabilità il proprietario del veicolo, se ha dato questo in usufrutto (recita infatti il terzo comma a cui rinvia il quarto: “Il proprietario del veicolo o, in sua vece, l’usufruttuario”), l’articolo 2053, almeno nella sua lettera, ritiene responsabile il proprietario dell’edificio anche se l’ha dato in usufrutto.

Doc. Verissimo. E, tale esagerata severità dell’articolo 2053, fa sospettare in un lapsus del legislatore e sembra quindi imporre una interpretazione restrittiva, non solo nel caso di difetto di manutenzione, ma anche nel caso di “vizio di costruzione”. E infatti, la responsabilità del proprietario per vizi di costruzione, ha il suo logico presupposto nel fatto che egli, essendo nel possesso dell’edificio, abbia tempo per accorgersi dei vizi di costruzione, dato che tali vizi di solito si manifestano, non improvvisamente, ma molto prima che portino danni. Tale presupposto però viene a mancare nel proprietario, che abbia concesso ad altri l’usufrutto.

Disc. Metti questo caso: l’edificio di proprietà del Brambilla é senza vizi e ben tenuto, però sopravviene una furiosa tempesta che svelle un comignolo e lo scaraventa sulla strada colpendo un passante: il Brambilla deve rispondere del danno subito dal passante?

Doc. Sì, se la tempesta era prevedibile e il Brambilla poteva adottare le misure necessarie a che il comignolo, dalla tempesta, non fosse sradicato.Però ne risponderà, non per l’articolo 2053, ma per l’articolo 2051.

Disc. Che dice tale articolo?

Doc. Tale articolo ci dice (sotto la rubrica “Danno cagionato da cose in custodia”) che “Ciascuno é responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Disc. Che significa “caso fortuito”?

Doc. Significa che il custode risponde dei danni cagionati dalla cosa custodita, a meno che questi danni (ancorché astrattamente prevedibili) fossero poco probabili – tanto poco probabili da non imporre a un buon padre di famiglia l’adozione di misure

cautelative contro il loro verificarsi.

Disc. Sarebbe giusto dire che nell’articolo in esame il Legislatore adotta il principio Cuius commoda eius incommoda?

Doc. No. Così sarebbe se il legislatore obbligasse il custode a rispondere di tutti i danni, che la res può produrre. Ma così non é: il legislatore accetta che una percentuale di rischio (del verificarsi di tali danni), anche se minima, ricada sulla società.

Disc. Va inteso che sia custode solo chi debba custodire la res per un vincolo giuridico?

Doc. No, più latamente, va ritenuto “custode” chiunque abbia la disponibilità della res e pertanto abbia la possibilità di adottare le misure cautelative a che non rechi danno.Questo lato significato del termine “custode” si argomenta anche dall’incipit dell’articolo 2052 – articolo che (sotto la rubrica “Danno cagionato daanimali”) recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui l’ha in uso, é responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.

Disc. Mi pare chiaro che il Legislatore, nel ritenere la responsabilità del custode anche per il caso di fuga o smarrimento dell’animale, non fa che applicare il principio Causa causae est causa causati: certo non si può pretendere che tu, custode, impedisca all’animale che rechi danno, dopo che é fuggito o si é smarrito, però si poteva pretendere che tu ne impedissi la fuga o lo smarrimento, e per questo rispondi dei danni da lui provocati.

Doc. Hai detto benissimo.

Disc. La custodia di una res o di un animale, in certi casi, é utile alla società (penso alla custodia di una mucca che dà il latte, che poi troviamo al mercato), in altri casi, risponde solo a un capriccio del custode (penso a chi detiene leoncini o tigrotti): l’interprete deve tenere conto di ciò per valutare più o meno severamente la responsabilità del custode?

Doc. Io direi di sì. E mi sento confortato in questa risposta positiva dal dettato degli articoli 2047 e 2048. Si può dire, sia pure un po’ semplificando, che tali articoli riguardano chi ha in custodia, un “incapace” (articolo 2047), dei minori non emancipati, delle persone soggette a tutela e degli “allievi” e “apprendisti”(art. 2048); ebbene, in tutti questi casi il “custode” si può liberare della responsabilità dando la prova “di non aver potuto impedire l’evento”.

Disc. Neanche questa mi pare una prova facile a darsi.

Doc. Certamente non é una prova facile a darsi, ma non é neanche una prova impossibile, dato che la formula legislativa va interpretata restrittivamente.Infatti, il custode dell’incapace (art. 2047), per provare “di non aver potuto impedire il fatto”, non dovrà provare di aver tenuto sempre sott’occhio l’incapace, basterà che provi di non aver mai creato o lasciato permanere situazioni in cui la incapacità del custodito potesse dar luogo a danni.Lo stesso può ripetersi per il precettore (art. 2048 co.2): questi, per esonerarsi da responsabilità, non dovrà provare la sua continua presenza nel luogo in cui sono gli allievi, basterà che provi di aver adottate, per impedire il verificarsi di eventi dannosi, le misure disciplinari e organizzative rese opportune dalla maturità dimostrata dagli allievi (anche, anzi soprattutto, in base a comportamenti da loro precedentemente tenuti).I genitori e il tutore (art. 2048 co. 1), a loro volta, si libereranno dalla responsabilità provando di aver data una buona educazione (se non l’avessero data sarebbero responsabili per culpa in educando) e di aver vigilato sul minore, però nei limiti di cui si é ora detto a proposito della responsabilità del precettore (se non l’avessero fatto incorrerebbero nella c.d. culpa in vigilando).

Disc. Ma vogliamo leggerli questi articoli 2047 e 2048?

Doc. L’art. 2047 (sotto la rubrica “Danno cagionato dall’incapace”) recita:“In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento é dovuto da chi é tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi é tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa indennità”.L’articolo 2048 (sotto la rubrica “Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori

e dei maestri d’arte”) recita:“Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante.I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi o apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza.Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.

Disc. Perché l’articolo 2048 non prevede, come fa invece l’articolo 2047 nel suo secondo comma, una responsabilità sussidiaria del minore o dell’allievo (…) per il caso che colui che deve rispondere del suo comportamento illecito, non abbia provveduto al risarcimento del danno.

Doc. Perché l’articolo 2048 si riferisce al caso in cui il minore (l’allievo...), sia capace di intendere e di volere e quindi sia tenuto a rispondere (in solido, col genitore, col tutore, col percettore....) al risarcimento.Nel caso invece il minore (…) fosse incapace, allora si applicherebbe l’articolo 2046(e il minore sarebbe tenuto al risarcimento – melius “a una equa indennità” - nel caso appunto previsto dal secondo comma dell’articolo 2047.

Disc. Abbiamo finora contemplato il caso che l’incapace sia sotto la sorveglianza di una persona (o di una istituzione, penso alla struttura sanitaria in cui l’infermo di mente é ricoverato); ma se l’incapace non ha nessuno che sia obbligato a sorvegliarlo?

Doc. La risposta te la dà l’articolo 2046, che (sotto la rubrica “Imputabilità del fatto dannoso”), recita: “Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato di incapacità derivi da sua colpa”.

Disc. Un chiarimento utile per meglio comprendere, non solo l’articolo 2046, ma anche l’articolo 2047: chi va considerato “incapace”? l’interdetto? l’inabilitato?

Doc. Va considerato incapace, chi é....incapace. Quindi può essere che un interdetto non vada considerato incapace, mentre vada così considerato chi non é interdetto.

Pensa per quest’ultimo caso alla persona che si é presa una sbornia (caso in cui cui però si applicherà l’ultima parte dell’articolo 2046).

Disc. Metti che Parodi dia incarico al suo commesso Bacciccia di andare ad aggiustare il rubinetto di Vattelapesca, e Bacciccia faccia un disastro: dei danni provocati da Bacciccia risponderà Parodi per culpa in vigilando?

Doc. Non per culpa in vigilando, ma per culpa in eligendo; però, sì, Parodi ne risponderà (solidalmente) con Bacciccia per il disposto dell’articolo 2049, che (sotto la rubrica “Responsabilità dei padroni e dei committenti”) recita: “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.

Disc. Bianchi viene aggredito da Rossi e per difendersi lo ferisce: Bianchi deve un risarcimento a Rossi?

Doc. Naturalmente, no. Chi ha causato un danno in stato di legittima difesa o di “necessità”, non ha l’obbligo di risarcirlo. Però in caso di danno causato in stato di necessità, deve pagare “un’equa indennità”.Questo risulta dagli articoli 2044 e 2045, che di seguito ti riporto.L’art. 2044 (sotto la rubrica “Legittima difesa”) recita: “Non é responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sè o di altri”.L’articolo 2045 (sotto la rubrica “Stato di necessità”) recita: “Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi é stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non é stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato é dovuta un’indennità, la cui misura é rimessa all’equo apprezzamento del giudice”.

LIBRO QUARTO

Diritto di famiglia

Sezione I: La fonte dei diritti e degli obblighi: il matrimonio.Le condizioni per la sua celebrazione, la sua nullità

Lezione I: Premessa: Perché il Legislatore tutela l’istituto famigliare.

Disc. - E’ interesse dello Stato tutelare l’istituto famigliare?

Doc. Io ti rispondo a mia volta con una domanda: é interesse della Società che i suoi membri – non vivano ciascuno separatamente dall’altro, ciascuno nel suo appartamentino, con la sua televisione, il suo cucinotto ecc.ecc. - ma si aggreghino e coabitino insieme?

Disc. Certamente, sì: perché questo determina un risparmio nell’uso delle risorse economiche a disposizione della Società: se Caio e Caia vivessero separati in due appartamenti distinti, ciascuno di loro avrebbe bisogno di una cucina, di un frigo, di una televisione ecc., se vivono insieme basterà a entrambi una sola cucina, un solo frigo ecc.

Doc. Altra domanda: é interesse della Società che Caio e Caia, non solo coabitino, ma si aiutino vicendevolmente: ad esempio, se l’uno é malato, l’altro gli procuri il cibo, gli compri le medicine, gli chiami il dottore ecc.?

Disc. Certo che é interesse della Società che ciò avvenga: perché se non avvenisse, toccherebbe alla Società, o meglio alla sua espressione, lo Stato, provvedere a Caia (o a Caio) quando cadono malati, quando insomma si trovano in stato di bisogno (pagando un infermiere, una badante, comprando il cibo di cui necessitano e che non si possono procurare....).

Doc. Un’ultima domanda: é interesse della Società, dello Stato, che le culle non rimangano vuote, che nuove generazioni, nuove energie, vengano a sostituire le vecchie generazioni, le energie ormai usurate; vengano a sostituirle,voglio dire, nel

lavoro produttivo, nell’ideazione, insomma nell’attività propulsiva del progresso umano? ed ancora, é interesse dello Stato che vi sia chi allevi ed educhi la prole?

Disc. Certamente, sì.

Doc. Ebbene, rispondendo sì alle tre domande che ti ho fatto, ti sei dato anche la spiegazione del perché lo Stato abbia interesse ad invogliare l’uomo e la donna a instaurare, come dicono i canonisti, un consortium omnis vitae, cioé, come vedremo meglio in seguito, un rapporto personale che implichi la disponibilità di ciascuno di loro a soccorrere l’altro nello stato di bisogno e crei l’occasione per la nascita di nuovi cittadini.

Disc. A questo punto mi devi spiegare cosa lo Stato può fare per invogliare Caio e Caia a costituire questo famoso consortium totius vitae: garantire loro un aiuto nel reperimento di un alloggio, dare loro delle agevolazioni fiscali?

Doc. Certamente si, anche questa tutela, che definirei “esterna”, della coppia serve ad invogliare Caio e Caia a formare una famiglia; e dirò di più: trattasi di una tutela doverosa, perché, come abbiamo visto, il formarsi di una “famiglia” solleva lo Stato di numerose spese. Però la più importante, non é questa tutela esterna, ma quella “interna”.

Disc. Che intendi per “tutela interna”.

Doc. La tutela dell’interesse che Caia (o, viceversa, Caio) ha che il partner, una volta che la famiglia si é costituita, tenga certi comportamenti: “Caio dice a te, Caia, che una volta che starai con lui non ti farà mancare il pane e il companatico, non ti tradirà, ecc; e tu, Caia, titubi temendo che siano promesse scritte nel vento, promesse destinate a volatilizzarsi dopo qualche anno (o qualche giorno...) di convivenza? Ebbene, non temere, non titubare, ci sono qua, io, Stato italiano, pronto ad usare la forza di coazione di cui dispongo per costringere Caio a mantenere le sue promesse: gli impegni morali che ora lui prende, io li trasformerò in obblighi giuridici”.A questo tipo di garanzia io, grosso modo, intendo riferirmi quando parlo di tutela”interna”, che lo Stato può assicurare a chi vuole fondare una famiglia: lo vedremo meglio, quando approfondiremo gli obblighi giuridici che dal matrimonio, ai coniugi, derivano.

Disc. Sì, certo, minacciare Caio (o Caia) di una sanzione giuridica, se non tengono questo o quel comportamento, può servire; ma non molto, se nella Società sono presenti forti spinte in senso contrario: tu, Legislatore, imponi “fai A” e tutto nella Società spinge perché Caio non faccia A.

Doc. Comprendo quel che vuoi dire, la tutela della famiglia implica la tutela della morale famigliare. E i buoni Legislatori bene lo sanno (chi non ha in mente l’Ara pacis con il “pio” Augusto che con tutta la famiglia va a rendere onore agli Dei?!). E anche il nostro Legislatore lo sa. E non mi riferisco solo al Legislatore del Codice Penale (al Legislatore del reato di “Violazione degli obblighi di assistenza”, art. 570 C.P., del reato di maltrattamenti, art. 572 C.P. ecc.), ma anche al Legislatore del nostro Codice Civile, il Codice che qui soprattutto ci interessa: noi vedremo, parlando degli impedimenti alla celebrazione del matrimonio, che alcuni di essi (in specie, gli impedimenti derivanti dalla consanguineità, da delitto) mirano ad evitare la formazione di famiglie, che diano “scandalo”, offendano e ledano cioé la “morale famigliare”.

Disc. Tutto giusto, tutto bene quel che dici; ma a me pare che il “principale” in questa materia é che Caio e Caia si vogliano bene, stiano bene insieme.

Doc. Certamente sì; ed é per questo che il consenso di Caio e Caia al formarsi della famiglia é per lo Stato fondamentale: per dirla con i canonisti, Matrimonium facit consensus partium.E non solo lo Stato vuole che gli interessati diano il loro consenso al formarsi della famiglia, ma vuole che lo diano in forma solenne: il matrimonio non é un contratto che si firma davanti al notaio, ma un atto che si “celebra” davanti a un pubblico ufficiale, il Sindaco, seguendo un dato rituale, quello che si trova descritto negli articoli 106, 107; questo, non solo per rendere i nubendi consapevoli dell’importanza degli obblighi che vanno ad assumere, ma anche proprio per circondare la “famiglia legale” di un alone di particolare rispetto.

Disc. Hai citato gli articoli 106, 107: non é meglio leggerli?

Doc. Certo. L’articolo 106 recita: “Luogo della celebrazione – Il matrimonio deve essere celebrato pubblicamente nella casa comunale davanti all’ufficiale di stato civile al quale fu fatta la richiesta di pubblicazione”.Ed ecco come suona l’art. 107: “Forma della celebrazione - Nel giorno indicato dalle

parti l’ufficiale di dello stato civile, alla presenza di due testimoni, anche se parenti, dà lettura agli sposi degli articoli 143, 144, e 147; riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio.L’atto di matrimonio deve essere compilato immediatamente dopo la celebrazione”.

Disc. Tu prima avevi detto che la famiglia legale si costituisce in forza del consenso degli interessati; ma non questo risulta dall’articolo 107 che hai letto: infatti tale articolo richiede solo il consenso dei nubendi, di Caio e di Caia, mentre il matrimonio di Caio e di Caia produce effetti giuridici anche nei confronti di terzi (che sono quindi interessati al suo compimento): ad esempio risulta dall’art. 433 che il padre di Caio diventerà con il matrimonio obbligato agli alimenti verso Caia, diventata sua nuora; e, per fare un altro esempio, dall’articolo 582 risulta che il fratello di Caia (o di Caio) vedrà ridursi la sua quota di eredità, in caso di premorienza della sorella Caia, in seguito al concorso di Caio, diventato suo cognato.Tutto questo mi sembra che faccia a pugni col principio espresso dal capoverso dell’articolo 1372, che recita: “Il contratto non produce effetto rispetto a terzi (....)”.

Doc. Tu non hai torto; e se anche un Professore universitario potrebbe obiettarti che, l’articolo da te citato, si riferisce ai contratti, mentre il matrimonio tale non é considerato, io capisco quel che vuoi dire: é ingiusto che Caio e Caia con un loro atto di volontà facciano nascere obblighi in capo a terzi. E ingiusto lo é davvero, ma é un’ingiustizia inevitabile; se non altro perché, il numero degli interessati a un matrimonio (in quanto “toccati” dai suoi effetti), può essere tale da rendere praticamente impossibile la richiesta del consenso di tutti loro.

Disc. Si potrebbe però almeno chiedere il consenso del “capo della famiglia”.

Doc. Un tempo era così: il consenso del padre degli sposi era ancora richiesto dal Codice Napoleone e anche dal Codice italiano del 65. E ancora per lungo tempo il costume sociale stigmatizzò chi si sposava contro il consenso dei genitori. Ora, chiaro, é tutto cambiato.

Disc. E del resto non sarebbe giusto impedire a Caia e a Caio di sposarsi solo perché il padre e la madre si oppongono al loro matrimonio.

Doc. Si potrebbe, in caso di opposizione, ammettere il matrimonio ma escluderne gli effetti per i terzi. Ma mi rendo conto che questi sono discorsi inutili e che il nostro Ordinamento contiene peggiori assurdità

Disc. Tu hai presa finora in considerazione nei tuoi esempi una coppia eterosessuale: Caio, un uomo, Caia, una donna. Questo come se fosse inconcepibile che lo Stato desse a una coppia omosessuale quella stessa tutela che dà alla coppia eterosessuale. A me pare, invece, che il rifiutare tale tutela sia assurdo e ingiusto: forse che quell’aiuto reciproco, di cui tu prima parlavi, non si può attuare tra persone dello stesso sesso? forse che oggigiorno le tecniche di procreazione assistita non permettono a due persone dello stesso sesso di avere dei figli? forse che tali persone non possono prendersi cura dei figli così nati?

Doc. Senz’altro, sì; ma molti, probabilmente ancora la maggioranza dei membri della nostra Società, ritengono che favorire il sorgere di coppie omosessuali riconoscendo loro una tutela giuridica, incida negativamente sulla psiche umana e inevitabilmente porti a un incremento della omosessualità con un conseguente impoverimento esistenziale della popolazione: la donna non più vista e rispettata come la datrice di vita, ma apprezzata solo come oggetto di soddisfacimento sessuale; rapporti sessuali impoveriti perché privati dei significati e delle intense emozioni, che potrebbe offrire l’accoppiamento, quando gli amanti fossero consapevoli di collaborare con le misteriose forze della natura per dar vita ad un nuovo essere umano, o almeno, se non animati dal desiderio di avere un figlio, fossero consapevoli di stare compiendo degli atti destinati (ancorché da loro ora profanati) a qualche cosa di grande e sacro.

Disc. Però altri, e sempre più numerosi la pensano per fortuna in modo differente e non temono la perdita del piacere che dà l’eros: forse che un uso intelligente delle droghe non potrà sostituirlo?! Ma non perdiamoci in questi discorsi: non siamo moralisti ma giuristi: a noi interessa di una questione solo la soluzione che ne dà il legislatore: il legislatore equipara nella sua tutela la coppia eterosessuale e la coppia omosessuale, in altre parole, dà modo anche alla coppia omosessuale di formare una “famiglia legale”?

Doc. No, si discute dell’opportunità e della conformità alla Costituzione di una legislazione in tale senso.

Disc. Ma il Legislatore costituzionale che dice, esclude l’ammissibilità di una

legislazione che dia la dignità di famiglia legale alla coppia omosessuale?

Doc. Sul punto, come ti dicevo, é aperta una discussione che verte soprattutto sull’interpretazione da darsi al primo comma dell’articolo 29.

Disc. Leggiamolo dunque questo primo comma.

Doc. Esso recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.

Disc. Dalla tua lettura sembrerebbe che, secondo i nostri Padri Costituenti, la famiglia abbia dei diritti – diritti che non derivano dallo Stato. Il che mi sembra inficiato da un triplice errore: primo, l’errore di personificare la famiglia, che di per sè é solo un’astrazione concettuale; secondo, l’errore di attribuire alla famiglia dei diritti, mentre, se mai, dei diritti possono competere solo alle persone che la compongono; terzo, l’errore di ritenere che tali diritti non derivino dallo Stato, mentre ogni diritto non può che derivare dallo Stato, come unica Organizzazione della forza capace di imporre coattivamente le condotte, necessarie alla tutela dei vari interessi in conflitto nella società.

Doc. Quel che dici é giustissimo: tali errori ci sono, ma sono comuni un po’ a tutte le Costituzioni, che amano usare nei loro articoli parole immaginose e roboanti che sembrano dir tutto e...non dicono nulla; permettendo così ai loro interpreti, se così vogliamo chiamarli, di dar loro quei contenuti che più loro aggrada.Comunque sembrerebbe di capire che i Padri Costituenti volessero, con la disposizione in oggetto, ammonire il Legislatore ordinario a non immutare o a immutare solo in via eccezionale e con grande prudenza i poteri e i diritti che la Legge – ben s’intende, la Legge vigente illo tempore - attribuiva ai vari membri della famiglia. Questo sotto l’influsso del consiglio, che un grande matrimonialista aveva dato: e cioè che l’attività del Legislatore dovesse arrestarsi rispettosa....sulla soglia del diritto di famiglia.Non é, però, questo il senso che alcuni interpreti della Costituzione, se così vogliamo chiamarli, attribuiscono al comma in oggetto.Essi infatti partano dal presupposto che non esista solo uno, ma più tipi di famiglie.

Disc. In che senso?

Doc. Sia nel senso che diversi possono essere i soggetti che tra di loro si aggregano impegnandosi a un aiuto reciproco: possono essere, un uomo e una donna; due uomini; due donne. Sia nel senso che diversa può essere l’entità dell’impegno che tali soggetti sono disposti ad assumere: l’aiuto che sono disposti a darsi, il tempo per cui sono disposti a impegnarsi a darlo

Disc. Quindi il massimo comune denominatore di tali aggregati, quello che dovrebbe permettere di riconoscere in ciascuno di essi una “famiglia”, sarebbe l’impegno dei loro componenti a un aiuto reciproco.

Disc. Sì, a questo si riduce per tali interpreti il consortium omnis vitae di cui parlano i canonisti! Comunque, per giungere rapidamente alla conclusione del nostro discorso, diciamo che, partendo dal presupposto che esistono vari tipi di famiglie, tali interpreti attribuiscono alla Costituzione, la volontà di tutelare, non il tipo di famiglia esistente nell’ormai lontano 1948, ma ogni e qualsiasi tipo di famiglia, cioé la “famiglia in sè”.Altro articolo a cui si richiamano, i fautori dell’equiparazione della coppia eterosessuale alla coppia omosessuale, é l’articolo 2, che recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Disc. In base a quali ragionamenti si ritiene che tale articolo imponga la equiparazione giuridica della coppia eterosessuale alla coppia omosessuale?

Doc. Francamente non lo so e non mi sforzo neanche di saperlo.

Disc. Ti comprendo: parliamo di cose più serie: la tutela della famiglia di fatto.

Doc. Questa é effettivamente una cosa più seria. E infatti nulla vieta al Legislatore di graduare la tutela di una coppia a seconda della serietà dell’impegno, che é disposta ad assumersi. “Tu, Caia, sei disposta a convivere con Caio natural vita durante (salvo situazioni che rendano veramente insopportabile la convivenza), sei disposta ad essergli fedele ecc.ecc.? Se é così, io, legislatore, ti riconosco il diritto: al mantenimento vita natural durante, a una quota A di successione, agli alimenti dal padre di Caio ecc. ecc. Tu, Caia, invece, non Ti senti di impegnarti troppo a lungo nel tempo? Se così ti riconosco solo il diritto al mantenimento per anni tot, alla quota B di successione, e...basta”. Chiaro che, quel che ho fatto, é un esempio di fantasia,

valido solo per mostrarti la possibile logicità di una tutela della c.d. famiglia di fatto, che lasci inalterato l’alone di rispetto e di privilegio, che deve avere la coppia disposta a un consortium omnis vitaeDisc. Ma di questa tutela di grado inferiore gode già la famiglia di fatto?

Doc. Sì, però di questo parleremo se e in quanto affronteremo ex professo tale argomento.

II: Le condizioni per poter contrarre matrimonio. La nullità di questo.

Doc. - L’esigenza di formarsi una famiglia é tanto radicata nell’uomo, che il negarla a una persona può bloccare l’armonioso evolversi della sua personalità. Per questo i canonisti ad essa si riferiscono come a un ius connubi.E tuttavia lo Stato ritiene che vi siano motivi tanto gravi da giustificare il rifiuto di tale diritto naturale dell’uomo.

Disc. Quali sono questi motivi?

Doc. Li possiamo raggruppare nelle seguenti categorie: I- motivi dettati dall’esigenza di garantire la serietà del consenso alle nozze; II- motivi dettati dalla tutela della morale famigliare; III- motivi (melius, motivo, dato che essi si riducono a solo uno) dettati (melius, dettato) dall’esigenza di evitare la turbatio sanguinis; IV- motivi dettati dalla tutela dell’ordine pubblico.Tutti questi motivi impediscono la celebrazione del matrimonio. E appunto per controllare, che non esista a questo nessun “impedimento” il Codice prevede negli articoli 93 e segg. tutta una serie di “formalità preliminari” (“preliminari” appunto alla celebrazione): acquisizione di documenti, pubblicizzazione dell’imminente celebrazione.

Disc. Quindi lo Stato non interviene solo per dichiarare la nullità di un matrimonio, ma prende delle misure a che a un matrimonio nullo non si arrivi.

Doc. Eh, sì: la rottura di un matrimonio, anche se questo é “nullo”, é pur sempre un evento traumatico che crea vari problemi, non solo agli “sposi”, ma anche alla società tutta (bisogna provvedere ai figli, dal matrimonio, nati, bisogna provvedere anche ai bisogni della “parte debole” coinvolta nel matrimonio: tutto questo lo vedremo meglio parlando del c.d. “matrimonio putativo” - artt. 128,129): ecco perché il

legislatore prende tutte le misure necessarie, perché a un matrimonio nullo non si arrivi.

Disc. A questo punto direi che é opportuno passare, sia pure rapidamente, in rassegna i vari “impedimenti”. Cominciamo da quelli che mirano a garantire la serietà del consenso.

Doc. E allora parliamo dell’impedimento legato all’età dei nubendi. Per il primo comma dell’art. 84 “i minori di età non possono contrarre matrimonio”. Possono contrarlo i sedicenni solo per gravi motivi e solo se viene accertata dall’Autorità giudiziaria la loro “maturità psico-fisica”.E’ evidente il perché del limite dell’età: si presume che il minore di diciotto anni non abbia la capacità (la habilitas direbbero i canonisti) necessaria: primo, per comprendere (in forza della cultura acquisita e dello sviluppo intellettuale raggiunto) la natura degli obblighi che, col matrimonio, va assumere; secondo, per valutare la serietà dei suoi sentimenti e il suo possesso delle forze psichiche e di carattere per sopportare le prove, che il matrimonio può apportare (i canonisti parlerebbero al proposito di possesso della necessaria discretio); terzo, per disciplinare e dominare quegli impulsi che potrebbero portare a decisioni infauste (la libertas dei canonisti, che non si limita solo alla libertas ab extrinseco, cioé alla capacità di resistere alle pressioni e ai condizionamenti esterni, ma comprende anche la libertas ab intrinseco, cioè la capacità di dominare i propri impulsi).

Disc. Non é detto che chi ha raggiunto i diciott’anni abbia tutta quella habilitas di cui tu parli.

Doc. E lo dimostra il numero dei matrimoni che va a rotoli; d’altra parte lo Stato non ha la possibilità di operare sul punto i necessari controlli.

Disc. Non ha questa possibilità ex ante; ma la potrebbe avere ex post, qualora fosse chiamato a decidere sulla validità di un matrimonio.

Doc. No, neanche ex post ce l’ha; o almeno Egli ritiene di non averla, data la complessittà e la sottigliezza delle questioni, che la valutazione della maturità psichica di una persona comporta: vedremo, studiando l’articolo 122, che lo Stato dichiara la nullità del matrimonio, solo se uno degli sposi ha dato il suo consenso privo di quella libertas ab extrinseco, a cui prima ho accennato (non rilevando la

libertas ab intrinseco) e solo in quanto indotto da alcuni errori, per di più tassativamente indicati (e in cui non viene fatto rientrare neanche quello “errore di diritto”- che nella nostra materia potrebbe ravvisarsi nell’errore sulla natura degli obblighi, che dal matrimonio derivano - che per l’articolo 1429 giustifica l’annullamento di un contratto qualsiasi).Veniamo ora all’altro impedimento alla celebrazione del matrimonio: l’interdizione. Esso é previsto dall’art. 85 che recita. “Non può contrarre matrimonio l’interdetto per infermità di mente”.

Disc. Quindi l’interdetto legale può contrarre matrimonio.

Doc. Sì. Caio condannato per un reato che comporta la pena accessoria dell’interdizione può contrarre matrimonio. E come può contrarlo l’interdetto legale può contrarlo anche l’inabilitato.

Disc. Questo è senz’altro logico: se può contrarre matrimonio chi, come il sedicenne, non gode della piena capacità, ma ha solo lo “status” di emancipato (art. 390), non si può negare il diritto di sposarsi a chi, come l’inabilitato, ha, sì, un’incapacità ad amministrare, ma non maggiore di quella che ha l’emancipato (v. l’art. 424 c.1 secondo cui “le disposizioni sulla...curatela dei minori emancipati si applicano...alla curatela degli inabilitati”).

Doc. Il tuo ragionamento é perfettamente conforme a logica. Non altrettanto in regola con la logica é invece il legislatore, che, pur ammettendo in via di principio che una persona incapace ad amministrare il suo patrimonio possa essere capace di dire un “sì” assennato davanti all’ufficiale di stato civile, poi, da tale constatazione non trae le dovute conseguenze nel caso dell’interdetto: eppure forse che le scienze psicologiche e psichiatriche non hanno dimostrato la possibile esistenza di alcune anomalie psichiche, che si possono manifestare solo in un settore della personalità? forse che i canonisti non distinguono tra una amentia totale e una amentia parziale, che può, ma anche non può, rendere hinabilis al consenso coniugale (per cui solo nel primo caso può parlarsi di insania in re uxoria)? Io ritengo insomma sbagliato negare lo ius connubi a ogni persona interdetta e che occorrerebbe distinguere caso per caso.

Disc. A me sembra che le critiche che tu muovi al legislatore siano in gran parte rese infondate dall’istituto dell’amministrazione di sostegno: infatti, il risultato da te auspicato (cioé, la possibilità per l’interdetto di sposarsi), si può ottenere molto

semplicemente chiedendo la revoca dell’interdizione e la sua sostituzione con la amministrazione controllata: ai sensi del comma quattro dell’art. 411 il giudice tutelare “nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno o successivamente può disporre che (soli) determinati effetti limitazioni o decadenze previsti da disposizioni di legge per l’interdetto...si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno”: quindi può disporre che l’ex-interdetto decida liberamente se vuole sposarsi e con chi.Piuttosto, quid iuris nel caso il provvedimento di nomina dell’ amministratore di sostegno estenda al “beneficiario” la incapacità, propria dell’interdetto, a contrarre matrimonio? sorge da ciò per il beneficiario un impedimento alle nozze?

Doc. A me pare che logica e buon senso impongano di rispondere di si.Ma veniamo ora a parlare degli impedimenti dettati dalla tutela della morale famigliare: sono due: quello previsto dall’articolo 87 e quello previsto dall’art.88.

Disc. Comincio a leggere l’art. 87: “Non possono contrarre matrimonio tra loro:1) gli ascendenti e i discendenti in linea retta, legittimi o naturali; 2)i fratelli o le sorelle germani, consanguinei o uterini; 3) lo zio e la nipote, la zia e il nipote; 4)gli affini in linea retta; il divieto sussiste anche nel caso in cui l’affinità deriva da matrimonio dichiarato nullo o sciolto o per il quale é stata pronunziata la cessazione degli effetti civili; 5)gli affini in linea collaterale in secondo grado; 6)l’adottante, l’adottato e i suoi discendenti; 7) i figli adottivi della stessa persona; 8) l’adottato e i figli dell’adottante, 9) l’adottato e il coniuge dell’adottante, l’adottante e il coniuge dell’adottato.Il tribunale, su ricorso degli interessati, con decreto emesso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, può autorizzare il matrimonio nei casi indicati dai numeri 3 e 5,, anche se si tratti di affiliazione.L’autorizzazione può essere accordata anche nel caso indicato dal numero 4, quando l’affinità derivava da matrimonio dichiarato nullo (….)”.Domanda: ma perché tutti questi divieti, tutti questi limiti al diritto di sposarsi?

Doc. Perchè l’incesto rompe un tabù: quello che rappresenta come cosa nefanda gli atti sessuali tra i membri della stessa famiglia.Tabù questo estremamente utile alla salvaguardia dell’unità e dell’armonia della famiglia stessa. Perché se si intrufolasse, metti, nella testa di Caio, che non c’é nessun male (che non é cosa “nefanda”) avere rapporti sessuali con la figlia adottiva – ti sto facendo un esempio tra i tanti che si possono fare – ebbene egli sarebbe tentato di

avere tali rapporti – tanto più che, la propinquitas della persona concupita, li renderebbe estremamente facili. E ciò creerebbe un intuitivo turbamento nella vita famigliare: i rapporti tra Caio e la figlia adottiva perderebbero quella serietà che, il compito educativo del primo nei confronti della seconda, richiede; in Caia, la moglie di Caio, il semplice pensiero che il marito é attratto dalla figlia adottiva, le farebbe sentire questa come una rivale e distruggerebbe l’amore che invece dovrebbe portarle e così via.

Disc. Non é quindi per ragioni eugenetiche, cioé per impedire il nascere di una figliolanza tarata, che il Legislatore pone i divieti di cui stiamo discorrendo.

Doc. No, perché se così fosse non si spiegherebbe l’esistenza di tali divieti anche nei confronti di persone a cui non vi é un legame di sangue (affini, figliadottivi).

Disc. Penso di poter passare a leggere l’articolo 88, che recita: “Non possono contrarre matrimonio tra loro le persone delle quali l’una é stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra (…..)”.Mi pare evidente che l’impedimento alle nozze stabilito da questo articolo mira a disincentivare il coniugicidio.

Doc. Questa é la interpretazione prevalente; che forse sarebbe valida per il diritto canonico, dove però l’impedimentum é formulato in maniera diversa che nell’articolo da te ora letto; precisamente é formulato così: “Qui intuitu matrimonii cum certa persona …....huius coniugi vel proprio coniugi mortem intulerit, invalide hoc matrimonio attentat” (Chi al fine di contrarre matrimonio con una data persona, il coniuge di questa o il proprio coniuge uccide, non ha diritto a contrarre tale matrimonio).La formulazione,invece, dell’articolo 88 non conforta per nulla tale interpretazione. Infatti, se essa fosse giusta, si dovrebbe pensare che l’impedimento sussiste solo se il gesto omicida fu compiuto con l’intenzione di contrarre matrimonio col coniuge della persona che si é o si é cercato di uccidere (e non quando il gesto omicida fu compiuto, metti, con l’intenzione di compiere una rapina). Il che dall’articolo 88 non risulta. Ancora, se fosse valida questa interpretazione (idest, l’impedimento é stabilitoper disincentivare il coniugicidio ecc) ci si dovrebbe aspettare che anche l’omicidio del proprio coniuge (Caio non uccide il coniuge di Caia, ma la propria moglie) dovrebbe costituire un impedimento al matrimonio. Il che dall’art. 88 non risulta.

Disc. E allora?

Doc. E allora si deve concludere che la ratio dell’articolo 88, non é la disincentivazione del coniugicidio, ma la tutela dei boni mores; che sarebbero offesi se una persona dimostrasse pubblicamente affetto e amore verso chi ha attentato alla vita del proprio coniuge.Dobbiamo ora parlare degli impedimenti posti a tutela dell’ordine pubblico – impedimenti previsti dall’articolo 86 e dall’articolo 108.

Disc. Leggo l’articolo 86: “Non può contrarre matrimonio chi é vincolato da un matrimonio precedente”.Ben s’intende, vincolato da un matrimonio avente effetti civili per il nostro ordinamento.

Doc. Sì, naturalmente: se Caio I si é sposato con Caia I solo religiosamente (metti, ha detto il suo “sì” davanti a un ministro del culto cattolico, ma non ha fatto trascrivere l’atto di matrimonio nei registri dello stato civile), egli senza dubbio non é impedito a contrarre un nuovo matrimonio (questa volta con effetti per l’Ordinamento italiano) con Caia II.

Disc. Da che deriva il divieto della poligamia, che l’articolo 86 sancisce? Dalla sessuofobia, che per lungo tempo caratterizzò la Religione venuta a predominare in Occidente: il matrimonio deve essere solo un remedium concupiscientiae, quindi mal si concilia con la poligamia considerata come un modo per moltiplicare le possibilità di lussuria?

Doc.Direi di no, dato che anche nell’antica Roma la poligamia era vietata. Probabilmente la monogamia si giustifica con ragioni, diciamo così politiche: il primo matrimonio crea una sorta di alleanza tra le famiglie dei due sposi: alleanza che un secondo matrimonio (una seconda alleanza con un’altra famiglia) potrebbe turbare e contraddire.

Disc. Leggo ora l’articolo 108, che però é collocato, non più nella sezione intitolata a “Le condizioni necessarie per contrarre matrimonio” (idest, agli impedimenti), ma nella sezione quarta intitolata “Della celebrazione del matrimonio”: evidentemente il Legislatore non considera l’elemento, di cui andiamo a parlare, come un

impedimento.

Doc. Sì, non lo considera tale; ma tale invece é, e noi tale lo consideriamo. Leggi.

Disc. “La dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere sottoposta né a termine né a condizione.Se le parti aggiungono un termine o una condizione, l’ufficiale dello stato civile non può procedere alla celebrazione del matrimonio. (….)”.

Doc. E’ evidente perché il legislatore non permette l’apposizione di una condizione sospensiva o di un termine ad quem (il matrimonio si scioglierà se entro tre anni risulterà sterile, il matrimonio durerà fino al 31 dicembre 2015): sarebbe questo infatti un modo per eludere il principio della dissolubilità del matrimonio solo per le cause tassativamente previste dalla Legge.Meno evidente, ma pur sempre chiaro, é perché il legislatore non permette l’apposizione di una condizione sospensiva o di un termine a quo (il matrimonio produrrà effetto solo se Caio prenderà la laurea, il matrimonio produrrà effetto solo dal 31 dicembre 2015): infatti questo sarebbe un modo per eludere il principio, stabilito dall’articolo 78, che le promesse di matrimonio non obbligano.Resta a dire sull’ultimo impedimento, quello diretto a evitare la c.d. turbatio sanguinis: esso é previsto dall’articolo 89, che ti prego di leggere almeno nella prima parte del suo primo comma.

Disc. “Non può contrarre matrimonio la donna, se non dopo trecento giorni dallo scioglimento, dall’annullamento o dalla cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio”

Doc. Chiaramente questo impedimento é stabilito per il timore che, se il nuovo sposalizio si facesse senza rispettare il termine dei 300 giorni, non si sarebbe in grado di stabilire la paternità dei figli eventualmente partoriti da Caia: questa si sposa con Caio II dopo soli due mesi dallo scioglimento del suo precedente matrimonio con Caio I, e partorisce un figlio dopo sette mesi dalla celebrazione del nuovo matrimonio: questo figlio potrebbe essere sia di Caio I che di Caio II. Questo pericolo di un’incertezza sulla paternità dei nuovi nati, il nostro legislatore lo ritiene evitato qualora la donna si sposi dieci mesi dallo scioglimento del precedente matrimonio.

Lezione III - L’annullamento del matrimonio: come il Legislatore cerca di

evitarlo.

Disc. Abbiamo visto così quali sono gli “impedimenti” alla celebrazione del matrimonio. Ma se il matrimonio, nonostante tutto viene celebrato, esso sarà sempre, necessariamente da considerarsi nullo?

Doc. No, non é sempre così. E tradizionalmente gli impedimenti si distinguono, in quelli che, in caso di celebrazione del matrimonio, si trasformano in cause di nullità(c.d. impedimenti dirimenti) e in quelli che, in cause di nullità, non si trasformano (c.d. impedimenti semplici). Esempio di “impedimento semplice” - l’unico esempio però che nel nostro Ordinamento si può portare, se non erro – é quello previsto dall’art. 89: se la donna si sposa prima del trascorrere dei 300 giorni, il matrimonio nonostante che sia stato celebrato eludendo un preciso della Legge, é valido.Il fatto é che l’annullamento di un matrimonio, come già ho avuto modo di rilevare, presenta varie conseguenze negative; cosa per cui il nostro Legislatore cerca in ogni modo di evitarlo.

Disc. Quali sono i modi con cui il Legislatore evita l’annullamento del matrimonio?

Doc. Direi che sono quattro.Primo: la riduzione degli impedimenti dirimenti: di questo abbiamo or ora detto.Secondo: non permettendo la dichiarazione di nullità se non quando é certa la causa che la determinerebbe. Esempi di ciò li danno gli articoli 117.co.3 e l’art. 124.Per il co.3 art. 117: “Il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza”: Caio, senza aspettare la dichiarazione di morte presunta (che, sola, lo legittimerebbe a un nuovo matrimonio – v. art.65) si sposa: che si fa, nel dubbio che il coniuge assente sia ancora vivo e quindi valido il primo matrimonio, si annulla il secondo? No, dice il Legislatore con il terzo comma citato.Per la seconda parte dell’art.124 se, nella causa in cui il coniuge di un precedente matrimonio impugna il secondo (per violazione dell’art. 86), “si oppone la nullità del primo matrimonio, tale questione deve essere preventivamente giudicata”: Caio si sposa con Sempronia, ancorché prima abbia già contratto matrimonio con Caia: questa chiede l’annullamento del secondo matrimonio ma Caio oppone la nullità del primo: che fa il giudice? va avanti nel processo e dichiara la nullità del secondo matrimonio anche se il primo potrebbe non essere valido? No, dice il Legislatore con l’articolo 124 citato.Terzo (modo per evitare l’annullamento del matrimonio): limitare il numero dei

legittimati all’impugnazione del matrimonio.

Disc. Questa limitazione vale per tutte le cause di nullità?

Doc. No; almeno non in egual misura. In alcuni casi questa limitazione é massima: sono i casi previsti dagli articoli: 120 (matrimonio celebrato in stato di incapacità naturale di intendere e di volere), 121 (matrimonio celebrato per errore o violenza), 123 (matrimonio simulato): in tali casi la legittimazione a proporre l’impugnazione é riservata solo ai diretti interessati: all’incapace di intendere (art. 120), al coniuge che ha subito violenza o é caduto in errore (art. 121), ai coniugi simulatori (art. 123).

Disc. Questa limitazione della legittimazione, la capisco nei casi previsti dagli articoli 120, 121: se Caio, che ha celebrato il matrimonio ubriaco fradicio, passata la sbornia si accorge che Bacco in fondo lo consigliò bene; se Caia, che celebrò il matrimonio con Caio per paura di essere riempita di botte dai fratelli, passata la paura deve convenire che in fondo i fratelli maneschi furono saggi nella scelta del marito, ebbene...contenti loro, contento il mondo.Non capisco però la limitazione stabilita dall’articolo 123, la limitazione della legittimazione ai soli coniugi simulatori: a me sembrerebbe in tal caso più opportuno che fosse data almeno al pubblico ministero la possibilità di smascherare la simulazione.

Doc. A me invece sembra saggia e prudente la decisione del Legislatore di inibire l’intervento del pubblico ministero: tale intervento potrebbe intervenire (intempestivo!) quando é già in corso o già realizzato un processo di resipiscenza dei coniugi: Caio e Caia si sono sposati con l’intesa che tra loro solo ci sarebbero stati gli obblighi e i diritti, che possono esserci tra due persone sessualmente indifferenti ma amiche, e poi, col tempo cambiano idea, sono disposti ad accettarsi come marito e moglie.

Disc. Può essere che tu abbia ragione: vediamo ora i casi in cui la limitazione della legittimazione é minima.

Doc. Sono i casi previsti dagli articoli 117 (matrimonio del minore, del bigamo, dell’incestuoso, dell’attentatore alla vita del “coniuge dell’altro”) e 118 (matrimonio dell’interdetto): sono, questi, casi in cui l’impugnazione viene concessa anche al pubblico ministero, al tutore (in caso di interdizione), all’altro coniuge, a parenti (che

gli articoli 117 e 119 individuano un po’ diversamente a seconda delle diverse cause di nullità), e (salvo il caso di nullità dovuta a minore età) a “tutti coloro che abbiano alla impugnazione un interesse legittimo e attuale” (vedi melius l’art. 119).

Disc. Tale estensione della legittimazione ben si comprende nel caso dell’interdetto e del minore: se, prima, si ritiene Caio incapace di comprendere l’errore che sta facendo sposandosi e sposandosi con Caia, poi, si deve anche ritenere Caio incapace di comprendere di aver fatto un errore a sposare Caia (a ogni errante, ben si sa, l’errore sembra verità!): di conseguenza altri debbono essere messi in grado di provvedere per lui.Ma perché, tale estensione della legittimazione, in caso del matrimonio del bigamo, dell’incestuoso, dell’attentatore alla vita del “coniuge dell’altro”?

Doc. Perché é interesse pubblico far cessare al più presto l’offesa ai boni mores o all’ordine pubblico, che il perdurare di tali matrimoni rappresenta.

Disc. Andiamo avanti: passa a un altro dei modi usati dal Legislatore per evitare l’annullamento di un matrimonio.

Doc. Terzo modo per evitare l’annullamento del matrimonio: é la sanatoria della nullità.Sanatoria - che ovviamente esclusa nei casi in cui il perdurare del matrimonio offenderebbe i boni mores o l’ordine pubblico (matrimonio, dell’incestuoso, del bigamo, dell’attentatore al “coniuge dell’altro”) - sia pure a condizioni diverse é ammessa in tutti gli altri casi.

Disc. Che cosa giustifica per il Legislatore la sanatoria di un matrimonio nullo? Il semplice passare del tempo, com’é previsto dall’art.1442 per la sanatoria dei contratti annullabili?

Doc. Così é solo in due casi eccezionali, di cui subito ti dirò. Nella maggior parte dei casi, però, a giustificare il venir meno dello ius impugnandi o é, come nel caso della simulazione, la semplice “convivenza come coniugi dopo la celebrazione”, nulla importando il tempo in cui é durata (vedi il co.2 art.123) oppure “la coabitazione” (non più “convivenza”) protrattasi, questa sì, per un certo periodo di tempo, precisamente per un anno, così come nel caso, di nullità dovuta a interdizione (vedi co.2 art. 119), di nullità dovuta a incapacità naturale (vedi il secondo comma art.

120), di nullità dovuta a violenza ed errore (vedi comma due art. 122).

Disc. E i due casi eccezionali, di cui dicevi, in cui basta a estinguere lo ius impugnandi solo il decorso del tempo?

Doc. Riguardano il caso della nullità per minore età (al minore, una volta diventato maggiorenne, e quindi unico titolare dello ius impugnandi, é concesso solo un anno per esercitarlo – vedi co. 2 art.117) e il caso della nullità per simulazione (al coniuge simulatore é concesso solo un anno per impugnare e neanche quello, come abbiamo già detto, se inizia una convivenza more uxorio con l’altro coniuge simulatore – vedi co. 2 art. 123).

Disc. Ma perché la coabitazione protratta oltre un anno giustifica per il legislatore il venir meno dello ius impugnandi? perché é da Lui presa a indice della volontà dei coniugi di assumere reciprocamente gli obblighi e i diritti che la Legge, ai coniugi, riserva? A me sembra che sia un po’ forzato dedurre una tale volontà semplicemente da una coabitazione, che potrebbe essere dovuta a semplice inerzia (nel cercare due alloggi separati) o anche all’accendersi di una attrazione sessuale (che però può convincere a condividere il letto, non tutta una vita).

Doc. E infatti non é così: non é vero che il Legislatore nega lo ius impugnandi a Caio e a Caia, che hanno coabitato per un anno, perché pensa che, il protrarsi di una coabitazione per così lungo tempo, dimostri che essi hanno raggiunto il tacito accordo di convivere come marito e moglie. E’ vero invece che il Legislatore minaccia a Caio e Caia di privarli dello ius impugnandi se la loro coabitazione supererà l’anno: e infatti, quanto più si protrae la coabitazione di Caio e Caia, tanto più aumenta la possibilità di quelle complicazioni (si pensi solo al concepimento di un figlio), che ancor più aggroviglierebbero la già aggrovigliata matassa generata dalla nullità del loro matrimonio.

Disc. Perché Caio I e Caia I, che hanno contratto un matrimonio viziato da errore o violenza, se non coabitano, possono anche aspettare più anni a chiedere l’annullamento; mentre Caio II e Caia II, che hanno contratto un matrimonio simulato, anche se non coabitano debbono debbono esercitare a pena di decadenza lo ius impugnandi entro un anno? e perché il Legislatore parla nell’articolo 123 (che riguarda la simulazione) di “convivenza” e nell’articolo 122 (come del resto negli articoli 120 e 119) parla di “coabitazione”?

Doc. Evidentemente il Legislatore fa decadere Caio II e Caia II, i coniugi simulatori, dallo ius impugnandi dopo un anno, a prescindere dalla coabitazione, perché ritiene meno degno di tutela (rispetto a quello di Caio I e Caia I) il loro interesse all’annullamento del matrimonio e lo ritiene meno degno di tutela perché in fondo la nullità del matrimonio é dovuta a un inganno da loro ordito in danno della Legge.Il Legislatore parla, poi, nell’art. 123 di convivenza e non di coabitazione perché Egli effettivamente nell’art. 123 deduce dalla convivenza il tacito accordo dei coniugi simulatori a considerarsi marito e moglie (cosa che, come abbiamo visto, non potrebbe dedurre da una semplice coabitazione).

Lezione IV – Breve commento agli articoli che prevedono la nullità del matrimonio.

Disc. Prima di passare a commentare, sia pure brevemente, gli articoli che prevedono le varie cause di “nullità”, dimmi, a proposito del matrimonio, si ha da parlare di nullità o di annullabilità?

Doc. In certi casi si deve parlare di annullabilità (ad esempio in caso di matrimonio celebrato in stato di incapacità naturale di un coniuge, o per un errore di cui questi sia rimasto vittima), in altri casi di nullità (ad esempio nel caso del matrimonio del bigamo e in genere in tutti i casi di matrimonio celebrato con violazione degli “impedimenti” posti a tutela dei boni mores e dell’ordine pubblico), in altri ancora si deve addirittura parlare di inesistenza (ad esempio in caso di matrimonio celebrato davanti a un ufficiale di stato civile falso e di cui i coniugi conoscono la falsità – ché se non la conoscessero il matrimonio sarebbe perfettamente valido - v. melius l’art.113).

Disc. Ma hanno rilievo pratico tali distinzioni tra annullabilità, nullità e inesistenza del matrimonio?

Doc. E certo che sì: in caso di nullità e di inesistenza l’azione non si prescrive, in caso di annullabilità, invece, sì. In caso di matrimonio annullato o dichiarato nullo, si riconoscono dei diritti ai coniugi in buona fede e ai figli che ne sono il frutto (come vedremo meglio parlando degli articoli 128 e segg.), in caso di inesistenza, invece, no.

Disc. Chiarito il punto, passiamo al commento dell’articolo 117, che recita.“Il matrimonio contratto con violazione degli articoli 86, 87 e 88 può essere impugnato dai coniugi, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarlo un interesse legittimo e attuale.Il matrimonio contratto in violazione dell’articolo 84 può essere impugnato dai coniugi, da ciascuno dei genitori e dal pubblico ministero. La relativa azione di annullamento può essere proposta personalmente dal minore non oltre un anno dal raggiungimento della maggiore età. La domanda, proposta dal genitore o dal pubblico ministero, deve essere respinta ove, anche in pendenza del giudizio, il minore abbia raggiunto la maggiore età ovvero vi sia stato concepimento o procreazione e in ogni caso sia stata accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale.Il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza.Nei casi in cui si sarebbe potuta accordare l’autorizzazione ai sensi del quarto comma dell’articolo 87, il matrimonio non può essere impugnato dopo un anno dalla celebrazione.La disposizione del primo comma del presente articolo si applica anche nel caso di nullità del matrimonio previsto dall’articolo 68”.

Doc. Come subito balza agli occhi, l’articolo distingue le ipotesi di matrimonio contratto per violazione degli articoli, 86 (matrimonio del bigamo), 87 (matrimonio incestuoso), 88 (matrimonio dell’attentatore alla vita del “coniuge dell’altra”), dall’ipotesi di cui all’art.84 (matrimonio del minore). E infatti, nelle prime tre ipotesi (tutte relative a violazione di “impedimenti” posti a tutela dei boni mores e dell’ordine pubblico) diversa che nella quarta é la natura dell’invalidità (che é quella della nullità nelle tre prime, e della annullabilità nella quarta) e, in particolare, la legittimazione a farla valere.

Disc. E infatti vedo che, sì, tanto nelle prime tre ipotesi quanto nella quarta é concessa la legittimazione (a impugnare) ai coniugi e al pubblico ministero, ma poi, ecco la diversità, mentre nelle prime tre ipotesi, la legittimazione é concessa anche agli ascendenti e a “tutti coloro che abbiano per impugnare un interesse legittimo e attuale”, nella quarta ipotesi, la legittimazione viene riconosciuta solo ai “genitori” (e non si parla più di ascendenti e di persone che abbiano ad impugnare un interesse ecc. ecc.).Ecco, allora, la prima domanda che ti voglio porre: chi può dire di avere un “interesse

legittimo e attuale” all’impugnazione?

Doc. Io direi che può dirlo chi, dall’esistenza del matrimonio, vede affermato un suo obbligo o negato un suo diritto, quando dell’adempimento dell’obbligo già é stata avanzata pretesa e dell’esercizio del diritto sono già attuali i presupposti.

Disc. Abacadabra: fai chiarezza con un esempio.

Doc. Il matrimonio di Caio e Caia é nullo perché incestuoso: Caio muore e Caia chiede di concorrere all’eredità in danno dei fratelli di Caio: a questi va riconosciuto lo ius impugnandi.

Disc. Ma tale tua interpretazione é davvero molto restrittiva: in base ad essa, i figli del primo matrimonio, non potrebbero (almeno prima che divenga attuale un loro diritto alla successione o agli alimenti) impugnare il secondo matrimonio del bigamo: quindi dovrebbero assistere impotenti allo scandalo del padre, che si é creato una nuova famiglia. E lo stesso può ripetersi per la moglie, ben s’intende, la moglie del primo matrimonio

Doc. Nulla impedisce ai figli di fare un esposto al pubblico ministero che, se lo riterrà fondato, potrà, lui, sì, proporre impugnazione. Quanto alla moglie, essa senz’altro ha diritto all’impugnazione; e, anche a prescindere dal dettato dell’articolo 124 (che espressamente gliela riconosce) l’avrebbe anche adottando l’interpretazione del comma primo da me proposta: infatti il secondo matrimonio nega e offende il suo diritto alla fedeltà di Caio nei suoi confronti.

Disc. Leggo nel secondo comma che la “azione di annullamento può essere proposta personalmente dal minore non oltre un anno dal raggiungimento della maggiore età. La domanda, proposta dal genitore o dal pubblico ministero, deve essere respinta ove, anche in pendenza del giudizio, il minore abbia raggiunto la maggiore età ovvero vi sia stato concepimento o procreazione e in ogni caso sia stata accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale”.Ora, io comprendo che il Legislatore possa non ritenere più opportuno, rimettere ai genitori e al pubblico ministero la decisione sull’annullamento del matrimonio, quando “vi sia stato concepimento o procreazione”: tali eventi infatti creano problemi di così grande delicatezza, che necessariamente essi vanno rimessi solo alla decisione del coniuge – però,ecco il punto, il coniuge, non minorenne, ma che ha raggiunto la

maturità necessaria per affrontare tali problemi delicati. Più in genere mi pare assurdo rimettere la decisione, sulla proponibilità e/o proseguibilità dell’azione di annullamento di un matrimonio, a chi si é ritenuto tanto immaturo da non poter decidere se contrarlo: infatti mi pare che occorra lo stesso grado di maturità sia per decidere se fare un atto sia per decidere se disfare un atto: per cui se Caio é ritenuto immaturo per la prima decisione, deve essere ritenuto immaturo anche per la seconda decisione.

Doc. L’assurdità da te denunciata effettivamente ci sarebbe, se la norma dovesse essere interpretata come tu credi. Senonché così, interpretata non deve essere.Cominciamo a porre alcuni punti fermi.Primo, da nulla risulta che il coniuge possa proporre personalmente l’azione di annullamento anche se minorenne: anzi la lettera della legge é tale da far pensare che l’azione dal coniuge “può essere proposta personalmente” solo quando egli ha raggiunto la maggiore età: infatti l’avverbio “personalmente” usato dal Legislatore sarebbe pleonastico, se, dall’incipit del secondo comma (e precisamente dal riferimento ai “coniugi” tout court, senza distinguere se maggiorenni o minorenni), si dovesse dedurre che il coniuge, maggiorenne o minorenne che fosse, potesse proporre personalmente l’azione.Secondo punto fermo: da nulla risulta che il coniuge, quando é ancora minorenne, possa rinunciare alla proponibilità dell’azione di annullamento: quello che unicamente risulta, dall’ultima parte della disposizione da te citata, é che il giudice (se il coniuge diventa maggiorenne, se egli dichiara di voler mantenere in vita il vincolo ecc.ecc.) “respinge” la domanda proposta dai genitori o dal pubblico ministero: non risulta da nulla, che tale sentenza di rigetto pregiudichi la proponibilità dell’azione del coniuge una volta raggiunta la maggiore età. E proprio questo va ritenuto, sia per evitare l’assurdità da te prima denunciata sia per evitare la contraddittorietà di ammettere, da una parte, il coniuge diventato maggiorenne a esercitare l’azione, dall’altra, di privarlo di tale azione...... al raggiungimento della maggiore età (in seguito al rigetto di una domanda da altri proposta!).Quindi, anche interpretando alla lettera la norma e ritenendo che il giudice (in caso di raggiungimento della maggiore età da parte del coniuge, in caso che questi abbia dichiarato ecc.ecc.) debba rigettare con sentenza la domanda del p.m. e dei genitori, non c’é necessità di ritenere, che tale sentenza bruci l’azione di annullamento (per cui effettivamente si dovrebbe credere che la dichiarazione del coniuge minorenne di mantenere in vita il vincolo produca, sia pure indirettamente, la sua rinuncia all’azione di annullamento). Tuttavia anche l’interpretare la norma come se la

dichiarazione del minore di voler mantenere in vita il vincolo (o l’evento del concepimento ecc.), non implichi rinuncia all’azione, ma solo produca il rigetto e l’estinzione del processo, non é soddisfacente.

Disc. Perché mai?

Doc. Per avere il “perché” devi partire dalla considerazione del disposto dell’articolo 126, che recita: “Quando é proposta domanda di nullità del matrimonio, il tribunale può, su istanza di uno dei coniugi, ordinare la loro separazione temporanea durante il giudizio; può ordinarla anche d’ufficio, se ambedue i coniugi o uno di essi sono minori o interdetti”.E’ chiaro che, la possibilità data al giudice di disporre anche d’ufficio la separazione, mira chiaramente ad impedire che, una inconsulta convivenza voluta dall’inesperienza e impulsività di un coniuge minorenne, porti a complicazioni nella già aggrovigliata matassa creata dalla nullità del matrimonio; ora non sarebbe assurdo togliere tale possibilità al giudice solo perché il minorenne..... dichiara di voler mantenere in vita il matrimonio?

Disc. E allora?

Doc. Allora, sia pure forzando la lettera della legge, si deve ritenere che il giudice, adito dal p.m. e dai genitori, non chiuda il processo (con una sentenza di rigetto) una volta che é intervenuta la dichiarazione del minorenne (o il concepimento ecc.), ma semplicemente lo sospenda, conservando nonostante tale sospensione il potere di ordinare la separazione dei coniugi.

Disc. E’ un po’ forzata tale interpretazione.

Doc. Sì, ma perché é molto pasticciato il testo legislativo!

Disc. Un’ultima domanda sull’art.117: quando la norma, nell’attribuire la legitimatio ad impugnandum, parla di “coniugi”, si riferisce anche al coniuge in malafede, anche a Caio che ha impalmato Caia dopo aver assassinato il suo coniuge (art. 88), anche a Caia che consapevolmente ha contratto un secondo matrimonio (art.86), e così via?

Doc. Sicuramente, sì.; anche il coniuge in malafede, il coniuge-assassino, il bigamo (…), ha un legittimo interesse a essere liberato da un matrimonio, che lo mette al

centro della disapprovazione sociale, e tale interesse é meritevole di tutela, se non altro perché coincide con l’interesse pubblico (all’eliminazione di un matrimonio fonte di scandalo e di turbamento nella società).

Disc. Passiamo ora all’articolo 119, che recita: “Il matrimonio di chi é stato interdetto per infermità di mente può essere impugnato dal tutore, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo se, al tempo del matrimonio, vi era già sentenza di interdizione passata in giudicato, ovvero se la interdizione é stata pronunciata posteriormente ma l’infermità esisteva al tempo del matrimonio. Può essere impugnato, dopo revocata l’interdizione, anche dalla persona che era interdetta.L’azione non può essere proposta se, dopo aver revocata l’interdizione, vi é stata coabitazione per un anno”.

Doc. Quindi, la nullità del matrimonio può essere dichiarata per infermità mentale, solo se vi sia stata una sentenza che abbia dichiarata, per tale infermità, l’interdizione; poco importa che tale sentenza sia stata pronunciata prima o dopo il matrimonio.

Disc. Ma se pronunciata dopo il matrimonio, la sentenza deve pur sempre aver accertato che l’infermità esisteva al momento del matrimonio.

Doc. E’ così, grazie della precisazione.

Disc. - E se un coniuge, al momento del matrimonio, non era interdetto, ma beneficiava di una “amministrazione di sostegno” (artt.404 ss)?

Doc. In tal caso riterrei che occorra vedere se il giudice tutelare – che per l’art.411 co.4 “può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizione di legge per l’interdetto si estendano al beneficiario” - abbia ritenuto, o no, di escludere in questi il potere di contrarre matrimonio: se sì, il matrimonio dovrà considerarsi nullo.

Disc. La norma limita lo ius impugnandi al “tutore, al pubblico ministero, e a tutti coloro che abbiano un interesse legittimo”. Quanto all’espressione “tutti coloro che abbiano un interesse legittimo” essa é sostanzialmente eguale a quella già incontrata nel corpo dell’art.117 (manca il riferimento all’attualità dell’interesse, ma ciò va attribuito evidentemente a un lapsus del legislatore), cosa per cui, penso, valgano per

essa le osservazioni già fatte commentando l’art.117. Non capisco, però, perché, né gli ascendenti né i genitori, a cui pur l’art. 117 conferiva espressamente lo ius impugnandi, nell’articolo 119 non siano neanche nominati.

Doc. Non lo capisci perché parti da un presupposto erroneo, che cioè l’omissione del riferimento all’attualità dell’interesse sia semplicemente dovuta ad un lapsus: non é così: tale omissione si deve invece ritenere voluta dal legislatore, proprio per controbilanciare l’esclusione dei genitori e degli ascendenti dalle persone a cui espressamente è riconosciuto lo ius postulandi: io, legislatore, non attribuisco espressamente a te, genitore, a te, ascendente, lo ius postulandi, ma in compenso vi tolgo, quell’impedimento all’esercizio di tale diritto, rappresentato da “l’attualità dell’interesse a impugnare”.

Disc. Passiamo all’esame dell’articolo 120 che recita: “Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio.L’azione non può essere proposta se vi é stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali”.

Doc. Permettimi di cominciare il mio commento un po’ da lontano; ma ciò é necessario per bene impostare le questioni che fa nascere l’interpretazione, non solo dell’articolo 120, ma anche degli articoli 122 e 123.Più precisamente dobbiamo partire dalla considerazione che lo Stato ha un chiaro interesse a che i matrimoni, celebrati dai suoi ufficiali di stato civile, siano, come si suol dire, “fortunati”: che le famiglie a cui dan vita siano famiglie felici e armoniose.

Disc. Ciò é evidente: un vecchio detto suona: se le famiglie sono felici, le città sono felici, se le città sono felici, tutta la nazione é felice.

Doc. E come é evidente questo, é anche evidente che lo Stato subordina la celebrazione del matrimonio al consenso dei nubendi perché ritiene che, questo consenso, sia un indice favorevole della buona riuscita del matrimonio stesso: se Caia e Caio – questo é in buona sostanza il ragionamento del legislatore - sono contenti di sposarsi, ciò significa che essi, valutati i pro e i contro, valutate le qualità dell’uno e dell’altro, giudicano che il loro matrimonio sarà felice, e quale migliore giudice di loro sul punto, dal momento che loro, meglio di tutti gli altri, conoscono le rispettive

qualità e la rispettiva situazione e, al contrario di tutti gli altri, possono farsi guidare da una guida sicura: il loro cuore?

Disc. Non é proprio così.

Doc. Non é per nulla così, ma nel nostro mondo occidentale queste sono le idee che sono venute a predominare e da cui il legislatore si lascia condizionare. Tale essendo il ragionamento, che ispira la nostra Legge, diventa logico che Essa ritenga invalido il matrimonio quando le facoltà dei nubendi – e mi riferisco non solo alle facoltà di raziocinio, ma anche a quelle del sentimento e della volontà – sono gravemente turbate e alterate. Caio e Caia diventano allora come un barometro guasto, che non dà più affidamento di segnare il tempo giusto: che abbiano detto “sì” all’ufficiale di stato civile, non é più indice di una riuscita del loro matrimonio: questo pertanto viene dal Legislatore ritenuto nullo – e, bada, tale viene ritenuto, anche se non é provato che Caio e Caia abbiano commesso un qualche errore sposandosi. Questo punto é interessante. Infatti vedremo, commentando l’articolo 122, che solo eccezionalmente il Legislatore dà rilievo agli errori in cui i nubendi siano caduti: se Caio si lamenta “Ho sbagliato: credevo di sposare un santa e ho sposata una donnaccia”, il Legislatore gli risponde “Peggio per te: l’hai sposata e te la tieni”, ma se Caio si lamenta “Povero me, ero ubriaco e ho sposato una donnaccia” o anche si limita a lamentarsi “Povero me, ero ubriaco”, il Legislatore gli annulla il matrimonio, e glielo annulla senza chiedergli nessuna prova, che, la sua incapacità di intendere, l’ha condotto a compiere un errore!

Disc. Ma quanto deve essere grave la turbatio di cui sono vittime Caio e Caia (o il solo Caio o la sola Caia) per dare luogo all’annullamento?

Doc. Il legislatore non lo dice; ma la logica vuole che tale turbatio, per portare all’annullamento, sia talmente grave da escludere che il “sì”, pronunciato da Caio, sia attribuibile alla sua personalità (da escludere la suitas dell’atto, direbbe un penalista): Caio, é vero, ha detto “sì”, ma quel “sì” non gli appartiene, perché l’ha pronunciato sotto l’influsso di Bacco: chi ha pronunciato quel “sì,” non é il vero Caio, impiegato perfetto, assennato nelle sue decisioni ecc.ecc., ma un altro Caio, un Caio impulsivo, senza freni, pasticcione, che porta lo stesso nome ma non corrisponde al “vero Caio”: giusto quindi che questi non resti vincolato da tale “si”.

Disc. L’incapacità di Caio quindi non va misurata con un metro oggettivo, non va

misurata con riferimento alla capacità del bonus pater familias.

Doc. Chiaramente, no: il matrimonio stipulato da Caio, esperto e smaliziato matrimonialista, é annullabile anche se egli, nonostante i fumi del vino che gli ottenebravano la mente, era in grado di comprendere di più, della legge e della vita, del rustico e analfabeta Bertoldino (il cui matrimonio pur é reputato perfettamente valido): quel che importa al fine di dichiarare l’annullamento é che Caio al momento della celebrazione “non era completamente in sè”.

Disc. Dell’incapacità di intendere e di volere abbiamo parlato abbastanza, parliamo ora della violenza e dell’errore, passiamo all’art. 122, che recita:“Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso é stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo.Il matrimonio può altresì essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso é stato dato per effetto di errore sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge.L’errore sulle qualità personali é essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l’errore riguardi:1) l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tale da impedire lo svolgimento della vita coniugale;2)l’esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla reclusione non inferiore a cinque anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione prima della celebrazione del matrimonio. L’azione di annullamento non può essere proposta prima che la condanna sia divenuta irrevocabile;3) la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale;4) la circostanza che l’altro coniuge sia stato condannato per delitti concernenti la prostituzione a pena non inferiore a due anni. L’azione di annullamento non può essere proposta prima che la condanna sia divenuta irrevocabile;5) lo stato di gravidanza causato da persona diversa del soggetto caduto in errore, purché vi sia stato disconoscimento ai sensi dell’articolo 233, se la gravidanza é stata portata a termine-L’azione non può essere proposta se vi é stata coabitazione per un anno dopo che siano cessate la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l’errore”.

Doc. Se il Legislatore, come abbiamo visto nel commento al precedente articolo, ritiene la necessità del consenso dei coniugi in quanto indice di una buona riuscita del matrimonio (in base alla considerazione che nessuno meglio dei coniugi può conoscere e valutare le rispettive qualità per cui ecc.ecc.), logica vorrebbe che il matrimonio venisse annullato qualora venisse dimostrato che un coniuge é caduto in errore – ben s’intende, non un qualsiasi errore, ma in un errore costituente la motivazione principale dell’atto: quell’errore che i canonisti dicono causam dans (in opposizione all’errore concomitante, che accompagna l’atto di volontà ma non interessa la motivazione principale dell’atto: “Credevo che Caia fosse una brava cuoca, e invece non sa cuocere neanche un uovo in padella; ma anche se avessi saputo ciò, l’avrei sposata lo stesso”).

Disc. Soprattutto qualora si dimostrasse che un coniuge é caduto in errore sulle qualità dell’altro: in fondo, se i matrimoni vanno a rotoli, é proprio perché gli sposi si sono ingannati sulle rispettive personalità. Tuttavia tale conclusione, che a noi pare logica, dalla lettura dell’articolo 122 non sembra condivisa dal Legislatore, che esclude decisamente la rilevanza dell’errore sulle qualità, salvo che in alcuni eccezionalissimi casi: perché?

Doc. Perché, ritenere la rilevanza dell’errore sulle qualità, anche se dettato dalla logica, é sconsigliato dalla difficoltà di accertare, di tale errore, l’esistenza: Caio sostiene di aver sposato Caia perché, e solo perché, la riteneva una buona casalinga: sì, ma, per cominciare, non é facile, e comunque prenderebbe una enorme quantità di tempo ai nostri già oberati tribunali, accertare se Caia é o no una buona casalinga; e soprattutto é tutt’altro che facile accertare, se l’errore, che lamenta Caio é stato veramente causam dans (perché ciò richiederebbe un’indagine nel foro interno di Caio, e come si fa?! solus Deus est scrutator cordium!).

Disc. Però il Legislatore dà rilevanza all’errore “sull’identità della persona”; e tale errore si risolve in definitiva in un errore sulle qualità: Rossi Luigi non si identifica con Rossi Carlo perché ha qualità (fisiche, psichiche, morali...) diverse: se non fossero diverse, Rossi Luigi e Rossi Carlo sarebbero la stessa, identica persona; e in fondo, se Caia vuole sposare Rossi Luigi e non Rossi Carlo, é perché apprezza di più le qualità del primo e di meno le qualità del secondo.

Doc. Questo é vero, ma é anche vero che l’errore sull’identità é, sì, un errore sulle qualità, ma, prima di tutto, é un errore sulle qualità che, facendo eccezione alla

regola, di solito é accertabile con indagini che non investono il foro interno (dato che tale errore risulta di solito da scambi epistolari, fotografie et similia); in secondo luogo, é un errore che riguarda, non una sola qualità, ma un fascio, una molteplicità di qualità: Caia voleva sposare Rossi Luigi, perché alto di statura, ama la musica classica, gli piace far passeggiate, e si trova sposata con Rossi Carlo, che è bassotto di statura, ama il jazz, odia camminare ecc.: un uomo tutto diverso da quello che voleva sposare!

Disc. Ma tu, che citi così spesso i canonisti, perché non dici qual’è la soluzione da essi adottata?

Doc. Il diritto canonico dà rilevanza, oltre che all’error in persona, anche all’error qualitatis, purché questo sia redundans in personam; e, se sono riuscito a ben comprendere i ragionamenti sottili dei nostri cugini canonisti, perché tale possa essere considerato, l’errore, non solo deve essere causam dans (esempio di error causam dans dato da S. Alfonso de Liguori: “voglio sposare una nobile, quale reputo esser Tizia” - trasposto ai nostri tempi: “Voglio sposare un cittadino italiano, e per questo sposo Caio”); ma, oltre a questo, deve rispondere ad altri requisiti, che, da quel che ho compreso, mirano soprattutto a facilitare l’accertamento della effettiva principalità dell’errore: ciò mi pare soprattutto risultare evidente nel primo dei requisiti pretesi da S. Alfonso de Liguori: che cioé, la qualità erroneamente ritenuta, sia stata apposta quale conditio sine qua non: é chiaro che, quando la richiesta di una certa qualità viene espressa (cioé, non é più “nel cor celata”), la sua prova non richiede più un’indagine nel foro interno del coniuge, quindi é di molto facilitata.

Disc. Egualmente mi pare facilitato, l’accertamento dell’error qualitatis, quando si deduce che esso é frutto del dolo altrui: infatti Caia, per provare che ha contratto matrimonio perché a ciò indotta dolosamente da Caio, deve provare, non solo di essere caduta nell’errore A (metti, l’errore di credere Caio cittadino italiano), non solo che Caio ha tenuto un comportamento che l’ha indotta nell’errore A, ma che Caio ha tenuto quel comportamento proprio per indurla all’erronea supposizione della qualità A (animus decipiendi di Caio); ma, ecco il punto, se si dà effettivamente la prova (che naturalmente sarà una prova non relativa al foro interno di Caia) che Caio ad obtinendum consensum é stato costretto a indurre Caia in errore sull’esistenza della qualità A, si dà con ciò stesso la prova che l’esistenza di tale qualità per Caia era, per dirla nel gergo dei tuoi canonisti, causam dans.

Doc. Quel che dici é sostanzialmente vero, e può spiegare perché il diritto canonico ritenga (col canone 1098) la nullità del matrimonio di chi “matrimonium init deceptus dolo, ad obtinendum consensum patrato, circa aliquam alterius partis qualitatem, quae suapte natura consortium vitae coniugalis graviter perturbare potest” (di chi “celebra il matrimonio, raggirato con dolo ordito per ottenere il consenso, circa una qualità dell’altra parte, che per sua natura può perturbare gravemente la comunità di vita coniugale”). Col risultato di dare indirettamente rilevanza anche ad errori diversi da quello in persona (i canonisti citano come esempi di tali errori, diversi da quello in persona, anche se pur sempre capaci di “graviter perturbare” “consortium vitae coniugalis”, quelli vertenti su: lo stato di gravidanza ab alio, una malattia contagiosa, la tossicodipendenza, la commissione di certi delitti)

Disc. Ma il nostro Ordinamento invece al dolo non ha ritenuto di dare rilevanza.

Doc. Questo probabilmente per sgombrare le nostre aule di giustizia delle troppo sottili questioni, che affaticano quelle dei tribunali ecclesiastici. Peraltro, come vedremo parlando della separazione personale dei coniugi, molti di quegli errores in qualitate ritenuti irrilevanti per l’annullamento del matrimonio, riacquistano rilevanza per il nostro Ordinamento, se causati dal comportamento doloso dell’altro coniuge, come “causa di addebito” della separazione (art. 151 co.2).

Disc. Come dire che, ciò che si é cacciato dalla porta, lo si fa rientrare dalla finestra.

Doc. Non proprio, perché al coniuge (in buona fede), in caso di nullità, vengono riconosciuti diritti molto minori, di quelli riconosciuti al coniuge, a cui la separazione non va addebitata: lo vedremo meglio parlando del matrimonio putativo.

Disc. Ma ritorniamo all’articolo 122: non é poi vero che il nostro legislatore chiuda assolutamente la porta a tutti gli errores in qualitate: egli infatti, nel secondo comma dell’articolo in esame, riconosce l’impugnabilità del matrimonio “per effetto” non solo “di errore sull’identità della persona” ma altresì “di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge”; e, nel successivo comma tre, elenca (sia pure in maniera chiaramente tassativa) ben cinque diversi tipi di errores in qualitate: li vogliamo conoscere meglio di quel che permette una frettolosa lettura dell’articolo?

Doc. Certo, però prima dobbiamo premettere due osservazioni di carattere generale:Prima osservazione: la rilevanza dell’errore va esclusa se (vedi l’incipit del terzo

comma) “tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge (idest, del coniuge in errore) si accerti che (egli) non avrebbe prestato il suo consenso, se le avesse esattamente conosciute”: come vedremo, un coniuge può chiedere l’annullamento, se ignorava che l’altro era stato condannato per delitti particolarmente gravi, ma, metti che Caio sia stato condannato per un delitto politico e Caia abbia le sue stesse idee politiche, Caia non potrebbe impugnare il matrimonio, perché si dovrebbe ritenere accertato che Caia, anche se avesse conosciuto della condanna, avrebbe dato il suo consenso (questo, almeno se la condanna fosse stata già scontata; più discutibile diventerebbe il caso, se si trattasse di una condanna a molti anni ancora da scontare).Seconda osservazione: nulla rileva, che l’errore sia stato o no indotto da un comportamento colposo o doloso dell’altro coniuge: anche se Caio non ha fatto nulla per nascondere la sua malattia, ma questa comunque era ignorata da Caia, il matrimonio é annullabile. E così, nulla rileva il comportamento doloso o colposo del coniuge in difetto: anche se qualsiasi altra persona si sarebbe accorta del difetto di Caio, e lei, no, Caia può chiedere l’annullamento.Tanto premesso possiamo davvero cominciare l’esame dei vari errores in qualitate; e naturalmente cominciamo da quello indicato nel numero 1: l’errore sulla “esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale”.

Disc. Quindi se Caia scopre che Caio é impotente (tanto per citare un’anomalia sessuale) o omosessuale (tanto per citare una deviazione sessuale) oppure schizofrenico o diabetico (tanto per citare delle vere e proprie malattie) può impugnare il matrimonio?

Doc. Non é detto. Perché il matrimonio sia impugnabile infatti occorrono i seguenti tre presupposti:che l’handicap, diciamo così, dell’altro coniuge esistesse già al momento della celebrazione del matrimonio;che l’handicap fosse grave – tenendo però presente che, per essere considerato tale, non occorre che fosse tale da “impedire” la vita in comune, basta che fosse tale da renderla “intollerabile” (e senza dare a tale aggettivo una interpretazione meno elastica e benevola di quella che gli si dà nell’ambito dell’articolo 151 sulla separazione giudiziale – semmai il contrario: quel che può essere considerato doverosamente “tollerabile” nel caso di una convivenza che ha già dato luogo ad un’intimità forse protrattasi per anni, può essere ritenuto “intollerabile” nel caso tra i due coniugi non si sia ancora instaurata una consuetudo vitae). La “gravità”

dell’handicap va poi esclusa quando esso é eliminabile con cure non pericolose per la salute e il cui esito positivo rientri nella normalità (ma se il coniuge handicappato si rifiuta a tali cure l’altro coniuge ha diritto alla separazione “con addebito”).Che, come già si é detto, si accerti che, non solo il coniuge (che vuole impugnare) abbia al momento della celebrazione ignorato l’handicap dell’altro, ma che “non avrebbe prestato il suo consenso al matrimonio se lo avesse esattamente conosciuto”. Quindi il matrimonio tra Caia e Caio é perfettamente valido anche se questo é affetto da impotenza o é omosessuale, se Caia era a conoscenza di tale anomalia o deviazione sessuale: per il nostro Ordinamento il bonum prolis non rientra tra i bona del matrimonio. Tutto al contrario per il diritto canonico, l’impotenza, anche se conosciuta e accettata al momento della celebrazione, determina la nullità del matrimonio, poiché nei bona di questo vien fatto rientrare - oltre che il bonum fidei (il bene della fedeltà) e il bonum sacramenti (il bene dell’indissolubilità) - appunto anche il bonum prolis.

Disc.Passiamo ora a parlare degli errores in procedendo contemplati nei numeri, 2,3,4. Li possiamo trattare insieme dato che unica mi sembra la loro ratio; che é evidentemente data dal pericolo a cui si trova esposto il coniuge costretto a convivere con persona, le cui inclinazioni deliquenziali ignorava al momento di sposarsi.

Doc. D’accordo, possiamo fare un’unica trattazione di tali errores. Dove però non sono d’accordo con te, é nel ritenere che la ratio della nullità, indotta da essi, sia da ravvisarsi nel pericolo che corre il coniuge che ne é stato vittima: e infatti che pericolo corre Caia, se Caio é stato condannato, sì, a cinque anni, ma per un delitto politico?! La ratio della nullità piuttosto la ravviserei nel fatto che il marchio di infamia, che i precedenti penali imprimono nel coniuge “pregiudicato”, potrebbe essere fonte di imbarazzo e addirittura di difficoltà nella vita sociale per l’altro coniuge.

Disc. Comunque sia, mi pare interessante che, per escludere la nullità, non basti la possibilità anche forte che il coniuge pregiudicato ottenga nel tempo la riabilitazione, ma occorre che questa già risulti ottenuta al momento della celebrazione: evidentemente il legislatore non ritiene giusto addossare, al coniuge in errore, il rischio di una mancata concessione della riabilitazione. E ciò conforta la tesi, da te avanzata a proposito dell’errore sull’esistenza, diciamo così, di un handicap, che il semplice fatto della sua eliminabilità non esclude la nullità, a meno che la sua eliminazione non dipenda da altro che dalla buona volontà del coniuge handicappato.

Ovvio, poi, mi pare che il matrimonio non sia impugnabile fino a che la sentenza non sia passato in giudicato: fino a che non si é certi che Caio sia colpevole, é giusto che Caia sia vincolata dal matrimonio.

Doc. Non direi che, fino a che la sentenza non é passata in giudicato, Caia sia vincolata dal matrimonio. Proprio il fatto che il Legislatore fa l’ipotesi di una sentenza di condanna non ancora passata in giudicato, fa pensare che la nullità (e quindi la cessazione del vincolo) si abbia come conseguenza della semplice pendenza del processo al momento della celebrazione del matrimonio, se esso si conclude con una sentenza passata in giudicato. E ciò significa che il matrimonio ha da considerarsi invalido fin dal momento della celebrazione del matrimonio, anche se, da tale momento fino al passaggio in giudicato della sentenza, si crea una situazione di incertezza sulla sua validità (situazione che abbiamo del resto già incontrata nel caso in cui il coniuge-bigamo, convenuto per la nullità del secondo matrimonio, opponga la invalidità del primo e quindi occorra, per accertare la validità del secondo matrimonio, aspettare che passi in giudicato la sentenza che decide sulla invalidità del primo).

Disc. A questo punto ci rimane da dire sull’error in qualitate previsto dal numero 5 che recita “(l’errore sulle qualità é essenziale purché riguardi) lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore in errore, purché vi sia stato disconoscimento ai sensi dell’articolo 233, se la gravidanza é stata portata a termine”.Primo dubbio: il coniuge impugnante deve ignorare lo stato di gravidanza oppure che tale stato deriva ab alio.

Doc. Deve ignorare lo stato di gravidanza o, se ne é a conoscenza, deve ignorare che é dovuto ab alio.

Disc. Secondo dubbio: si deve intendere che Caio può impugnare il matrimonio, sia che la gravidanza non sia stata portata a termine sia che sia stata portata a termine (in questo secondo caso però occorrendo il disconoscimento) oppure si deve intendere che Caio può impugnare solo se la gravidanza é stata portata a termine e lui ha effettuato il disconoscimento?

Doc. A me pare più logica la seconda interpretazione. Infatti, la ratio della disposizione de qua, non sembra essere quella di liberare Caio da Caia, perché questa si é rivelata una “donnaccia” (se infatti tale fosse la ratio, a Caio dovrebbe essere

concesso l’annullamento anche qualora Caia non risultasse vergine o, peggio, risultasse madre di numerosa prole naturale), bensì la ratio sembra quella di evitare a Caio di trovarsi in famiglia un figlio, che non é il suo (problema che evidentemente non sussiste se la gravidanza non viene portata a termine).

Disc. Dobbiamo ora passare a trattare dell’altro vizio della volontà, che può invalidare il matrimonio: la violenza. L’articolo 122 contempla questo vizio nel suo primo comma recitando: “Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso é stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo”.Nulla quaestio a proposito del “consenso estorto con violenza”. Con tale espressione il legislatore si riferisce chiaramente ai casi di violenza fisica - casi tanto facili a immaginarsi in teoria, quanto difficili a verificarsi in pratica; (e tuttavia un esempio di vis phisica si può trarre da un fatto storico: Margherita di Valois, interrogata dal celebrante se vuole sposarsi tituba - perché, innamorata del principe di Condè, non vuole andare sposa a Enrico IV -, il fratello se ne accorge e le dà sulla nuca un energico colpo che le fa abbassare la testa, ciò che viene interpretato dal compiacente celebrante come un segno di assenso). E’ chiaro che é ben difficile che un celebrante non si accorga di una violenza fisica e che accorgendosene non si rifiuti di celebrare il matrimonio.Passiamo pertanto a parlare del consenso “determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo”.La determinazione degli esatti confini in cui va contenuto questo secondo tipo di violenza fa nascere non pochi problemi: perché? Perché, dire che Caio ha dato il suo consenso per timore di un male, significa alla fin fine dire che Caio ha dato il suo consenso per evitare un male. Senonchè é normale che, chi si sposa, lo faccia per evitare una situazione esistenziale sentita come dolorosa (cioé sentita e quindi temuta come “male”) e per mettersi in una situazione esistenziale felice o almeno di minore sofferenza (desiderata come un “bene”); e così lo scapolone Mario si sposa per evitare il male della solitudine (per timore della solitudine), Maria, che fa la lavascale, sposa Arturo che ha la cadillac, per evitare di continuare a vivere nei bassifondi (situazione che sente e quindi teme come un “male”), e così via.Stando così le cose si pone per il Legislatore il problema di delimitare in qualche modo i casi in cui il consenso, indotto dal timore di un male, é causa di nullità; ed Egli risolve tale problema pretendendo i seguenti requisiti del timore (a che valga come causa di nullità):1) deve trattarsi di timore di “eccezionale gravità”. Qui si pone il problema: il

Legislatore intende riferirsi, a casi in cui é di eccezionale gravità il male, che il coniuge intende evitare (prestando il suo consenso al matrimonio) o a casi in cui il coniuge, grave o no che sia il male per lui da evitare, é posseduto da un grave timore.Oltre che la lettera della legge, anche la logica farebbe propendere per questa seconda soluzione, dato che, dovendosi accertare la libertà del volere di chi ha dato il consenso, é logico che si faccia riferimento al suo stato psichico: poco importa che Caio, come un Don Abbondio, tremi per uno stormir di foglie, quel che conta é che abbia detto “sì” mentre voleva dire “no”. Però l’esigenza pratica di evitare ai giudici il difficile accertamento degli stati soggettivi di una persona, porterebbe invece a far dipendere la dichiarazione di nullità solo dall’accertamento e dalla valutazione della gravità del male che ha indotto il timore. E farebbe pensare che proprio questa sia la soluzione adottata dal Legislatore, il fatto che egli pretenda, come secondo requisito del timore a che si possa dichiarare la nullità, che esso derivi “da cause esterne allo sposo”, cioé, per dirla con i canonisti, nasca non ab intrinseco ma ab extrinsexo.

Disc. Che significa che il timore deve nascere ab extrinseco?

Doc. Non significa certo, come lascerebbe intendere la lettera della legge, che deve derivare da “cause esterne”. E questo per la semplicissima ragione che non c’é timore che non derivi dall’esterno: anche Caio che si sposa per paura dell’inferno o per paura di essere in caso contrario perseguitato dal fantasma di suo padre, oppure – per portare un altro esempio di timore ab intrinseco, - Sempronio che si sposa per timore riverenziale (perché non sopporta i rimbrotti dello zio prete), ebbene anche loro traggono il loro timore da una fonte esterna (forse che non sono esterni, l’inferno, il fantasma, lo zio prete?).

Disc.,- E allora?

Doc. E allora deve intendersi come timore nato ab intrinseco quello che trae, almeno principalmente, la sua forza dalla particolare sensibilità e immaginazione dello sposo.

Disc. Ma il timore deve nascere da una minaccia altrui?

Doc. No, diversamente di quel che avviene nella materia contrattuale, nella nostra materia il timore può anche non essere indotto da un comportamento umano (intenzionato a produrlo): ad esempio, Caia, che si sposa in tempo di guerra con un ufficiale della forza occupante al fine di sfuggire la fame, può chiedere

l’annullamento del matrimonio. Ti dico subito, però, per evitare equivoci, che quello che ti ho fatto ora, da non pochi studiosi, viene portato come esempio di matrimonio simulato. Erroneamente però secondo me, sul punto ritorneremo.

Disc. Passiamo ora a parlare della simulazione, che é prevista come causa di nullità dall’art.122,che recita: “Il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti”Doc. Se é vero, come abbiamo visto, che il Legislatore subordina al consenso dei coniugi la validità del matrimonio, in quanto vede nel fatto, che i coniugi siano disponibili ad accettare gli obblighi che ne derivano, un indice auspicioso ch’essi sapranno sopportarne il peso e che il matrimonio durerà, se questo é vero, logica vuole che il legislatore non ritenga più valido il matrimonio quando i coniugi “verbis vel signis in celebrando matrimonio adhibitis, per usare le parole dei canonisti, consentono all’assunzione di tali obblighi, ma in realtà tali obblighi non intendono assumere.

Disc. Ma Caio e Caia possono non volere assumere tali obblighi in due diversi sensi: nel senso che essi, conoscendone l’esistenza, li rifiutano, o semplicemente nel senso che pensano che dal matrimonio derivino obblighi diversi da quelli che il legislatore vi ricollega (Alì é musulmano e crede che dicendo il suo “sì” all’ufficiale di stato civile conserverà il diritto di prendersi una seconda moglie).

Doc. Giusto, e logica vorrebbe, non solo che nella prima, ma anche nella seconda ipotesi da te fatta, il matrimonio fosse considerato nullo; tanto più che, adottando i principi che regolano la materia contrattuale, tale sarebbe considerato (nessun dubbio che i civilisti considererebbero nullo, perché viziato da un errore “essenziale” - vedi l’art.1429 - il contratto di compravendita stipulato da chi con esso intendesse assumersi solo gli obblighi del locatore o conduttore dell’immobile). Tuttavia, dalla stessa lettera della norma (che vuole che le parti “abbiano convenuto di non adempiere”), risulta certo che, per il legislatore, si ha nullità solo nella prima ipotesi da te fatta: insomma, per il Legislatore, a che si abbia simulazione, occorre che in actu matrimonii sia presente una precisa intentio delle parti di non assumere gli obblighi derivanti per legge. E in ciò il nostro Ordinamento non fa altro che seguire quello canonico che, per ritenere la invalidità, pretende che gli obblighi matrimoniali siano esclusi con “positivo voluntatis actu”; più precisamente, il secondo paragrafo del canone 1101 suona: “At si alterutra vel utraque pars positivo voluntatis actu

excludat matrimonium ipsum vel matrimonii essentiale elementum vel essentialem aliquam proprietatem, invalide contrahit”(“Ma se una o entrambe le parti escludono con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso, oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale, contraggono invalidamente”).

Disc. Perché mai il Legislatore accetta l’illogicità che tu hai giustamente denunciata?

Disc. Probabilmente perché ritiene che - mentre nulla esclude che la persona (il nostro buon Alì dell’esempio), che dicendo il suo “si” non intende assumere un dato obbligo per la semplice ragione che lo ignora,, poi, una volta conosciutane l’esistenza, sia capace e disposta ad accollarsene il peso (“Sì, io, Alì, credevo che la legge italiana non mi impedisse un secondo matrimonio, ma dal momento che essa così vuole, mi adeguerò e mi contenterò di una sola moglie”) - il fatto che, con un “positivo voluntatis actu”, i coniugi abbiano escluso l’assunzione di un dato obbligo, non può che far ritenere che essi ritengono le loro spalle troppo deboli per sopportarne il peso.

Doc. Ma per la legge italiana, perché ci sia nullità, occorre che i coniugi rifiutino “matrimonium ipsum” o basta che ne rifiutino solo alcuni obblighi da esso derivanti?

Doc. Logica vuole che, a ritenere la nullità, basti il rifiuto anche di un solo obbligo da considerarsi “essenziale” per il nostro diritto; e logica anche vuole che siano ritenuti “essenziali” tutti gli obblighi enunciati negli articoli, di cui l’ufficiale di stato civile é tenuto a dar lettura al momento della celebrazione del matrimonio.Mi rendo conto che può essere ritenuta una soluzione troppo severa quella di ritenere “essenziale” ogni obbligo previsto dagli artt. 143, 144, 147; ma, una volta accettato il principio che per la nullità non occorre la c.d. “simulazione totale”, ma basta quella “parziale”, mancherebbe a noi, interpreti del codice italiano, ogni guida, se non adottassimo, per individuare la “essenzialità” di un obbligo, il criterio che ci offrono gli articoli or ora citati.Così non é per i canonisti, i quali, per individuare lo “essentiale aliquid elementum” o la” essentialem aliquam proprietatem”, la cui esclusione rende invalido il matrimonio, possono giovarsi della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale nata sui bona matrimonii: bonum prolis (procreazione di una figliolanza), bonum fidei (fedeltà al coniuge), bonum sacramenti (indissolubilità del matrimonio), bonum coniugum (volontà di fare il bene, fisico, psichico e spirituale, dell’altro coniuge).Chi volesse discostarsi dalla nostra, forse troppo severa, interpretazione della Legge,

dovrebbe a nostro parere ritenere almeno l’essenzialità degli obblighi che corrispondono al bonum fidei (l’obbligo di fedeltà, inteso nei limiti di cui diremo in altra sede), al bonum sacramenti (l’indissolubilità naturalmente intesa come...dissolubilità nei soli casi tassativi previsti dalla legge), al bonum coniugum.

Disc. Ma, a che vi sia nullità, occorre la simulazione di entrambi i coniugi o basta quella di uno solo: voglio dire, se il solo Caio o la sola Caia dicono “sì” con la riserva mentale di volere “no”, basta questo per rendere nullo il matrimonio?

Doc. La lettera dell’articolo in esame, farebbe concludere che per il nostro diritto occorra, per potersi parlare di simulazione, la concorde volontà di simulare di entrambi i coniugi (dato che questi, per l’articolo 123, debbono aver “convenuto” ecc.ecc.). Tutto al contrario di quel che, come abbiamo visto, dispone il diritto canonico, che, nel già citato canone 1101, si riferisce a “alterutra vel utraque pars” (una o entrambe le parti).A me però sembra, che una tale interpretazione della legge porti a una evidente contraddittorietà nel sistema: infatti, se per l’articolo 122 basta l’errore di una parte, cioé la mancanza del consenso in una parte, per determinare la nullità, perché mai non si ritiene nell’articolo 123 che basti la riserva mentale di una parte, cioé la mancanza del consenso in una parte sola, per determinare la simulazione e quindi la nullità? Per questo saremmo tentati di ritenere l’incostituzionalità (per evidente irrazionalità) della soluzione adottata dal Legislatore (ben s’intende la soluzione adottata nell’art. 123 e non nell’articolo 122).

Disc. Dulcis in fundo: qualche esempio di simulazione.

Doc. Io ti potrei portare il caso di Caio e Caia che ioci causa si presentano all’ufficiale di stato civile, per celebrare quello che per loro é un finto matrimonio – ma questo é un caso di scuola. Più interessante, in quanto con numerosi riscontri nella realtà, é l’esempio di Dolores, che, per acquisire la cittadinanza italiana, si sposa, sì, con Beppe, un nostro connazionale, ma ben decisa a mettersi sotto i piedi gli obblighi, che l’ufficiale di stato civile con tanta solennità le legge.

Disc. Questo esempio mi sembra eguale a quello, che tu ha fatto a proposito di una volontà coartata da violenza.

Doc. No, nell’esempio che commentando l’articolo 122 ho fatto, il coniuge si

decideva a contrarre matrimonio per il timore di morir di fame, invece la Dolores del secondo esempio, si decide al matrimonio semplicemente per acquisire un vantaggio.

Disc. Quindi, per stabilire se c’é simulazione o no, bisogna por mente al motivo per cui i coniugi si sono decisi alla celebrazione del matrimonio.

Doc. Per nulla: il motivo non conta nulla, o meglio, può contare solo ai fini della prova: quel che conta é l’esistenza o meno della intentio di rifiutare gli obblighi che la legge impone.

Disc. Un’ultima domanda, che però non riguarda solo l’articolo 123, ma tutti gli articoli sulle nullità prima commentati. E’ una domanda che nasce dalla constatazione del fatto che, come risulta dalla tua stessa esposizione, esistono, sì, molte somiglianze ma anche molte diversità tra il diritto della Chiesa Cattolica e il diritto dello Stato italiano: quindi é ben possibile che quel matrimonio,che il diritto canonico ritiene nullo, tale non sia per il diritto italiano; e ben può accadere che Caio e Caia, sposati con un matrimonio concordatario, si trovino nella strana e ingiusta situazione di non essere più sposati davanti a Dio e di essere invece considerati marito e moglie dallo Stato italiano. Strana e ingiusta situazione perché, se Caia ha consentito ad assumersi gli obblighi di fedeltà ecc. voluti dal Codice italiano, lo ha fatto solo nel presupposto che Caio fosse a lei unito dal vincolo sacro del matrimonio religioso: cadendo questo presupposto, non esistendo più tale vincolo, Caia ben può ritenere ingiusto essere vincolata da un obbligo di fedeltà, da un obbligo di mantenimento ecc. verso Caio,che per lei é diventato un perfetto estraneo. Dopo questa (necessariamente lunga) premessa vengo alla domanda: la legge italiana non adotta nessun rimedio per evitare tale ingiustizia?

Doc. Sì, naturalmente, un rimedio l’adotta, ma non certo quello di dichiarare la nullità del matrimonio civile nel presupposto della nullità di quello religioso (anche se questo ha motivato il consenso di Caia ecc. ecc.): non devi cioé pensare che Caia possa adire il giudice italiano, prima, per dimostrare la nullità del matrimonio religioso e, poi, per l’effetto, come noi pratici diciamo, per ottenere la nullità del matrimonio civile. No, Caia deve forzatamente battere un’altra strada: deve ottenere, prima, una sentenza dal giudice ecclesiastico che dichiari la nullità del matrimonio religioso e, poi, chiedere a un giudice italiano di rendere questa sentenza efficace per l’Ordinamento italiano. Ma questo lo vedremo meglio in altra sede.

Disc. Ora, avendo già avuta occasione di parlare degli articoli 124 e 126, passiamo alla lettura degli articoli 125 e 127.Art. 125: “L’azione di nullità non può essere proposta dal pubblico ministero dopo la morte di uno dei coniugi”.Art. 127: “L’azione per impugnare il matrimonio non si trasmette agli eredi se non quando il giudizio é già pendente alla morte dell’attore”.Un breve commento.

Doc. Sarò breve come tu vuoi.Il disposto dell’articolo 125 si spiega col venir meno dell’interesse dello Stato alla dichiarazione di nullità, una volta che il matrimonio, con la morte di uno dei coniugi, comunque si é sciolto.Diverso naturalmente é il discorso per i colegittimati all’impugnazione: essi ben potrebbero avere interesse a domandare l’annullamento nonostante lo scioglimento del matrimonio (metti per contestare eventuali diritti di successione vantati dal coniuge superstite): quindi il legislatore conserva loro il potere di impugnazione.Il disposto dell’articolo 127, si spiega, poi, con il rispetto dovuto al de cuius dagli eredi (ma non dagli altri colegittimati che conservano il potere di impugnazione!).

Disc. Dobbiamo ora parlare del così detto “matrimonio putativo”, che é previsto dall’art. 128, che recita:“Se il matrimonio é dichiarato nullo, gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, quando i coniugi stessi lo hanno contratto in buona fede, oppure quando il loro consenso é stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi.Il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli.Se le condizioni indicate nel primo comma si verificano per uno solo dei coniugi, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli.Il matrimonio dichiarato nullo, contratto in malafede da entrambi i coniugi, ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso, salvo che la nullità dipenda da incesto.Nei casi di cui al quarto comma, rispetto ai figli si applica l’articolo 251.”.

Doc. Quindi, in deroga al principio che il contratto e in genere l’atto nullo nullum producit effectum, il matrimonio, nei riguardi del coniuge o dei coniugi in buona fede, produce i suoi effetti fino alla “sentenza, che pronunzia la nullità” (melius, fino

al passaggio in giudicato di tale sentenza). Attenzione, però, ciò vale solo per gli effetti “favorevoli” e non per quelli “sfavorevoli”; e ciò significa che, se la sentenza é del 2012 e il coniuge (putativo) si é risposato, come che sia, prima, cioé metti nel 2010, il nuovo matrimonio sarà perfettamente valido, né più né meno che fosse stato contratto da persona mai sposatasi. Di nuovo attenzione: il fatto che il matrimonio continui a produrre i suoi effetti come un matrimonio valido, non significa che esso.. .sia un matrimonio valido: pertanto il problema della validità delle donazioni, fatte da un coniuge all’altro nel presupposto della validità del matrimonio, va risolto considerando che la donazione é stata fatta su un presupposto erroneo, cosa per cui, a mio modesto parere, dovrebbe ritenersi annullabile – se non si ritenesse applicabile tale soluzione, si dovrebbe almeno ritenere l’obbligo del coniuge donatario alla restituzione dei doni avuti, in base a un’interpretazione analogica dell’articolo 80 (che disciplina il problema analogo, che si presenta in caso di rottura di “promessa di matrimonio”). E ancora attenzione: la regola che il matrimonio nullo continua a produrre i suoi effetti (“fino alla pronunzia della sentenza” che tale lo dichiara) per il coniuge in buona fede, solo se a lui favorevoli, va applicata cum grano salis; esempio: esiste una norma (l’art.177) per cui, se i coniugi hanno adottato il regime di comunione, i beni da ciascuno di loro acquistati cadono in comunione, per cui di essi in buona sostanza diventano entrambi comproprietari al 50 per cento, anche se l’acquisto é stato fatto con i soldi di uno solo di loro; ebbene, il disposto dell’articolo 128, che beneficia il coniuge in buona fede solo degli effetti favorevoli del matrimonio, non può portare a ritenere che gli acquisti di Caio, coniuge in malafede, continuino a cadere in comunione, mentre gli acquisti di Caia, coniuge in buona fede, vengono a cadere solo nel suo patrimonio personale. Cioé, l’articolo 128 non può essere interpretato come se comportasse una deroga all’articolo 191, che prevede che la comunione si sciolga tra i coniugi (senza distinguere, se in buona fede o malafede!) solo “per l’annullamento” del matrimonio. Del resto se Caia vuole porre fine al regime di comunione (già in pendenza della causa di annullamento e quindi prima della sentenza che questo dichiara), il codice gliene offre il facile mezzo: chieda la separazione (come gliene dà facoltà l’articolo 126 da noi già incontrato): per l’articolo 191 la separazione produce automaticamente lo scioglimento della comunione.

Disc. Resta il fatto che Caia, appunto perché restano in piedi per lei gli effetti favorevoli e quindi il suo (eventuale) diritto al mantenimento, non dovrà restituire le somme ricevute appunto a titolo di mantenimento; mentre Caio, dovrà restituire le somme che a tale titolo eventualmente avesse ricevuto.

Doc. Sì, se Caia é in buona fede e Caio é in mala fede.

Disc. Ma quando potrà dirsi che Caia é in buona fede?

Doc. Quando ignorava l’esistenza della causa di nullità (ad esempio, ignorava che Caio era già sposato, o che aveva una disfunzione sessuale e così via) - questo, bada, facendo riferimento al momento della celebrazione del matrimonio: anche nella nostra materia mala fides superveniens non nocet: se Caia al momento della celebrazione, anno di grazia 2010, ignorava lo stato di coniugato di Caio e, poi, nel 2012, le si sono aperti, come si suol dire, gli occhi, ebbene lei e i suoi figli continueranno a beneficiare degli effetti favorevoli del matrimonio anche dopo il 2012: i figli saranno figli legittimi (ancorché concepiti quando ormai lei sapeva!), lei potrà trattenere quanto ricevuto a titolo di mantenimento ecc.: sì, hoc iure utimur.

Disc. Ma che dire del minore, dell’interdetto che si sposano pur sapendo di essere “impediti” a sposarsi?

Doc. Io direi che, pur non potendosi considerare in buona fede, dovrebbero essere equiparati nella tutela al coniuge in buona fede. Al contrario, chi si é sposato, sì, in stato di incapacità naturale, ma da lui “preordinata” (nel senso di cui all’art.92 C.P.) al fine di poi poter impugnare il matrimonio, io lo riterrei in mala fede, anche se in buona fede in actu matrimonii (e anche se il suo matrimonio dovrà pur sempre considerarsi annullabile).

Disc. Abbiamo visto che gli effetti del matrimonio putativo rispetto ai coniugi. Quali i suoi effetti rispetto ai figli?

Doc. I figli, non solo quando uno dei coniugi era in buona fede e l’altro in malafede, ma anche quando entrambi i coniugi erano in mala fede, si considerano nati nell’ambito di un matrimonio valido.Se i loro genitori erano in malafede?

Disc. Più che giusto: loro che cosa ne possono

Doc. Questo sarebbe un ragionamento semplicistico. E infatti, adottandolo, si dovrebbe concludere che, se Mario e Mariolina, senza prendersi neanche il disturbo

di simulare un matrimonio davanti all’ufficiale dello stato civile, hanno fatto all’amore e hanno dato vita a Marietto, questi dovrebbe essere considerato nato nell’ambito di un (in realtà inesistente) matrimonio (tra Mario e Mariolina). E, invece, così non é: se Mario e Mariolina non lo riconoscono come figlio o lui non ottiene una sentenza che, come figlio (di Mario e Mariolina), lo dichiari,, egli come figlio (di Mario e Mariolina) non sarà, dalla Legge, considerato – eppure, anche per lui potrebbe dirsi “Che ne può il povero Marietto ecc.ecc.”.

Disc. Passiamo alla lettura dell’articolo 129, che recita: “Quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze.Per i provvedimenti che il giudice adotta riguardo ai figli si applica l’art. 155”.Giusto che Caio, anche dopo la sentenza dichiarativa della nullità, provveda ai bisogni dei figli; ma perché mai Caio deve farsi carico di provvedere ai bisogni di Caia, dal momento che ora a lei lo legano solo i (cattivi) ricordi della disavventura coniugale?! Certo Caia, in seguito all’annullamento del matrimonio, potrebbe trovarsi in difficoltà (ad esempio, se per sposarsi si fosse licenziata dall’impiego), ma perché dovrebbe essere proprio Caio ad aiutarla?! Cade una tegola in testa (alias, la nullità del matrimonio) a Caio e a Caia mentre garruli e felici se ne vanno per la strada: forse che si ritiene giusto obbligare Caio a risarcire Caia solo perchè se l’é trovata a fianco nella disgrazia?! Diverso, lo riconosco, il caso in cui Caio, ancorchè in buona fede, sia in colpa nella celebrazione del matrimonio nullo: se Caio si é sposato impotente, non sapendo di questa anomalia sessuale che pur da numerosi sintomi era rivelata, se Caio si é sposato dopo essersi per sua colpa ubriacato, se Caio pur essendo minorenne si é sposato, se insomma Caio, pur in buona fede é in colpa, giusto che risarcisca il danno. Ma se in colpa non lo é, perché deve risarcire?

Doc. Effettivamente un obbligo del coniuge incolpevole a dare all’altro delle somme, con funzione riparatoria del danno da questo subito, non si giustifica (mentre si giustificherebbe quello, sì, che fosse accollato al coniuge colpevole ancorché in buona fede, oltre che un obbligo di risarcimento del danno, sacrosanto, ma,ahimè, difficilmente dimostrabile, un obbligo di indennizzo – così come vedremo meglio in commento all’articolo che segue). Purtroppo hoc iure utimur. Ma un giudice di buon senso, potrà renderne meno iniqua l’applicazione tenendo presente che: egli “può”,

ma non “deve” disporre il pagamento delle somme rateali; che egli può, ma non deve, prolungare il periodo di pagamento fino a tre anni; che la “adeguatezza” dei redditi di Caia (o di Caio, dato che nulla vieta che in stato di bisogno venga a trovarsi anche l’uomo), non va valutata in relazione al tenore di vita da lei (da lui) tenuto in costanza di matrimonio (se Caio era un principe e faceva vivere Caia da principessa, non per questo é tenuto a farla vivere da principessa, dopo che una sentenza ha dichiarato che lui e lei sono dei perfetti estranei); che l’obbligo alimentare non é dovuto (e se imposto, cessa) nel caso Caia “sia passata a nuove nozze”.

Disc. Parliamo dei figli, il capoverso dell’articolo 129, disponendo l’applicabilità dell’articolo 151 (e, quindi indirettamente, dell’art. 337 ter), comporta: che entrambi i genitori (in buona fede) esercitino la responsabilità genitoriale; che il giudice possa scegliere a quale dei genitori affidare i figli, ecc. Ma questa disposizione si applica anche nel caso uno solo dei coniugi sia in buona fede?

Doc. Chiaramente, no; lo esclude la collocazione (di certo non casuale) della norma nel solo ambito dell’articolo 129: pertanto, nel caso che Caia sia in buona fede e Caio no, a entrambi incomberà di provvedere alle spese di mantenimento dei figli (secondo le regole dettate dall’articolo 148, che a suo tempo esamineremo); ma solo al coniuge in buona fede, nell’esempio, a Caia, spetterà l’affidamento del figli e la responsabilità genitoriale.

Disc. Passiamo ora alla lettura dell’articolo 129 bis, che recita:“Il coniuge a cui sia imputabile la nullità del matrimonio é tenuto a corrispondere all’altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto. L’indennità deve comunque comprendere una somma corrispondente al mantenimento per tre anni. E’ tenuto altresì a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, sempre che non vi siano altri obbligati.Il terzo al quale sia imputabile la nullità del matrimonio é tenuto a corrispondere al coniuge in buona fede, se il matrimonio é annullato, l’indennità prevista nel comma precedente.In ogni caso il terzo che abbia concorso con uno dei coniugi nel determinare la nullità del matrimonio é solidalmente responsabile con lo stesso per il pagamento dell’indennità”.

Doc. Certamente, chi, con il suo comportamento colposo o doloso, ha dato causa al

matrimonio nullo (Caio, che con l’inganno ha occultato a Caia il suo stato di coniugato, Caio, che con minacce ha indotto Caia a sposarlo, e, perché no? il padre di Caia che, conoscendo la sua incapacità di intendere, al matrimonio non si é opposto....le ipotesi che si possono fare sono moltissime) é obbligato al risarcimento dei danni (eventualmente ridotto per il concorso di colpa del coniuge danneggiato). Tutto questo in semplice applicazione dei principi che riguardano ogni fatto illecito.

Disc. Quindi il coniuge in buona o mala fede che sia (dato che, come abbiamo visto, in commento al precedente articolo, anche al coniuge in buona fede, potrebbe essere imputata una colpa nella celebrazione di quel matrimonio che, invece...non si aveva da fare) e il terzo, abbia o non concorso con il coniuge, é obbligato al risarcimento.

Doc. Esatto. Però, siccome il danno, pur intuitivamente sempre esistente in caso di un annullamento di matrimonio, può essere difficilmente provabile, il Legislatore accolla al coniuge, “al quale sia imputabile la nullità”, in buona o mala fede che sia, due altri obblighi.Primo, quello di prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, se non vi siano altri obbligati: quindi se Caia ha il padre, o essendosi risposata, il (nuovo) coniuge che può provvedere, Caio da tale obbligo é esentato.Secondo, quello di pagare, “anche in mancanza di prova del danno sofferto”, “una congrua indennità”.

Disc. Quindi tu interpreti l’articolo come se destinatario degli obblighi, non sia solo il coniuge in mala fede, ma anche il coniuge in buona fede. Ciò mi pare contrastare con la rubrica dell’articolo che parla di “responsabilità del coniuge in mala fede”.

Doc. Così é, ma la logica impone proprio la interpretazione che ti ho detta.

Disc. E quanto al terzo? Anche lui viene gravato sia di un obbligo degli alimenti sia di un obbligo di indennizzo?

Doc. No, viene gravato solo di un obbligo di indennizzo (obbligo solidale con quello del coniuge colpevole). Il perché di tale limitazione non te lo so spiegare.

Sezione seconda: dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio.

Lezione V: Gli obblighi, alla fedeltà, all’assistenza,alla collaborazione, e alla coabitazione.

Doc. Alla enunciazione dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, il Legislatore dedica gli articoli 143 – 148, che noi ora passeremo a esaminare. Non prima però di aver fatto - per scusarci, se non sempre giungeremo a risultati sul piano logico soddisfacenti – questa premessa: Noi viviamo in un’epoca di crisi profonda; un’epoca in cui le istituzioni, anche quelle che sono i muri portanti del diritto, si stanno disgregando (“L’uomo e le rovine”é il titolo di un libro di Julius Evola, uno dei più grandi Pensatori del nostro tempo): il giurista si trova nella stessa situazione di chi visitasse una città distrutta da un bombardamento: il più delle volte deve limitarsi a dire “Ecco, lì, dove ora ci sono quelle macerie, c’era quel bel edificio” e basta: certo non ci si può aspettare che ridia bellezza e razionalità a un universo (giuridico) sconvolto.

Disc. Bene, ora che ti sei sfogato, che ti sei tolto il fastidioso sassolino dalla scarpa, scendiamo a un discorso più raso terra: é importante conoscere quali sono gli obblighi che derivano dal matrimonio?

Doc. Sì, perché, anche se solo uno di essi (l’obbligo di contribuzione) é coercibile (chiaro che non si può costringere manu militari Caio a essere fedele, ad assistere, a collaborare e coabitare con Caia), dall’inadempimento di tutti può derivare un obbligo risarcitorio e soprattutto perché, la conoscenza di tutti questi obblighi, é presupposto per una giusta applicazione degli articoli 123 (sulla simulazione) e 151 (sulla separazione).Infatti per l’articolo 123 il matrimonio é impugnabile quando “gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso nascenti”; e noi abbiamo visto in un precedente paragrafo, che tale articolo va interpretato nel senso che, basti il rifiuto di sottomettersi ad un solo obbligo (naturalmente un obbligo che sia “essenziale” come quelli al cui esame ci accingiamo), per determinare la invalidità del matrimonio.

Disc. E perché, per la applicazione dell’articolo 151, é importante la conoscenza dei doveri che nascono dal matrimonio.

Doc. A dir il vero é importante, non per l’applicazione di tutto l’articolo 151, ma solo

del suo capoverso, che recita: “Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.

Disc. Chiarito ciò, passiamo al commento degli articoli, che, tali doveri, individuano, cominciando dall’articolo 143, che recita nei suoi primi due commi (del terzo, che si riferisce all’obbligo di contribuzione, daremo lettura nel prossimo paragrafo):“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”.

Doc. Il primo comma in buona sostanza riproduce il dettato del capoverso dell’articolo 29 della Costituzione, che così é formulato: “Il matrimonio é ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

Disc. Tuttavia una certa diversità tra le due disposizioni, quella del legislatore ordinario e quella del legislatore costituzionale, c’é. E con ciò, non mi riferisco all’omissione nell’articolo 143 del riferimento ai “limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” - dato che tale riferimento, opportuno nella norma costituzionale sarebbe stato un non-senso in quella del legislatore ordinario –, ma alla diversa formulazione della prima parte dell’articolo 29: in questa si parla di “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, mentre nell’articolo 143 si viene a dire che marito e moglie “acquisiscono gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri”.

Doc. In effetti. il rispetto della “eguaglianza giuridica e morale dei coniugi”, non implica necessariamente l’attribuzione ad essi degli stessi diritti; anzi, l’attribuire a due persone disuguali gli stessi diritti, può significare trattarle in un modo ingiustamente diseguale: chi non ricorda la favola di Esopo: la volpe astuta diede da mangiare alla cicogna in un recipiente piatto, come quello che si era riservata a sé stessa, ma la cicogna dal becco lungo....non si sentì per nulla trattata con giustizia.

Disc. Mi accorgo che non conviene invitarti a commentare ulteriormente il primo comma: chissà quali sproloqui continueresti a dire – ben so quale pellaccia di reazionario tu sia, e che tu consideri addirittura nefasta l’eliminazione, attuata nel 75,

dell’organizzazione gerarchica della famiglia (il marito, capo della famiglia, con il dovere di provvedere ai bisogni della moglie, che però gli deve obbedienza): guai se dicessi certe cose: perderemmo anche quei pochi lettori che ora ci seguono! Limitati a commentare il secondo comma.

Doc. Va bene, mi limiterò a commentare il secondo comma; il quale fa un elenco degli obblighi che derivano dal matrimonio e lo fa, é importante notarlo, in ordine di decrescente importanza: primo, l’obbligo per il legislatore più importante,quello di fedeltà, ultimo, l’obbligo meno importante, quello di coabitazione.

Disc. Cominciamo quindi a parlare dell’obbligo più importante: “l’obbligo reciproco di fedeltà”.Ti dirò che a me, il pensiero legislativo, sul punto, mi pare monco, incompleto. Infatti si può dire che un persona manca di fedeltà verso un’altra, quando la prima si rende inadempiente a un obbligo, a un impegno che verso la seconda ha assunto (il barone Menabò ha assunto l’impegno di militare sotto le bandiere del re Manfredi, ma visto il rischio, i sacrifici che ciò comporta...diserta). Se così é, dice le cose a metà un legislatore che si limita a imporre a un coniuge di essere fedele, cioé di mantenere fede agli obblighi assunti (evidentemente con il matrimonio ed evidentemente diversi da quelli indicati congiuntamente all’obbligo di fedeltà nel comma che stiamo commentando), senza dire quali obblighi mai essi siano.

Doc. Tu hai perfettamente ragione: e quando nella mia premessa ti dicevo che il nostro diritto di famiglia é ormai ridotto a un rudere, mi riferivo a situazioni come questa.Ma di fronte a queste situazioni il giurista non può certo limitarsi a dire “Qui il legislatore ha detto cose incomprensibili, senza senso, passiamo ad altro: saltiamo l’obbligo di fedeltà e parliamo solo degli obblighi di assistenza, collaborazione, eccetera”.No, il giurista non può fare questo, ma deve cercare di sostituire il tassello mancante, usando dei (pochi) elementi che l’Ordinamento giuridico gli offre; nel caso, utilizzando il disposto dell’articolo 1 della c.d. Legge sul divorzio (Legge 1 dicembre 1970 n. 898) - articolo che recita: “Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio (….) quando (…) accerta che la comunione spirituale e materiale dei coniugi non può essere mantenuta (...)”.

Disc. Ma che cosa c’entra la “comunione spirituale e materiale dei coniugi” con

l’obbligo di fedeltà?

Doc. C’entra invece, perché il legislatore parlando di “comunione spirituale dei coniugi” come elemento necessario del matrimonio (se questa “comunione spirituale” c’é, c’é il matrimonio, se non c’è, non c’é il matrimonio), parte evidentemente dal presupposto di una comunanza di “valori” esistente tra i coniugi, di una loro comune concezione della vita, di una loro comune weltanschauung. Orbene, la cosa più logica é di attribuire, alle parole “monche” del legislatore, il significato che fedeltà si ha, quando un coniuge “tiene un comportamento conforme ai valori che aveva in comune con l’altro coniuge al momento dello sposalizio”; e che infedeltà vi é, quando, con il suo comportamento, egli tradisce tali valori.

Disc. Ma questi valori potrebbero essere diversi da coppia a coppia: Bianchi Alfredo e Manuela Rosalia sono cattolici praticanti: per loro é grave peccato anche una scappatella sessuale con un terzo, per loro é grave peccato l’aborto; mentre Rossi Saverio e Rossi Luisa sono “liberi pensatori”: per loro “viva l’aborto, viva il libero amore”.

Doc. Questo significherà che l’adulterio di Bianchi Alfredo rappresenterà una “infedeltà” e motiverà quindi la domanda di separazione per “addebito” di Rosalia, mentre l’adulterio di Rossi Saverio non motiverà la domanda di separazione della di lui moglie Luisa.

Disc. Ma tu parti dal presupposto che tutte le coppie abbiano dei “valori” condivisi; ma Mario e Mariolina potrebbero dire il loro “sì” con le tasche piene di soldi e le teste completamente vuote di “valori”.

Doc. Tu mi vuoi dire che possono esistere delle coppie di sposi il cui matrimonio non é animato da valori comuni. Lo riconosco, é vero; ma in tal caso ci troviamo di fronte a un guscio senza anima, a una caricatura di quello che deve essere il matrimonio - questo, bada bene, anche per il nostro legislatore, che sì, riconosce a tale matrimonio, se vogliamo chiamarlo così, validità, ma fa ciò soprattutto per evitare un disordine maggiore e a tutela degli eventuali figli.

Disc. Resta il fatto che, in questo “matrimonio senza valori comuni”, non si potrebbe neanche ipotizzare un obbligo di fedeltà e, soprattutto, neanche si potrebbe ipotizzare una domanda di separazione.

Doc. Una domanda di separazione per violazione dell’obbligo di fedeltà no, di certo; ma si potrebbe ipotizzare una domanda per violazione di uno degli altri obblighi che derivano dal matrimonio; e, soprattutto, si potrebbe ipotizzare una domanda di separazione motivata proprio dal fatto di una mancanza di valori comuni tra i coniugi. Domanda fondata ovviamente sul primo comma dell’articolo 151 e cioé sulla “intollerabilità” del protrarsi della convivenza: cosa c’é di più intollerabile per un essere umano, di più avvilente e deformante per la sua personalità, che convivere (scambiarsi intimità...) con chi, a lui, da nessun valore, da niente di importante dunque, é legato?

Disc. Basterebbe questo a motivare una domanda di separazione?

Doc. A mio parere, sì; e ritengo che tale soluzione trovi conforto nell’articolo 2 della Costituzione che recita “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Da questo articolo risulta infatti che una formazione sociale, qual’é la famiglia, viene presa in considerazione dal legislatore costituzionale in quanto fattore di sviluppo della personalità di chi vi fa parte; cosa per cui non può non diventare logico e doveroso per il legislatore ordinario, permettere a una persona di uscire da una “formazione sociale” (nel caso la famiglia), quando questa opprime, soffoca la personalità di chi vi é inserito, invece di aiutarlo a svilupparla.

Disc. Può anche capitare che Mario e Mariolina si presentino davanti all’ufficiale di stato civile con ideali comuni, ma che, poi, le loro concezioni della vita si divarichino: Caio era un cattolico praticante, ma, col passare del tempo, diventa un libero pensatore: che succede allora?

Doc. Succede che, se Caio terrà un comportamento che costituisca tradimento dei valori condivisi con Caia al momento del matrimonio, Caia potrà chiedere la separazione per addebito di Caio.

Disc. E se anche Caia avesse mutato idee, avesse abbandonato i valori a cui aderiva al momento del matrimonio, però adottando valori diversi da quelli di Caio: erano tutti e due cattolici, ma, poi, uno, é diventato buddista, l’altra, musulmana?

Doc. In tal caso vale quel che ho detto prima per le coppie che si sposano senza avere

valori comuni: entrambi gli sposi potranno chiedere la separazione per “intollerabilità” della convivenza.

Disc. Parliamo ora del secondo obbligo, che dal matrimonio deriva: l’obbligo “all’assistenza morale e materiale”.

Doc. Dopo il riferimento che abbiamo fatto all’art.1 della c.d. Legge sul divorzio,e alla necessità per tale articolo che vi sia una “comunanza spirituale”, una comunanza di “valori” dunque, tra i coniugi, é facile individuare la ratio dell’imposizione dell’obbligo di assistenza: se tra Caio e Caia sussiste un’effettiva comunanza di valori, diventa per loro spontaneo e logico l’impegno ad aiutarsi vicendevolmente nelle difficoltà; se, viceversa, Caio e Caio non si sentono di assumere davanti all’ufficiale di stato civile l’impegno ad un vicendevole aiuto, significa che tra loro una vera “comunanza spirituale” non sussiste, che quello, che vorrebbero costituire, non é un vero matrimonio; e così, non più riferendoci all’atto matrimoniale (al matrimonium in fieri), ma alla vita matrimoniale (al matrimonium in facto), se Caio trascura l’obbligo di assistenza che ha assunto verso Caia, ciò fa presumere che é venuta meno quella comunanza di valori che lo univa a Caia, e ciò basterebbe per riconoscere a questa, a Caia, il diritto a chiedere la separazione (ai sensi del primo comma dell’articolo 151), il fatto, poi, che Caio abbia tradito l’impegno preso in actu matrimonii giustifica che a Caia sia riconosciuto, non solo il diritto di chiedere la separazione, ma di chiederla (ai sensi del secondo comma art. 151) “per addebito”.

Disc. Il tuo discorso é chiarissimo. Non occorre poi che tu mi porti degli esempi di assistenza materiale e morale, perché essi sono intuitivi e me li so fare da solo. Esempio di assistenza materiale: Caio é malato, e Caia gli compra e gli somministra le medicine. Esempio di assistenza morale: Caia ha perso l’impiego e Caio cerca di risollevarle il morale procurandole delle “distrazioni” o semplicemente con parole incoraggianti.

Doc. Senz’altro pertinenti gli esempi che hai portato, mi pare però che trascurino un aspetto dell’obbligo di assistenza, che, invece, é importante: assistenza non significa solo “aiutare l’altro coniuge nelle difficoltà”, ma, e a maggior ragione, significa anche “non mettere (consapevolmente) l’altro coniuge in difficoltà”: tu, Caia, se tuo marito ha commessa una gaffe, non devi ricordarla davanti a terzi, così ulteriormente umiliandolo; tu, Caio, non devi esibire davanti a Caia, e peggio se in pubblico, una particolare affettuosità per la signora Marilina - e nulla rileva che tu con questa “non

vada a letto”: anche così il tuo comportamento fa soffrire, umilia, mette in difficoltà, la donna che tu avevi promesso invece di aiutare nelle difficoltà (per cui questa potrà, lamentando il tuo “adulterio in bianco”, reclamare la separazione per tuo addebito).

Disc. Ovvio che Caio e Caia devono astenersi dal danneggiarsi sia in poco che in tanto; ma fino a che limite debbono darsi un aiuto reciproco? l’azienda di Caio sta per fallire, Caia deve attingere alle risorse del suo patrimonio per aiutarlo? Caia ha una malattia infettiva, Caio deve curarla a costo di cadere anche lui malato?

Doc. La risposta (negativa) alla prima domanda la dà il fatto stesso che il legislatore, come vedremo meglio inseguito, non solo ritiene giusto che i coniugi tengano separati e non confondano i loro patrimoni, ma é disposto a dare tutela (se del caso manu militari) alle pretese economiche che un coniuge vanti verso l’altro (ad esempio, e questo lo vedremo parlando del regime della comunione dei beni, Caia, se il marito si dibatte in difficoltà economiche, lungi dal dover aiutarlo, può chiedere che egli sia escluso dall’amministrazione della comunione o può chiedere la separazione giudiziale dei beni - vedi meglio gli articoli, 183, 193).Con tutto ciò, certamente Caia ha il dovere di aiutare economicamente il marito bisognoso; ma ciò solo fino al punto di assicurare a lui lo stesso tenore di vita di cui essa stessa gode: se essa pasteggia a ostriche deve permettere anche al marito di pasteggiare a ostriche. Ma tutto questo lo vedremo meglio parlando del dovere di contribuzione.Quanto alla seconda domanda, la risposta la dà il primo comma dell’articolo 151 (da noi già visitato accennando al diritto, riconosciuto ai coniugi, di separarsi in caso di sopravvenienza di “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”): l’obbligo di assistenza si ferma quando costringerebbe a comportamenti che rendono “intollerabile” la vita, nel senso che, non solo non fortificano la personalità di chi li compie (il che ben può avvenire: ci sono, per fortuna, anche nella nostra società, individui che sanno affrontare con tale spirito le “prove” della vita, da uscirne fortificati e migliorati), ma la degradano (Maria dopo aver adempiuto, al capezzale del marito, alle nauseabonde incombenze della infermiera ne....esce “distrutta”).

Disc. E’ chiaro: un legislatore, come il nostro, che vede (con favore) la partecipazione delle persone alle “formazioni sociali” e in primis a quella fondamentale formazione sociale che è la famiglia, in quanto occasione di sviluppo della personalità (articolo due della Costituzione); un legislatore che spalanca la porta

di uscita al coniuge che trova intollerabile il continuare nella convivenza (articolo 151 del Codice), non può imporre a questi quegli adempimenti che gli...rendano intollerabile la convivenza – tenendo anche presente, e ciò é logico, che la capacità di tolleranza varia da persona a persona.

Disc. Passiamo a parlare ora del terzo obbligo menzionato nell’articolo 143: l’obbligo “alla collaborazione nell’interesse della famiglia”.

Doc. Obbligo di collaborare, per due coniugi, significa obbligo di prendere insieme le loro decisioni. Mentre Caio e Caia, da single, potevano prendere tutte le loro decisioni autonomamente, una volta sposati, essi debbono prendere alcune delle loro decisioni, quelle “nell’interesse della famiglia”, concordemente.

Disc. Quali sono queste decisioni prese “nell’interesse della famiglia”?

Doc. Io ritengo che siano: in primo luogo, le decisioni che riguardano la individuazione dei bisogni, dei membri della famiglia, da soddisfare (si compra un nuovo vestitino a Mariuccia? ci si accontenta di mangiare pane e salame oppure si compra anche del pollo? si va ad abitare in un quartiere residenziale o popolare?...) e di conseguenza la parte di reddito e di “lavoro casalingo” (nel senso lato in cui, come vedremo, tale espressione va usata) da destinare, alla soddisfazione di tali bisogni; in secondo luogo, le decisioni che riguardano il modo migliore di adempiere all’obbligo di educazione e istruzione dei figli, che ai coniugi impone l’articolo 147 (mandiamo Mariuccia in una scuola cattolica o statale?...).Però, altri potrebbe interpretare estensivamente l’espressione usata dal legislatore e ritenere che un coniuge deve essere disposto a concordare con l’altro coniuge, tutte le decisioni, che comunque incidono sulla vita familiare. Dato che, senza dubbio, ci sono decisioni, diverse da quelle da me or ora indicate, che possono incidere sulla vita familiare.

Disc. Ad esempio?

Doc. La decisione di iscriversi a un partito o di aderire a un movimento religioso, oggetto di una stampa negativa e comunque mal visti dall’opinione pubblica: Caio si é iscritto al partito bianco e la gente segna a dito Caia come “quella che ha sposato quel delinquente che milita nel partito bianco” (col sottinteso che se Caia ha sposato un delinquente, un po’ delinquente deve essere anche lei). Ora, io ritengo che, queste

decisioni, siano di carattere personale, anzi strettamente personale, e che il coniuge le possa prendere anche senza il consenso e contro la volontà dell’altro – e questo perché ritengo, che, i doveri verso la famiglia, non giungano fino al punto di impedire a un suo membro di esprimere la sua personalità aderendo al partito, alla religione che vuole, esprimendo le opinioni che vuole -, però debbo riconoscere che la soluzione da me adottata é discutibile.

Disc. Ma, oltre a queste decisioni strettamente personali, ce ne sono altre, che un coniuge può prendere senza il consenso e addirittura contro la volontà dell’altro?

Doc. Bisogna distinguere, tra decisioni che il coniuge può prendere anche contro la volontà dell’altro, e decisioni che può prendere di propria iniziativa, cioé senza chiedere il preventivo consenso dell’altro.

Disc. Comincia a fare qualche esempio delle prime.

Doc. Come esempio di decisioni, diverse da quelle strettamente personali, che il coniuge può prendere, anche contro il consenso dell’altro, si possono portare tutte le decisioni che attengono all’amministrazione del patrimonio personale del coniuge (Caio, che prima di sposarsi aveva quella certa villetta in riva al mare, continua a gestirla come più gli pare e piace) e le decisioni sui beni di carattere personale (se fare riparare il computer, quale vestito comprarsi...).

Disc. E ora dì delle decisioni, che il coniuge può prendere di sua iniziativa, senza cioé previamente concordarle, ma da cui si deve astenere, se l’altro coniuge, ad esse, si oppone.

Doc- Sono quelle che, nella terminologia del Codice, sono destinate ad “attuare l’indirizzo concordato”.

Disc. Spiegati meglio.

Doc. L’articolo 144 nel suo primo comma dispone, che “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”.

Disc. Parlando di “indirizzo familiare”, il Codice si riferisce evidentemente a quella

scelta dei bisogni della famiglia (melius, dei vari membri della famiglia) di cui tu prima parlavi?

Doc. E’ così; proseguo nel discorso: nel secondo comma dell’articolo 144, il Codice però sente bisogno di chiarire che “a ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.

Disc. Quindi, se Caio e Caia hanno deciso di comprarsi la villetta al mare, Caio può partire in quarta e, senza nulla dire a Caia, comprare quella villetta che a lui piace (e che magari a Caia dispiace) e per il prezzo, che egli (che di mercato edilizio potrebbe saperne quanto me, cioé nulla) reputa adeguato? Mi sembra assurdo!

Doc. E infatti é tanto assurdo che...così non é: Caio potrà prendere una decisione, diciamo così, “di secondo grado” - per intenderci, conveniamo di chiamare, “di primo grado”, una decisione del tipo “si compra una villa al mare” e, “di secondo grado”, una decisione del tipo “si compra quella tal villa al mare e per quel tal prezzo” - quando questa “decisione di secondo grado” é già talmente determinata nei suoi elementi (é, nell’esempio da te fatto, determinata sul prezzo, sul tipo di villetta, sul notaio a cui affidarsi, eccetera) che l’integrarla (nei suoi elementi mancanti) é cosa di ordinaria amministrazione: Caio e Caia, per fare un caso che, più di quello da te portato, si presta a un esempio, hanno deciso di spendere sui trecento euro per l’acquisto di un frigo: Caia può andare in un super mercato e decidere, senza consultarsi con Caio, se comprare quel frigo a quattro piani o quello a un piano, quel frigo bianco o quel frigo verde e così via.In ogni caso, siano importanti o no le decisioni attuative da prendere, il coniuge non può prenderle, nel caso di opposizione dell’altro: Caio vuole il frigo bianco, Caia dice “no, voglio il frigo verde”: Caio non ha il potere di comprare di sua sola iniziativa il frigo bianco.

Disc. Quindi, secondo te, il capoverso dell’articolo 144 va interpretato restrittivamente.

Doc. Certo: é proprio l’esempio da te portato poco prima, che dimostra che non può essere interpretato letteralmente.

Doc. Tu hai detto che “obbligo di collaborazione” per un coniuge significa “obbligo ad essere disponibile a concordare le decisioni”: non hai detto “obbligo di

collaborazione” significa “obbligo del coniuge di concordare”.

Doc. Non l’ho detto a ragion veduta. Infatti nulla vieta a Caio e a Caia di accordarsi nel senso che, le decisioni nell’interesse della famiglia – tutte o quelle relative ad un certo settore (metti all’amministrazione di quella tal azienda) - siano prese dal solo Caio (o viceversa, dalla sola Caia); e poi di vivere.. .in perfetta armonia e felicità. Però, attenzione, tale accordo non vincolerà mai Caia a lasciare prendere tali decisioni all’altro coniuge: questi deve sempre essere “disposto”, se così Caia, cambiando idea, volesse, di concordare con Caia tali decisioni (prima lasciate alla sua discrezionalità). Parlando dell’articolo 218 vedremo come questa delega “di fatto” (senza vincolo giuridico per chi la dà, cioé) é prevista dallo stesso legislatore.

Disc. Non abbiamo finora parlato della ratio che sottende all’obbligo di collaborazione? Secondo te, qual’é?

Doc. Secondo me, l’obbligo di collaborazione, al contrario di quelli che abbiamo prima esaminati, non va visto come una conseguenza della concezione del matrimonio come condivisione di valori comuni: Caia Caio potrebbero benissimo condividere, sposandosi, l’ideale di una “matrimonio all’antica”, in cui le decisioni familiari spettano al solo marito; quindi, se, poi, a tale ideale di fatto ispirassero la loro vita matrimoniale (lui, felice nella sua posizione di pater familias, lei, felice nella sua parte di “schiava e regina”) nessuno in via di logica potrebbe dir loro “No, così non va: il vostro modo di gestire il matrimonio contraddice...i valori comuni da voi accettati).

Disc. Allora?

Doc.Allora, io riterrei che, se il legislatore non ammette una gestione del rapporto matrimoniale in cui le decisioni (nell’interesse della famiglia) siano riservate a uno solo dei coniugi, non é perché questo viene a contraddire i valori comuni accettati dagli sposi al momento di sposarsi, ma perché viene a contraddire quello che il legislatore ritiene un “valore”: la parità di diritti tra i coniugi.

Disc.. Facciamo un passo indietro, torniamo a parlare dell’articolo 144: ho capito che, quando il legislatore parla di “interesse della famiglia”, fa semplicemente una ipostasi: non esiste la famiglia in sé, esistono Caio, Caia, Marianna che la compongono; cosa per cui “l’interesse della famiglia” é l’interesse di Caio, di Caia e

di Marianna. Non ho capito, però, che vuol dire il legislatore, quando parla di un “preminente” interesse della famiglia, rispetto a quello dei coniugi.

Doc. Vuol dire che, l’interesse egoistico di Caio e di Caia, deve passare in secondo ordine, davanti all’interesse della figlia Marianna; il che va senz’altro condiviso.

Disc. Un ultima domanda: che succede, se Caia dice “Mandiamo Marianna in vacanza al mare” e Caio dice “No, mandiamola in montagna” e non trovano un accordo: succede che nessuna decisione si prende e Marianna.. ...passa le sue vacanze in città?

Doc. No, la soluzione dell’impasse é data dall’articolo 145, che recita:“In caso di disaccordo ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto opportuno, dei figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata.Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il giudice, qualora ne sia richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, adotta, con provvedimento non impugnabile, la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia”.

Disc. Quindi il giudice si sostituisce ai coniugi nel prendere la decisione.

Doc. Per nulla, hai seguito male la mia lettura: il giudice, in prima battuta, tenta di fare opera di mediazione e di far raggiungere ai coniugi “una soluzione concordata”. Se non ci riesce, egli dismette le vesti di “mediatore” e assume quelle di “arbitro”, cioé prende la decisione in sostituzione dei coniugi; ma questo a due condizioni: prima, che ne sia richiesto “espressamente e congiuntamente dai coniugi”; seconda, che “il disaccordo concerna la fissazione della residenza o di altri affari essenziali”.Peraltro, studiando i vari regimi patrimoniali, vedremo che il Legislatore prevede interventi del giudice molto meno soft nella vita familiare: ad esempio, con l’articolo 183, prevede che il giudice possa escludere un coniuge dall’amministrazione dei beni in comunione.

Disc. E’ ora di parlare di quello che, tra gli obblighi previsti dall’articolo 143, é, dal Legislatore, considerato il meno importante: l’obbligo “alla coabitazione”.

Doc. Al contrario dell’obbligo alla collaborazione or ora visto, l’obbligo alla coabitazione trova la sua spiegazione nella concezione del matrimonio come condivisione di valori comuni. Più precisamente, la riserva mentale dei coniugi, al momento della celebrazione del matrimonio, di non coabitare, é vista dal Legislatore come indice di una mancanza in loro di “valori condivisi” (con la conseguenza che il loro matrimonio potrà essere considerato nullo – ai sensi dell’articolo 123 sulla simulazione); e il venir meno in loro, una volta sposatisi, della disponibilità a coabitare, é da Lui vista come un venir meno in loro di quei “valori” prima “condivisi” (con la conseguenza che, se il coniuge, che si é allontanato materialmente dal domicilio coniugale, é anche quello che si é allontanato idealmente dai valori prima comuni, l’altro coniuge potrà chiedere la separazione per suo addebito).

Disc. E, in effetti, due persone, che condividono gli stessi valori, non trovano difficoltà alla vita in comune; mentre, questa vita in comune, può veramente essere insopportabile, quando ad essa sono costrette persone di “sensibilità” diverse.Tuttavia a suggerire a Caio e a Caia la vita sotto due diversi tetti potrebbero essere serie ragioni: metti, Caio fa l’avvocato a Genova e Caia fa il giudice a Torino: non si può pretendere che Caio o Cia si facciano diverse ore di treno ogni giorno per andare a dormire sotto lo stesso tetto.

Doc. E in effetti in tale caso e in casi simili, la mancanza di una coabitazione perderebbe il suo significato di indice di un difetto di valori comuni e l’obbligo di cui parliamo non si dovrebbe ritenere inadempiuto.

Disc. Tra le serie ragioni, che possono giustificare il rifiuto della coabitazione, va annoverata anche la intollerabilità della convivenza?

Doc. Certamente, sì.

Disc. Questo senza che rilevi a quale dei coniugi tale intollerabilità é addebitabile?

Doc. Si, per escludere la violazione dell’obbligo di coabitazione, basta la intollerabilità della convivenza: a Caia, che abbandona il domicilio domestico, in seguito a una convivenza resa insopportabile e insostenibile in seguito ai suoi ripetuti adulteri, non può essere addebitata la separazione (ai sensi del capoverso dell’articolo 151) per violazione all’obbligo di coabitazione. Ma naturalmente potrebbe esserle addebita per violazione dell’obbligo di fedeltà. In altre parole, al giudice, per decidere

sul diritto alla separazione, basterà la constatazione della intollerabilità della convivenza, ma per “addebitare” la separazione dovrà indagare sulle cause, che hanno determinato questa intollerabilità della convivenza (senza arrestarsi superficialmente alla constatazione del rifiuto alla coabitazione).

Disc. Che, l’intollerabilità della convivenza sia sufficiente a giustificare il rifiuto della coabitazione (a prescindere da chi ha determinato tale intollerabilità), si evince da qualche disposizione di legge?

Doc. Sì, si evince dall’articolo 146, che ritiene “giusta causa” dell’allontanamento dal domicilio domestico, la proposizione di una domanda di separazione, a prescindere che essa sia fondata o no, quindi in considerazione unicamente della insostenibilità della convivenza che la proposizione di tale domanda inevitabilmente determina.Più precisamente i primi due commi di tale articolo recitano:“Il diritto all’assistenza materiale e morale previsto dall’articolo 143 é sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi.La proposizione della domanda di separazione o di annullamento, o discioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare”.

Lezione VI: L’obbligo di contribuzione.

Doc.Dopo aver enunciato, nel terzo comma dell’articolo 143, l’obbligo dei coniugi di contribuire “ai bisogni della famiglia”, il legislatore enuncia separatamente, nel primo comma dell’articolo 316bis, e con una formula, sia pur leggermente, diversa, il loro obbligo di provvedere a “mantenere, istruire, educare e assistere moralmente la prole”; così come se il primo obbligo si dovesse determinare con criteri diversi che il secondo.

Disc. Scusa se ti interrompo, io penso che, anche su questo punto, il nostro discorso acquisterà chiarezza, se cominceremo a leggere le norme in questione.Ecco come recita il terzo comma dell’articolo 143: “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze, e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.Ed ecco com’é formulato l’incipit del primo comma dell’articolo 316bis: “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive

sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”.Effettivamente una differenza di formulazione tra le due norme c’é: la prima (art.143), stabilisce l’obbligo di contribuzione dei coniugi “in relazione alle loro sostanze (…...)”, la seconda (art.316bis), lo stabilisce “in proporzione alle rispettive sostanze (…....)”. Ciò significa che il legislatore non impone che, l’obbligo di contribuzione ai bisogni, diciamo così, generici della famiglia (esclusi quindi quelli relativi ai figli), sia adempiuto dai coniugi in proporzione delle loro sostanze (…...)?

Doc. Se così fosse, con che altro criterio l’interprete dovrebbe determinare il contributo di ciascun coniuge? Evidentemente, se così fosse, il legislatore avrebbe lasciato l’interprete nella massima incertezza e oscurità su un punto fondamentale e su cui, solo lui, il legislatore, può fare luce. Sarebbe un modo assurdo di legiferare, che l’interprete non può attribuire di certo al legislatore; per cui deve concludere che, la diversità di formulazione tra i due articoli, é solo dovuta ad un lapsus e che anche l’obbligo di contribuire ai bisogni “generici” della famiglia va determinato col criterio della proporzionalità.

Disc. Ma quali sono questi bisogni “generici” della famiglia, a cui i coniugi sono obbligati a provvedere?

Doc. Qui la risposta é veramente facile: sono quelli che i coniugi, nel “concordare l’indirizzo della vita familiare” (art. 144, già da noi commentato), ritengono opportuno soddisfare: Caio e Caia non sono disposti a cavare dalle loro tasche più di mille euro al mese e di conseguenza si accontentano di vivere a pasta e fagioli? contenti loro, contento il mondo! (Però, il discorso cambia in relazione ai bisogni dei figli: anche questi bisogni debbono, sì, essere soddisfatti con un criterio proporzionale, ma, non solo nel senso che, alla somma necessaria, i coniugi debbono contribuire in proporzione alle rispettive sostanze, bensì anche nel senso che l’ammontare di tale somma deve essere proporzionato alla loro ricchezza: se Caio e Caia, pur essendo miliardari, si contentano di pasta e fagioli, loro mangino pure pasta e fagioli, ma i figli li trattino da miliardari: li facciano frequentare una scuola di miliardari, gli diano un’educazione da miliardari e anche, perché no? nei limiti che la formazione del loro carattere lo consente, gli diano il vitto e i divertimenti dei miliardari).

Disc. Così dicendo, tu sei venuto ad anticipare un discorso che avrebbe avuta la sua sede appropriata nel commento all’articolo 316bis: andiamo per ordine, qui

limitiamoci a vedere come va ripartita la spesa, diciamo così, per provvedere ai bisogni, che i coniugi hanno concordato di soddisfare.E per cominciare ti faccio questo caso: la spesa é di duemila euro, ma Caio é povero in canna e non guadagna niente, é disoccupato: i duemila euro escono solo dal portafoglio di Caia?

Doc. Bisogna vedere, se Caio é disoccupato perché gli piace fare....il disoccupato o perché non trova lavoro. Infatti la norma non commisura l’obbligo contributivo al reddito professionale, ma, la cosa é ben diversa, “alla capacità di lavoro”. Di conseguenza, Caio deve contribuire in proporzione al reddito che ricaverebbe se...decidesse di lavorare; e, se non lo fa, deve considerarsi inadempiente.

Disc. Ma facciamo il caso di Caia che, pur potendo trovare un lavoro come insegnante, preferisce stare in casa a fare i lavori domestici.

Doc. In tal caso - premesso che partiamo qui dal presupposto che, tra i bisogni della famiglia da soddisfare con i duemila euro, i coniugi abbiano inclusi anche quelli della pulizia della casa, della preparazione dei pasti e simili - bisogna mettersi a fare....qualche calcolo: bisogna stabilire la somma, che guadagnerebbe Caia se si impiegasse: metti che tale somma sia di duemila euro, e che a tanto ammonti anche il reddito di Caio, cosa per cui i coniugi avendo un reddito eguale e quindi dovendo contribuire in modo eguale, il contributo di Caia dovrebbe essere di mille euro. A questo punto bisogna vedere quanti soldi fa risparmiare Caia svolgendo lei, senza chiamare una collaboratrice domestica, i lavori di casa: mettiamo che faccia risparmiare proprio mille euro: in tal caso si dovrebbe concludere che Caia soddisfa al suo obbligo contributivo svolgendo il lavoro casalingo.

Disc. Quindi la formula legislativa, non troppo felice, va interpretata come se suonasse “Entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale, tenuto conto del lavoro casalingo eventualmente svolto da un coniuge”.Mettiamo ora che, non sia Caia, ma Caio, a preferire di stare in casa: egli non cucina e non pulisce per terra, però tiene in ordine l’orto facendo risparmiare i mille euro, che occorrerebbero per pagare un giardiniere: come si stabilisce se egli soddisfa o no al suo obbligo contributivo?

Doc. Con gli stessi criteri con cui lo si é stabilito or ora per Caia: dalla somma che

dovrebbe dare Caio, si detraggono i soldi, che fa risparmiare. Infatti, all’espressione legislativa “lavoro casalingo”, va data un’interpretazione estensiva.

Disc. Si tiene conto del reddito che un coniuge ricava dal suo patrimonio?

Doc. Di più, si tiene conto del suo patrimonio, delle sue “sostanze” per usare la terminologia legislativa, che esse diano, o no, un reddito.

Disc. Spiegati meglio.

Doc. Per spiegarmi meglio dovrei scendere a fare più ipotesi, e ciò ti renderebbe troppo gravoso l’ascoltarmi. Mi limiterò quindi a farne, di ipotesi, solo due, ma che dovrebbero essere sufficienti a indirizzarti nell’applicazione pratica dell’articolo 143.Prima ipotesi: la spesa occorrente (per soddisfare i bisogni della famiglia) é di duemila; Caia, l’altro coniuge, guadagna tremila euro; Caio ha una capacità lavorativa che gli procura o che gli potrebbe procurare mille euro: ebbene, se Caio ha un patrimonio che gli procura o gli potrebbe procurare altri duemila euro, la sua capacità a contribuire alle spese si deve considerare pari a quella di Caia, per cui metà della spesa, cioé mille euro, tocca elargirla a Caia e, metà, a Caio.

Disc. Ma se il patrimonio di Caio non dà e non é in grado di dare nessun reddito?.

Doc. Questa é la seconda ipotesi che ti volevo fare: in tal caso, a mio parere, occorre valutare la somma che si realizzerebbe dalla vendita dei beni di Caio e il reddito che tale somma verrebbe a dare. Metti che il reddito, che tale somma verrebbe a dare, sia da calcolare in mille euro (mensili): questi mille euro dovrebbero aggiungersi al reddito lavorativo (potenziale o reale) di Caio, al fine di paragonare la sua capacità contributiva con quella dell’altro coniuge.

Disc. Ma vendere i beni di Caio potrebbe essere antieconomico: potrebbero essere beni che venduti tra cinque e dieci anni renderebbero il doppio.

Doc. Non ho detto che occorra effettivamente vendere i beni di Caio: questa é una di quelle decisioni di straordinaria amministrazione, che i due coniugi, Caio e Caia, debbono prendere insieme.Però, se i beni non si vendono, bisognerà calcolare che Caia acquista verso Caio un credito di mille euro (al mese).

Disc. Mi gira la testa a seguire tutti questi calcoli, che sono, non da giuristi, ma da ragionieri.

Doc. E infatti noi giuristi ci guardiamo bene dal farli e ci accontentiamo di stabilire la capacità contributiva di un coniuge...ad occhio. Forse questo spiega anche la (pur sempre infelice) formula legislativa, il suo riferirsi a un contributo stabilito tout court “in relazione” e non ““in proporzione” dei beni (…..) dei coniugi: il legislatore probabilmente si é reso conto che, fare un calcolo rigorosamente proporzionale di quanto é obbligato a dare ciascun coniuge, sarebbe stato.... superiore alle capacità matematiche di noi, magistrati e avvocati.

Disc. Che succede, - se uno dei coniugi, metti Caio, contribuisce al menage familiare, non meno, ma più del dovuto: avrebbe dovuto dare mille e, invece, o in soldi o in “lavoro casalingo”, dà duemila o anche più - e poi i coniugi si separano o il matrimonio si scioglie?

Doc. A mio parere, se si accertasse – cosa che, ti anticipo subito, é ben difficile, per cui, quello che ti sto facendo, consideralo pure un “caso di scuola” - che Caio ha effettivamente dato un quid pluris, bisognerebbe prima di tutto stabilire, se l’ha dato per errore (io, Caio, fermo alla vecchia normativa, dò duemila perché erroneamente ritengo di dover sostenere da solo, com’era una volta per il marito, tutte le spese della famiglia) oppure consapevolmente (idest, consapevolmente di dare più del dovuto): nel primo caso, si dovrebbero applicare le norme sul pagamento di indebito (artt.2033 e ss) e quindi riconoscere a Caio il diritto a vedersi rimborsato quanto da lui indebitamente pagato; nel secondo caso, si dovrebbe considerare il pagamento del quid pluris come una donazione (bada, non come l’adempimento di un’obbligazione naturale, dato che per il nostro codice, vedi l’articolo 2034, un pagamento può dirsi fatto in adempimento di un’obbligazione naturale quando é fatto in adempimento di un “dovere morale o sociale” e nessun “dovere morale o sociale” impone a un coniuge di contribuire più del dovuto alle spese della famiglia).

Disc. Mettiamo che si stabilisca che Caio ha dato quei mille e più euro a titolo di donazione.

Doc. In tal caso occorrerebbe ancora stabilire, se Caio voleva, con la sua donazione, beneficare il coniuge o i figli o, cosa più probabile, il coniuge e i figli (Caio, provetto

muratore, nelle ferie estive ristruttura la casa di campagna perché tutta la famiglia vi possa passare l’estate beatamente al fresco).

Disc. Mettiamoci nella prima ipotesi.

Doc. Nell’ipotesi che Caio abbia dato il quid pluris solo per beneficare il coniuge, egli, qualora si separi da questo (non importa se per colpa sua o di questo) o il matrimonio si sciolga per causa non fisiologica (idest, si sciolga per “divorzio”, annullamento ecc e non per morte del coniuge), avrà diritto alla restituzione del donatum (per le stesse ragioni per cui il legislatore riconosce il diritto “alla restituzione dei doni” nel caso di rottura di fidanzamento, art.80).

Disc. Nella seconda ipotesi evidentemente tu invece negheresti il diritto al rimborso. E nella terza?

Doc. Anche in tale terza ipotesi, come nella seconda, io negherei il diritto al rimborso: questa soluzione, non in perfetta regola con la logica, essendo imposta dalla difficoltà pratica di accertare quanto del donatum era, nelle intenzioni di Caio, per i figli, e quanto per il coniuge.

Disc. Una bella matassa da sbrogliare insomma.

Doc. Eh sì. Ma la difficoltà maggiore, come ti ho anticipato all’inizio, sarebbe quella di stabilire se quel quid, di cui Caio pretende il rimborso, era veramente un quid pluris.Infatti, stabilire ciò, presupporrebbe la ricostruzione del reciproco dare e avere tra Caio e Caia, cosa, specie a notevole distanza di tempo, pressoché impossibile. Non é infatti che tutte le famiglie siano così ordinate, che i coniugi, in un dato giorno del mese, si riuniscono e, presa carta e penna, redigono un preventivo di spesa: “Abbiamo da soddisfare questa e quella esigenza familiare, per ciò occorrono duemila euro, mille toccano a te e mille a me: quindi apriamo entrambi i nostri portafogli e versiamo in cassa duemila euro”. Tutt’altro che raramente, invece, le spese sono affrontate dai coniugi man mano che si presentano e, non con i soldi prelevati da una “cassa comune”, ma con quelli che il coniuge, che prende l’iniziativa della spesa, tira fuori dal proprio portafoglio.Per cui vale il principio che, tutte le volte in cui, il riconoscimento a un coniuge di un diritto al rimborso, presupporrebbe la ricostruzione del dare e l’avere dei coniugi, tale

riconoscimento va negato. Quindi, solo in casi ben rari, Caio potrà chiedere la restituzione del quid datum (per un esempio di tali casi, che, se pur rari, non possono essere negati, pensa a Caio, che chiede la restituzione del prezioso anello dato, evidentemente in dono, alla moglie in occasione del suo compleanno).

Disc. Tu hai fatto prima riferimento al coniuge, che adempie al suo dovere contributivo “tirando fuori i soldi dal suo portafoglio”; ma a me pare che nulla vieti al coniuge, su cui ricade la spesa dell’acquisto della bicicletta al figlio, di acquistarla, sì, ma, non pagando il negoziante “pronto cassa”, ma semplicemente assumendo nei suoi confronti l’obbligo di pagarla.

Doc. In tal caso, io, tornando a fare il ragioniere e non l’avvocato, escluderei che, se l’acquisto é fatto in maggio, si debba calcolare come contributo alle spese del mese di maggio la somma, che Caio non ha pagata, ma solo si é obbligato a pagare, metti, a Settembre; e riterrei preferibile ritenere che, in tal caso, Caia semplicemente acquisisca un credito verso Caio per l’ammontare del debito verso il negoziante, cosa per cui a settembre Caio, per pareggiare i conti, aggiungerà, al contributo da lui dovuto per le spese di settembre, il pagamento dovuto per la bicicletta al negoziante; ad esempio, se, la spesa preventivata per settembre e che i coniugi debbono sostenere in parti eguali, é di duemila e la somma, che Caio a maggio, cioé al momento dell’acquisto della bicicletta, non ha dato al negoziante e che a settembre si deve dare, é di duecento, Caia dovrà dare ottocento e Caio 1200 (1000 contributo mensile + 200 arretrato relativo alla bicicletta = 1200).

Disc. Si deve far rientrare, nel dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, anche l’obbligo di un coniuge di dare la sua fideiussione alle obbligazioni, che l’altro coniuge contrae, beninteso contrae nell’interesse della famiglia?

Doc. Certo é ben ammissibile, anzi é fisiologico, che Caio e Caia si obblighino solidalmente verso il terzo, che vende loro un bene necessario per la famiglia (o esegue una prestazione, per la famiglia, necessaria). Ma – e qui torna a parlare il ragioniere che evidentemente sonnecchiava in me - se si conviene che il dare e l’avere, metti per il mese di maggio, é per Caio e Caia in perfetto pareggio qualora Caio sostenga la spesa A e Caia sostenga la spesa B, si cade in contraddizione logica qualora si sostenga poi che tale pareggio ancora sussista e non sia sballato nel caso si aggiunga a Caio il peso, che tale é, di dare la fideiussione all’obbligazione che Caia deve assumere per la spesa B.

Insomma, tutto possono fare i coniugi, purché rispettino la logica e le regole contabili(oppure se si vogliono tanto bene, da essere sicuri di...poter fare a meno di una contabilità ordinata).

Disc. Ma rispetto al terzo (che vende la cosa, che rende il servizio necessario alla famiglia) Caia, il coniuge che conclude con lui il contratto, risponde da sola personalmente o solidalmente con Caio? Ad esempio, Caia ha acquistato dal mobiliere Parodi un armadio per mille euro: questi mille euro il mobiliere li può chiedere solo a Caia o anche a Caio (ovviamente partendo dal presupposto che questi sia condebitore solidale con Caia)?

Doc. La risposta a questa domanda rimanda alla soluzione di due diversi problemi: primo problema: tutelare o no l’affidamento del terzo che ha contrattato, sì, con Caia, ma fidando di potersi soddisfare all’occorrenza anche sul patrimonio di suo marito, Caio? A questo primo problema noi cercheremo di dare una soluzione in altre sede e precisamente trattando del regime della separazione dei beni. Passiamo al secondo problema, che é questo: la salvaguardia del principio della “parità dei diritti” dei coniugi (primo comma art. 143), pretende che Caio sia chiamato a rispondere solidalmente delle obbligazioni contratte dalla sola Caia? Sì, si sostiene, perché altrimenti Caia, il cui patrimonio é esangue, mentre quello di Caio é panciutello, avrebbe meno chances di Caio di poter compiere quegli “atti attuativi dell’indirizzo familiare concordato”, previsti dal capoverso dell’articolo 144 (perché quei negozianti che si fiderebbero a far credito a Caio, non si fiderebbero a farlo a lei). No, dico io, perché, mentre il riconoscimento della “parità dei diritti tra i coniugi” mira a tutelare la personalità del coniuge-debole (dalle sopraffazioni del coniuge-forte), l’attribuzione a un coniuge del potere di compiere autonomamente (cioé senza il previo consenso dell’altro) gli “atti attuativi dell’indirizzo della vita familiare”- non mira a tutelare tale personalità (tanto é vero che. in ogni momento, l’altro coniuge, come abbiamo visto in un precedente paragrafo, può bloccare l’esercizio di tale potere: Caio può dire “No, non voglio che si acquisti la tal cosa” e Caia non la può acquistare) - ma semplicemente a rendere più efficiente e rapida la gestione del menage familiare: quindi, se anche si verificasse una limitazione (in facto e non in iure) di tale potere per un coniuge, questi non potrebbe dire che la sua personalità é stata sacrificata.

Disc. Dobbiamo ora parlare dell’obbligo, che ciascun coniuge ha, di contribuire all’adempimento dell’obbligazione, posta ai genitori, verso i figli, dall’articolo 147; il

quale precisamente recita: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto é previsto dall’articolo 315 bis”.

Doc. Riterrei opportuno che tu leggessi subito anche l’articolo 148.

Disc. Leggo l’articolo 148: “I coniugi devono adempiere l’obbligazione di cui all’articolo 147 secondo quanto é previsto dall’articolo 316bis”.Leggo quindi anche il primo comma di questo art.316bis, il quale recita: “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”.

Doc. Parliamo della prima parte del comma ora letto: non é certo tra le più felici: leggendola si ha l’impressione che i coniugi adempiano ai loro doveri genitoriali solo aprendo il portafoglio: il legislatore avrebbe fatto bene a nominare, accanto alla “capacità di lavoro professionale o casalingo”, la capacità educativa. Non può essere dubbio però che, al loro dovere di “mantenere, educare, istruire” i figli, i coniugi debbano provvedere non solo “in proporzione alle loro sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”, ma anche in relazione alla loro capacità educativa (“in relazione” e non “in proporzione”, perché questa seconda espressione sarebbe stonata se riferita alla “capacità educativa”, mentre stonata non sarebbe stata, anzi, se usata per la “capacità di lavoro professionale o casalingo” - il che non é stato: il legislatore ha un po’ pasticciato.)Peraltro, a commento di questo comma, possiamo richiamare quanto già osservato più sopra commentando il terzo comma dell’articolo 143: abbiamo già detto che, le leggerissime diversità di formulazione tra questo terzo comma e il primo dell’articolo148, non vanno per nulla sopravalutate. Va solo ricordato che, mentre, la somma destinata dai coniugi ai bisogni, diciamo così, “generici”della famiglia, é rimessa alla loro discrezione, la somma invece destinata ai bisogni dei figli deve essere proporzionata alle loro sostanze e alle loro capacità di lavoro: Caia e Caio, anche se miliardari, possono contentarsi di vivere come poveracci, ma debbono permettere di vivere ai figli come miliardari.Merita qualche parola in più la seconda parte del comma in esame. Essa infatti fa

obbligo agli ascendenti prossimi di fornire ai genitori i mezzi per provvedere ai bisogni dei loro figli.

Disc. Ma tale obbligo già non deriverebbe agli ascendenti dall’articolo 433?

Doc. Se non dall’articolo 433, isolatamente considerato, un obbligo degli ascendenti di provvedere ai nipoti, sopperendo la deficiente capacità economica dei loro genitori, effettivamente deriverebbe già dal combinato disposto di tale articolo 143 e del secondo comma dell’articolo 441 – secondo comma, che così suona: “se le persone chiamate in grado anteriore (come sono per l’articolo 433 i genitori rispetto agli ascendenti) non sono in condizioni di sopportare l’onere in tutto o in parte, l’obbligazione stessa é posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore (come appunto lo sono nel caso gli ascendenti)”.

Disc. Cosa per cui?

Doc. Cosa per cui, la ragion d’essere della seconda parte del comma in commento, la sua “novità, se così ci piace esprimerci, va trovata – non nell’imposizione agli ascendenti dell’obbligo di sopperire alla mancanza di mezzi dei genitori – ma nel fatto che essi non debbono fornire direttamente tali mezzi ai nipoti (agli alimentandi, cioé) ma ai loro genitori.

Sezione terza: Disposizioni generali sui regimi patrimoniali – Il regime della separazione dei beni

Lezione VII: Disposizioni generali

Disc. Possono i coniugi mettersi d’accordo per regolare i loro rapporti patrimoniali, stabilendo, ad esempio, che dopo sposati quei certi immobili saranno amministrati da loro congiuntamente, che l’uno dovrà dare all’altro mensilmente tot, e così via?

Doc. Lo possono, purché il loro accordo rispetti certi diritti, che il legislatore ritiene fondamentali e quindi inderogabili.

Disc. Il legislatore indica quali sono questi diritti inderogabili?

Doc. Sì, lo fa con l’articolo 160, che recita: “Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”.In buona sostanza Caio e Caia non possono derogare a quei diritti, che hanno come loro presupposto necessario il matrimonio e che, pertanto, per loro non esisterebbero se non fossero sposati.

Disc. Quindi vanno annoverati tra i diritti/obblighi inderogabili, tutti quelli che abbiamo studiati nei precedenti paragrafi: obbligo di fedeltà, di assistenza, di coabitazione e, per quel che riguarda più direttamente gli aspetti patrimoniali dei rapporti tra i coniugi, l’obbligo di collaborazione e l’obbligo di contribuzione in proporzione alle sostanze e alla capacità lavorativa.

Doc. E’ così; però la inderogabilità di tali diritti/obblighi va rettamente intesa; cioé tenendo presente, che é la stessa Legge, che prevede la loro derogabilità in caso di separazione (e bada bene, non solo nel caso di separazione giudiziale, ma anche in quello di separazione consensuale!); in caso, cioé di patologia del rapporto coniugale. Questo é evidente per l’obbligo di coabitazione, fedeltà, assistenza, collaborazione, ma anche risulta per l’obbligo di contribuzione (ad esempio, dal quarto comma dell’articolo 337ter, che recita “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito....”).

Disc. Ma se i coniugi non possono (nella fisiologia del rapporto matrimoniale) derogare, né all’obbligo di collaborazione, né all’obbligo di contribuire all’appagamento dei bisogni della famiglia e dei figli, a che cosa mai possono derogare? Tolti questi due obblighi, non resta loro ….pane da mordere con i loro accordi.

Doc. Al contrario, ne resta molto: i coniugi, una volta adempiuto il loro obbligo di contribuzione, hanno diritto di disporre liberamente del residuo reddito, che loro é dato dai loro beni e dal loro lavoro e, a prescindere da ciò, essi conservano sempre il diritto di amministrare tutti i loro beni: é su questi diritti che può incidere, per derogarli, un accordo tra i coniugi; e ti pare poco?

Disc. Quindi, se ho capito bene, i coniugi possono liberamente limitare i diritti, che ogni coniuge ha, alla libera disponibilità dei propri redditi e del proprio patrimonio.

Doc. A dir il vero, anche la derogabilità a tali diritti incontra dei limiti; i più importanti dei quali, sono i due seguenti.Primo: l’accordo dei coniugi non può interdire a uno di loro (o a entrambi) di investire liberamente il proprio redditto (ex bonis o ex labore) per la propria attività economica e professionale – dato che ciò finirebbe per vulnerare il suo spirito d’iniziativa economica e la sua creatività professionale (“Se, io, Caio, sono costretto a concordare con Caia, i codici che posso comprare, i mobili con cui debbo arredare lo studio, ebbene, a far l’avvocato, ci rinuncio!”) e quindi sarebbe lesivo dei diritti della personalità – tutto ciò si argomenta dal capoverso dell’articolo 210, che stabilisce l’invalidità di una convenzione (modificativa del regime della comunione legale), che facesse rientrare nella “comunione”(con conseguente privazione del coniuge del potere di amministrarli autonomamente) “i beni che servono all’esercizio di una professione”.Mutatis mutandis, lo stesso discorso può ripetersi per in accordo che limitasse in un coniuge la libera disponibilità dei suoi beni “personali” - anche qui argomento ex capoverso art. 210.Secondo (limite alla derogabilità): l’accordo dei coniugi non può delimitare in maniera diseguale i poteri di disposizione dei due coniugi – ciò infatti verrebbe a contrastare col principio (espresso dal comma 1 dell’art.143) della “parità dei diritti e dei doveri tra coniugi.”Un’importante applicazione di questa seconda regola si ha nell’articolo 166bis, che consacra il “divieto di costituzione di dote” recitando: “E’ nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”.

Disc. Ma quando si ha costituzione di dote?

Doc. La dote é un antico istituto del nostro diritto; esso prevedeva, il conferimento nel patrimonio familiare di beni da parte della moglie, o di chi per lei, con abdicazione totale di questa alla loro amministrazione, che era riservata solo al marito.

Disc. Ma il divieto di costituzione di dote, implica che la moglie non può dare al marito la procura a vendere e/o amministrare un suo bene.?

Doc. Nessun dubbio che la moglie possa conferire, la procura a vendere un suo bene, al marito, né più né meno di come la potrebbe conferire a un qualsiasi terzo: una diversa soluzione porterebbe al risultato (nefasto) di sfavorire, e non di favorire, la

moglie, in quanto la gestione di un patrimonio rende spesso inevitabile l’assegnazione a un terzo del mandato a compiere un negozio, e sarebbe contrario ad ogni buon senso, che la moglie, dovendo ricorrere a un terzo, dovesse preferire, al marito, un estraneo.Toglie, poi, ogni dubbio, che la moglie possa dare mandato al marito di amministrare, non solamente un suo bene, ma tutti si suoi beni, il disposto del secondo comma dell’articolo 217, che prevede espressamente l’ipotesi che “ad uno dei coniugi (quindi, anche al marito) sia stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro”.

Disc. Ma allora in che si differenzia l’ipotesi, da te ora riportata, da una costituzione di dote?

Doc. Si differenzia per il fatto che la procura é limitata nel tempo; con più precisione, si può dire che, il conferimento al marito del potere di amministrare uno o più beni, non ricade nel divieto della costituzione di dote, se la procura é revocabile o anche irrevocabile ma solo per un tempo limitato.

Disc. Torniamo al fatto che i coniugi godono di un (sia pure limitato) potere di deroga, in relazione ai (loro) diritti di gestire liberamente il loro (personale) patrimonio e il reddito, che loro residua una volta adempiuto l’obbligo di contribuzione (alle spese familiari); ora é chiaro che, il modo in cui tale potere di deroga viene esercitato e il suo stesso non essere esercitato, potrebbe dar luogo a una (forse troppo vasta) diversità di regimi patrimoniali: i coniugi Rossi potrebbero creare un regime patrimoniale, che pretende il consenso di entrambi coniugi per la disposizione di tutti i beni (prima in esclusiva disponibilità di ciascuno di loro), i coniugi Bianchi, invece, potrebbero creare un regime, in cui il consenso dei coniugi é necessario solo per la disposizione di alcuni di tali beni oppure solo per alcuni atti di disposizione di tali beni e così via: il legislatore non teme che ne nasca il caos?.

Doc. No, egli si limita a disciplinare (negli artt. 167 e segg.) quattro diversi tipi di regimi patrimoniali: quello del fondo patrimoniale, quello della comunione legale, quello della comunione convenzionale, quello della separazione dei beni; e a stabilire nell’articolo 159, che “Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’artic. 162, é costituito dalla comunione dei beni, regolata nella sezione III del presente capo” (idest, dalla comunione legale a cui poco fa ho fatto cenno).

Ma, se il Legislatore non ritiene di porre limiti alla creatività giuridica delle varie coppie di sposi, egli ritiene però opportuno di vietare loro una tecnica di formulazione del parto di tale creatività; e nell’articolo 160 dispone, che: “Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali con i quali intendono regolare questi loro rapporti”. Quindi, due coniugi di cittadinanza italiana, non potrebbero limitarsi a scrivere nella loro convenzione matrimoniale “Vogliamo che i nostri rapporti patrimoniali siano disciplinati dalla legge belga”, ma con santa pazienza dovrebbero trasformare le norme della legge belga in clausole contrattuali e riportarle nella loro convenzione; questo perché la legge belga non é una legge a cui essi “sono sottoposti”. Al contrario, il cittadino Chevalier, di cittadinanza francese e la cittadina Cepeda di nazionalità spagnola, potrebbero limitarsi ad esprimere la loro volontà per relationem: “Noi vogliamo che i nostri rapporti patrimoniali siano disciplinati dalla legge francese”; questo perché la legge francese (sia pure in alternativa a quella spagnola) é la legge a cui sono sottoposti (vedi l’art. 30 della L. 31 maggio 1995 n. 218 sul diritto internazionale privato).

Disc. Fa differenza che una legge straniera sia applicabile semplicemente in quanto “legge a cui i coniugi sono sottoposti” (penso al caso dei coniugi Chevalier-Cepeda) o, invece, in quanto riportata in una convenzione matrimoniale (penso al caso dei due italiani, che vogliono che i loro rapporti patrimoniali sia regolati dalla legge francese, e pertanto la trasfondono nella loro convenzione)?

Doc. Certo, nel primo caso la legge verrà applicata dal giudice italiano tenendo conto della sua evoluzione (se il legislatore estero, nel tempo, avrà, metti, abrogato l’articolo X, non applicherà l’articolo X); nel secondo caso, invece, egli applicherà la legge come cristallizzata, diciamo così, nella convenzione, prescindendo cioé dalle modifiche nel frattempo in essa intervenute.

Disc. Quale la ragione per la quale il nostro legislatore non permette ai coniugi quel rinvio per relationem, che chiaramente sarebbe per loro il metodo più pratico e semplice di recepire la normativa straniera?

Doc. Io credo che la ragione, almeno principale, di ciò vada ravvisata nel timore, che un semplice rinvio per relationem esponga i coniugi a scelte non meditate (i coniugi optano entusiasti per il diritto argentino, senza sapere che l’articolo tal dei tali del

codice argentino dispone questo e quest’altro): costringere i coniugi a riportare, trasformate in clausole contrattuali, le norme di una legge, che non essendo quella a cui sono sottoposti é presumibilmente da loro poco conosciuta, é un modo per costringerli a farne una più approfondita conoscenza.Meno valide mi sembrano altre due ragioni, che pur autorevolmente si indicano:quella di facilitare il giudice nell’applicazione della legge (regolatrice dei rapporti patrimoniali), evitandogliene una ricerca che potrebbe essere laboriosa (ma il giudice italiano non deve già sobbarcarsi a tale ricerca, tutte le volte in cui i rapporti patrimoniali delle parti sono, ai sensi delle norme di diritto internazionale privato, regolati da una legge straniera?!);quella di facilitare i terzi nella conoscenza della normativa straniera, che regola i loro rapporti con gli sposi, con cui hanno rapporti di affari (ma l’handicap del terzo non sarebbe eliminato sufficientemente dal terzo comma dell’art.30 della già citata Legge n. 218/995, il quale recita “Il regime dei rapporti patrimoniali fra coniugi regolato da una legge straniera é opponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano ignorato per loro colpa”?! ).

Disc. Ma, come il contenuto, anche la forma delle “convenzioni matrimoniali” é libera?

Disc. Tutt’altro, il primo comma dell’articolo 162, pretende che “le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico sotto pena di nullità”. Quindi, ahimé, per stipulare una convenzione matrimoniale occorre rivolgersi al notaio.La relativa spesa il legislatore la evita solo a quegli sposi, che attuano, la loro scelta per il regime di separazione, al momento della celebrazione del matrimonio; infatti il legislatore permette che tale scelta “possa anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio” (attenzione! “nell’atto”, cioé nel documento in cui vien fatta risultare la celebrazione, non “all’atto” della celebrazione). Evidentemente il Legislatore ha voluto che la scelta di un regime così popolare, come quello della separazione dei beni, non venisse scartato dagli sposi, solo per una loro difficoltà a sostenere le spese notarili.

Disc. Ma le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate solo al momento della celebrazione del matrimonio?

Doc. No, e te lo dice il terzo comma sempre dell’articolo 162, che recita: “Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, ferme le disposizioni dell’art.

194”. Quindi, se Caio e Caia, che si sono astenuti dal far risultare nell’atto di celebrazione la loro opzione per il regime di separazione, dopo, anche dopo qualche anno, ci ripensano, sono sempre in tempo a rimediare: potranno andare da un notaio (sobbarcandosi questa volta la relativa spesa) e far disciplinare i loro rapporti dal regime della separazione.

Disc.Il legislatore prevede una forma di pubblicità per le convenzioni?

Doc. Certo che sì; infatti é ben giusto (e opportuno per evitare la vischiosità delle transazioni commerciali) che si dia all’imprenditore Parodi, che deve stipulare un contratto con i coniugi Rossi, la possibilità di sapere per quale dei regimi patrimonialiessi abbiano optato: infatti, la validità o no del contratto, dipenderà dalle norme che disciplinano tale regime (se i coniugi Rossi vivono in regime di separazione dei beni, basterà per la validità del contratto che apponga la sua sottoscrizione solo il sig Rossi, che nei registri immobiliari ne risulta unico proprietario, se essi invece fossero in regime di comunione dei beni, occorrerebbe la sottoscrizione anche della signora Rossi).

Disc. E in che modo il Legislatore riesce a dare la possibilità al Parodi di conoscere il regime adottato dai coniugi Rossi?

Doc. Facendo onere ai coniugi Rossi di far risultare, le convenzioni (matrimoniali) da loro stipulate, a margine del loro atto di matrimonio. Di conseguenza, se il Parodi, visionato tale atto, non vi vedrà annotata nessuna convenzione, dovrà concludere che i coniugi Rossi hanno adottato il regime della comunione dei beni (la cui adozione, come ricorderai, é, per l’articolo 159, per così dire automatica, avviene, o almeno può avvenire, senza necessità della stipula di una convenzione ad hoc); se invece vi vedrà annotata una convenzione.. .se ne andrà a leggere il contenuto dal notaio rogante.

Disc. Ma il contenuto della convenzione (il tipo di regime patrimoniale adottato dai coniugi Rossi: se trattasi del regime di separazione dei beni, del regime del fondo patrimoniale ecc.) non risulta dall’atto di matrimonio?

Doc. No (salvo che il regime prescelto sia quello della separazione dei beni). Tutto questo ti risulta dal quarto comma dell’articolo 162, che recita: “La convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell’atto di matrimonio non risultino annotati la data del contratto, il notaio rogante e le

generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al secondo comma” (idest, la scelta del regime della separazione dei beni).

Disc. Quindi, il nostro Parodi, per sapere quale sia il regime adottato dai coniugi Rossi, dopo essere stato all’ufficio di stato civile, dovrà recarsi all’ufficio notarile - beninteso, salvo il caso che dall’atto di matrimonio risulti che i coniugi Rossi non abbiano stipulata nessuna convenzione (nel qual caso dovrà concludere che il regime adottato, sia quello della comunione) o che i coniugi Rossi abbiano optato, al momento della celebrazione (del matrimonio), per il regime di separazione (senza farlo seguire da convenzioni contrarie).Ma, sapere il tipo di regime adottato dai coniugi Rossi, al nostro signor Parodi certamente basterà, qualora il contratto, che egli intende stipulare, riguarda un bene mobile (non iscritto nei registri); ma gli basterà lo stesso, qualora il contratto riguardi un bene immobile o un bene mobile iscritto nei pubblici registri (un automobile, un aereomobile...)?

Doc. No, se il Parodi, consultato l’atto di matrimonio, vi vedrà indicato, putacaso, che i coniugi, prima, al momento della celebrazione del loro matrimonio, hanno optato per il regime della separazione dei beni, e, poi, hanno stipulata una convenzione; indi, recatosi all’ufficio notarile, leggerà, nella convenzione, che i coniugi hanno optato per il regime di comunione, ebbene ciò non gli basterà, o almeno gli potrebbe non bastare, per soddisfare la sua curiosità di cauto uomo d’affari: gli resterà, o almeno gli potrebbe restare, l’interrogativo se l’appartamento, che intende comprare, rientri, o no, nella comunione dei beni (dato che non tutti gli immobili di proprietà di uno dei coniugi, come vedremo, cadono in comunione).

Disc. E il legislatore gli dà la possibilità di dar risposta a tale interrogativo?

Doc. Sì, perché Egli impone non solo di trascrivere, se hanno per oggetto dei beni immobili o i beni mobili di cui all’articolo 2683 (aereomobili, autoveicoli...), “la costituzione del fondo patrimoniale, le convenzioni che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi, gli atti e i provvedimenti di scioglimento delle comunione (….)”, ma altresì di trascrivere gli atti relativi a beni (della tipologia sopra indicata e) che “successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare o risultano esclusi dalla comunione tra i coniugi”. Tutto questo te lo dico in sintesi, se ti fosse necessaria una maggiore precisione dovresti consultare gli artt. 2646 e 2685.

Disc. Comunque, sintetiche o no, le tue parole mi fanno capire che il nostro bravo Parodi, se non sempre molto spesso, se vorrà essere sicuro di comprare bene un immobile, dovrà rassegnarsi a fare tre viaggetti: uno all’ufficio di stato civile, l’altro all’ufficio di un notaio, l’altro ancora all’ufficio dei registri immobiliari.Ma, tanto per complicarci la vita, poniamo il caso che il Parodi debba stipulare il contratto con un coniuge, i cui rapporti patrimoniali sono regolati da una legge straniera, metti con la signora Cepeda di un esempio precedente, anche in tal caso un sistema di pubblicità gli darà modo di informarsi sul regime patrimoniale della controparte e, diciamo così, sullo status (se rientra nel patrimonio familiare, o no, ecc.) dell’immobile che volesse acquistare?

Doc. Sul punto io ti confesso non sono molto esperto; ma direi di no, perché, la norma di diritto internazionale privato che prevede il caso, (il terzo comma dell’art. 30 L. 31 maggio 1995 n. 218), si limita a stabilire, che “Il regime dei rapporti patrimoniali fra coniugi regolato da una legge straniera é opponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuta conoscenza o lo abbiano ignorato senza colpa. Relativamente ai diritti reali su beni immobili, l’opponibilità é limitata ai casi in cui sono state rispettate le forme di pubblicità prescritte dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano”.A questo punto io direi di chiudere sulle “disposizioni generali”, saltando le norme di cui agli articoli 163, 164,165,166.

Disc. Che cosa riguardano?

Doc. L’articolo 163, la modifica delle convenzioni matrimoniali; l’articolo 164, la simulazione delle convenzioni matrimoniali; l’articolo 165 e l’articolo 166, la capacità, rispettivamente del minore e dell’inabilitato, a stipulare le convenzioni matrimoniali.

Disc. Ma sì, mi pare che riguardino punti del tutto secondari della disciplina: chiudiamo; non prima però che tu abbia risposto a questa ultima domanda, che mi pare invece importante.Abbiamo visto che i coniugi possono derogare al regime della comunione legale solo stipulando una “convenzione” in tal senso (art. 159); abbiamo visto che i coniugi debbono stipulare tale “convenzione” solo “per atto pubblico” (primo comma dell’articolo 162), ma tu non mi ha detto ancora...che cosa si debba intendere per “convenzione”: ogni accordo tra coniugi, che ha l’effetto di attribuire (o di togliere)

qualche potere o diritto sul patrimonio familiare o personale (dell’uno o dell’altro di loro), va considerato una “convenzione” da stipulare con atto pubblico? ad esempio, il contratto, con cui la signora Rossi intende conferire al marito il mandato a vendere un immobile rientrante nella comunione, va considerato una convenzione, va fatto per atto pubblico?

Doc. No, la signora Rossi potrà dare il suo mandato con una semplice scrittura privata. Infatti si può parlare di “convenzione”, a proposito di un accordo tra coniugi, solo quando le disposizioni di questo, siano destinate a valere (tendenzialmente) fino allo scioglimento del matrimonio e abbiano natura “programmatica”, cioè siano destinate a disciplinare una molteplicità di situazioni (ipotizzabili nel futuro).Lezione VIII: Il regime della separazione dei beni.

Doc. Il legislatore non dà una definizione del regime della separazione dei beni, così come non la dà del regime del fondo patrimoniale e di quello della comunione legale, ma - siccome, nel primo articolo della sezione dedicata alle “disposizioni generali”, l’articolo 159, egli aveva enunciato la norma che “il regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione.....é costituito dalla comunione dei beni (rectius, dei beni acquistati durante il matrimonio) - nel primo articolo dedicato al regime della separazione, l’articolo 215, sente il bisogno di ribadire che “I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio”.

Disc. Quindi, il regime, che andiamo ora a studiare, si caratterizza per il fatto, che i coniugi restano “titolari esclusivi” dei loro beni, quelli che avevano al momento di sposarsi e quelli acquistati successivamente; é così?

Doc. E’ così; ma sarebbe bene sottolineare, che i coniugi restano titolari esclusivi di tutti i loro beni; dal momento che, pure chi opta per il regime di comunione legale o per la costituzione di un fondo patrimoniale, conserva la titolarità esclusiva di alcuni beni: ad esempio Caio, che, al momento in cui opta per il regime della comunione, é proprietario di tre appartamenti, conserva la titolarità esclusiva di tali appartamenti e, mutatis mutandis la cosa si potrebbe ripetere per il caso che avesse costituito un fondo patrimoniale (i beni non “versati” nel fondo resterebbero di sua esclusiva proprietà – vedi meglio l’articolo 168).Ed é bene dire subito che le norme che andremo ad esaminare, anche se inserite in una “sezione” dedicata al regime della separazione, non si applicano solo ai beni di

chi ha optato per questo regime, ma si applicano a tutti i beni di cui un coniuge, qualunque sia il regime per cui ha optato, conserva la titolarità esclusiva.Chiarito questo, passiamo a parlare del secondo articolo della sezione dedicata alla separazione dei beni, e cioé dell’articolo 217. Nel primo comma di tale articolo, il legislatore, che non ha persa l’abitudine di dire...cose ovvie, proclama che “Ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui é titolare esclusivo”.

Disc. Io non trovo tanto “ovvio” il dettato legislativo. Infatti, quando noi si parlava dell’obbligo di contribuzione (terzo comma dell’articolo 143), mi prudeva una domanda, che ora, proprio il primo comma da te dileggiato, mi dà l’occasione di farti: Caio, una volta che ha adempiuto correttamente il suo obbligo di contribuzione, dei soldi che gli restano nel portafoglio, può fare quel che gli pare e piace? Cerco di essere ancora più preciso: Caio, ha un reddito mensile di tremila euro, e ne dà come “contributo” mille: dei residui duemila euro, può disporre come gli aggrada?

Doc. Fino ad un certo punto. Certamente egli é libero di impiegare anche tutti i duemila euro nell’acquisizione di beni e/o servizi utili per la sua professione e attività economica e per lavori diretti a conservare e rendere più redditizi i beni in sua proprietà. Ma incontra invece precisi limiti per quel che riguarda le spese voluttuarie (pranzi, spettacoli...) e per quelli che il legislatore definisce (nella lettera c, comma 1 art. 179) “beni di uso strettamente personale” (vestiti, computer, auto.......)

Disc. Da che cosa sono dati questi limiti?

Doc. Dall’obbligo per il coniuge di non superare, nel suo tenore di vita, quello di tutti gli altri membri della famiglia: se questi si nutrono a pasta e fagioli, egli non può pasteggiare a ostriche e champagne; se questi, per andare al lavoro, arrancano in bicicletta, egli non può scarrozzarsi in una fuoriserie: anche se noi viviamo in una società capitalistica, dentro le quattro mura della famiglia, ci dobbiamo rassegnare a vivere, qualunque siano le nostre idee politiche, in una...società comunista.

Disc. Sempre mentre noi si parlava dell’obbligo di contribuzione, io avevo una altra domanda sulla punta della lingua, che ora ti voglio fare. Questa domanda nasceva da quella che mi pareva una vera ingiustizia: Caio, pensavo, sentendo quel che tu dicevi, nei mesi che sono per lui quelli delle vacche grasse, guadagna tremila, dà il suo bravo contributo di mille e...il resto se lo spende; poi, quando vengono le vacche magre, mostra a Caia il portafoglio vuoto e non le dà niente - e ha ben diritto di non darle

niente perché non ha niente; però, ecco quel che pensavo, se nel periodo di alta congiuntura avesse risparmiato, qualche cosa anche nel periodo delle vacche magre potrebbe dare – e il tutto mi sembrava ingiusto. Per cui ti avrei voluto domandare e ora ti domando: Caia può controllare l’uso che, del suo reddito, fa l’altro coniuge e costringerlo alla virtù del risparmio?

Doc. Certamente essa non può legare le mani e la borsa di Caio, per quel che riguarda le spesse che egli intende fare per la sua attività professionale e lato sensu economica: questo divieto nasce da quella esigenza di tutela della personalità, di cui abbiamo già avuta occasione di parlare.Invece, per quel che riguarda le spese per beni personali e per quelle voluttuarie, l’obbligo per Caio di risparmio, nasce dallo stesso obbligo che ha Caio di uniformare il suo tenore di vita a quello degli altri familiari. Facciamo un esempio: Caio ha il reddito mensile di tremila: mille li dà come contributo alle “spese di famiglia”, mille li spende per comprarsi gli “attrezzi del mestiere” o per le necessarie riparazioni alle sue case, cinquecento li spende per mantenere un tenore di vita conforme a quello dei familiari: i residui cinquecento, non potendoli usare per spese voluttuarie, per forza li deve risparmiare!

Disc. Ma Caia può controllare che veramente mille siano spesi così, cinquecento colà e così via?

Doc. Tu mi domandi se c’é un obbligo di “trasparenza” economica tra due coniugi? ebbene, io sarei propenso a rispondere di sì (anche se mi rendo che la materia é delicata): il nostro legislatore vuole che tra due coniugi vi sia una completa “comunione spirituale e materiale” di vita? se sì, com’é sì, tra due coniugi non debbono esserci segreti: l’uno deve poter conoscere la contabilità dell’altro.

Disc. Chiariti i limiti in cui ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei suoi beni, passiamo all’esame dei restanti commi dell’articolo 217. Vengo a leggerli.Secondo comma: “Se ad uno dei coniugi é stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli é tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato”.Terzo comma: “Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli e i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati.”

Quarto comma: “Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti”.Mi sembra che il Legislatore, prendendo in esame le varie ipotesi in cui un coniuge può trovarsi nella detenzione dei beni dell’altro, ne salti una. E infatti si potrebbero fare (non tre ma) quattro ipotesi: prima, il coniuge é nella detenzione per “procura” (rectius, mandato) dell’altro e con obbligo di rendiconto; seconda, il coniuge é nella detenzione, sempre per mandato dell’altro, ma senza obbligo di rendiconto; terza, il coniuge é nella detenzione senza mandato, ma senza opposizione dell’altro; quarta, il coniuge é nella detenzione, non solo senza mandato, ma addirittura con l’opposizione dell’altro coniuge. Questo mentre invece il legislatore fa solo tre ipotesi: e più precisamente salta la terza da me prima fatta (che invece, mi pare, ha pieno diritto di cittadinanza).

Doc. Tu hai ragione, senza dubbio il legislatore compie un salto logico. Ma anche Tu salti una quinta ipotesi, quella che il coniuge sia nella detenzione dei beni dell’altro in base, sì, a un contratto, ma non a un contratto di mandato: pensa a un contratto di locazione, di usufrutto, di enfiteusi (…); e, non contento, salti anche una sesta ipotesi, quella che il coniuge sia nella detenzione dei beni, non per amministrarli, ma solo per goderli.

Disc. Giusto: ciò andava chiarito ed é stato chiarito. Ora però tu comincia a commentare la prima ipotesi, quella prevista dal comma due.

Doc. Così come i coniugi possono stipulare tra di loro un contratto di compravendita, di locazione, di trasporto ecc., così essi possono anche tra di loro stipulare un contratto di mandato. A ciò, lo abbiamo già visto, non osta il divieto, stabilito dall’art. 166bis di “ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”: infatti tale divieto, interpretato con tale severità da escludere anche la possibilità di Caia di dare a Caio un mandato, finirebbe per iugulare la stessa possibilità di Caia di muoversi nel mondo degli affari: quel che importa, per non ricadere nel divieto dell’articolo 166bis, é che il mandato non sia irrevocabile (a meno che la clausola di irrevocabilità - utile per dar la sicurezza, alla controparte del contratto oggetto del mandato, che nel corso delle trattative non vengano meno i poteri del coniuge-mandatario - sia soggetta ad un termine molto breve).

Disc. Quale forma deve assumere il mandato? può darsi anche per scrittura privata,

anche oralmente, può essere anche “tacito”?

Doc. Se il mandato é (ipotesi di scuola) a puramente e semplicemente amministrare, senza il potere di compiere negozi giuridici, può essere dato in qualsiasi forma. Ma se il mandato, com’é nella norma, conferisce anche il potere di compiere, tanti o pochi nulla importa, atti giuridici, é, quindi, “con rappresentanza”, logicamente dovrà comprendere una procura, per cui dovrà applicarsi l’articolo 1392, secondo cui “La procura non ha effetto se non é conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere”. Per cui Caia - se volesse conferire al coniuge, oltre al potere di puramente amministrare, anche quello di vendere un immobile o, per fare un altro esempio ancora, quello di darlo in locazione per una durata superiore ai nove anni - dovrebbe dare al relativo mandato la forma scritta (vedi anche l’articolo 1350). Invece, il potere di riscuotere i canoni locatizi, di percepire i frutti di un fondo e di venderli, di assumere prestatori d’opera, Caia lo potrebbe benissimo dare a Caio anche oralmente e addirittura tacitamente. Certo é ben difficile ipotizzare una mandato verbale o tacito per il caso previsto dal comma secondo (data l’ipotesi, che vi si fa, dell’inserimento nel contratto di una clausola che impone il rendiconto); ma, con riferimento al caso contemplato nel comma terzo, invece, un contratto verbale e tacito si può benissimo ipotizzare.

Disc. Ma il mandato, può avere carattere generale, può addirittura riguardare tutti i beni di Caia?

Doc. Che possa avere carattere generale risulta dalla lettera stessa della norma (che si riferisce all’amministrazione “di beni” al plurale e non al singolare). E, ammesso ciò, non mi pare che ci siano ragioni per escludere che possa riguardare tutti i ben dell’altro coniuge.

Disc. Chiarito questo, passiamo all’esame del terzo comma.

Doc. – Il terzo comma é relativo all’ipotesi di un coniuge che amministra con procura (rectius, con mandato), ma senza “obbligo di rendere conto dei frutti” (e più in genere, un’interpretazione estensiva rientrando nella logica, senza rendere conto della sua amministrazione). Nell’ipotesi, il legislatore esenta il coniuge amministratore, non solo dall’obbligo di rendiconto, ma tout court, da quello di far avere al suo mandante, l’altro coniuge, i frutti della sua amministrazione (di cui evidentemente é libero di disporre); e siccome, nel più sta il meno, é da ritenere che lo esenti anche

dalla responsabilità per mancata percezione dei frutti dovuta a sua negligenza e in genere (anche qui imponendosi in via logica un’interpretazione estensiva) da ogni responsabilità per mala gestio. Da questa, che é una deroga alla disciplina codicistica del mandato (artt.1710 e ss), ci riserviamo in seguito di trarre interessanti deduzioni.

Disc. Ma perché l’esenzione operi, deve risultare expressis verbis?

Doc. No, e ciò risulta dalla stessa lettera della norma, che si limita a parlare di coniuge “senza l’obbligo di rendere conto”. Questa considerazione ci permette di escludere, sia l’obbligo di rimettere i frutti al coniuge proprietario sia la responsabilità per mala gestio, anche nella terza ipotesi che tu avevi fatto (e che il legislatore ha saltato): l’ipotesi di Caio, che é nella detenzione dei beni di Caia senza suo mandato, ma anche senza sua opposizione.

Disc. Ma Caio, che si trova nella detenzione, poco rileva se con mandato o meno, dei beni di Caia, in che senso, dei frutti percepiti, può disporre liberamente? nel senso che può consumarli a proprio esclusivo beneficio o nel senso che può, sì, disporne solo a beneficio della famiglia, ma a lui solo é rimessa la scelta dei bisogni familiari da soddisfare con tali frutti?

Doc. Io escluderei senz’altro la prima alternativa: Caio deve usare i frutti nell’interesse della famiglia. E sarei anche propenso a ritenere che Caio, non possa liberamente, cioé senza il consenso di Caia, determinare la priorità dei bisogni familiari da soddisfare (perché ciò contrasterebbe con l’obbligo imposto ai coniugi dall’articolo 144 di “concordare” “l’indirizzo della vita familiare”), ma che abbia solo la libertà nella scelta delle vie da seguire per monetizzare tali frutti (se si tratta di frutti naturali: venderli a 100 o a 110?). Logico corollario di ciò, sarebbe che Caio non potrebbe imputare alla sua quota contributiva (per sovvenire ai bisogni della famiglia) le somme ricavate dalla sua amministrazione. Esempio: se Caio per contributo dovesse mille e, la somma ricavata dall’amministrazione, ammontasse a settecento, Caio non potrebbe limitarsi a dare trecento.

Disc. Passiamo ora all’esame del quarto comma.

Doc. Esso fa due ipotesi: la prima é che il coniuge-detentore (contro la volontà del coniuge-proprietario) rechi danni ai beni detenuti; la seconda, é - o almeno sembra essere (qui il pensiero legislativo é veramente poco chiaro!) - quella che il coniuge

detentore, con la sua stessa detenzione, impedisca all’altro di cogliere i frutti dei suoi beni, col risultato di cagionargli così un danno. Per tali ipotesi la norma prevede una responsabilità, evidentemente un obbligo risarcitorio, per il coniuge possessore e danneggiante.

Disc. A me pare ovvio che il coniuge, che rechi danni alle cose da lui detenute, sia obbligato a risarcirli.

Doc. Appunto per questo, per dare una ragione d’essere alla norma, si impongono due diverse interpretazioni. Prima: essa, non tanto stabilisce che il coniuge deve risarcire i danni, ma che deve risarcirli anche se manca la prova di un suo comportamento colposo o doloso. Seconda (interpretazione): il coniuge deve risarcire i danni in caso di sua colpa o dolo. A me sembra che la prima interpretazione porti a soluzioni troppo severe, e preferirei adottare la seconda; la quale effettivamente porta a far dire alla norma una ovvietà, ma un’ovvietà che non sarebbe più tale, se il legislatore partisse dal presupposto che il coniuge, amministratore in base a mandato e comunque col beneplacito dell’altro coniuge, non sia obbligato a risarcire i danni anche se da lui causati per colpa (eccezion fatta che si tratti di colpa grave) – insomma se il legislatore adottasse, per il coniuge amministratore, quella stessa soluzione accolta nell’articolo 1713, per il mandatario esentato dall’obbligo di rendiconto.Conclusione: siccome ritengo che al Legislatore non si debbano attribuire assurdità – absurda sun vitanda, insegnava Farinaccio – ritengo anche che il terzo e quarto comma vadano interpretati nel senso, che, il terzo, escluda la responsabilità del coniuge per i danni arrecati per colpa (che non sia grave); e, il secondo, invece, riaffermi il principio che il coniuge, come come tutti gli altri mortali, debba risarcire i danni colposamente causati.

Disc. Possiamo lasciare a questo punto il commento dell’articolo 217 e passare a quello dell’articolo 218, che recita: “Il coniuge che gode i beni dell’altro coniuge é soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario”.L’espressione “coniuge che gode i beni”, fa pensare al coniuge che é nella detenzione di un bene, non produttivo (pensa a un appartamento), dell’altro o, anche, é nella detenzione di un bene produttivo dell’altro, ma senza cercare di cogliere le utilità che questo può dare (é nel campo, ma non per coltivarlo o coglierne i frutti): é così? l’articolo in esame si riferisce solo a questi casi o si riferisce anche o addirittura solo ai casi in cui il coniuge-detentore, non solo gode, ma anche sfrutta i beni che detiene?

Doc. Senz’altro l’articolo in esame si applica al coniuge, che detiene un bene per farlo fruttare: sarebbe assurdo che il legislatore avesse fatto riferimento alla normativa che disciplina i diritti/obblighi dell’usufruttuario – di chi cioé é nel possesso di una cosa per “trarre ogni utilità che questa può dare” (art.981) – per dirci i diritti/obblighi di chi semplicemente e puramente gode di un bene.Pertanto, l’articolo 218 viene a integrare l’articolo 217, stabilendo che il coniuge-amministratore, con o senza mandato, con o contro il beneplacito dell’altro, ha gli stessi obblighi dell’usufruttuario (quindi deve rispettare la “destinazione economica del bene” ecc.).Peraltro, io riterrei applicabile tale articolo anche al caso del coniuge, che puramente “gode” di un bene dell’altro (Caio che abita nell’appartamento di Caia). Ovviamente in tal caso le norme sull’usufrutto si applicheranno solo per la parte che si adatta a tale situazione.

Disc. Passiamo ora all’esame dell’articolo 219, che recita:“Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene.I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi”

Doc. La disposizione, che il coniuge possa provare “con ogni mezzo”, quindi, non solo documentalmente, ma anche con testimonianze e presunzioni, la propria proprietà esclusiva su un bene (poco importa che questo bene si trovi nella casa familiare, anche se normalmente sarà così, o in altro luogo), trova la sua giustificazione nei particolari rapporti di reciproca fiducia, che normalmente si instaurano tra coniugi e che normalmente impediscono loro di procurarsi le prove da far valere contro l’altro.Ma, il fatto che la prova della esclusiva proprietà possa essere data con ogni mezzo, non significa che il giudice possa riconoscere, l’esistenza del diritto reclamato, anche in base a una prova insufficiente, una prova cioè che non gli dà la sicurezza (sia pure quella sicurezza di cui ci si deve accontentare nelle aule di giustizia), che il diritto appartenga veramente a chi lo reclama. Pertanto, quando, la esclusività della proprietà o tout court chi sia proprietario, non liquet, il giudice applicherà il secondo comma e attribuirà il bene conteso al cinquanta per cento a tutti e due i coniugi.

Disc. E, con ciò, farà un’eccezione alla regola, che vuole che, al rivendicante

soccombente, la proprietà sia negata.. .al cento per cento.Tu hai detto che bastano le presunzioni per provare la proprietà esclusiva (o la comproprietà) di un bene; vuoi dare un esempio di tali presunzioni?

Doc. Pensa alla presunzione, che nasce dalla particolare relazione della cosa controversa con la professione di chi la rivendica: chi può dubitare che i libri di diritto appartengano al coniuge-avvocato e non alla coniuge-casalinga?

Disc. E la detenzione della res controversa, che abbia il rivendicante?

Doc. Io escluderei che da sé sola costituisca sufficiente prova, che la proprietà della res spetti al rivendicante; a meno, anche qui, che tale proprietà risulti dalla particolare relazione esistente tra il rivendicante e la res: chi può dubitare che quella macchina fotografica appartenga al coniuge dilettante-fotografo?

Disc. Ma questa facilitazione concessa ai coniugi, nella prova della proprietà (esclusiva o in comunione), vale anche contro i terzi?

Doc. La risposta é, no: Caia che si oppone (in forza dell’articolo 619 codice di procedura civile – la così detta opposizione di terzo) al pignoramento, che il negoziante Parodi ha fatto in odio al marito Caio, su una res esistente nella abitazione familiare – tanto per riferirci alla situazione che più frequentemente si verifica nelle nostre aule di giustizia – non é agevolata nella prova che la proprietà della res spetta a lei, e non al marito Caio (oppure, nella prova che la res, non é in proprietà esclusiva del marito, ma in comunione tra lei e il marito).Quindi, attente gentili lettrici, a non sposarvi con un uomo scialacquatore: i beni, che aveste portato nella casa comune, si troverebbero esposti alle aggressioni dei suoi creditori!Però val la pena di dire che, se Caia non é agevolata nella prova dalla sua qualità di moglie, non ne é neanche handicappata; questo, almeno dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarata la illegittimità dell’articolo 622 del Codice di procedura civile, che invece poneva forti limiti, alla opposizione della moglie convivente, contro i pignoramenti dei beni, fatti in odio del marito, “nella casa di lui”.E con ciò abbiamo terminato l’esame di tutti gli articoli della sezione quinta dedicata al regime della separazione dei beni.

Disc. Ma ora, che abbiamo passato in esame tutti gli articoli della sezione, vuoi

sciogliere la riserva prima fatta? avevi detto, commentando il terzo comma dell’art.217, che, dall’esenzione del coniuge-amministratore dall’obbligo di rimettere i frutti al coniuge-proprietario, si può ricavare un’interessante deduzione: quale?

Doc. Questa: che, per la disciplina dei rapporti tra coniugi, non può attingersi senza discernimento alla eventuale normativa, che disciplini similari rapporti tra estranei; dato che questa disciplina non tiene conto di un elemento fondamentale, che caratterizza invece il rapporto tra coniugi e cioé la affectio coniugalis. E’ questo elemento, che rende improprio e stonato, un obbligo del coniuge- amministratore al conferimento dei frutti percepiti o un suo obbligo al risarcimento, per i danni senza colpa causati nell’amministrazione.; é ancora questo elemento che, come abbiamo visto in una precedente lezione, rende improprio e stonato l’obbligo, del coniuge proprietario, di pagare all’altro coniuge, che ha sopraelevato la sua casa, il maggior valore da questa acquistato (anche se ciò, dall’articolo 936 sulle accessioni, sembrerebbe imposto!). Ed é infine questo elemento, che porta a dare soluzioni anomale a certe questioni, che nascono nei rapporti tra coniugi e terzi. E con ciò in particolare mi voglio riferire alla questione, che nasce quando uno dei coniugi stipula un contratto con un terzo: la signora Rossi va nel negozio del mobiliere Parodi e vi compra un mobile: dell’obbligo da lei contratto di pagare il prezzo risponde anche il signor Rossi?Ecco il problema su cui riterrei opportuno spendere ancora qualche parola, se sei d’accordo.

Disc. Certo che lo sono, l’argomento é interessante.

Doc. Allora diciamo subito che, alla domanda propostaci, sia la Giurisprudenza che la Dottrina, di massima, danno una risposta affermativa – questo, beninteso, quando la signora Rossi abbia assunto con tutta evidenza l’obbligo per soddisfare esigenze familiari.La Giurisprudenza prevalente giustifica tale risposta con una doverosa tutela dello affidamento: Parodi ha diritto di chiamare a rispondere del pagamento del prezzo anche il marito della signora Rossi, perché, la qualità di moglie della Rossi, non poteva non indurlo a credere, che questa agisse col consenso e, quindi, con la procura del marito.La Dottrina prevalente si richiama invece agli articoli 186, 190, che disciplinano il regime della comunione dei beni. Articoli da cui, in sintesi, risulta che, se uno dei coniugi, la signora Rossi dell’esempio, fa un acquisto, più in genere, stipula un

contratto (di vendita, di prestazione d’opera, d’appalto...) “nell’interesse della famiglia”, degli obblighi, da tale contratto nascenti, rispondono, in prima battuta (art. 186), i beni in comunione, e, in seconda battuta (cioé se i beni della comunione non sono a ciò sufficienti), i beni personali, dell’altro coniuge, del signor Rossi nell’esempio fatto, sia pure solo “nella misura di metà del credito” (il prezzo era di tre mila? il terzo creditore, il Parodi del nostro esempio, potrà soddisfarsi sui beni del signor Rossi solo per 1500).

Disc. A me veramente pare che le giustificazioni portate dalla Giurisprudenza e dalla Dottrina non giustifichino un bel niente.Infatti, la tutela, dell’affidamento di Parodi nel fatto che la signora Parodi agisse anche in nome del marito, si giustificherebbe solo se questi con un suo comportamento (metti accompagnando e assistendo alle trattative della moglie col mobiliere) vi avesse dato causa: in tal caso, forse sì, si potrebbe parlare, se non di una solidarietà del marito nell’obbligazione assunta dalla moglie, di un suo obbligo risarcitorio.Per quel che riguarda poi la “giustificazione” portata dalla Dottrina, mi basta notare che, se il signor Rossi ha rifiutato il regime della comunione dei beni e ha optato per quello della separazione dei beni, é stato appunto per sottrarsi alle norme che disciplinano il primo: e allora perché gliele vogliamo applicare contro?!

Doc. La critica, che tu muovi alla Giurisprudenza é certamente pertinente. Quella, invece, che muovi alla Dottrina mi pare che non colga nel segno.Tanto per cominciare, non tiene presente che, le disposizioni di legge che ti ho richiamato, sono, sì, inserite nella sezione dedicata al regime della comunione legale, ma si applicano a favore dei terzi, a prescindere che essi credano o no, il coniuge (con cui hanno stipulato un contratto), in regime di comunione; di più, si applicano anche se il terzo, perfetto analfabeta nel mondo del diritto, nulla sa di regimi in comunione e di regimi in separazione dei beni. Questo non fa pensare che il legislatore ritenga meritevole di tutela l’interesse del terzo, del nostro bravo negoziante Parodi, non per il fatto che la signora Rossi é in regime di comunione col il signor Rossi, ma semplicemente perché ha un rapporto di coniugio col signor Rossi? Questo, non fa, cioé, pensare che gli articoli 186 e 190, ancorché inseriti nella sezione dedicata al regime della comunione, si applicano, a prescindere che la signora Rossi sia in tale regime o no? Io direi di si.

Disc. Va bene, questa tua osservazione può anche essere giusta, ma non basta a

superare, la fondamentale obiezione all’applicabilità degli articoli 186 e 190, data dal fatto che il Rossi, il marito della coniuge che ha fatto l’acquisto, se ha detto “sì” al regime di separazione dei beni e ha detto “no” al regime di comunione, é perché ha voluto rifiutare di sottomettersi con ciò alle norme che disciplinano questo secondo regime.

Doc. No, ha voluto rifiutare di sottomettersi a quelle, delle norme sulla comunione, che dispongono la comproprietà, (melius, la caduta in comunione) degli acquisti, ma non ha voluto rifiutare gli articoli 186, 190 – e ciò per la semplice ragione che non li poteva rifiutare, in quanto, questo é il punto, tali articoli, anche se inseriti nella normativa che riguarda il regime della comunione dei beni, esprimono un principio generale, come tale applicabile, nei rapporti tra i coniugi e i terzi, qualsiasi il regime da loro adottato. Tanto é vero che, torno a fartelo notare, tali norme si applicano tanto se il terzo sia a conoscenza del regime, che regola i rapporti patrimoniali del coniuge (che con lui contratta), tanto che non lo sia.

Disc. Qui fermiamoci, perché uno di noi due ha la testa troppo dura per...dare ragione all’altro.

Sezione quarta: La comunione legale.

Lezione IX: L’oggetto della comunione legale.

Doc. Dobbiamo ora trattare della comunione legale, regime che trova la sua disciplina nella sezione terza, artt. 177 e segg.E, per cominciare, parliamo dei beni che cadono in questo tipo di regime.

Disc. Cioé dei beni che i coniugi hanno in comunione.

Doc. No, e questo é un equivoco da chiarire subito: i beni in comunione legale (ai sensi degli artt. 177 e segg), sono cosa ben diversa dei beni in comunione ordinaria (ai sensi degli artt.1100 e segg). Certo, i coniugi ben possono avere beni in comunione (ai sensi degli artt. 1100 e segg.) e, addirittura, come possono avere beni personali accanto a dei beni in comunione legale (ti ricordi quel che noi si era detto in una precedente lezione?), così, accanto a dei beni in comunione legale, possono avere beni in comunione ordinaria (ai sensi degli artt. 1100 e segg.), però i primi vanno

tenuti ben distinti dai secondi, dato che, come vedremo, i poteri di amministrazione e di disposizione, e i poteri di esecuzione, che gli artt. 177 e segg. riconoscono rispettivamente ai coniugi e ai terzi creditori, sono diversi da quelli che loro riconoscono gli artt. 1100 e segg.. Insomma, il concetto di bene oggetto di una comunione ordinaria, é ben diverso da quello di bene oggetto di una comunione legale.

Disc. Ma, se così é, e se, come é inevitabile, nel prosieguo della trattazione ci dovremo porre la questione, se questo o quel bene sia “oggetto della comunione legale”, non sarebbe logico cominciare a dire quali poteri hanno i coniugi e i terzi creditori rispetto a un “bene oggetto di comunione legale”? Altrimenti rischiamo di trovarci nella stessa situazione di quel studente, che doveva dire se un dato fiore era o no una gardenia, quando ancora nessuno gli aveva spiegato che tipo di fiore é la gardenia

Doc. Seguire quest’ordine nella trattazione forse sarebbe logico; ma tale ordine noi non seguiremo perché, tutto sommato, valutati i pro e i contro, riteniamo più utile alla comprensione dell’argomento seguire l’ordine adottato dal Legislatore; il quale, appunto, prima, parla dei beni oggetto della comunione e, poi, dei poteri e diritti che su di essi hanno i coniugi e i terzi creditori. Del resto, ti sarà facile seguire i discorsi che farò, solo che tu temporaneamente tenga presente questa equazione: bene in comunione legale = a bene di cui un coniuge non ha quella libera disponibilità, che ha invece sui beni rientranti nel suo patrimonio personale.

Disc. Se così, cominciamo a dar lettura dell’articolo con cui si inizia la sezione, l’art. 177, che recita: “Costituiscono oggetto della comunione legale: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; b) i frutti dei beni.......

Doc. No, fermati alla lettera a) e al primo comma, dato che le altre lettere del primo comma e il secondo comma costituiscono solo delle deroghe o dei chiarimenti alla regola espressa nella disposizione contenuta nella lettera a).Disposizione che peraltro da sola già ci dice il limite e la ratio del regime che dobbiamo esaminareCominciamo a dire del “limite”: la comunione legale non ha per oggetto tutti i beni dei coniugi, ma solo i beni da loro acquistati dopo la costituzione della comunione stessa: se Caio e Caia, al momento della costituzione della comunione, avevano in

proprietà (o in usufrutto.. .insomma, per usare un termine non tecnico ma spero chiarificatore, “possedevano”) l’uno, il bene A, e, l’altra, il bene B, ebbene il bene A e il bene B continuano, anche dopo, a essere di loro esclusiva proprietà, non cadono in comunione; in questa verrebbe a cadere, invece, l’appartamento, metti, che Caio o Caia separatamente, oppure, Caio e Caia congiuntamente, acquistassero dopo la costituzione della comunione.

Disc. Ma non é illogico questo limite, questo limitare la comunione solo agli acquisti? Infatti, se veramente il matrimonio fosse una “comunione spirituale e materiale” tra i coniugi, come abbiamo visto lo vuole il Legislatore,sarebbe logico che i coniugi mettessero tutti i loro beni in comune.

Doc. Quel che tu ritieni logico, il Legislatore non l’ha ritenuto opportuno, per timore che le persone, trovando troppo pesante rinunciare alla proprietà di tutti i loro beni, rinunciassero tout court a quel regime di comunione legale, a cui altrimenti si sarebbero di buon grado sottomessi.

Disc. Bene, hai detto del “limite”, ora dì della ratio dell’istituto.

Doc. Come risulta dai lavori preparatori, la ratio, lo scopo dell’istituto (più in particolare, lo scopo di far cadere in comunione gli acquisti) é quello di tutelare il coniuge “debole”, che nella nostra società era, e sia pure in misura minore ancora é, la donna – la donna a cui la Società al momento del matrimonio, imponeva, e ancora sia pur in minor misura impone, di rinunciare a un impiego o alla professione, la donna che nella casa, nel negozio, nell’azienda del marito svolgeva, e ancora spesso svolge, un’attività silenziosa, ma preziosa, per permettere al marito quei guadagni di cui però rischia di non avere nessuna parte. No, questo non é giusto, ha ritenuto il Legislatore, e, con la normativa di cui ora ci dobbiamo occupare, ha voluto porre rimedio a tale ingiustizia, stabilendo che gli acquisti fatti durante il matrimonio (melius, durante la vigenza del regime di comunione), e quindi (presumibilmente) frutto della paritaria collaborazione dei due coniugi, spettino al cinquanta per cento a ciascuno di essi.

Disc. Ed effettivamente non sarebbe per nulla giusto che non avesse la metà dei guadagni il coniuge che non ha svolto, sì, direttamente l’attività fonte di lucro, ma indirettamente l’ha resa al 50% possibile (la moglie che prepara al marito il pasto buono e caldo che gli darà le forze di vincere le sue battaglie nell’arengo economico).

Questo, però, se il successo dell’attività lucrativa, fosse effettivamente dovuto al cinquanta per cento alla collaborazione del coniuge “debole”; il che non può certo sempre dirsi: Berlusca é un “genio degli affari” e ha accumulato una ricchezza: perché metà di questa dovrebbe spettare alla moglie che, mentre lui sgobbava e rischiava, passava il tempo a giocare a canasta?!

Doc. Quel che dici può essere giusto; ma in subiecta materia vale più che mai il brocardo adducere inconvenientem non est argumentum: l’applicazione di ogni legge può in certi casi rivelarsi ingiusta, ma ciò non autorizza il giudice a non applicarla.

Disc. Però, potrebbe essere la stessa legge ad autorizzare il giudice a una intelligente deroga nei casi in cui ciò corrisponde a giustizia.

Doc. Come si può pensare di gravare i nostri Tribunali – che già rischiano di cadere sotto il peso di un carico giudiziario opprimente – dell’ulteriore incombente di accertare se Caia ha dato, o no, una collaborazione valida e quanto valida al marito?Ciò non si può neanche pensare!D’altra parte, il fatto stesso che i coniugi accettino che i loro rapporti patrimoniali siano regolati da un regime che contempla la caduta in comunione degli acquisti (e di conseguenza, come vedremo meglio in seguito, la divisione a metà degli acquisti all’estinguersi di tale regime), non é già una prova che essi ritengono che, l’efficacia della loro collaborazione nella produzione di tali acquisti, sia paritaria? e chi, di loro, miglior giudice?

Disc. Se tale é la ratio dell’istituto, se, cioé, il legislatore intende far cadere in comunione i beni, che presumibilmente sono frutto della collaborazione dei coniugi, penso che si debba concludere che cadono in comunione tutti gli acquisti avvenuti dopo la costituzione della comunione stessa (rimanendo così esclusi dalla comunione solo quei beni che i coniugi, al momento di tale costituzione, già possedevano).

Doc. In realtà non é così: il legislatore esclude dalla comunione (dalla comunione tout court o dalla così detta comunione immediata – concetto che poi ti chiarirò)anche beni che, a rigore, dovrebbero presumersi frutto della collaborazione dei coniugi.

Disc.Che cos’é che giustifica per il Legislatore questa deroga alla regola da lui enunciata nell’articolo 177?

Doc. La necessità di non mortificare l’iniziativa economica dei coniugi e di non comprimere la loro personalità.Pertanto, se volessimo racchiudere in una formula, un criterio per stabilire quando un bene va fatto rientrare nella comunione legale, potremmo dire che:“Un bene va fatto rientrare nella comunione legale, quando:A) rappresenta una nuova ricchezza e una nuova ricchezza prodottasi dopo la costituzione della comunione;B) é frutto di una attività lavorativa, sia pure inteso quest’ultimo termine in senso lato;C) la sua destinazione alla comunione non viene a mortificare l’iniziativa economica del coniuge (alla cui attività va direttamente dovuta la sua acquisizione); D) la sua destinazione alla comunione non viene a comprimere la personalità del coniuge (che lo detiene)”.

Disc. Ti confesso che la formula da te proposta mi risulta un po’ vaga, ma spero che assumerà concretezza nel commento delle varie disposizioni di legge.Cominciamo quindi dalla lettera a) art. 177, che ho già letta: che puoi aggiungere a suo commento?

Doc. Prima di tutto devo segnalare un lapsus in cui il Legislatore é caduto: là dove é scritto “acquisti compiuti........ durante il matrimonio”, deve leggersi “acquisti compiuti....durante la vigenza del regime di comunione legale”. E infatti, se Caio e Caia: il primo gennaio 2005 si sposano, adottando il regime di separazione dei beni; nel 2006 acquistano un appartamento; e nel 2007 optano per il regime di comunione legale, non é che l’appartamento acquistato nel 2006 cade in comunione: ciò é pacifico, come é pacifico che il Legislatore sia caduto in un lapsus.

Disc. E la esclusione (dalla comunione) dei “beni personali” come si spiega?

Doc. Secondo alcuni, con una precisazione alla....lapalisse, che il Legislatore non si é potuto trattenere dal fare: insomma il legislatore avrebbe sentito il bisogno di chiarire che “sono esclusi dalla comunione, i beni che già Egli nell’articolo 179.....esclude dalla comunione”.Però, l’interpretazione, che porta ad attribuire al Legislatore un’assurdità, va accettata solo come extrema ratio, cioé quando non sia possibile altra interpretazione; che nel caso é invece ben possibile: e infatti si può interpretare l’esclusione voluta dal Legislatore come riferita a quelle “addizioni” (nel senso dell’articolo 1593) o

“accessioni” (nel senso degli artt. 934 e segg), che un coniuge potrebbe fare sui suoi “beni personali”: pensa a Caio che nella casa, che già possedeva al momento della costituzione della comunione, innalza un altro piano o costruisce una veranda o più semplicemente installa un idromassaggio.

Disc. Come si giustificherebbe questa deroga?

Doc. Si giustificherebbe con la difficoltà che si avrebbe, quando la comunione fosse sciolta e si dovesse procedere alla divisione dei beni, ad operare la divisione rispetto alla “addizione” o “accessione” (certo il piano innalzato da Caio non lo si può attribuire altro che a Caio, ma come determinarne il valore? questa é cosa per nulla facile e che comunque rappresenta una complicazione, che il Legislatore vorrebbe, secondo l’interpretazione proposta, evitare).Detto questo, é opportuno, per ragioni di più sistematica esposizione della materia, per ora saltare la restante parte dell’articolo 177, e dare lettura della lettera a) dell’articolo 179 (articolo che porta la significativa rubrica di “Beni personali”).

Disc. Leggo: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di altro diritto reale di godimento”.

Doc. La categoria di beni personali prevista dalla disposizione ora letta é certamentela più ovvia: data la ratio dell’istituto della comunione, é ovvio che da questa vengano esclusi i beni, che già risultavano acquisiti nel patrimonio di un coniuge “prima del matrimonio” (rectius, prima della costituzione della comunione stessa): infatti, certamente tali beni non sono dovuti alla collaborazione dell’altro coniuge.Se mai, risulta incomprensibile perché il legislatore limiti tale esclusione ai solo diritti reali e per di più ai soli diritti reali di godimento. Perché mai Caio dovrebbe trovare ostica la cosa di essere privato della proprietà personale su quell’appartamento di via Roma che ha il valore di solo 100, tanto ostica da fargli rifiutare il regime della comunione legale (non si dimentichi che é proprio il timore, che un coniuge rinunci tout court all’adesione al regime della comunione, a spingere il Legislatore a limitare i beni da far cadere in questa!), e senza batter ciglio dovrebbe invece aderire al regime della comunione, anche se l’aderirvi comporta la caduta in comunione di quel suo credito (metti del credito che vanta verso il Banco di Roma, per un conto corrente accesovi) che ha il valore di ben duecento? Tutto ciò é incomprensibile, tanto incomprensibile da imporre una interpretazione restrittiva

della norma.

Disc. Chiarito questo, passiamo alla lettura della lettera b) sempre dell’articolo 179: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio, per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non é specificato che essi sono attribuiti alla comunione”.

Doc. Chiaro perché il Legislatore non fa rientrare nella comunione tali beni: se lo zio Beppe ha lasciato in eredità a Caio il bel appartamento di via Veneto, certo questo é “nuova ricchezza” che si aggiunge al patrimonio di Caio, ma é anche certo che tale “nuova ricchezza” non può essere attribuita alla attività (lavorativa!) di Caio - attività lavorativa resa possibile dalla collaborazione di Caia.

Disc. Ma Caia avrebbe potuto contribuire, a convincere lo zio Beppe a lasciare l’appartamento, rendendosi a lui simpatica.Doc. Certamente, sì; ma ciò non rileverebbe per il Legislatore, che prende in considerazione la collaborazione dell’altro coniuge (per intenderci, del “coniuge debole”), solo in quanto questa collaborazione si esprime in una attività lavorativa: insomma in mente Legislatoris c’é, a spingerlo a ritenere giusta la comunione degli acquisti, non l’immagine di Caia, che, con delle coccole, ridà nuove energie al marito, ma l’immagine di Caia, che piega la schiena per lavare il pavimento e farlo trovare pulito al marito.

Disc. Comunque, se lo zio Beppe avesse lasciato il suo appartamento sia a Caio che a Caia, l’appartamento sarebbe caduto nella comunione legale.

Doc. Per nulla: esso sarebbe caduto solo nella comunione ordinaria di Caio e Caia: perché entrasse nella comunione legale, sarebbe occorso che lo zio Beppe “specificasse”, nella scheda testamentaria, la sua precisa intenzione che il bene cadesse in comunione legale.A questo punto, salta per il momento le lettere c) e d) e passa a leggere, prima, la lettera e) e poi la lettera f). Il motivo di ciò te lo chiarirò dopo.

Disc. Leggo la lettera e): “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali: e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa”.

Doc. Se Caio riceve 100 da Sempronio, a titolo di risarcimento del danno da questi causatogli, metti, incendiandogli la casa, é chiaro che tale somma non aumenta per nulla il patrimonio di Caio, non costituisce per lui “nuova ricchezza”, ma solo una reintegrazione della “vecchia ricchezza”.Questo ragionamento che fila bene per il risarcimento alle cose, diventa invece zoppicante quando é riferito al risarcimento alla persona per la perdita della sua capacità lavorativa.

Disc. Perchè?

Doc. Perché quei 100 che Caio riceve, metti, nel 2005, a titolo di risarcimento della sua capacità lavorativa, in realtà rappresentano la capitalizzazione di quel reddito lavorativo di 10 che avrebbe potuto procurarsi nel 2006, di quel redditto ancora di 10 che avrebbe potuto procurarsi nel 2007 e così via. Ora “i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge”, come vedremo commentando la lettera c) dell’articolo 177, anche se non cadono subito in comunione, vi cadono quando questa si scioglie,cioé per usare una terminologia tecnica, non cadono in “comunione immediata”, ma pur sempre cadono in “comunione de residuo”.

Disc. Quindi ci si sarebbe dovuti aspettare che il Legislatore facesse cadere tale risarcimento, non nel patrimonio personale di un coniuge, ma nella “comunione de residuo”: perché non lo fa?Doc. Probabilmente per evitare la complicazione dei calcoli a cui ciò darebbe luogo: rifacciamoci all’esempio prima fatto: Caio, avuto nel 2005 un risarcimento di 100, mette questi 100 in banca e, dopo due anni, nel 2008, la comunione si scioglie (metti, perché Caio si é separato da Caia): certamente non sarebbe giusto che egli versasse tutti i 100: infatti, come egli non deve versare i guadagni che farà in futuro (dopo lo scioglimento della comunione: cioé, nel 2008, nel 2009..), così non é giusto che versi quella parte dei “100”, che rappresentano i suoi guadagni futuri: ma quale parte del risarcimento, da lui ottenuto nel 2005, rappresenta effettivamente i guadagni post-2007? Questo può essere difficile determinarlo, ed é probabilmente proprio la considerazione di tale difficoltà, che ha portato il Legislatore a non far rientrare nella “comunione de residuo”, le somme avute a titolo di risarcimento della perdita della capacità lavorativa.Sed de hoc satis: passa a leggere la lettera f).

Disc. Lettera f) dell’articolo 179: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge. f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”.

Doc. Chiaro che, se Caio vende il bene personale A, che vale 100, e con il ricavato acquista il bene B, che vale ancora 100, egli non fa altro che sostituire nel suo patrimonio il bene B al bene A; e l’acquisto del primo, quindi, non rappresenta una “ricchezza nuova”, che si aggiunge alla “vecchia”, e che, pertanto, vada fatta cadere in comunione.

Disc. Ma se Caio riesce a “scambiare” il bene personale A, che, al momento della costituzione del regime della comunione, valeva 100, con il bene B, che vale 200 (questo o perché il bene personale A col passare degli anni ha raddoppiato il suo valore o perchè l’abilità di Caio é riuscita a convincere la controparte a...scambiare il suo bene con un altro che ne vale la metà)? in tal caso, la “nuova ricchezza” (la nuova ricchezza rappresentata dal plus-valore di B rispetto ad A, quindi nell’esempio = a 200 – 100), che indiscutibilmente l’acquisto di B arreca al patrimonio di Caio, va fatta cadere in comunione?

Doc. La risposta che viene dalla lettera della norma é, no; e tale risposta é ben giustificata: in primo luogo, dalla difficoltà di provare il disvalore tra A e B; in secondo luogo, dalla considerazione che, pur se vi fosse l’acquisizione di un plus-valore, questa acquisizione non potrebbe dirsi dovuta ad un’attività lavorativa di Caio, che la collaborazione di Caia avrebbe resa possibile. (Diversa sarebbe la soluzione nell’ipotesi – ma non é l’ipotesi che il Legislatore fa nella norma che abbiamo in esame – che Caio, di professione facesse l’agente immobiliare e la sua attività lavorativa proprio consistesse nell’acquistare immobili, tenerli un po’, e, poi, rivenderli a maggior prezzo).

Disc. Caio ha acquistato il bene B con il prezzo della vendita di A, però, al momento dell’acquisto, ha omesso di dichiarare, che i soldi, per questo acquisto, gli venivano dalla vendita di A: in tal caso il bene B cade in comunione (e questo senza dar la possibilità a Caio, ripresosi dal lapsus o dalla distrazione, di fare, metti il giorno dopo, quella semplicissima dichiarazione che impedirebbe la, da lui non voluta, caduta di B nella comunione): perché mai?!

Doc. Perché vi é un’esigenza di certezza dei terzi, che il Legislatore non può esimersi dal soddisfare; e immediatamente, perché, già subito dopo l’acquisto di B, possono esservi creditori della comunione, che hanno necessità di sapere, se B rientra in questa, per decidere se possono soddisfarsi, o no, su B; già vi possono esserci potenziali acquirenti da Caio, che hanno necessità di sapere se B é, o no, un suo bene personale, per decidere se possono acquistarlo con il suo solo consenso (o se invece occorre loro ottenere anche il consenso di Caia). E questa esigenza di certezza il legislatore ritiene giusto di soddisfarla costruendo la presunzione (che peraltro é tutt’altro che infondata), che Caio abbia omesso di dichiarare, che il bene é stato da lui acquistato con il prezzo del trasferimento ecc.ecc., per la semplice ragione che voleva, al momento del suo acquisto (irrilevanti essendo suoi successivi revirements volitivi), che tale bene cadesse in comunione.

Disc. Un’ultima domanda: se Caio vende un suo bene personale A, però non impiega la somma così ricavata per l’acquisto di un altro bene B, ma, metti, la deposita in banca, questa somma cade in comunione?

Doc. No, essa resta sua personale; ciò si argomenta facilmente dal fatto, che, se, in un domani, Caio impiega tale somma nell’acquisto di un bene B, questo é considerato un suo bene personale. E, bada bene, poco importa che, tra il momento in cui Caio vende A e realizza quindi la somma e il momento in cui la impiega per l’acquisto di B, passino anche molti anni. La norma da noi ora commentata non pone limiti di tempo al nuovo acquisto, ma semplicemente recita “sono beni personali....i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento eccetera”. Certamente, più passa il tempo più potrà essere difficile per Caio la prova che il bene B é stato acquistato proprio con la somma realizzata con la vendita del bene A - ma questa é un’altra questione, che ci riserviamo di affrontare parlando dell’ultimo comma dell’articolo 179 in esame.Con questa osservazione abbiamo esaurito l’esame dei casi in cui il Legislatore esclude un bene dalla comunione, per la considerazione che esso non rappresenta “nuova ricchezza acquisita con la (presumibile) collaborazione dell’altro coniuge”.Dobbiamo ora passare all’esame dei casi in cui il Legislatore esclude un bene dalla comunione, nonostante sia lecita la presunzione che esso sia stato acquisito grazie alla collaborazione dell’altro coniuge.Cominciamo dalla lettura della lettera c) dell’articolo 179.

Disc. Leggo: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: e) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro

accessori”.

Doc. Questa eccezione alla regola, che gli acquisti rientrano nell’oggetto della comunione, é giustificata da un’esigenza di tutela della personalità dei coniugi: l’equilibrio psicologico di Caio ne soffrirebbe, se egli non potesse contare, che, di certi beni, che gli sono particolarmente cari (la “sua” collezione di francobolli, il “suo” computer, la “sua” auto”....), egli solo può disporre; e come lo può ora, lo potrà anche domani, qualora la comunione si sciogliesse (ecco, perché i “beni strettamente personali”, non sono - come vedremo é invece per altri beni, quelli cadenti nella c.d. “comunione de residuo” - esclusi, sì, dalla comunione legale, ma per poi, al suo cessare, cadere nella comunione ordinaria con l’altro coniuge: il Legislatore parte dalla considerazione, che, la tutela della personalità di un individuo, richiede che gli si dia la sicurezza, che di certi beni egli, ed egli solo, potrà disporre, per sempre, anche dopo lo scioglimento della comunione).

Disc. Ma in base a che criterio si individuano i “beni strettamente personali”?

Doc. Questo é il punctum dolens: non é facile trovare tale criterio. Certo, non si potrebbero definire tali beni come quelli su cui il coniuge esercita un potere esclusivo di disposizione, per la semplice ragione che questo potere di fatto potrebbe essere il risultato di una prepotenza, che il Diritto non potrebbe convalidare: Rossi, padre-padrone, dice “L’auto comprata é mia e guai a chi la tocca”: gli altri familiari chinano la testa e marciano a piedi e Rossi viene ad avere l’uso esclusivo dell’auto. Sarebbe questa una buona ragione per riconoscergliene la proprietà e la proprietà esclusiva? Chiaro che no.Non resta allora che adottare, non essendocene altri migliori, il seguente criterio: un bene va considerato “strettamente personale” di un coniuge quando concorrono i due seguenti fattori: a)l’uso di fatto in maniera esclusiva di quel bene da parte del coniuge; b) la conformità al costume sociale di questo uso esclusivo. Di conseguenza, per rifarci all’esempio prima introdotto, non potrà considerarsi l’auto bene strettamente personale del padre-padrone Rossi, perchè l’uso esclusivo che Rossi ne fa, costringendo tutti gli altri membri della famiglia ad andare a piedi, contrasta con il costume sociale (o, se più piace, con la morale familiare); mentre potrà considerarsi l’auto bene strettamente personale di Bianchi, perché egli, ne usa, sì, esclusivamente, ma in quanto la moglie ha un’altra auto con cui a suo piacimento può scarrozzarsi.

Disc. Può essere considerato di uso “strettamente personale” anche un bene

immobile?

Doc. Sì, e questa risposta positiva si argomenta facilmente dal secondo comma dello stesso articolo 179, che stiamo ora esaminando. Naturalmente non é facile che ciò avvenga; e tuttavia può avvenire, specie nelle famiglie molto danarose: Paperon dei Paperoni si riserva l’uso esclusivo di un appartamentino a Parigi e la di lui consorte si riserva l’esclusiva disponibilità di un appartamentino a Londra.

Disc. Rileva quale dei due coniugi ha acquistato il bene in “uso personale”? Per rifarci agli esempi prima fatti: l’auto del Bianchi, l’appartamentino di Paperon dei Paperoni si potranno considerare loro beni personali, anche se acquistati dalle loro consorti?

Doc. Io ritengo, che, la considerazione che i beni personali continuano a essere considerati tali anche dopo lo scioglimento della comunione (Bianchi, separatosi dalla moglie, scioltasi la comunione, può portarsi via l’auto), imponga di aggiungere, ai due elementi da me già indicati come necessari per poter affermare la “personalità” di un bene, anche quello dell’acquisto del bene da parte del coniuge che ne fa esclusivo uso.Questo, che abbiamo ora esaminato, é l’unico caso di deroga, alla regola della caduta in comunione degli acquisti, motivata dalla tutela della personalità dei coniugi. Ben più numerosi sono i casi, di deroga a tale regola, motivati dalla tutela della iniziativa economica dei coniugi.Per cercare di spiegare come in mente legislatoris si giustifichino tali secondi casi di deroga, cominciamo con l’osservare come, la caduta in comunione degli acquisti, rappresenti sempre, in sé e per sé, un grave vulnus al potere di iniziativa economica dei coniugi; dato che la gestione dei beni in comunione rende, come vedremo, necessario per un coniuge il consenso dell’altro, e, indubbiamente, la subordinazione al consenso altrui, é la perfetta antitesi della situazione, che occorre perchè la iniziativa di una persona si sviluppi e si senta incoraggiata. Quindi, il legislatore cerca, appena che ciò diventa compatibile con gli scopi al cui raggiungimento l’istituto della comunione é funzionale, di limitare il danno conseguente a questo vulnus (danno non solo per i coniugi, ma per la società tutta, che ha bisogno che l’iniziativa dei suoi membri si esplichi al massimo!); e lo fa creando degli “spazi”, delle “sfere” in cui l’iniziativa dei coniugi si può esplicare liberamente.

Disc. Vediamo dunque le disposizioni che aprono tali “spazi”.

Doc. La prima te la dà la lettera b) dell’articolo 177.

Disc. Lettera b) dell’articolo 177: “Costituiscono oggetto della comunione: b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione”.Letta al contrario questa disposizione, se non sbaglio, significa: tu, coniuge, puoi, fino al momento dello scioglimento della comunione, percepire e gestire liberamente i frutti dei beni, che sono in tua proprietà (o in quanto erano già in tua proprietà al momento della costituzione della comunione o in quanto sono diventati di tua proprietà durante la comunione, ad esempio perché ereditati): solo al momento dello scioglimento della comunione dovrai versare in questa i frutti che, da te percepiti, non sono stati consumati”.

Doc. Bravissimo:dieci e lode.

Disc. Ma che senso ha versare dei beni nella comunione al momento in cui questa si scioglie?

Doc. Effettivamente non ha nessun senso: si tratta di una fictio legislativa, che in realtà ha lo scopo di far cadere tali beni nella comunione ordinaria, che si viene a costituire sui beni, prima rientranti nella comunione legale, al momento del suo scioglimento. Lo vedremo meglio quando studieremo gli artt. 191 e segg.Quel che importa qui dire é, che i beni che restano, sì, nella disponibilità di un coniuge durante la comunione, ma che, per quanto ne residua al momento dello scioglimento di questa, in questa vanno versati, si dicono, con terminologia non saprei dire quanto felice e necessaria, costituire la “comunione de residuo” (mentre al contrario tutti gli altri acquisti cadono in “comunione immediata”). Quanto ora detto, vale sia per i beni contemplati dalla lettera b), che é ora oggetto del nostro esame, sia dalla lettera c), che prenderemo ad esaminare tra poco.

Disc. Ma torniamo ad occuparci esclusivamente del disposto della lettera b): d’accordo, il Legislatore concede a Caio di poter disporre, senza il consenso di Caia, dei frutti dei suoi beni personali, per tutelare la sua libertà di iniziativa: ma perché il Legislatore non sente eguale bisogno di tutelare la iniziativa di Caio, rispetto al bene B, che, da lui acquistato, é caduto in comunione?

Doc. Perché, subordinare l’attività di gestione di Caio al consenso di Caia, non può portare, nel caso del bene comune B, gravi inconvenienti (dato che in tal caso anche Caia ha interesse che questa gestione ci sia e che sia una buona gestione: forse che, allo scioglimento della comunione, il bene B non le spetterà al 50 per cento?), mentre li potrebbe portare nel caso del bene personale A, dato che Caia, alla sua buona gestione, non é in fondo interessata (“Non si fanno le riparazioni al tetto di A, la casa minaccia di crollare? e a me, Caia, che importa? la casa A non é mica mia, é di Caio: pertanto i diecimila euro, che si sono ricavati come frutto della sua locazione, investiamoli nella riparazione di B, bene in comunione, e non di A”).

Disc. Ho capito, il Legislatore dà a Caio la possibilità di disporre liberamente dei frutti, ben s’intende sia dei frutti naturali che civili, che dà il suo bene personale A, perché egli li possa impiegare al meglio in atti conservativi di A.Ma Caio potrebbe impiegare tali frutti, non solo per atti conservativi, ma anche migliorativi di A: metti, per sopraelevarlo di un piano, per ristrutturarlo, per dotarlo di un idromassaggio?

Doc. Se ti ricordi, a questa domanda abbiamo già risposto positivamente commentando la lettera a) (in quel che dispone nella sua ultima parte), per cui non mi resta che rinviarti a tale commento. Qui voglio però sottolineare che, con il disposto di tale lettera a), il Legislatore, non solo deroga alla regola, contenuta nella prima parte della stessa lettera a), che gli “acquisti” cadono in “comunione immediata”, ma anche deroga alla regola, contenuta nella lettera c), che stiamo ora esaminando, secondo cui il “residuo” della gestione dei frutti (residuo che, negli esempi da te fatti, sarebbe dato dalle addizioni e migliorie da Caio eseguite) cade in comunione (“comunione de residuo”).

Disc. Ma potrebbe Caio impiegare i frutti (i soldi ricavati dall’affitto del bene A o, ciò che é lo stesso, i soldi ricavati dalla vendita dei frutti naturali – le mele, le pere, l’uva...- che A ha prodotto), non per la conservazione o miglioramento di A, ma per altri scopi: metti per farsi un viaggio a Honolulu?

Doc. Certamente, così facendo, tradirebbe le ragioni per cui il Legislatore gli ha dato la piena disponibilità dei frutti, dato che tali “ragioni” vorrebbero, che egli o impiegasse tali frutti per la gestione dei beni, che sono in sua personale proprietà, o li versasse nella comunione. E’ problematico però (ed é un problema che si ripresenta anche a proposito dei beni “provento della attività separata” dei coniugi, beni di cui

tra breve parleremo) se l’altro coniuge, Caia, abbia la possibilità di impedire gli abusi di Caio. Su tale possibilità – che é soprattutto possibilità di controllare la gestione di Caio – abbiamo già speso qualche riflessione parlando dell’obbligo di contribuzione (di cui all’art. 143), e, a quanto abbiamo detto in tale sede, rinviamo.

Disc. E se Caio utilizzasse tali frutti (metti, nel tempo da lui accumulati) per acquistare un bene B?

Doc. In tal caso un eventuale “tradimento” (delle “ragioni” legislative che sottendono alla lettera b) non avrebbe modo di realizzarsi: che questa fosse o non fosse l’intenzione di Caio, il bene B cadrebbe automaticamente in comunione.

Disc.. Il Legislatore esclude dalla “comunione de residuo” i frutti percipiendi; e ciò significa che i grappoli d’uva, le mele, le pesche che pendono ancora dagli alberi (o gli “affitti” che debbono ancor essere incassati...) al momento dello scioglimento della comunione (metti, in seguito a una separazione o a un “divorzio”), rimangono in proprietà del coniuge che, del bene che li ha prodotti, é proprietario, di Caio, nei nostri esempi: perché il legislatore dispone in tal senso? forse perché ritiene ingiusto che l’altro coniuge, Caia, si avvantaggi di frutti alla cui raccolta non collaborerà?

Doc. Non credo che sia per questo (dato che Caia, se anche non collaborerà nella raccolta delle mele, ha pur sempre collaborato nell’accudire al melo che le haprodotte); penso piuttosto che il legislatore, escluda la caduta in comunione dei frutti percipiendi, per evitare la complicazione del calcolare quanta parte fare cadere in comunione di questi frutti (ché, chiaramente, farli cadere totalmente in comunione non sarebbe giusto, dato che pur sempre é vero che la loro raccolta peserà per spese e per fatica solo su Caio).Detto questo, passiamo all’esame del disposto della lettera c) sempre dell’articolo 177.

Disc. La lettera c) recita: ““Costituiscono oggetto della comunione: c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati”.Quindi letta al contrario, questa disposizione é come se dicesse al protagonista dei nostri esempi, a Caio: “Tranquillo, Caio, i proventi del tuo lavoro - ch’esso consista nello dar di vanga o nel sudar sui libri o in qualsiasi altra attività – non li dovrai versare nella cassa che hai in comune con la tua coniuge Caia, ma ne potrai disporre

liberamente: solo quel che ne residuerà al momento dello scioglimento della comunione, dovrai in questa versare”. Ho detto bene?

Doc. Hai detto benissimo. E tanto sei bravo, che quasi non val la pena di ricordarTi che, con tale disposizione, il Legislatore mira a tutelare l’iniziativa economica in uno “spazio”, in cui é bene questa si esplichi con la massima libertà: lo spazio che ciascun coniuge riserva al suo lavoro: Caio I, che fa il dentista, Caio II, che fa l’agente immobiliare, perderebbero ogni incentivo alla loro attività, se, per disporre dei soldi guadagnati con questa (comprando, metti, il primo, un trapano e, il secondo, quel tal immobile) dovessero ottenere il consenso del coniuge.

Disc. Ma vale anche per il disposto della lettera c), quel che abbiamo concluso in sede di interpretazione del disposto della lettera b)? voglio dire - come un bene B, acquistato da un coniuge con i frutti che danno i suoi beni personali, cade in comunione - anche un bene B, acquistato dal coniuge con i proventi della sua attività, cade in comunione?

Doc. Bisogna distinguere: vedere se il bene, metti quello appartamento (o quel titolo azionario...) costituisce un investimento definitivo (l’avvocato, messi l’uno sull’altro duecentomila euro, li investe in un appartamento) oppure rappresenta solo la tappa, diciamo così, di un’operazione economica che deve proseguire (l’agente immobiliare che compra l’appartamento per rivenderlo): nel primo caso, il bene cade in comunione, nel secondo, no; ed é evidente perché, “no”: perché, il “congelare”, diciamo così, quell’appartamento facendolo cadere nella comunione, stopperebbe l’operazione economica intrapresa (nell’esempio,dall’agente immobiliare).

Disc. E se Caio, i soldi guadagnati, non li utilizzasse per acquistare un bene, ma li depositasse in banca?

Doc. Anche qui occorrerebbe vedere, se i soldi sono solo parcheggiati temporaneamente nel conto in banca per riservarsene l’utilizzo futuro per la propria attività, oppure no: solo nel secondo caso cadrebbero in comunione.

Disc. Sarà ben difficile entrare nel cervello di Caio per vedere quali erano le sue intenzioni nel fare il deposito in banca.

Doc. Tanto difficile, che in pratica si può escludere che, i soldi depositati in banca da

Caio, cadano in comunione.

Disc. Che dire, se Caio investisse i soldi (“provento della sua attività separata”) nell’acquisto dei beni necessari per formare, strutturare un’azienda, ad esempio, per comprare, i macchinari, il capannone, i materiali necessari per far funzionare una fabbrica di vestiti?

Doc. Questo sarebbe senz’altro uno dei casi in cui l’acquisto dei beni non può considerarsi la parte finale, bensì solo la tappa di un’operazione economica, che, nelle intenzioni del coniuge acquirente, deve proseguire e svilupparsi (é chiaro che Caio compra i macchinari ecc., non per lasciarli inutilizzati, ma per servirsene per l’esercizio di un’attività imprenditoriale): quindi, sarebbe da escludere che tali beni cadano in “comunione immediata”, e sarebbe da ritenere che Caio ne possa disporre liberamente (beninteso, con l’obbligo di versare nella comunione, quel che ne resta al momento dello scioglimento di questa: cioé tali beni andrebbero considerati, in comunione, sì, ma solo in “comunione de residuo).Questa conclusione, a cui già si giunge in sede di interpretazione della lettera c) dell’articolo 177, trova conferma chiara ed esplicita nell’articolo 178, che ti prego di leggere.

Disc. Art. 178: “I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.

Doc. Come vedi, il legislatore si riferisce a casi omologhi a quello da te ipotizzato: il caso di un coniuge che, per esercitare un’impresa (metti l’impresa di fabbricazione di vestiti) acquista “dopo il matrimonio” i beni a ciò necessari (“i beni destinati all’esercizio di tale impresa”, di cui parla la norma); il caso di un coniuge che, esercitando un’impresa, da lui già iniziata prima del matrimonio, dopo il matrimonio la “incrementa” (aumentando i beni destinati al suo esercizio, ad esempio comprando nuovi e più moderni macchinari, o semplicemente aumentandone, con la sua buona gestione, il c.d. “avviamento”); ebbene quale sorte riserva il Legislatore ai beni così acquistati? Quella di cadere, non in “comunione immediata”, ma solo in “comunione de residuo”. Recita infatti l’articolo: i beni destinati all’esercizio dell’impresa ecc.....e egli incrementi dell’impresa ecc....si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”. Come vedi, la soluzione

adottata dal Legislatore, si sovrappone alla conclusione a cui noi eravamo giunti, in sede di interpretazione della lettera c) dell’articolo 177. Ciò significa in pratica che Caio, il quale ha acquistato dei beni per intraprendere un’attività imprenditoriale, potrà disporne (vendendoli, dandoli in locazione ad altri ….) con assoluta sua discrezione, senza dover chiedere il consenso di Caia; solo al momento dello scioglimento della comunione, perderà tale piena disponibilità dei beni e dovrà, in questa, conferirli (melius, dovrà conferire, nella comunione, l’azienda che, come tu sai, costituisce un quid pluris rispetto alla somma dei beni che la costituiscono).

Disc. E se alcuni di tali beni fossero andati distrutti o fossero stati venduti?

Doc. Ovvio, in tal caso dovrà conferire i beni o il prezzo residuo.

Disc. Ma, se ho ben capito, ciò in pratica verrebbe a significare la divisone di tali beni, con Caia; il che vale a dire, la disintegrazione della azienda da lui, forse con passione e genialità, costruita: un disastro per il nostro Caio.

Doc. Eh, sì, la soluzione adottata dal Legislatore é severa per il coniuge-imprenditore; e val la pena di anticipare che non é altrettanto severa verso il coniuge-professionista: questi, come vedremo commentando la lettera c) dell’articolo 179, allo scioglimento della comunione, non perde la piena disponibilità dei beni (armadi, computers...) da lui acquistati per lo svolgimento della sua professione (in quanto di tali beni l’articolo 179 gli riconosce la “proprietà personale”).

Disc. Penso che il povero Caio dovrà versare in “comunione de residuo” (cioé, in pratica, dividere con Caia) anche i guadagni da lui conseguiti con l’esercizio dell’attività imprenditoriale.

Doc. Certamente; ma questo, non per l’articolo 178, ma per la lettera c) dell’articolo 177.

Disc. Tutto ciò sarebbe ancora accettabile, nel caso che, come nell’esempio da me inizialmente fatto, i “beni destinati all’impresa” fossero acquistati col “provento dell’attività separata” di Caio; ma in realtà l’articolo 178 fa di ogni erba un fascio e non distingue questo caso da quello, che meriterebbe una soluzione ben diversa, di Caio che acquista i beni con soldi di sua personale proprietà (metti, soldi che aveva in banca prima di sposarsi).

Doc. In effetti ciò é inammissibile, perché illogico: che logica c’é che Caio, se acquista, con i soldi che aveva prima del matrimonio, l’immobile A, ne divenga esclusivo proprietario (idest, l’immobile non cada in comunione) e, se acquista, sempre con soldi che aveva prima del matrimonio, macchinari per la sua azienda, questi cadano invece in comunione, sia pure de residuo?! Pertanto, io ritengo che sul punto l’articolo 178 vada assoggettato ad un’interpretazione restrittiva, nel senso di escludere la caduta in comunione dell’azienda o degli “incrementi” acquistati con soldi, che sicuramente il coniuge aveva prima del matrimonio (in tale conclusione confortato da un argomento tratto dall’ultimo comma dell’articolo 177, al cui prossimo commento debbo rinviare).

Disc. Che dire nel caso di Caio e Caia, che cogestiscono insieme un’impresa?

Doc. Questo lo vedremo commentando la lettera d) e l’ultimo comma dell’articolo 177.Cominciamo con la lettura della lettera d).

Disc. Leggo la lettera d) dell’articolo 177: “Costituiscono oggetto della comunione: d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.”

Doc. Mettiamo che Caio e Caia “dopo il matrimonio” (melius, dopo la costituzione del regime di comunione legale), decidano di gestire insieme un’impresa edile; ebbene, se i beni utili all’esercizio di tale impresa sono stati acquistati (non importa se da Caio o da Caia o da Caio e Caia insieme) “dopo il matrimonio”, tali beni cadono in comunione. Si badi, non in “comunione de residuo”, com’é nella previsione dell’articolo 178 or ora commentato, ma in “comunione immediata”.Del resto ciò é logico: il procrastinare, la caduta di certi beni in comunione, al momento dello scioglimento di questa, serve per permettere a un coniuge di disporre liberamente di tali beni senza dover sottomettersi al consenso dell’altro; quindi diventerebbe un vero non-senso nel caso di Caio e Caia, che, accettando di cogestire l’impresa, con ciò dimostrano di accettare di buon grado di sottomettere le loro iniziative al reciproco consenso.

Disc. E se Caio, solo soletto, dopo il matrimonio, inizia, acquistando i beni a ciò utili, un’attività imprenditoriale e, dopo qualche tempo, prende a cogestirla con Caia?

Doc. La soluzione non cambia: dal momento in cui Caio accetta la cogestione di Caia, i beni (che prima erano in “comunione de residuo) vengono a cadere in “comunione immediata”; ed anche qui la cosa é logica, perché dal momento in cui Caio accetta la cogestione, dimostra con ciò stesso di accettare di sottomettere al consenso di Caia le decisioni relative all’impresa e, in primis, quelle che attengono alla disposizione dei beni dell’azienda: quindi un non-senso e una vera contraddizione in termini sarebbe concedergli di prendere tali decisioni senza...sottometterle al consenso di Caia (ché questo sarebbe il significato, lo abbiamo visto, del far rientrare i beni de quibus nella “comunione de residuo” e non nella “comunione immediata”).

Disc. E nel caso che Caio e Caia, “dopo il matrimonio”, inizino a cogestire un’impresa, però, dopo un po’ di tempo, uno, metti Caia, smetta di interessarsi a tale impresa (perché Caia, metti, vuol fare solo la casalinga), i beni dell’azienda continuano sempre ad essere soggetti al regime della comunione legale, con la conseguenza che Caio, anche se solo soletto ora ha la responsabilità dell’impresa, deve, per disporre di tali beni, dipendere dal consenso di Caia?.

Doc. Sì, é un po’ assurdo, ma é così; a meno che di comune accordo Caio e Caia decidano il contrario. Ciò si argomenta dal capoverso dell’articolo 191, che recita:“Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’art. 177 lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art. 162”.

Disc. Penso che, come i coniugi divengono (in pratica) comproprietari al 50 per cento dei beni dell’azienda, anche al 50 per cento si dividano gli utili che dà l’impresa.

Doc. Sul punto il legislatore non é chiaro, ma fa pensare che tale sia la soluzione da lui voluta, il fatto che (con una certa confusione) nel secondo comma venga a parlare (come vedremo) di “comunione degli utili”, come conseguenza della cogestione di una “azienda”; ora é vero che il secondo comma si riferisce, a una azienda costituita prima del matrimonio, ma chiaramente la soluzione adottata per la azienda costituita “prima”, non può non valere anche per la azienda costituita “dopo” il matrimonio.

Disc. Però la divisione degli utili al 50 per cento, giusta, se Caio e Caia contribuiscono al 50 per cento alla gestione, mi pare che diventi ben ingiusta nel caso in cui l’apporto a questa sia diseguale: se Caia é “produttiva” al 90 per cento e Caio

solo al 10 per cento, perché mai questo deve prendersi....la metà della torta e non accontentarsi di solo un suo decimo?

Doc. De iure condendo potresti avere ragione; de iure condito....hoc iure utimur. Tieni però presente che, almeno a mio parere, nulla impedisce ai due coniugi di stipulare un contratto di società, che preveda una diversa e più equa divisione degli utili.

Disc. Ma, se gli utili cadono in comunione, ciò anche significa che, del provento del loro lavoro nell’impresa cogestita, i coniugi non potranno disporre autonomamente: ad esempio, Caio non potrà utilizzare, senza il consenso di Caia, tali utili per comprarsi un vestito o...le sigarette.

Doc. Io non sono sicuro che si sia forzati ad accettare tale...drammatica situazione. Prima di tutto, anche la disposizione del secondo comma può essere assoggettata ad un’interpretazione restrittiva, che porti a concedere a ciascun coniuge la piena disponibilità della parte di utili che gli spetta, né più né meno di come avrebbe la piena disponibilità del provento di una attività lavorativa, che svolgesse presso un terzo qualsiasi. In secondo luogo, concesso e non ammesso che gli utili cadano in comunione, a me sembra che non vi sia nessuna norma che neghi ai coniugi di dividere i soldi, in questa, caduti e, quindi, anche i soldi che rappresentano l’utile che dà l’impresa da loro gestita in comune.

Disc. Ma quando si può parlare di effettiva cogestione di un’azienda? Si può dire che Caia, la quale aiuta il marito nell’azienda facendo la dattilografa, cogestisce con lui l’impresa?

Doc. Certamente, no: vi é cogestione quando entrambi i coniugi si riconoscono reciprocamente il potere di prendere le decisioni relative alla gestione dell’impresa: le decisioni, se vendere a 100 o a 50, se assumere, o no, del personale, se licenziare, o no, Pinco Pallino e così via.

Disc. Passiamo ora all’esame del secondo comma, che recita: “Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli interessi”.

Doc. La fattispecie, che il Legislatore disciplina in questa norma, é quella di Caia,

che cogestisce un’impresa col marito Caio, nel caso l’azienda, cioé il complesso dei beni necessari per l’esercizio di tale impresa, sia stato acquistato da Caio “anteriormente al matrimonio”.In un tal caso, é escluso che i soldi necessari a tale acquisto siano stati guadagnati da Caio grazie alla collaborazione di Caia (appunto perché essi sono stati guadagnati “anteriormente al matrimonio”, forse addirittura in un tempo in cui Caio e Caia neanche si conoscevano!), pertanto non vi é ragione di fare cadere l’azienda (acquistata da Caio) in comunione; e in effetti il legislatore non ve la fa cadere. La soluzione adottata dal Legislatore, come si vede, é ovvia, ma importante, perché ci permette di argomentare un’interpretazione restrittiva della disposizione della lettera d) da noi prima esaminata.

Disc. In che senso?

Doc. Nel senso di escludere la caduta in comunione dell’azienda, ancorché sia stata acquistata “dopo il matrimonio”, quando il suo acquisto é stato sicuramente fatto con soldi, che Caio aveva già prima del matrimonio.Lo stesso mutatis mutandis va ripetuto per gli “incrementi” dell’azienda intervenuti “dopo il matrimonio”: nonostante la lettera della norma (ci riferiamo con ciò alla norma del secondo comma), se Caio “dopo il matrimonio” acquista dei macchinari per l’azienda con soldi suoi personali (ma non costituenti “provento della sua attività separata”, perché in tal caso si dovrebbero invece applicare le conclusioni a cui siamo giunti in commento alla disposizione di cui alla lettera c), ebbene tali macchinari non cadono in comunione né immediata né de residuo.

Disc. Però gli utili dell’impresa cadono in comunione.

Doc. Sì, ma nel limitato senso che abbiamo visto commentando la lettera d).A questo punto però dobbiamo tornare all’articolo 179 e precisamente alla sua lettera d).

Disc. Leggo la lettera d) dell’articolo 179, che recita: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione”.

Doc. L’eccezione, fatta dal disposto della lettera d), al principio, secondo cui gli

“acquisti” cadono nella comunione, si giustifica evidentemente con la tutela dell’iniziativa economica dei coniugi: Caio, resterebbe senz’altro mortificato nella sua volontà di iniziativa, forse perderebbe addirittura il “gusto” della sua professione, se dovesse dipendere dal consenso dell’altro coniuge per disporre dei suoi “ferri del mestiere” (intesi questi in senso tanto lato da ricomprendervi, non solo i codici dell’avvocato, ma anche i mobili con cui é arredato il suo studio).

Disc. Questo é certo, ma a me sembra che sia importante per Caio, non solo avere la possibilità di disporre liberamente dei “ferri del mestiere” già in suo possesso, ma anche di avere la possibilità di liberamente comprarne dei nuovi (di comprare un nuovo codice, se é un avvocato, di comprare un nuovo trapano, se é un dentista...)..

Doc. E questa possibilità il nostro Legislatore in effetti gliela concede; non però con l’articolo 179 lett.d), ma con l’articolo 177 lett.c): la lettera c) dell’articolo 177 dà infatti al coniuge la possibilità di disporre liberamente del “provento della (propria) attività separata”, quindi anche di comprare “i beni che servono all’esercizio della sua professione” di cui parla la lettera d), che stiamo commentando. Il novum, che la lettera d) dell’articolo 179 aggiunge alla lettera c) dell’articolo 177, é che - mentre in genere i beni acquistati con il “provento dell’attività separata” del coniuge, cadono in “comunione immediata” (salvo alcune eccezioni che qui non rilevano) - nella specie che si tratti di “beni che servono all’esercizio della professione”, essi non cadono né in “comunione immediata” e neanche in “comunione de residuo”, ma nel patrimonio personale del coniuge: divengono piena ed esclusiva proprietà di Caio.

Disc. Ma Caio i suoi “ferri del mestiere” potrebbe esserseli comprati anche con i soldi suoi personali (i soldi che già aveva prima del matrimonio, i soldi che ha ereditato dopo il matrimonio...).

Doc. Questo é certo, ma pure é certo che, anche prescindendo dal disposto della lettera d), in tal caso tali beni sarebbero entrati nel patrimonio personale del coniuge: infatti, abbiamo visto, che, i beni acquistati da questo con i soldi del suo patrimonio personale, entrano nel suo patrimonio personale (e non cadono in comunione); quindi é giocoforza concludere, che, il disposto della lettera d), trova la sua ragion d’essere proprio in relazione ai beni acquistati con il “provento dell’attività separata” del coniuge.

Disc. Ma i beni de quibus non potrebbero essere stati acquistati dall’altro coniuge, da

Caia?

Doc. Certo che sì; ma, a meno che rappresentino un donativo di Caia a Caio, in tal caso i beni non entrerebbero nel patrimonio personale di questi.

Disc. Quindi tu operi una interpretazione restrittiva della lettera della legge.

Doc. E’ necessario farlo, dato che non vi é nessuna ragione di far entrare nel patrimonio di Caio dei beni che, poco importa se del coniuge o di un terzo qualsiasi, comunque non gli appartengono; e questo per la sola ragione che ne usa per l’esercizio della sua professione.

Disc. Tu hai detto che i beni de quibus entrano direttamente nel patrimonio del coniuge che li usa; e hai giustificato ciò con la necessità di tutelare la sua libertà di iniziativa; ma, ai fini di tale tutela, non sarebbe bastato dare al coniuge la libertà di disporre di tali beni fino allo scioglimento della comunione; non sarebbe bastato, cioé, escludere, sì, tali beni, dalla “comunione immediata”, ma includerli nella “comunione de residuo? -

Doc. No, perché in tal caso il coniuge-professionista correrebbe il rischio di essere privato di tali beni al momento in cui, sciolta la comunione legale, si procedesse alla divisione dei beni che vi fossero caduti; e questo con suo grave, possibile danno: pensa al povero dentista, che si vedesse togliere dal vorace coniuge (da cui, metti, si é separato e con cui é in lite furibonda) il trapano o le sedie dello studio, insomma si vedesse disaggregare lo “studio” messo insieme con tanto sacrificio in tanti anni!

Disc. Tale rischio però lo corre il coniuge-imprenditore che ha costituito la sua azienda “dopo il matrimonio”: infatti questa, nel caso previsto dalla lettera d) dell’articolo 177 (impresa cogestita da Caio e da Caia), cade in “comunione immediata” e, nel caso previsto dall’articolo 178 (esercizio solitario dell’impresa), cade in “comunione de residuo - e l’ultima parte del disposto della lettera d)art.179, esclude appunto dai “beni personali”, e quindi espone a quel rischio della divisione di cui tu parli, “i beni destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione”.

Doc. E’ così: e questa soluzione - abbastanza ovvia nel primo caso (se Caio e Caia, cogestiscono l’azienda, dunque sono entrambi imprenditori, con che ragione dare a

Caia anziché a Caio, o viceversa, i beni dell’azienda e quindi la possibilità di continuare l’esercizio dell’impresa?) - probabilmente si giustifica nel secondo caso (caso di Caio che da solo esercita l’impresa) con il molto maggior valore che possono avere (rispetto ai “ferri del mestiere” che usa chi non é imprenditore) i beni che costituiscono l’azienda; per cui può diventare ingiusto costringere il coniuge non-imprenditore a rinunciare alla metà di tali beni, solo per salvaguardare la libertà di iniziativa economica dell’altro.Con ciò chiudiamo sul primo comma, e passiamo all’esame del secondo.

Disc. Il secondo comma recita. “L’acquisto di beni immobili o di beni mobili elencati nell’art. 2683, effettuato dopo il matrimonio, é escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”.Doc.Abbiamo visto che, non tutti i beni che un coniuge acquista, cadono nel suo patrimonio personale: alcuni, sì, altri invece cadono nella comunione. E sappiamo anche che non è per nulla irrilevante stabilire, se il bene acquistato da Caio é entrato nel suo patrimonio personale o nella comunione: infatti, a seconda del caso, muta il suo regime giuridico: ad esempio, nel primo caso, un terzo potrà acquistarlo in forza del solo consenso espressogli da Caio, mentre, nel secondo, gli occorrerà il consenso di Caio e di Caia. Naturale quindi che il Legislatore senta l’esigenza di rendere certa la posizione giuridica dei beni, dai coniugi, acquistati.

Disc. E infatti abbiamo visto, parlando della lettera f), che il legislatore ritiene, sì, “beni personali” quelli acquistati “col prezzo del trasferimento” di beni personali, ma “purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”.

Doc. Sì, questo é vero, ma (a prescindere che la dichiarazione di cui parli é relativa solo a una delle categorie di beni elencate nell’articolo 179, mentre il problema di cui io parlo é relativo a tutte queste categorie), é anche vero che una dichiarazione unilaterale del coniuge acquirente, non può dirsi una sicura prova della reale posizione del bene.

Disc. E allora a che serve?

Doc. Serve a impedire futuri revirements suggeriti al coniuge dall’interesse di falsificare i fatti: io, Caio, al momento dell’acquisto, dico che il bene A é stato acquistato col prezzo ecc. quindi é bene mio personale; e anche se, dopo qualche

anno, i miei creditori mi mettono in una situazione in cui mi converrebbe far risultare il bene A in comunione, ahimé! la dichiarazione fatta al momento dell’acquisto, mi impedisce di cambiare.. .le carte in tavola.Il legislatore, quindi, ripeto, non si può accontentare della semplice dichiarazione dell’acquirente; e, per ritenere che un bene sia “personale”, vuole una (vera) prova di ciò. Ma il legislatore, nel mentre pretende tale prova, la facilita dove può – cioè nel caso di acquisti soggetti a trascrizione (perché relativi a beni immobili o ai beni mobili di cui all’art. 2683: automobili, aeromobili....).

Disc. E come la facilita?

Doc. - Imponendo un onere che, se assolto, sarà da lui considerato come prova della esclusione del bene (acquistato) dalla comunione.

Disc. Quale onere?

Doc. L’onere: primo, di far risultare “dall’atto” l’esclusione (melius, il fatto o il motivo dell’acquisto che giustifica l’esclusione) del bene dalla comunione; secondo, di far partecipare all’atto l’altro coniuge.

Disc.E se l’altro coniuge non vuole partecipare?

Doc. In tal caso al coniuge-acquirente non resterà che sobbarcarsi la prova del quid(l’essere stato il bene acquistato per l’esercizio della professione, con il prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale....), che giustifica la estraneità del bene dalla comunione.

Disc. E se Caia si presenta, sì, davanti al notaio, ma per contestare il “motivo di acquisto” addotto da Caio (questi dice di aver acquistato l’auto perché gli serve nella professione, Caia dice, no, non é vero, l’ha comprata per andare dalla sua amante)?

Doc. Nessun dubbio che l’onere in tal caso sarebbe assolto, ma nessun dubbio che la norma va interpretata restrittivamente, in modo da escludere in tal caso l’efficacia liberatoria (dalla prova) dell’adempimento dell’onere. Infatti, nel pensiero del legislatore, la partecipazione dell’altro coniuge all’atto, prova l’estraneità del bene dalla comunione, in base al ragionamento “Se Caia, presente a quel che dice Caio, non lo contraddice, ciò significa che Caio dice il vero”; ma é chiaro che tale

ragionamento più non regge, se Caia non tace, ma contesta.

Disc. Non capisco perché tale marchingegno (l’onere della partecipazione del coniuge che se assolto ecc) é adottato solo per gli acquisti che riguardano le categorie di beni sub c),d) ed f).

Doc. Perché esso non sarebbe adottabile nè per la categoria sub a) (dato che riguarda acquisti fatti in un tempo in cui Caio non era ancora sposato con Caia e quindi non poteva farla....intervenire all’atto di acquisto), nè per la categoria sub e) (che riguarda acquisti, meglio acquisizioni di beni, che di solito non si realizzano con la stipula di un contratto); e, per quel che riguarda la categoria sub b), perché esso (idest, tale marchingegno probatorio) sarebbe inutile (dato che già il silenzio del donante o del de cuius sulla destinazione del bene alla comunione é sufficiente prova dell’esclusione del bene da questa).E con questa osservazione possiamo considerare esaurito l’argomento: oggetto della comunione legale; la prossima lezione riguarderà la amministrazione della comunione.

Disc. Prima di chiudere, però, concedimi un’ultima domanda: tu sei sempre partito dal presupposto che i beni acquistati da Caio e da Caia costituiscano “nuova ricchezza”, che si aggiungerebbe al patrimonio del coniuge acquirente.

Doc. E’ vero; e puoi aggiungere che ho pure detto che, siccome tale nuova ricchezza é anche dovuta alla collaborazione di Caia, questo rende giusto che essa ricada, non nel patrimonio personale di Caio, ma nella comunione.

Disc. Sì, però non é affatto vero che ogni acquisto ridonda in nuova ricchezza: potrebbe darsi anche il caso di un acquisto dannoso: metti che Caio abbia comprato una vecchia casa diroccata, che in ogni momento minaccia di crollare recando ingenti danni ai vicini: come si potrebbe dire che il suo acquisto porta “nuova ricchezza” alla comunione”? Apporterà danni e spese e non “nuova ricchezza”!

Doc. Capisco il problema che poni; ed é un problema non facile da risolvere. La soluzione migliore che io vedrei é quella di interpretare gli articoli sulla amministrazione della comunione in modo da riconoscere a Caia il potere di opporsi all’acquisto.

Lezione X: L’amministrazione della comunione.

Disc. A chi compete il potere di prendere le decisioni necessarie per l’amministrazione dei beni caduti in comunione (la decisione di vendere o di dare in locazione un bene, la decisione di compiere su un bene i necessari atti conservativi o migliorativi...)? a chi compete il potere di decidere, o no, di compiere quegli atti che, pur non non essendo di amministrazione del patrimonio in comunione, su questo vengono a incidere (la decisione di assumere una collaboratrice domestica, la decisione di comprare un autoveicolo, la decisione di iscrivere il figlio ad una scuola....tutte decisioni che comportano spese, che dovranno essere, mi par logico, con i beni della comunione, sostenute)?

Doc. Il Legislatore rimette la risposta a questa tua domanda all’articolo 180, che, sotto la rubrica “Amministrazione dei beni della comunione”, recita:”L’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi.Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi”.

Disc. Ma tale articolo si riferisce solo agli atti di “amministrazione dei beni della comunione”, quindi non risponde affatto alla mia seconda domanda!

Doc. Questa é una lacuna, a cui é facile rimediare con una interpretazione estensiva: non ti pare?

Disc. Sia pure, ma il vero guaio é che l’articolo 180 non risponde, non solo alla seconda, ma anche alla prima domanda. Infatti, dopo avermi detto, che, gli atti di ordinaria amministrazione, può disgiuntamente compierli ciascun coniuge, dopo avermi detto, che, invece, gli “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” “spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi”, non mi dice quando un atto va considerato “eccedente l’ordinaria amministrazione”.

Doc. Sì, effettivamente non lo dice; però risultano pur sempre chiari o abbastanza chiari due elementi (a mio parere sufficienti per tentare una razionale sistemazione della materia): primo, l’esistenza di due categorie di atti – quella degli atti, che

possono essere compiuti anche dal singolo coniuge e, quella, degli atti che debbono essere compiuti con il consenso di entrambi i coniugi -; secondo, le conseguenze (negative), che derivano, dal compimento di un atto della seconda categoria, da parte di un solo coniuge – conseguenze, che vengono dal legislatore indicate in due articoli, l’articolo 184 (per quel che riguarda la validità dell’atto), l’articolo 189 (per quel che riguarda la responsabilità dei beni della comunione per le obbligazioni nate dall’atto invalidamente compiuto).

Disc. Direi che é allora opportuno fare la diretta conoscenza dei due articoli da te citati.Comincio a dar lettura dell’articolo 184, che recita:“Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683.L’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione l’azione non può essere proposta oltre l’anno dello scioglimento stesso.Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro é obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’opera della ricostruzione della comunione”.

Doc. L’articolo in esame ricollega due diverse specie di conseguenze agli atti compiuti dal singolo coniuge, diciamo così, abusivamente: in alcuni casi, che sono quelli del primo comma, ricollega l’invalidità dell’atto, in altri, ricollega semplicemente un obbligo risarcitorio (naturalmente a carico del coniuge che ha commesso l’abuso o la irritualità, come più ci piace chiamarla).

Disc. Cominciamo a parlare degli atti a cui, perché compiuti dal singolo coniuge, é ricollegata l’invalidità.

Doc. E’ facile comprendere perché, al compimento degli atti di cui al primo comma, é ricollegata una sanzione, che colpisce, non solo il coniuge (com’é per l’obbligo al risarcimento), ma anche il terzo contraente; infatti: primo, questi o conosceva che il

bene oggetto dell’atto rientrava nella comunione o comunque avrebbe potuto conoscerlo usando l’ordinaria diligenza (dato che, come abbiamo visto in una precedente lezione, l’Ordinamento dà i mezzi ad hoc: consultazione dei registri di stato civile, consultazione dei registri immobiliari, lettura dell’atto nell’archivio del notaio rogante); secondo, all’uso di tale ordinaria diligenza, egli non poteva non essere sollecitato dall’importanza socio-economica dell’atto che stava per compiere (dato che la compravendita, la costituzione di un diritto reale, più in genere il compimento di uno degli atti menzionati negli artt. 2643,2684,2685 nei riguardi di un immobile o di un autoveicolo, aereomobile o altro bene indicato nell’art.2683, sono certamente atti di notevole rilevanza socio-economica).

Disc. Sì, effettivamente il terzo, alla diligente consultazione dei registri di cui tu dici, avrebbe dovuto essere sollecitato, se ti metti nell’ipotesi che l’atto fosse una compravendita o uno degli altri atti previsti dall’articolo 2643; ma, metti, che esso fosse solo un banalissimo contratto d’opera: il coniuge con il contratto si limitasse a dar incarico al terzo di dare il bianco alla facciata dell’immobile: esagerato mi parrebbe nel caso costringere il terzo alla consultazione dei vari registri immobiliari e di stato civile.

Doc. Tanto esagerato che nessuno si sognerebbe e si sogna di ritenere l’invalidità di tale contratto d’opera (se pur concluso da un solo coniuge). Infatti, anche se la lettera dell’articolo in commento trae in inganno, é chiaro che l’invalidità viene comminata, non agli atti che semplicemente “riguardano beni immobili ecc”, ma agli atti che riguardano beni immobili e rientrano nell’elenco dell’articolo 2643.

Disc. Tu, quindi, escluderesti dagli atti che possono essere colpiti dall’invalidità i contratti di locazione con durata inferiore ai nove anni (e di conseguenza non rientranti nella previsione del n. 8 dell’articolo 2643); eppure, dal secondo comma dell’articolo 180, risulta che, come il compimento degli “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione”, anche quello dei “contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento” “spetta congiuntamente ad entrambi i coniugi”.

Doc. Ma io non nego, che, per il compimento di un contratto di locazione, occorra il consenso di entrambi i coniugi, nego che dall’inosservanza di ciò derivi, come pretenderebbe la lettera del primo comma, la invalidità; e, a tale interpretazione restrittiva della norma, mi convince l’assurdità di pretendere, da chi fa una locazione, che potrebbe essere limitata anche a qualche mese (pensa alla locazione di un box per

auto), quelle laboriose ricerche di cui si é detto. Comunque sia, che tu voglia aderire o no alla mia interpretazione restrittiva della lettera della norma, dovresti tenere presente che, anche in forza della lettera di questa, sarebbero esclusi dalla sanzione dell’invalidità le locazioni relative a beni mobili.

Disc. Ma la invalidità che commina la legge é la nullità o l’annullabilità?

Doc. L’annullabilità; ed é ovvio, dato che Caia potrebbe trovare conveniente il contratto concluso da Caio e, allora, perché impedirle di giovarsene (lei e tutta la famiglia)? perché gettarlo nel nulla?

Disc. E io penso che il brevissimo termine (un anno solo contro i cinque dell’art.1442!), concesso dal secondo comma per chiedere l’annullamento del contratto, si spieghi col fatto che il Legislatore ritiene che questo, ancorchè stipulato da un solo coniuge, risponda di solito all’interesse della famiglia: tu che dici?

Doc. Dico che questa effettivamente potrebbe essere una spiegazione.

Disc. Io ora mi metto nei panni di Fulano, il terzo che ha stipulato il contratto annullabile: il termine concesso a Caia per far valere l’annullabilità, é vero, scade dopo solo un anno, ma anche un anno può essere duro da vivere nell’incertezza per Fulano: non può egli fare una bella intimazione a Caia: “Deciditi: o chiedi l’annullamento del contratto o lo ratifichi”.

Doc. La può certo fare, ma, l’unico risultato che otterrà facendola, sarà di acquisire la prova della conoscenza del contratto da parte di Caia al momento della notifica della intimazione (e quindi di far decorrere da quel momento il termine annuale); ma anche questo, perché no? potrebbe essere un vantaggio non trascurabile per il tuo Fulano.

Disc. Quid iuris se Caia, pur sapendo che Caio stava per stipulare solo soletto il contratto con Fulano, non é intervenuta per impedirlo?

Doc. Certamente ciò non escluderebbe la invalidità del contratto. Disc.utibile,invece, può essere un obbligo risarcitorio di Caia; ma io lo escluderei: se io vedo una persona che compra male, metti compra per oro quella che è ferraglia, mica ho il dovere giuridico (quello morale, sì!) di avvisarla dell’errore in cui sta per cadere!

Disc. Oltre alla categoria di atti, di cui al primo comma, tu dicevi che ve n’è un’altra, di atti il cui compimento, però, non viene sanzionato con la loro invalidità, ma semplicemente da un obbligo di risarcimento (posto a carico del coniuge che, senza il consenso dell’altro, li ha compiuti).

Doc. Sì, perché il dovere di solidarietà che, tra Caio e Caia, deve esistere, impone a Caio di chiedere il consenso a Caia (e viceversa, naturalmente) anche per atti diversi da quelli a cui il primo comma si riferisce.

Disc. Naturalmente, dato che anche l’erronea decisione di un atto relativo a un bene, diverso da quelli che tale comma menziona, potrebbe essere fonte di grave danno per il patrimonio familiare: io penso alla vendita di un quadro d’autore, dei gioielli di famiglia e così via.

Doc. Certamente il dovere di solidarietà impone a un coniuge di ottenere il consenso dell’altro, quando l’atto può incidere (negativamente) in modo apprezzabile sul patrimonio familiare. E i casi da te portati ne sono dei buoni esempi, a cui puoi aggiungere quelli, dell’appalto dato a un terzo per un lavoro di considerevole mole, dello “sfratto” di una lucrosa locazione et similia; però, bada, in subiecta materia, per stabilire, se esiste un obbligo del coniuge di avere il consenso dell’altro per compiere un atto, non va solo guardato all’importanza economica di questo, ma va tenuto presente anche il turbamento (nocivo), che il compimento dell’atto può causare nel ménage familiare. Tipico caso, che il legislatore ha tenuto ben presente, é quello di Caio, che, disdice la locazione dell’appartamento in cui vive la famiglia, al fine di trasferire altrove la sua residenza – cosa che potrebbe anche essere conveniente economicamente (perché il nuovo appartamento é più spazioso e la sua locazione costa di meno), ma che intuitivamente può recare grave turbamento agli altri componenti la famiglia (che, metti, dal trasferimento potrebbero vedere interrotte consuetudini amicali a cui tengono molto). Altro esempio: Caio licenzia la collaboratrice domestica per assumermene un’altra, che ha, sì, meno pretese economiche ed é più brava, però con cui Caia può trovare difficoltà a creare quella “confidenza” e armonia, che aveva con la prima. Altro esempio ancora, Caio vende, per sbarazzarsene, un quadro di nessun pregio economico, ma a cui Caia é legata da cari ricordi. E gli esempi, tu comprendi, si potrebbero moltiplicare.

Disc. Dalla violazione dell’obbligo di solidarietà (conseguente al compimento dell’atto senza il consenso dell’altro coniuge) deriva a Caio un obbligo risarcitorio,

anche fuori dei casi contemplati dal terzo comma dell’articolo 184?

Doc. Sì, dato che in tale terzo comma il legislatore minus dixit quam voluit: come dimostra il fatto che la sua formulazione letterale – che si riferisce, poni menti al suo incipit, solo agli “atti che riguardano beni mobili” - impedirebbe di farvi rientrare atti, che, invece, indubbiamente vi rientrano (in quanto non si possono far rientrare nella previsione del primo comma); ad esempio, lo sfratto di una locazione immobiliare, l’appalto per la riparazione di un bene immobiliare.

Disc. Ma, dal fatto che, uno degli atti a cui va riferito il terzo comma, sia compiuto senza il consenso dell’altro coniuge, deriva solo un obbligo risarcitorio? l’atto abusivamente compiuto resta valido ed efficace?

Doc. Resta valido ed efficace, se tale é da considerarsi per le norme comuni, e in particolare per l’articolo 1153. Ad esempio, se, per ricollegarci ad un caso prima fatto, Caio ha venduto, sì, il prezioso quadro a Fulano, ma questi non ne é entrato ancora in possesso, Caia può legittimamente opporsi che a lui venga consegnato (con la conseguenza che Fulano non ne diventerà proprietario, dato che, per l’art.1153, l’acquirente del bene acquista la proprietà solo col possesso). Sempre per un’applicazione dell’articolo 1153 (che pretende la “buona fede” dell’acquirente perché l’acquisto sia valido) riterrei, poi, invalida la vendita del quadro, se Fulano fosse stato a conoscenza ch’esso rientrava nella “comunione” e avesse avuto ragione di dubitare del consenso di Caia.

Disc. Tu, all’inizio della lezione, accennando alle conseguenze negative, che derivano dal compimento, da parte di un solo coniuge, di un atto per cui, invece, era “necessario il consenso (anche) dell’altro”, hai fatto riferimento, oltre che all’articolo 184, anche all’articolo 189. Procedo quindi alla lettura anche di questo secondo articolo, che recita:“I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro.I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito é sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti oi creditori della comunione.”

Disc. A noi, per il discorso che andiamo ora conducendo, rileva solo il primo comma: il secondo comma ci interessa solo indirettamente, in quanto ci permette di dire, che, per gli obblighi contratti da Caio, sì, per la famiglia, ma “abusivamente”, i beni della comunione rispondono né più né meno che per gli obblighi contratti da Caio, per le sue necessità particolari: Caio ha acquistato i biglietti per fare con tutta la famiglia una bella ma costosissima crociera e il costo di tale suo “colpo di testa” (ché tale é da considerarsi l’idea della crociera, quando la famiglia stenta a sbarcare ogni mese il lunario) é di cinquemila euro. Bene, per tale debito di Caio, i beni della comunione rispondono né più né meno che se Caio avesse acquistati i biglietti per....... andare in crociera con i suoi amici.

Disc. E cioè?

Doc. E cioé, prima cosa, rispondono solo se la impresa di viaggi non si é potuta soddisfare sui beni personali di Caio, seconda cosa, rispondono solo per metà del loro valore (come vedremo meglio nella prossima lezione): quindi, se il valore di tali beni é solo di seimila euro, rispondono solo nei limiti di tremila euro.Il disposto dell’articolo 189 é importante perché permette di argomentare che - non solo dal compimento di un atto abusivo (perchè compiuto senza il consenso dell’altro coniuge, in spregio all’obbligo di solidarietà che, tra i coniugi, deve sussistere) deriva un obbligo risarcitorio per Caio - ma altresì che le obbligazioni relative all’atto (abusivo) vanno considerate unicamente obbligazioni “particolari” di questo, e non già obbligazioni della comunione (con la conseguenza che per farvi fronte Caio non potrà attingere ai beni della comunione).

Disc. Ma Caia, - come può, per il primo comma dell’articolo 184, “convalidare” la compravendita immobiliare compiuta da Caio senza il suo consenso - non può “convalidare” l’acquisto dei biglietti per la crociera fatto (abusivamente) da Caio?

Doc. Certo, che lo può. E in tal caso l’obbligo andrà considerato, non più particolare di Caio, ma di tutta la famiglia (e naturalmente ne risponderanno tutti i beni della comunione).

Disc. Dagli atti compiuti dai coniugi, singolarmente o congiuntamente qui non rileva, e, comunque dall’amministrazione dei beni comuni, possono nascere delle cause giudiziarie. Io penso: al caso che Caio e Caia decidano di agire contro Fulano che,

dopo aver loro venduto un bene, rifiuta di consegnarglielo; al caso che decidano di intentare un’azione di regolamento di confini contro il vicino di un fondo “in loro comunione”; al caso che, non più all’attacco ma costretti a giocare in difesa, siano convenuti da chi chiede loro un risarcimento per danni pretesamente causatigli da una cosa “in loro comunione”. Ecco, in tutti questi casi, chi é legittimato a rappresentarla, la “comunione”?

Doc. La risposta ci viene data, se pur non chiaramente, dall’articolo 184: nelle “azioni” relative ad “atti”, per il cui compimento é necessario il consenso di entrambi i coniugi, la “comunione” deve essere rappresentata da entrambi i coniugi, nelle “azioni” relative ad “atti”, che ciascun coniuge singolarmente può compiere, la “comunione” può essere rappresentata da un solo coniuge.

Disc. Ma in quest’ultimo caso, non può essere che, quando la causa nasce da Fulano che conviene in giudizio Caio e Caia (e non viceversa), egli scelga come suo contraddittore il coniuge meno adatto a sostenere i contraddittorio, perché meno a lume dei fatti di causa (Fulano chiede la condanna di Caio e Caia, quali coniugi “in comunione dei beni”, al pagamento del prezzo di un armadio loro venduto, convenendo in giudizio Caio ancorché l’acquisto e le relative trattative siano state fatte da Caia)?

Doc. Questo pericolo effettivamente esiste; ma ne é sufficiente rimedio il potere dato a Caio di chiamare in causa, in forza dell’art. 106 C.P.C., Caia.

Disc. L’articolo 184 se dà qualche, sia pur lacunosa e fumosa, indicazione sulla legittimazione, nel caso la causa riguardi un “atto” compiuto dai coniugi (in altre parole, nel caso che nella causa si controverta sulla validità o risolubilità di un “atto” compiuto dai coniugi o sui diritti che si pretende ne siano conseguiti), mi pare che non dia nessuna indicazione per il caso che nella causa si controverta sic et simpliciter su un bene: ad esempio, per il caso che Fulano rivendichi la proprietà di un immobile in possesso dei coniugi; o, viceversa, questi rivendichino un bene in possesso di Fulano.

Doc. Questo é vero; ma dall’articolo 184 ci é in definitiva facile dedurre che, in tale caso, il criterio per decidere sulla legittimazione, lo dobbiamo trarre dall’atto, che si dovrebbe compiere per alienare il diritto controverso: la comunione dovrà essere rappresentata da entrambi i coniugi, se per tale atto fosse necessario il consenso di

entrambi, potrà essere rappresentata da uno solo, nel caso invece tale atto, da uno solo, potesse essere compiuto.

Disc. Mettiamo il caso che Caio abbia stipulato un contratto di compravendita immobiliare, ma voglia agire per il suo annullamento (putacaso, sostenendo che la sua volontà nello stipularlo fu viziata da violenza).

Doc. In tal caso - mentre, la decisione di chiedere o no l’annullamento, Caio la potrà prendere da solo - una volta decisosi per la causa, dovrà convenire in giudizio anche la moglie Caia (come litisconsorte necessaria); infatti, é giusto dare a questa la possibilità di far valere le ragioni per la validità del contratto (in contraddittorio soprattutto con Caio, che potrebbe addirittura colludere col venditore al fine di recuperare, con l’annullamento del contratto, quel prezzo che“scioccamente” aveva pagato solo per ottenere...... il risultato sgradito della caduta del bene in comunione). A maggior ragione, Caia dovrà essere chiamata nella causa (sempre come litisconsorte necessaria), se fosse Fulano a chiedere l’annullamento.

Disc.Noi abbiamo fatta finora l’ipotesi, che un coniuge compia un atto senza il consenso (necessario) dell’altro; ma che succede se Caio chiede il consenso di Caia e questa lo rifiuta?

Doc. Se questo rifiuto é ingiustificato, in quanto l’atto effettivamente corrisponde all’interesse della famiglia, Caio potrà ottenere dall’Autorità giudiziaria l’autorizzazione a compiere lo stesso l’atto (senza il consenso di Caia). Questo risulta dall’articolo 181, che recita “Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso é richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione nel caso in cui la stipulazione é necessaria nell’interesse della famiglia o dell’azienda che a norma della lettera d) dell’art. 177 fa parte della comunione”.

Disc. Ma l’articolo 181 non si riferisce soltanto agli atti relativi all’amministrazione dei beni della comunione, dato che parla di rifiuto per “un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso é richiesto”: e, io mi domando, vi sono altri casi, oltre quelli che si verificano nel contesto dell’amministrazione dei beni della comunione, in cui Caio e costretto a chiedere a Caia il consenso a compiere un atto?

Doc. Certamente che vi sono. Uno di questi casi lo abbiamo incontrato nella precedente lezione, commentando l’ultimo comma dell’articolo 179: Caio vuole acquistare il bene B in “surrogazione” del bene A già di sua proprietà; al fine di escludere il bene B dalla comunione, chiede a Caia di presenziare all’atto, dando così il suo tacito assenso alla dichiarazione, che il bene B é acquistato con i soldi della vendita del bene A; Caia rifiuta: Caio può ricorrere al giudice e ottenere da lui in camera di consiglio un decreto che sostituisca l’assenso rifiutato da Caia.

Disc. Mi pare un po’ stiracchiato far rientrare nell’articolo 181 questo caso.

Doc. A me pare invece una soluzione ragionevole. Se però vuoi un caso...... indubitabilmente rientrante nell’articolo 181, puoi trovarlo leggendo la coda di questo stesso articolo: é il caso di Caio, che cogestisce con Caia un’impresa: Caio vorrebbe comprare un autocarro ritenendolo necessario per lo sviluppo dell’azienda; Caia dice, “no”: Caio può ricorrere al giudice e ottenere da lui in camera di consiglio un decreto, che sostituisca l’assenso mancante di Caia.

Disc. Quindi, l’articolo 181 concede al coniuge il potere di bypassare il rifiuto dell’altro coniuge, mentre nessuna norma sulle società (artt. 2247 ss) concede a un socio analogo potere, per superare il rifiuto di un altro socio co-amministratore. E’ forte! Ma passiamo ad altro problema: Caia non rifiuta il suo consenso: semplicemente non lo può dare perché impedita a darlo, metti, perché é lontana miglia e miglia dal luogo in cui il contratto va redatto oppure perché.. .sta lottando in un ospedale tra la vita e la morte: che deve fare Caio?

Doc. In primo luogo deve cercare di ottenere una procura da Caia, ma bada, non una procura qualsiasi, bensì una procura per atto pubblico o per scrittura privata con firma autenticata: il nostro Legislatore é diffidente: teme che Caio, fiducioso che Caia, la coniuge, mai lo denuncerà, faccia...carte false.

Disc. Sarebbe valida anche una procura generale?

Doc. Io, commentando, in una precedente lezione, l’articolo 217, ho già risposto positivamente a tale domanda; in ciò confortato anche dal disposto proprio del secondo comma (dell’articolo 182), che subito passeremo ad esaminare. Ma altri, più autorevolmente di me, la pensa in maniera diversa, temendo che, una volta ammessa la possibilità di una procura generale, venga ad aprirsi un facile varco ai coniugi

prepotenti, che vogliono eludere il principio della parità dei coniugi nell’amministrazione del patrimonio comune.

Disc. Il coniuge impedito potrebbe dare la procura anche ad un terzo?

Doc. Certamente, sì.

Disc. Potrebbe dare al terzo anche una procura generale?

Doc. Qui anch’io sono per la negativa. Infatti la procura generale data ad un terzo verrebbe, per così dire, a distorcere, a falsare l’applicazione delle norme sull’amministrazione della comunione: queste norme, infatti, sono state pensate e costruite dal legislatore nel presupposto di una particolare fiducia tra i due amministratori dei beni della comunione; fiducia, che si ha ragione di presumere tra due coniugi, ma non tra un coniuge e un terzo (tanto più quando, verso questo terzo, un coniuge ha probabili ragioni di gelosia e di astio, proprio per la fiducia particolare di cui l’altro coniuge l’ha gratificato).

Disc. Ma mettiamo che Caia, non solo sia impedita a presenziare all’atto, ma anche a rilasciare una procura: allora?

Doc. Allora Caio può rivolgersi al giudice e ottenere da questo un’autorizzazione a compiere l’atto anche senza il consenso di Caia.Tutto questo risulta dall’articolo 182, che recita:“In caso di lontananza o di altro impedimento di uno dei coniugi l’altro, in mancanza di procura del primo risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, può compiere, previa autorizzazione e con le cautele eventualmente da questo stabilite, gli atti necessari per i quali é richiesto, a norma dell’art. 180, il consenso di entrambi i coniugi.Nel caso di gestione comune di azienda, uno dei coniugi può essere delegato dall’altro al compimento di tutti gli atti necessari all’attività dell’impresa”

Disc. Quindi mi pare che presupposti, per la concessione dell’autorizzazione del giudice, siano:a) l’impedimento di un coniuge a dare il suo consenso de praesenti e a rilasciare procura per atto pubblico o scrittura privata autenticata;b) la necessità dell’atto (per cui manca il consenso).

Una domanda rispetto a questo secondo requisito: in che senso l’atto deve essere “necessario”?

Doc. Nel senso che, aspettare, per compierlo, il venir meno dell’impedimento dell’altro coniuge, potrebbe portare un qualche danno alla famiglia. Per avere un esempio di “atto necessario”, pensa al caso in cui una casa (naturalmente in comunione) stia per crollare e occorra quindi fare dei lavori per puntellarla. Per un esempio di atto invece non necessario, puoi pensare all’acquisto o alla vendita di un bene (facendo salvi, beninteso, casi particolarissimi).

Disc. Mi pare che tu adotti un metro piuttosto severo per misurare la necessità di un atto.

Doc. Tieni presente che una certa severità in ciò é doverosa, per evitare il pericolo, che un coniuge approfitti dell’impedimento dell’altro per compiere atti che questo non approverebbe.

Disc. Ma - nel caso in cui il coniuge sia impedito a manifestare il suo consenso, perché interdetto (poco importa se giudizialmente, perché incapace di intendere e di volere, o legalmente, come pena accessoria di una condanna penale), perché dichiarato “fallito”, perché inabilitato, perché sottoposto ad una “amministrazione di sostegno”- Caio può chiedere l’autorizzazione a compiere l’atto necessario senza il suo consenso?

Doc. Certamente, no: in tutti i casi di impedimento legale - di impedimento cioé dovuto al fatto, che é il legislatore stesso che priva il coniuge del potere di manifestare un valido consenso - di un’applicazione dell’articolo 181 certamente non si può parlare. E ciò ti risulterà ovvio, solo se tu pensi, che in tutti questi casi, il legislatore adotta tutto un sistema di garanzie - (nomina di un tutore, di un curatore....onere per questo di richiedere a determinati organi giudiziari un’autorizzazione per il compimento di certi negozi....) - volto a tutelare il coniuge impedito; sistema di garanzie, che non si può certo dare a Caio la facoltà di di bypassare, di volta in volta, chiedendo l’autorizzazione al giudice Pinco Pallino. Vedremo, sì, commentando l’articolo 183, che tale facoltà il legislatore a Caio la concede, ma solo con un provvedimento di carattere generale.

Disc. E allora, il povero Caio, deve rassegnarsi all’antipatica situazione di dover co-

amministrare i beni della comunione con un estraneo (il tutore, il curatore...) e, peggio ancora, di dover aspettare, per compiere un atto di “straordinaria amministrazione”, che questi svolga la non breve pratica di richiesta dell’autorizzazione a questo o quel giudice?

Doc. No, il legislatore predispone dei rimedi per evitare questa situazione, che tu giustamente definisci “antipatica”; questo con gli articoli, 183 (che prevede l’esclusione del coniuge “minore o che non può amministrare”), 191 (che dispone lo scioglimento della comunione per i casi di “dichiarazione di assenza o di morte presunta”, di “separazione giudiziale dei beni”, di fallimento di uno dei coniugi”) e, infine, con l’articolo 193 (che prevede la “separazione giudiziale dei beni” “in caso di interdizione o di inabilitazione”).

Disc. Abbiamo detto sul primo comma dell’articolo 182, ora dobbiamo parlare del suo secondo comma.Una cosa che mi riesce strana, é che il legislatore – dopo aver previsto nel primo comma la possibilità per un coniuge di chiedere l’autorizzazione a compiere lui solo, “gli atti per i quali é richiesto, a norma dell’art. 180, il consenso di entrambi i coniugi” - nel secondo comma, con tutta evidenza dedicato ai (ben diversi) “atti necessari all’attività dell’impresa” cogestita dai coniugi, non fa il minimo cenno a questa possibilità: si tratta di una semplice dimenticanza?

Doc. Sì, si tratta solo di una dimenticanza: il Legislatore tutto preso dall’idea di attribuire all’imprenditore la possibilità di avere dall’altro coniuge una procura generale ad amministrare l’azienda, si é dimenticato di attribuirgli il potere di ottenere l’autorizzazione a compiere un atto giuridico anche senza il consenso di questo. A colmare la lacuna così determinatasi, può sopperire l’interprete con una interpretazione sistematica della Legge.

Disc. Ma naturalmente la lacuna legislativa va colmata nel senso che l’imprenditore possa, sì, ottenere l’autorizzazione de qua, ma solo alle condizioni indicate nel primo comma (impedimento dell’altro coniuge ecc.).

Doc. Naturalmente.

Disc. Il coniuge-imprenditore può ottenere il rilascio di una procura generale da parte dell’altro coniuge solo in caso di impedimento di questo?

Doc.Da alcuni lo si sostiene, ma a me pare assurdo.

Disc. Penso che a questo punto si possa passare a parlare di un istituto a cui tu hai già accennato, l’istituto della “esclusione (di un coniuge) dall’amministrazione”. Leggo l’articolo che ne dà la disciplina:“Se uno dei coniugi é minore o non può amministrare ovvero se ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione.Il coniuge privato dell’amministrazione può chiedere al giudice di esservi reintegrato, se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione.La esclusione opera di diritto riguardo al coniuge interdetto.”

Disc. Che cosa significa che un coniuge, metti Caio, é escluso dall’amministrazione (dei beni della comunione)?

Doc. Non é facile dare una risposta a questa domanda.Certamente significa che Caio non può compiere neanche gli atti di ordinaria amministrazione – ma questa, evidentemente, non può non essere, anche nel pensiero del legislatore, che una conseguenza del tutto secondaria della esclusione, dato che gli atti di ordinaria amministrazione hanno ben poca importanza nel ménage familiare.Potrebbe - e, secondo me, può, ma la cosa é discutibile – significare che, se (abusando) il coniuge escluso compie, senza il consenso dell’altro, uno degli atti previsti dal primo comma dell’articolo 184, non si applica più il secondo comma dello stesso articolo.

Disc. Cosa per cui l’atto non si considererebbe più annullabile.

Doc. No, si considererebbe sempre annullabile, ma il termine per far valere l’invalidità, non sarebbe quello stabilito dal secondo comma dell’articolo 184, ma (per analogia) quello stesso in cui il mandante può ratificare l’atto compiuto dal mandatario nonostante la revoca del mandato – però sono il primo a dire che anche questa conseguenza, che si potrebbe trarre dall’esclusione dall’amministrazione, é in fondo assai poco rilevante.

Disc. Un modo per dare un significato più “robusto” all’articolo in oggetto potrebbe

essere quello di interpretarlo nel senso che, con l’esclusione, l’altro coniuge, Caia nel nostro esempio, può compiere da sola anche gli atti per cui normalmente occorrerebbe il consenso di entrambi i coniugi.

Doc. Ciò sarebbe eccessivo: a un qualche controllo, sull’amministrazione svolta da Caia, non si può rinunciare, specie quando l’altro coniuge é un minus habens (un minore, un interdetto, un inabilitato...). L’interpretazione migliore per me é quella che attribuisce a Caia, non già il potere di compiere sola soletta anche gli atti di “straordinaria amministrazione”, ma il potere di compiere tali atti in base alla semplice autorizzazione del giudice di cui all’articolo 182; quindi bypassando - nel caso il coniuge sia interdetto, inabilitato insomma un incapace - la necessità del consenso di chi ha la di lui tutela (o amministrazione di sostegno o curatela...) e pertanto sottraendosi ai tempi di attesa inerenti alle richieste di autorizzazione, che il tutore (curatore...) deve rivolgere alla Autorità Giudiziaria.Tale interpretazione del resto riesce confortata dal disposto dell’ultimo comma dell’articolo 183, se messo a confronto con il disposto dell’articolo 193.

Disc. Spiegati meglio.

Doc. Cercherò di farlo, ma per farlo dovrò anticiparti alcune nozioni. Dunque, devi sapere che - mentre l’articolo 183 stabilisce l’automaticità dell’esclusione dall’amministrazione dell’interdetto - l’articolo 193, prevede, sì, la separazione giudiziale dei beni” per il caso di interdizione di un coniuge, ma la fa dipendere dalla richiesta del coniuge, di Caia nel nostro esempio: evidentemente il legislatore vuole lasciare Caia libera di conservare quei vantaggi, che le assicura lo stato di non-separazione giudiziale, ancorché il coniuge sia stato escluso, in quanto interdetto, dall’amministrazione. Ora questi vantaggi sarebbero ben poca cosa, se non consistessero nella possibilità data a Caia di compiere gli atti di straordinaria amministrazione prescindendo dal consenso del tutore e in base della semplice autorizzazione del giudice di cui all’articolo 182.

Disc. Chiarito cosa comporta la esclusione di un coniuge dall’amministrazione, dobbiamo vedere quali sono i presupposti di tale esclusione.

Doc. Uno di tali possibili presupposti risulta da quanto finora detto: é la incapacità ad amministrare. Che però non deve necessariamente consistere, come nei casi finora esaminati, in una incapacità legale (casi del minore, dell’interdetto...), ma può

consistere anche in una incapacità naturale: pensa al coniuge paralizzato e inchiodato su una sedia a rotelle.L’altro possibile presupposto di un’esclusione del coniuge, é la sua cattiva amministrazione. Ma, attenzione! quella che rileva, ai fini dell’istituto che stiamo commentando - non é la cattiva amministrazione che il coniuge fa dei suoi beni personali (questa rileva, sì, ma ai fini di altro istituto che poi studieremo, quello della “separazione giudiziale dei beni”) - ma la cattiva amministrazione che il coniuge abbia fatto dei beni del comunione. E al proposito é da tener presente che un coniuge dà prova di cattiva amministrazione, non solo quando compie atti economicamente strampalati (vende azioni chiaramente destinate a salire), ma anche quando si astiene da atti di amministrazione necessari o costringe il coniuge ad astenersene opponendo un immotivato e continuo “niet” alla sue richieste di consenso.

Lezione XI: Le obbligazioni

Disc. Che significa dire che l’obbligo di pagare a Fulano tot (metti 300 euro) é un obbligo della “comunione”?

Doc. Significa due cose. Per prima cosa, significa, che, Fulano, se non pagato spontaneamente, potrà soddisfare il suo credito, per l’intero (quindi, nell’esempio, per tutti i 300 euro), sui beni della comunione, e, qualora questi non fossero sufficienti, per la metà (quindi, per soli 150 euro) sui beni personali di ciascuno dei coniugi, Caio e Caia. Per seconda cosa, significa, che il coniuge, metti, Caio, che avesse pagato il credito di Fulano prelevando dal patrimonio suo personale la relativa somma, potrà chiedere, il rimborso di quanto pagato (melius, della metà di quanto pagato), all’altro coniuge, a Caia – ma bada, questo, non subito, ma al momento dello scioglimento della comunione.

Disc. Ah, sì? Caio, se é stato tanto stupido da cavare i soldi dal suo portafoglio per pagare un debito della comunione, dovrà aspettare, fino al momento dello scioglimento di questa, per realizzare il suo credito?

Doc. Chiaro che, se c’é armonia nella famiglia, le cose non andranno così: con l’accordo di Caia, Caio preleverà dalla cassa comune 300 euro, oppure Caia, in via bonaria, subito gli darà 150 euro, e così subito si chiuderà la pendenza. Però, se tutto ciò non avvenisse, vale quanto prima ti ho detto, così come vedremo con più precisione commentando l’articolo 192 e in particolare i suoi commi 3 e seguenti.

Disc. Va bene, l’articolo 191 dice sul credito di Caio, ma da quali articoli risulta quanto tu hai detto sul credito del terzo, di Fulano?

Doc. Dagli articoli 186 e 190.

Disc. Comincio allora a leggere l’articolo 186, che - sotto la rubrica “Obblighi gravanti sui beni della comunione” - recita:“I beni della comunione rispondono:a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto;b) di tutti i carichi dell’amministrazione;c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia;d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi”.Cominciamo dalla lettera a): che significa che i beni della comunione rispondono dei “pesi” su di essi gravanti al momento dell’acquisto?

Doc. Significa che, il fatto dell’acquisto, non incide sull’esistenza degli eventuali diritti, che “pesino” sul bene (acquistato).

Disc. Questo mi pare ovvio, e addirittura assurdo sarebbe il contrario: assurdo, voglio dire, sarebbe che, se Fulano vende il suo immobile a un Tizio qualsiasi, conservino inalterati i loro diritti, A (creditore ipotecario), B (usufruttuario), C (conduttore in forza di una locazione), mentre se Fulano vende a Caio (sposato e in regime di comunione), A, B, C, i loro diritti, vengano a perdere: l’esistenza dei diritti gravanti sul bene, non può dipendere dal tipo di acquirente a cui Fulano sceglie di vendere.

Doc. Effettivamente, se la norma si limitasse a dire quanto tu le attribuisci, direbbe cosa ovvia; ma in realtà essa dice qualcosa di più, di meno ovvio: dice che, se Caio, uno dei coniugi, fa cadere un suo bene personale in comunione, si conservano anche quei “pesi”, da cui, invece, il bene sarebbe liberato, se venduto a un terzo: se l’immobile era gravato da una locazione, senza “data certa” o non trascritta nonostante fosse ultranovennale, ebbene tale locazione, che non sarebbe opponibile o sarebbe opponibile solo entro il novennio (art.1599) all’acquirente, se questi fosse un terzo, sarà invece opponibile alla “comunione”(in buona sostanza, a Caio e a Caia).

Disc. Con ciò mi hai detto cosa intende la norma con il termine “pesi”, dimmi ora che cosa intende col termine “oneri”.

Doc. Intende quegli obblighi che - come quello di pagare i contributi dovuti per le spese condominiali (v. art.63 disp. att. Cod.Civ.) - si trasmettono dal dante causa all’avente causa.

Disc. Passiamo alla lettera b): che cosa si deve intendere per “carichi dell’amministrazione”.

Doc. Si deve intendere gli obblighi assunti e comunque nati nel contesto dell’amministrazione dei beni (della comunione): Caio e Caia hanno fatto riparare il tetto o hanno fatto mettere un nuovo impianto di riscaldamento? Ebbene la ditta, che ha fatto i lavori, potrà soddisfare il suo credito sui beni della comunione.

Disc.,- Lettera c). E’ ovvio che cosa si debba intendere per spese sostenute “per l’istruzione e l’educazione dei figli”; é un po’ meno ovvio, che cosa si debba intendere per spese “per il mantenimento della famiglia”: ad esempio, va fatta rientrare in queste, la spesa di Caio per l’acquisto di un abito nuovo o per mangiare al ristorante? in altre parole, i soldi per l’abito e per la cenetta al ristorante, Caio li deve cavare dal suo portafoglio o li può attingere dalla “cassa comune”?

Doc. Io riterrei che, se l’acquisto dell’abito o la cenetta rientrano nel livello di vita di tutti gli altri familiari, la relativa spesa venga a gravare i beni della comunione.

Disc. E veniamo al punto più difficile: che cosa si deve intendere per “obbligazione contratta dai coniugi ….nell’interesse della famiglia”?

Doc. Premesso che lo “interesse della famiglia” é una astrazione concettuale: non esiste un “interesse della famiglia”, esiste solo l’interesse di questo o quel membro della famiglia; io molto semplicemente mi atterrei alla lettera della norma: a che i beni della comunione rispondono di un obbligazione, basta che essa sia stata contratta dal coniuge allo scopo di provvedere ai bisogni propri o degli altri membri della famiglia.

Disc. Quindi, secondo te, non rileva il fatto che l’obbligazione non corrisponda all’interesse della famiglia?

Doc. No, non rileva: la lettera della norma é chiara: non occorre che l’obbligazione sia nell’interesse, basta che sia stata “contratta...nell’interesse della famiglia”. Del resto, quando il legislatore pretende (per far da ciò conseguire certe conseguenze giuridiche) che l’obbligazione (assunta da un coniuge) “soddisfi una necessità della famiglia”, lo dice, così come fa nel secondo comma dell’articolo 192.

Disc. Allora, se Caio dà fuori di testa e fa, sia pure per la famiglia, una spesa pazza, metti, compra l’automobile fuori serie, così prosciugando l’esigua cassa comune?

Doc. In questo e consimili casi, come correttivi delle conseguenze nefaste che effettivamente potrebbero derivare da un’interpretazione letterale della norma, si applicheranno gli articoli 189 e 183: l’ articolo 189, se, per la “spesa pazza” fatta unilateralmente da Caio, occorreva il consenso di Caia, e, l’articolo 183, se invece la spesa, rientrando nella “ordinaria amministrazione”, poteva essere decisa solo da Caio; più precisamente: per l’articolo 189, l’obbligazione contratta da Caio verrà considerata unicamente come una sua obbligazione “particolare”, nè più né meno che se egli avesse comprata l’auto, non per la famiglia, ma per soddisfare un suo personalissimo sfizio (e i beni della comunione risponderanno del debito da lui contratto solo fino alla metà); per l’articolo 183, Caio, avendo “male amministrato” potrà essere escluso dall’amministrazione dei beni della comunione.

Disc. Ma questi sono solo dei pannicelli caldi, dei mezzi-rimedi: l’esclusione dall’amministrazione avviene quando ormai la spesa é stata fatta: previene danni futuri, ma non rimedia ai danni già fatti.; quanto, poi, all’applicazione del primo comma dell’articolo 189, essa limita solo il danno sofferto dalla famiglia: infatti, essa non toglie che una parte, forse una gran parte, del patrimonio familiare sia stata bruciata per una spesa inconsulta.

Doc. Tu hai ragione, ma....hoc iure utimur. Tieni peraltro presente che, per il secondo comma dell’articolo 192, Caio, in caso di atto di straordinaria amministrazione, é tenuto a rimborsare, il valore dei beni” della comunione, bruciati dal suo exploit (salva dimostrazione, che, nonostante tutto, esso sia risultato di vantaggio per la famiglia – come meglio ci riserviamo di vedere in seguito); e tieni ancora presente che, con uno sforzo di esegesi, si può argomentare da ciò, che, pure in caso di atto di ordinaria amministrazione, Caio abbia l’obbligo di rimborsare il valore dei beni da lui bruciati, per far fronte a spese non conformi alle “necessità della famiglia” (e infatti

mal si comprenderebbe, perché, l’obbligo di rimborso, debba esserci per le spese di straordinaria amministrazione e non per quelle di ordinaria amministrazione).

Disc. Ma a me, per dirtela tutta, non solo pare ingiusto, che i beni della comunione rispondano di quelle spese, che, pur fatte per la famiglia, non sono nell’interesse della famiglia, ma, più radicalmente, pare ingiusto e illogico, che su tali bene ricadano ogni e qualsiasi spesa fatta dai coniugi.

Doc. Spiegati meglio, perché ritieni ingiusto ciò.

Disc. Non certo perché non approvo che i terzi creditori per tali spese possano soddisfarsi sui beni della comunione (cosa che certamente può essere opportuna perché finisce per agevolare il credito alla famiglia), ma perché ritengo ingiusto che un coniuge ossa attingere nei beni della comunione per ogni sua spesa: Caio si compra un vestito e i relativi soldi li può prendere, non dal suo portafogli, ma dalla cassa comune; ora io trovo ingiusto ciò: infatti, almeno idealmente, i beni della comunione appartengono al 50% a Caio e al 50% a Caia, quindi attingere ad essi per sostenere una spesa significa far ricadere questa in parti eguali su Caia e Caio - questo mentre, per l’articolo 143, Caio e Caia debbono contribuire ai bisogni della famiglia “in relazione alle proprie sostanze, alla propria capacità di lavoro ecc”, quindi, non necessariamente al 50%.

Doc. Quel che ritieni una ingiustizia é semplicemente una deroga all’articolo 143, che nessuno può impedire al legislatore di fare.

Disc. Io mi metto ora a parte creditoris: dalla parte di Fulano, che ha venduto un dato bene a Caio, credendo che fosse acquistato nell’interesse della famiglia, mentre Caio ha fatto invece l’acquisto nel suo solo interesse: viene tutelata la sua buona fede?

Doc. E’ un articolo, non sul regime della comunione, ma sul diverso regime del “fondo patrimoniale”, che ci permette di tutelarla. E con ciò mi riferisco all’art. 170, che recita: “L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.Argomentando a contrario da tale norma, si ricava che, pur nel caso i debiti siano stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, qualora il creditore di ciò non sapesse, egli può soddisfarsi sui beni del fondo.

Questa conclusione, per analogia, io la riterrei applicabile, mutatis mutandis, per tutelare il creditore, anche nel caso di debito contratto da un coniuge in regime di comunione. Però operandovi una restrizione, nel senso di escludere la tutela del credito quando esso é stato assunto in circostanze che, valutate con la prudenza del bonus pater familias, portavano ad escludere che il debito fosse contratto per i bisogni familiari.

Disc. La norma, che stiamo esaminando, parla di “obbligazione contratta dai coniugi: che dire se l’obbligazione, deriva da fatto illecito? Metti, il figlio di Caio e Caia, guidando l’auto “della famiglia”, arrota una persona: di questa obbligazione, che deriva dall’uso di un bene della famiglia, certamente risponde, ai sensi del terzo comma dell’art.2054, quello dei coniugi che nei registri pubblici risulta proprietario dell’auto, ma ne rispondono anche i beni della comunione?

Doc. Certamente, si: la norma di cui alla lettera c) va senz’altro assoggettata ad un’interpretazione estensiva.

Disc. Passiamo al disposto della lettera d): sembrerebbe che, se “congiuntamente” Caio e Caia decidono di assumere un’obbligazione, di questa i beni della comunione vengano a rispondere, poco importa che sia contratta per l’interesse della famiglia o no: Caia pazzamente innamorata di Caio, preleva dalla cassa comune un milione per comprare a questi una villa alle Bermude: il prelievo é fatto d’accordo con Caio, la donazione a Caio é naturalmente fatta col suo accordo: nessuno potrebbe dubitare, per il disposto della lettera d), che la donazione non sia valida.

Doc. Effettivamente la lettera della norma condurrebbe a tale conclusione, ma é chiaramente una conclusione aberrante e contraria allo spirito, che informa il regime della comunione: il legislatore non permette a due coniugi di fare, quel che più loro piace, con i beni della comunione; e chi nega, come alcuni autorevolmente fanno argomentando dal secondo comma dell’articolo 191, che i coniugi possano escludere dalla comunione uno o più di tali beni, non può non concordare con ciò.I beni della comunione, anche se non viene detto espressamente nella normativa sulla comunione, come invece é detto in quella sul fondo patrimoniale, hanno una destinazione: la soddisfazione dei bisogni della famiglia. Il Legislatore semplicemente presume, con la norma che stiamo commentando, che, quando un’obbligazione é assunta congiuntamente dai coniugi, essa sia assunta per l’interesse della famiglia.

Disc. Passiamo ora all’esame dell’articolo 190, che – sotto la rubrica “Responsabilità sussidiaria dei beni personali – recita. “I creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti”.

Doc. Fulano dopo aver fatto una causa – in cui ha convenuto, secondo i casi, Caia o Caio o tutti e due (come abbiamo detto in commento all’articolo 180) - ha ottenuto una sentenza, che riconosce che i coniugi Caia e Caio hanno verso di lui un debito, metti, di 300, e soprattutto riconosce che, di tale debito, hanno da rispondere i beni della comunione. Per eseguire la sentenza, Fulano dovrebbe in prima battuta aggredire i beni della comunione; però tali beni latitano completamente: nel caso, l’articolo 190 dà a Fulano la possibilità di agire “in via sussidiaria” contro il patrimonio di uno dei coniugi, quello di Caio o quello di Caia a sua completa scelta.

Disc. Ma Fulano, prima di rivolgersi ai patrimoni personali dei coniugi, deve provare che sui beni della comunione non può soddisfarsi? deve provarlo facendo un tentativo di escussione su tali beni?

Doc. Varie sono le teorie sul punto, ma la più soddisfacente é quella che esclude l’obbligo del creditore di fare il tentativo di pignorare (eventuali) beni della comunione.

Disc. Ma Fulano non dovrà neanche in qualche altro modo provare l’inesistenza di beni della comunione utilmente pignorabili?

Doc. No, sarebbe ingiusto gravare Fulano di tale prova non facile per lui (dato che per lui non é facile individuare quali siano i beni caduti in comunione), mentre é molto più facile per il coniuge (aggredito) indicare i beni in comunione che potrebbero essere utilmente escussi.

Disc. Tu sei partito dall’ipotesi che non ci fossero beni in comunione, però potrebbe benissimo essere che questi, non mancassero, ma fossero solo insufficienti.

Doc. Nel caso, Fulano dovrà e potrà escutere contemporaneamente i beni in comunione e i beni personali di un coniuge.

Disc. Abbiamo fatta l’ipotesi che Fulano abbia un credito di 300, ora completiamo il quadro, facendo l’ipotesi che il valore dei beni personali del coniuge aggredito sia di 200: Fulano potrà soddisfarsi fino a cento (cioé fino alla metà del valore dei beni personali del coniuge) oppure fino a 150 (cioé fino alla metà del suo credito)?

Doc. La norma sul punto é chiarissima: Fulano potrà soddisfarsi fino a metà del suo credito, cioè, nell’esempio, fino a 150.

Disc., Questo anche se l’obbligazione (posta in esecuzione) é stata da Caio e Caia assunta congiuntamente?

Doc. Sì, certo; a meno che naturalmente l’obbligazione non sia stata assunta, non solo congiuntamente, ma anche solidalmente (caso in cui ovviamente Fulano potrà soddisfare il suo credito non al 50% ma al 100%).

Disc. I creditori della comunione possono, lo abbiamo ora visto, soddisfarsi sui beni personali dei coniugi; ma accade anche il contrario? voglio dire, i creditori particolari dei coniugi, possono soddisfarsi sui beni in comunione?

Doc. Sì, e ciò risulta dall’articolo 189.

Disc. Diamo allora lettura di questo articolo che – sotto la rubrica “Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi” - recita:“I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro.I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito é sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione”

Doc. Protagonista, diciamo così, del secondo comma dell’articolo 189 é il “creditore particolare” di un coniuge. Possiamo pensare, per avere qualche esempio di chi possa essere tale, a Fulano I, che ha venduto della mobilia a Caio, prima o dopo, poco importa, del matrimonio di questo, e ancora avanza un credito.

Protagonista invece del primo comma - ma in definitiva equiparato in tutto e per tutto al “creditore particolare” di cui al secondo comma - é chi é diventato creditore in seguito ad un atto di straordinaria amministrazione compiuto da Caio senza il consenso dell’altro coniuge. Pensa al caso di Caio, che commissiona a Fulano II un grosso appalto, per la ristrutturazione di un appartamento in comunione, senza il consenso di Caia.

Disc. Sì, ci penso, ma più ci penso e meno mi spiego la cosa: voglio dire, i casi sono due: o il contratto stipulato da Caio é valido (metti, perché convalidato da Caia) e allora Fulano II mi pare che debba essere in tutto e per tutto equiparato a un creditore della comunione; oppure non é valido, e allora..... che credito mai Fulano II può vantare?

Doc. Può vantare un credito, metti, per ingiusto arricchimento (che nell’esempio potrebbe essere dato dalle opere di ristrutturazione da lui comunque eseguite). Il legislatore ritiene giusto permettere che anche questo credito sia soddisfatto sui beni della comunione (dato che in fondo nasce da opere, da cui anche la comunione trae beneficio), però, volendo cautelare questa contro il pericolo di essere gravata da obbligazioni abusivamente assunte dal singolo coniuge, pone alla sua soddisfazione quegli stessi limiti e quella stessa condizione che pone ai crediti “particolari” di Caio

Disc. Quali limiti, quale condizione?

Doc. La condizione é che non sia possibile soddisfare tali crediti sui beni personali di Caio: tu, Fulano I, tu, Fulano II, puoi aggredire i beni della comunione, solo se sei nell’impossibilità di soddisfarti sui beni personali del coniuge. E sul punto noi non abbiamo che da richiamare mutatis mutandis le osservazioni fatte, in commento all’articolo 190, sull’analoga “condizione” che grava su Fulano nel caso voglia aggredire i beni particolari del coniuge (“saltando” quelli della comunione).I limiti sono dati: I- dalla postergazione di tali crediti (salvo che godano di un diritto di prelazione: crediti ipotecari, pignoratizi...) rispetto ai crediti relativi a obblighi (non del coniuge,ma) della comunione; II- dalla possibilità di soddisfarsi solo “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”.

Disc. Cominciamo a parlare del primo limite. Esso vale sia per Fulano I (vero creditore “particolare”) che per Fulano II (creditore solo equiparato al primo), vero?Non c’é ragione infatti di distinguere tra l’uno e l’altro tipo di credito: evidentemente

l’inserimento della regola della postergazione solo nel secondo comma (relativo ai “creditori particolari” come Fulano I) é dovuto solo a un “lapsus” del legislatore.

Doc. Io non sarei tanto sicuro di ciò e sarei propenso, invece, ad attribuire il fatto alla considerazione, che non é possibile immaginare che nascano, dalla situazione ipotizzata nel primo comma (atto di straordinaria amministrazione invalido perché mancante del consenso di entrambi i coniugi), dei crediti con diritto di prelazione (dato che la loro nascita richiede l’esistenza di un valido contratto).E, a conti fatti, io penso che, crediti con diritto di prelazione, si possano immaginare solo in relazione a contratti stipulati prima della costituzione del regime della comunione, dato che, una volta che questo é costituito, certamente i coniugi, come non possono vendere i beni della comunione, neanche possono costituire metti una ipoteca su di essi (o darli in pegno...).

Disc. Parliamo del secondo limite: che cosa significa che il credito può essere soddisfatto “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”? significa che ciascun bene in comunione può essere pignorato solo fino a metà?

Doc. Non capisco la tua domanda.

Disc. Mi spiego con un esempio: mettiamo, che il patrimonio in comunione sia costituito, dal bene A di valore 100, dal bene B di valore 200, dal bene C di valore 300 (quindi abbia un valore complessivo di 600), e il credito sia di 300; orbene, fatto l’esempio, ripropongo, spero più chiaramente, la domanda: Fulano può pignorare,di un bene, metti del bene A, solo la quota, pari alla metà, spettante a Caio (e, quindi, può vendere solo la metà del bene, la metà di A) o può pignorare (e vendere) l’intero bene (l’intero A)?

Doc. Certamente può pignorare e vendere l’intero bene, ciò nell’interesse anche del debitore. Dato che, é notorio, la vendita della quota pari alla metà di un bene, non permette di realizzare la metà del prezzo, che si realizzerebbe vendendo l’intero bene.Disc. Ancora una domanda per chiarirmi definitivamente le idee: Fulano, una volta pignorati e venduti i beni A e B, può trattenere, a soddisfacimento del suo credito, tutto il ricavato (cioé trecento), oppure può trattenerne solo la metà (cioé 150)?

Doc. Certamente può trattenere tutto il ricavato. Insomma i creditori particolari (e quelli ad essi equiparati) possono soddisfarsi fino a metà del valore dei beni (bada,

fino a metà del valore dei beni in comunione e non, come nell’ipotesi dell’articolo 190, fino a metà del credito), però fino al limite di tale metà possono pignorare interamente i beni della comunione.

Disc. Fulano, creditore del solo Caio, può pignorare i beni caduti in comunione in seguito ad un acquisto di Caia? Mi spiego meglio: metti che, i beni A e B, siano caduti in comunione in seguito ad un acquisto di Caia, e, il bene C, in seguito ad un acquisto di Caio; in una tale situazione, Fulano, pur essendo creditore del solo Caio, pur essendo il bene C di valore tale da poter soddisfare da solo il suo credito, può pignorare i beni A e B (ripeto, caduti in comunione per un acquisto fatto da Caia)?

Doc. Io ritengo di sì: mi rendo conto che sia cosa “non gradita” per Caia, il fatto che Fulano pignori beni su cui lei ha diritto di coltivare l’aspettativa, che ritornino, allo scioglimento della comunione, nel suo patrimonio personale, d’altra parte, non si può addossare al creditore, a Fulano, il gravoso onere di individuare, nel complesso dei beni della comunione, quelli dovuti ad un acquisto del suo debitore (cioé, nell’esempio, di Caio), e quelli dovuti ad un acquisto del coniuge del suo debitore (cioé, di Caia)

Disc. Un’ultima domanda: é vero o no che il legislatore, con il secondo comma, compie una notevole strappo ai principi del diritto?

Doc. In che senso?

Disc. Nel senso che, in base ai principi, i creditori di una persona - se questa trasferisce (con una vendita, con una donazione...) ad altri il suo diritto su un bene, metti sull’appartamento A - poi non possono soddisfare il loro credito aggredendo tale bene, a meno naturalmente che ottengano la revoca della atto di alienazione ai sensi degli articoli 2001 e ss.; invece, nell’articolo 189, vediamo che il Fulano I, del nostro precedente esempio, può pignorare i beni che, prima, di proprietà di Caio, dopo, sono caduti in comunione (“caduta in comunione” che sostanzialmente può essere equiparata a un trasferimento di proprietà sui beni).

Doc. Questa deroga ai principi, da parte dell’articolo 189, effettivamente c’é, ma é giustificata dalla necessità di dare, ai creditori del coniuge, una tutela più efficace dell’azione revocatoria, dato che non é sempre facile provare i presupposti necessari per l’esito vittorioso di tale azione, mentre é molto probabile che un coniuge si

lascerebbe tentare a trasferire in comunione i suoi beni, per salvarli dall’assalto dei suoi creditori, se trasferendoli avesse a temere solo, di tale azione, gli strali (spuntati).

Lezione XII: Lo scioglimento della comunione.

Disc. Leggo l’art. 191, che – sotto la rubrica “Scioglimento della comunione” - recita:“La comunione si scioglie per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l’annullamento, per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, per la separazione personale, per la separazione giudiziale dei beni, per il mutamento convenzionale del regime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi.Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’art. 177, lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art. 162”.Dunque, verificatosi uno dei fatti, elencati nell’articolo 191 che ho finito di leggere, “la comunione si scioglie”; ma che significa, ciò? Quando si tratta della “comunione ordinaria” (artt. 1100 e segg.) l’espressione “scioglimento della comunione” ha il facile e intuitivo senso di “inizio di una procedura che si concluderà con la divisione in più parti del bene comune o del prezzo ricavato dalla sua vendita e con la attribuzione di tali parti a ciascuno dei comproprietari del bene diviso”: ha lo stesso significato, l’espressione “la comunione si scioglie”, posta proprio nell’incipit dell’art. 191? insomma, che significato ha tale espressione?

Doc. Il suo significato lo dovrebbe dire il Legislatore, ma purtroppo non lo dice.Una cosa é certa: “sciogliere la comunione”, nella nostra materia, non significa necessariamente “iniziare una procedura per la divisione dei beni in comunione”; anzi il legislatore non pone nessun termine per l’inizio di tale procedura (che pur disciplina negli artt. 194 e segg); per cui, ad esempio, Caio e Caia, ancorché “separati” o “divorziati” (quindi, ancorché la loro comunione dei beni si sia sciolta), potrebbero benissimo decidere di procrastinare la procedura di divisione (dei beni già in comunione), anche per anni, anche per tutta la vita.Altra certezza: dal momento in cui si perfeziona uno dei fatti, che l’articolo 191 indica come determinanti lo “scioglimento della comunione” (“separazione”, “divorzio”.....), gli “acquisti” fatti dai coniugi, non cadono più in comunione: se Caia, dopo che si é perfezionata la sua “separazione”, compra un appartamento, questo entra direttamente nel suo patrimonio personale.Altra certezza ancora: per determinare i beni in “comunione de residuo”, deve farsi

riferimento al momento in cui si perfeziona uno dei fatti determinanti lo “scioglimento”: pertanto se (in base a ragionamenti che a suo tempo vedremo) la “separazione personale” (artt. 150 e segg.) di Caio e Caia si dovrà considerare avvenuta il 15 ottobre, é al 15 ottobre che dovrà farsi riferimento per stabilire se quei certi frutti erano ancora percipiendi (e quindi restano in proprietà del coniuge) o già percetti (e quindi debbono fare...storia comune con tutti gli altri beni già in comunione).Ma queste da me sopra elencate sono le poche “certezze” che in subiecta materia si possono avere: poi, esistono solo ….dubbi e problemi.Disc. Ebbene dimmi almeno i principali problemi che in subiecta materia nascono.

Doc. Essi sono tre: te li elenco, poi cercherò di esporti la loro migliore soluzione.Primo problema: i coniugi, sui beni già in comunione, dopo lo scioglimento di questa, quali poteri (di disposizione giuridica, di fatto, di godimento) hanno?Secondo problema: in particolare, un coniuge può vendere la quota che gli spetta sui beni in comunione?Terzo problema: i titolari di crediti, sorti nella costanza della “comunione”, una volta che questa si é sciolta, vanno soddisfatti nella misura e con gli stessi limiti di prima (dello scioglimento)?

Disc. Bene, posti i problemi, vediamo quale soluzione va ad essi data.Comincia dal problema dei limiti, all’amministrazione e al godimento dei beni già in comunione, che in coniugi incontrano dopo lo scioglimento di questa.

Doc. Quattro sono le soluzioni (almeno le soluzioni di una certa attendibilità) che si possono dare a tale problema (per quel che riguarda i beni immobili: sui beni mobili dirò in un secondo tempo).Prima soluzione: i limiti ai poteri dei coniugi vanno stabiliti con riferimento alle stesse norme, che disciplinano la “comunione legale dei beni” (norme che pertanto vengono a godere di una sorta di ultrattività).Seconda soluzione: i limiti ai poteri dei coniugi vanno stabiliti con riferimento alle norme, che disciplinano la “comunione ordinaria” (artt.1100 segg).Terza soluzione: bisogna prima di tutto distinguere (in base ai criteri adottati nell’interpretazione dell’articolo 180) tra straordinaria e ordinaria amministrazione: per i limiti che incontrano i coniugi nella straordinaria amministrazione, va fatto riferimento alle norme sulla comunione legale (in particolare all’articolo 184); per i limiti, invece, posti ai coniugi nell’ordinaria amministrazione e nel godimento dei

beni, va fatto riferimento alle norme sulla “comunione ordinaria”.Quarta soluzione: i coniugi provvedono congiuntamente agli atti di amministrazione straordinaria; invece, l’amministrazione ordinaria e il godimento dei beni, spetta al coniuge intestatario (nei registri immobiliari) dei beni (idest, al coniuge che ebbe ad acquistarli).

Disc. A me la quarta soluzione sembrerebbe la più ovvia: é ovvio che agli atti di ordinaria amministrazione (decidere, se far riparare o no il tetto, se far dare o no il bianco alle facciate, se compiere o no questa o quell’opera migliorativa...) sia legittimato il coniuge che, avendo acquistato il bene, ne é intestatario e, quindi, ha la legittima aspettativa di vederselo assegnare in sede di divisione: forse che non é lui quello che ha più interesse a compiere i necessari atti conservativi e migliorativi?Chiaro, poi, che il godimento di un bene (la possibilità di andare ad abitare in quell’appartamento, la possibilità di farsi una passeggiata in quel campo...) debba essere riservato al coniuge, che ha il potere di amministrarlo (se non altro perché, se l’amministrazione spettasse a Caio e il godimento a Caia, il godimento di questa intralcerebbe l’amministrazione di quello: se Caio deve, metti, dare il bianco alle stanze, come fa se nell’appartamento abita Caia?).

Doc. Non posso negare che le ragioni da te addotte sono molto buone; però, hanno un punto debole: vi sono delle situazioni in cui, lungi dall’essere certo o anche probabile, é addirittura molto improbabile che il bene, di cui é intestatario un coniuge, sia attribuito in sede di divisione proprio a quel coniuge. Pensa al caso in cui gli immobili caduti nella comunione sono quattro e tutti quattro comprati dal solo Caio: in tal caso, al momento della divisione, due di tali appartamenti spetteranno di certo a Caia: questa, quindi, ha interesse, non meno di Caio, alla buona amministrazione di tutti gli immobili e ha non meno diritto di Caio di goderne (perché non può sapere quale di tali immobili toccherà a lei e quale a Caio).

Disc. Va bene, capisco: allora si potrebbe optare per la prima soluzione (cioé si applicano le norme sulla comunione legale).

Doc. Questa soluzione presenta l’inconveniente di attribuire l’amministrazione ordinaria e il godimento di tutti i beni a entrambi i coniugi: ciò non crea inconvenienti quando i coniugi vivono in armonia, ma rischia di creare situazioni imbarazzanti e addirittura continui conflitti, quando tra i coniugi é sceso il gelo o, peggio, sono nati l’astio e la sete di vendetta. Mutatis mutandis il discorso può essere ripetuto, per il

caso, l’amministrazione e il godimento, spettassero (come può accadere in caso di scioglimento della comunione per decesso di un coniuge) a un estraneo (agli eredi del coniuge, metti).

Disc. Capisco anche questo: si potrebbe allora optare per la seconda soluzione (cioé, si applicano le norme sulla comunione ordinaria)..

Doc. Questa soluzione però presenta l’inconveniente che viene a privare il coniuge di due possibilità, che, invece, in casi di straordinaria amministrazione possono rivelarsi utili: la possibilità di convalidare eventuali contratti, stipulati dall’altro coniuge senza il suo consenso, ma ciò nonostante ritenuti vantaggiosi (se invece si applicasse l’articolo 1108 i contratti stipulati da un solo coniuge dovrebbero considerarsi, non annullabiili e quindi convalidabili, ma tout court inefficaci), la possibilità di superare eventuali impasse dovute all’ostruzionismo dell’altro coniuge utilizzando la procedura di cui all’articolo 181.

Disc. Non resta allora che accogliere la terza soluzione.

Doc. Che effettivamente mi pare la preferibile, a condizione che si interpretino il quarto comma dell’articolo 1105 e l’articolo 1106 in maniera ….creativa (un’interpretazione “creativa” non può scandalizzare, quando l’interprete é costretto a colmare ….un vuoto assoluto lasciato dal legislatore!).

Disc. E cioè, in che senso?

Doc. Nel senso che il Giudice possa regolamentare l’amministrazione (ordinaria) e il godimento (non dei singoli beni, ma) del complesso dei beni già in comunione legale, se del caso ripartendo tra i coniugi tale amministrazione e tale godimento (erano in comunione solo due beni, A e B? di A é intestario Caio e, di B, Caia? il godimento e l’amministrazione di A spetti a Caio e, di B, a Caia; vi erano invece in comunione quattro beni tutti intestati a Caio? allora l’amministrazione e il godimento dei beni A e B spetti a Caio e, quello di C e D, spetti a Caia).

Disc. Con ciò abbiamo detto sui limiti all’amministrazione e al godimento dei beni immobili; e per quel che riguarda i beni mobili?

Doc. Per questi l’unica soluzione é quella di far riferimento alle norme sulla

comunione ordinaria e...di provvedere quanto prima alla loro divisione. Tenendo presente che é certamente ammissibile una divisione parziale dei beni della comunione: si dividono i beni mobili e non quelli immobili.

Disc. Parliamo ora del secondo dei tre più gravi problemi, che possono porsi dopo lo scioglimento di una comunione: un coniuge può alienare la sua quota?

Doc. Io lo escluderei. L’amministrazione delle cose (già in comunione) richiede una certa confidenza tra le parti, che debbono di comune accordo provvedervi, e, anche, un loro comune ricordo degli atti pregressi di amministrazione (comune ricordo che rivela la sua importanza soprattutto quando si tratti di stabilire, se Caio prelevò delle somme dalla cassa comune, se fu Caio o Caia a comprare quel certo mobile e cose simili – confidenza e comune ricordo che, presumibili tra i coniugi, probabilmente mancherebbero tra un coniuge e un estraneo).

Disc. E ora cerchiamo di risolvere il terzo dei problemi (all’inizio da te segnalati): quello dei limiti con cui i creditori possono soddisfarsi sui beni già in comunione, una volta che questa é stata sciolta; in particolare: essi continuano sempre a godere su tali beni di un diritto di prelazione rispetto ai creditori particolari dei coniugi?

Doc. E perché non dovrebbero? Il mobiliere Fulano, ha fatto credito a Caia, perché sapeva, sì, che il patrimonio personale di questa era gravato dai forti debiti verso Tizio e Sempronio, ma anche che nella comunione dei beni (di Caia e Caio) c’era l’appartamento A, che lo avrebbe ampiamente garantito dato il diritto di prelazione ch’egli aveva rispetto a Tizio e Sempronio: perché mai tale affidamento di Fulano dovrebbe essere frustrato dalla decisione di Caia di separarsi da Caio? Ammettere questo sarebbe come ammettere che un debitore, con un suo atto discrezionale, possa rendere più deteriore la posizione del suo creditore. Assurdo!

Disc. Tanto assurdo non lo trovo, dal momento che un debitore, vendendo i suoi beni, può effettivamente rendere più deteriore la situazione dei suoi creditori.

Doc. Sì, ma costoro, contro i suoi atti di disposizione “maliziosi”, hanno il rimedio dell’azione revocatoria: forse che Fulano, il creditore della comunione, potrebbe chiedere la revoca....della separazione? Eppure questa potrebbe nascere da una volontà frodatoria di Caia e Caio.

Disc. Però, quando Caia e Caio decidessero di dividere i beni (già) in comunione, anche se l’appartamento A fosse assegnato a Caia, Fulano non potrà soddisfarsi su di questo con prelazione sui creditori particolari, Tizio e Sempronio.

Doc. Questo é vero, però egli in tal caso non mancherà di difese contro una possibile volontà frodatoria dei coniugi: avrà l’azione revocatoria e potrà partecipare al giudizio divisorio (art. 1113).

Disc. Va bene, Fulano, anche dopo lo scioglimento della comunione, continuerà ad avere il diritto di prelazione sui beni (già) in comunione; ma conserverà anche il diritto di soddisfarsi fino a metà del suo credito sui beni personali di Caio e Caia?

Doc. Direi proprio di sì.

Disc. Facciamo il caso contrario: i creditori particolari di Caio e di Caia conserveranno, anche dopo lo scioglimento della comunione, la possibilità di soddisfarsi, in via sussidiaria, sui beni (già) in comunione?

Doc. Anche a questa domanda risponderei positivamente: sì, beninteso nei limiti posti dall’articolo 189.

Disc. Abbiamo visto quali sono le conseguenze giuridiche di uno scioglimento della comunione; vediamo ora i fatti che, tale scioglimento, possono determinare.L’articolo 191 fa di tali fatti un elenco: prima domanda: é da considerarsi tassativo?

Doc. Così si sostiene.

Disc. Ora alcune domande utili per chiarire l’esatta portata dei fatti, in tale elenco, indicati.Per cominciare: ogni “mutamento convenzionale del regime patrimoniale” determina lo scioglimento della comunione?

Doc. No, di certo: se Caio e Caia costituiscono un “fondo patrimoniale” (artt. 167 segg.) oppure escludono dalla “comunione” l’azienda gestita in comune (co.2 art. 192), certamente operano un mutamento del regime patrimoniale e lo operano, bada bene, in forza di una convenzione stipulata per atto pubblico (come vuole l’articolo 162); però sarebbe assurdo pensare che ciò determini lo scioglimento della

“comunione”, dal momento che – come risulta dalla complessiva disciplina che il Legislatore fa del regime patrimoniale della famiglia, e, in particolare da ciò che, per l’azienda, si può argomentare dal 2° co. art. 191 – già ab initio due coniugi potrebbero benissimo costituire contestualmente: una comunione, un fondo patrimoniale e un’azienda (cogestita ma non in regime di comunione).In realtà la lettera dell’articolo 191 va interpretata restrittivamente e precisamente nel senso che, il mutamento del regime patrimoniale, determina lo scioglimento della comunione, solo quando con questa é incompatibile, com’é il caso – e per quel che so, il solo caso – che i coniugi decidano di adottare il regime della separazione dei beni.

Disc. Che cosa si intende per “separazione giudiziale dei beni”?

Doc. Per una risposta a tale domanda ti rinvio al commento dell’articolo 193, che farò appena esaurito quello dell’articolo 191.

Disc. Cambiamo allora argomento. Alcuni dei fatti elencati nell’articolo 191 fanno sorgere il dubbio sul momento preciso in cui si verifica lo scioglimento della comunione; ad esempio, questo si ha: al momento in cui é presentata la domanda di annullamento del matrimonio o al momento in cui passa in giudicato la sentenza che, l’annullamento, dichiara; al momento in cui é stata presentata l’istanza di fallimento o in quello in cui il fallimento é dichiarato; al momento in cui é presentato un ricorso per separazione o al momento in cui passa in giudicato la sentenza che la pronuncia?

Doc. Ogni caso da te fatto meriterebbe di essere esaminato partitamente; ciò che la natura del presente lavoro, però, mi impedisce di fare. Mi limiterò, pertanto, a darti il criterio di carattere generale che, a mio parere, si deve tenere presente per trovare la (giusta) soluzione dei casi da te prospettati.

Disc. Qual’é questo criterio generale di cui parli?

Doc. E’ questo: nel determinare il momento in cui si verificano gli effetti dello scioglimento, non si deve partire dall’idea che gli effetti, che incidono sui rapporti tra coniugi, si producano nello stesso momento di quelli, che, invece, incidono nei rapporti tra coniugi e terzi (terzi-creditori, terzi-acquirenti dei beni in comunione....): non é detto: una sfasatura può essere resa ben possibile dal fatto che diverse sono le esigenze da tenere presenti nel primo e nel secondo caso.

Nel primo caso (rapporti tra coniugi), vi é l’esigenza di delimitare al più presto i poteri e le competenze di persone che, prima legate dall’affetto, ora probabilmente si trovano in guerra l’una contro l’altra. Nel secondo caso, vi é l’esigenza della tutela dell’affidamento dei terzi, che consiglia di procrastinare, gli effetti dello scioglimento, al momento in cui il fatto, che lo genera, ha avuto pubblicità e certezza adeguate.

Disc. Facciamo un esempio: questo criterio, applicato alla separazione, che cosa comporterebbe?

Doc. Comporterebbe quella soluzione che il Legislatore, troncando finalmente un’annosa diatriba ha effettivamente dato, con il secondo comma dell’art. 191 (soluzione che, a mio parere, é estensibile, con qualche adattamento, più o meno forte, anche agli altri casi di “scioglimento”).Il secondo comma dell’art.191 recita: “ Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati é comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione”.E’ reso evidente, dall’ultima parte del comma sopra riportato, che lo scioglimento della comunione, mentre produce i suoi effetti per i coniugi al momento dell’autorizzazione a vivere separati o al momento della sottoscrizione del verbale di separazione consensuale, per i terzi li produce solo dal momento in cui la annotazione (dello scioglimento) avviene.

Disc. A questo punto, esaurito l’esame del primo comma dell’articolo 191, dobbiamo passare all’esame del suo terzo comma, che, ricordo, recita: “Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’articolo 177 lo scioglimento della comunione può essere deciso per accordo dei coniugi osservata la forma prevista dall’art. 162”.

Doc. Per la comprensione della disposizione da te letta, va, prima di tutto, ricordato, che “gestione in comunione di un’azienda” significa che, alla gestione dell’azienda, si applicano le norme sulla comunione legale dei beni (in particolare gli artt. 186 e segg.) e non le norme sulla società in nome collettivo (in particolare non le si applica l’art. 2305).

Disc. E ciò in pratica cosa significa?

Doc. Significa, che i creditori della comunione potrebbero aggredire i beni dell’azienda.

Disc. Però, solo in via sussidiaria, come prevede l’articolo 190.

Doc. No, in via diretta, perché, non dimenticarlo, i beni della azienda cogestita sono considerati facenti parte della comunione dei beni.Inoltre tali beni, sia pure in via sussidiaria e nei limiti dell’articolo 189, potrebbero essere aggrediti anche dai creditori particolari dei coniugi.Tutto questo può scoraggiare l’elargizione di credito all’impresa cogestita dai coniugi.Ecco perchè questi potrebbero avere interesse a escludere l’azienda dalla comunione (e quindi dall’applicazione degli artt. 186 e segg.), accettando così che la loro cogestione sia disciplinata dalle norme sulla società in nome collettivo e in particolare dall’articolo 2305, secondo cui “Il creditore particolare del socio finché dura la società non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore”. Quindi, una volta effettuata l’esclusione dell’azienda dalla comunione, i suoi beni potrebbero essere aggrediti solo dai creditori della società.

Disc. Non dai creditori della comunione?

Doc. No, perché essi, ai fini dell’articolo 2305, sarebbero considerati “creditori particolari dei soci”.

Disc. Dobbiamo ora parlare della “separazione giudiziale dei beni”, che é disciplinata dall’art. 193; che passo subito a leggere:“La separazione giudiziale dei beni può essere pronunziata in caso di interdizione o di inabilitazione di uno dei coniugi o di cattiva amministrazione della comunione.Può altresì essere pronunziata quando il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell’altro o della comunione o della famiglia, oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro.La separazione può essere chiesta da uno dei coniugi o dal suo legale rappresentante.

La sentenza che pronunzia la separazione retroagisce al giorno in cui é stata proposta la domanda ed ha l’effetto di instaurare il regime di separazione dei beni regolato nella sezione V del presente capo, salvi i diritti dei terzi.La sentenza é annotata a margine dell’atto di matrimonio e sull’originale delle convenzioni matrimoniali”.Viene naturale, rispetto a questo istituto della “separazione dei beni”, la domanda che ora ti pongo (preceduta da una breve premessa a suo chiarimento): premesso che la “separazione giudiziale dei beni” ipso facto determina, per l’art. 191, lo scioglimento della comunione, e che pertanto é da ritenersi che, se il Legislatore non dà direttamente e semplicemente a Caia il diritto di provocare (in caso di interdizione e inabilitazione, in caso di mala gestio di Caio, ecc.) lo scioglimento della comunione, é perchè la “separazione personale” dà qualcosa di più rispetto al semplice scioglimento della comunione, tanto premesso vengo alla domanda vera e propria, che é questa: in che consiste questo “qualcosa di più”, che dà la separazione rispetto allo “scioglimento”?

Doc. Consiste nell’instaurazione tra i coniugi del regime della separazione dei beni.

Disc. Ma anche per il semplice effetto dello scioglimento della comunione, si instaurerebbe tra Caia e Caio tale regime: scioltasi la comunione, infatti, i beni che Caia e Caio acquistano, cadono nel loro patrimonio ed essi possono disporne come meglio loro aggrada.

Doc. Però, metti che Caia e Caio avessero acquistato durante il matrimonio, lei, i beni A, B,C, e, lui, i beni D e F: non é, lo abbiamo visto, che con lo scioglimento della comunione, i beni A,B,C tornano nella libera disponibilità di Caia e i beni D e F, nella libera disponibilità di Caio. Ora invece, con la separazione giudiziale accade proprio questo: che i beni in comunione ritornano nei patrimoni di chi li aveva acquistati.

Disc. Quindi ottenere la “separazione giudiziale dei beni” rappresenta un bel vantaggio per Caia (in genere, per il coniuge che ha la sfortuna di essersi sposato con chi é pasticcione o dissipatore)!

Doc. Non sempre é così. Metti che Caio sia, sì, un intralcio per l’amministrazione dei beni in comunione, ma sia anche un indefesso lavoratore, che mette in banca mese dopo mese dei bei bigliettoni, che, al momento in “comunione de residuo” (lett.c art.

177), domani, quando questa si scioglierà, verranno a cadere nel patrimonio comune: se Caia chiede la separazione ora, anno di grazia 2012, a cadere nel patrimonio comune saranno solo i soldi messi in banca da Caio fino al 2012, se invece ha pazienza e aspetta metti fino al 2022, nel patrimonio comune cadranno anche i futuri soldi, che Caio avrà messo in banca dal 2012 al 2022: é evidente che a Caia in un tal caso converrebbe chiedere, non la separazione giudiziale dei beni, ma l’esclusione (ai sensi dell’art. 183) di Caio dall’amministrazione.

Disc. Quindi la “separazione giudiziale dei beni” ha dei “pro” e dei “contro”.

Doc. Sì, ed é per questo che il legislatore la subordina alla richiesta della persona più idonea a ben soppesare questi “pro” e questi “contro”: il coniuge (e il suo legale rappresentante).

Disc. Tutto questo per quel che riguarda gli effetti della “separazione giudiziale dei beni”, ma che c’è da dire riguardo ai presupposti della sua applicazione?

Doc. Ai fini di operare una semplificazione, possiamo dividere tali presupposti in quattro categorie.Prima: presupposti attinenti alla incapacità legale dell’altro coniuge (casi dell’interdizione e dell’inabilitazione). Essi giustificano la separazione in quanto costringono Caia (in genere, il coniuge “capace”) a co-amministrare con un estraneo: il tutore o il curatore del coniuge incapace.Seconda (categoria): mala gestio di Caio (in genere, dell’altro coniuge) dei beni della comunione. Intuitivo perchè tale fatto giustifichi la separazione.Terza (categoria): disordine (sia pure incolpevole) o mala gestio di Caio (in genere dell’altro coniuge), che pone in pericolo, la famiglia, gli interessi di Caia, il patrimonio comune (non si dimentichi, a quest’ultimo proposito, che i creditori di Caio possono, per l’art. 189, soddisfarsi sui beni comuni fino alla metà, cosa per cui, se tali beni fossero stati in prevalenza acquistati da Caia e i debiti di Caio superassero la metà del loro valore, Caia ben potrebbe dire, che Caio, con i suoi debiti, le vien mangiando i beni da lei acquistati). Perché tale situazione giustifichi la separazione é anche qui intuitivoQuarta (categoria): Caio non dà il contributo da lui dovuto per le spese della famiglia. In tal caso - se i beni della comunione dessero frutti e in prevalenza per gli acquisti fatti da Caia - si avrebbe che Caio, non solo non pagherebbe il dovuto a Caia, ma si arricchirebbe con i frutti dei suoi beni: ciò sarebbe ingiusto e inammissibile e a ciò

potrebbe porre rimedio la “separazione”.

Lezione XIII: La divisione.

Disc. Parliamo ora della divisione. Come si opera?

Doc. Si opera in base alle norme che disciplinano la divisione ereditaria integrate dagli articoli 194-197 e dall’articolo 192.

Disc. Cominciamo allora ad esaminare l’articolo 194, che recita:“La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti eguali l’attivo e il passivo.Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge.”

Doc. La divisione dell’attivo in parti eguali, prevista dal primo comma, é il corollario dell’ideologia, che ispira il regime della comunione: partendo dal presupposto, che i beni, che compongono questa, sono il frutto del lavoro paritario dei due coniugi, é logico, che essi siano divisi paritariamente tra di loro.Quanto alla divisione in parti eguali del passivo, essa si giustifica col fatto chequesto é frutto delle decisioni comuni dei coniugi

Disc. Questo mi pare possa valere per le obbligazioni nate dagli atti di amministrazione straordinaria, non per quelle originate da atti di amministrazione ordinaria.

Doc. No, anche per quelle, dato che, se é vero che gli atti di ordinaria amministrazione ordinaria sono validi, anche se compiuti da un solo coniuge, é anche vero, che, almeno nella fisiologia della vita coniugale, devono essere conformi a quello “indirizzo della vita familiare”, che, per l’art. 144, i coniugi debbono concordemente decidere.

Disc. Però, alla divisione paritaria dei beni della comunione disposta dal primo comma, apporta un’eccezione il secondo: se, infatti, dei beni si fanno due porzioni perfettamente eguali: la porzione A e la porzione B; ma, poi, la porzione A la si grava di un usufrutto, il risultato é che...le porzioni non sono più eguali.

Doc. E’ così, e, per evitare l’ingiustizia in ciò implicita, la norma va interpretata restrittivamente; e cioé nel senso che il giudice, può, sì, gravare la porzione, metti di Caio, di un usufrutto a favore di Caia (a cui sono affidati i figli), ma solo se e in quanto, il presumibile ricavato di tale usufrutto, non supera il contributo dovuto, ai sensi dell’articolo 148, da Caio, per il mantenimento dei figli.E, infatti, non c’é ragione valida, che giustifichi, un’interpretazione delle norme sulla comunione, che le porti a derogare ai principi espressi dagli articoli 143 e segg.

Disc. Passo a dar lettura dell’articolo 195: “Nella divisione i coniugi o i loro eredi hanno diritto di prelevare i beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione. In mancanza di prova contraria si presume che i beni mobili facciano parte della comunione”

Doc. La prima parte dell’articolo ci dice, che debbono essere estrapolati, dal compendio dei beni soggetti a divisione, i beni di cui alle lettere a) e b) dell’articolo 179. Il che é perfettamente logico. Meno logico, anzi del tutto illogico, che non vengano estrapolati da tale compendio anche gli altri beni, che lo stesso articolo, nelle lettere seguenti c), d), e), f), definisce come “personali”. Ma questa é una illogicità dovuta semplicemente a una disattenzione del Legislatore, che, nel formulare la norma dell’articolo 195, ha pedissequamente ricopiato la norma prima vigente in argomento, senza considerare che questa non contemplava, tra i beni da escludere dalla divisione, i “beni di uso strettamente personale” “i beni che servono all’esercizio della professione” eccetera, per la semplice ragione che illo tempore tali beni non erano considerati “personali”. Tocca quindi all’interprete rimediare alla disattenzione del Legislatore con un’interpretazione estensiva della norma.

Disc. E veniamo all’ultima parte dell’articolo in commento: essa mi sembra in perfetta sintonia con il secondo comma dell’articolo 219, che abbiamo già incontrato parlando del regime di separazione dei beni.

Doc. E’ vero, e puoi aggiungere che, come in regime di comunione si applica una norma eguale a quella del secondo comma (dell’art.219), non c’é ragione che non si applichi una regola eguale a quella del primo comma (sempre dell’art. 219): di conseguenza, si deve ritenere che, pure i coniugi in comunione (e non in regime di separazione) dei beni, possano vincere la presunzione, di appartenenza dei beni

mobili alla comunione, “con ogni mezzo di prova” (prove testimoniali, presunzioni...).

Disc. Passo alla lettura dell’articolo 196:“Se non si trovano i beni mobili che il coniuge o i suoi eredi hanno diritto di prelevare a norma dell’articolo precedente essi possono ripeterne il valore, provandone l’ammontare anche per notorietà, salvo che la mancanza di quei beni sia dovuta a consumazione per uso o perimento o per altra causa non imputabile all’altro coniuge”.

Doc. E’ naturale che i coniugi, durante il periodo della loro convivenza, tengano nei luoghi condivisi (abitazione principale, casa di campagna....) anche dei beni di loro personale proprietà. Ora l’articolo 196 va interpretato nel senso che, se un coniuge prova la presenza (nel periodo della convivenza) di un suo bene A in uno di tali “luoghi condivisi”, e questo più “non si trova”, può, provandone il valore, “ripeterne l’ammontare”, a meno che l’altra parte (idest, l’altro coniuge o i suoi eredi) provi che“la mancanza del bene é dovuta a sua consumazione per uso “ecc.

Disc. Articolo 197:“Il prelevamento autorizzato dagli articoli precedenti non può farsi a pregiudizio di terzi, qualora la proprietà individuale dei beni non risulti da atto avente data certa.. E’ fatto salvo al coniuge o ai suoi eredi il diritto di regresso sui beni della comunione spettanti all’altro coniuge nonché sugli altri beni di lui”.

Doc. Abbiamo visto che, per i precedenti articoli, un coniuge può prelevare quei beni di cui con “ogni mezzo” prova la personale proprietà. E’ chiaro però che, la diminuzione del compendio dei beni da dividere, può giocare a sfavore di terzi, in particolare dei creditori della comunione e dei creditori dell’altro coniuge; ed é altresì chiaro, che é ben ipotizzabile una combine tra i due coniugi (o tra un coniuge e gli eredi dell’altro) per...lasciare a bocca asciutta tali terzi e in particolare tali creditori. Proprio tenendo conto di ciò, il legislatore, nella prima parte dell’articolo in commento, stabilisce che, quella che può ritenersi prova valida per giustificare, nei confronti dell’altro coniuge o dei suoi coeredi, il prelievo di un bene, tale non può più ritenersi nei confronti dei “terzi”: nei confronti di costoro, la prova “della proprietà individuale”, va data con “atto avente data certa”.

Disc. Basta che un atto abbia data certa perché esso venga a costituire la prova

pretesa dal Legislatore?

Doc. No, di certo: il riconoscimento di Caio (il marito) che un dato bene é di proprietà di Caia (la moglie), anche se “con data certa”, ben difficilmente potrà costituire una prova valida nei confronti dei terzi. La “data certa” semplicemente prova con certezza che l’atto é stato redatto in un dato anno e in un dato giorno: per aversi la prova pretesa dal legislatore, occorre, in più, che il contenuto dell’atto provi la proprietà personale del bene e che, il tempo in cui é stato redatto, escluda l’ipotesi di una sua redazione a fini deceptatorii.

Disc. Però, in base al disposto della prima parte dell’articolo, potrà aversi la strana situazione che, uno stesso bene A, vada considerato di proprietà personale di Caio, nei confronti di Caia, e di proprietà comune, nei confronti dei terzi.

Doc. Di questa situazione si fa carico il legislatore nella seconda parte dell’articolo, riconoscendo a favore del coniuge “espropriato” dal terzo, un diritto di regresso nei confronti dell’altro coniuge o dei suoi eredi (diritto da realizzarsi sui beni della comunione o dell’altro coniuge).

Disc. Ci resta ancora ad commentare un articolo: l’art. 192, che recita:“Ciascuno dei coniugi é tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 186. E’ tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’art. 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia.Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune.I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente.Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito. In caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili”.

Disc. Il primo comma fa l’ipotesi di un prelievo fatto da un coniuge “dal patrimonio comune”: ma é possibile che Caio prelevi lecitamente delle somme (o addirittura dei

beni) dalla comunione?

Doc. Senza il consenso di Caia, lo escluderei; col consenso di questa, invece, senz’altro lo riterrei possibile: del resto, evidentemente, il primo comma si riferisce proprio all’ipotesi di un prelievo “lecito” (se fosse illecito, l’obbligo del rimborso sarebbe ovvio e ovvio sarebbe che avvenisse immediatamente e non, come dispone il quarto comma, “al momento dello scioglimento della comunione”).L’ipotesi che si può fare – esclusa quella di una “donazione”, che sarebbe senz’altro da ritenersi inammissibile e invalida (salvo le piccole donazioni che il costume consente) - é quella di un “mutuo” dato a Caio con i beni del patrimonio familiare. Ma per questo non si deve pensare al contratto di mutuo disciplinato negli artt. 1813 e segg.

Disc. Perché? forse ritieni che non sia valido un tale tipo di contratto.?

Doc. Al contrario, lo ritengo perfettamente valido (nonostante l’anomalia di Caia che compie sola soletta un atto di straordinaria amministrazione e avendo come controparte...l’altro coniuge). E non solo valido, ma in molti casi rispondente all’interesse familiare: Caio ha bisogno di un milione per superare la crisi della azienda, il cui fallimento porterebbe rovina, non solo a lui, ma a tutta la famiglia: perché costringerlo a chiedere i soldi a chi lo strozzerebbe con interessi esosi, quando il milione si trova inutilizzato nel patrimonio comune.? Ed é, proprio per non frapporre ostacoli alla stipulazione di un tale contratto, che non ritengo di ricomprenderlo nella previsione del primo comma: infatti, se così fosse, se tale previsione si riferisse a un vero contratto di mutuo, si dovrebbe anche ritenere che, all’obbligo di restituzione della somma che ne deriva, si applichi il quarto comma, cioé che tale restituzione sia prorogata al momento dello scioglimento della comunione. Ora, Caia, potrebbe ben accettare di dare il milione a Caio, ma solo a patto che tale somma ritornasse nella cassa comune in un dato, sicuro termine (“Se i soldi me li restituisci entro dicembre, va bene, ti do i soldi, se no, no”). Impedire quindi l’apposizione di un termine al contratto di mutuo, finirebbe quindi per impedire un contratto molte volte utile alla famiglia.

Disc. Allora a che altro caso si riferirebbe il primo comma parlando di “prelievo dal patrimonio comune”?

Doc. Al caso di un mutuo dato a Caio con i beni comuni in “via bonaria”, meglio non

saprei esprimermi. Insomma, a Caia, che vede richiedersi un “prestito” da Caio, bisogna dare due possibilità: quella di dire “sì” in via bonaria (e in tal caso i soldi li rivedrà....al momento dello scioglimento della comunione) e quella di dire “Sì, ma tu ti impegni a restituire i soldi entro la data tot” (e in tal caso non si applicherà il quarto comma e Caio dovrà restituire effettivamente i soldi nel termine pattuito.).

Disc. Passiamo all’esame del secondo comma.

Doc. I beni del patrimonio familiare possono, diciamo così, subire un salasso - per l’esecuzione di un credito, che non é nei riguardi della comunione, ma del singolo coniuge, mettiamo di Caio - in due diversi casi: perché la obbligazione relativa é stata assunta da Caio nell’interesse suo particolare (é il caso di Caio che abbia comprato dei beni per la sua azienda da Sempronio, che pone poi in esecuzione il suo credito) e perché la obbligazione relativa é stata assunta da Caio nell’interesse della famiglia.In tutti e due i casi, Caio, in via di principio, dovrà rimborsare alla “comunione” “il valore dei beni” espropriati dal suo creditore; però tale principio é soggetto nel secondo caso a una possibile deroga: se, l’assunzione dell’obbligazione, si é rivelata, nonostante tutto, “utile” per la famiglia, Caio, nei limiti di tale utilità, non dovrà effettuare il rimborso.

Disc. Ma, comunque, per il rimborso quanto tempo avrebbe Caio?

Doc. Avrebbe tempo fino allo scioglimento della comunione. Te lo dice il quarto comma.

Disc. Parliamo del terzo comma.

Doc. Rappresenta un po’ il caso simmetrico del primo comma. Parlando di questo abbiamo visto l’ipotesi di un coniuge, che chiede soldi alla “famiglia”; nel terzo comma si fa, al contrario, l’ipotesi di un coniuge che aiuta con i suoi soldi la famiglia. E ad esso, quindi, si possono applicare, mutatis mutandis, le osservazioni fatte a proposito del primo comma: a Caio, che “presta “soldi alla “famiglia”, si devono dare due possibilità: di dare tali soldi in “via bonaria” (e in tal caso i soldi gli verranno restituiti solo al momento dello scioglimento della comunione) o di darli prefiggendo un preciso termine per la loro restituzione (e in tal caso i soldi gli dovranno essere restituiti in tale termine)..

Disc. Metti che Caio gratifichi la sua famiglia, non con i suoi soldi, ma con la sua opera: egli, provetto muratore, nelle sue vacanze ha addirittura sopraelevato di un piano la casetta di campagna: può farsi rimborsare la fatica e le ore perse?

Doc. Io riterrei di no; perché, la valutazione e traduzione in moneta del suo lavoro, graverebbe troppo le (già di solito complicate) operazioni divisionali; specie quando anche l’altro coniuge abbia a sua volta fatto del lavoro per la famiglia (Caia, che, mentre il marito sul tetto metteva le tegole, sgobbava a lavare i pavimenti) e bisognerebbe soppesare e comparare lavori tra di loro eterogenei.

Disc. Eccoci arrivati al quinto e al sesto comma, ma per essi il commento lo faccio io. Procrastinare il pagamento dei rimborsi e delle restituzioni é utile per permettere reciproche compensazioni. Il diritto di prelievo in natura, poi, corrisponde a un elementare principio dell’economia (evitando vendite di beni sottocosto per poi ricomprarne altri della stessa specie...a prezzo di mercato).

Doc. Dieci e lode.

Sezione quinta: Comunione convenzionale dei beni – Fondo patrimoniale

Lezione XIV: La comunione convenzionale dei beni.

Doc.Ci poniamo adesso nel caso che i coniugi abbiano adottato il regime della comunione convenzionale dei beni – regime disciplinato nella sezione quarta (artt. 210 segg.)

Disc. Quindi debbo pensare che i due coniugi, Caio e Caia – così, come nel caso avessero optato per il regime di separazione dei beni, avrebbero dovuto dichiarare tale loro scelta espressamente (v. co. 2 art. 162) - così, anche nell’ipotesi da te fatta abbiano dichiarato expressis verbis la loro adesione al regime di comunione convenzionale.

Doc. No, affatto: il regime, che noi ora dobbiamo esaminare, non nasce ex verbis, ma ex facto: i coniugi, col semplice fatto che, al momento dell’instaurazione del regime della comunione legale o anche successivamente, vi hanno operata una deroga, si

ritrovano in pieno regime di comunione convenzionale.

Disc. Quindi tutto senza formalità.

Doc.No, le formalità vi sono, perché le deroghe al regime di comunione legale vanno pur sempre formulate, ai sensi dell’art. 162, per atto pubblico e, nel formularle, i coniugi debbono astenersi, ai sensi dell’art. 161, da un riferimento generico a una legge o agli usi (come abbiamo meglio spiegato in una precedente lezione). Tutto questo risulta dal primo comma dell’articolo 210, che recita: “I coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, modificare il regime della comunione legale dei beni purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell’articolo 1612”.

Disc. Puoi dare qualche esempio di convenzione diretta a modificare la comunione legale?

Doc. I coniugi, al momento di costituire la comunione legale (degli acquisti) o anche, nulla cambia, dopo averla già costituita, decidono di far entrare nella comunione, non solo gli acquisti, ma, in tutto o in parte, i beni già in loro personale proprietà: Caio e Caia, al momento di costituire la comunione legale, hanno la proprietà, l’uno, degli immobili A e B e, l’altro, dell’immobile C, ebbene decidono che sia A che B e C cadano nella comunione.

Disc. Ma Caio e Caia potrebbero decidere di conferire in comunione solo parte dei loro beni?

Doc. Certamente. Ad esempio Caio potrebbe decidere di conferire solo A e non B.Similmente Caio e Caia potrebbero convenire di modificare la normativa sulla comunione, nel senso che entri in questa solo una parte degli acquisti di Caio – ben s’intende una parte ben individuata e delimitata, ad esempio: gli acquisiti di immobili siti in territorio argentino.

Disc. Se i coniugi, possono escludere dalla comunione beni in fieri, a maggior ragione penso che possano escludere beni già in facto caduti nella comunione.

Doc. A maggior ragione, proprio no, perché anzi, lo abbiamo visto commentando il capoverso dell’art.191, la esclusione di un bene già in comunione presenta

particolarità, che la rendono discussa e discutibile.

Disc. Fai te allora un altro esempio di valida deroga alla comunione legale.

Doc. Caio e Caia convengono, in deroga alla lettera f) dell’articolo 179, che entrino in comunione i beni acquistati in seguito al trasferimento di “beni personali”.Però, debbo avvisarti, che non manca chi autorevolmente esclude la validità di tale deroga, per quel che riguarda i beni di cui alle lettere c), d), e); e questo per timore che venga così eluso il divieto, di cui subito parleremo, di far cadere in comunione tali beni (Caio e Caia vendono, metti un bene rientrante nella categoria c) e con i soldi ricavati acquistano un bene che.......fanno poi cadere in comunione).

Disc. Ma la convenzione con cui Caio e Caia stabiliscono, in deroga alla lettera b dell’articolo 179, che i beni, lasciati morendo in successione dallo zio Beppe, entreranno in comunione, questa convenzione sarà senz’altro ritenuta pacificamente valida.

Doc. E invece, no: non manca chi tutto al contrario sostiene, e direi con valide ragioni, che depongano per la sua invalidità, l’articolo 771 (che fa divieto di donazione delle cose future) e l’articolo 458 (che fa divieto dei patti successori).

Disc. Tu hai detto che, le convenzioni in deroga a una comunione legale, debbono essere stipulate per atto pubblico; ma i coniugi non possono prendere tra di loro accordi, che incidono, sì, sui poteri, diritti, obblighi loro derivanti dal regime di comunione, ma che non é per loro necessario rivestire della forma dell’atto pubblico: accordi insomma non rientranti nella categoria delle convenzioni di cui all’articolo 162?

Disc.Io ritengo di sì. E per averne un esempio, pensa al caso di Caia, che dà mandato irrevocabile a Caio di vendere un suo bene immobile (mandato perfettamente valido,se limitato nel tempo, abbiamo visto studiando l’articolo 217): forse che tale mandato non incide sul potere altrimenti spettante, per l’articolo 180, a Caia di impedire la vendita negando il proprio consenso? Pensa, ancora, al caso, che Caio e Caia diano in locazione a uno di loro un immobile caduto in comunione: con ciò Caia non viene privata del potere di godere e di amministrare la res locata? Chiaro che sì.

Disc. Ma i coniugi possono stipulare un contratto di locazione con uno di loro?

Doc. Chiaro che sì; se non vuoi cadere nell’assurdo di costringere un coniuge, che, metti, ha bisogno di prendere in locazione un immobile, a pagare i soldi del canone locatizio a un terzo – quei soldi che sarebbero i benvenuti nella cassa familiare – pur essendoci tra i beni in comunione un appartamento fortunatamente sfitto.

Disc. Veniamo al dunque: con che criterio si può distinguere quando un accordo tra coniugi va considerato come una deroga al regime convenzionale, per cui va fatto per atto pubblico, e quando, no?

Doc. Il criterio é questo: se l’accordo ha carattere programmatico (ad esempio, suona: “I beni che Caio acquisterà in Argentina ecc”) va considerato come una convenzione in deroga, negli altri casi, no.

Disc. Ma il Legislatore ha fatto divieto di alcune convenzioni?

Doc. Sì, lo ha fatto nel secondo e terzo comma sempre dell’articolo 210.

Disc. Cominciamo dall’esame del secondo comma, che recita: “I beni indicati alle lettere c), d), e) dell’articolo 179 non possono essere compresi nella comunione convenzionale”.

Doc. Perché il legislatore vieti di rendere comuni i beni, di cui alla lettera c (beni strettamente personali) e alla lettera d (beni che servono all’esercizio della professione), é intuitivo: egli teme che, la caduta in comunione di tali beni, venga a soffocare e deprimere la personalità dei coniugi. Proprio tenendo presente la ratio di tale divieto, noi riteniamo che dovrebbe considerarsi invalida, non solo la convenzione, che intendesse rendere comuni tali beni, ma anche la convenzione, che facesse totalmente cadere in comunione il provento dell’attività professionale (lato sensu intesa) di un coniuge, senza permettere a questi di trattenerne una parte per destinarla all’esercizio della professione stessa: se al pittore si nega la possibilità di spendere di sua libera iniziativa, cioé senza necessità di richiedere il consenso del coniuge, per l’acquisto dei colori e del pennello, si soffoca la sua creatività e gli si toglie la passione e il gusto del suo lavoro, non meno che lo si costringesse a chiedere il consenso del coniuge per disporre dei suoi colori e del suo pennello.

Disc. Mentre é comprensibile il divieto relativo alle lettere c) e d), mi pare assurdo il

divieto di cui alla lettera e): ma come, tu, Legislatore, ritieni valida la convenzione, che fa cadere in comunione l’appartamento di Caio, e, poi, ritieni invalida quella che si limita a stabilire, che cada in comunione il risarcimento dovuto per i danni causati da un terzo all’appartamento di Caio? Questo a me pare assurdo!

Doc. Tanto é assurdo, che va escluso che la norma così vada interpretata: certamente Caio e Caia potranno stabilire, che cada in comunione il risarcimento dei danni alle cose; non potranno invece stabilire che cada in comunione il risarcimento dei danni alla persona.

Disc. A questo punto possiamo passare all’esame del terzo comma dell’articolo 210, che recita: “Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale”.

Doc. Quindi, se Caio e Caia convengono di conferire in comunione i beni A e B, già in loro proprietà al momento della costituzione della comunione legale, essi, limitatamente a tali beni A e B, possono derogare alle norme relative all’amministrazione e all’uguaglianza delle quote – ad esempio stabilendo, che, al momento dello scioglimento della comunione (metti per una separazione o un “divorzio”), tali beni non cadano in comproprietà al 50 %, ma ritornino totalmente nel patrimonio da cui erano venuti, oppure che la loro amministrazione spetti al coniuge, che prima ne era il proprietario esclusivo (il bene A era di proprietà esclusiva di Caia? ebbene toccherà a Caia amministrarlo).Non sarebbe invece valida la convenzione, che stabilisse che, i beni caduti in comunione in seguito al loro acquisto fatto da Caia (quindi in applicazione dell’articolo 167), tornino, allo scioglimento della comunione, nel patrimonio di Caia o siano da Caia amministrati.

Disc. Non resta ora che parlare dell’art. 211, che recita: “I beni della comunione rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio limitatamente al valore dei beni di proprietà del coniuge stesso prima del matrimonio che, in base a convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, sono entrati a far parte della comunione dei beni”.

Doc. Poniamo che Caio abbia due appartamenti, A e B, del valore complessivo di 200, e un debito verso Fulano, metti, di trecento; e che sia sposato con Caia, che nulla

possiede, ma che...... in compenso ha un debito di 100 verso Sempronio. Dopo sposati (o anche al momento di sposarsi, questo poco importa), Caio e Caia decidono, non solo di far regolare i loro rapporti dal regime della comunione legale(degli acquisti), ma di conferire nella comunione tutti i loro beni; cioé, Caio, i due appartamenti, e, Caia....nulla. Guardiamo al risultato che si avrebbe per il creditore di Caio, se non esistesse l’articolo 211: disastroso, il suo credito prima era garantito da un patrimonio dal valore di 200, ora egli, che, non si dimentichi, non é creditore della comunione, può, sì, soddisfarsi sui beni di questa, ma, (vedi l’art. 189) “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”, cioé, nella fattispecie esemplificata, fino a 100.

Disc. Ho capito, il disposto dell’articolo 211 ha lo scopo di rimediare a tale ingiustizia e soprattutto di bloccare le possibili manovre furbette di Caio, che, non rassegnato a far pignorare tutti i suoi beni dal suo creditore Fulano, potrebbe pensare di salvarne la metà versandoli nella comunione: grazie all’articolo 211 ciò non potrebbe essere più da lui fatto: anche se versati nella comunione gli immobili A e B potrebbero sempre essere aggrediti dal creditore Fulano.

Doc. Attenzione, ciò non é esatto: se ad esempio Caio e Caia decidessero, una volta costituita la comunione (convenzionale) anche sui beni A e B, di venderli, Fulano (salvo sempre la possibilità di agire in revocatoria, se di tale azione esistono i presupposti) non potrebbe più agire esecutivamente su tali beni. Infatti l’articolo, non recita “I beni di proprietà del coniuge prima del matrimonio rispondono ecc.ecc.”, bensì “I beni della comunione rispondono rispondono....limitatamente al valore dei beni di proprietà” eccetera.

Disc. Allora?

Doc. Allora il creditore Fulano potrà rivalersi (“limitatamente al valore dei beni di proprietà” eccetera) sui beni della comunione....se ve ne sono.

Disc.Non capisco questo limite, posto alla realizzazione dei crediti esistenti prima della costituzione della comunione convenzionale: perché a Fulano é permesso di realizzare il suo credito solo nei limiti del valore di A e B?

Doc. Questo limite si spiega con la volontà del nostro Legislatore di impedire che la costituzione della comunione (convenzionale) ridondi in un arricchimento per Fulano

(e in un danno per i creditori dell’altro coniuge!): come la costituzione della comunione non deve essere fonte di danno per Fulano, neanche deve essere fonte per lui di lucro.

Disc. Quindi?

Doc. Quindi, il limite posto dal legislatore, ha il significato di chiarire, che Fulano non può soddisfarsi sui beni dell’altro coniuge; come invece, se fosse veramente un creditore della comunione, gli darebbe la possibilità l’articolo 190.

Disc. Ma, se Fulano non va considerato creditore della comunione, ciò significa che, se, metti, il suo debitore Caio fa fortuna, si arricchisce e arricchendosi impingua il patrimonio in comune con altri beni,- cosa per cui, prima, erano in comunione solo gli immobili A e B, ora, sono in comunione gli immobili A, B, C, D - il creditore Fulano potrà, sì, soddisfarsi sui beni in comunione, ma sempre fino al valore dei beni A e B, cioé fino al valore di duecento, mentre il suo credito é di trecento: ciò mi pare ingiusto.

Doc. E ingiusto infatti lo é.

Disc. Un’ultima domanda, ma che mi pare di un certo valore sistematico, sul regime della comunione convenzionale: Caio e Caia potrebbero nel costituirlo escludere che cadano in comunione tutti i futuri acquisti dei coniugi?

Doc. Io ritengo che, sì, due coniugi possano stipulare una convenzione matrimoniale con cui, nel mentre conferiscono in comunione i beni da loro già acquisiti, escludono che possano cadere in comunione i futuri acquisti. Infatti, nulla impedisce di immaginare un regime, in cui il patrimonio comune é dato solo dai beni già esistenti al momento della sua costituzione: metti Caio, che é proprietario di A, si sposa con Caia, che è proprietaria di B, e entrambi conferiscono in comunione i loro beni A e B: essi non escludono la comunione degli acquisti, ma di fatto nuovi acquisti non ne fanno: il risultato é un regime, perfettamente funzionante senza inconvenienti, in cui il patrimonio comune é dato solo da beni “vecchi”.

Disc. Ma il legislatore, negli articoli 210 e 211, sembra partire sempre dal presupposto, che il regime della comunione convenzionale si innesti in una comunione legale degli acquisti.

Doc. Può anche essere; ma a me, che il regime, costituito da Caia e Caio, conferendo i beni al momento in loro proprietà ma escludendo gli acquisti, possa fregiarsi del titolo di comunione convenzionale, o no, poco interessa, a me interessa solo sapere se questo regime ha diritto di cittadinanza nel nostro Ordinamento, e la risposta per me é, sì.

Disc. Ma tale regime sarebbe disciplinato dalle norme della comunione legale e convenzionale?

Doc. La risposta é ancora, sì.

Lezione XV:Il fondo patrimoniale.

Doc.Cominciamo, com’é naturale, dall’esame del primo degli articoli della sezione seconda dedicata alla disciplina del “Fondo ptrimoniale”, l’articolo 167.

Disc.Ne dò lettura:“Ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia.La costituzione del fondo patrimoniale per atto tra vivi, effettuata dal terzo, si perfeziona con l’accettazione dei coniugi. L’accettazione può essere fatta con atto pubblico posteriore.La costituzione può essere fatta anche durante il matrimonio.I titoli di credito devono essere vincolati rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo.”.

Doc. La disposizione del primo comma - da cui risulta che il fondo patrimoniale é dato da un bene o da un insieme di beni destinati “a far fronte ai bisogni della famiglia”- va integrata dalla disposizione dell’articolo 170, da cui si argomenta che tali beni sono esecutibili solo per debiti contratti al fine di soddisfare “i bisogni della famiglia”. Dalla coordinazione delle due disposizione risulta dunque che il “fondo patrimoniale” é inquadrabile nei c.d. “patrimoni separati o di destinazione”.

Disc. Puoi dirmi più chiaramente quando si ha un “patrimonio di destinazione” o

“separato”?

Doc. Si ha un patrimonio separato o di destinazione quando una persona, che può anche essere un privato qualsiasi, il signor Fulano, con un suo atto unilaterale di volontà fa deroga al disposto dell’articolo 2740 - che come tu sai assoggetta tutti i beni del debitore al soddisfacimento di tutti i suoi debiti - e più precisamente ne fa deroga nel senso, che uno o più di tali beni vengono esclusi e protetti dalla aggressione dei creditori – né più né meno che fossero stati alienati a terzi – salvo che si tratti di creditori che siano tali in relazione a debiti nati per il soddisfacimento di determinati bisogni o la realizzazione di determinati scopi.

Disc. Un comodo mezzo per sfuggire ai propri creditori! il signor Rossi é oberato di debiti, teme che i suoi creditori gli mangino tutto il suo patrimonio e che fa? destina i suoi beni alla soddisfazione dei bisogni della sua famiglia (famiglia di cui lui é.. .il principalissimo e unico componente): da quel momento egli può darsi a ogni più spericolata attività nel mondo degli affari, sicuro che comunque egli avrà sempre da procurarsi il pane e il companatico e gli altri piaceri, che la vita può dare.

Doc. Effettivamente i “patrimoni di destinazione” possono essere un facile mezzo per sfuggire alle proprie responsabilità debitorie. E a ciò non fa eccezione il “fondo patrimoniale”, tanto é vero che, la maggior parte delle cause che lo riguardano, nascono da azioni revocatorie, intentate da creditori contro chi aveva pensato bene di utilizzare la costituzione di un “fondo” per sfuggire ai suoi debiti.Tuttavia il legislatore é consapevole degli abusi, che possono farsi dell’istituto che stiamo esaminando, e prende le sue brave contromisure: il fondo non può essere costituito per soddisfare i bisogni di una famiglia qualsiasi, ma di una famiglia nata da un legittimo matrimonio.

Disc. Quindi Marietto e Mariolina, che convivono more uxorio, non possono costituire un “fondo”?

Doc. No, perché, se si ammettesse ciò, si creerebbe il pericolo che due persone si mettano a convivere (o fingano di convivere), al fine di potersi creare un “fondo patrimoniale”, e di mettersi così.... al riparo dei loro creditori; mentre é ben più difficile che due persone, a tale scopo, decidano di passare sotto le forche caudine del matrimonio, sottomettendosi ai relativi, gravosi obblighi.

Disc. Ma l’essere i beni destinati a soddisfare i bisogni solo di una famiglia nata da un legittimo matrimonio, non é l’unico limite che il Legislatore pone alla costituzione di un “fondo”: altro limite riguarda la natura dei beni, che lo possono costituire: essi possono essere dati solo da “beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito” (titoli di credito che debbono essere – come risulta dall’ultimo comma - “vincolati rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo”): quale il perché di questo secondo limite?

Doc. Tale limite nasce dal fatto che, come vedremo subito, la disponibilità dei beni appartenenti al “fondo”, é limitata; cosa per cui si rende necessario rendere nota al pubblico tale loro appartenenza e conseguente limitazione (oltre che nei modi di cui all’ultimo comma, per quel che riguarda i titoli) con adeguate trascrizioni nei registri immobiliari– trascrizioni che sono ovviamente possibili solo per i beni, mobili e immobili, indicati nella norma.

Disc. Passiamo all’esame dell’articolo 168, che recita:“La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione.I frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia.L’amministrazione dei beni costituenti il fondo patrimoniale é regolata dalle norme relative all’amministrazione della comunione legale”.

Doc. Dunque, dal primo comma, risulta, che, chi costituisce il fondo – sia esso un “terzo”, un singolo coniuge o siano entrambi i coniugi – potrebbe riservare a se stesso la proprietà dei beni, che lo costituiscono, o addirittura attribuirla a un altro terzo. In un tal caso, evidentemente, tali “beni”, non sarebbero dati da dei diritti di proprietà, ma da dei diritti di usufrutto. Ciò che, peraltro, non verrebbe a nuocere alla funzionalità dell’istituto: infatti, per il secondo comma, solo i “frutti” di tali beni possono essere “impiegati per i bisogni della famiglia” (non il ricavato della loro vendita – e anche quando questa eccezionalmente avviene, é da ritenere, che il suo ricavato non possa essere speso per la soddisfazione dei “bisogni”, ma solo messo a frutto). Naturalmente però il termine “frutto” va inteso in senso lato e quindi riferito, non solo ai frutti naturali, ma anche a quelli civili e allo stesso semplice godimento dei beni (caso dell’appartamento destinato ad abitazione della famiglia).

Disc. Che cosa significa, che l’amministrazione dei “beni” “é regolata dalle norme

relative all’amministrazione della comunione legale”?

Doc. Significa, che, anche all’amministrazione del fondo, si applicheranno gli artt. 180 e seguenti: gli atti di straordinaria amministrazione dovranno essere compiuti congiuntamente dai coniugi, un coniuge potrà chiedere l’esclusione dell’altro dall’amministrazione e così via.

Disc. Ma, chi costituisce il fondo, può riservare a uno solo dei coniugi la sua amministrazione?

Doc. A questa tua domanda, si dà prevalentemente una risposta negativa, in considerazione, che ciò verrebbe a ledere quel principio di parità dei coniugi, affermato dal primo comma dell’articolo 143 e ribadito, proprio per quel che attiene all’amministrazione, dal terzo comma dell’articolo 210.

Disc.Passiamo all’articolo 169, che recita:“Se non é stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente”.

Doc. Quindi, il fondo patrimoniale e la comunione dei beni, pur accomunati dalle norme che regolano la loro amministrazione, presentano un’interessante diversità, per quel che riguarda la disponibilità dei beni, quando essa consiste nella alienazione della proprietà o nella costituzione di un diritto reale, e vi sono dei figli: in tale ipotesi, nel caso del fondo, occorre l’autorizzazione del giudice, nel caso della comunione, invece, basta il consenso di entrambi i coniugi – anche se, bada, anche nel regime della comunione i beni sono destinati, oltre che ai bisogni della famiglia in genere, a quelli della “istruzione ed educazione dei figli” (vedi lettera c. art. 186).E’ una diversità che, dotata di una certa logica quando a costituire il fondo é un terzo o anche il singolo coniuge, ne manca mi pare totalmente quando sono entrambi i coniugi.Una incongruenza, forse più importante, della norma, é che essa pone limiti alla disponibilità dei beni da parte di chi, peraltro, ha, come i coniugi hanno, piena libertà nell’assumere obbligazioni a carico di tali beni e, quindi, potrebbe, tanto gravarli di debiti, da comportarne la dissoluzione: é assurdo, voglio dire, che Caio e Caia non

possano alienare il fondo A che vale 100, e possano però contrarre un’obbligazione per duecento che, posta in esecuzione dal creditore, determinerà la vendita del bene A.Tale incongruenza, non esisteva nella normativa relativa al “patrimonio familiare”, l’istituto, con funzioni analoghe a quelle del fondo, esistente nel nostro codice prima della riforma del 975: infatti la disciplina del “patrimonio” non permetteva l’esecuzione sui beni (come invece, vedremo subito, fa l’articolo 170), ma solo sui frutti.

Disc. Pertanto passo subito alla lettura di questo articolo, che recita:“L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

Doc. Già si é detto sulla (anomala) possibilità dei creditori di esecutare, non solo i frutti, ma anche i beni.Interessante che la normativa sul fondo non faccia quella distinzione tra creditori particolari e no, che fanno gli articoli 189 e 190 sulla comunione: i creditori particolari di un coniuge non potranno mai aggredire i beni del fondo, anche quando i beni di questo siano stati dati dal coniuge-debitore. Al contrario i creditori del fondo potranno sempre aggredire i patrimoni personali dei coniugi.

Disc. Su chi peserà l’onere di provare che il creditore sapeva che il debito era stato “contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia”?

Doc. Naturalmente a chi si oppone all’esecuzione, dato che non si può imporre al creditore esecutante la prova di un fatto negativo.

Disc. Passiamo ora all’articolo 171, che recita:“La destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.Se vi sono figli minori il fondo dura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tal caso il giudice può dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per l’amministrazione del fondo.Considerate le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, il giudice può altresì attribuire ai figli in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo.

Se vi sono figli, si applicano le disposizioni sullo scioglimento della comunione legale”.

Doc. Balza subito agli occhi come le cause di estinzione del fondo siano molto meno numerose delle cause di scioglimento della comunione; in particolare, il legislatore non ha ritenuto di annoverare tra le cause di estinzione, la “separazione” e il “divorzio” (nonostante che, in entrambi i casi, il presumibile attrito tra i coniugi, possa rendere per loro difficile una cogestione del fondo): la cosa, accettabile in definitiva quando ci sono dei figli (ai cui bisogni é giusto comunque provvedere con i frutti del fondo), diventa discutibile quando il fondo é funzionale solo alla soddisfazione delle esigenze dei coniugi. Vero é che si ammette, direi pacificamente, che il fondo possa essere estinto per concorde volontà di chi lo ha costituito, per cui, se fosse stato costituito dai coniugi, nulla a loro impedirebbe di estinguerlo.Anche la disposizione che consente al giudice di attribuire ai figli “in godimento o in proprietà una quota dei beni del fondo” (ma, sembra di capire, solo ad estinzione avvenuta del fondo), accettabile quando il fondo é stato costituito da un terzo, diventa discutibile quando é stato costituito da uno o entrambi i coniugi.

Sezione sesta: Rapporti tra genitori e figli

Lezione XVI: Premessa

Doc. Ti sei mai domandato perché ogni specie di animali protegge i nati della propria e non di altra specie animale: cioé le scimmie adulte proteggono le scimmie neonate, i cerbiatti adulti proteggono i cerbiatti neonati e non, ad esempio, i leoni o le pantere neonate?

Disc. Ma é ovvio: perché se i cerbiatti, le scimmie allevassero un leone, una pantera questi, una volta diventati adulti, li divorerebbero, mentre il piccolo cerbiatto, la piccola scimmia una volta fatti adulti perpetueranno la specie dei cerbiatti e delle scimmie generando degli esseri aventi le caratteristiche fisiche e psicologiche delle scimmie e dei cerbiatti.

Doc. Notare questo è importante, perché anche la specie umana come le altre specie animali ha in sé l’istinto di perpetuarsi attraverso altri esseri che hanno le proprie caratteristiche (idest, le caratteristiche umane); di più, ogni etnia, cioé ogni gruppo

formato da uomini aventi caratteristiche fisiche e psicologiche comuni, tende a perpetuarsi nel tempo attraverso uomini che abbiano le caratteristiche degli altri membri dell’etnia.Ora tale istinto, tale esigenza comporta che qualcuno si prenda cura dei membri dell’etnia quando, ancora troppo piccoli, sono da soli incapaci di procurarsi il cibo, le vesti, necessari per sopravvivere, l’istruzione necessaria per guadagnarsi il pane da adulti e, a sua volta, ciò comporta, che il Legislatore dica chi deve essere questo “qualcuno” (a cui va fatto carico dell’obbligo di allevare, proteggere, istruire i nuovi nati).Secondo te, chi dovrebbe essere?

Disc. Secondo me questo “qualcuno” dovrebbe essere la Comunità stessa, lo Stato: forse non é Lui che ha interesse che le culle non rimangano vuote, che nuove generazioni, forti, sane, capaci, vengano a sostituire le anziane ormai incapaci di provvedere alla difesa e al progresso della Comunità?

Doc. Senza dubbio é così, e anche la nostra Costituzione dimostra così di pensarla scrivendo nell’ultimo comma dell’articolo 31 la solenne affermazione: “(La Repubblica) protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.Però il fatto che uno Stato si preoccupi di proteggere l’infanzia e la gioventù, non significa che egli ritenga opportuno provvedere direttamente con suoi funzionari e impiegati ai bisogni dell’infanzia e della gioventù. Certo si potrebbe anche immaginare questo: e cioé che, appena nato, il piccolo cittadino venga affidato alle cure di funzionari e impiegati dello Stato che, prima lo svezzano, poi lo educano e istruiscono facendo di lui un membro utile alla Comunità. Ma si può anche pensare aun sistema alternativo: il bimbo appena nato viene affidato a un privato o a dei privati a che provvedano ai suoi bisogni. Tu per quale dei due sistemi opteresti?

Disc. A pensarci bene io opterei per il secondo; e precisamente affiderei il compito di accudire al neonato a colui o a coloro che hanno voluto dargli la vita. Questo per almeno tre motivi:Primo, perché, essendo l’atto generativo..... piacevole, le persone sarebbero portate a (irresponsabilmente) reiterarlo con gran frequenza (con il rischio di gravare la Comunità di un peso per lei insostenibile) se non fossero gravate del compito (duro e costoso) di allevare poi il futuro nato.Secondo (motivo): perché é da presumersi che chi ha voluto il neonato voglia anche

provvedere ad allevarlo con quell’affetto e calore umano che invece ben difficilmente potrebbero pensarsi in chi svolge un compito solo per mercede.Terzo (motivo): perché un’educazione data da un funzionario dello Stato rischierebbe di produrre cittadini, che, educati in un unico modo, sarebbero nel loro agire animati da un “pensiero unico” (quello dello Stato!), mentre invece la Società per progredire ha bisogno di quella varietà di idee che porta a conflitti stimolanti il progresso.

Doc. La tua sembrerebbe una soluzione ragionevole, ma troverebbe, nella sua attuazione, un primo ostacolo nei casi in cui le persone che hanno voluta la procreazione, non si riducono ai due genitori biologici; così come può avvenire nei casi (per ora abbastanza rari, ma che tendono rapidamente ad aumentare) di “surrogazione di maternità” e di “fecondazione eterologa”.Pensa a questo caso di fecondazione eterologa: il neonato Beppino, é stato partorito da Filomena moglie del signor Beppe, che però é stata fecondata, non dal seme di questi, ma dal seme di certo Salvatore.Pensa a questo caso di surrogazione di maternità: il neonato Beppino é stato partorito da Filomena I, con l’ovulo fecondato da Salvatore e dato da Filomena II, su commissione di Filomena III e del suo coniuge signor Beppe.E’ chiaro che nel primo esempio le persone che hanno voluta la procreazione sono tre (i coniugi, Filomena e Beppe + Salvatore) e nel secondo esempio sono addirittura cinque (i coniugi Filomena e Beppe + la donna che ha accettato di surrogarsi nel parto + la donna che ha donato l’ovulo + l’uomo che l’ha fecondato).In tali casi, chi gravare, tra le persone che hanno voluta la procreazione, del compito di accudire al procreato?

Disc. Effettivamente debbo riconoscere che – mentre nei casi di procreazione voluta da una donna, che ha accettato di ingravidarsi e di dare il suo ovulo, e da un uomo che ha accettato di dare il suo seme, il criterio da me proposto (provvedano al neonato le persone che l’hanno voluto, cioé i genitori biologici) si dimostra congruo – nei casi da te ora proposti si rivela del tutto incongruo: Salvatore, Filomena I, Filomena II agiscono per mercede, nessun affetto portano verso il neonato, sarebbe di certo una cattiva scelta affidare a loro il compito di allevarlo. Ma se é così, come risolvere il problema? che dice la Costituzione?

Doc. La Costituzione fu scritta nel ‘48 quando i problemi, di cui stiamo parlando, non sussistevano perché le tecniche di ingegneria genetica non avevano ancora avuto lo sviluppo attuale. Quindi é naturale che al Legislatore costituente sembrasse di aver

risolta ogni questione, stabilendo, in primo luogo, che, non lo Stato, ma i “genitori”, con tutta evidenza e semplicità identificati nell’uomo che aveva dato il seme e nella donna che aveva dato l’ovulo, dovevano provvedere ai “figli” (comma I art.30 “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere,istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”), e, in secondo luogo, che l’intervento dello Stato fosse solo sussidiario (comma II sempre dell’art. 30 “Nei casi di incapacità dei genitori la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”).

Disc. Però il problema, che la Costituzione non poteva avvertire, ora c’é ed é bene avvertito: quindi una soluzione bisogna dargliela.

Doc. Certamente, sì. Ed io riterrei che la soluzione dovrebbe essere diversa caso per caso.

Disc. Dà almeno la soluzione che riterresti più giusta nei casi sopra esemplificati.

Doc. Nel caso esemplificato per primo (fecondazione eterologa di donna coniugata), io riterrei che l’obbligo di allevare il neonato dovrebbe ricadere sul signor Beppe, il marito; a cui pertanto dovrebbe essere attribuita la qualifica di “genitore” (“genitore giuridico” mentre “genitore biologico” sarebbe il donatore del seme, Salvatore). Con ciò verrebbe adottata la stessa soluzione che, come vedremo poi meglio, si avrebbe se Filomena (la moglie di Beppe), per procreare il figlio, fosse andata a letto con Salvatore. Nessun dubbio, infatti, che in tal caso il neonato sarebbe considerato figlio di Beppe, a meno che questi ne domandasse e ne ottenesse il disconoscimento.

Disc. E in tal caso si porrebbe il problema se il marito, che ha consentito alla fecondazione eterologa, possa o no disconoscere il neonato.

Doc. Problema che andrebbe risolto nello stesso modo in cui si risolve l’analogo problema che si presenterebbe se il marito, dopo aver consentito all’adulterio della moglie finalizzato alla procreazione di un figlio, volesse poi questo disconoscere.

Disc. Veniamo al caso della maternità surrogata: Filomena I, moglie di Beppe, partorisce un figlio con l’ovulo donato da Filomena II.Doc. A me sembra che, così come si é ritenuto, nel caso precedente, figlio di Beppe e Filomena I il neonato procreato con il seme di Salvatore, cioè con un gameto estraneo ai coniugi, così si dovrebbe ritenere figlio di Filomena e Beppe il neonato procreato

con l’ovulo di Filomena II, ancorché sia procreato utilizzando un gameto estraneo alla coppia. Sempre salva l’azione di disconoscimento se e in quanto ammissibile.

Disc. Veniamo a un caso più difficile: i coniugi sono sempre Filomena I e Beppe, la variante é che l’ovulo viene impiantato nell’utero di Filomena II ed é lei che partorisce il neonato.

Doc. Certamente in questo caso Beppe non si potrebbe considerare in nessun modo genitore (giuridico) del neonato; per le stesse ragioni che Filomena I (la moglie) non potrebbe considerarsi genitrice del neonato procreato da Beppe versando il suo seme nel ventre di Filomena II.

Disc. Ciò é abbastanza ovvio; ma il vero problema é: si deve considerare genitrice Filomena II, che ha partorito, oppure la donna (poco importa a questo punto che questa sia la moglie di Beppe o no) che ha dato l’ovulo?

Doc. Io ritengo che il diritto/dovere di provvedere all’allevamento del neonato vada attribuito in questo caso alla donna che ha dato l’ovulo (in altri termini sia da considerarsi lei la “genitrice”, naturalmente “naturale” non legittima del neonato); questo in quanto é da ritenersi che sia più portata ad accudire con affetto al neonato la donna che vede rispecchiate in lui le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, che la donna unicamente a lui legata dall’esperienza, sia pure importantissima, del parto. Ma qui ti debbo avvertire che, mentre dandoti le due precedenti soluzioni io non ho fatto altro che aderire all’opinione maggioritaria degli Studiosi, dandoti questa terza soluzione me ne discosto, dato che la maggior parte degli studiosi ritiene che debba considerarsi genitrice la donna che ha partorito.

Disc. Fino a qui non abbiamo fatto altro che risolvere il problema dell’individuazione dei privati a cui va attribuito il diritto/ dovere di accudire al neonato: essi sono i “genitori biologici” salvo alcuni casi, da considerarsi eccezionali, che si verificano in ipotesi di maternità surrogata e fecondazione artificiale (casi in cui il “genitore giuridico”, cioé la persona a cui é attribuito il diritto/ dovere di allevare il nuovo nato, può essere diversa dal “genitore biologico”). Però un secondo problema si presenta al Legislatore (e, di riflesso, a noi): i “genitori”di Beppino (alias, coloro che debbono accudire all’allevamento di Beppino) sono obbligati ad offrire a lui quanto basta per tenerlo in buona salute e per procurargli un’istruzione che gli permetta da adulto di procacciarsi pane e companatico oppure debbono dargli un tenore di vita superiore, se

beninteso, le loro ricchezze (superiori alla media) permettono di dare loro un tale tenore di vita (superiore alla media)? In altre parole il signor Agnelli può dire di aver adempiuto al suo dovere di genitore semplicemente dando al figlio lo stesso tenore di vita che ha il figlio del suo autista o deve dargli il tenore di vita che permettono le sostanze della famiglia Agnelli? Tu che soluzione daresti a questo problema?

Disc. Io partirei dalla considerazione che, per la nostra Costituzione (art. 3) “tutti icittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione....di condizioni personali e sociali”.

Doc. Quindi?

Disc.Quindi riterrei che il signor Agnelli ha solo l’obbligo di far frequentare a suo figlio le stesse scuole che frequenta il figlio del suo autista. Il legislatore entrerebbe in contraddizione con la Costituzione se procurasse - sia pure indirettamente cioé facendone obbligo al suo genitore - al figlio di Agnelli un tenore di vita in più, e soprattutto una chance in più di emergere nella società, di quelli di cui gode il figlio dell’autista di Agnelli.

Doc. E non posso negare che questa soluzione ha senza dubbio della logica. Però cozza contro un fatto.

Disc. Quale?

Doc. Il fatto che - come ogni etnia sente l’esigenza di perpetuare se stessa facendo in modo che i nuovi nati, diventati adulti, siano in grado di difenderla e di generare altri esseri con le caratteristiche fisiche e psicologiche dei membri dell’etnia - così ogni gruppo familiare (almeno di un certo livello) sente l’esigenza di far sì che i suoi nuovi nati si assicurino nella società quella preminenza, che permetterà loro la migliore difesa del gruppo familiare stesso (e quindi la conservazione nel tempo delle caratteristiche soprattutto psicologiche, che si manifestano in quel particolare stile di vita, in quella particolare weltanschauung, che é propria dei membri del gruppo familiare stesso). Ed é proprio la soddisfazione di tale esigenza che impone al signor Agnelli l’obbligo di allevare i propri figli col tenore di vita della famiglia Agnelli, soprattutto di dar loro quell’istruzione che permetterà loro di collocarsi ai vertici della società (come avvocati, come medici, come ingegneri...) e pertanto nella situazione migliore per difendere la “famiglia”.

Disc. Insomma, l’obbligo imposto ai genitori di allevare i figli in proporzione alle loro sostanze, corrisponde unicamente a un interesse della famiglia, e non della società.

Doc. Certamente: l’interesse della Società non é che i figli stupidoni e scansafatiche di Paperon dei Paperoni abbiano più chances nella vita che i figli intelligenti e laboriosi di Bacciccia: l’interesse della società é solo che i più dotati dei neonati abbiano più chances di arrivare ai vertici della società che i meno dotati.Disc. Ma come la Società (l’etnia) ha l’interesse, come ora hai detto, di concentrare e, per così dire, investire le sue potenzialità economiche soprattutto in quei suoi giovani membri che, più dotati, danno anche più garanzia di saperla, una volta diventati adulti, meglio tutelare (idest, di saper meglio conservare nel tempo le migliori caratteristiche sia fisiche sia soprattutto psicologiche dei suoi membri), anche la famiglia ha l’esigenza di concentrare le sue potenzialità economiche per valorizzare al massimo quei suoi membri che danno più garanzie, una volta diventati adulti, di tutelare e continuare nel tempo le caratteristiche sia fisiche sia soprattutto psicologiche dei suoi membri: il loro stile di vita, la loro weltanschauung. Cosa per cui, se Paperon dei Paperoni ha avuto due figli, l’uno da Maria Cristina, da lui scelta come legittima consorte in ragione delle sue preclare virtù e facendo conto che queste vengano poi trasmesse ai figli, l’altro dalla Rosina, da lui scelta unicamente per le sue belle forme, l’interesse della famiglia chiaramente é che il trattamento migliore (le scuole migliori, le migliori chances di entrare nella buona società....) sia dato al figlio, presumibilmente più dotato, di Cristina, la moglie legittima, e che al figlio, presumibilmente meno dotato, della Rosina siano riservate solo le briciole.

Doc. Quindi, se ho ben capito, tu riterresti che - dal momento che il legislatore dimostra di voler tutelare l’interesse della famiglia (imponendo ai genitori di fare un trattamento ai figli in proporzione delle sostanze famigliari) – Egli anche imponga ad Ariberto di dare ad Arturo, da lui concepito con una donna scelta come moglie perché in possesso di quelle doti di carattere capaci di assicurargli una figliolanza ispirata alle sue stesse idealità, un trattamento diverso e migliore di quello dato a Marietto da lui concepito con una donna scelta solo per il piacere.No, non é così: la nostra legge parifica, praticamente al cento per cento, il trattamento che Ariberto deve ad Arturo a quello che deve dare a Marietto.

Disc. E perché questo?

Doc. Perché - così si dice e si sostiene - “che cosa ne può il povero Marietto se non é stato concepito nel grembo della legittima consorte di Ariberto?

Disc. Non mi pare questo un modo di ragionare molto profondo; perché allora si potrebbe dire: “Che cosa ne può Marietto se é stato procreato dall’autista di Paperon dei Paperoni e non da Paperon dei Paperoni?” e seguendo tale logica si dovrebbe riservare a Marietto lo stesso trattamento riservato al figlio di Paperon dei Paperoni.

Doc. E infatti non vi é molta logica nei “ragionamenti” di chi ritiene giusto parificare il trattamento dei figli nati nel matrimonio a quelli nati fuori del matrimonio. Vi é sola la subdola volontà di realizzare il “grande ideale”: quello di una umanità ridotta a un grande formicaio. Ideale con cui in effetti poco si concilierebbe la privilegiata tutela dei figli nati nel matrimonio. dato che tale privilegiata tutela in fondo mira alla salvaguardia della parte migliore dell’umanità.

Lezione XVII: L’individuazione dei genitori biologici di un nuovo nato.

Doc. Quando viene alla luce un bambino, chiamiamolo Mariolino, lo Stato (preferibilmente) affida il compito di accudirlo e allevarlo ai suoi genitori biologici, chiamiamoli Marietto e Mariuccia. E abbiamo visto il perché: perché lo Stato pensa che la comunanza di sangue, che questi hanno con il nuovo nato, li spingerà a dare il meglio di sé, perché egli nasca sano e intelligente e, pertanto, diventi un utile membro della Comunità.

Disc. Sì, ma come fa lo Stato a individuare i genitori biologici di Mariolino? La cosa non mi sembra molto facile.

Doc. Non é per nulla facile; ma é molto facilitata nell’ipotesi in cui Mariolino sia nato o concepito nel matrimonio, rispetto all’ipotesi in cui egli sia nato fuori del matrimonio.

Disc. Comincia allora a dirmi della prima ipotesi.

Doc. Va bene, e comincerò a dirti come in questa prima ipotesi il Legislatore giunge all’individuazione di quel genitore, la cui individuazione é intuitivamente la più difficile, il padre. Ebbene a tanto il Legislatore giunge costruendo due presunzioni,

che sono, poi, le presunzioni fondamentali in subiecta materia, la presunzione di paternità e la presunzione di concepimento durante il matrimonio.La presunzione di paternità é enunciata dall’articolo 231, che recita: “Il marito é padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.La presunzione di concepimento durante il matrimonio é enunciata dall’articolo 231, che recita: “Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.- La presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”.

Disc. Una prima domanda: perché il legislatore prende trecento giorni come limite massimo per ritenere avvenuto il concepimento durante il matrimonio (facendoli decorrere dall’annullamento del matrimonio, dalla pronuncia di separazione ecc.)?

Doc. Perché é massima di esperienza che é molto improbabile che un bambino nasca trecento giorni dopo il concepimento (o prima di 180 giorni da questo).

Disc. Improbabile, ma non impossibile.

Doc. Certamente, sì: non impossibile. E proprio per questo il Legislatore dà la possibilità (non a tutti, ma solo) al figlio e ai genitori (e agli eredi di questi) di provare (usando, di solito, prove ematologiche e genetiche) che che il figlio “è stato concepito durante il matrimonio”. Ciò risulta dall’articolo 234, che recita: “Ciascuno dei coniugi e i loro eredi possono provare che il figlio, nato dopo i trecento giorni dall’annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio é stato concepito durante il matrimonio. - Possono analogamente provare il concepimento durante la convivenza quando il figlio sia nato dopo trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data di comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente. - In ogni caso il figlio può provare di essere stato concepito durante il matrimonio”.

Disc. Ma Mariolino potrà provare di essere stato concepito da Marieto (per un ritorno di fiamma della sua passione amorosa verso la moglie) in un occasionale incontro avvenuto dieci anni dopo la separazione?

Doc. Lo potrà, sì, ma solo ai fini di essere dichiarato figlio (di Marieto) nato fuori del matrimonio; e nei limiti in cui tale dichiarazione é ammessa (limiti che vedremo parlando della azione di dichiarazione della paternità e della maternità). E, mutatis mutandis, lo stesso può ripetersi per i genitori: Marieto potrà certamente riconoscere come suo il figlio da lui concepito con la moglie dopo la separazione, ma incontrando gli stessi limiti che un qualsiasi terzo incontrerebbe qualora volesse riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio (in primis, la necessità dell’’assenso del figlio o del consenso della moglie, vedi melius l’articolo 250).

Disc. Abbiamo visto quando Mariolino può considerarsi concepito durante il matrimonio, ora vediamo quando può considerarsi nato durante il matrimonio.

Doc. Se tu ti limiti a leggere gli articoli 231 e 232, devi concludere che Mariolino va considerato nato durante il matrimonio, se é nato nel periodo intercorrente dalla data della celebrazione del matrimonio a quella del suo scioglimento (annullamento...). Però questa sarebbe una conclusione assurda perché renderebbe assurda la presunzione di cui all’articolo 231 (che vuole il marito padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio): ma come, Marietto (il marito della madre) deve presumersi padre di Mariolino anche se questi é nato dieci anni dopo che Marietto e Mariuccia si sono separati e hanno formate due nuove famiglie (sia pure di solofatto)?! Assurdo! E’ più logico pensare (in caso che sia intervenuta una pronuncia di separazione ecc.) che Marietto sia considerato nato nel matrimonio solo se é nato nel periodo intercorrente tra la data della celebrazione del matrimonio e la data in cui é stata pronunciata la separazione (….).Noi non dobbiamo mai dimenticare che le presunzioni costruite dal Legislatore per individuare il padre del neonato, sono, sì, presunzioni “fragili”, specie in tempi di lassismo nei costumi sessuali, però debbono pur sempre avere una base razionale. Ora la massima di esperienza che dà base di razionalità alla presunzione che il figlio nato “durante il matrimonio”sia figlio del marito della madre, é (salvo quanto osserveremo per il caso del figlio concepito prima della celebrazione del matrimonio, ma nato dopo di questa) che la maggior parte delle donne osservi l’obbligo di fedeltà assunto con il matrimonio. Quindi tale presunzione cessa di essere valida una volta che viene meno tale obbligo di fedeltà, il che si verifica al momento della pronuncia

di separazione – come del resto riconosce implicitamente il Legislatore nel secondo comma dell’articolo 232 già riportato.

Disc. Ma allora non dovresti neanche ritenere valida tale presunzione (che il figlio sia stato concepito dal marito della madre) nel caso che Mariolino nasca prima che siano passati 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio, dato che allora evidentemente (in base alla massima d’esperienza che abbiamo già avuto occasione di indicare) sarebbe stato concepito prima della celebrazione del matrimonio, quando pertanto la madre, Mariuccia, non era ancora legata da un vincolo di fedeltà verso Marietto.

Doc. Verissimo. E infatti in tal caso, la presunzione che Mariolino sia stato concepito da Marietto, non si basa sulla massima d’esperienza che vuole le donne osservanti dell’obbligo di fedeltà (obbligo che, nel caso, come tu giustamente osservi, non esisterebbe), ma sulla massima d’esperienza, basta sulla mentalità ancor oggi vigente, che ben difficilmente un uomo accetterebbe di sposare una donna, resa gravida da un terzo proprio pochi mesi prima che egli la sposi.

Disc. Per tirare una prima conclusione, mi pare che si possa dire che il Legislatore per ritenere Mariolino figlio di Marietto e Mariuccia pretende la prova dei seguenti elementi: 1) che Mariolino é stato partorito da Mariuccia; 2) che Mariuccia era legalmente coniugata con Marietto; 3) che Mariolino é nato dopo la celebrazione del matrimonio; 4) che Mairolino non é nato dopo che erano passati trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (o dall’annullamento del matrimonio...o dalla pronuncia di separazione, eccetera).Mi pare anche di poter dire che la pietra angolare di tutto questo edificio probatorio é la prova che Mariuccia sia la donna che ha partorito Mariolino.

Doc. Sostanzialmente quel che tu dici é vero (salvo quanto diremo sull’efficacia probatoria dell’atto di nascita e del possesso di stato, la cui esistenza viene a semplificare le prove che tu hai elencato). Sopratutto é vero che pietra angolare dell’edificio probatorio, come tu l’hai chiamato, é la prova che Mariuccia sia effettivamente la madre di Mariolino.

Disc. E’ questa una prova difficile?

Doc. Per nulla. Nei paesi e nelle piccole città, dove tutti si conoscono, quando una donna diventa gravida tutti lo notano e quando questa donna si sgrava e

contestualmente viene alla vita un bambino, tutti facilmente giungono alla conclusione che il bambino é figlio di tale donna. Insomma il fatto che Mariuccia abbia partorito, più che provato, diventa notorio: un fatto che difficilmente Mariolina può nascondere. Per questo gli antichi romani dicevano che Mater semper certa est.Nelle metropoli moderne, poi, in cui c’é l’uso di partorire in cliniche e ospedali, l’accertamento della maternità é ancora più facile. Infatti la struttura sanitaria pretende, al momento in cui la donna entra per partorire, le sue generalità e, al momento in cui partorisce, l’assistente di sala, compila un verbale di avvenuto parto, che viene poi, a cura di solito della stessa struttura sanitaria, fatto pervenire all’ufficiale dello stato civile.

Disc. Ma la puerpera deve dichiarare il padre del figlio da lei partorito?

Doc. La puerpera normalmente dichiarerà (vero o falso che sia) che il neonato é figlio di suo marito. Però potrebbe indicare come padre anche un terzo o dire che non vuole indicare il padre o dire addirittura che essa stessa non vuole risultare come madre.

Disc. Ma, non indicando il marito come padre del figlio da lei partorito, Mariuccia non viene a privare Mariolino dello status, che gli spetterebbe, di figlio “nato nel matrimonio”? non viene a commettere il delitto di alterazione di stato (art. 567 C.P.)?

Doc. No, se effettivamente il neonato non é stato concepito dal marito. Non si può mica costringere la puerpera a dichiarare quello che non é!

Disc. Ma se l’ufficiale di stato civile, in conseguenza di quanto detto dalla partoriente, da Mariuccia, indica Mariolino come figlio, non del marito, ma di Pinco Pallino o “di ignoti”, che valore potrà darsi alla presunzione di paternità di cui all’articolo 231?

Doc. Chiaramente non le si potrà dare nessun valore. Per cui si può dire che, fino a quando l’atto di nascita non é formato, basta la dichiarazione della madre per escludere la paternità del marito e con ciò stesso per dare spazio al riconoscimento, che potrebbe fare Pinco Pallino, di Mariolino come proprio figlio.. Questo però, ripeto, fino a che l’atto di nascita non é formato: una volta che sarà formato la dichiarazione di Mariuccia non basterà più a escludere la paternità del marito (vedi u.c. art. 243bis).

Disc. Ma l’atto di nascita é una prova attendibile?

Doc. Senz’altro, sì. Quindi esso é un documento di grande rilevanza. E aggiungo che, come rilevante é tale documento, rilevante é anche di per sé la sua redazione:infatti, come abbiamo visto, prima di questa, hanno valore certe dichiarazioni che, dopo di questa, non potrebbero, con eguale valore, farsi. Se Casanova, che ha avuto una relazione extraconiugale con Mariuccia, dichiara all’ufficiale di stato civile prima che l’atto di nascita sia formato che Mariolino é suo figlio e che come tale lo vuole riconoscere, l’ufficiale di stato civile deve accettare tale dichiarazione, con il risultato che Mariolino acquisirà lo status di figlio di Casanova; ma se Casanova aspetta troppo e si trova di fronte a un atto di nascita che indica come padre il marito di Mariolina, non può più fare nulla, deve rinunciare al riconoscimento: infatti l’articolo 253 - articolo che rivisiteremo parlando del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio - dichiara inammissibile “un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”.

Disc. Ma l’atto di nascita può venire a mancare (penso a un bombardamento, a un terremoto, che distrugge l’ufficio di stato civile) e allora?

Doc. La legge é previdente: per il tal caso stabilisce che la prova della filiazione sia data dal c.d. “possesso di stato”, la cui nozione ti é data dall’art. 237; tutto questo risulta dall’art. 236, che recita: “La filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile. - Basta, in mancanza di questo titolo, il possesso continuo dello stato di figlio”.

Disc. Ma l’atto di nascita ammette la prova contraria?

Doc. Sì, ma a condizione che esso (idest, l’atto di nascita) non sia conforme al “possesso continuo di stato”: Marieto, non solo é indicato nell’atto di nascita come padre di Mariolino, ma ha allevato già da più mesi questo trattandolo come un figlio: in tale situazione non sarebbe ammissibile, in via di principio, una prova in contrasto con l’atto di nascita; questo per il disposto dell’art. 238, che (sotto la rubrica “Irreclamabilità di uno stato di figlio contrario a quello attribuito dall’atto di nascita”) recita: ”Salvo quanto disposto dagli articoli 128, 234, 239, 240 e 244, nessuno può reclamare uno stato contrario a quello che gli attribuiscono l’atto di nascita di figlio e il possesso di stato conforme all’atto stesso”. Tutto questo in via di principio, perché poi, in realtà, a tale principio il legislatore apporta tali e tante eccezioni da far ritenere

che la prova contro l’atto di nascita sia sempre ammessa, salvo casi eccezionali.

Disc. A che si riferiscono gli articoli che vengono indicati, dalla norma sopra citata, come eccezioni al principio della irreclamabilità contro un atto di nascita conforme al possesso di stato?

Doc. L’art. 239 si riferisce all’azione di reclamo, l’articolo 244 all’azione di disconoscimento, l’articolo 240 a quella di contestazione, l’articolo 128 all’azione di contestazione, dello stato di figlio nato nel matrimonio, che abbiano i figli incestuosi dopo la dichiarazione di nullità del matrimonio stesso, infine l’art.234 all’azione per far dichiarare concepito, dal marito della madre, il figlio nato dopo i 340 giorni (dello scioglimento del matrimonio....).

Disc. Qualche parola su tali azioni, al meno sulle principali. Comincia dall’azione di reclamo.

Doc. Il principio in materia di azione di reclamo (ed é un principio in perfetta sintonia con il disposto dell’articolo 253, che noi già conosciamo) é che a una persona può essere attribuito uno status, diverso da quello risultante dall’atto di nascita, solo quando questo precedente status é stato rimosso.

Disc. Perché questo?

Doc. Evidentemente per evitare che a una persona vengano attribuiti due statusdiversi, ad esempio due padri diversi.

Disc. Quindi, chi vuole reclamare uno status “diverso”, deve, prima di instaurare l’azione di reclamo, promuovere un’azione per rimuovere il precedente status.

Doc. Di regola dovrebbe essere così; e che tale sia la regola risulta dall’ultimo comma dell’articolo 239, che recita: “L’zione può essere esercitata per reclamare un diverso stato di figlio quando il precedente é stato comunque rimosso”.E ciò comporta, ad esempio, che Mariolino, nato e/o concepito nel matrimonio di Marietto con Mariuccia e quindi indicato nell’atto di nascita come figlio di Marietto, non può chiedere di essere dichiarato figlio (nato fuori del matrimonio) di Casanova, se prima non ha ottenuto, esperendo l’azione di disconoscimento che poi vedremo, che venga esclusa la paternità di Marietto.

Però, ripeto, quella espressa dal quarto comma dell’articolo 236 é solo una regola che trova le sue eccezioni nei commi precedenti.

Disc. Leggiamoli allora questi tre commi che fanno eccezione al quarto.

Doc. Primo comma: “Qualora si tratti di supposizione di parto o di sostituzione di neonato, il figlio può reclamare uno stato diverso”Secondo comma: “L’azione di reclamo dello stato di figlio può essere esercitata anche da chi é nato nel matrimonio ma fu iscritto come figlio di ignoti, salvo che sia intervenuta sentenza di adozione”.Terzo comma: “L’azione può inoltre essere esercitata per reclamare uno stato di figlio conforme alla presunzione di paternità da chi é stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione e da chi fu iscritto in conformità con altra presunzione di paternità”

Disc. Facile é comprendere perché, nel caso del secondo comma (iscrizione di Mariolino come figlio di ignoti), il legislatore non pretenda che prima dell’azione di reclamo sia rimosso lo status di figlio di ignoti: infatti in tale caso il pericolo che venga attribuita una doppia paternità e/ o una doppia maternità non esiste.Però: nel caso, previsto dal primo comma, di sostituzione di neonato (una infermiera distratta ha consegnato Mariolino,figlio di Marietto e di Mariuccia, non a questa, ma a Elena, e ha consegnato Beppino, figlio di Giuseppe e di Elena, non a questa ma a Mariuccia); nel caso (previsto sempre dal primo comma) di supposizione di parto (Mariolino é stato indicato nell’atto di nascita come partorito da Mariuccia coniugata con Marieto, mentre Mariuccia in realtà non ha avuto nessun parto - metti, ha abortito e, per non deludere il marito, ha comprato, da un’altra puerpera, Mariolino); nei casi (previsti dal terzo comma), di chi é stato “riconosciuto” come figlio nato fuori dal matrimonio, ancorché, in base alle presunzioni di cui agli articoli 231 e 232, avesse diritto allo stato di figlio nato nel matrimonio (Mariuccia, la madre, prima che l’atto di nascita fosse formato, ha indicato Mariolino come figlio di ignoti, per far dispetto al marito) e di chi é stato iscritto, sì, come nato nel matrimonio. ma come figlio di genitori sbagliati (Mariolino doveva essere indicato come figlio di Mariuccia, coniugata con Marieto, e invece é stato indicato come figlio di Elena, coniugata con Giuseppe), ebbene, in tutti questi casi, perché non costringere Mariolino a rimuovere con autonoma azione il falso status, prima di reclamare lo status che realmente gli spetterebbe?

Doc. Io direi, per economicità di giudizio: infatti la prova che porterebbe alla rimozione del precedente status, porta anche quasi inevitabilmente all’attribuzione dello status reclamato.

Disc. Dulcis in fundo: chi é legittimato ad esercitare l’azione di reclamo?

Doc. La lettera dell’articolo 239 sembrerebbe limitare la legittimazione al figlio; ma a me questa sembra una limitazione assurda: torniamo al caso di Mariuccia che, per far dispetto al coniuge, a Marieto, indica Mariolino come figlio di ignoti, perché negare a Marieto la possibilità di reclamare per Mariolino lo status di figlio suo e a sé lo status di padre di Mariolino.

Disc. Mi pare giusto; così come mi sembrerebbe giusto che il reclamo fosse ammesso anche in altri casi non previsti dall’articolo 239, ad esempio nel caso di Mariolino, che sia stato riconosciuto (in violazione dell’art. 253) da Casanova ancorché godesse già dello status di figlio nato nel matrimonio, e di Mariolino, che é stato riconosciuto (sempre in spregio all’art. 253) da Casanova II, ancorché già fosse stato riconosciuto da Casanova I.

Doc. Tu mi trovi concorde quando dici che l’esercizio dell’azione di reclamo dovrebbe essere permesso oltre i casi previsti dall’articolo 239, ma gli esempi da te portati non mi convincono. Infatti nel primo esempio da te portato non occorre che Mariolino reclami lo stato di figlio nato nel matrimonio (che ha già!), basterà per regolarizzare la sua posizione che contesti la validità del riconoscimento operato da Casanova II (con violazione dell’articolo 253).

Disc. Esercitando quale azione?

Doc. L’azione prevista dall’art. 240, altra non ne vedo possibili.

Disc. E quanto al secondo esempio da me portato, perché ne neghi la validità?

Doc. Perché anche qui basterà o che Mariolino impugni uno dei due riconoscimenti per difetto di veridicità (se, di tale difetto di veridicità, ha la prova) oppure sic et simpliciter contesti lo status attribuitogli dal secondo riconoscimento (in quanto fatto in spregio all’art. 253).

Disc. Parliamo ora delle azioni di disconoscimento e di contestazione di cui rispettivamente all’art. 244 e all’art. 240.

Doc. Tali azioni mirano a rimuovere lo status di figlio che una persona ha nei riguardi della donna indicata (dall’atto di nascita o dal possesso di stato) come sua madre e / o nei riguardi del di lei marito.Esempi, Mariolino agisce affermando che vi é stata una sostituzione di neonato, per cui l’indicazione (nell’atto di nascita) come suoi genitori di Elena e Giuseppe va rimossa. Mariolino agisce affermando che Marieto, il marito di sua madre, non poteva essere suo padre perché, nel periodo compreso fra il trecentesimo e il centottantesimo giorno prima della nascita, era affetto da impotenza e chiede la rimozione del suo status di figlio di Marieto. Marieto – e con questo mi fermo negli esempi che potrebbero essere moltissimi – afferma che Mariolino non é figlio suo ma di Casanova, con cui la moglie ha commesso adulterio e, naturalmente, chiede la rimozione dell’indicazione di Mariolino come suo figlio.

Disc. Ma se, sia l’azione di disconoscimento che quella di contestazione hanno lo stesso scopo (quello di rimuovere lo status di figlio di una persona), in che cosa si distinguono?

Doc. Si distinguono in quanto l’azione di disconoscimento, al contrario di quella di contestazione, implica l’accertamento di un fatto che la coscienza popolare ritiene lesivo della onorabilità del figlio e/o dei genitori e su cui pertanto questi (idest, il figlio e i genitori) potrebbero desiderare di stendere un pietoso velo di silenzio (cosa per cui il legislatore, che rispetta e ritiene meritevole di tutela tale desiderio, ammette, sì, l’azione, intesa a rimuovere lo status di figlio, che sia basata sull’accertamento di tale fatto ma solo se essa é esercitata “dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo”- vedi primo comma art. 243bis.Questo fatto (che i membri della famiglia potrebbero preferire tenere celato per motivi, che il Legislatore ritiene meritevoli di rispetto) é, lo dico ma é intuitivo, l’essere stato il figlio concepito, non dal marito, ma da un terzo, poco importa se durante il matrimonio, quindi con violazione dell’obbligo di fedeltà o prima del matrimonio (ma in un tempo tanto prossimo alla celebrazione del matrimonio da far presumere che già fosse in atto una liaison tra i futuri coniugi).Quando la rimozione dello status non implica tale accertamento, si é fuori dall’azione di disconoscimento, si rientra in quell’azione di contestazione che l’articolo 248 concede, sia “a chi dall’atto di nascita del figlio risulta suo genitore” sia “a chiunque

vi abbia interesse “(quindi, ad esempio, agli altri figli di Marieto, che, se Mariolino fosse loro fratello, con lui dovrebbero dividere l’eredità, al padre di Marieto che, se Mariolino fosse suo nipote, dovrebbe dargli gli alimenti).

Disc. L’azione di disconoscimento può essere promossa in ogni tempo?

Doc. No, solo per il figlio l’azione é imprescrittibile (vedi art 244, quinto comma), mentre é soggetta a termini brevissimi di decadenza per i genitori (vedi sempre l’articolo 244 nei commi 1, 2, 3, 4). Questo perché il legislatore non vuole lasciare pendere, come una spada di Damocle, la possibilità di un esperimento di tale azione sui rapporti tra i genitori: o voi Marieto e Mariuccia esercitate l’azione, scendendo in campo l’un contro l’altro armati, oppure mettetici una pietra sopra: l’incertezza non farebbe altro che avvelenare la vita vostra e della vostra famiglia.

Disc. A tali brevi termini di decadenza é soggetta anche l’azione di contestazione?

Doc. No, l’azione di contestazione é imprescrittibile. Probabilmente ciò é dovuto al fatto che l’incertezza sul suo esercizio - anche se dannosa, in quanto ridonda in incertezza, non su un solo, ma su numerosissimi rapporti l’uno all’altro collegati (ripeto gli esempi già fatti, se Mariolino non é figlio di Marieto, i figli di questo avranno una maggiore eredità, non gli dovranno gli alimenti ecc.ecc.) - non ha quegli effetti dilaceranti nell’ambito della famiglia, che invece potrebbe avere l’incertezza sull’esercizio dell’azione di disconoscimento.

Disc. Parliamo ora dell’azione di contestazione. Penso che l’azione di contestazione dello status di figlio possa avere ad oggetto, per escluderli, tutti gli elementi, che io prima ebbi a indicare: 1) l’essere stato Mariolino partorito da Mariuccia; 2) l’essere Mariuccia coniugata legalmente con Marieto; 3) l’essere Mariolino nato dopo la celebrazione del matrimonio; 4) l’essere Mariolino nato entro i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (o dal suo annullamento o dalla pronuncia di separazione....).

Doc. E invece no, l’ azione di contestazione é sicuramente é esclusa nel caso abbia ad oggetto la nullità del matrimonio; come si argomenta a contrario dal fatto che il legislatore sente il bisogno di richiamare, nell’articolo 238, oltre all’articolo 240 (che é quello che prevede appunto l’azione di contestazione), anche l’articolo 128, che ha per oggetto la contestazione dello status di figlio, proprio basandosi sulla nullità del

matrimonio incestuoso: ora, se oggetto dell’azione di contestazione prevista dall’articolo 240, potesse essere la nullità del matrimonio, tale richiamo fatto, dall’articolo 238, all’articolo 128 sarebbe ultroneo. Del resto, la validità della presunzione di concepimento di Mariolino a opera di Marieto, legato da un matrimonio, sia pure nullo, a Mariuccia, la partoriente, non verrebbe inficiata dalla nullità del matrimonio: quel che importa infatti, per dare fondatezza a tale presunzione, é che Mariuccia ritenesse tale matrimonio valido o comunque volesse comportarsi di fronte alla gente come se lo ritenesse valido, quindi osservando l’obbligo di fedeltà.

Disc. Chi é legittimato all’azione di contestazione?

Doc. In primo luogo, il figlio, in tutti i casi in cui, come abbiamo visto, é legittimato all’azione di reclamo (dato che egli ben potrebbe voler agire in contestazione prima di esperire l’azione di reclamo)

Disc. Ma solo il figlio riterresti legittimato all’azione di contestazione?

Doc. No, non solo lui.

Disc. Indicami allora chi ritieni, oltre al figlio, legittimato all’azione.

Doc. I casi della vita sono tanti, che diventa azzardato racchiudere in una formuletta l’indicazione di tutti quelli, che sono legittimati a tale azione. Comunque, secondo me, tali dovrebbero considerarsi, per richiamare esempi già fatti, Marieto, il marito di Mariuccia, la quale, partorito Mariolino, per fare dispetto all’odiato consorte, lo ha denunciato come figlio di ignoti; e Mariolino, che é stato riconosciuto come figlio (nato fuori dal matrimonio) da Casanova, nonostante che già godesse dello status di figlio nato nel matrimonio. Debbo però aggiungere, che riterrei molto ragionevole un’opinione contraria alla mia, dato che questa opinione avrebbe il conforto della lettera dell’articolo 240.

Disc. Come recita l’articolo 240?

Doc. L’articolo 240 recita così: “”Lo stato di figlio può essere contestato nei casi di cui al primo e secondo comma dell’articolo 239”.Ora, se il legislatore avesse voluto attribuire all’articolo 240 solo la funzione di

ammettere l’azione di contestazione nei casi di cui all’articolo 239, dovremmo pensare che avrebbe fatta cosa assurda, perché nessuno avrebbe potuto mai dubitare che in tali casi l’aizone fosse esercitabile. Quindi, siccome, come diceva il buon Farinaccio, absurda sun vitanda, sembrerebbe doversi concludere che il legislatore ha attribuito all’art. 240 proprio la funzione di limitare l’azione di contestazione solo ai casi previsti dall’articolo 239.

Disc. Parliamo allora dei casi, previsti nell’art. 239, in cui sicuramente l’azione di contestazione é ammissibile. Anche qui le cose però non mi sembrano chiare. L’articolo 240 infatti sembra ammettere l’azione solo nei casi di cui al primo e secondo comma dell’articolo 239. Ora é giusto ammettere Mariolino a contestare di essere figlio di ignoti (comma 2 art. 239), é giusto ammetterlo a contestare di essere figlio di Mariuccia (caso di supposizione di parto) o dei coniugi Elena-Giuseppe (caso di sostituzione di neonato); ma perché non ammetterlo a contestare anche di essere figlio di Casanova, che contro il vero l’ha riconosciuto (primo caso previsto nel terzo comma) e non ammetterlo a contestare di essere figlio nato nel matrimonio di Elena-Giuseppe (secondo caso previsto nel terzo comma art. 239)?

Doc. Effettivamente l’esclusione dell’azione di contestazione nei casi di cui al terzo comma suscita perplessità. Per il primo caso, tale esclusione si potrebbe forse giustificare col fatto che al figlio, che vuole contestare la veridicità del riconoscimento, l’articolo 263, come vedremo, offre un’azione ad hoc, la impugnazione per difetto di veridicità (vero é però che non sempre il figlio può provare la falsità del riconoscimento). Ma per quel che riguarda il secondo caso previsto nel terzo comma, l’esclusione dell’azione di contestazione non vedo come si possa giustificare. Certamente al figlio, a Mariolino, si deve dare un’azione per rimuovere lo status (falso) di figlio dei coniugi Elena-Giuseppe, al fine di permettergli poi di reclamare lo status di figlio dei veri genitori Marieto e Mariuccia, e l’unica azione che potrebbe a tal scopo servirgli é appunto l’azione di contestazione.

Disc. Non l’azione di disconoscimento?

Doc. No, perché, come abbiamo visto, essa é destinata a quei casi in cui la rimozione dello status implica l’accertamento di un fatto lesivo dell’onore dei genitori e in specie della madre. Ora, nel caso, la rimozione dello status non implica nessun accertamento di tal fatta: il caso di “chi fu iscritto in conformità di altra presunzione

di paternità” é analogo a quello della “sostituzione di neonato”; l’unica diversità é che, in questo, la vera madre perde, mi si perdoni la parola, il possesso del figlio, mentre, in quello, lo conserva, e se il figlio viene attribuito, nei registri dello stato civile ad un’altra donna, é, molto probabilmente, solo per un errore della burocrazia.

Disc. Lasciamo che il busillis sia risolto da qualcuno più bravo di noi e voltiamo pagina. Abbiamo visto con che criteri il Legislatore individua i genitori nel caso di nascita dentro il matrimonio. Vediamo ora con che criteri li individua nel caso di nascita fuori del matrimonio.

Doc. Il criterio più semplice, direi ovvio, con cui il legislatore opera tale individuazione, si basa sul fatto in sé e per sé che una data persona, chiamiamola Casanova, ha riconosciuto il figlio; e non si può certo dire che tale criterio manchi di fondamento: e infatti come si può pensare che una persona si gravi di tutti gli obblighi connessi al riconoscimento (l’obbligo di provvedere all’alimentazione, all’istruzione ecc.ecc.) di un’altra persona, se questa non fosse veramente suo figlio?

Disc. Questa tua deduzione é logica per la maggior parte dei casi, ma non per tutti. Infatti ci possono essere dei casi in cui il riconoscimento può essere spiegato con motivi di interessi (Casanova povero in canna riconosce Mariolino dotato di un patrimonio miliardario, perché fa conto di giovarsi delle sue ricchezze) o con la semplice esigenza sentimentale di godere dell’affetto e della compagnia di una persona (Casanova non può adottare Mariolino e quindi lo riconosce come figlio: é tanto semplice eludere la legge sull’adozione, perché non farlo?).

Doc. Effettivamente é così, ci possono essere dei casi in cui una persona riconosce come figlio un’altra pur sapendo che questa suo figlio non é. E a prescindere da tali casi ve ne sono altri in cui una persona é indotta al riconoscimento da un semplice errore (Casanova ha riconosciuto come suo figlio Mariolino, ma dopo il riconoscimento viene a sapere di essere impotente: evidentemente egli ha compiuto un riconoscimento dovuto ad errore). In altri casi ancora, il riconoscimento non si può dire che sia dovuto ad errore, ma se ne può ben dubitare, dato che é dovuto a violenza (art. 265) o é fatto da una persona interdetta perché incapace di intendere e di volere (art. 266).

Disc. Ma in caso di riconoscimento dovuto a violenza o fatto da un interdetto, esso potrà ben essere impugnato.

Doc. Certamente, sì: nel caso di violenza potrà essere impugnato (ma in termini strettissimi, un anno) dal violentato e nel caso di riconoscimento fatto dall’interdetto, potrà essere impugnato dal suo rappresentante (vedi melius però l’art. 266).

Disc. Non da colui che é stato riconosciuto?

Doc. No. Ma colui che é stato riconosciuto “e chiunque vi abbia interesse” (pensa ai figli e alla moglie di chi ha effettuato il riconoscimento), può invece impugnare il riconoscimento “per difetto di veridicità” (art. 263). Ma, bada, solo per difetto di veridicità. Quindi l’impugnazione non potrebbe, ad esempio, essere motivata: col fatto che il riconoscimento non aveva la forma voluta dall’articolo 254, col fatto che é stato effettuato da chi non aveva raggiunta una certa età (art.250 u.c.), col fatto che era mancato l’assenso del “riconosciuto” “che aveva compiuto i quattordici anni” (assenso necessario, per l’art. 250 co.2), col fatto che era mancato il consenso dell’altro “genitore che avesse già effettuato il riconoscimento” (co. 3 sempre dell’art. 250) e neanche col fatto, direi, sebbene debba ammettere che qui la cosa é veramente discutibile, che il riconoscimento contrasti con lo stato di figlio in cui il riconosciuto già si trovava (v. art. 253).

Disc. Tu prima hai detto che il figlio, nato fuori dal matrimonio, può rifiutare il suo assenso al riconoscimento, dire “Sì, Casanova é veramente mio padre, ma io come padre non lo voglio (é un tipaccio, un morto di fame: che me ne faccio di un padre simile?!)”. Mi viene quindi spontanea la domanda: anche il figlio nato nel matrimonio ha il potere di rifiutare la paternità del marito di sua madre (ancorché esso sia veramente suo padre)?

Doc. No, il figlio nato del matrimonio, al contrario del figlio nato fuori del matrimonio, non ha il potere di rifiutare la paternità del marito di sua madre; così come questa non ha il potere di rifiutare al marito la paternità del figlio da lei partorito, beninteso se questi é veramente figlio di suo marito.

Disc. Ma se Mariolino (nato fuori del matrimonio) può rifiutare come padre Casanova (che pur é il suo vero padre), io penso che anche Casanova potrà rifiutare lo status di figlio a Mariolino (anche se Mariolino é effettivamente suo figlio).

Doc. Non é così: infatti per il co. 1 dell’art. 269 “la paternità e la maternità possono

essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento é ammesso”, volenti o nolenti il padre e la madre.

Lezione XVIII. Diritti e obblighi reciproci dei genitori e dei figli

Doc. Il Legislatore dedica un intero titolo, il nono, all’indicazione dei diritti e doveri reciproci tra genitori e figli.Tale titolo incomincia con l’articolo 315, che recita: “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.

Disc. Ma se avere lo stesso “stato giuridico” significa avere gli stessi diritti e doveri, quel che dice l’articolo 315 non é assolutamente vero: abbiamo visto nella precedente lezione, ad esempio, che il figlio nato fuori del matrimonio può rifiutare di accettare il padre biologico come padre giuridico: “Tu, Giuseppe, mi vorresti riconoscere, ma io, Marietto, non ho nessuna voglia di essere figlio di un ubriacone come te, e non ti accetto quale padre, così come me ne dà facoltà il secondo comma dell’articolo 250”. Mentre invece il figlio nato nel matrimonio non ha il potere di rifiutare il genitore biologico come padre.

Doc. Ma il legislatore vuol riferirsi al trattamento giuridico dei figli una volta che il rapporto di filiazione é stato riconosciuto. E questo trattamento é effettivamente al novantanove per cento uguale, per i figli, nati o no, nel matrimonio e per i figli adottivi (v. art.27 legge 184/83 nei casi della c.d. “adozione legittimante” – discorso un po’ più articolato dovrebbe essere fatto nei casi, statisticamente però non rilevanti, della c.d “adozione in casi particolari”).

Disc. Quindi il “titolo” che abbiamo iniziato a esaminare non si riferisce ao, nel matrimonio i figli non riconoscibili o non riconosciuti.

Doc. E’ così: i figli non riconosciuti (o perché non riconoscibili o perché il genitore non li ha voluti riconoscere e il figlio non ha ritenuto di agire giudizialmente per farsi riconoscere) sono considerati (vedi art.11 co.2 L. 4 maggio 1983 n. 184) in “stato di adottabilità”: e una volta che siano adottati si ricade nel discorso fatto poco prima per i figli adottivi.

Disc. Chiarito l’equivoco, passiamo a leggerci proprio l’articolo 315bis che, dalla rubrica che porta, “Diritti e doveri del figlio”, sembrerebbe proprio contenere

l’indicazione di quali sono i vicendevoli diritti e doveri tra figlio e genitore.Art. 315bis: “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.Quindi gli obblighi, di cui il Legislatore grava i genitori, sono: 1)l’obbligo di mantenere i figli; 2) l’obbligo di educarlo; 3) obbligo di istruirlo; 4) obbligo di assisterlo moralmente; 5) obbligo di farlo crescere in famiglia, 6) obbligo di permettergli “rapporti significativi con i parenti”; 7) obbligo di ascoltare il figlio in tutte le questioni che lo riguardano.Un elenco un po’ troppo lungo.

Doc. E’ così. Mentre a me sembra che tutti gli obblighi indicati in tale elenco potrebbero sintetizzarsi nei seguenti tre: I) Obbligo di far sì che il figlio cresca fisicamente e mentalmente sano; II- Obbligo di porlo in grado, una volta divenuto adulto, di procurarsi una vita dignitosa; III- Obbligo di dargli quelle nozioni etiche che ne facciano un essere apportatore di bene agli altri e a sé stesso.

Disc. Passiamo allora a un sia pur breve approfondimento di tali obblighi cominciando naturalmente dal primo.L’obbligo di far sì che il figlio cresca sano fisicamente e mentalmente, comprende certamente il dovere di procurargli il cibo, le vesti, un tetto sopra la testa e insomma le cose necessarie per la sua salute fisica, ma, direi, anche le cose necessarie per la sua salute mentale, e tra queste io ci metterei sopratutto quel “crescere in famiglia” e quel “mantenere rapporti significativi con i parenti” di cui fa parola l’articolo che ora abbiamo letto.

Doc. Certamente é così, così come certamente contribuisce alla salute mentale, allo svilupparsi di una personalità armoniosa e sana nel figlio, la fruizione e il godimento di quelle cose (un libro, un film....un gelato) che, pur non essendo strettamente

necessarie alla vita, arricchiscono e per così dire alimentano la parte emozionale dell’uomo; per cui il genitore ha il dovere di procurare al figlio anche queste; naturalmente nei limiti delle possibilità economiche della famiglia.

Disc. Tutti questi obblighi che siamo venuti enumerando potremmo conglobarli in un più generico obbligo di mantenimento. Ma la preservazione della salute fisica e mentale del figlio richiede, oltre a questo, degli altri obblighi?

Doc. Certamente, richiede l’adempimento di almeno altri tre obblighi: l’obbligo di assistenza materiale (il provvedere a quanto necessario per evitare al figlio malattie e per guarirlo nel caso ne diventi vittima); l’obbligo di assistenza morale (cioé l’aiuto a che superi le crisi psicologiche e morali che potrebbero “abbatterlo”); l’obbligo di custodirlo, a che non si rechi danno (giocando, metti, in luoghi che nascondono pericoli, frequentando compagnie che potrebbero nuocergli...) o a che non rechi danno ad altri (metti, guidando l’auto quando non ha ancora acquisita la necessaria abilità a ciò).

Disc. Passiamo al secondo obbligo: quello di metterlo in grado, quando adulto, di procurarsi una vita dignitosa.

Doc. Il che significa: in primo luogo, metterlo in grado di conseguire le nozioni e le abilità necessarie per l’esercizio di un mestiere (mestiere ovviamente scelto tenendo conto delle sue “capacità, inclinazioni naturali, e aspirazioni”); in secondo luogo, introdurlo in quelle relazioni sociali che gli potrebbero essere utili da adulto (permettendogli una buona collocazione nel mondo del lavoro......); in terzo luogo, custodire e amministrare il suo patrimonio, a che se lo ritrovi integro quando, da adulto, ne avrà necessità.

Disc. Parliamo ora del terzo obbligo.

Doc. E’ l’obbligo di dare al figlio quelle nozioni e, soprattutto, quegli imprintings che ne facciano un essere apportatore di bene a se stesso e alla società.

Disc. Nelle parole usate dal legislatore, é l’obbligo di educarlo.

Doc. E’ così. E certamente in questo obbligo di educazione rientra l’obbligo di ascoltare il figlio prima di decidere una questione che lo riguarda; dato che é ben

difficile educare una persona quando si ignora quel che passa nella sua testa e commuove il suo cuore; e dato, inoltre, che gli insegnamenti morali vengono da noi più facilmente recepiti, se provengono da chi dimostra rispetto verso la nostra personalità pazientemente ascoltandoci.

Disc. Però l’adempimento degli obblighi che tu hai menzionato molte volte richiede l’esercizio di poteri. Giuseppe nell’adempimento dei suoi compiti di educatore può ben ordinare a Marietto di fare questo e di astenersi da quest’altro, ma se, Marietto, non gli ubbidisce, il povero Giuseppe deve rassegnarsi al fallimento del suo compito educativo, se non ha i poteri necessari per costringere all’ubbidienza il ribelle. La Legge concede al genitore tali poteri? per cominciare gli concede un potere di coazione fisica?

Doc. Sì, il genitore, che non riesce a superare la resistenza del figlio con mezzi più blandi (negandogli la paghetta, mandandolo a letto senza cena...), può, per superarla, compiere degli atti di coazione fisica. Addirittura degli atti che, se posti in essere da un terzo, costituirebbero dei reati e anche dei gravi reati; mentre, se da lui compiuti al fine di adempiere i suoi doveri verso il figlio (salvaguardarne l’incolumità, educarlo, istruirlo ecc., reato, non costituiscono - questo in forza dell’art.51Cod. Pen. che “esclude la punibilità” di chi compie un fatto previsto come reato “in adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica”.

Disc. Vuoi fare degli esempi?

Doc. Sì, certo. Pensa al genitore che, per impedire alla figlia di uscire alla sera per prostituirsi, la chiude a chiave nella sua stanza (comportamento che, se compiuto da un terzo, costituirebbe il reato di sequestro, previsto dall’art.605 Cod. Pen.) oppure le sottrae con la forza le chiavi della motoretta (comportamento che oggettivamente costituirebbe la “violenza privata” prevista dall’articolo 610 Cod. Pen.) oppure le dà un bel ceffone (reato di percosse, art. 581 Cod. Pen.).

Disc. Ma il genitore può lecitamente “mettere le mani addosso” al figlio?

Doc. Così si argomenta facilmente dall’articolo 571 codice penale; che, punendo chi “abusa dei mezzi di correzione” se e solo se da ciò “deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”, permette di argomentare che l’uso dei mezzi di correzione é lecito (lecito anche se consiste in una violenza fisica) fino al punto in cui non fa

sorgere tale pericolo.

Disc. Ma il genitore, che può superare la resistenza del figlio ancora bambino con la violenza fisica (perché ha più forza muscolare del figlio, perché sa che la sua violenza non può degenerare in una colluttazione, che potrebbe far sorgere il pericolo di lesioni reciproche), non lo può più nei riguardi del figlio ormai adolescente (perché, anche se può pensare di superare in forza il figlio, non può non temere che dalla sua violenza nasca una colluttazione con lesioni per lui o per il figlio). E allora? può il genitore chiedere soccorso dell’autorità?.

Doc. Nel codice é previsto un unico caso in cui il genitore, per superare il rifiuto del figlio a tenere un dato comportamento, può giovarsi della forza di coazione dello Stato; e questo é il caso in cui il figlio abbia abbandonato “la casa o il domicilio assegnatogli”e rifiuti di tornarvi. In tal caso il genitore, stabilisce l’art. 318, può rivolgersi al giudice tutelare e ottenere che questi ordini al figlio di ritornare e a tanto lo costringa coattivamente in caso di persistente rifiuto. Più precisamente l’articolo 318 recita: “Il figlio non può abbandonare la casa dei genitori o del genitore che esercita su di lui la potestà né la dimora assegnatagli. Qualora se ne allontani senza permesso, i genitori possono richiamarlo ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare”.

Disc. Ma se la disubbidienza é persistente e reiterata? dovrà il genitore tenersi in famiglia una persona che con il suo comportamento ne distrugge l’armonia? La vita può diventare un inferno per due persone che odiandosi sono costrette a dividere lo stesso tetto!

Doc. Mentre é vero che il genitore non può contare sull’aiuto automatico dello Stato per costringere il figlio all’esecuzione di un suo specifico ordine (dato che lo Stato non può correre il rischio di mettere la sua forza a servizio degli ordini di un privato – ordini che potrebbero anche essere cervellotici o capricciosi), é anche vero che egli può ottenere dallo Stato (ai sensi dell’art. 25 R.D.L. 02.07.1934 n. 1404)l’allontanamento del figlio quando questi “dà manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere” (il che é il caso, non solo del figlio che persistentemente si ribella e ha tensioni col genitore, ma anche del figlio che: si droga, si prostituisce, é dedito al furto, porta cattive compagnie in casa.....).

Disc. Ma prescindiamo dei casi limite di condotta “irregolare” del figlio, ritorniamo

al caso del genitore che ordina al figlio un dato comportamento A e il figlio gli disubbidisce: Giuseppe ordina a Marietto “Non ti permetto di affiggere alle pareti quei quadri osceni” e Marietto, alza le spalle, e li affigge. Per il resto Marietto é un bravo ragazzo, e di certo non tiene una condotta irregolare: quindi non lo si può allontanare da casa: ma ciò significa che Giuseppe deve tollerare le oscenità dei quadri?

Doc. Io non ho detto che lo Stato rifiuta sempre di usare la sua forza per costringere il figlio all’obbedienza degli ordini che il genitore gli dà; semplicemente lo Stato si riserva di intervenire, se del caso con la forza, solo quando ha potuto verificare che l’ordine (del genitore) sia veramente opportuno (non é forse giusto che lo Stato controlli, prima di usare la forza, che questa non venga a opprimere chi ha ragione e a far trionfare chi ha torto?) e solo quando la disobbedienza crea un vero stato di tensione, pregiudizievole al padre e al figlio (forse che non finirebbe lui, lo Stato, a educare i figli, se potesse sindacare e correggere ogni ordine dato a questi? e allora che ne sarebbe del “diritto” ad educare i loro figlioli che l’articolo 30 della Costituzione riconosce ai genitori?! ).

Disc. Ma veniamo al punto: come può, il genitore, ottenere questo intervento dello Stato?.

Doc. Lo può chiedendo l’applicazione dell’articolo 333; il quale (sotto la rubrica, “Condotta del genitore pregiudizievole al figlio”) recita: “Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non é tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”.

Disc. Ma questo articolo sembrerebbe in realtà mirato ad apprestare un mezzo di difesa del figlio contro i comportamenti (a lui pregiudizievoli) del genitore.

Doc. A una prima lettura, sì. Però, se approfondisci, ti accorgi che il legislatore non subordina l’intervento del giudice a un comportamento colpevole del padre; che, quindi, quel che rileva per il legislatore é solo che si sia determinata una situazione pregiudizievole per il figlio. Così come senza dubbio si verifica – e veniamo al punto – quando si crea uno stato di tensione tra il genitore e il figlio.

Disc. Capisco; ma l’intervento del giudice in che si concretizzerà (se si esclude l’allontanamento del figlio)?

Doc. Si potrà concretizzare, in prima battuta, in un ordine al figlio di ubbidire al padre (“Tu, Marietto, devi togliere quei quadri”), in seconda battuta, nell’esecuzione coattiva dell’ordine del genitore (ben inteso, quando é possibile, come nel caso dell’esempio: viene un carabiniere e...toglie i quadri). Naturalmente l’intervento del giudice potrebbe risolversi anche in un ordine al genitore di tollerare l’affissione dei quadri.Debbo aggiungere però, che ben raramente nella pratica si giungerà all’estremo di un ordine del giudice in un senso o nell’altro. Di solito il giudice disporrà l’intervento dei servizi sociali col compito di...far trionfare il buon senso tra genitore e figlio.

Disc. Voltiamo pagina. Prendiamo in particolare esame ora il dovere, da te prima menzionato, del genitore di conservare il patrimonio del figlio (minore). Anche l’adempimento di questo dovere presuppone l’esercizio di un potere: quello di amministrare tale patrimonio. La legge concede al genitore tale potere?

Doc. Sì, glielo concede con il primo comma dell’articolo 320 che recita: “I genitori congiuntamente o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni”.

Disc. Ma a tali poteri il legislatore pone dei limiti?

Doc. Sì, e tali limiti sono ricavabili sia da delle norme giuridiche (limiti esterni) sia dalla stessa funzione che tali poteri sono destinati a compiere (limiti interni).

Disc. Dai qualche esempio di limite esterno.

Doc. Per un primo esempio pensa al limite imposto (sia pure indirettamente) all’uso dei mezzi di correzione dall’articolo 571 del Codice penale: tu, Giuseppe, puoi usare anche la violenza fisica per farti ubbidire dal figlio, purchè (ecco il limite!) ciò non faccia sorgere in lui “il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”. Più precisamente l’articolo 571 recita (sotto la rubrica. “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”): “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di

una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio id una professione o di un’arte, é punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi.Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo, se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto mesi”.Un secondo esempio di limite esterno può essere preso dalla legge 22.05.1978 n.194: tale legge nel suo articolo 12, riconosce solo alla figlia il diritto di chiedere una pratica abortiva: occorre, sì, il consenso del genitore, ma, in caso di rifiuto di tale consenso, il giudice può lo stesso autorizzare l’aborto (questo a prescindere dei casi in cui la legge ammette la minorenne ad abortire all’insaputa dei genitori).Un terzo esempio, é dato dalla L. 18.06.1986 n. 281: questa legge nel suo articolo 1 attribuisce agli studenti della scuola secondaria superiore il diritto di scegliere se avvalersi o no dell’insegnamento della religione cattolica ed altresì delle scelte “in ordine ad insegnamenti opzionali e ad ogni altra attività culturale e formativa” (riservando invece ai genitori le stesse scelte nell’ambito della scuola dell’obbligo e del pre-obbligo).

Disc. Quindi chiaramente il genitore non ha il potere di chiedere una pratica abortiva sulla figlia, di chiedere la partecipazione all’insegnamento religioso del figlio....

Doc. Così come non ha il potere di pronunciare il fatidico “sì” al matrimonio al posto del figlio minore, e, se il figlio, pur essendo ancora minore, ha raggiunto i quattordici anni, di agire per la dichiarazione di paternità o maternità naturale (vedi co. 2 art. 273). In genere si può dire che la potestà genitoriale si ferma quando si tratta di decisioni che mettono in gioco i sentimenti e le idee del minore.

Disc. Però, proprio dall’art. 273, risulta, che il genitore ha anche il potere di prendere decisioni che incidono su un diritto personalissimo..

Doc. Tu ti riferisci al fatto che il genitore può agire giudizialmente per la dichiarazione di paternità o maternità naturale quando il figlio ha meno di quattordici. E avresti potuto aggiungere a questo non pochi altri casi; ad esempio quello del genitore che può dare il suo consenso all’adozione quando il figlio é minore di quattordici anni (ben inteso, mi riferisco qui a quella particolare adozione prevista dagli artt.44 ss della L. 4 maggio 1983 n.184).

Il fatto é che, come regola, il legislatore vuole che, quando é possibile, il genitore eviti di prendere decisioni, che incidono su diritti personalissimi; ma non sempre ciò é possibile. Prendi il caso dell’acquisizione dello status di figlio: acquisire tale status può significare la sicurezza di quel pane quotidiano, di quell’ambiente confortevole di cui il figlio ha bisogno ora, ora che é bambino e deve crescere, crescere bene, e non quando sarà maggiorenne. Prendi il caso dell’insegnamento religioso nella scuola dell’obbligo: se esso serve, serve ora che il bambino si sta formando il carattere e non già quando, maggiorenne, sarà ormai cristallizzato in certe idee.

Disc. Ho compreso e penso che a tali principi anche si ispiri la disciplina del potere del genitore di amministrare il patrimonio del minore.

Doc. A dir il vero qui siamo fuori del campo dei diritti personalissimi di cui prima parlavamo. E inoltre nell’amministrazione di un patrimonio non sono molti gli atti che possono aspettare la maggiore età, che potrebbe essere lontanissima del figlio. Proprio perché, da una parte, il legislatore si rende conto di ciò, dall’altra, si rende anche conto che il compimento (inopportuno) di tali atti potrebbe pregiudicare il figlio, dà al genitore, sì, il potere di compiere tali atti. Ma per quelli di essi che eccedono l’ordinaria amministrazione, (il potere di: alienare, di ipotecare, di sciogliere comunioni,,,vedi sul punto il terzo comma dell’art.320) solo dietro autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Ma sul punto torneremo.

Disc. E con ciò possiamo chiudere il nostro discorso sui limiti esterni alla responsabilità genitoriale. Dobbiamo ora parlare dei limiti interni.

Doc. Questi limiti, sono connessi alla stessa funzione, che ha la responsabilità genitoriale, di permettere l’adempimento dei doveri inerenti alla qualità di genitore; pertanto quanto più gradualmente si restringono nel tempo questi doveri (col crescere del figlio) tanto più questi limiti aumentano.

Disc. Ma davvero i doveri del genitore si restringono col passare del tempo?

Doc. Questo non può dirsi per tutti, ma per molti di tali doveri, sì. E di questi é esempio tipico, il dovere di educazione. Più aumentano gli anni del figlio più questi é in grado di prendere decisioni sensate su molte materie: per cui, può dimostrare senso educativo il padre, che vieta al bambino di dieci anni di prendere il gelato perché gli fa male, ma si esporrebbe al ridicolo il padre che ordinasse la stessa cosa al figlio

ormai diventato adolescente.

Disc. D’accordo, vi é una gradualità nei poteri concessi al genitore – gradualità inversamente proporzionale agli anni che il figlio ha: più aumentano gli anni del figlio, più diminuiscono i poteri del genitore. Il problema sta nel fissare il momento preciso in cui un potere (del genitore) viene a cessare. E, penso, sia un problema di impossibile soluzione.

Doc. Impossibile, forse no. Certo difficile. Anche se, per individuare il momento in cui certi poteri si caducano, ci può aiutare l’analogia con situazioni disciplinate dalla legge.Così, dal fatto che la figlia a sedici anni: possa decidere di abortire senza il consenso del genitore, possa, senza tale consenso, acquistare anticoncezionali (vedi melius l’art.2 della legge 22.05.1978 n.194), si può facilmente argomentare che i figli raggiunti i sedici anni possono gestire la loro sessualità come meglio credono: un genitore non potrebbe impedire alla figlia sedicenne di uscire alla sera con un uomo perché ciò …..ne potrebbe mettere in pericolo la verginità.

Disc. Di certo, no!

Doc. Dal fatto, poi, che, chi frequenta le scuole secondarie superiori, possa liberamente scegliere se frequentare l’ora di religione o no, facilmente si argomenta, non solo che a sedici anni (l’età presso a poco corrispondente a quella in cui si frequentano le scuole superiori) il figlio può decidere se aderire o no a una religione, ma anche che può fare scelte ideologiche: decidere di iscriversi a questo o a quel partito.

Disc. Ma, quando manca ogni possibile riferimento al diritto positivo, allora effettivamente la scelta diventa difficile.

Doc. Difficile, ma, ripeto, non impossibile. Certo, l’interprete dovrà tenere presente che, il venir meno di un potere genitoriale prima che il figlio giunga alla maggiore età, ha carattere eccezionale; quindi ciò va ritenuto solo in casi evidenti.Ancora, l’interprete dovrà tenere presente che sempre il genitore ha il potere di impedire al figlio comportamenti ritenuti dal legislatore illeciti.Così nessun dubbio che il genitore possa proibire al figlio anche ultrasedicenne di rubare o di compiere atti terroristici.

Disc. Metti che il figlio, voglia compiere, non un atto illecito, ma un atto giuidcato dal legislatore riprovevole, così come, il prostituirsi, il drogarsi.

Doc. Io penso che il genitore possa senz’altro proibire, e anche con la forza impedire, il compimento di un atto che il legislatore, per il fatto stesso che punisce anche chi induce altri a compierlo o comunque lo favorisce, dimostra di ritenere dannoso a chi lo compie. La presunzione che a una certa età il minore abbia raggiunta una certa maturità (quella presunzione che giustifica il venir meno del potere genitoriale), non può non cadere quando il minore compie un atto, che denota con tutta evidenza la sua immaturità.

Disc. Quindi il genitore che strappasse di mano al figlio la siringa con cui sta per drogarsi non sarebbe punibile per l’articolo 51 Cod. Pen.

Doc. Non sarebbe punibile, non solo per l’articolo 51 Codice penale, ma anche per l’articolo 52 stesso Codice penale (difesa legittima), dato che per questo articolo non é punibile anche chi impedisce a una persona un atto auto-lesivo.

Disc. Ma il genitore é controllato nell’esercizio dei suoi poteri.

Doc. Non controllato, ma controllatissimo: mille occhi stanno su di lui: gli occhi dei vicini, dei parenti, dei medici della USL (che visitandolo possono rilevare se una alcool-dipendenza o tossicodipendenza lo rendono inidoneo all’esercizio di tali poteri) e in genere di ogni esercente un servizio di pubblica necessità e di ogni pubblico ufficiale. E ognuna di tali persone può fare un esposto al Tribunale dei minorenni (e anzi gli esercenti un servizio di pubblica necessità e i pubblici ufficiali hanno il dovere di fare tale esposto).

Disc. E il Tribunale dei minorenni, ricevuto tale esposto, che fa?

Doc. Fa indagini e, se del caso, prende dei provvedimenti.

Disc. Quali provvedimenti?

Doc. Essi possono essere di diversa severità e incisività.I provvedimenti meno incisivi si limitano solo a una interferenza, diciamo così,

nell’esercizio della potestà genitoriale (ma non ne determinano la decadenza): il genitore vorrebbe negare al figlio, che vuole andare a lavorare all’estero, il permesso, e il Tribunale gli ingiunge di darlo; il genitore non vorrebbe vaccinare il figlio e il Tribunale gli ingiunge di vaccinarlo; il genitore ha preso a convivere con una donna che si comporta da matrigna col figlio e il Tribunale dispone l’allontanamento dal domicilio domestico, diventato per lui invivibile, del figlio. Possono anche giungere a privare il genitore di un potere inerente alla sua potestà (ma di un potere minore) – il che accade quando il genitore amministra male i beni del figlio; in tal caso,infatti, il Tribunale può,sì, “limitarsi a stabilire le condizioni a cui egli deve attenersi nell’amministrazione”,ma anche può privarlo tout court del potere di amministrare. Tali provvedimenti sono previsti dagli articoli 333 e 334 del Codice civile.L’articolo 333 recita (sotto la rubrica, “Condotta del genitore pregiudizievole al figlio”): “Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non é tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento”.L’art. 334 (sotto la rubrica “Rimozione dall’amministrazione”) recita: “Quando il patrimonio del minore é male amministrato, il tribunale può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale.L’amministrazione é affidata a un curatore, se é disposta la rimozione di entrambi i genitori”.

Disc. Tu hai detto che il Tribunale può anche privare il genitore della responsabilità genitoriale: quando può avvenire ciò?

Doc. Quando il genitore trascura i suoi doveri verso il figlio (é il caso del genitore che non manda a scuola il figlio o lo fa vivere in ambienti malsani o non lo nutre e veste a sufficienza), oppure li viola (é il caso della madre che, per provvedere al futuro della figlia, le insegna...a prostituirsi) oppure ancora, abusa dei suoi poteri (é il caso del genitore che maltratta o peggio il figlio).

Disc. Ma se il genitore non veste non nutre abbastanza il figlio perché povero?

Doc. Lo Stato viene in aiuto in vari modi ai genitori in difficoltà economiche; prevede anche la possibilità di “affidare” provvisoriamente il figlio a una famiglia disposta a prendersene cura (é il così detto “affidamento familiare” previsto negli artt. 4, 5 della legge 4 maggio 1983 n. 184 – da non confondersi con l’affidamento preadottivo, che riceve la sua disciplina nell’articolo 22 e ss. della stessa legge). E solo se il genitore rifiuterà l’aiuto dello Stato si potrà parlare di una violazione dei suoi doveri verso il figlio. In buona sostanza perché si possa giungere alla decadenza dalla responsabilità genitoriale occorre un comportamento colpevole del genitore (a differenza di quanto, come vedremo, accade per quella dichiarazione di “stato di abbandono del figlio” che prelude all’adozione, e che prescinde dalla colpa del genitore)

Disc. Come esempio di violazione dei doveri genitoriali tu hai portato quello del genitore che educa il figlio a un comportamento “deviante”, a un comportamento riprovevole (perché dannoso al figlio o alla società): ma il giudizio sulla riprovevolezza di una condotta può essere opinabile (fumare marjiuana é male o no? è opinabile) e fare prevalere l’opinione del tribunale su quella del genitore sa molto di quello stato “totalitario”, che certo non era nei programmi dei nostri Padri Costituenti.

Doc. Può essere, ma sul punto i nostri Tribunali la pensano diversamente da te. E siccome la tendenza é quella di una sempre maggiore ingerenza dello Stato nella famiglia sul punto bisogna che tu ti dia pace e.....legga attentamente quanto dice l’articolo 330.Art 330: ” Decadenza della responsabilità genitoriale sui figli – Il giudice può pronunziare la decadenza della responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”.

Disc. Ma, nonostante la decadenza dalla responsabilità, il genitore può avere rapporti col figlio, soprattutto conserva tutti i suoi doveri verso di lui (in primis, quello di provvedere alle spese per il suo mantenimento, la sua istruzione....)?

Doc. Certamente, sì: solo nel caso che il Tribunale decreti, prima, lo stato di abbandono del figlio, e, poi, la sua adozione, vengono totalmente troncati tutti i rapporti tra genitore e figlio (art 27 co.3 della già citata legge 184/1983 sull’adozione: “Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali”).Disc. Ma quando si ha lo “stato di abbandono” del figlio?

Doc. Come risulta dall’articolo 8 della legge sull’adozione, lo “stato di abbandono” si ha quando il minore “é privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio”.

Disc.Quindi anche se alle necessità (materiali e morali) del minore provvedono, non i genitori, ma i parenti, lo stato di abbandono non viene ritenuto.

Doc. Purché si tratti di parenti effettivamente “tenuti” all’obbligo degli alimenti. Evidentemente il legislatore teme che l’assistenza data al minore da parte di chi non vi é obbligato, quindi solo per bontà, non dia, come tutti i “buoni sentimenti”, garanzia di durare nel tempo, mentre ritiene che dia più garanzia di stabilità l’assistenza data da parte di chi vi é obbligato.

Disc. Tu hai prima detto che, mentre la decadenza dalla responsabilità genitoriale (ai sensi dell’art. 330) si può dichiarare solo se la mancanza, di assistenza e cure al figlio é dovuta a colpa del genitore, l’abbandono, di cui stiamo parlando, può essere dichiarato anche a prescindere da ogni sua colpa. Però a me pare che questa tua affermazione sia contraddetta dal fatto che tale abbandono non va dichiarato se dovuto a “forza maggiore”.

Doc. No, non mi pare che il disposto dell’articolo 8 contraddica quanto da me detto: infatti per tale articolo la forza maggiore (per definizione non dovuta a colpa del genitore) non transitoria, giustifica pur sempre la dichiarazione dello stato di abbandono. Ma indubbiamente il pensiero legislativo sul punto é assai contorto e a me sembra che debba interpretarsi così: l’abbandono anche se transitorio ha rilevanza (per poi dichiarare lo stato di adottabilità), a meno che non sia dovuto a forza maggiore.

Disc. Un esempio di forza maggiore?

Doc. L’esempio classico sarebbe quello di una degenza ospedaliera del genitore. Però, forzando un po’ le cose, si fa rientrare nella forza maggiore anche lo stato di detenzione.

Disc. Così come effettua, sull’operato dei genitori, “controlli successivi”, l’Autorità Giudiziaria ne effettua anche di preventivi?

Doc. Sì, ma limitatamente agli atti di amministrazione del patrimonio del figlio minore: come si é già accennato, quelli di tali atti, che “eccedono la ordinaria amministrazione”, possono essere compiuti (dal genitore) solo previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria.

Disc. Ma quali sono gli atti che si può ritenere eccedano l’ordinaria amministrazione?

Doc. Quelli che, per così dire, pongono un’ipoteca sulla futura amministrazione che il figlio assumerà giunto alla maggiore età.In buona sostanza l’idea guida in subiecta materia é questa: tutti gli atti, che il figlio, una volta divenuto maggiorenne, potrebbe ancora compiere e compiere presumibilmente in maniera diversa da come potrebbe decidere di compierli il genitore, vanno procrastinati fino al suo raggiungimento della maggiore età; gli altri invece possono essere, dal genitore, compiuti. E così, ad esempio, il genitore, nell’anno di grazia 2012, potrà,sì, disporre, nell’interesse del figlio, che diventerà maggiorenne solo nel 2018, che il fondo Corneliano sia dato in locazione fino al 2018 a Mevio, dato che ciò non impedirà al figlio, diventato maggiorenne di dare in locazione il fondo a Fulano nel 2018 (o pochi anni dopo il 2018). Però il genitore non potrà alienare il fondo Corneliano, perché il figlio, diventato maggiorenne, potrebbe preferire di tenere, e non di vendere, il fondo, e tale decisione gli verrebbe impedita dalla alienazione del fondo che il padre facesse.. Tutto questo, però,naturalmente, a meno che causi danno o inconvenienti procrastinare l’atto: c’é un’occasione d’oro per vendere il fondo Corneliano (che nulla rende e causa solo spese), occasione che non si ripresenterà nel 2018: é evidente l’opportunità di coglierla e vendere. Ma, ecco il punto, il legislatore vuole che la valutazione della evidente utilità di tale vendita sia fatta dall’Autorità giudiziaria.Questa l’idea guida in subiecta materia. Però tradurre tale idea guida in un chiaro criterio non é facile, e subito ce ne accorgiamo leggendo il terzo comma dell’articolo 320, che recita: “I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni

pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui o locazioni ultranovennali o compiere altri atti eccedenti la ordinaria amministrazione né promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti, se non per necessità o utilità evidente del figlio dopo l’autorizzazione del giudice tutelare)”.

Disc. Parrebbe, leggendo tale articolo, che il genitore, anche per vendere la vecchia bicicletta del figlio, abbia bisogno dell’autorizzazione del giudice tutelare: infatti l’articolo non distingue tra alienazione di beni mobili e immobili.

Doc. E non può distinguere (per escludere, naturalmente, dalla necessità dell’autorizzazione i beni mobili), dato che, la vendita di un quadro di Picasso, può assumere più importanza. nella gestione del patrimonio del figlio, che la vendita di un appartamento. E’ quella difficoltà di formulare un criterio che sia una guida sicura, nel distinguere gli atti eccedenti o no l’ordinaria amministrazione, di cui ti dicevo prima.

Disc. Non rompiamoci allora neanche noi la testa per trovare tale criterio, e poniamoci nel caso che il genitore venda il fondo Corneliano, senza autorizzazione del giudice tutelare: che succede, la vendita si deve considerare nulla?

Doc. Non nulla, ma annullabile; dato che, nonostante il difetto di autorizzazione, essa potrebbe essere conveniente, e, se così fosse, perché rinunciarvi?! Più precisamente l’art. 322 recita: “Gli atti compiuti senza osservare le norme dei precedenti articoli del presente titolo possono essere annullati su istanza dei genitoriesercenti la responsabilità o del figlio o dei suoi eredi o aventi causa”.

Disc. Noi abbiamo fino ad ora fatti i nostri discorsi come se ci fosse un unico genitore o almeno un unico genitore investito della responsabilità genitoriale. Però i genitori possono essere due e tutti e due investiti della responsabilità genitoriale. Che dispone per il caso il legislatore?

Doc. Dispone, nel secondo comma dell’articolo 316, che “la responsabilità genitoriale é esercitata di comune accordo da entrambi i genitori”.

Disc. Che significa ciò, che un genitore, per comprare anche un vestito da quattro

soldi al figlio, avrà bisogno del consenso dell’altro?

Doc. No, il legislatore non vuole precludere iniziative unilaterali dei genitori; vuole semplicemente che nessun atto possa essere preso unilateralmente da un genitore nel disaccordo o nel presumibile disaccordo con l’altro coniuge: tu, genitore, puoi prendere tutte le iniziative che vuoi (ai fini dell’educazione, istruzione ecc del figlio), poco o molto importanti che siano, se ragionevolmente puoi presumere che l’altro genitore sia d’accordo; mentre non puoi prendere nessuna iniziativa, per piccola che sia, se vi é, o devi presumere che vi sia, il disaccordo dell’altro genitore.

Disc. E se la prendo?

Doc. Ti esponi alle correzioni e alle sanzioni di cui agli articoli 330, 333 di cui abbiamo parlato; e se sei unito da matrimonio con l’altro genitore, questi (nei casi gravi) potra chiedere la separazione, con “addebito” a tuo carico.

Disc. Ma in caso di dissenso dell’altro genitore, che si fa, non si fa nulla?

Doc. No, i due genitori possono rivolgersi al giudice, così come abbiamo visto avvenire (per l’art. 145) nel caso di disaccordo nella gestione del menage coniugale(disaccordo nella fissazione della residenza e simili, ti ricordi?); e il giudice fa opera di mediazione.

Disc. E se la mediazione non riesce...se ne lava le mani, proprio come abbiamo visto avvenire nel caso dei coniugi che si rivolgono al giudice (ai sensi dell’art. 145)?

Doc. No, il legislatore non vuole correre il rischio che una decisione nell’interesse del minore non sia presa (forse con suo grave danno), e pertanto dispone che, nel persistere del disaccordo, il giudice attribuisca il potere di decidere a uno dei due genitori.

Disc. Al padre o alla madre indifferentemente?

Doc. Si.

Disc. E se un genitore non può ottenere il consenso dell’altro semplicemente perché questi é impedito a darlo (é nel Tibet, nell’interno dell’Africa, o si trova in ospedale

in stato comatoso..)?

Doc. Per il caso provvede l’articolo 317, che recita nel suo primo comma:“Impedimento di uno dei genitori - Nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della potestà, questa é esercitata in modo esclusivo dall’altro”.

Disc. Quanto finora detto vale anche per quel che riguarda l’amministrazione del patrimonio del figlio minore?

Doc. Sì, però in tale caso il legislatore deve preoccuparsi anche di tutelare l’affidamento dei terzi e in genere l’interesse dei terzi alla chiarezza e sicurezza nei rapporti commerciali. Pertanto stabilisce (nel comma 1 ult. parte dell’articolo 320) che “gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun coniuge”.

Disc. Ciò senza dubbio rappresenta una forte tutela dell’affidamento del terzo: il commerciante Parodi non dovrà più domandarsi, per sapere se vende bene o male quel tale vestito alla signora Beppa, se il Bacciccia, l’altro genitore, é d’accordo, o no: basterà che tenga conto se l’atto é, o no, di ordinaria amministrazione? se sì, potrà tranquillamente il vestito alla Beppa anche se non gli risulterà il consenso del Bacciccia..Ma la chiarezza nei rapporti commerciali di cui parlavi?

Doc. E’ assicurata dal fatto che, quando non é sufficiente il solo “sì” di uno dei genitori, ma occorre il doppio “sì” di entrambi i genitori (il che accade praticamente in materia di locazione e negli atti per cui occorre l’autorizzazione dell’A.G.), questo doppio “sì” deve risultare espressamente e formalmente. Come risulta chiaramente dalle parole usate dal legislatore nel primo comma dell’articolo 320, che recita. “I genitori congiuntamente (e non più semplicemente di comune accordo) rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni”.

Disc. Quindi, può dirsi che i poteri del genitore sono diversi a seconda che li si riguardi nella prospettiva dei rapporti esterni o di quelli interni (idest, dei rapporti con l’altro genitore). Nell’esempio prima fatto, la Beppa, comprando il vestito, in rapporto al commerciante Parodi, avrà fatto un atto perfettamente valido, però si sarà

lo stesso comportata scorrettamente in rapporto al Bacciccia, l’altro genitore, e si sarà esposta alle relative sanzioni, se le risultava il disaccordo di questo.

Doc. Esatto.

Disc. L’applicabilità dell’articolo 316 anche in materia di amministrazione del patrimonio del figlio minore, mi pare anche permetta al nostro Bacciccia di superare eventuali opposizioni della Beppa a compiere un atto per cui occorre l’autorizzazione del giudice (una alienazione, una divisione, un’accettazione di eredità....): egli non avrà che da rivolgersi al giudice di cui all’articolo 316, ottenere da questi il potere di decidere sul compimento o no dell’atto, e, ottenuto il conferimento di tale potere, rivolgersi al giudice di cui all’art. 320 per ottenere la relativa autorizzazione.

Doc. Anche questo é esatto. Complimenti.

Disc. L’adempimento dei doveri connessi allo status di genitore, spesso comporta un costo (in fatica e in soldi): chi lo sopporta?

Doc. A tale domanda, per quel che riguarda i coniugi legalmente sposati, una prima risposta già te l’ha data l’art. 147, che abbiamo già avuto occasione di incontrare. Infatti, come ti ricorderai, dall’articolo 147 risulta che l’obbligo di provvedere ai figli grava su “entrambi i coniugi”.Questa prima risposta (al quesito che ci siamo posti) va integrata – sia per i genitori legalmente sposati sia per quelli che tali non sono – con quanto risulta dall’art. 324 e dall’art. 315bis.

Disc. Che cosa risulta da tali articoli?

Doc. Dall’articolo 324 (meglio dai suoi due primi due commi) risulta, da una parte, che “i genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio fino alla maggiore età e all’emancipazione”, dall’altra, che “i frutti percepiti (idest, i ricavi dall’usufrutto) sono destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli”..

Disc. Quindi se i genitori hanno ricavato dall’usufrutto 100, non é che tutti questi 100 debbono spenderli unicamente per il figlio: parte li possono spendere anche per provvedere ai bisogni propri e degli eventuali altri figli: é così?

Doc. E’ così, ma fino a che il genitore non passa a nuove nozze, in tal caso egli (per l’art. 328) non potrebbe più utilizzare quei 100 né per la nuova famiglia, e questo si comprende abbastanza, né per la “vecchia”, (idest, per se stesso e i fratelli del figlio titolare dei beni) e questo si comprende assai meno.Passiamo all’articolo 316bis: da esso, e più precisamente dal suo ultimo comma, risulta che il figlio “deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”, quindi anche al proprio mantenimento (espressione comprensiva chiaramente anche della propria istruzione ed educazione).

Disc. Quest’obbligo di contribuzione del figlio é previsto dal legislatore anche per il figlio diventato maggiorenne?

Doc. Direi che é previsto soprattutto per il figlio maggiorenne: il legislatore - mentre, come già abbiamo avuta occasione di vedere, fa obbligo ai genitori di mantenere il figlio, anche quando ha raggiunto una maggiore età ma non ha ancora ultimata la sua preparazione per esercitare un lavoro o una professione (adeguati al suo status sociale) – non ammette che il figlio viva nel dolce non far niente, a spese dei genitori, o che, sì, lavori, ma egoisticamente trattenga per sé tutto il frutto del suo lavoro, lasciando il peso del suo mantenimento sulle spalle dei genitori.

Disc. Che il figlio non si faccia mantenere dai genitori, quando ha la capacità di mantenersi da solo, é senz’altro giusto; ma l’articolo 316bis, va oltre, impone al figlio di contribuire al mantenimento della famiglia (genitori, fratelli, cognati....).

Doc. Ma questo é giusto, o, almeno, é in linea con i principi che ispirano il nostro di diritto di famiglia: non abbiamo già visto che, in base a tali principi, nell’ambito della famiglia vige un....regime comunista?!

Disc. Mettiamoci ora nell’ipotesi che il figlio sia minorenne: nel suo contributo alle spese del menage familiare vanno calcolati “i frutti” dell’usufrutto dei suoi beni (che i genitori trattengono).

Doc. Certamente,sì.

Disc. Il figlio non ha altri obblighi verso i genitori oltre a quello di contribuire alle

spese come or ora detto?

Doc. No, egli ha anche l’obbligo di “rispettare” i genitori. Questo il termine usato dal legislatore nell’ultimo comma dell’art. 315bis.

Disc. Ma tutti noi abbiamo l’obbligo di rispettare un’altra persona, qualsiasi altra persona, quindi dire che il figlio deve rispettare il genitore é cosa totalmente banale e superflua, che il legislatore poteva evitarsi.

Doc. E’ così; e in effetti il Codice Rocco, nella sua originaria scrittura, faceva obbligo al figlio di “onorare”, e non semplicemente di rispettare, il genitore: e questo era conforme al Pensiero Tradizionale.Mentre, infatti, il legislatore laico, nella sua smania di demitizzare, tende a inaridire e a impoverire i rapporti umani; il Pensiero Tradizionale tende a dignificarli: il figlio deve onorare il padre perché il padre é un rappresentante di Dio (nel suo aspetto paterno), lo sposo deve onorare la sposa perché questa é la rappresentante di Dio nel suo aspetto femminile e così via. Di conseguenza, tali rapporti assumano un alcunchédi sacro e di sublime, che,ahimè, nel mondo moderno tende a perdersi.

Disc. Ma che stupidaggini: il padre, la sposa, rappresentanti di Dio! Quando guardo a mio padre e alla mia sposa vedo solo delle povere creature in carne ed ossa come sono io.

Doc. Non é vero: se la donna da te amata fosse solo un composto di carne, muscoli, sangue ecc., se il sole fosse solo un composto di materia incandescente, tu non saresti affascinato dalla prima e non guarderesti ammirato il secondo. In realtà ogni essere, ogni cosa nasconde in sé un quid profondo, che parla e si fa sentire solo che si abbia per ciò l’orecchio e la sensibilità abbastanza fine.

Disc. Sensibilità che l’uomo moderno ha perduto mentre l’aveva l’uomo tradizionale: riproponi sempre le tue vecchie idee, che invece faresti bene a tenere per te, se non vuoi essere considerato mezzo matto.Cerchiamo piuttosto di rispondere a una domanda, che, mi accorgo, abbiamo sempre pretermessa, forse perché la sua risposta é scontata, ma che comunque, dal punto logico, é fondamentale: chi é investito della responsabilità genitoriale? tutti e due i genitori, uno solo dei genitori, un terzo qualsiasi?

Doc. Tutti e due i genitori, se essi sono legalmente coniugati; come abbiamo già visto leggendo il primo comma dell’art. 316.

Disc. E se non sono legalmente coniugati?

Doc. A questa domanda ti risponde, non più il primo, ma il quarto comma dell’articolo 316, che recita: “Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, é fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”.

Lezione XIX: L’adozione.

Doc. Parlando della filiazione abbiamo visto come, dei (pesanti!) doveri connessi allo status di genitore giuridico, venga gravato il genitore biologico (“Tu, Beppe, dato che, in un dato momento della sua vita, hai avuta l’idea più o meno felice di mettere al mondo Marietto, devi mantenerlo, istruirlo, ecc)); ora, parlando dell’adozione, vedremo invece dei casi in cui, di tali doveri, viene gravata una persona (il commendator Parodi) solo perché, in un dato momento della sua vita, ha spontaneamente voluto caricarsene il peso.

Disc.Ma dico subito che ciò a me non pare né giusto né sensato: il peso dei doveri genitoriali é giusto caricarlo sulle spalle di Beppe, il genitore biologico, perché a lui tale peso sarà reso sopportabile dall’istinto paterno e da quell’affinità di carattere col figlio (con Marietto) che si deve supporre tra chi ha lo stesso sangue; però non é altrettanto giusto caricarlo sulle spalle del commendator Parodi, solo perché, in un dato momento della sua vita, per motivi i più diversi e non si sa quanto meditati, ha deciso di “adottare Marietto”.Tu mi dirai che pure chi si sposa viene gravato di doveri pesantissimi (quelli connessi allo status di coniuge) solo perché in un dato momento della sua vita gli é girato di dire il fatidico “sì”; però in tal caso é lecito pensare che l’attrazione sessuale, l’amore verso l’altro coniuge, renderanno il peso di tali doveri sopportabile. E poi, esiste il “divorzio”: se il marito si accorge di non poter sopportare più il carattere della consorte può troncare il legame con lei; invece il Parodi, mica può revocare l’adozione, se si accorge di non poter sopportare più il carattere di Marietto (il figlio adottato, e adottato probabilmente quando ancora il suo carattere era in formazione e quindi non si poteva ben dire quale sarebbe stato)!

Doc. Le cose che dici sono sostanzialmente giuste; e vedremo che in una certa misura il legislatore ne tiene conto.

Disc. Come?

Doc. Col fatto stesso di subordinare l’adozione a una procedura giudiziaria sfociante in una vera e propria sentenza, col fatto di imporre, almeno nell’adozione dei minorenni, all’autorità giudiziaria di disporre, prima di pronunciare tale sentenza, “indagini” sui motivi che hanno portato alla richiesta di adozione – indagini che senza dubbio mirano in modo preminente alla tutela del minorenne, ma che indirettamente tutelano il richiedente – infine, alleggerendo il peso dei doveri (genitoriali) di cui il richiedente l’adozione va a caricarsi - questo almeno per alcuni tipi di adozione.

Disc. Quindi, vi sono diversi tipi di adozione.

Doc. Più precisamente ce ne sono tre: 1- l’adozione dei maggiorenni (disciplinata nell’art. 291 e ss. del Codice); 2- l’adozione legittimante dei minorenni (disciplinata dalla Legge 4 maggio 1983 n.184, nel titolo II, artt. 6 e ss.); 3- l’adozione non-legittimante dei minorenni (disciplinata sempre dalla Legge 184/1983 nell’art. 44 ss.).

Disc. Comincia a dire dell’adozione dei maggiorenni.

Doc. Mentre l’adozione dei minorenni, come vedremo, non sempre, anzi raramente, necessita del consenso dell’adottando (ma, chiarisco subito, ciò, non perché il legislatore non voglia tenere conto della volontà dell’adottando, ma semplicemente perché questi non sempre, anzi raramente ha raggiunta l’età che gli permetterebbe di esprimerla seriamente e meditatamente) l’adozione del maggiorenne sempre il consenso dell’adottando richiede. Ed é naturale che sia così, dato che per Caio diventare figlio adottivo di Sempronio (ciò che implica, tra l’altro l’assunzione del cognome di Sempronio – vedi melius, l’articolo 299) può presentare degli intuitivi inconvenienti (pensa solo al caso in cui Caio é uno stimato professionista e Sempronio un malfamato malavitoso). Ma l’adozione del maggiorenne, non solo richiede il consenso dell’adottando, ma (cosa che invece non avviene mai nell’adozione legittimante del minorenne!) richiede anche il consenso dei suoi genitori e del suo coniuge, quindi dei più significativi esponenti della sua “famiglia di

origine” (v. art. 297 co.1)Famiglia verso cui questi continua a conservare tutti i precedenti legami giuridici e d’affetto; infatti il primo comma dell’articolo 300 recita: “L’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge”.

Disc. L’adozione richiede il consenso dei figli?

Doc. Richiede il consenso del coniuge, ma non quello dei figli (naturali, per i figli legittimi il problema non si pone perché l’art. 291 non legittima all’adozione chi ha figli legittimi o legittimati).

Disc.Ma perché mai subordinare l’adozione al consenso del coniuge?

Doc. Evidentemente, perché il legislatore riconosce degno di tutela l’interesse del coniuge a non vedere ridimensionati, in seguito al concorso dell’adottato, i diritti successori propri e dei propri eventuali, futuri figli legittimi.

Disc. Ma tale tutela aveva senso un tempo; non ora che é ammesso il riconoscimento, e poi la legittimazione, di un figlio (anche adulterino! |) senza il consenso del coniuge.

Disc.L’adottato viene ad acquisire qualche diritto o dovere verso la famiglia dell’adottante?

Doc. No, così come l’adottante non acquisisce nessun diritto o dovere verso la famiglia dell’adottato, più precisamente il secondo comma dell’articolo 300 recita: “L’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato né tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge”.

Disc. Quali i diritti dell’adottato, quali i doveri dell’adottante?

Doc. In teoria l’adozione grava l’adottante di tutti i doveri di cui fa parola l’articolo 315bis (però solo in teoria, perché, se é ancora immaginabile un dovere dell’adottante verso l’adottato maggiorenne per l’istruzione e la alimentazione, é ben difficile pensare a un suo dovere verso di lui per l’educazione).

In pratica l’adottato acquisisce, se si trova in stato di bisogno, verso l’adottante un diritto agli alimenti (vedi l’art.436 secondo cui “L’adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con precedenza sui genitori legittimi o naturali di lui”) e gli stessi diritti successori che avrebbe un figlio (cosa per cui effettivamente l’adozione viene a comprimere i diritti del coniuge e dei figli dell’adottante).

Disc. Bene, questi, i diritti dell’adottato; quali quelli dell’adottante (verso l’adottato)?

Doc. Praticamente solo il diritto agli alimenti se si venisse a trovare in stato di bisogno.(v. l’art. 433); in particolare il primo comma dell’articolo 304, con estrema chiarezza stabilisce che “l’adozione non attribuisce all’adottante alcun diritto di successione”.

Disc. Può essere revocata l’adozione?

Doc. Solo in casi eccezionalissimi: i casi di reati gravissimi commessi dall’adottante verso l’adottato o dall’adottato verso l’adottante (vedi meglio gli artt. 306 e 307).

Disc. Tu avevi prima detto che il legislatore adotta delle cautele per impedire delle adozioni, per così dire, avventate; tali cautele sono previste anche per il tipo d’adozione in discorso.

Doc. Certamente: anche l’adozione di un maggiorenne, non é che si possa fare con una scrittura privata o pubblica: viene dichiarata dall’autorità giudiziaria, più precisamente dal tribunale, con sentenza dopo aver accertato che “l’adozione conviene all’adottato” (e, quindi, anche l’adottante: così come non ci può essere matrimonio felice che convenga a Caia se non conviene anche a Caio, così non vi può essere un felice rapporto tra adottante e adottato se l’adozione conviene a questo e non a quello).

Disc. Parliamo ora dell’adozione legittimante.

Doc. L’adozione legittimante può avvenire solo nei confronti dei minorenni per cui sia stato dichiarato lo “stato di adottabilità” (art.7 L. 184/1983) in quanto trovantisi in “stato di abbandono” (art. 8 legge 184/ 1983 da noi già preso in considerazione).

Disc. Penso che, chi desidera adottare, sceglierà tra i minorenni quello, che più si

avvicina al figlio che vorrebbe avere, e farà domanda al Tribunale per adottarlo.

Doc. Nulla di tutto questo: la filosofia della legge é che si deve impedire che il minorenne venga scelto (col rischio così che alla fine risultino scartati proprio i minorenni più bisognosi di assistenza). La coppia di coniugi che desidera adottare, deve limitarsi a inoltrarne domanda al tribunale: sarà questi che la sceglierà per un “affidamento preadottivo”; cioé per un periodo di convivenza volto ad accertare se coniugi e minorenne sono “compatibili” tra di loro. Naturalmente il tribunale non opererà la sua scelta alla cieca: da una parte, disporrà indagini volte ad accertare “in particolare la capacità di educare il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare dei richiedenti, i motivi per i quali questi desiderano adottare (co.4 art.22), dall’altra, sentirà il minore.(v. melius, il co.6 art. 22 citato).

Disc. Ma la legge non riconosce il potere, alla coppia, di rifiutare il minorenne affidando, e a questi, di rifiutare la coppia affidataria?

Doc. Certo, la coppia – che, bada, ha diritto di essere informata “su fatti rilevanti, relativi al minore (non ai suoi genitori) emersi dalle indagini” (cioé se egli ha degli handicap, ha un carattere violento ecc.) – potrà sempre rifiutare l’affidamento di quel minore e questi potrà sempre rifiutare quella coppia se ha già compiuto i quattordici anni (se non li ha ancora compiuti, verrà sentito, ma la sua volontà non sarà per il tribunale vincolante).

Disc. Mettiamoci nel caso che l’affidamento preadottivo si faccia e si concluda positivamente (la coppia dice “Si, voglio adottare quel minorenne”, il minorenne, che ha già compiuto i quattordici anni, dice “Sì, accetto di essere adottato da quella coppia”), allora che succede?

Doc. Succede, ovvio, che il tribunale con sentenza dichiarerà l’adozione.

Disc. E quali saranno gli effetti giuridici di tale sentenza?

Doc. Te lo dice l’articolo 27 (legge citata), il quale recita:“Per effetto dell’adozione l’adottato acquista lo stato di figlio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. (….)Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali “.

Come vedi l’adozione legittimante del minorenne presenta caratteristiche notevolmente diverse da quelle dell’adozione, prima vista, del maggiorenne. Una cosa di mezzo tra questi due tipi di adozione é l’adozione non legittimante di un minorenne.

Disc. Da quale legge é prevista?

Doc. E’ prevista sempre dalla legge 184/83 negli articoli 44 e ss.

Disc. Tu hai detto che questo tipo di adozione ha vari punti di contatto con l’adozione dei maggiorenni. Puoi indicarne alcuni?

Doc. Il primo punto di somiglianza é che, come nella adozione dei maggiorenni, la domanda di adozione é fatta ad personam: non, “Io voglio adottare un minorenne”, ma “Io voglio adottare quel determinato minorenne”; ad esempio, “Voglio adottare il figlio di mio fratello” “Voglio adottare il figlio che mio marito ha avuto fuori del matrimonio” “Voglio adottare il minorenne che già mio marito ha adottato” - tanto per trarre esempi dalle lettere a) e b) del primo comma dell’articolo 44.

Disc. Articolo che faresti bene a leggere, mi pare.

Doc. Hai ragione, ecco quel che dice il primo comma dell’articolo 44:“I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7 (condizioni che, come ricorderai, sono date dalla dichiarazione di adottabilità conseguente allo stato di abbandono):a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo quando il minore sia orfano di padre e di madre;b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge;c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate nell’articolo 3 comma 1, della legge 5 febbraio febbraio 1992 n. 104 (idest, sia handicappato) e sia orfano di padre e di madre;d) quando vi é la constata impossibilità di affidamento preadottivo”.

Disc. Indica un altro punto di somiglianza, tra il tipo di adozione che stiamo esaminando e la adozione di maggiorenni.

Doc. Un altro punto di somiglianza, é che per l’adozione occorre – oltre che il consenso dell’adottando, se ha compiuto i quattordici anni – anche l’assenso dei suoi genitori e del suo coniuge.

Disc. Che in questo tipo di adozione occorra il consenso dei genitori e del coniuge mi pare cosa piuttosto logica, dato che – al contrario di quanto avviene in caso di adozione legittimante – qui l’adottando, non é (almeno necessariamente) in stato di abbandono: può avere i genitori, può avere il coniuge che si curano di lui, e che pertanto danno affidamento di ben valutare, nel suo interesse, la convenienza dell’adozione. Mi meraviglia piuttosto che non sia preteso l’assenso del coniuge dell’adottante (come abbiamo visto avvenire nell’articolo 297).

Doc. Invece anche questo é piuttosto logico dal momento che, a differenza di quel che avviene nell’adozione del maggiorenne, l’adozione de qua non attribuisce all’adottato nessun diritto alla successione dell’adottante (quindi dall’adozione, il coniuge dell’adottante, nessuna ragione ha di temere un ridimensionamento dei diritti ereditari propri o dei suoi figli). Gli unici diritti che acquisisce l’adottando verso l’adottante – oltre a quello degli alimenti, se mai si trovasse da maggiorenne in stato di bisogno – sono quelli del diritto al mantenimento, all’istruzione, all’educazione (“conformemente a quanto prescritto dall’art. 147 del codice civile” dice il secondo comma dell’art. 48, e io aggiungerei “conformemente anche a quanto dice l’art. 315bis”, dato che questo articolo si applica a tutti i figli, poco importa se tali a seguito di un’adozione legittimante o no).

Disc. Abbiamo viste le somiglianze tra l’adozione de qua e l’adozione del maggiorenne....

Doc...... Le principali; ché altre si potrebbero segnalare: la possibilità che l’adottante sia single, la revocabilità dell’adozione sia pure in casi eccezionalissimi ….

Disc. ….Non approfondiamo ulteriormente un istituto che in fondo ha scarso rilievo nella pratica; indica piuttosto, i punti di contatto tra l’adozione di cui stiamo parlando e l’adozione legittimante.

Doc. Li possiamo ridurre a due, ma di un certo rilievo: il fatto che l’adozione sia in favore di un minorenne e il fatto che (pertanto) essa possa realizzarsi in certi casi anche senza il consenso dell’adottando.

Disc. Anche in questo tipo di adozione il legislatore, penso, adotterà cautele per evitare che essa risulti contraria all’interesse dell’adottato (e indirettamente dell’adottando).

Doc. Chiaro che sì: il tribunale, per l’articolo 57, può dichiarare l’adozione solo dopo aver verificato con opportune indagini che essa “realizza il preminente interesse del minore”.

Sezione settima: Separazione e divorzio

Lezione XX: Cause giustificative e iter di una separazione e di un divorzio.

Disc. Anche un grande amore può finire: che succede se il matrimonio entra in crisi?

Doc. Ci si separa e/o ci si divorzia; naturalmente se della separazione e del divorzio sussistono i presupposti legali.

Disc. Cominciamo col dire i presupposti di un divorzio.

Doc. Essi sono dati dall’intervenire di fatti, che escludono quella “comunione spirituale e materiale” tra i coniugi, che sola, per il legislatore, giustifica il matrimonio e i pesanti obblighi che ne derivano.Così come risulta dall’articolo 1 della Legge che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio (la Legge 01.12-1979 n. 898), che recita: “Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio (….) quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione (….) accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3”.

Disc. Ma direi che, proprio dall’articolo da te citato, risulta che il venir meno della “comunione spirituale e materiale tra i coniugi”, non é condizione sufficiente per il “divorzio”: occorre che il venir meno di tale “comunione” tra i coniugi sia dovuto a determinate “cause”.

Doc. Io riterrei preferibile dire che il legislatore vuole che il venir meno di tale

“comunione” sia dimostrato da determinati fatti; alcuni dei quali, lo fanno presumere in modo assoluto (senza cioé che il giudice debba accertare se effettivamente la “comunione” tra i coniugi é venuta meno), altri, invece, lo fanno presumere in modo relativo (cioé, tali fatti sono sufficienti a che il giudice ritenga il venir meno della “comunione” a condizione che non vengano contraddetti e per così dire controbilanciati da altri fatti di segno contrario).

Disc. Indica alcuni fatti la cui esistenza fa presumere in modo assoluto il venir meno della “comunione” tra i coniugi.

Doc. In primis, tra tali fatti - (come risulta all’articolo 3 n.2 lett.b Legge 1 dicembre 1970, n.898, che lo studioso vedrà riportato in una nota in calce al paragrafo) - vanno indicati i seguenti: I- l’essere intervenuto (alternativamente): A1) il passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la separazione; B1) il decreto di omologa della separazione consensuale (davanti al giudice); C1) il “nullaosta” o la “autorizzazione” alla annotazione della “convenzione di separazione”; D) la “conferma” della “separazione innanzi all’ufficiale di stato civile”; II – l’essersi lo stato di separazione protratto ininterrottamente per un certo tempo.

Disc. E tale tempo verrà computato, penso, da uno dei fatti da te prima indicati sub I.

Doc. Per nulla, infatti il tempo necessario alla maturazione del diritto al divorzio é: A2) di dodici mesi a partire dalla avvenuta comparizione delle parti innanzi al presidente, nel caso di “separazione personale”(più chiaramente, in caso di “separazione personale contenziosa”); B2- di sei mesi sempre a partire dalla comparizione delle parti innanzi al presidente, nel caso di “separazione consensuale” (più chiaramente, in caso di “separazione consensuale davanti al giudice”); C2- ancora di sei mesi a partire dalla “ data” della “convenzione di separazione assistita”; D2- ancora di sei mesi dalla data dell’accordo di separazione “concluso innanzi all’ufficiale di stato civile”.

Disc. Vai avanti: indica alcuni altri fatti che fanno presumere in modo assoluto il venir meno della “comunione” fra i coniugi.

Doc. Tra tali fatti posso indicare:- il fatto che “l’altro coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero

l’annullamento e lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all’estero nuovo matrimonio” (lett. e n.2 sempre dell’art.3);- il fatto che “il matrimonio non sia stato consumato” (lett. f n.2 sempre articolo 3);- il fatto che sia passata in giudicato la sentenza di rettificazione del sesso dell’altro coniuge (lett. g n.2 art.3); - il fatto che l’altro coniuge sia stato condannato a pene particolarmente gravi o che a suo carico siano stati accertati (anche con sentenze civili) reati particolarmente gravi (vedi melius, le lettere a), b), c) del numero 1 art.3 e le lettere c) e d) n.2 sempreart.3).

Disc. Avranno solo rilievo, penso, reati commessi dopo il matrimonio.

Doc. No, hanno rilievo anche reati commessi prima del matrimonio; quel che importa é che la sentenza sia pronunciata dopo la sua celebrazione.

Disc. Quelli da te prima indicati sono casi in cui vi é una presunzione assoluta del venir meno della “comunione” tra coniugi; in che casi invece si ha una presunzione relativa, cioé una presunzione destinata a cadere di fronte a fatti ad essa contrari?

Doc. Nei casi di reati non particolarmente gravi (lesioni, violazione di obblighi di assistenza, maltrattamenti...) o anche di reati gravi di cui però il coniuge é stato prosciolto per infermità di mente, in tali casi infatti il giudice può dichiarare lo scioglimento del matrimonio solo se “accerta la inidoneità del convenuto a mantenere o a ricostituire la convivenza familiare” (v. melius, la lettera d) del n.1 art.3 e la lettera a) del n.2 sempre dell’art.3).

Disc. Abbiamo visto quali sono i presupposti voluti dalla Legge perché Caio possa ottenere la dichiarazione che (finalmente! ) é “divorziato” da Caia, ma la strada che egli deve percorrere per giungere a tale traguardo, a tale dichiarazione, é lunga o corta?

Doc. Certamente non é corta, se Caia, al divorzio, si oppone; diventa invece corta e facile se Caia e Caio sono concordi nel volerlo e richiederlo.Infatti la Legge, a due coniugi che sono intenzionati a risolvere i problemi, che nascono dalla loro crisi matrimoniale, amichevolmente, offre tre procedure, facili da percorrere, per giungere al “divorzio”: I- la procedura per “ricorso congiunto”; II- la procedura di “negoziazione assistita”; III – la procedura davanti al sindaco.

Disc. Comincia a dire sulla procedura per ricorso congiunto.

Doc. E’ prevista dal comma 16 dell’art 4 Legge 1 dicembre 1970 n.898 (che é la legge che disciplina “i casi di scioglimento del matrimonio”).Tale comma così recita: “ La domanda congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici (la sottolineatura é naturalmente mia) é proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio. Il tribunale, sentiti i coniugi, verificata l’esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli, decide con sentenza. Qualora il tribunale ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con gli interessi degli stessi, si applica la procedura di cui al comma 8”.Ciò significa che - se i coniugi (o per loro i loro avvocati) avranno l’avvertenza di indicare compiutamente le condizioni relative ai rapporti economici e quelle relative ai figli (indicando a chi, questi, saranno “affidati”, dove andranno ad abitare, come si provvederà al loro mantenimento, educazione, istruzione....) e, soprattutto, avranno l’avvertenza di stabilire quest’ultime condizioni pensando realmente all’interesse dei figli - essi potranno giovarsi delle semplificazioni connesse a una procedura in “camera di consiglio” (no, alla necessità di notificare il ricorso; no, alla battuta di arresto per permettere il deposito di una memoria; no, al macchinoso tentativo di conciliazione; no, alla necessità di sentire i figli; no, soprattutto, al passaggio alla fase istruttoria).

Disc. Passiamo ora alla procedura “per negoziazione assistita”.

Doc. Questa procedura, da chiamarsi più precisamente “ per convenzione assistita da uno o più avvocati”, é prevista dall’art.6 D.L. 12 settembre 2014, n.132, e, va segnalato subito, é utilizzabile - non solo, come recita la rubrica dell’art.6 (articolo che lo studioso può vedere riportato nella nota posta in calce al presente paragrafo),“ per le soluzioni consensuali di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (in parole più semplici, per ottenere un “divorzio”) - ma anche “per le soluzioni consensuali – stiamo sempre riportando le parole della rubrica all’articolo 6 – di separazioni personali o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio” (in parole più semplici, per ottenere una separazione o una modifica delle condizioni di separazione o di divorzio).Quel che caratterizza tale procedura é che il divorzio (o la separazione o la modifica

delle condizioni di divorzio o di separazione) avviene (avvengono) fuori delle aule giudiziarie.

Disc. I coniugi, quindi, fanno tutto da sé? Caio e Caia un bel giorno si incontrano e soli soletti mettono nero sul bianco: “I sottoscritti Caio e Caia di comune accordo dichiarano di volere divorziare (o separarsi....)”, e...il divorzio (la separazione) é fatto (sono fatti).

Doc. No, Caio e Caia non possono fare tutto da sé, ma debbono richiedere l’assistenza di un avvocato (o di più avvocati) - un avvocato (o più avvocati) per parte, secondo l’interpretazione preferibile; un avvocato (o più avvocati) per tutelare entrambe le parti secondo altra interpretazione.E tale avvocato non può limitarsi a suggerire al cliente (o ai clienti, nel caso tuteli entrambi i coniugi) il contenuto della convenzione (di divorzio, separazione, o di modifica di precedenti condizioni di divorzio o separazione), ma deve (v. comma 3 art.6): 1) tentare di conciliare i coniugi e informarli della possibilità di esperire la mediazione familiare; 2) far presente “l’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori”; 3) controllare che l’accordo non contenga clausole contrarie a “ norme imperative e all’ordine pubblico” (contraria all’ordine pubblico sarebbe, ad esempio, una clausola, inserita nell’accordo di separazione, che prevedesse la cessazione dell’obbligo di dare l’assegno di mantenimento, in caso di opposizione al divorzio, da parte del coniuge mantenuto) - rifiutando la sua sottoscrizione all’accordo, nel caso i coniugi volessero, nonostante tutto, inserire tali clausole.

Disc. Quindi, l’avvocato deve sottoscrivere la “convenzione”.

Doc. Certo che sì, tale convenzione infatti, non solo raccoglie le dichiarazioni di volontà dei coniugi ma anche la sua dichiarazione, di aver adempiuti gli incombenti di cui sopra e che le firme, apposte dai coniugi, sono autografe (vedi sempre il comma tre).

Disc. Con la sottoscrizione dei coniugi e dell’avvocato (o degli avvocati) tutto é finito? il divorzio (la separazione....) si é perfezionata?

Doc. No di certo, lo Stato non può fidarsi al cento per cento della correttezza e della competenza degli avvocati, che hanno assistito i coniugi nella convenzione, e quindi

vuole che questa sia sottoposta al controllo del procuratore della Repubblica - controllo di diversa intensità a seconda che i coniugi abbiano o no figli (ben s’intenda, figli comuni, non figli di un coniuge con un terzo) bisognosi o no di una loro assistenza e tutela (figli minori, o con handicap, o anche sani e maggiorenni ma con diritto al mantenimento perché comunque non in grado di procurarsi un reddito....). In caso di coniugi senza figli o con figli “autosufficienti”, il procuratore può e deve limitarsi a un controllo del tutto formale (vi é la sottoscrizione dei coniugi? le loro firme sono state autenticate?. ...) e in caso di esito positivo di tale controllo deve rilasciare un “nulla osta”.

Disc. Il procuratore può rifiutare il nulla osta quando ritenga l’inserimento nella “convenzione” di clausole contrarie all’ordine pubblico o a norme imperative? -

Doc. Io lo negherei. Neanche il presidente, in sede di separazione consensuale, può rifiutare l’omologa per la pretesa nullità di qualche clausola dell’accordo coniugale, (ma deve rimettere la relativa decisione al Collegio, contro le cui decisioni é prevista la possibilità del reclamo). Tanto meno quindi potrà far questo un magistrato contro le cui decisioni, se erronee, non si saprebbe come trovare rimedio (se non optando per una procedura alternativa - ma é chiaro che tale opzione comporterebbe inconvenienti di cui non sarebbe giusto gravare la parte).

Disc. Andiamo oltre: che accade in caso di coniugi con figli non autosufficienti?

Doc. In tale caso il controllo del procuratore deve essere più penetrante in quanto deve verificare che l’accordo dei genitori sia conforme all’interesse dei loro figli. Se tale lo ritiene, rilascia una “autorizzazione” (autorizzazione a che? la legge non lo dice chiaramente, ma vien logico pensare, autorizzazione alla trasmissione della copia autentica dell’accordo all’ufficiale dello stato civile – vedi ultima parte comma tre art.6). Se invece tale non lo ritiene, lo trasmette al presidente del tribunale.

Disc. E che deve fare il presidente?

Doc. Su quel che deve fare il presidente la Legge non fa luce: si limita a dire che egli deve fissare “la comparizione delle parti e provvedere senza ritardo” (vedi comma 2 art. 6). E a me la migliore interpretazione (del silenzio legislativo) sembra essere questa: il legislatore vuole che, se il presidente, discostandosi dall’opinione del procuratore, ritiene la convenzione conforme all’interesse dei figli, la autorizzi, che

se, invece, non la ritiene tale, rimetta la decisione al Collegio (contro il cui decreto le parti avranno diritto di reclamo alla Corte di Appello).

Disc. Ottenuto il “nullaosta” o la “autorizzazione” di cui sopra, il divorzio potrà considerarsi perfezionato e produttivo di effetti?

Doc. Bisogna, secondo me, distinguere tra efficacia della convenzione per i coniugi e per i terzi. L’efficacia per i coniugi si verificherà al momento dell’emissione del nullaosta e della autorizzazione; quella per i terzi si verificherà solo al momento dell’annotazione della convenzione nell’atto di matrimonio. E proprio in considerazione dell’importanza di questa annotazione, il legislatore fa all’avvocato preciso obbligo di trasmettere all’ufficiale di stato civile copia autentica della “convenzione” intervenuta tra i coniugi (obbligo il cui inadempimento é colpito da una sanzione amministrativa). Naturalmente da tale copia autentica dovrà risultare il “nulla osta” o la autorizzazione” rilasciata dall’autorità giudiziaria (e se questa e quello risulteranno, non potrà anche non risultare quella “certificazione della autografia delle firme e della conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico” pretesa dall’articolo 5, dato che é impensabile che il procuratore o il giudice autorizzino o diano il nulla osta a una convenzione da cui non risulti tale certificazione - cosa per cui del tutto superfluo é il richiamo contenuto nella ultimissima riga del comma terzo art.6).

Disc. Passiamo ora alla terza delle procedure che possono condurre in via breve al divorzio (o alla separazione).

Doc. Questa terza procedura é sempre prevista dal D.L. 132/2014, ma non dal suo articolo 6, bensì dal suo articolo 12 (che lo studioso vedrà riportato nella terza nota apposta in calce al presente paragrafo).In questa procedura é il sindaco, nella sua qualità di ufficiale di stato civile, che riceve la dichiarazione fatta dalle parti (e fatta personalmente, non tramite un terzo, in particolare non tramite un avvocato! ) “ che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate”. Ed é ancora davanti al sindaco che viene compilato e sottoscritto (“immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni” di cui ora si é detto! ) “ l’atto contenente l’accordo” (per il divorzio o la separazione o per la modificazione delle condizioni del divorzio e della separazione).

Disc. Ma l’ufficiale di stato civile limiterà il suo compito a dar pubblica fede delle dichiarazioni delle parti o potrà assisterle con chiarimenti e suggerimenti nella compilazione dell’accordo?

Doc. Certamente tale assistenza non può dirsi rientri nei compiti dell’ufficiale di stato civile; e del resto il presupposto di questa procedura é che le parti si presentino davanti all’ufficiale di stato civile avendo già “concordate” tra di loro le condizioni del divorzio o della separazione. Mi pare però che nulla vieti all’ufficiale di stato civile di assistere le parti con qualche chiarimento. Certo escluderei che l’ufficiale di stato civile possa rifiutare di accettare questa o quella clausola dell’accordo coniugale, anche qualora la ritenesse contraria all’ordine pubblico e a norme imperative. Come abbian visto, ciò non può fare il procuratore della Repubblica, quindi tanto meno lo può fare chi, come l’ufficiale di stato civile, non dà un particolare affidamento di non cadere in errori di interpretazione della legge - errori contro cui poi non si saprebbe come rimediare.

Disc. Le parti possono farsi assistere da un avvocato?

Doc. Possono, ma non debbono. E proprio la possibilità della mancanza di una efficace assistenza tecnica e la presumibilmente scarsa attitudine giuridica dell’ufficiale dello stato civile, convincono il legislatore a escludere la procedura de qua nel caso che i coniugi abbiano figli minori o comunque latu sensu non “autosufficienti” (vedi comma 2 art. 12) e a dichiarare inammissibile l’inserimento nell’accordo coniugale di “patti di trasferimento patrimoniale”.

Disc. Quindi l’ufficiale di stato civile non compie neanche quel tentativo di conciliazione dei coniugi (che invece é doveroso sia nella separazione consensuale sia nella separazione per “convenzione assistita da un avvocato”), così che diventa ben possibile che i coniugi si separino o divorzino solo a causa di un passeggero stato di tensione tra di loro verificatosi.

Doc. E’ così, e proprio perché é così, la convenzione (di divorzio o separazione - non, però, di modifica delle condizioni di un precedente divorzio o separazione) non si perfeziona in sede di prima comparizione davanti all’ufficiale stato civile: infatti questi, dopo aver ricevuta la dichiarazione di volersi separare o divorziare, dopo aver compilato l’atto contenente l’accordo, invita i coniugi “ a comparire di fronte a sè non prima di trenta giorni (dalla ricezione della dichiarazione) per la conferma

dell’accordo”. E “la mancata comparizione (dei coniugi) equivale a mancata conferma dell’accordo”.

Disc. Voltiamo pagina. Caia non ne può più di vivere sotto lo stesso tetto con Caio, ma questi non le vuole dire addio: che deve fare per ….non vederselo più tra i piedi?

Doc. Certo non può fare fagotto e lasciare Caio...in asso.

Disc. Perché?

Doc. Perché così facendo si espone a sanzioni penali e civili. Infatti l’articolo 570 Cod. Pen. contempla anche la reclusione per chi “abbandona il domicilio domestico”.

Disc. E le sanzioni civili?

Doc. Queste sono previste dall’art. 146, che (sotto la rubrica “Allontanamento dalla residenza familiare”) recita: “Il diritto all’assistenza morale e materiale previsto dall’articolo 143 é sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi. - La proposizione della domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare”.

Disc. Quindi Caia non avrà diritto neanche l’assegno alimentare.

Doc. Sì, finché non ritorna sotto il tetto coniugale non avrà neanche diritto all’assegno alimentare. A meno che, fondata o no, proponga domanda di separazione.

Disc. Sì, ma qual’é il presupposto di una fondata domanda di separazione?

Doc. E’ lo stesso di una fondata domanda di divorzio: il venir meno della “comunione materiale e spirituale tra i coniugi”.

Disc. Non la “intollerabilità della convivenza”?

Doc. A dir il vero l’articolo 151 (che ha per rubrica “Separazione personale”) richiama proprio la intollerabilità della convivenza come sufficiente condizione per ottenere la separazione. Infatti esso recita: “La separazione può essere chiesta quando

si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recaregrave pregiudizio alla educazione della prole. - Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.

Disc. A dir il vero, a me l’articolo, che hai riportato, appare un po’ ridondante, specie quando indica come motivo giustificante la separazione, accanto alla intollerabilità della convivenza, l’esistenza di “fatti tali” “da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” (qualora, é logico intendere, non si ponga termine alla convivenza). Sarebbe bastato il riferimento alla “intollerabilità della convivenza”; e infatti un genitore non può non sentire intollerabile una convivenza che arreca danno ai suoi figli.

Doc. Tu hai ragione; ma non é questo il punto. Il punto é che il legislatore pone laintollerabilità della convivenza come condizione, non solo sufficiente, ma necessaria della separazione; il che é assurdo, dal momento che, come abbiamo visto, é condizione sufficiente per il divorzio il semplice venir meno della “comunione spirituale e materiale dei coniugi” (venir meno che di per sé non rende certo intollerabile una convivenza). Ora, se il venir meno della “comunione” basta a giustificare il divorzio, tanto più deve bastare a giustificare la separazione (che é un minus rispetto al divorzio).

Disc. E per quel che riguarda l’addebitabilità della separazione?

Doc. Siccome risulta chiaramente, dal secondo comma dell’articolo sopra riportato, che la separazione é addebitabile a un coniuge, quando questo ha “tenuto un comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”, rinviamo sul punto a quanto detto in precedente paragrafo su tali doveri.

Disc. Poniamo che la prosecuzione della convivenza venga a recare “ grave pregiudizio all’educazione della prole”: può un terzo (metti uno dei nonni, uno degli zii, e, perché no? il pubblico ministero) chiedere la separazione dei coniugi.?

Doc. No, lo vieta il terzo comma dell’articolo 150, recitando “ Il diritto di chiedere la separazione giudiziale o l’omologazione di quella consensuale spetta esclusivamente

ai coniugi”.Chiaramente questo significa che quei provvedimenti a tutela dei figli, che sono previsti per il caso di separazione (in primis, l’affidamento dei figli a questo anziché a quel coniuge) non sono adottabili, fino a che almeno uno dei coniugi non si decide a chiedere la separazione. Solo dopo che la crisi coniugale si é palesata con una separazione (con efficacia legale), si applicano, come vedremo meglio in seguito, gli articoli 337ter e seguenti e lo Stato interviene (e pesantemente) nella gestione dei rapporti genitori/figli - infatti l’art. 337bis recita: “ In caso (e solo in caso!) di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio si applicano le disposizioni del presente capo”, cioé, come dicevo, gli articoli 337ter e seguenti.

Disc. Poniamoci ora, non più nel caso che Caia vuole e Caio, no; ma nel caso che sia Caia che Caio vogliano vivere separatamente: debbono, per farlo, domandarne autorizzazione alla Autorità giudiziaria?

Doc. No, se due coniugi sono d’accordo nel vivere sotto tetti diversi, lo possono fare liberamente (e senza tema di essere colpiti da quelle sanzioni di cui prima parlavo a proposito, però, di allontanamento unilateralmente deciso dalla residenza coniugale). Però debbono sapere che essi per lo Stato sono soggetti allo stesso regime che regola due coniugi regolarmente conviventi; e ciò significa (tra l’altro): che non maturerà per loro il tempo necessario per chiedere il divorzio (dato che tale tempo decorre, come abbiamo prima visto, “dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente”, dalla data della convenzione assistita ….vedi meglio quanto prima detto a proposito del divorzio); che gli accordi tra di loro presi (circa l’affidamento dei figli, la corresponsione di un assegno alimentare ….) avranno “durezza” ancor minore degli accordi presi in sede di separazione: questi infatti hanno almeno vigore rebus sic stantibus (cioé, fino a che non intervengono fatti nuovi, vincolano); quelli, invece, potranno essere cambiati, o risolti totalmente, solo che uno dei coniugi re melius perpensa, ci ripensi e li ritenga contrari all’interesse familiare (o semplicemente....al suo interesse).

Disc. Ho capito l’antifona: ai coniugi converrà chinare la testa e adottare una delle procedure, che portano a una separazione avente effetti legali.Due di tali procedure le abbiamo indirettamente viste parlando del divorzio, e sono quella di fare una “convenzione di separazione assistita da un avvocato” e quella di fare la separazione davanti al sindaco; la terza procedura, se ho ben capito, é data

dalla separazione consensuale davanti al giudice: due parole su questa.

Doc. La “separazione consensuale davanti al giudice” é prevista dall’art.158 C.C. e dall’art. 711 C.P.C.Il primo comma dell’articolo 158 recita: “La separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza la omologazione del giudice”.Questa disposizione, in parte superata (in quanto sappiamo che ora vi sono delle separazioni consensuali, che hanno effetto a prescindere dalla loro omologa), continua a essere in parte ancora attuale. Infatti é ancora vero che la procedura di separazione consensuale prevede un’udienza in cui le parti, fallito il tentativo di conciliazione, predispongono un accordo di separazione (con la fattiva assistenza del presidente, il quale però non può né imporre né impedire l’inserimento nell’accordo di questa o quella clausola) ed é ancora vero che tale accordo può essere rifiutato dal giudice (ciò che impedirebbe l’efficacia legale della separazione) - questo però solo quando ritiene l’accordo non conforme all’interesse dei figli. Così come detto nel secondo comma dell’articolo 158, che recita: “Quando l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli é in contrasto con l’interesse di questi il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell’interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’omologazione”.

Disc. E l’articolo 711 che cosa dice?

Doc. L’articolo 711 recita (sotto la rubrica “ Separazione consensuale”): “Nel caso di separazione consensuale previsto nell’art. 158 c.c., il presidente, su ricorso di entrambi i coniugi, deve sentirli nel giorno da lui stabilito e curare di conciliarli nel modo indicato dall’articolo 708. - Se il ricorso é presentato da uno solo dei coniugi, si applica l’art. 706 ultimo comma.- Se la conciliazione non riesce, si dà atto nel verbale del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi e la prole. - La separazione consensuale acquista efficacia con l’omologazione del tribunale, il quale provvede in camera di consiglio su relazione del presidente.- Le condizioni della separazione consensuale sono modificabili a norma dell’articolo precedente.”

Disc. Andiamo avanti. Quando due persone hanno divorziato, se vogliono tornare a vivere insieme come legittimi coniugi, debbono tornare davanti all’ufficiale di stato civile per celebrare un altro matrimonio; anche Caio e Caia che si sono “separati”

(consensualmente o no, poco qui importa), se hanno un “ripensamento”, dovranno tornare davanti all’autorità (il giudice, l’ufficiale di stato civile o chicchessia) per ripristinare tra di loro tutti i diritti e gli obblighi (compreso l’eventuale regime patrimoniale) che avevano prima della separazione?

Doc. No, per eliminare gli effetti della “separazione”, basta la chiara (anche se non espressa) volontà in tal senso dei coniugi. Come si argomenta facilmente dal primo comma dell’articolo 157, che recita: “I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione”.

Disc. Quindi non basterebbe, per far cessare gli effetti della separazione, un semplice incontro sotto le lenzuola di Caio e di Caia.

Doc. Certamente, no: occorrerebbe il ripristino tra di loro di una vera e propria convivenza. Solo in un tal caso tornerebbero a nuova vita gli obblighi tra di loro contratti con il matrimonio (l’obbligo di fedeltà, di collaborazione, di coabitazione...tutti gli obblighi insomma che abbiamo già visto parlando dell’articolo 143).

Disc. Torna a rivivere anche il precedente regime patrimoniale?

Doc. Sì, però compatibilmente con la tutela della buona fede dei terzi contraenti. Ciò significa, sì, che, se Caio e Caia avevano prima adottato il regime della comunione, l’immobile acquistato da Caio cadrà in comunione; ma pure significa che la vendita fatta da Caio di questo immobile in spregio all’articolo 184, e cioé senza il consenso di Caia, sarà perfettamente valida (a meno che risultasse annotata a margine dell’atto di matrimonio la dichiarazione con cui Caio e Caia manifestavano la loro volontà di riconciliarsi – vedi melius, art. 60 d.p.r. n.396 del 2000).

Disc. A parte questo, però, con la riconciliazione i coniugi riprendono e continuano la loro precedente vita matrimoniale.

Doc. Non precisamente. Infatti la riconciliazione produce una sorta di amnistia di tutte le violazioni degli obblighi matrimoniali prima avvenute. Insomma, due coniugi che si riconciliano devono sapere che con ciò “voltano pagina”, cominciano a

scrivere un nuovo capitolo della loro vita.

Disc. Da che cosa risulta questa specie di amnistia di cui tu parli?

Doc. Dal secondo comma dell’articolo 157, che recita: “La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.”

Disc. Ma la “amnistia” riguarda anche i fatti che giustificano la domanda di divorzio (tentato omicidio, maltrattamenti...)?

Doc. Sì, ma tali fatti, se non potranno essere posti a base di una domanda di separazione, potranno pur sempre giustificare una domanda di divorzio; nei limiti naturalmente che abbiamo prima visto - ciò significa che la riconciliazione potrà pur sempre essere considerata una dimostrazione della “idoneità” del coniuge “colpevole” a “ricostituire la convivenza”, nei casi, naturalmente, in cui ciò ha rilevanza per l’articolo 3 della legge sul divorzio.

Disc. I casi quindi delle lesioni e dei maltrattamenti, ma non del tentato omicidio. Ma non é un po’ assurdo che un fatto, come il tentato omicidio, possa giustificare il divorzio ma non quel quid minus che é la separazione?

Doc. Direi di sì, ma si tratta di un’assurdità non evitabile data la chiara lettera della legge.

Note 1) Art. 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898: “Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi (…..) nei casi in cui (….) é stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero é stata omologata la separazione consensuale ovvero é intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa é iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970.- In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale di stato civile. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”.

2)Art.6 – Convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento di matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.1) La convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio nei casi di cui all’art.3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1° dicembre 1970,n. 898, e successive modificazioni, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.2)In mancanza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’art.3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992,n.104, ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita é trasmesso al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente il quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti ai sensi del comma 3. In presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della repubblica presso il tribunale competente, il quale, quando ritiene che l’accordo risponde all’interesse dei figli, lo autorizza. Quando ritiene che l’accordo non corrisponde all’interesse dei figli, il procuratore della Repubblica, lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo. All’accordo autorizzato si applica il comma 3.3) L’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nell’accordo si dà atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare e che gli avvocati hanno informato le parti dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori. L’avvocato della parte é obbligato a trasmettere, entro il termine di dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo stesso, dell’accordo munito delle certificazioni di cui all’articolo 5.(omissis)

3) Art.12 -Separazione consensuale, richiesta congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi all’ufficiale dello stato civile.1) I coniugi possono concludere, innanzi al sindaco, quale ufficiale dello stato civile a norma dell’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000,n.396, del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui é iscritto o trascritto l’atto di matrimonio, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, un accordo di separazione personale ovvero, nei casi di cui all’articolo 3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1° dicembre 1970,n.898, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.2) Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano in presenza di figli minori, di figli

maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3,comma 3, della legge 5 febbraio 1992,n. 104, ovvero economicamente non autosufficienti.3)L’ufficiale dello stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate. Allo stesso modo si procede per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. L’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale. L’atto contenente l’accordo é compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni di cui al presente comma. L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nei soli casi di separazione personale, ovvero di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio secondo condizioni concordate, l’ufficiale dello stato civile, quando riceve le dichiarazioni dei coniugi, li invita a comparire di fronte a sé non prima di trenta giorni dalla ricezione per la conferma dell’accordo anche ai fini degli adempimenti di cui al comma 5. La mancata comparizione equivale a mancata conferma dell’accordo.(Omissis).

Lezione XXI: Diritti e doveri dei coniugi dopo la separazione, in mancanza di figli.

Doc. Praticamente la separazione fa piazza pulita di tutti gli obblighi derivanti dal matrimonio (obbligo di coabitazione, fedeltà, collaborazione...); a cui sostituisce l’obbligo di mantenimento o degli alimenti e, se vi sono dei figli, l’obbligo di permettere loro rapporti con l’altro coniuge e i nonni - così come meglio vedremo in seguito.E che la separazione estingua totalmente tutti gli obblighi derivanti dal matrimonio é logico, data la diversa funzione che essa assume attualmente rispetto a quella che aveva al momento in cui fu emanato il Codice.Quando fu emanato il Codice essa era il risultato di un compromesso: da un parte, volendosi mantenere fermo il principio dell’indissolubilità del matrimonio e, dall’altra, non potendo esporre uno o entrambi i coniugi allo stress di una convivenza diventata intollerabile (con rischio di conseguenti scenate, litigi, percosse e peggio: tutte cose che avrebbero finito per vulnerare quella stessa immagine dell’istituto matrimoniale, che si voleva tutelare) si mirava con la separazione a liberare i coniugi almeno da quello considerato tra gli obblighi il più pesante (e il più foriero di liti!), l’obbligo della coabitazione. Gli altri obblighi, nei limiti in cui non implicavano una frequentazione tra i coniugi, permanevano e non potevano non permanere, dato che Caio e Caia, anche se non coabitavano più, erano pur sempre persone che, di fronte alla società, erano marito e moglie e tali destinati a restare fino a che la morte

(finalmente!) non li dividesse.Ora, caduto il mito dell’indissolubilità del matrimonio, certamente nulla impedisce a Caia e a Caio, se così loro piace, di restare, nonostante il cessare della coabitazione, marito e moglie vita natural durante, ma l’esito naturale e a brevissimo termine della separazione é il “divorzio”; ciò é risaputo e notorio e dalla Società Caio e Caia non sono più visti come marito e moglie, ma come due “separati” in attesa di divorzio.

Disc. E allora lo stallo della separazione a che serve? Perché il Legislatore non permette a Caio e a Caia di accedere subito al “divorzio”?

Doc. Perché il Legislatore vuole mettere alla prova i sentimenti di Caio e Caia: verificare che la loro decisione di separare le loro vite non sia dovuta a una temporanea incomprensione destinata a rientrare con una (dal Legislatore, auspicata) riconciliazione.

Disc. Ma il Legislatore dichiara espressamente la caducazione di tutti gli obblighi matrimoniali (verso l’altro coniuge)?

Doc. No, il legislatore sul punto tace; ma basta a dedurre la sua volontà, nel senso che ti ho detto, il fatto che si limiti - in quella parte del Codice, che dovrebbe essere la naturale sede della disciplina di tutti i reciproci diritti e obblighi dei coniugi dopo la separazione (capo V, titolo VI, libro primo) - a indicare e disciplinare il diritto al mantenimento (nell’articolo 156) e il diritto al cognome (nell’art.156bis).

Disc. Parliamo allora dell’obbligo di mantenimento e degli alimenti: come si giustificano?

Doc. In realtà che Caio (a separazione avvenuta) debba provvedere al mantenimento di Caia (o viceversa) vita natural durante, non si può giustificare che con l’intenzione del legislatore di porre un freno alle separazioni. La logica infatti vorrebbe che il legislatore, in caso di separazione (e ancor più di divorzio) adottasse il criterio, da lui già adottato nell’art. 129, per il caso di matrimonio putativo: il giudice “dispone a carico di uno (dei coniugi) e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro in proporzione delle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze” - e basta, tutto dovrebbe finire lì.

Disc. E invece, non é così; e non é così perché, come tu dicevi, il Legislatore vuole porre un freno alle separazioni; ma come si giustifica questa sua volontà?

Doc. Si giustifica col fatto che – mentre nel caso di matrimonio nullo, é la sua persistenza a costituire un danno sociale – nel caso del matrimonio valido é la sua rottura a costituirlo.

Disc. Perché la rottura del matrimonio e, quindi, della unità familiare costituisce un danno sociale?

Doc. Prima di tutto, perché danneggia i membri della famiglia; e questo per almeno due motivi.Primo: perché diminuisce i beni di cui i componenti la famiglia possono permettersi di fruire. Mentre, Caio e Caia, quando coabitavano, potevano permettersi di fruire dei beni A,B,C, essi, dopo la separazione, potranno permettersi di fruire solo dei beni A e B.

Disc. Non capisco.

Doc. Eppure é facile da capire: mentre Caio e Caia, prima, potevano guardare la televisione, perché una televisione, mettendo i soldi tutti e due erano riusciti a comprarla, e bastava una televisione per tutti e due perché tutti e due insieme se la guardavano la sera in salotto; dopo, una volta separatisi, ciascuno di loro deve comprarsi una televisione dato che da solo deve guardarsela e....non é detto che abbiai soldi per farlo; e lo stesso puoi ripetere, mutatis mutandis, per beni come la luce, il gas ecc.

Disc. Capisco, passa a indicare il secondo motivo per cui la rottura della unità familiare danneggia i componenti della famiglia.

Doc. Questo secondo motivo va ravvisato nella necessità in cui, non sempre ma frequentemente, si trovano i coniugi, Caio e Caia, di reimpostare la propria vita: Caia, sposandosi, aveva lasciato l’insegnamento per fare la casalinga, ora, separatasi, dovrà smettere di fare la casalinga e cercare di reinserirsi nel mercato del lavoro; e non sarà facile per lei riacquisire le abilità e le cognizioni a ciò necessarie.

Disc. Passa al terzo motivo.

Doc. Lo dico per ultimo, ma non é certo il meno importante: la rottura dell’unità familiare produce disorientamento e stress negli (eventuali) figli.

Disc. Quelli da te ora indicati sono danni che colpiscono direttamente i membri della famiglia e solo indirettamente la Società: vi sono danni che colpiscono questa direttamente?

Doc. Certo, ci sono; basti pensare che la Società ha il dovere di procurare un tetto, la luce, il gas ecc. a tutti i suoi membri e, la frantumazione della famiglia di Caio, la costringe a procurare due appartamenti, invece di uno, a raddoppiare quella produzione della luce e del gas, che prima forniva alla famiglia (unita) di Caio, e così via.

Disc. D’accordo, occorre porre un freno a Caio, che, fatto il debito paragone tra la pelle vellutata della sua segretaria e quella ormai raggrinzita della moglie, sarebbe tentato di mollare questa e andare ad abbracciare quella; occorre in buona sostanza dirgli “Attento, separarsi costa! ché, oltre a dare dei soldi alla segretaria dei tuoi sogni, dovrai passare un assegno mensile a tua moglie!”.A questo punto però il problema: quale l’ammontare dell’assegno? Che dice sul punto il legislatore?

Doc. Quel che dice risulta dall’articolo 156, che - sotto la rubrica “Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi” - recita:“Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto é necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.L’entità di tale somministrazione é determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato.Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli artt. 433 e seguenti”.

Disc. Dunque risulta chiaro che un coniuge ha diritto al mantenimento solo quando: 1- la separazione non é a lui addebitabile; 2- quando, per mantenersi, “non abbia adeguati redditi propri”- se li avesse nulla potrebbe chiedere.Questo, ripeto, é chiaro; o meglio lo sarebbe se il legislatore ci avesse detto quale sia il tenore di vita a cui il coniuge separato ha diritto: infatti le cose cambiano, cambia la soluzione da darsi alla questione, se Caio debba passare un assegno a Caia, a seconda

del tenore di vita a cui si ritiene Caia abbia diritto: Caia ha un reddito di mille euro: se si ritiene che essa abbia diritto a pasteggiare solo con acciughe sotto olio, il suo reddito di mille euro deve ritenersi perfettamente “adeguato” al suo mantenimento (e quindi Caio non dovrà passarle nessun assegno); se si ritiene che abbia diritto a pasteggiare ad ostriche e champagne, no (e Caio dovrà rassegnarsi ad aprire il suo portafoglio).Dunque, ripeto, il problema, che ci pone la lacunosa disposizione legislativa, é: “A quale tenore di vita Caia ha diritto? ha diritto al tenore di vita, che aveva prima di sposarsi (per cui Caio, che é un principe, e ha sposato Caia, che era una lavandaia, deve solo preoccuparsi di assicurare a questa il tenore di vita di una lavandaia)? Direi di no, perché, se il tenore di vita di Caia era da nubile inferiore al tenore, di cui é venuta a godere col matrimonio, abbandonare questo per ritornare a quello verrebbe a costituire per lei una sorta di trauma (quindi, di sofferenza), di cui non sembra giusto gravarla; mentre se, al contrario, il suo tenore di vita era da nubile superiore, permetterle di goderlo nuovamente, sarebbe per lei un premio, che parrebbe ingiustificato (premiarla, perché? di che?).

Doc. Quel che dici é giustissimo, continua.

Disc. Escluso che Caio debba assicurare a Caia il tenore di vita che questa aveva da nubile, non resta che pensare ch’egli debba assicurare a Caia il tenore di vita che essa aveva durante il matrimonio.

Doc. No, qui ti sbagli. E sbagli perché non tieni conto, che, come prima accennato,per assicurare tale tenore di vita dopo la separazione, occorre una esborso di denaro maggiore di quello occorrente durante il matrimonio – maggiore esborso che per Caio probabilmente sarebbe molto difficile sopportare, tenuto conto che con la separazione é aumentato per lui il costo della vita (probabilmente gli occorre pagare una collaboratrice domestica ecc.ecc.). Quindi assicurare a Caia lo stesso tenore di vita, di cui godeva durante la convivenza, comporterebbe il rischio di abbassare, e di molto, sotto di quello, il tenore di vita di Caio.

Disc. E allora?

Doc. E allora si deve partire dal principio che tutti membri della famiglia, anche a separazione avvenuta, debbono avere lo stesso tenore di vita, così come abbiamo visto deve avvenire in costanza di matrimonio. Il che comporterà quasi

inevitabilmente una diminuzione del tenore di vita di Caia rispetto a quello che aveva prima della separazione.

Disc. Stabilito che Caio e Caia debbono avere lo stesso tenore di vita, mi pare vengano a porsi vari problemi.Primo: abbiamo visto, studiando l’articolo 144, che, in costanza di matrimonio, il tenore di vita della famiglia, é frutto della decisione concorde dei due coniugi (per cui potrebbe ben accadere che due coniugi ricchissimi decidano di vivere da poveracci o che due poveracci decidano di vivere da miliardari, metti, dilapidando il loro patrimonio). Questo durante la convivenza, ma quando i coniugi sono uno di qua e l’altro di là e non si parlano neanche, per cui non é neanche da pensarsi che prendano una decisione in comune, come si stabilisce il livello del tenore di vita (di cui la famiglia deve godere)? lo si stabilisce avendo come punto di riferimento il livello del tenore di vita goduto dai coniugi durante la coabitazione? oppure lo si stabilisce al livello massimo che la potenzialità economica dei coniugi permetterebbe di raggiungere?

Doc. Adottare questa seconda alternativa darebbe luogo a un’infinità di problemi (uno tra i tanti: nel calcolare la potenzialità economica di un coniuge si deve tenere conto, o no, dei beni immobili da lui posseduti?); per cui io riterrei senz’altro di adottare la prima alternativa e fissare il tenore di vita durante la separazione tenendo come punto di riferimento il tenore di vita goduto durante la coabitazione (diminuendolo eventualmente, come prima si é detto, in considerazione del maggior costo della vita post-separazione).

Disc. Altro problema: poniamo che la spesa necessaria per procurare a Caia il tenore di vita a cui ha diritto, sia di millecinquecento euro: prima (idest, durante la coabitazione), avendo Caia il reddito di millecinquecento e Caio il reddito di quattromilacinquecento, Caia avrebbe contribuito (ai sensi del terzo comma dell’art.143) a tale spesa solo per un terzo, cioé con cinquecento euro; ora che é separata deve invece, a tale spesa, contribuire con millecinquecento euro (dal momento che il reddito che percepisce – e che si ricordi, é di millecinquecento euro - le permette di sostenere tale spesa)?

Doc. Sì, infatti in sede di separazione non si applica più il terzo comma dell’articolo 143, ma si applica il primo comma dell’articolo 156, che (poni attenzione alla sua ultima parte!) subordina il diritto al mantenimento al fatto che il coniuge non abbia

“adeguati redditi propri”. Nel caso da te rappresentato Caia avrebbe i redditi adeguati per pagarsi il tenore di vita a cui ha diritto, quindi nulla può chiedere a Caio.

Disc. Altro problema ancora: il tenore di vita adottato durante la convivenza permetteva la fruizione dei beni a, B, C.; ora Caia, potrebbe procurarsi da sola tutti questi beni ma sottoponendosi ad un’attività o usurante (metti un’attività che la costringe a cumulare il lavoro di casalinga con quello di badante) o umiliante (metti un’attività di badante mentre lei é una professoressa in lettere); domanda: Caia deve sobbarcarsi a tale attività (usurante o umiliante) o ha diritto che sia Caio a procurarle, come prima, i beni A, B, C.

Doc. Certamente il legislatore nell’ultima parte dell’articolo 156 si riferisce, non solo ai redditi effettivamente percepiti dal coniuge, ma anche a quelli che potrebbe percepire svolgendo un’attività lavorativa. Nessun dubbio quindi che non possa vantare nessun diritto al mantenimento Caia, la quale non percepisce nessun reddito perché non vuol far niente, così come era abituata a non far niente quando conviveva.Diverso però il caso da te fatto. Al riguardo si deve riflettere, guardando più a fondo nella ratio della legge, che quello che questa si propone, non é tanto che tutti i membri della famiglia godano dello stesso tenore di vita, ma che tutti loro godano dello stesso benessere; e con ciò intendo riferirmi, non solo a un uguale benessere materiale, ma anche ad un uguale benessere psichico. Ora di certo non si potrebbe dire che Caio e Caia godano dello stesso benessere psichico, se tutti e due possono avere, sì, la disponibilità degli stessi beni di consumo, ma Caio facendo un lavoro che lo gratifica e Caia facendo un lavoro che la usura o la umilia.

Disc. Quindi Caio dovrà nel caso provvedere al mantenimento di Caia (in tutto o in parte). Poniamoci ora in questo altro caso: Caio già prima della separazione aveva un figlio naturale, Marietto: ora, per provvedere ai bisogni di Marietto, Caio ogni mese deve togliersi dal portafoglio duemila euro; domanda: Caio potrà dire a Caia“Riduci il tuo tenore di vita, perché io più di mille al mese non ti posso dare perché duemila già li devo dare a Marietto”?

Doc. Certo che lo potrà dire: i duemila euro non li usa mica per andare al ristorante o al ballo, cioé per adottare un tenore di vita migliore di quello di Caia: i duemila euro li usa per adempiere ad un obbligo giuridico costituzionalmente garantito: mantenere il figlio naturale.

Disc. E direi allora che poco importa se Caio tale obbligo (tale figlio naturale) lo aveva prima della separazione o dopo: in altre parole, Caio potrà giustificare una riduzione dell’assegno anche per mantenere un figlio naturale da lui concepito dopo la separazione. Che dire, però, se Caio vuole giustificare la riduzione dell’assegno di mantenimento con le spese, che a lui causa il mantenimento di una compagna?

Doc. Qui la risposta é più difficile e molti Studiosi la danno negativa. Io distinguerei, se la convivenza é more uxorio, o no; se é more uxorio io ammetterei la riduzione dell’assegno di mantenimento, perché é un diritto naturale quello di una persona a crearsi una famiglia. E con ancor maggior sicurezza tale risposta darei, se tale convivenza fosse iniziata quando già fosse maturato il tempo per chiedere il divorzio (dato che, nel calcolare l’assegno dovuto dal divorziato verso l’ex coniuge, senza dubbio si può tenere conto, delle sue maggiori spese, non solo per un nuovo matrimonio da lui contratto, ma anche per una nuova convivenza more uxorio da lui iniziata). Chiaramente invece Caio non potrebbe pretendere di ridurre l’assegno per poter comprare i favori sessuali di questa o di quella.

Disc. Ti faccio ora il caso inverso: Caia, una volta separatasi da Caio I, ha trovato...un Caio II; quindi mentre il marito Caio I vive solo soletto in un appartamento, di cui sopporta tutte le spese, Caia, invece, coabita con Caio II e con lui divide tutte le spese (della locazione, della luce, del cibo ecc.ecc.); domanda: nel calcolare l’assegno che Caio I deve passare a Caia, si deve tenere conto delle minori spese che essa deve sostenere per godere del tenore di vita a cui ha diritto?

Doc. La risposta da darsi a questa tua domanda é controversa tra gli Studiosi, però a mio parere dovrebbe essere positiva, a patto che la contribuzione alle spese diCaio II possa considerarsi stabile.Diverso il caso che Caia fosse sollevata dalle spese da una persona (i genitori, un amante, poco importa) con lei non convivente. In tale caso bisognerebbe a mio parere accertare il motivo per cui questa persona contribuisce alle spese di Caia: contribuisce per mero spirito liberale? In tale ipotesi io non vedrei controindicazioni alla riduzione dell’assegno (così come non le vedrei se Caia si fosse arricchita in seguito ad un’eredità: un’eredità, una donazione a rigore non sono un “reddito”, ma quando l’articolo 156 parla di “reddito” adeguato, vuole semplicemente dire che l’assegno non é dovuto a un coniuge, che ha i soldi per provvedere a sé stesso). La contribuzione viene invece data per sopperire all’inerzia di Caio? Allora, no: in tal caso la riduzione dell’assegno non sarebbe giustificata: Caio I dovrà pagare, non

ridotto ma integrale, il suo assegno, e se non l’ha fatto prima, dovrò pagare gli arretrati, con cui Caia adempirà il suo dovere morale di rimborsare, chi generosamente ha sopperito all’inadempimento del marito.

Disc. Se muore Caio, il suo obbligo di mantenimento si trasmette ai suoi eredi?

Doc. No, però a Caia é riconosciuto il diritto ad una quota dell’eredità lasciata da Caio.

Disc. Quale quota?

Doc. In caso di successione c.d. “legittima” (idest, non in base a un testamento) a Caia (se la separazione non é avvenuta per fatto a lei addebitabile) “in mancanza di figli, di ascendenti, di fratelli o sorelle, si devolve tutta l’eredità” - (così testualmente l’articolo 583).Se invece Caio avesse lasciato dei figli, degli ascendenti, dei fratelli o sorelle, Caia concorrerebbe con loro nella eredità. Con tutto ciò le verrebbe a spettare anche in tal caso una buona quota di questa. Per darti un’idea, nel caso più sfavorevole (per Caia), che é quello di un concorso con i figli, lei avrebbe diritto (per l’articolo 581) “alla metà dell’eredità, se alla successione concorre un solo figlio, e ad un terzo negli altri casi”.Naturalmente Caio, con il testamento, le potrebbe attribuire una quota diversa dieredità.

Disc. Anche minore di quella ad essa spettante per le norme da te prima citate?

Doc. Sì, anche minore; però nonostante ogni contraria volontà del testatore (di Caio), la quota spettante a Caia non potrebbe essere inferiore a una certa quantità. Infatti Caia fa parte dei c.d. “eredi legittimari” (art. 536); cioé di quelle persone a favore delle quali la Legge riserva “una quota di eredità o altri diritti nella successione”, nonostante ogni volontà contraria del de cuius hereditate agitur (di caio, per intenderci).

Disc. Qual’é questa quota ‘

Doc. La stessa che é riservata al coniuge non separato (art. 548).

Disc. E qual’é la quota riservata al coniuge non separato?

Doc. Per il caso che con lui non concorrano dei figli (del de cuius), é della metà; più precisamente l’art. 540 recita:“A favore del coniuge é riservata la metà del patrimonio dell’altro coniuge, salve le disposizioni dell’art. 542 per il caso di concorso con i figli.Al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.(.....)”.

Disc. E la quota riservata a Caia in caso di concorso con i figli quale sarebbe?

Doc. Te lo dice, l’articolo 542, che recita:“Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, a quest’ultimo é riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge.Quando i figli, sono più di uno, ad essi é complessivamente riservata la metà del patrimonio e al coniuge spetta un quarto del patrimonio del defunto.(.....)”.

Disc. Quindi Caia, alla morte di Caio, dovrà spartire l’eredità con i suoi figli (o, in caso di loro premorienza. con chi li “rappresenta” ai sensi dell’art. 467 e ss.); ma se Caio non ha figli, però a lui sono sopravvissuti uno o più ascendenti? Caia dovrà spartire l’eredità anche con loro?

Doc. Sì, ma nei limiti di cui all’art. 544, che recita:“Quando chi muore non lascia figli, ma ascendenti e il coniuge, a quest’ultimo é riservata la metà del patrimonio, ed agli ascendenti un quarto.In caso di pluralità di ascendenti, la quota di riserva ad essi attribuita ai sensi del precedente comma é ripartita tra i medesimi secondo i criteri previsti dall’art. 569.”

Disc. E con ciò abbiamo visto i diritti di natura patrimoniale spettanti al coniuge a cui non é addebitabile la separazione.Mettiamoci invece ora nel caso di Caia, a cui la separazione é addebitabile: il nostro legislatore le riconosce dei diritti?

Doc. Sì, in vita di Caio le riconosce (nel terzo comma dell’articolo 156) il diritto agli alimenti di cui agli articoli 433 e ss; alla morte di Caio, le riconosce (con l’articolo 548) un “assegno vitalizio”. Più precisamente l’articolo 548 recita:

“Il coniuge cui é stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L’assegno é commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero degli eredi legittimi e non é comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta. La medesima disposizione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi”.

Disc. Che l’assegno sia commisurato alle “sostanze ereditarie”, e non alle sostanze degli eredi, mi pare perfettamente logico; meno logico mi pare che a Caia non venga riconosciuto nessun assegno nel caso le sue condizioni economiche, tali da non dargliene diritto al momento dell’apertura della successione, poi peggiorino tanto da renderlo necessario: Caia naviga nell’oro al momento della morte di Caio (e quindi non ha diritto agli alimenti); due anni dopo però la sua situazione capitombola, Caia cade in miseria: perché non riconoscerle il diritto all’assegno?Mutatis mutandis il discorso potrebbe ripetersi per il caso che Caia abbia diritto all’assegno tot al momento dell’apertura della successione, e poi la sua situazione economica peggiori: perché in un tal caso lasciare inalterato l’assegno, perché non riconoscere a Caia il diritto ad un assegno tot + un quid?

Doc. Perché gli eredi, al momento di accettare l’eredità, debbono essere in grado di conoscere gli obblighi che la gravano e non pare giusto esporli al rischio del sorgere di future obbligazioni.

Disc. Non capisco poi il riferimento che l’articolo fa al “numero degli eredi legittimi”: perché il quantum dell’assegno dovrebbe cambiare in relazione al numero dei suoi debitori?

Doc. A dir il vero questo non lo capisco bene nemmeno io. Forse una spiegazione del busillis si avrebbe, se si interpretasse l’articolo in esame come se ponesse il carico dell’assegno (non su tutti gli eredi, testamentari o legittimi che fossero, ma) solo sugli “eredi legittimi”: in tal caso potrebbe essere giusto ridurre un assegno, che calcolato in relazione alle “sostanze ereditario sarebbe ragguardevole, in considerazione del fatto che esso viene a gravare, metti, su uno solo degli eredi, quello legittimo (mentre sarebbe logico aumentare l’assegno se gli eredi legittimi fossero due o più).

Disc. Comunque sia, come si giustifica il riconoscimento al coniuge, responsabile del

fallimento del matrimonio, di un diritto agli alimenti?

Doc. A dir il vero si giustifica assai poco: la cosa logica sarebbe riconoscere a tale coniuge gli stessi diritti che che gli articoli 128 e ss. riconoscono, in caso di nullità del matrimonio, al coniuge in mala fede.

Disc. E cioé.

Doc. Zero diritti.

Disc. Tu non consideri però che la separazione, almeno nelle speranze del legislatore, potrebbe essere temporanea e finire con una riconciliazione: a questa é bene che il coniuge, anche se “colpevole”, arrivi in buona salute e non...morto di fame.

Doc. Forse sì, forse questa potrebbe essere una giustificazione, anche se molto labile, del diritto agli alimenti del coniuge (a cui la separazione é addebitabile). Ma il sospetto é che l’imposizione, prima, di un obbligo alimentare al coniuge “incolpevole”, e, poi, di un assegno alimentare ai suoi eredi, si giustifichi solo con la volontà dello Stato di scaricare sulle spalle del privato (del povero coniuge incolpevole) il peso di provvedere alle necessità di chi, prima ha sfasciata la famiglia, e, poi, si é trovato senza aiuti e nella necessità di tendere la mano.

Disc. Tu, all’inizio dei nostri discorsi, hai accennato a due diritti “minori” che vengono in questione al momento di separarsi: il diritto al cognome e il diritto all’abitazione. Anche se “minori” a me pare che anche questi diritti meritino qualche parola in più.

Doc. Il diritto all’abitazione é riconosciuto dal legislatore in base a diversi presupposti, a seconda che l’altro coniuge sia deceduto (e quindi di tale diritto si parli nel contesto di una successione) oppure no.Nel primo caso tale diritto viene riconosciuto - come risulta dal primo comma dell’articolo 548, che poco prima abbiamo avuto occasione di leggere – al coniuge a cui non é addebitabile la separazione, a prescindere che con lui convivano dei figli oppure no. Chiaramente il legislatore si preoccupa di evitare a un coniuge, che pensa già anziano, il trauma del cambio di una abitazione.

Disc. Quindi, dal momento che - (mentre il legislatore ha formulato l’articolo 540

pensando soprattutto al coniuge non separato) - qui noi ragioniamo nel presupposto di un coniuge “separato”, l’abitazione in cui questi ha diritto di continuare a vivere, può anche non essere quella in cui conviveva con l’altro coniuge (premortogli).

Doc. Sì, é semplicemente l’abitazione in cui egli vive al momento dell’apertura della successione (e che si suppone rientrare nell’asse ereditario)

Disc. Ho capito. Vediamo ora quali sono i presupposti a cui é subordinato il diritto all’abitazione quando l’altro coniuge é ancora in vita (quindi nel contesto di una “separazione” in atto). Penso che il presupposto fondamentale é che la separazione non sia addebitabile al coniuge (che aspira alla casa).

Doc. Così deve ritenersi, pur nel silenzio della legge, se i coniugi non hanno figli. Se invece ne hanno l’unico vero presupposto dell’assegnazione della “casa familiare” é l’interesse dei figli”: non si vuole causare loro il disagio di quel cambiamento di residenza, che comporterebbe la rottura di relazioni amicali, il cambio di una scuola, il cambio di abitudini. E siccome i figli ben possono essere stati affidati al coniuge “colpevole”, ecco perché diventa irrilevante, nell’assegnazione della casa, stabilire a quale coniuge sia addebitabile la separazione. Tutto questo ti risulterà, penso, più chiaro dalla semplice lettura del primo comma dell’articolo dell’art. 337 sexies, che recita:“Il godimento della casa familiare é attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerando l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2641”

Disc. E ora parliamo del diritto al cognome.

Doc. Chiaramente il cognome che la moglie (ai sensi dell’art. 143bis) ha aggiunto al suo al momento di sposarsi. Ebbene questo cognome “aggiunto” può essere eliminato, alcune volte a tutela del marito, altre a tutela della moglie. Così come risulta dall’articolo 156 bis, che recita:“Il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il

cognome stesso, qualora dall’uso possa derivarle grave pregiudizio”.

Lezione XXII: La separazione in presenza di figli.

Doc. Nel caso i coniugi, che si vogliono separare, abbiano dei figli minorenni, si pongono tre principali problemi: I- a chi attribuire quella responsabilità genitoriale che, quando i coniugi convivevano, era esercitata (per l’art. 316) “di comune accordo” da entrambi i genitori (chi deciderà, quale scuola devono frequentare i figli? chi deciderà se sottoporre, o no, il figlio Marietto a quella operazione chirurgica?.. ..); II - presso chi “collocare” i figli (presso il padre? presso la madre? presso un’istituzione?....); III- chi gravare dell’obbligo di mantenere i figli (il padre? la madre?.. .).

Disc. Cominciamo a vedere quale soluzione dà il Legislatore al primo dei problemi da te indicati: chi esercita la responsabilità genitoriale?

Doc. La soluzione preferita dal Legislatore per questo problema é il c.d. “affidamento condiviso”.

Disc. Com’é possibile che un figlio sia affidato contemporaneamente a Caio e a Caia, se questa e quello vivono in luoghi differenti, metti, l’uno a Roma, l’altra a Milano?!

Doc.Non ti devi lasciare trarre in inganno dal termine “affidamento” - che senza dubbio é infelice in quanto suggerisce l’idea che il compito del genitore affidatario sia, almeno principalmente, quello di “sorvegliare, custodire” il figlio, ciò che richiederebbe quella coabitazione tra affidato e affidatario che renderebbe in effetti impossibile il contemporaneo affidamento di un figlio a due genitori che vivono in luoghi diversi. In realtà il coniuge affidatario – che può essere diverso dal “coniuge collocatario”, che é il coniuge con cui il figlio convive - é il coniuge a cui é attribuito l’esercizio della responsabilità genitoriale. “Affidamento condiviso”, pertanto, significa che i coniugi, non diversamente da quel che avveniva quando coabitavano, debbono esercitare la potestà genitoriale di comune accordo: precisamente il secondo comma dell’art. 337 ter: “(....il giudice) valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quali di essi i figli sono affidati, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve ocntribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.

Disc. Cosa non facile, esercitare in comune la responsabilità genitoriale, quando, come quasi sempre accade in caso di coniugi separati, si é divisi da accesi contrasti.

Doc. Il Legislatore non considera la difficoltà dei coniugi di comunicare tra di loro – difficoltà che può essere dovuta, sia a una loro conflittualità, come tu ora hai accennato, sia a una loro eccessiva lontananza (uno abita a Palermo, l’altro a Roma) - come ostativa all’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale.Del resto, esercizio condiviso della responsabilità, non significa che tutte le decisioni debbono essere prese insieme dai coniugi: le decisioni bagatellari (cioé su questionidi poco conto: comprare questo o quel vestito? concedere al figlio questa o quella spesuccia?.. ..) potranno essere prese senz’altro da uno solo dei coniugi (presumibilmente dal coniuge collocatario), senza necessità di consultare l’altro coniuge. E pure le decisioni (non più bagatellari, ma) di ordinaria amministrazione, potranno essere prese separatamente dai coniugi; però in questo caso solo se il giudice ha disposto in tal senso; così come risulta dall’ultima parte del terzo comma prima citato, che recita: “Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità separatamente”.

Disc. Ma quand’é che una decisione può considerarsi di ordinaria amministrazione?

Doc. Non si può dare una risposta precisa a questa tua domanda. Certo si potrebbe dire che sono di ordinaria amministrazione tutte le questioni, escluse quelle di “maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute”.

Disc. “Si potrebbe dire”, perché?

Doc. Perché, nel corpo del terzo comma citato, il legislatore dispone che: “Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte (dai genitori) di comune accordo (…)”. Per poi proseguire col disposto già riportato: “Limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente”. Tutto ciò senza dubbio permette di argomentare a contrario, che sono di ordinaria amministrazione, come ti dicevo prima, le decisioni che non riguardano l’istruzione, l’educazione e la salute o, pur riguardando l’istruzione, l’educazione, la salute, non rivestono un particolare interesse. Mi rendo conto però che questa risposta, pur essendo la migliore che si possa dare alla domanda che prima mi hai fatta, non dà un

criterio sicuro per distinguere tra decisioni di ordinaria e di straordinaria amministrazione. Tale distinzione deve essere fatta dal giudice in base al suo intuito e al suo buon senso.

Disc. Che succede se Caio e Caia non si mettono d’accordo su una decisione da prendere (metti, Caio vuol mandare il figlio alla scuola pubblica, Caia, alla scuola privata)?

Doc. Qui diventa di nuovo rilevante la distinzione tra decisioni di ordinaria amministrazione e no. Se la decisione non é di ordinaria amministrazione (quindi riguarda la istruzione, l’educazione, la salute e riveste grande interesse per i figli, cosa per cui é una decisione che non può non essere presa, in un senso o nell’altro) essa, nel perdurante disaccordo dei coniugi, viene presa dal giudice (testualmente il legislatore,nel terzo comma già citato, subito dopo aver definito, nel modo che poco fa abbiamo visto, le decisioni che necessariamente debbono essere prese “di comune accordo” dai coniugi, continua così: “In caso di disaccordo la decisione é rimessa al giudice” - e poi parla delle decisioni di ordinaria amministrazione).

Disc. E se la decisione é di ordinaria amministrazione?

Doc. In tal caso il giudice non interviene; e se la decisione non viene presa.... poco male, dal momento che le decisioni di ordinaria amministrazione sono per definizione quelle che possono anche non essere prese senza danno, o almeno gran danno, del figlio. Del resto, quella di escludere l’intervento del giudice nelle questioni di secondaria importanza, é la stessa politica che abbiamo visto adottare nell’articolo 316; ti ricordi che l’incipit del terzo comma di tale articolo suonava: “In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice” ecc. ecc. (cosa per cui era facile argomentare che sulle questioni di secondaria importanza tale ricorso non era ammissibile)?

Disc. Certo che mi ricordo. Ma mi ricordo anche che, nel caso di decisioni di straordinaria importanza, il giudice, sì, interveniva per fare opera di mediazione, ma, se questa falliva, la decisione non la prendeva lui, ma, diversamente da quanto dispone l’articolo 156, la rimetteva a uno dei coniugi. E questa diversità di disciplina tra coniugi separati e no, io non me la spiego.

Doc. E non me la spiego neanche io.

Disc. Ma gli articoli 315bis e seguenti sono applicabili anche ai genitori “separati”?

Doc. Sì, ma solo là dove non sono espressamente o implicitamente derogati dalla normativa che stiamo ora studiando.

Disc. Che succede se la mancanza di dialogo tra i coniugi diventa totale e ogni decisione nell’interesse del figlio ne risulta bloccata?

Doc. In una tale ipotesi il giudice molto probabilmente, in prima battuta, disporrà (ai sensi del disposto del terzo comma art. 337 ter, già da noi preso in considerazione) che “limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione” “i genitori esercitino la potestà separatamente” (e, se del caso potrà attribuire addirittura a ciascun coniuge una sfera di sua esclusiva competenza: “Tu, Caio prenderai le decisioni relative all’amministrazione del patrimonio del figlio, tu, Caia prenderai quelle relative alla sua salute ed istruzione”); se questo primo provvedimento (peraltro, tengo a sottolineare, non obbligatorio, del tutto facoltativo) facesse.... flop (o si rivelasse a priori inefficace), al giudice non resterebbe che affidare l’esercizio della responsabilità genitoriale a un solo genitore.

Disc. Ma quale disposizione gli dà questo potere?

Doc. Il primo comma dell’articolo 337 quater, che recita: “Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore”.

Disc. Quindi il giudice ha il potere di derogare alla regola (espressa dall’incipit del terzo comma dell’articolo 337ter) dell’affidamento condiviso.

Doc. Sì, però: solo se lo richiede “l’interesse del minore” (quell’interesse del minore che peraltro deve ispirare ogni provvedimento del giudice in subiecta materia); e solo con “provvedimento motivato”.

Disc. Fai un esempio di qualche caso, che potrebbe motivare il giudice a un provvedimento così drastico, come la spogliazione di un genitore dell’ esercizio della responsabilità sui suoi figli.

Doc. Oltre al caso, che abbiamo già fatto, del blocco del potere decisionale per incomunicabilità dei coniugi, tu puoi pensare al caso del genitore che si disinteressa totalmente del figlio (non lo va a trovare, non si preoccupa di sapere se va bene o male a scuola ecc. ecc.) o addirittura lo maltratta o ne abusa.

Disc. Casi che, peraltro, potrebbero portare all’applicazione degli articoli 330 e ss; articoli che, ben ricordo, contemplano, tra i vari provvedimenti adottabili dal giudice in ipotesi di gravi violazioni dei doveri genitoriali, anche la decadenza dalla amministrazione dei beni del minore o addirittura dalla responsabilità genitoriale.

Doc. Verissimo, ma tieni ben presente che l’affidamento di un figlio a un solo genitore, non é equiparabile al provvedimento con cui il giudice, ai sensi dell’articolo 330, pronuncia la decadenza di un genitore dalla responsabilità genitoriale: é un provvedimento, se mi consenti il termine, molto più dolce. L’affidamento dei figli a Caia, infatti, può coesistere con il perdurare in Caio del potere di amministrare i beni dei figli, può coesistere, anzi quasi sicuramente coesisterà, col potere di Caio di visitare i figli e di essere informato sull’educazione, l’istruzione, su insomma tutto quanto riguarda la vita dei figli.

Disc. Una cosa mi pare chiara: in subiecta materia i poteri del giudice sono amplissimi. Ma andiamo oltre, parliamo della seconda, importante questione che inevitabilmente viene a porsi al giudice della separazione: presso quale genitore collocare i figli? Dice qualche cosa il legislatore sui modi e i criteri per risolverla?

Doc. Sì, lo dice (anche se more solito confusamente). Nel primo comma (con quella solennità con cui sono espressi i principi cardine del diritto) egli afferma che“Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Poi, nell’incipit del secondo comma (sempre con una certa solennità) continua affermando che “Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”.

Disc. Ma dopo essersi riempita la bocca di così tante belle parole, il legislatore viene al dunque? dice qualcosa di chiaro sul luogo in cui debbono andare ad abitare i figli,

sulle persone con cui debbono convivere?

Doc. Di chiaro, no, questo non lo si può pretendere da certe teste, ma qualcosa dice. Infatti il secondo comma dell’art. 337 recita: “(il giudice altresì) determina i tempi e le modalità della loro presenza (idest, della presenza dei figli) presso ciascun genitore”.

Disc. Sembrerebbe che la volontà del legislatore sia che i figli vivano un po’ con l’uno e un po’ con l’altro dei genitori (a gennaio Marietto va a dormire a casa di papà, a febbraio a casa di mamma).

Doc. Il nostro legislatore, non é un’aquila, ma non é neanche pazzo: certo non vuole e non può volere questo: una persona, specie se ancora bambina o adolescente, impazzirebbe se dovesse vivere un po’ in una casa e un po’ in un’altra. Chiaramente il giudice disporrà che i figli siano “collocati” (per usare una brutta espressione, che però fa parte del linguaggio forense) presso un determinato genitore (o anche presso un terzo - i nonni, un’istituzione – se la convivenza con i genitori, per la loro condotta immorale o per altro motivo, si ha ragione di temere che sia per essi nociva), e lì essi vivranno stabilmente. Poi, in certi giorni (Natale, Pasqua,,,) e in certi periodi dell’anno (il periodo estivo...) - che il giudice avrà cura di determinare (a meno che la verificata maturità dei coniugi permetta di rimettere alla sola decisione di questi la loro determinazione) andranno (brevemente) ad abitare da questo o quel genitore.

Disc. Ma a questo punto viene naturale una domanda: ma la volontà dei genitori non conta nulla, non hanno essi nessuna voce in capitolo?

Doc. Certo che ce l’hanno; come risulta dal secondo comma dell’articolo 337ter il quale (tra le altre cose) ci dice: “(Il giudice) prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”. E tali accordi naturalmente potrebbero riguardare, anzi di solito riguarderanno, anche i giorni e i periodi dell’anno in cui i figli staranno ora con questo ora con quel genitore.

Disc. Però se il giudice può limitarsi a “prendere atto” di tali acordi, vuol dire che egli da tali accordi non é vincolato.

Doc. Esatto. Però a tale regola, si fa eccezione per gli accordi dei coniugi sull’entità del contributo, che ciascuno di essi deve dare per il mantenimento dei figli.

Disc. E’ allora il momento di parlare del terzo grave problema, che sorge in caso di crisi matrimoniale: il mantenimento dei figli. E al riguardo la prima domanda che si pone é: quale tenore di vita va riservato ai figli? A te la risposta.

Doc. Nel risponderti sono costretto a ripetere le cose già dette sull’analogo problema, che sorge a riguardo del mantenimento del coniuge (economicamente più debole): tutti i membri della famiglia hanno diritto allo stesso tenore di vita e questo possibilmente deve essere al livello di quello che godevano, quando la famiglia era ancora unita. “Possibilmente”, perché, come già abbiamo avuto occasione di osservare, la crisi della famiglia quasi inevitabilmente comporterà un aumento di spese e quindi un abbassamento del tenore di vita di tutti i suoi membri.

Disc. A questo punto si pone l’altra importantissima domanda: chi deve sostenere le spese del tenore di vita, a cui i figli hanno diritto?

Doc. Risponde a questa tua domanda il quarto comma dell’articolo 337 ter – e vi risponde in modo sostanzialmente conforme al disposto del primo comma dell’art. 316bis, anche se con parole diverse e un pò meno precise; ecco come suona il comma in questione:“Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”.

Disc. Ciò significa che, se Caio nulla guadagna perché nulla vuol fare, nulla deve dare come contribuzione al mantenimento dei figli e che, se Caio (poco abile o poco fortunato) ricava dalla sua professione il misero misero redditto di mille, però dai suoi appartamenti o dai suoi capitali in banca riceve (qui benedetto dalla sorte!) una rendita di diecimila, deve dare solo in proporzione di mille (e non anche di diecimila)?

Doc. No, di certo. La formulazione dell’articolo 337 ter, da considerarsi lacunosa come prima avvertivo, va integrata senza dubbio tenendo presente il disposto dell’articolo 316bis (forse che vi sarebbe ragione per adottare in subiecta materia un trattamento diverso per il genitore “separato” e per il genitore non separato?); e, come ti ricorderai, l’articolo 316bis stabilisce che il genitore deve adempiere all’obbligo di mantenimento dei figli, “in proporzione delle sue sostanze e secondo la (sua) capacità di lavoro professionale”. Quindi Caio, che non ha reddito professionale ma possiede

decine di appartamenti, dovrà contribuire in proporzione dei redditi che tali appartamenti gli danno; e Caio, che é disoccupato volontario, ma che, volendo, sarebbe capace di svolgere un’attività professionale, che gli darebbe il reddito di diecimila, dovrà contribuire in proporzione di diecimila.Peraltro il legislatore (senz’altro superficiale nel definire il criterio in base a cui i coniugi debbono contribuire), saviamente, con grande precisione indica nel prosieguo di quel quarto comma dell’art. 337 ter (di cui prima abbiamo riportato solo l’incipit) le varie circostanze, di cui il giudice deve tenere conto nel determinare l’ “assegno di mantenimento”.

Disc. E che ne risulta?

Doc. Ne risulta che il giudice (naturalmente!) deve tenere conto delle “attuali esigenze del figlio” (guarda, sub numero 1 del comma prima citato), del “tenore di vita (da lui) goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori” (guarda sub 2), delle “risorse economiche di entrambi i genitori” (guarda sub 4) - ma non si deve limitare a ciò, non deve cioé – una volta stabilito, metti, che la spesa (per assicurare quel dato tenore di vita al figlio) é di nove, che Caio ha un reddito di seimila e Caia di tremila – semplicisticamente concludere che Caio deve contribuire con sei e Caia con tre. No assolutamente, ciò, ripeto, sarebbe semplicistico: tu, giudice devi tenere anche conto (guarda sub tre) dei “tempi di permanenza (del figlio) presso ciascun coniuge” (per tutto il mese di agosto il figlio é stato a dormire e a pasteggiare dal padre? ciò ha comportato per questi una spesa di mille? ebbene questi mille, almeno in parte – un calcolo puramente matematico sarebbe errato – vanno detratte dalle seimila che il padre dovrebbe dare mensilmente); ma non solo, tu giudice devi anche tenere conto (guarda sub. 5) della “valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore” (Caia ha passato varie ore a trafficare dietro ai fornelli e a pulire la casa, perché i figli vivano nel benessere? ebbene ciò ha fatto risparmiare quei mille euro che altrimenti sarebbero stati necessari per pagare una collaboratrice domestica, e dunque quei mille euro vanno computati nel contributo che Caia dovrebbe dare).

Disc. Savio davvero il nostro legislatore a precisare tutto questo, ma vogliamo leggerci, al fine di aver le idee più chiare ancora, tutto quel comma quattro che tu ci hai ammannito a bocconcini?

Doc. Comma quattro dell’art. 337 ter: “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura

proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:le attuali esigenze del figlio; il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;i tempi di permanenza presso ciascun genitore;le risorse economiche di entrambi i genitori;la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”

Disc. Ma nella lezione precedente avevamo visto che il giudice può assegnare, in forza del disposto dell’articolo 337 sexies, la casa familiare a un coniuge. Ora mettiamo che il giudice abbia assegnata la casa a Caia: non si tiene nessun conto del fatto che essa vive (senza pagare il becco di un quattrino!) in una casa da cui altrimenti Caio potrebbe ricavare un reddito?

Doc. Si, naturalmente se ne tiene conto. E infatti se leggi bene il primo comma dell’art. 337 sexies vi trovi scritto che “Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”.

Disc. Nella vita, come si sa, le situazioni cambiano: Caio, che era ricco, può diventare povero (o da povero può diventare ricco); Caio, che prima abitava a Palermo, mentre moglie e figli abitavano a Roma, può riuscire a trasferirsi a Roma; soprattutto, mille euro, che hanno una capacità d’acquisto 10 al momento della separazione, possono vedere scendere la loro capacità di acquisto a 8: orbene il Legislatore tiene conto di ciò?

Doc. Sì, ne tiene conto nell’art. 337 quinquies, che recita: “I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”

Disc. Fino ad adesso ci siamo messi solo nel caso che i figli fossero minorenni, ma in realtà essi potrebbero essere maggiorenni (o diventare maggiorenni durante il tempo della separazione): il Legislatore provvede anche per loro (che pur maggiorenni potrebbero non avere ancora raggiunta l’indipendenza economica)?

Doc. Ti risponde positivamente l’articolo 337 septies recitando: “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice é versato direttamente all’avente diritto.”

Disc. Quindi l’assegno, almeno di regola, andrà “versato direttamente al figlio” (non al genitore).

Doc. Io non direi che “di regola” l’assegno andrà versato al figlio. Sarà così, se il figlio non convive con il genitore; se, invece, convive, buon senso vorrà che, ad evitare giri viziosi, sia versato direttamente al genitore.

Lezione XXIII: Il divorzio.

Doc. La crisi del matrimonio, se non é transitoria, sfocia (di solito) nel “divorzio” (rectius – vedi gli artt. 1 e 2 della legge sul divorzio, la Legge 1 dicembre 970 n.898 – nello “scioglimento del matrimonio” o, se questo é stato celebrato col rito religioso ed é stato regolarmente trascritto, nella “cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione”).Dobbiamo quindi ora vedere come incide il “divorzio” sui rapporti tra coniugi.

Disc. E, direi anche, sui rapporti genitori-figli.

Doc. Per quel che riguarda i rapporti genitori-divorziati e figli, possiamo limitarci a richiamare quanto detto sui rapporti genitori-separati. Infatti, anche se la legge sul divorzio contiene (negli articoli 6 e 7) delle disposizioni proprie (e formulate anche in maniera talvolta sensibilmente diversa da quelle del Codice Civile) per disciplinare i rapporti tra genitori (divorziati) e figli, tali disposizioni in definitiva si ispirano (e comunque vanno interpretate in base) agli stessi principi che ispirano le norme del Codice Civile; di modo che si può concludere che i doveri del genitore divorziato verso i figli sono gli stessi di quelli che ha verso di essi il genitore separato E non può essere che così dal momento che l’interesse che si preoccupa di tutelare il Legislatore sia con l’imposizione dei primi sia con l’imposizione dei secondi é lo stesso.

Disc. Bene; limitiamoci allora all’esame dei rapporti tra coniugi. E cominciamo da quelli di carattere personale, riservandoci di parlare in un secondo momento di quelli di carattere patrimoniale. Come incide il divorzio sui diritti e doveri nascenti dal

matrimonio per i coniugi?

Doc. Il “divorzio” non “incide”, ma tout court fa di loro piazza pulita (sostituendoli in certi casi – casi che dal punto di vista statistico sono nettamente maggioritari – con un diritto al mantenimento del coniuge economicamente più debole). E ne fa piazza pulita in maniera ancor più drastica della “separazione”; in quanto questa (di regola) lascia sopravvivere il diritto al cognome della moglie, mentre, almeno di regola, il divorzio estingue anche tale diritto.

Disc. Però da come ti esprimi risulta che in alcuni casi la moglie può conservare il cognome del marito.

Doc. Sì, e questi casi (di carattere eccezionale) sono quelli in cui la moglie o i figli dalla privazione del cognome soffrirebbero un danno ingiusto (il caso statisticamente più importante é quello della professionista che é conosciuta nel mondo degli affari col cognome del marito, per cui privarla di questo potrebbe rappresentare per lei un grave danno).La regola e l’eccezione di cui stiamo parlando sono contemplate dai commi 2 e 3 dell’articolo 5, che rispettivamente recitano.Comma 2: “La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio”Comma 3: Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela”.

Disc. Ma i figli, il cognome del padre, lo conservano sempre?

Doc. Sì, i figli conservano sempre il cognome del padre (anche quando, essendo questo diventato un cognome malfamato, avrebbero tutto l’interesse a perderlo, pensa al caso che il divorzio sia pronunciato in seguito a condanna del padre per un delitto turpe o atroce).

Disc. Ma mettiti in questo caso: Marilina Bianchi ha aperto un negozio indicando nell’insegna il cognome del marito: “I merletti di Marilina Rossi”: se nella causa di divorzio si dimentica di chiedere il mantenimento del cognome del marito o, a mantenerlo, incontra un rifiuto del tribunale, deve togliere l’insegna?

Doc. No: il divorzio estingue il diritto al cognome e non all’insegna.

Disc. Parliamo ora di soldi: Caia e Caio, dopo aver pazientemente lasciato maturare il necessario tempo dalla “separazione”, divorziano: é giusto imporre a Caio, il coniuge economicamente più forte, di mantenere Caia (il coniuge più debole)? e, se sì, in che misura?

Doc. Tu che ne pensi? che risposta, in base a semplice buonsenso, daresti a tale domanda?

Disc. Io risponderei di sì, se il giudice della separazione ebbe a dire sì (“Sì, Caio deve mantenere Caia”) e, quanto alla misura, lascerei inalterato l’assegno di mantenimento fissato dal giudice della separazione (questi aveva stabilito la cifra di mille mensile? Caio continui a pagare mensilmente a Caia mille).

Doc. Ebbene, ti dirò che non pochi giudici (del divorzio) seguono appunto questo criterio; ma in realtà esso é un criterio semplicistico, in quanto non tiene conto, che il giudice della “separazione” dove perseguire uno scopo, che invece il giudice del divorzio non ha ragione di proporsi.

Disc. Quale scopo?

Doc. Quello di mantenere l’eguaglianza nel tenore di vita di tutti i membri della famiglia e, in specie, di Caio e di Caia. Questi sono ancora marito e moglie, portano ancora lo stesso cognome, potrebbero (e questo é l’auspicio del legislatore) tornare domani a convivere serenamente: non si può pensare di far vivere, l’uno, in un palazzo, e, l’altra, in una stamberga; non si può infliggere a Caia un’umiliazione, che inasprirebbe le ferite causate dalla separazione e renderebbe impossibile la riconciliazione!

Disc. Giusto; allora diciamo che Caio e Caia dovrebbero divorziare senza nulla chiedere l’uno all’altro – così come due soci che, constatato il fallimento della comune intrapresa, si lasciano (possibilmente) con una stretta di mano e iniziano a camminare per strade, che si divaricano, senza più curarsi l’uno dell’altro.

Doc. E se Caia, dopo tanti anni che fa la casalinga, ha probabilità zero di trovarsi

un’occupazione, che le permetta di avere un tetto sopra la testa e qualcosa da mettere sotto i denti?

Disc. Peggio per lei: chi ha avuto, ha avuto, avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato: chiederà aiuto e assistenza allo Stato.

Doc. Eh no, caro mio, questa non sarebbe davvero la soluzione giusta o – se vogliamo evitare parole, verso cui noi giuristi nutriamo una fondata diffidenza – non sarebbe la soluzione più confacente a tre fondamentali interessi dello Stato - interessi la cui soddisfazione pretende o può pretendere che il divorziato Caio apra il suo portafoglio a favore di Caia.

Disc. Ma quali sono questi tre interessi di cui parli?

Doc. Il primo, e il più importante, é quello che le persone si sposino e abbiano figli; e le persone si sposano tanto meno, quanto più alto é il rischio che il matrimonio per loro presenta – e mi riferisco qui, non al rischio di un fallimento sentimentale, ma a quello di un fallimento professionale e di una rovina, o almeno di una perdita, economica.

Disc. Ma dove lo vedi questo rischio?

Doc. Pensa a Caia, del nostro precedente esempio, che, sposandosi, lascia, per fare la casalinga, quell’impiego sicuro al Ministero che, gradino dopo gradino, l’avrebbe portata a diventare capo-dipartimento: forse che non rischia? forse che non rischia in caso di fallimento di trovarsi senza un lavoro e senza un soldo?

Disc. D’accordo sposarsi puo presentare effettivamente un rischio professionale e comunque di perdita economica. E capisco che lo Stato, imponendo, al coniuge economicamente più forte, di dare all’altro, in caso di fallimento matrimoniale, alcunché, elimina questo rischio. Passa al secondo degli interessi di cui parlavi.

Doc. Questo secondo interesse vuole che entrambi i coniugi, sia Caio che Caia, si attivino a generare nuova ricchezza (coltivando il campo, ristrutturando la casa...),e Caia avrebbe ben poche ragioni di attivarsi, se lo Stato, in caso di fallimento matrimoniale, permettesse a Cio di dire “Cara Caia, é vero, anche grazie al tuo lavoro, da sguatteri che eravamo, oggi viviamo nel comfort e nell’agiatezza, ma

ora...tornatene a fare la sguattera”.

Disc. Capisco quel che vuoi dire, capisco che, se lo Stato vuole che Caia si attivi, direttamente, per l’aumento della ricchezza familiare, indirettamente, per quello della ricchezza nazionale, deve garantirle che, in caso di fallimento matrimoniale, costringerà Caio ad aprire per lei il portafoglio. Passa al terzo interesse la cui tutela impone allo Stato di gravare Caio di un obbligo pecuniario.

Doc. Questo terzo interesse é dato dalla necessità di porre un freno ai divorzi: abbiamo avuto già occasione di rilevare che frantumazione della famiglia é uguale a danno economico della società; ora, obbligare Caio a pagare un pedaggio se vuole uscire dal matrimonio, può obbligarlo a un ripensamento salutare per le sorti della famiglia (e forse anche per lui).

Disc. Con ciò abbiamo visto quelli che sono gli interessi che possono portare lo Stato a obbligare il coniuge economicamente più forte a passare un “assegno di mantenimento”.....

Doc. Più generalmente e meglio possiamo dire, abbiamo visto gli interessi che possono condizionare il Legislatore nel decidere se e in che quantità Caio, il coniuge economicamente più forte, deve pagare un assegno a Caia. La precisazione ha una certa importanza perché, come vedremo esaminando il comma sesto dell’articolo cinque, legge sul divorzio, non é escluso che alcuni di tali interessi giochino nella quantificazione dell’assegno, non a sfavore, ma a favore di Caio.

Disc. Allora, non indugiamo oltre e passiamo all’esame di questo comma sesto.

Doc. Comincio col leggerlo:Comma sesto dell’articolo 5: ” Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Disc. A me sembra che il legislatore sia caduto in questo comma, e mi riferisco alle sue ultime parole, nello stesso errore già da noi riscontrato nell’articolo 156 Codice Civile: l’errore cioé di parlare di “mezzi adeguati” senza chiarire il quid a cui debbono essere adeguati. Come supplisce la Dottrina alla lacuna legislativa?

Doc. La prevalente Dottrina vi supplisce individuando il quid di cui parli nel “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”; più precisamente legge l’ultima parte del comma come se suonasse: “dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati per continuare nel tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ecc.”.Però non sa additare la ragione per cui Caio dovrebbe sopperire alle necessità di Caia, una volta che con il divorzio é diventata per lui una completa estranea – e ciò rivela la gratuità e l’infondatezza della teoria da lei proposta.In contrapposto a tale teoria si sostiene che la lacuna dovrebbe essere colmata come se il legislatore avesse voluto riferire l’adeguatezza dell’assegno a quanto é necessario per procurare “un tenore di vita dignitoso”. Ma questa teoria si espone alle stesse critiche di quella precedente e in più a quella di essere troppo indeterminata: cosa deve intendersi per “tenore di vita dignitoso”? E’ ben difficile determinarlo; cosa per cui anch ‘essa va ricusata.

Disc. Allora tocca a te proporre quella che pensi sia la giusta interpretazione.

Doc. A me sembra che l’adeguatezza dei mezzi vada riferita a quel tenore di vita, a cui Caia avrebbe diritto tenendo conto (principalmente) dei seguenti tre elementi.I - Il tenore di vita che Caia avrebbe raggiunto se non si fosse sposata e che, dopo il divorzio, non é più in grado di raggiungere. Poniamo che Caia, al momento di sposarsi, facesse la sguattera in un hotel: se non si fosse sposata avrebbe presumibilmente raggiunto il grado di maggiordomo e avrebbe guadagnato dieci? ebbene l’assegno deve essere tale che, sommato al reddito attuale di Caia, dia per risultato dieci (di modo che a Caia sia possibile avere quello stesso tenore di vita che avrebbe avuto se non si fosse sposata).II – Il contributo dato da Caia all’aumento della ricchezza familiare. Grazie a Caia un patrimonio che dava un reddito di dieci ora dà un reddito di venticinque? All’assegno, come sub I calcolato, dovrebbe aggiungersi quindici (25 – 10 = 15). (In realtà dovrebbero farsi delle distinzioni, ma lo studioso comprende che in questa sede, data l’economia del lavoro, non si può complicare l’esposizione con troppi

“distinguo”).III - L’eventuale responsabilità di Caia nella crisi matrimoniale. Il matrimonio si é sfasciato per sua colpa? L’ assegno determinato come sub I andrà diminuito; se del caso fino a ridurlo al solo obbligo alimentare.

Disc. Gli elementi da te ora elencati corrispondono a quelli indicati dal legislatore per decidere sulla corresponsione dell’assegno?

Doc. Che corrispondano o meno, in definitiva, ha scarsa importanza, considerato il completo stato confusionale in cui il Legislatore ha scritto tale articolo (stato confusionale comprovato, non solo dalla lacuna sopra indicata, ma anche dal fatto che gli elementi a cui tu ti riferisci, in realtà nel pensiero legislativo dovrebbero averrilevanza solo per la quantificazione dell’assegno, riferendosi Egli, per determinare invece l’obbligo o no di Caio alla corresponsione di questo, unicamente al possesso di Caia dei “mezzi adeguati” ecc.ecc. - questo mentre effettivamente, come tu hai detto, tali elementi hanno rilevanza sia per la determinazione del quantum debeatur che dell’an debeatur); però senza dubbio gli elementi da me portati - e su cui, secondo me, ci si deve basare, sì, direttamente, per stabilire il quantum debeatur, ma anche, indirettamente, per stabilire l’an debeatur, dato che, se il “tenore di vita” stabilito in base ad essi é “adeguato” ai “mezzi” di Caia, l’assegno non é dovuto - spiegano e mettono ordine negli elementi indicati dal Legislatore ed é questo tutto quel che, in subiecta materia, si può pretendere dall’interprete.

Disc. Verifichiamo. Tali elementi sono dati da: 1) “durata del matrimonio”; 2) “condizioni dei coniugi” e “reddito di entrambi (i coniugi); 3) “contributo personale ed economico dato da ciascuno (dei coniugi) alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”; 4) “ragioni della decisione (che hanno portato al divorzio)”.Cominciamo dall’elemento sub 1).

Doc. Certamente tale elemento acquista rilevanza in base ai criteri da me proposti; e in particolare, in base al criterio sub I (tenore di vita che Caia avrebbe potuto raggiungere se non si fosse sposata e sua possibilità di raggiungerlo ancora dopo il divorzio). Infatti é chiaro che, meno é durato il matrimonio, maggiori sono le probabilità che Caia riesca a riagguantare quel lavoro e quella carriera che, sposandosi, aveva lasciata perdere.

Disc. Passiamo all’elemento sub 2.

Doc. Questo elemento, non contraddice, ma innegabilmente limita il criterio da me indicato sub I. Infatti il legislatore anche se si propone di sollevare Caia dai danni derivanti dalla sua errata scelta matrimoniale, non può, nel fare questo, non tenere presente, per ridurre o addirittura escludere l’assegno, che anche Caio può scontare, l’errore fatto sposandosi, con una riduzione delle sue chanches professionali (se non si fosse sposato, egli avrebbe esercitato l’avvocatura a Roma, ora, da divorziato, si trova ad esercitarla in una cittadina della provincia) e che, comunque, la corresponsione dell’assegno o la sua corresponsione oltre una certa misura, può rendere la sua situazione economica addirittura peggiore di quella di Caia.

Disc. Passiamo al terzo elemento.

Doc. Questo coincide quasi perfettamente col secondo criterio da me indicato (contributo dato da Caia all’aumento della ricchezza familiare). E ciò mi esime da ogni commento.

Doc. Quarto e ultimo elemento.

Doc. Le “ragioni della decisione” evidentemente assumono rilievo nella mente del legislatore ai fini di stabilire la responsabilità di Caia o di Caio nel fallimento matrimoniale. Quindi anche qui c’é piena coincidenza tra il criterio da me proposto e quello indicato dal Legislatore.

Disc. Cambiamo argomento. Il quinto comma, la disposizione su cui ci siamo soffermati così a lungo, parla di un obbligo di “somministrare periodicamente”. Però la somministrazione periodica dell’assegno presenta i suoi inconvenienti, in quanto: costringe i coniugi a mantenere dei contatti con persone a cui ormai solo l’astio e il rancore li lega; espone il beneficiario dell’assegno al rischio di una sopravvenuta insolvenza dell’altro coniuge; costituisce, se non un ostacolo, una remora a un futuro matrimonio (dato che, per il penultimo comma dell’articolo 5, “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”). Non é possibile, per gli ex-coniugi, rinunciare all’assegno periodico e mettersi d’accordo per una somma data una tantum: “Tu, Caio, dai a me, Caia, mezzo milione e...la chiudiamo così”?

Doc. Certo anche tale soluzione non é scevra di inconvenienti, o meglio di pericoli – in particolare di quello, che l’exconiuge bisognoso si faccia allettare da una grossa somma data subito, anche se questa non gli dà in definitiva quei vantaggi che gli assicura un pagamento vita natural durante (e soprattutto un pagamento che si adegua alla svalutazione, dato che per il comma settimo dell’art. 7 la sentenza, che pronuncia il divorzio, “deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria”). E tuttavia il legislatore l’ammette (sottoponendo però l’accordo degli ex.coniugi al controllo del giudice). L’articolo 5, nel suo ottavo comma, più precisamente stabilisce: “Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”.

Disc. Quindi non sono ammessi ripensamenti.

Doc. Assolutamente, no; anche se il coniuge beneficiario dell’assegno una tantum cade in miseria e bussa alla porta dell’altro ex-coniuge per avere almeno gli alimenti, questi ha diritto di non dargli nulla. Per questo bisogna pensarci bene, prima di optare per il pagamento in unica soluzione. Tanto più che, tale opzione, comporta la perdita: del diritto alla pensione di reversibilità (vedi co. 2 art.9); del diritto, in caso di morte dell’obbligato, a un assegno periodico a carico dell’eredità (co. 1 art. 9bis); del diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto di lavoro (co. 1 art. 12bis).

Disc. Che garanzie ha il beneficiario dell’assegno, che chi ha l’obbligo di corrisponderlo, adempia effettivamente tale obbligo?

Doc. Le garanzie che gli accorda l’art. 8, il quale nei suoi primi commi così dispone: “Il tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione del matrimonio può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 6.La sentenza costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818 del codice civile.Il coniuge cui spetta al corresponsione periodica dell’assegno, dopo la costituzione in mora a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento del coniuge obbligato e inadempiente per un periodo di almeno trenta giorni, può notificare il provvedimento in cui é stabilita la misura dell’assegno ai terzi tenuti a corrispondere periodicamente

somme di denaro al coniuge obbligato con l’invito a versargli direttamente le somme dovute dandone comunicazione al coniuge inadempiente”.

Disc. Ma l’assegno divorzile é l’unico beneficio economico, diciamo così, che la legge riserva al coniuge? Non ha egli diritto all’eredità, come il coniuge separato?

Doc. No. Mentre il coniuge, anche se separato, riveste la qualità di erede (artt. 548 e 585 Cod. Civ.), salvo che la separazione sia a lui addebitabile, al coniuge divorziato il tribunale può riconoscere solo il diritto “a un assegno a carico dell’eredità”.

Disc. Cioé l’assegno a carico del coniuge defunto si trasferisce immutato sugli eredi.

Doc. Assolutamente, no. Ed é logico che così non sia. Metti che la sentenza di divorzio gravasse Caio di un assegno divorzile di euro mille: Caio può sopportare tale peso perché ha un buon lavoro, che gli dà un reddito di quattromila. Ora metti che egli muoia e lasci erede il figlio Marietto, che ha appena iniziato a lavorare come impiegato statale di bassa categoria: quel peso di pagare mille, che era sopportabile per Caio, può ben divenire insopportabile per il suo erede Marietto.

Disc. Certamente questo giustificherebbe una rimodulazione dell’assegno.

Doc. Il legislatore non la pensa così: egli estingue il diritto all’assegno divorzile e lo sostituisce, o meglio dà al tribunale la facoltà di sostituirlo (quindi, stando almeno alla lettera della legge, il tribunale potrebbe anche non sostituirlo), con il diritto a un assegno vitalizio a carico dell’eredità – che é un diritto diverso dal diritto all’assegno divorzile; ed é diverso perché questo ha il suo presupposto nel difetto di mezzi del coniuge beneficiario adeguati a permettergli un tenore di vita, che potrebbe essere anche di alto livello, mentre l’assegno successorio ha per presupposto lo stato di bisogno del coniuge beneficiario.

Disc. Ma mentre può essere ammissibile estinguere un obbligo alimentare alla morte dell’alimentante (v. art. 448), non mi pare per nulla ammissibile estinguere (sia pure per sostituirlo con un obbligo alimentare) un obbligo, come quello previsto dal sesto comma art. 5, che, se non risarcitorio, é almeno para-risarcitorio.

Doc. Così pare anche a me, ma di diverso avviso é il legislatore che, nel primo comma dell’art. 9bis, dispone: “A colui al quale é stato riconosciuto il diritto alla

corresponsione periodica di somme di denaro a norma dell’art. 5, qualora versi in stato di bisogno, il tribunale, dopo il decesso dell’obbligato, può attribuire un assegno periodico a carico dell’eredità tenendo conto dell’importo di quelle somme, dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. L’assegno non spetta se gli obblighi patrimoniali previsti dall’art. 5 sono stati soddisfatti in unica soluzione”

Disc. Comunque, se al coniuge sopravvissuto può essere riconosciuto un diritto vitalizio a carico dell’eredità, penso che anche gli possa essere riconosciuto un diritto alla pensione di reversibilità.

Doc. Certamente; anzi qui il legislatore...gioca al rialzo: infatti riconosce al coniuge superstite il diritto (e non la semplice aspettativa subordinata al placet del tribunale) non solo alla pensione di reversibilità (v. melius il secondo comma dell’art. 9), ma altresì ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto (v. melius, l’art. 12 bis).

Lezione XXIV – I patti tra coniugi

Doc. Abbiamo visto che Caio e Caia – fermo e intangibile il loro obbligo di “ contribuire ai bisogni della famiglia” “ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo” (principio della inderogabilità dei diritti e obblighi inerenti al c.d. “regime patrimoniale primario”) - hanno una libertà molto ampia, ancorché non assoluta (ti ricordi, ad esempio, i limiti posti alla comunione convenzionale dall’art. 210? ), di regolare i loro rapporti patrimoniali durante il matrimonio (limitando i loro poteri di gestione e di godimento dei beni in loro proprietà, a favore dell’altro coniuge - principio della libera disponibilità del “regime patrimoniale secondario”).Le questioni che dobbiamo ora affrontare, sono le due seguenti: I – sono validi i patti (tra coniugi) stipulati in previsione di una crisi matrimoniale (separazione, divorzio) - patti con cui si stabilisce, ad esempio: a)“ che a Caia spetterà l’assegno di mantenimento tot” oppure b) “ che l’appartamento A sarà attribuito a Caio e l’appartamento B, a Caia” oppure c) “ che i figli saranno affidati a Caio e non a Caia” oppure d) “ che Caia non potrà risposarsi fino a che i figli non raggiungeranno una certa età” (….)? II – sono validi i patti con cui i coniugi si impegnano a dare un certo indirizzo alla vita familiare, stabilendo, ad esempio: e)“ che i figli frequenteranno una scuola

cattolica” oppure f) “che si farà Natale con la famiglia di Caio e Pasqua con quella di Caia” oppure g) “che le spese familiari non potranno superare al mese la metà del redditto da Caio e Caia percepito, il resto essendo destinato ad acquistare quel tale immobile” h) “ che Caia dovrà accogliere nel suo letto Caio una volta alla settimana” (….)?

Disc. Io direi subito che ictu oculi certi patti da te esemplificati sono nulli per illiceità della “causa”, e mi riferisco a quelli sub c, d, h.

Doc. E faresti bene a dirlo, tali patti sono certamente nulli. Ma il dubbio nasce soprattutto in relazione agli altri patti da me indicati: é valido il patto con cui Caio si obbliga a dare l’assegno di mantenimento tot in caso di divorzio? É valido il patto con cui l’appartamento A viene attribuito a Caio? Patti questi che a tutta prima sembrerebbero al riparo da ogni eccezione di invalidità.

Disc. E invece che obiezioni, a tali patti, si muovono (obiezioni evidentemente basate sul preteso difetto di una loro valida “funzione economica e sociale”, cioé di una loro valida “causa”, per usare i termini di cui all’incipit del secondo comma art. 1418)?

Doc. Le obiezioni che contro tali patti si muovono sono sostanzialmente quattro.

Disc. Coraggio, comincia a dirci la prima.

Doc. La prima obiezione, é che tali patti, se considerati validi, spesso, se non sempre, si presterebbero a pressioni se non a veri ricatti, del partner più forte (di carattere) su quello più debole (“ Se non firmi, vuol dire che non mi ami”). Questo sopratutto se stipulati dai coniugi in costanza di matrimonio.Però su tale obiezione non occorre soffermarsi perché é stata, implicitamente, ritenuta infondata dalla Sentenza, che ha ritenuta la incostituzionalità della norma, che sanciva la nullità delle donazioni tra coniugi. Tale norma, infatti, nasceva proprio dal timore che il coniuge più forte (e si pensava al marito) ottenesse con pressioni dal coniuge più debole (e si pensava alla moglie) delle donazioni (eccessive). No, ha detto in buona sostanza la Corte Costituzionale, nella moderna società, Caio e Caia hanno identica educazione, identiche (o quasi) possibilità di vita autonoma: non può più, quindi, parlarsi di un coniuge più forte e di un coniuge più debole.

Disc. Passiamo allora alla seconda obiezione.

Doc. La seconda obiezione é che la ritenuta validità dei patti tra coniugi può portare a una “commercializzazione degli status”.

Disc. E in effetti ben può essere che Caia accetti di divorziare (così rinunciando allo status di coniuge) allettata dal sostanzioso assegno di mantenimento promessile da Caio o, viceversa, Caia si rifiuti di divorziare per costringere Caio a darle un sostanzioso assegno. Peggio ancora, ben può essere che Caia, allettata dall’assegno promessile, acconsenta a lasciare a Caio l’affidamento dei figli.

Doc. Condivido. E sopratutto mi sembra preoccupante l’ultima eventualità da te indicata. Per cui ritengo che la obiezione in questione sarebbe ancora più pertinente, se non si limitasse a prospettare una “commercializzazione degli status”, ma, più in generale, un anomalo e inammissibile commercio, per vil denaro, di fondamentali diritti della personalità (senz’altro del diritto a un certo status, ma anche del diritto alla libertà sessuale, del diritto all’ istruzione e a una sana educazione....).

Disc. Passiamo alla terza obiezione che si muove alla validità dei patti tra coniugi.

Doc. Si obietta: tali patti si prestano a mascherare una rinuncia al diritto di difesa.

Disc. Anche questa obiezione a dir il vero mi pare fondata: ben può essere che Caia, sempre allettata dall’assegno promessile da Caio, rinunci a far valere davanti al giudice certi fatti (ad esempio, la depravazione e il libertinaggio di Caio, col risultato che i figli potranno essere, dal giudice, affidati a una persona...totalmente inaffidabile).

Doc. Passo alla quarta obiezione.

Disc. No, prima dimmi se si replica e come si replica alle due ultime obiezioni.

Doc. Certo si replica, ma in maniera a dir il vero così confusa (cosa che rende difficile anche a me esporti tali obiezioni in maniera chiara), che io ritengo preferibile ricostruire (sulla base delle osservazioni fatte dai fautori della validità dei patti) una mia obiezione (alla validità dei patti) - obiezione certamente criticabile, e io in effetti la criticherò, ma almeno dotata di una sua razionalità.

Disc. Dilla allora questa obiezione.

Doc. Ecco, la obiezione é che una volta che il legislatore ammette che separazione e divorzio dipendano dal semplice consenso dei coniugi, diventa illusorio pensare di contrastare accordi del tipo prima da noi stigmatizzato.

Disc. Illusorio, perché?

Doc. Perchè l’unico strumento che lo Stato ha per contrastare tali accordi é di minacciarne la invalidità, senonché nessun Caio e nessuna Caia sono tanto stupidi da palesare tali accordi; e neanche di farli formalmente, scrivendo nero sul bianco, bastando (per raggiungere i loro scopi) che Caio dica a Caia “ Senti, se tu davanti al giudice (o ancora più facile, davanti all’avvocato che ci assisterà nella convenzione di separazione) firmerai che acconsenti mi siano affidati i figli, io firmerò che acconsento all’assegno tot” e....il gioco é fatto.

Disc. E questo mi pare vero.

Doc. Certo che é vero. Ma l’impossibilità di contrastare la stragrande maggioranza degli accordi viziati da invalidità, non deve impedire di dichiarare tale invalidità nei (pochissimi) casi in cui un coniuge o una coppia di coniugi (o un nubendo o una coppia di nubendi) sente l’esigenza di prendere accordi del tipo in esame in un momento, in cui - essendo ancora lontana e solo nel regno delle astratte possibilità, l’udienza presidenziale (o la convenzione davanti a un avvocato), se vuole dar soddisfazione a tale sua esigenza, deve effettivamente mettere nero sul bianco.

Doc. Effettivamente la tua controreplica mi pare che non manchi di fondamento (l’unico suo difetto essendo che viene a confutare una replica...da te stesso costruita).Passiamo sopra a questo difetto e veniamo alla quarta obiezione che si muove contro chi vorrebbe la validità dei patti coniugali.

Doc. Tale obiezione é che accordi stipulati prima della crisi coniugale e addirittura prima del matrimonio, rischiano di essere frutto di una confusa percezione delle conseguenze che ne possono derivare, in quanto per le parti é difficile prevedere a così distanza di tempo le circostanze che accompagneranno la loro vita coniugale (come può Caio - che, nell’ansia di assicurarsi un facile ritorno al celibato, si dichiara disposto a dare, in caso di divorzio, un assegno eccessivo, anche se ancora

compatibile col reddito che gli dà il suo impiego attuale - prevedere se in futuro non perderà tale impiego in seguito a una crisi economica o in conseguenza di una sua invalidità fisica? ). E a prescindere da questo essi (idest, gli accordi stipulati prima della crisi coniugale e addirittura del matrimonio) possono essere frutto di una sottovalutazione del verificarsi di certi eventi (“ Sì, io, Caio, non trovo nulla in contrario a promettere a te, Caia, l’assegno tot per il caso di separazione, in quanto ci amiamo tanto che é impossibile che noi ci si separi”).

Disc. Con i discorsi da te prima fatti hai detto implicitamente che, per te, i patti coniugali fatti in previsione della crisi coniugale, debbono considerarsi invalidi. Ma sul punto che ritiene la giurisprudenza?

Doc. Di massima la giurisprudenza é contraria a riconoscere la validità dei patti in vista della crisi coniugale. Anche se, però, non mancano sentenze che dimostrano una cauta apertura alla validità di tali patti.

Disc. Parliamo ora dei patti con cui i nubendi o i coniugi si obbligano a dare un certo indirizzo alla loro vita coniugale: debbono considerarsi validi?

Doc. Io ritengo di no. E non deve portare a ritenerne invece la validità il fatto che nell’articolo 144 si può leggere che “ i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare”.Infatti, un conto é il concordare, di volta in volta, l’indirizzo della vita familiare, un altro conto é fare un patto con cui ci si obbliga a dare un certo indirizzo alla vita familiare.

Disc. E infatti, sopravvenute circostanze o un semplice migliore approfondimento delle decisioni prima prese, potrebbe rivelare contrario all’interesse familiare l’indirizzo prima adottato.

Doc. E certamente mancherebbe di “causa”, un patto che vincolasse i coniugi a perseverare in una direttiva familiare, anche qualora un maggiore approfondimento ne rivelasse la contrarietà all’interesse della famiglia.

Disc. Possono i coniugi modificare i patti presi in sede di separazione o divorzio.?

Doc. Certamente lo possono adendo l’Autorità giudiziaria (vedi art.711 C.P.C. e art.

9 Legge 1 dicembre 1970 n.898.). Merita invece dei distinguo la questione se i coniugi possono accordarsi tra di loro, per modificare le “condizioni” della separazione o del divorzio o per aggiungere, a quelli presi in sede di separazione o divorzio, accordi integrativi.E il criterio da seguire (per distinguere le modifiche ammissibili da quelle non ammissibili), secondo me, é questo: i coniugi possono compiere tutte le modifiche e integrazioni che vogliono, purché esse non vengano a contraddire le decisioni, nell’interesse dei figli, dalla Autorità Giudiziaria prese o “autorizzate” (e, parlando di decisioni “autorizzate”, penso alle autorizzazioni che il procuratore della Repubblica o il presidente del tribunale danno in sede di “convenzioni di separazione assistite da un avvocato”).

Disc. Ma qui mi pare che il discorso si faccia delicato: infatti ci possono essere “decisioni”, in riguardo alle quali può non essere facile dire, se sono state prese, o no, nell’interesse dei figli, penso, ad esempio, alla decisione di assegnare a Caia, anziché a Caio, l’appartamento scelto come residenza della famiglia.

Doc. Io penso che nel dubbio le parti debbano sottoporre la questione al giudice.

Disc. Adottando la procedura prevista dall’articolo. 711 C.P.C. o dall’articolo 9 L.898/1970?

Doc. Non necessariamente: potrebbero anche stipulare una convenzione di modifica con l’assistenza dell’avvocato e, dopo, trasmetterla, come dovuto per rito, al procuratore della Repubblica, il quale vedrà lui se é il caso di trasmetterla a sua volta al presidente (per un esame della ammissibilità della “modifica”).

Disc. Chiaramente, le osservazioni da noi ora svolte, sono anche applicabili mutatis mutandis ad eventuali patti “ a latere”, cioé a quei patti che spesso si sogliono fare in sede di separazione o divorzio, fuori dell’aula giudiziaria (e fuori dall’occhio del giudice).

Doc. Chiaramente, sì.

Sezione ottava: Le alternative al matrimonio

Lezione XXV: Le Unioni Civili

Premessa – Abbiamo visto come il legislatore disciplina la famiglia fondata sul matrimonio. Ma la persona, a cui le sue pulsioni sessuali o la sua insofferenza dei limiti che il matrimonio impone, impediscono di contrarre questo, é destinata dal nostro legislatore a vivere sola nella società? No, assolutamente, dato che il Legislatore - nella Legge 11 maggio 2016 n....(ai cui commi del suo primo articolo nel prosieguo ci riferiremo in mancanza di altra nostra indicazione) - configura due altri tipi di famiglia: la “unione civile”, e la “convivenza di fatto”. Alcuni brevi cenni su entrambi questi nuovi istituti, cominciando dalle “Unioni civili”.

Unioni civili -

Disc. Che cosa si intende per “Unione civile”?

Doc. Si intende una “formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” (co1) composta da due persone maggiorenni dello stesso sesso, che consentono ad assumersi reciprocamente gli obblighi: di assistenza morale e materiale; di coabitazione; di contribuzione ai bisogni comuni “ in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo”; di concordare tra loro l’indirizzo della vita familiare e la fissazione della residenza comune (commi 11 e 12).

Disc. Ma, chi vuol formare una “Unione civile”, non é tenuto ad assumere un obbligo di fedeltà verso il partner?

Doc. No, non vi é tenuto. Probabilmente l’esclusione di un tale obbligo di fedeltà, così come la definizione della “Unione civile” come semplice “formazione sociale”, corrisponde all’intenzione del legislatore di porre questa su un piano (dei valori) più basso di quello occupato dalla famiglia fondata sul matrimonio. Il ragionamento del legislatore probabilmente é stato questo: l’unione sociale essendo una mera “formazione sociale” (cioé qualche cosa costruito dall’uomo) é inferiore al matrimonio che é invece – secondo l’ideologia accettata nel primo comma dell’art. 29 Cost. - una “società naturale”, quindi non dovuta alla limitata intelligenza umana; e proprio perché la “Unione sociale” é un quid minus di fronte alla famiglia fondata sul matrimonio (é “prosa” di contro alla “poesia” di questa), non si può pensare che i suoi partecipanti si siano decisi a formarla perché animati da quella “comunione spirituale e materiale”, che invece deve animare i coniugi (vedi v.art.1 Legge 1.12.1970 n.898- c.d. Legge sul “divorzio”), e che giustifica l’obbligo di fedeltà (fedeltà non necessariamente sul piano sessuale, ma certamente, sì, a quei valori

comuni che i coniugi avevano al momento di sposarsi).Del resto anche l’atto costitutivo della “Unione” ha un tono molto più modesto dell’atto solenne con cui si “celebra” (v art, 106 C.C.) il matrimonio.

Disc. E precisamente come si costituisce una “Unione civile”.

Doc. Sul punto ti riporto le parole del co. 2: “ Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono una unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”.E così come l’Unione civile in tono dimesso si costituisce, così si scioglie. Infatti il co. 24 recita: “l’unione civile si scioglie quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile”.

Disc. E’ un bel vantaggio che si dà alle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, il non dovere ricorrere al giudice per riacquistare la loro libertà!

Doc. In realtà anche le coppie omosessuali al giudice debbono ricorrere, instaurando un procedimento, che sarà disciplinato dalle stesse norme, che regolano il procedimento che i coniugi debbono instaurare per ottenere il divorzio (co. 25); ma é chiaro che il giudice, non potrà che dare atto del intervenuto scioglimento dell’Unione (una volta verificata la regolarità formale della dichiarazione fatta in tal senso dal partecipante ad essa). Quindi se ci sarà materia per contendere, e in non pochi casi questa ci sarà, essa sarà data da controversie di carattere patrimoniale (diritto, o no, a un assegno di mantenimento, diritto, o no, all’appartamento di precedente comune residenza ….).

Disc. Ma l’Unione si scioglie solo per volontà delle parti? ’

Doc. No la legge prevede come cause di scioglimento dell’Unione anche: la morte di uno dei due partner, (co.22), la condanna di un partner per certi reati (vedi meglio l’art. 3, n.1 e n.2 lettere a) c) d) e) legge 1 dic 1970n898 – a cui rinvia il co.23), l’intervento di una sentenza di rettificazione del sesso di uno dei partner (co.26).

Disc. Capisco che la morte e il cambiamento di sesso di uno dei partner determini lo scioglimento della Unione (tanto più che rimane pur sempre aperta la possibilità per i partners, che vogliono continuare il loro rapporto, di contrarre un matrimonio). Non capisco, però, perché, l’accertamento in sede giudiziaria che un partner ha commesso certi reati, dovrebbe portare allo scioglimento del matrimonio automaticamente, cioé indipendentemente da una domanda ad hoc dell’altro partner (domanda che invece é necessaria perché si ritenga lo scioglimento del matrimonio - vedi l’incipit dell’art.3, legge 898/70, vedi anche, sia pure per un altro profilo, ma pur sempre per negare

l’automatismo dello scioglimento del matrimonio in seguito a sentenza penale, il capoverso lettera d numero 1 art.3 sempre legge 898/1970).

Doc. Effettivamente é un po’ difficile capirlo Sed de hoc satis. Dal momento che la legge in esame con le altre disposizioni (o, almeno, con le altre disposizioni di un certo rilievo) praticamente non fa che la fotocopia dei diritti e degli obblighi attribuiti dal Codice ai coniugi, io ritengo che a questo punto si possa passare a parlare della “Convivenza di fatto” (ciò che faremo nella seguente lezione).

Lezione XXV – Le convivenze di fatto

Dovendo parlare delle “convivenze di fatto”, le prime cose da rilevare sono: che la “formazione sociale - convivenza di fatto”, non nasce da una dichiarazione ad hoc di due persone che si dichiarano disposte ad assoggettarsi agli obblighi che il legislatore fa derivare, come vedremo, dalla partecipazione a un tal tipo di “formazione sociale” (come, invece, é, come abbiamo visto, per la formazione sociale “unione civile” e per la famiglia nata dal matrimonio); e che neanche si può individuare nel tempo un altro atto o fatto che la costituisca: essa nasce semplicemente dal perdurare di una certa situazione: la convivenza di due persone, tra cui esiste un legame affettivo “di coppia” (in altre parole, di natura sessuale, quindi diverso dal legame affettivo che può nascere tra due parenti o tra due persone amiche) e che tra di loro si sono comportate e si comportano come ci fosse un impegno a reciprocamente assistersi materialmente e moralmente.

Disc. Quindi può accadere che due persone, le quali a poco a poco, quasi inconsapevolmente, si trovano invischiate in quella situazione di fatto, che é una convivenza, possano vedersi gravare di obblighi a cui, nell’iniziare la convivenza, neanche pensavano! E quali sono questi obblighi? quelli di continuare ad assistere e, se del caso, mantenere, il partner?

Doc. No, fino a tal punto il nostro legislatore non giunge. Egli si limita a stabilire nel comma 65 che “ in caso di cessazione della convivenza” - (quindi non é possibile a un convivente fare quel che invece é possibile a un coniuge o a un partner di una “Unione”: cioé far condannare, quando ancora la convivenza non é cessata, il partner a dare un assegno di mantenimento) - “il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti (quindi, non un assegno di mantenimento) qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al suo mantenimento. In tali casi– prosegue la norma – gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza” (quindi, al contrario degli alimenti dovuti al coniuge o al partecipante a una “Unione civile”, gli alimenti dovuti al convivente hanno una durata temporanea).

Disc. Ma il legislatore, date le conseguenze che ne fa conseguire, non dà una definizione precisa della “convivenza di fatto”?

Doc. Certo che la dà; e precisamente la dà nel comma 36, che recita: “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Disc. Dopo quel che tu hai detto sull’obbligo alimentare che può conseguire da una convivenza (più precisamente, da un tipo di convivenza quale quello disciplinato dalla legge in esame),capisco perché il legislatore pretenda, per ritenerla esistente, il requisito della maggiore età nei suoi partecipanti. Mi é però di difficile comprensione l’ultima parte del comma 36; là dove dice che la convivenza de qua non può ritenersi tra persone “ vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

Doc. E in effetti si tratta di disposizione non molto chiara. La chiave, secondo me, per capirne il significato, sta nel scindere la esclusione (dalla possibilità di far parte dell’istituto de quo) in considerazione dei vincoli dovuti a “rapporti di parentela, affinità o adozione”, dalla esclusione in considerazione dei vincoli dovuti a matrimonio e unione civile. Quando il legislatore si riferisce al primo gruppo di vincoli (vincoli di parentela, affinità, adozione) si riferisce a vincoli esistenti tra i due conviventi (si riferisce ad esempio, al caso che i conviventi, Caio e Caia, siano tra di loro zio e nipote), e ritiene incompatibili tali vincoli con l’istituto da lui creato della “convivenza di fatto”, probabilmente per ragioni morali, perché non vuole attribuire diritti e facilitazioni a chi, anche se non si trova necessariamente in una situazione incestuosa, si trova pur sempre in una situazione, che la morale comune disapprova.Quando, invece, il legislatore si riferisce al secondo gruppo di vincoli (vincoli derivanti da un matrimonio o da un’unione civile), il legislatore, non si riferisce più a vincoli che i conviventi trattengono tra di loro (il che sarebbe assurdo), ma a vincoli che legano uno o entrambi i conviventi a terzi (Caio, che convive con Caia, é sposato con Sempronia); e ritiene incompatibili tali vincoli (con l’istituto de quo), perché non vuole attribuire al partner del convivente “vincolato” (nell’esempio, a Caia) dei diritti che entrerebbero in concorrenza e comprimerebbero eguali diritti da lui attribuiti al coniuge o al partner della Unione civile (nell’esempio, a Sempronia: chiaro, che, se si attribuisce a Caia un diritto al risarcimento nel caso di decesso del convivente dovuto a fatto illecito altrui, il diritto al risarcimento, già riconosciuto a Sempronia, si riduce).

Disc. Ma quali sono i diritti di cui stai parlando?

Doc. Il più importante é dato dal diritto (meglio, potere) dei conviventi a stipulare il, così chiamato dal legislatore, “contratto di convivenza”; vi sono poi tutta una serie di diritti (cosiddetti “minimali”: il diritto a visitare in carcere e in ospedale il convivente, il diritto a un risarcimento “in caso di decesso del convivente, derivante da fatto illecito di un terzo”, il diritto a subentrare nel contratto di locazione in caso di morte o recesso del convivente...) che, data la natura dell’opera, qui non mi é possibile trattare.

Disc. Dimmi allora in che consiste questo “contratto”, che i conviventi hanno il potere di stipulare tra di loro.Doc. Il “contratto di convivenza” é il contratto con cui “i conviventi di fatto disciplinano i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune” (co.50). Con la possibilità di stabilire in tale contratto - non solo,. ad esempio, “ le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo” (clausola espressamente prevista dal co.53) o la destinazione della casa, in cui i conviventi risiedono, in caso di cessazione della convivenza -- ma anche l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni (previsto dagli artt. 177 e ss. C.C.), cosa questa come é facile comprendere particolarmente delicata e importante, per le conseguenze che può avere anche per terzi.

Disc. Ma, data la sua importanza, per tale contratto sarà richiesta un forma particolare.

Doc. Certamente. Il comma 51 stabilisce che “ tale contratto, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o con scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o (attenzione avvocati o futuri avvocati! ) da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”.Ma non solo la legge impone di rivestire il “contratto di convivenza” di determinate forme, ne impone anche la pubblicità (sul punto v. co.52).Ai professionisti, ai conviventi e anche a persone estranee alla convivenza, il legislatore, poi, impone vari obblighi, sopratutto a tutela dei terzi.Più precisamente la Legge impone degli obblighi: al professionista “ che riceve o che autentica” l’atto di recesso unilaterale da un contratto di convivenza”: egli “deve notificarne copia all’altro contraente” (vedi meglio il comma 61);“al contraente che ha contratto matrimonio o unione civile” (ciò che per il comma 59

determina la risoluzione del contratto di convivenza): egli “deve notificare all’altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile” (vedi co.62); e (tenendo conto che al decesso di un convivente consegue, per l’articolo 59, la risoluzione del contratto di convivenza) “ al contraente superstite o agli eredi del contraente deceduto”: infatti essi “devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza”.

Disc. Un’ultima domanda, prima di chiudere sull’argomento istituto - convivenza di fatto: dal momento che occorrono particolari requisiti (una certa età, l’assenza di vincoli matrimoniali con terzi...) per far parte della “convivenza” - e naturalmente qui mi riferisco alla “convivenza” disciplinata dai commi 36 e seguenti da cui derivano i diritti di cui sopra si é parlato - si deve dedurre che il legislatore non riconosce, ai conviventi mancanti di tali requisiti, nessun diritto?

Doc. Per nulla i conviventi privi dei requisiti (indirettamente) ricavabili dal comma 36, godranno pur sempre dei diritti che hanno attribuito o attribuiranno al semplice convivente precedenti o susseguenti leggi (così come interpretate da una generosa giurisprudenza).

LIBRO QUINTO

Diritto ereditario

Lezione I: I criteri per la scelta degli eredi

Disc. Quando Fulano muore che ne é dei suoi beni? divengono res nullius, beni che tutti possono occupare e di cui tutti possono impossessarsi?

Doc. Naturalmente, no, dato che, se ciò fosse, nessuno spenderebbe tempo e fatica per utilizzare convenientemente dei beni del cui pacifico possesso non é garantito. Eciò sarebbe contrario all’interesse della Società tutta, dato che questa ha invece interesse che i beni costituenti la ricchezza nazionale siano al massimo utilizzati (se chi possiede un campo non ne raccoglie la frutta, meno frutta arriva nel mercato e sulle tavole dei cittadini).

Disc.E allora? dei beni già di Fulano diventa proprietario lo Stato?

Doc. A tutta prima questa sembrerebbe la soluzione più giusta; e questo per due motivi:Primo, perché non c’é ragione di attribuire i beni di Fulano, la persona defunta, a una persona, chiamiamola Fortunato, che non ha speso una goccia di sudore per crearli. Secondo (motivo) perché se Fulano ha potuto accumulare dei beni, lo deve alla Società: se non ci fossero state strade, se non ci fosse stato servizio postale ecc.ecc., egli nessun bene avrebbe potuto accumulare e, quindi, sembrerebbe giusto che, lui morto, tutti i suoi beni, alla Società, ritornino.

Disc. Però questi motivi, tu evidentemente non li ritieni dei “buoni motivi”.

Doc. Non io, ma la Costituzione non li ritiene dei “buoni motivi”. Infatti se alla morte di ogni cittadino i suoi beni andassero allo Stato, questo in poco tempo si troverebbe proprietario di tutti i beni costituenti la ricchezza nazionale e la proprietà privata sparirebbe – questo mentre invece, ecco il punto, la Costituzione riconosce a questa un’utile funzione sociale. Leggi il secondo dell’art. 42 della Costituzione, che dice?

Disc. Dice, é vero, quel che hai detto tu; più precisamente recita che “La proprietà privata é riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.Va bene, ma a questo punto il problema é per lo Stato la scelta dei privati a cui attribuire i beni di Fulano, la persona deceduta. Io penso che il criterio più logico, da seguire in questa scelta, sia quello che porta a nominare erede di Fulano la persona più capace di bene utilizzare il patrimonio di Fulano.

Doc. La soluzione da te prospettata é senza dubbio una soluzione logica, ma purtroppo é di impossibile realizzazione (te lo immagini lo Stato che organizza un concorso alla morte di ogni persona?!).

Disc. Allora un criterio,valido almeno per quel che riguarda un diritto di credito o uno dei c.d. iura in re aliena (diritto di servitù, diritto di usufrutto...) mi pare che potrebbe essere quello di nominare erede di Fulano, la persona per cui quel diritto rappresenta un limite alla sua proprietà (Cornelio il cui diritto di proprietà é limitato dal diritto di usufrutto di Fulano) o un vincolo per la sua attività e il suo patrimonio (Numidio, debitore di Fulano).

Doc. Lasciamo perdere il caso degli iura in re aliena, il cui destino alla morte del loro titolare é meglio riservare allo studio di tale categoria di diritti. Per quel che riguarda i diritti di credito, sì, non si può negare che il criterio da te indicato sia buono, infatti estinguere il diritto di credito (in seguito alla “confusione” della qualità di creditore e di debitore) finisce per liberare energie (nel debitore diventato erede) di cui la Società tutta avrebbe beneficio; senonché tale criterio contrasta con altri criteri che il legislatore ritiene (si può dire dalla notte dei tempi), di esso, migliori.

Disc. E quali sono questi criteri?

Doc. Sono tre: il primo, e il più importante, é quello di attribuire la proprietà dei beni di Fulano in modo che tale attribuzione sia stimolo per l’iniziativa e la laboriosità.

Disc. L’iniziativa e la laboriosità di Fortunato (chiamiamo così l’erede di Fulano)?

Doc. No, di chiunque abbia energie e forze per lavorare ed agire. Questi, come ogni persona moralmente e psicologicamente sana, non pensa solo al suo benessere ma anche, e spesso, soprattutto, al benessere delle persone che ha care; e pertanto é incentivato a lavorare e a darsi da fare per aumentare la ricchezza sua (e di riflesso, della Società tutta) se sa che, di tale ricchezza, ne beneficieranno le persone a cui lo lega l’affetto; mentre sarebbe disincentivato se sapesse che, il patrimonio che ha costruito, va allo Stato o a persone scelte dallo Stato con strani criteri.

Disc. Ho capito, il criterio adottato dalla Legge é di attribuire i beni di una persona alle persone a lui più care; ma come individuare tali persone?

Doc. Semplicissimo: in base alla indicazione da lui stesso fattane in un atto particolarmente solenne.

Disc. Il testamento.

Doc. Sì, il testamento, l’atto più importante di tutto il diritto ereditario il cui studio ci occuperà nelle prossime lezioni.

Disc. E se Fulano non ha pensato di fare testamento?

Doc. Allora i beni di Fulano andranno al coniuge e ai parenti prossimi (secondo un ordine che la legge si preoccupa di minutamente indicare: prima, i figli; se mancano i figli, i genitori e i fratelli ecc.ecc.).

Disc. Questo perché il legislatore presume che il coniuge e i familiari siano le persone più care a Fulano, quelle che presumibilmente avrebbe indicato nel testamento se mai l’avesse fatto.

Doc. Sì e no; dato che, se in molti casi tale presunzione sarebbe valida, in non pochi altri cozzerebbe contro l’evidenza dei fatti (pensa al caso di Fulano che si é separato di brutto dalla moglie o...ha tentato di uccidere il figlio – eppure anche in tali casi il coniuge e il figlio sono,dalle legge, chiamati a succedergli). Diciamo piuttosto che il legislatore finge di credere che sia così: che il coniuge e i parenti più prossimi siano le persone più care al de cuius.....

Disc. ….più care a chi?

Doc. Al de cuius, così si chiama, e d’ora in poi anche noi chiameremo, colui de cuius hereditate agitur, il Fulano dei nostri precedenti esempi.

Disc. Dunque, quando il de cuius muore senza aver fatto testamento, il Legislatore sceglie i suoi eredi, non tanto preoccupandosi di quella che sarebbe stata la sua volontà, ma dell’interesse della sua famiglia.

Doc. Esattamente. E se in certi casi il Legislatore tutela la famiglia fingendo di seguire una volontà presunta del de cuius, in altri addirittura la tutela contro la

volontà del de cuius: Fulano II (figlio di Fulano I, il particolare come vedremo ha la sua importanza) ha fatto testamento nominando sua unica erede la servotta compiacente: il Legislatore dice “No, caro Fulano, solo una parte del tuo patrimonio (la c.d. “disponibile”) puoi lasciare alla tua servotta, l’altra la devi lasciare ai tuoi figlioli, Fulano III e Fulano IV, anche se cordialmente li detesti”.

Disc. Ma questo contrasta con quel che hai prima detto: Fulano II non si sentirà per nulla incentivato a lavorare e a produrre, se saprà che il suo patrimonio non andrà alla persona a lui più cara, ma ai figlioli che detesta!

Doc. E’ un contrasto apparente e che svanisce se tu rivolgi la tua attenzioni, non più a Fulano II, ma a a suo padre Fulano I: questi perché si é dato da fare per accumulare, novello mastro Don Gesualdo, un patrimonio?

Disc. Per assicurare il benessere del figlio Fulano II.

Doc. Io direi più precisamente, per assicurare il benessere dei suoi discendenti (del figlio Fulano II, certo, ma anche dei nipoti, Fulano III e Fulano IV e, andando ancora oltre, dei pronipoti, Fulano V e Fulano VI); per cui certamente si sarebbe sentito disincentivato a lavorare e ad operare, se avesse saputo che un figlio pazzo o degenerato avrebbe arricchito, con i beni frutto del suo lavoro, un estraneo, lasciando nella miseria quelli del suo stesso sangue.

Disc. Quindi, se ho compreso bene,il legislatore anche quando sacrifica la volontà testamentaria di Fulano II per tutelare la famiglia, non rinuncia per nulla, nella scelta degli eredi, al criterio di scegliere gli eredi in modo da incentivare l’iniziativa e la laboriosità (dei cittadini).

Doc. A dir il vero non é sempre così: é così nella scelta dei figli come eredi (come eredi, sia “legittimi”, idest “scelti dalla legge”, nel caso che il de cuius non abbia fatto testamento, sia “necessari”, idest imposti dalla legge nel caso che il testamento non li contempli come eredi o li contempli per una quota minore di eredità); non é così nella scelta come eredi (anche qui, sia eredi “legittimi” sia eredi “necessari”) del coniuge e degli ascendenti. Infatti la scelta del coniuge e degli ascendenti come eredi é fatta dal legislatore in base a due criteri, diversi da quello prima enunciato – i due altri criteri di cui ci eravamo riservati di parlare (ti ricordi, vero? che avevamo detto che i criteri con cui il legislatore opera la sua scelta sono tre).

Disc. Certo che me ne ricordo. Dì il criterio che porta il legislatore a scegliere come erede il coniuge.

Doc. Il criterio che porta alla scelta del coniuge come erede, nasce dalla volontà legislativa di incentivare le persone (specie le donne) a sposarsi. Per sposarsi una persona, specie se di sesso femminile, spesso é costretta a fare delle rinunce anche economiche (ad esempio a rinunciare al lavoro fuori casa e ai relativi redditi), ora dire a Caia “Sposati, senza timore, perché, é vero, sposandoti rinunci a quella tal fonte di reddito, ma é anche vero che alla morte di tuo marito avrai una parte della sua eredità, ch’egli lo voglia o no” - ebbene questo é appunto un modo per fare superare a Caia ogni esitazione e spingerla a sposarsi.

Disc. Dì ora il criterio che porta il legislatore a scegliere gli ascendenti (come eredi sia legittimi che necessari).

Doc. Il criterio che porta alla scelta degli ascendenti come eredi, é dato dalla volontà legislativa di incentivare le persone ad allevare, educare, istruire i loro figli e, se del caso, i loro nipoti, pronipoti e, insomma, i loro discendenti. Il legislatore parte dalla considerazione che Fulano si sentirà incentivato a fare ciò, se da ciò potrà sperare un “ritorno” economico - “ritorno” rappresentato, prima di tutto, dagli “alimenti” (“caro figlio, io ti ho nutrito, ora che sono vecchio, pensa tu a nutrire me”), sia, nel caso di premorte del figlio (in genere, del “discendente”) da una parte dell’eredità da lui lasciata.

Disc. Io non penso che le persone siano tanto meschine da fare tali ragionamenti.

Doc. Fortunatamente molte persone effettivamente non li fanno, ma alcune li fanno. E il legislatore, meno sentimentale e più pratico di te, ne tiene conto.

Disc. Concludendo, mi pare che si possano distinguere tre tipi di eredi: un erede testamentario (in quanto indicato come tale dal testamento), un erede legittimo (in quanto scelto come tale dalla legge) e un erede necessario (in quanto, non solo é scelto, ma imposto dalla legge)

Doc. E correlativamente si possono distinguere tre tipi di successione: la successione testamentaria, la successione legittima (o ab intestato) e la successione necessaria.

A questo punto gioverà alla tua preparazione fare una prima conoscenza dei seguenti articoli.Articolo 457, che recita: ” L’eredità si devolve per legge o per testamento – Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria. - Le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari”.Articolo 536: “(Legittimari). Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o di altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli, gli ascendenti (….)”.Art.565: (Categorie dei successibili) – Nella successione legittima l’eredità si devolve al coniuge, ai discendenti, agli ascendenti, ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato, nell’ordine e secondo le regole stabilite nel presente titolo”.

Disc..Abbiamo finora visto i criteri in base ai quali vengono attribuiti i beni rientranti nel patrimonio di Fulano, il de cuius.; ma un patrimonio comprende sia dei beni che dei debiti. E siccome non é immaginabile che tali debiti con la morte di Fulano si estinguano, il legislatore, penso, individuerà anche le persone a cui toccherà,tali debiti, pagare.

Doc. Chiaramente, sì. E naturalmente le individua nelle stesse persone che vengono a beneficiare dei beni di Fulano (se non altro perché presumibilmente esse potranno ricavare i soldi per pagare i debiti dalla vendita di tutti o parte dei beni da loro ricevuti ex il patrimonio di Fulano): Caio ha ricevuto in eredità quell’appartamento? Ebbene é giusto che sia Caio a pagare il credito di 100 che Sempronio poteva vantare verso Fulano (un credito, tieni presente, che per l’art. 2740, era garantito anche da tale appartamento)

Disc. Naturalmente Caio (il successore di Fulano) risponderà dei debiti del de cuius nei limiti del valore dei beni di cui ha beneficiato: se il credito di Sempronio é di 100 e l’appartamento ereditato vale solo 50, Caio pagherà solo per metà il credito di Sempronio.

Doc. Non é sempre così, bisogna distinguere. Alcune delle persone che hanno acquisito beni in seguito all’eredità dismessa da Fulano, risponderanno dei debiti de quibus anche oltre il valore di tali beni, ultra vires per usare un termine tecnico,e queste persone sono gli “eredi”; altre, invece, non risponderanno per nulla di tali debiti o, nei casi eccezionali in cui ne risponderanno, ne risponderanno nel limite di

valore dei beni ricevuti, infra vires, e queste persone sono i “legatari”.

Disc. Mi spiegherai poi chi sono questi “legatari”. Però debbo dirti subito che trovo ingiusto che Caio, che ha ricevuto in eredità un bene che vale 50, debba rispondere dei debiti del de cuius oltre 50, addirittura con tutto il suo patrimonio. Ciò mi pare che in definitiva comporti un arricchimento ingiustificato di Sempronio: questi, vivente Fulano avrebbe potuto soddisfare il suo credito solo su un appartamento del valore di 50, perché mai dopo la morte di Fulano può soddisfare il suo credito su tutto il patrimonio dell’erede Caio (quindi su beni che potrebbero essere di un valore anche di molto superiore a quello dell’appartamento), perché insomma la morte di Fulano deve tradursi in un miglioramento della posizione creditoria di Sempronio?

Doc. La responsabilità ultra vires dell’erede, che a te sembra tanto ingiusta, invece riposa su una buona ragione: essa infatti costituisce per così dire la contropartita della piena e libera disponibilità, che l’erede Caio acquista sui beni ereditati. Infatti, la piena libertà acquisita da Caio nella gestione di tali beni, comporta il rischio di una mala gestio (chi può escludere che Caio compiendo operazioni economicamente sbagliate sperperi in poco tempo i beni ereditati?): al rischio di tale mala gestio deve esserci una contropartita: questa contropartita é appunto la responsabilità ultra vires dell’erede (“Attento, Caio, se tu sperperi i beni ereditati, poi rispondi dei beni di Fulano con tutto il tuo patrimonio!”). E che questa sia la ratio della responsabilità ultra vires dell’erede é dimostrato dal fatto che, se l’erede, accettando la eredità con “beneficio di inventario”, accetta con ciò stesso (come vedremo studiando tale istituto) dei limiti e dei controlli nelle gestione dei beni ereditari, egli risponde, non più ultra, ma infra viresIntanto sarà bene che tu ti legga e ben ti fissi nella mente l’articolo 754, che recita. “(Pagamento dei debiti e rivalsa)- Gli eredi sono tenuti verso i creditori al pagamento dei debiti e pesi ereditari personalmente in proporzione della loro quota ereditaria (….)”

Disc. Va bene é giusto che gli eredi rispondano dei debiti ultra vires Però a questo punto devi spiegarmi perché alcuni successori di Fulano, quelli che tu hai chiamato “legatari”, rispondono dei debiti, se ne rispondono, solo infra vires. E prima ancora mi devi spiegare chi sono questi “legatari”.

Doc. Per spiegartelo é bene che cominciamo a leggere l’articolo 588 (l’articolo in cui il Legislatore tenta di definire, senza troppo successo,lo dico subito, i concetti di

“erede” e di “legatario”).Art.588: “(Disposizioni a titolo universale e a titolo particolare) Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario.L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei come quota del patrimonio”.

Disc. Mi par di capire che, quando il testatore indica nella sua disposizione un bene determinato (ad esempio dispone “Lascio l’appartamento di via Cairoli a Cornelio”) ci si trova di fronte a un legato, a meno che risulti che il testatore attribuisca il bene (l’appartamento di via Cairoli) “come quota del patrimonio”.Ma, mi pare, l’appartamento di via Cairoli inevitabilmente costituirà una quota piccola o grande del patrimonio, e quindi il testatore, se non é scemo, assegnandolo, non può non sapere che sta assegnando una quota del suo patrimonio; per usare le parole delle Legislatore, non può non “aver inteso assegnare quel appartamento come quota del patrimonio”. Insomma, mi pare, che, il criterio stabilito dl legislatore per distinguere tra erede e legatario, in realtà non sia utilizzabile.

Doc. E io la penso come te.

Disc. E allora?

Doc. Allora per stabilire quando una disposizione di beni determinati costituisce una disposizione a titolo universale, la c. d. istitutio ex re certa, e quando invece é una disposizione a titolo particolare (per cui chi ne beneficia va considerato un legatario) bisogna, sì, basarsi sulla volontà del testatore, ma non sulla volontà di attribuire quel dato bene come quota o no - dato che ciò, come tu hai ben notato, sarebbe assurdo: ogni attribuzione di un bene non può non essere attribuzione di una quota - bensì sulla volontà, di attribuire al beneficato i poteri e i diritti di un erede e di gravarlo, degli obblighi di un erede, in primis, dell’obbligo di pagare ultra vires i debiti dell’eredità.

Disc. Ma così, tu fai dipendere il diritto di Sempronio (il creditore del de cuius Fulano) di soddisfarsi su tutto il patrimonio di Caio (il successore nei beni di Fulano)

dalla mera volontà di Fulano (il de cuius). E se questi, per mettere al sicuro dall’aggressione dei suoi creditori i beni che morendo dismetterà, usasse il (facile) sistema di distribuire tali beni sempre con disposizioni ex re certa (l’appartamento di via Cairoli lo lascio a mio figlio Sempronio, l’appartamento di via Roma lo lascio a mio figlio Cornelio e così via) e poi nominasse erede, per un piccolo residuo, Pinco Pallino, che é un nullatenente per cui aggredendo il suo patrimonio i creditori resterebbero...a becco asciutto? non sarebbe questo per lui un facile sistema per eludere quella responsabilità ultra vires stabilita nell’articolo 754 da te prima citato?

Doc. Sì, questo pericolo effettivamente c’é; ma il legislatore, come vedremo, dà ai creditori uno strumento per sventare il pericolo, connesso alla mala gestio dei beni ereditari, che per loro si profila come conseguenza del fatto che coloro, che hanno acquisito i beni già di Fulano, non rispondono ultra vires: questo strumento é, come vedremo, la “Separazione dei beni”.Peraltro devi tenere presente che, stabilire se il beneficiario é un erede o un legatario, é necessario, non solo ai fini di sapere se egli deve rispondere infra o ultra vires, cioé per sapere sui suoi obblighi verso i creditori, ma anche per sapere dei suoi obblighi e dei limiti dei suoi poteri verso gli altri chiamati all’eredità, dato che, ad esempio, se é erede ha l’obbligo di collazione del donatum, se é legatario non lo ha. E, se ti può sembrare “strano” far dipendere dalla mera volontà di Fulano, il de cuius – debitore, i limiti della responsabilità patrimoniale dei suoi successori verso i creditori, strano di certo non ti può apparire che egli (idest, il de cuius) stabilisca i limiti dei poteri e degli obblighi di un chiamato all’eredità verso gli altri chiamati (io voglio che Sempronio collazioni il donatum, e lo nomino erede, non lo voglio e lo nomino legatario).

Disc. Ma il legatario e l’erede si distinguono per diversi poteri e doveri solo verso i creditori e gli altri chiamati all’eredità?

Doc. No erede e legatario hanno diversi poteri e doveri anche verso terzi (non creditori): ad esempio l’erede può giovarsi della c.d. petitio hereditatis e il legatario, no. Ma tutto questo ci riserviamo di vederlo meglio in seguito. Ora ti inviterei a leggerti e a fissarti bene nella mente il disposto dell’art. 756.Art. 756: “(Esenzione del legatario del pagamento dei debiti)- Il legatario non é tenuto a pagare i debiti ereditari, salvo ai creditori (….) l’esercizio del diritto di separazione (….)”.

Lezione II: Accettazione e rinuncia dell’eredità.

Disc. Fulano chiamato all’eredità di Pinco Pallino diventa erede automaticamente alla morte di questi?

Doc. No; e naturalmente, dato che per Fulano diventare erede di Pinco Pallino significa, sì acquisire i suoi beni, ma anche i suoi debiti; e ben può essere che l’ammontare di questi superi il valore di quelli (hereditas damnosa).Questo spiega il disposto dell’articolo, che recita: “(Acquisto dell’eredità). L’eredità si acquista con l’accettazione. L’effetto dell’accettazione risale al momento nel quale si é aperta la successione”.

Disc. Quando si apre la successione e perché il legislatore fa risalire gli effetti dell’accettazione da tale momento?

Doc. Quando si apre la successione te lo dice l’articolo 456, che recita: “La successione si apre al momento della morte, nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto”.

Disc. Ma é importante stabilire il momento di apertura della successione?

Doc. Certo. Ad esempio é importante per stabilire se si é, o no, prescritto il diritto di accettare l’eredità, dato che il termine a quo della prescrizione di tale diritto di regola “decorre dal giorno dell’apertura della successione” (co.2 art. 480).

Disc. Spiega ora perché il legislatore “fa risalire gli effetti” dell’accettazione “al momento in cui é aperta la successione”.

Doc. Non vi é un solo “perché” di questo, ma vi sono tanti “perché” quanti sono i diversi effetti che il principio espresso dall’art. 456 produce.Ad esempio un effetto consequenziale a tale principio é che “il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione” (v. anche co.1 art. 1146): Pinco Pallino (il de cuius) aveva (ai fini dell’usucapione) maturato già un possesso di 15 anni; egli muore nel 2000; Fulano ci pensa ben tre anni prima di accettare: a rigore si dovrebbe dire che lui comincia a possedere solo dal 2004: invece per il principio di retrodatazione dell’accettazione, si ritiene che egli abbia già iniziato a possedere dal 2000 (per cui solo due anni gli rimangono per usucapire). Il perché di ciò é che il

legislatore ritiene giusto tenere conto che vi potrebbero essere particolari circostanze che ostacolano e ritardano l’accettazione dell’eredità, per cui può non essere giusto far pesare sul l’erede il ritardo nell’esercizio del possesso facendo incominciare i suoi effetti solo dall’accettazione.Mettiamoci invece nel caso che, la prescrizione di un diritto di credito di Pinco Pallino verso Sempronio, al momento della sua morte fosse già trascorsa per sette anni; nel 200 Pinco pallino muore; Fulano ci pensa quattro anni per decidere se accettare o no, in tal caso (se il tempo necessario alla prescrizione é di dieci anni), quando Fulano finalmente nel 2004 si decide ad accettare, il credito é bello che prescritto: egli non può dire richiamandosi all’art. 2935 “Ma io sono diventato titolare di tale diritto solo dal 2004 e quindi potevo farlo valere solo dal 2004”, non lo può dire perché glielo impedisce appunto il principio di retrodatazione dell’accettazione. E perché é giusto che glielo impedisca? Perché, come vedremo, il chiamato all’eredità può in realtà, ancor prima di diventare erede con l’accettazione, tutelare i diritti dell’eredità (nel caso interrompendo la prescrizione con una richiesta di pagamento).

Disc. Vale per il legatario quel che ora si é visto per l’erede? Cioé Fulano, a cui Pinco Pallino ha legato il fondo corneliano, ne diventa proprietario solo e nel momento in cui accetta il legato?

Doc. No; e su questo punto é esplicito l’articolo 649, che recita: “Il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare”.E il perché di questa diversità di soluzione per l’erede e per il legatario, é facile a indovinare: l’erede risponde dei debiti ereditari ultra vires, invece il legatario (ti ricordi quel che dice l’articolo 756?) é “esentato dal pagamento dei debiti” (anche se, come vedremo, può correre il rischio di vedersi “mangiare” l’oggetto del legato dai creditori dell’eredità, che non trovino nell’asse ereditario beni sufficienti su cui soddisfarsi).

Disc. Abbiamo visto la necessità di una accettazione da parte dell’erede, vediamo ora le forme che questa deve assumere.

Doc. Sul punto ti dicono, l’art. 474 e il co. 1 dell’art. 475.Art. 474: “L’accettazione può essere espressa o tacita”.Co.1 art. 475: “L’accettazione é espressa quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il

titolo di erede”.

Disc. Quindi se Fulano scrive alla zia Beppa “Cara zia dopo lunga meditazione ho deciso di accettare l’eredità del mio povero fratello”, fa un’accettazione valida o no?

Doc. No, perché il legislatore, mentre non pretende che l’accettazione sia pubblicizzata (portata a conoscenza del pubblico), pretende però che essa sia dotata di quella “serietà”, che risulta dal suo inserimento in un atto pubblico o in una scrittura, privata sì, ma destinata a produrre effetti giuridici (come un contratto, una diffida ad adempiere...): chiaro che, se Fulano inserisce la dichiarazione di accettazione in un contratto, é perché la ritiene rilevante per la produzione degli effetti giuridici a cui il contratto mira; e che, se la ritiene rilevante per la produzione di effetti giuridici, é presumibile che la faccia meditatamente (così come meditatamente é da presumere che si facciano tutti i contratti e in genere gli atti giuridici).

Disc. Ma se Fulano fa la sua dichiarazione di accettazione nel contratto da lui stipulato con Bianchi, che cosa ne può sapere Rossi, che a quel contratto é completamente estraneo, e che ciò nonostante, essendo già debitore del de cuius (metti perché ne aveva preso in locazione un appartamento), ora in seguito a tale dichiarazione, é diventato debitore di Fulano e deve pagare nelle mani di Fulano?

Doc. Dire che la dichiarazione di Fulano é valida, non significa dire che é a tutti opponibile: se, nel caso, Rossi, non sapendo a chi pagare, se ne astiene, a lui che contesta un suo obbligo risarcitorio adducendo la sua impossibilità ad adempiere (vedi l’ultima parte dell’art. 1218, vedi anche per casi simili all’esempio fatto e facilmente ipotizzabili, il co. 1 art 1189), Fulano non può certo validamente opporre la dichiarazione di accettazione da lui fatta...nel contratto col Bianchi.

Disc. Può il chiamato all’eredità subordinare la sua accettazione a una condizione o a un termine? Può fare un’accettazione parziale?

Doc. A questa tua domanda rispondono il secondo e terzo comma dell’articolo 475, che recitano: “E’ nulla la dichiarazione di accettare sotto condizione o a termine.- Parimenti é nulla la dichiarazione di accettazione parziale dell’eredità”.

Disc. Perché mai non ammettere l’apposizione di una condizione o di un termine all’accettazione?

Doc. Ti rispondo con un esempio, relativo all’apposizione di un termine ad quem ma facilmente riferibile anche al caso di una condizione risolutiva.Metti dunque che Fulano accetti di essere erede ma fino al 15.05.18. Allora i casi sono due: o Fulano, stabilendo tale termine, intende riservarsi la piena disponibilità dei beni ereditari (quindi anche la possibilità di venderli) oppure intende autolimitare i suoi poteri al compimento dei soli atti i cui effetti non vadano oltre la data del 15.05.18. Nel primo caso ci sarebbe il rischio evidente che Fulano prima della scadenza del termine faccia...piazza pulita di tutti i beni dell’eredità, lasciando a chi gli succede solo i debiti (male per chi gli succede, ma anche per i creditori dell’eredità, che verrebbero privati della loro garanzia). Nel secondo caso, si avrebbe quell’inconveniente della incompleta utilizzazione e circolazione dei beni ereditari (con danno della società tutta), che il legislatore moderno cerca di evitare ponendo, come ci riserviamo di vedere in seguito, limiti al c.d. fedecommesso (artt.692 ss.).

Disc. Ma nel caso di un termine a quo o di una condizione sospensiva (“Io dichiaro di accettare ma a partire dal 15.12.19” oppure “Dichiaro di accettare se mio figlio prenderà la laurea”), tali inconvenienti non si verificano

Doc. No, invece anche in tali casi si verificherà nuovamente il fenomeno della vischiosità nella circolazione e della sottoutilizzazione dei beni ereditari: infatti nell’attesa del maturare del termine o dell’avverarsi della condizione il patrimonio ereditario dovrà pur essere amministrato; e inevitabilmente lo sarà da un curatore, che lo amministrerà, sì, ma senza quella pienezza di poteri che avrebbe l’erede (se si presenterà l’occasione della permuta o vendita vantaggiosa di un bene ereditario il curatore troverà mille ostacoli a coglierla e...non la coglierà).

Disc. Dimmi ora, perché il legislatore ritiene inammissibile, tanto da dichiararne la nullità, l’accettazione di Fulano che, chiamato all’eredità per un terzo, dichiara di voler essere erede solo per un sesto o un dodicesimo o un decimo, insomma per una quota minore (oppure, il che é lo stesso, dichiara di accettare, del patrimonio devolutogli in eredità, solo questo o quel bene, rappresentante naturalmente una quota minore di quella a cui era chiamato)?

Doc. Il Legislatore ritiene inammissibile un’accettazione parziale per due buoni motivi:Primo, perchè l’ammissibilità di accettazioni parziali aprirebbe la porta ad

accettazioni “di mero disturbo”: Fulano accetta l’eredita solo per un...centesimo, perché tanto gli basta per: impedire una divisione amichevole e imporre quella giudiziale, per impedire quella vendita a cui sarebbero concordemente disposti gli altri eredi, per pretendere la prelazione sulle alienazioni della sua quota che un coerede voglia fare (v. art. 732), per pretendere di essere informato dell’amministrazione dei beni ereditari (anche se di tali beni é comproprietario solo in teoria perché i veri comproprietari sono gli altri coeredi) e così via.Secondo (motivo), perché aumenta il rischio di quella eccessiva parcellazione dei beni ereditari che é tanto più probabile quanto più si rimpiccioliscono le quote.

Disc. L’articolo 474, che abbiamo poco fa letto, diceva che l’accettazione può essere anche tacita: quando é che si verifica tale forma di accettazione?

Doc. Il legislatore te lo dice, o almeno cerca di dirtelo, con l’articolo 476 che recita: ”(Accettazione tacita). L’accettazione é tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di fare se non nella qualità di erede”.Quindi, secondo il legislatore, l’atto, che pur non costituendo una manifestazione espressa di accettare, va considerato come un’accettazione dell’eredità, va individuato in base ai due seguenti criteri: primo criterio, tale atto deve “presupporre necessariamente la volontà di accettare”; secondo criterio, deve essere un atto che solo chi ha la qualità di erede può compiere.

Disc. A me sembra che, se per atto di accettazione tacita si intende effettivamente quello che fa presumere fondatamente la volontà di accettare, i criteri da te ora evidenziati ben poco servano per individuarlo. Infatti il primo sfiora la tautologia: é chiaro che fa fondatamente presumere la volontà di accettare l’atto che.....presuppone necessariamente la volontà di accettare. Si può dire quindi un criterio inservibile. Il secondo, se effettivamente fosse destinato a individuare quale atto fa fondatamente presumere la volontà ecc.ecc., si porrebbe in palese contraddizione con l’esperienza comune; infatti, in base all’id quod plerumque accidit, non si può per nulla dire che il chiamato all’eredità, che compie un atto che solo chi ha la qualità di erede può compiere, lo compie perché ha la volontà di accettare l’eredità: purtroppo non sono per nulla poche le persone chiamate ad un’eredità che usano o addirittura dispongono di questa o quella cosa dell’asse ereditario (cioé compiono un atto che solo come eredi potrebbero compiere) senza aver per nulla la volontà di diventare eredi.

Doc. Il tuo ragionamento non fa una grinza, e la logica conclusione che se ne può trarre é che l’articolo 476 é basato, non su una presunzione, ma su una finzione; e che esso, non mira a individuare gli atti che, sia pur tacitamente, rivelano nel chiamato all’eredità la volontà di accettare, ma vuole dissuadere semplicemente i chiamati all’eredità dal compiere atti, che solo nella qualità di eredi potrebbero compiere, fino a che non abbiano maturata la reale volontà di diventare eredi: “Bada Fulano, se tu pensi di usare dei beni del de cuius (usare della sua auto, abitare gratis nella sua casa....) o, peggio, di disporre di tali beni (ad esempio vendendoli) e poi di evitare di pagare i creditori dell’eredità, tu ti illudi: io appena che compi un atto, che solo nella qualità di erede potresti compiere, fingo che tu abbia accettato l’eredità e ti gravo dei debiti ereditari”.

Disc. Cosa perfettamente giusta. Se i chiamati all’eredità potessero usare e disporre dei beni ereditari senza accettare l’eredità (e quindi assumersi l’obbligo di pagare i debiti ereditari), i poveri creditori, dopo pochi anni dall’apertura della successione, si troverebbero ad...addentare un osso completamente spolpato.E tuttavia, far coattivamente diventare erede un chiamato all’eredità, solo che compia un atto che, unicamente nella qualità di erede, potrebbe compiere, a me sembra soluzione in certi casi troppo severa. Pensa al caso di Fulano, che coabita con Pinco Pallino; questo muore; Fulano, chiamato alla sua eredità, continua ad abitare nella casa di Pinco Pallino, ma non perché vuole accettarne l’eredità (che sa gravata da numerosissimi debiti), bensì perché dall’oggi al domani non é in grado di trovare altro alloggio e altra sistemazione: certamente così facendo (idest, continuando ad usare dell’abitazione del de cuius) compie un atto che solo nella qualità di erede potrebbe compiere, ma solo per questo vogliamo caricarlo dei debiti di un’eredità da lui non voluta?!

Doc. Effettivamente questo sarebbe un rigore eccessivo. Per cui io ritengo che l’articolo 476 vada interpretato, un po’ forzando la sua lettera, nel senso che vi é accettazione tacita tutte le volte che il chiamato all’eredità compie un atto che potrebbe compiere solo nella qualità di erede, a meno che tale atto trovi una chiara e plausibile spiegazione in una volontà, diversa da quella di accettare l’eredità e che la coscienza sociale approva o tollera.A questo punto per mettere bene a fuoco l’argomento in questione ti sarà utile leggere anche l’articolo 527, che recita: “(Sottrazione di beni ereditari). I chiamati all’eredità che hanno sottratto o nascosto beni spettanti all’eredità stessa, decadono dalla facoltà di rinunziarvi e si considerano eredi puri e semplici nonostante la loro rinuncia”.

Sempre per meglio inquadrare la ratio dell’articolo 476, dovrai tenere presente che il legislatore, fa forzatamente diventare erede, non solo il chiamato all’eredità che ha sottratto o nascosto beni di questa, ma anche il chiamato alla eredità che si é messo in una situazione, che fa sorgere il sospetto che egli sottragga od occulti beni dell’eredità (ad esempio, il chiamato all’eredità che si trova nel possesso di beni ereditari e che non compie l’inventario nei termini prescritti – sul punto v. melius il secondo comma dell’articolo 485).

Disc. La vendita che Fulano faccia a Rossi dei suoi diritti ereditari comporta accettazione tacita dell’eredità?

Doc. Alla risposta a tale tua domanda é opportuno premettere un chiarimento della fattispecie. Infatti, anche escluso che, parlando di vendita di diritti ereditari, tu intenda riferirti alla vendita che Fulano faccia di questo o quel bene rientrante nell’asse ereditario, ancora due ipotesi si possono fare.Prima ipotesi, vendendo i suoi diritti ereditari Fulano intende, non solo cedere a Rossi tutti i beni rientranti nella sua quota (o in una quota della sua quota) di eredità (“Io Fulano cedo a te Rossi i beni rientranti nella mia quota quali che essi siano: si riducano agli appartamenti A e B, finora inventariati, oppure si arricchiscano di un terzo appartamento C, che in un domani venga scoperto rientrare nell’eredità, o si riducano al solo appartamento A, essendo l’appartamento B risultato non appartenere al de cuius), ma intende trasferire a Rossi i debiti ereditari sulla quota gravanti (“Tu, Rossi, diventerai l’unico obbligato verso i creditori dell’eredità, che pertanto solo nei tuoi confronti potranno avanzare le loro pretese (creditorie)”.Seconda ipotesi; vendendo i diritti ereditari Fulano intende,sì, cedere tutti i beni nella sua quota rientranti, ma rimanendo sempre personalmente obbligato verso i creditori dell’eredità”.Tanto premesso, va detto che il contratto ipotizzato sub I certamente dovrebbe considerarsi nullo, in base all’elementare principio del diritto che non permette a un debitore di liberarsi dei suoi obblighi verso il creditore delegando altri ad adempiere il debito (v. melius co. 1 art. 1268). Ciò nonostante per le ragioni che vedremo studiando l’articolo 478, il legislatore, da una parte ritiene valido tale contratto, dall’altra, partendo dal presupposto che esso implichi un’accettazione dell’eredità, evita di liberare con ciò stesso, il cedente la quota, dei suoi debiti verso i creditori.Il contratto ipotizzato sub II potrebbe invece considerarsi valido anche secondo i principi, ma non può, inevitabilmente, non comportare accettazione dell’eredità, se non altro perché altrimenti, il permanere dei debiti in capo a Fulano, mancherebbe di

ragion sufficiente: se Fulano non risponde di tali debiti a titolo di erede, a che titolo ne risponde?La risposta che così ti ho dato, corrisponde alla migliore interpretazione dell’articolo 477, che recita: “(Donazione, vendita e cessione dei diritti di successione). La donazione, la vendita o la cessione, che il chiamato alla eredità faccia dei suoi diritti di successione a un estraneo o a tutti gli altri chiamati o ad alcuno di questi, importa accettazione dell’eredità”.

Disc. Allora, in termini sostanzialmente eguali va risolta la questione, se vada ravvisata un’accettazione dell’eredità nella rinunzia, che Fulano faccia, dei suoi diritti ereditari a favore di un coerede.

Doc. E invece rispetto alla fattispecie da te proposta il legislatore fa dei “distinguo”, come ti risulterà dalla lettura dell’articolo 478, che recita: “(Rinunzia che importa accettazione). La rinunzia ai diritti di successione,qualora sia fatta verso corrispettivo o a favore di alcuni soltanto dei chiamati, importa accettazione”.

Disc. Quindi il legislatore delinea nell’articolo 478 due ipotesi:Ipotesi A: il chiamato all’eredità rinuncia a favore di solo alcuni chiamati all’eredità. Penso al caso in cui sono chiamati all’eredità (tutti per un terzo): Bianchi, Rossi e Verdi: Bianchi rinuncia all’eredità, sì, ma a favore del solo Rossi.Ipotesi B: il chiamato all’eredità rinuncia dietro corrispettivo (poco importa che rinunci a favore di solo alcuni o indifferentemente di tutti i chiamati ulteriori o in sua sostituzione).Ora a me sembra che nell’ipotesi si torni a violare quel principio di diritto a cui tu prima accennavi (quando si parlava della vendita o della cessione di eredità): il principio che non permette al debitore Bianchi di liberarsi del debito che ha verso il creditore Pinco Pallino assegnando a questi, in sua sostituzione, un nuovo debitore.

Doc. Ed é così. Nessun dubbio che, per riallacciarci all’esempio da te fatto, se Bianchi potesse rinunciare validamente all’eredità a favore di Rossi, Pinco Pallino che era creditore verso il de cuius per 90, e quindi sarebbe stato, come meglio vedremo in seguito, creditore di 30 verso ciascuno dei tre coeredi, in seguito alla rinuncia di Bianchi vedrebbe trasferito il credito che aveva con il Bianchi sulle spalle del Rossi (che diventerebbe così debitore di 60); il che a Pinco Pallino potrebbe anche stare bene se non fosse per il fatto che, prima, a garanzia del pagamento del suo credito c’era il patrimonio del Bianchi (che metti era di mille), mentre ora ci

sarebbe il patrimonio di Rossi (che é solo di cento).

Disc. Quindi il legislatore dovrebbe ritenere la nullità della rinuncia a favore di Rossi.

Doc. Così dovrebbe; ma egli (che può fare de rotundo quadratum) ritiene valida la rinuncia (per cui il Rossi diventerà erede per 60 e non più per 30), ma elimina le ingiuste conseguenze, che tale soluzione comporterebbe per il creditore Pinco Pallino, stabilendo che tale rinuncia comporta per il Bianchi accettazione dell’eredità (ciò che significa che il creditore continuerà a godere della garanzia del patrimonio del Bianchi).

Disc. Tutto bene; però allora il Legislatore avrebbe dovuto considerare come un’accettazione anche la rinuncia che fosse fatta indistintamente a favore di tutti i chiamati all’eredità, dato che questi, in forza della rinuncia del Bianchi, vengono ad acquisire, sì i beni che al Bianchi sarebbero toccati, ma anche i debiti di cui sarebbe stato gravato.

Doc. No, questo il legislatore non poteva farlo, perché allora avrebbe dovuto considerare (assurdamente!) ogni rinuncia come un’accettazione. Infatti ogni rinuncia, comportando una modifica degli eredi, può anche comportare una modifica in senso peggiorativo della garanzia offerta dai loro patrimoni ai crediti dell’eredità. Evidentemente il legislatore teme che si nasconda, dietro una rinuncia fatta a favore di soli alcuni chiamati all’eredità, una qualche malizia e vuole neutralizzarla stabilendo che tale rinunzia va considerata un’ accettazione (e quindi comporta per ciò stesso il permanere della responsabilità del rinunziante verso i creditori).

Disc. Mi dichiaro soddisfatto solo a metà dell a tua risposta. Ma, veniamo alla seconda ipotesi che fa il legislatore: Bianchi rinuncia sic e simpliciter senza scegliere il beneficiario della sua rinuncia (quindi evidentemente rinuncia a favore di coloro che, non lui, ma la Legge chiamerà a succedergli); però rinuncia dietro corrispettivo: perché il legislatore considera tale rinuncia come un’accettazione (col risultato di continuare a gravare il rinunziante dei debiti ereditari)?

Doc. Qui si va nel difficile. L’unica risposta che so darti é che il legislatore probabilmente si lascia guidare a tale soluzione dal principio cuius commoda eius incommoda: tu, Bianchi, hai tratto un beneficio dall’eredità, quindi é giusto che anche di questa sopporti i pesi.

Disc. veniamo a parlare della precsrizione del diritto di accettare l’eredità.

Doc. E’ prevista dall’articolo 480, che recita:Art 480 “(Prescrizione). Il diritto di accettare l’eredità si prescrive in dieci anni.Il termine decorre dal giorno dell’apertura della successione e, in caso di istituzione condizionale, dal giorno in cui si verifica la condizione.Il termine non corre per i chiamati ulteriori, se vi é stata accettazione da aprte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario é venuto meno”.

Disc. Evidentemente il legislatore fa decorrere per gli istituiti sotto condizione il termine prescrizionale da questa perché considera che essi fino al maturare della condizione non possono accettare.

Doc. No, non é così; in realtà niente impedisce all’istituito sotto condizione di accettare prima dell’avverarsi di questa. Probabilemnte il legislatore non ha voluto costringere l’istituito a una decisione che potrebbe comportare una complicata valutazione dei pro e dei contro in una situazione in cui tale impegno potrebbe poi risultare sprecato (non avverandosi la condizione).

Disc. Ragionamento simile allora il legislatore avrebbe dovuto fare per il chiamato ulteriore: non si può pretendere che il chiamato ulteriore Rossi si prenda la briga di accettare o no quando l’accettazione del primo chiamato Bianchi potrebbe rendere inutile tale accettazione.

Doc. Ma il legislatore non vuole costringere Rossi a prendere (prematuramente) la sua decisione,in una situazione non chiara, quando cioé non si sa se Bianchi accetterà o no: vuole solo costringerlo a chiarire tale situazione.

Disc. Come?

Doc. Esercitando la c.d. Actio interrogatoria prevista dall’art. 481, che recita: “(Fissazione di un termine per l’accettazione). Chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare”.

Disc. Puoi farmi l’esempio di qualcun altro oltre al Rossi (oltre a un “chiamato ulteriore”) che sia legittimato a questa actio interrogatoria?

Doc. Pensa a Fulano che, in caso di mancata accettazione del Bianchi, sarebbe chiamato all’eredità in sua sostituzione o in sua “rappresentanza” (art. 467 ss.), pensa a un legatario, pensa a un creditore dell’eredità o, anche (per i motivi che poi vedremo parlando dell’art.525) a un creditore del Bianchi.

Disc. Ma il Bianchi, non può prevenire l’actio interrogatoria, prendere l’iniziativa di chiarire “Tranquillo, signor Rossi, io rifiuto l’eredità, si accomodi, prenda il mio posto” (così sollevando il Rossi e se stesso delle spese e del tempo perso in una causa)?

Doc. Certo che lo può; chi ha il potere di accettare una proposta (nel caso costituita dalla “devoluzione dell’eredità”), non può non avere il potere di rifiutarla.

Disc. Quindi per prevenire l’actio interrogatoria o, comunque, per cortesemente accorciare la spasmodica attesa di qualche chiamato in subordine, o per far cessare la stressante petulanza di qualche creditore dell’eredità (“Il mio credito é scaduto da un bel po’, egregio signor Bianchi, si decida, dica se vuole accettare l’eredità e pagarmi, o no”), il Bianchi non ha che da prendere carta e penna e scrivere “Tranquillo, caro signore, io rifiuto l’eredità”).

Doc. Eh, no. La rinuncia é un negozio rigorosamente formale, cioé che richiede ad essentiam una data forma. Ciò risulta dal primo comma dell’ articolo 519, che recita: “La rinunzia all’eredità deve farsi con dichiarazione, ricevuta da un notaio o del cancelliere del tribunale del circondario in cui si é aperta la successione, e inserita nel registro delle successioni.”. E, bada, la rinunzia deve essere rivestita dalle rigorose forme ora dette, non solo nel caso in cui é a favore di un determinato coerede o avviene dietro corrispettivo (caso in cui viene a costituire in buona sostanza l’elemento di un accordo contrattuale), ma, come ci tiene ad avvertire il secondo comma dell’articolo 519, anche quando é “fatta gratuitamente a favore di tutti coloro ai quali si sarebbe devoluta la quota del rinunziante” (vedi melius, l’articolo e il comma citato).

Disc.Quindi la rinunzia é un negozio ancor più rigorosamente formale che l’accettazione espressa (per la cui validità l’articolo 475 si accontenta che assuma la

forma di una “scrittura privata”). Naturalmente allora la rinunzia, al contrario dell’accettazione, non potrà essere “tacita”.

Doc. Naturalmente. E ciò non ti deve meravigliare, se ti ricordi quel che abbiamo detto sulla vera natura della accettazione tacita: che cioé essa non si basa su una presunzione (in quanto riconoscendone la validità il legislatore non si propone di attuare la reale volontà del chiamato all’eredità), ma é una finzione intesa a forzare il chiamato all’eredità a diventare erede. Ora, il nostro legislatore si ispira a un favor acceptationis: mentre fa ponti d’oro per facilitare, al chiamato all’eredità, il gran passo, la sua trasformazione da erede potenziale a erede effettivo (e questo perché é interesse della Società che l’eredità trovi al più presto chi la gestisce con pienezza di poteri), non esita a porre forme severe all’espressione della volontà di rinunciare all’eredità, forse non per intralciarla, certo per costringerla a un serio approfondimento.Questo favor acceptationis si rivela anche nel fatto che, mentre il legislatore non ammette la revoca dell’accettazione (semel heres semper heres), egli ammette, entro certi limiti, la revoca della “rinunzia”.Più precisamente l’articolo 525 recita: “(Revoca della rinuncia) Fino a che il diritto di accettare l’eredità non é prescritto contro i chiamati, questi possono sempre accettarla, se non é già stata acquistata da altro dei chiamati, senza pregiudizio delle ragioni acquistate da terzi sopra i beni dell’eredità)Quindi il Bianchi gode di una sorta di ius poenitendi (di diritto a un ripensamento): può nonostante la rinuncia accettare la eredità purché: 1) il suo diritto di accettazione non sia prescritto; 2) il Rossi (a cui la sua rinunzia ha conferito lo ius acceptationis) più svelto di lui non abbia, prima di lui, accettato.

Disc. Quindi tra il Bianchi, rinunziante pentito, e il Rossi potrà aprirsi una corsa a chi arriva prima ad accettare.

Doc. Nella realtà é difficile che, tale corsa a chi arriva prima, si verifichi, ma...potrebbe verificarsi.

Disc. Ma il chiamato all’eredità, il Bianchi protagonista dei nostri esempi, potrebbe rinunciare all’eredità, ma ritenere ciò nonostante la donazione o il legato che il de cuius gli avesse fatto?

Doc. Non si saprebbe trovare ragione perché ciò non fosse; e neanche si potrebbe

dedurre, dalla volontà di rinunciare all’eredità, una volontà di rinunciare alla donazione o al legato: infatti la rinuncia all’eredità potrebbe essere, e di solito lo é, dettata da motivi (timore, ad esempio, di essere gravato da una hereditas damnosa) che per nulla giustificherebbero una rinuncia alla donazione o al legato. Comunque sul punto il secondo comma dell’articolo 521 non lascia dubbi, esso infatti recita: “Il rinunziante può tuttavia ritenere la donazione o domandare il legato a lui fatto sino alla concorrenza della porzione disponibile, salve le disposizioni degli articoli 551 e 552”.

Disc. Che significa “fino alla concorrenza della porzione disponibile”?

Doc. Significa che se l’asse ereditario é di 90 e la quota riservata al legittimario A é della metà, Bianchi, che ha ricevuto un legato o una donazione per 50, potrà vedersela ridurre a 45 (45, cioé la metà dell’asse, essendo la disponibile).

Disc. E che significa che sono salve le disposizioni degli articoli 551 e 552?

Doc. Significa che, se l’asse ereditario é di 90, la quota riservata al legittimario é della metà e il legittimario ha ricevuta una donazione pari a 43, egli dovrà imputare tale donazione alla quota a lui riservata; cosa per cui egli potrà ridurre, la donazione di 50 fatta al Bianchi, solo di due unità (e non di cinque unità come nell’esempio prima fatto), in quanto se la riducesse (non di due, ma di cinque unità) egli verrebbe a ricevere di più della quota che il legislatore gli riserva (provare per credere: 43 + 2 = 45, dove 45 é pari alla quota riservata; mentre 43 + 5 = 48, che é più della quota riservata).

Disc. Mi accorgo però che tu, furbone che non sei altro, hai saltato a piè pari il primo comma dell’articolo 521, forse ti riusciva difficile trovarne la ratio.

Doc. E’ così, lo confesso; non é facile capire perché “chi rinunzia all’eredità (va) considerato come se non vi fosse mai stato chiamato”.

Disc. A me sembra che invece ciò sia facile: se, come abbiamo visto, l’accettazione retroagisce al momento dell’apertura della successione, anche la rinuncia non può non retroagire a tale momento.

Doc. E’ quel che autorevolmente si sostiene; ma, sarà che sono testa dura, trovo il

ragionamento astruso e non convincente.Più concretamente, mi pare, possono vedersi, le conseguenze della fictio costruita dal legislatore, nel fatto che il dare e l’avere che nasce dagli atti di gestione dell’eredità che, come vedremo, anche il chiamato a questa possiede, andrà regolato (con i coeredi) in base alle norme che regolerebbero una qualsiasi negotiorum gestio compita da un qualsiasi terzo.E’ comunque pacifico che, anche in caso di rinuncia, rimangono validi gli atti (ad esempio, l’esercizio di un’azione possessoria) compiuti dal rinunziante-erede.

Disc. Ti riesce difficile trovare anche la ratio dell’articolo 520? La cosa comincerebbe ad essere preoccupante per chi ha l’ambizione di scrivere un libro.

Doc. No, e del resto individuare la ratio dell’articolo 520, che dichiara “nulla la rinunzia fatta sotto condizione o a termine o solo per parte” é molto facile: tale ratio é con tutta evidenza la stessa di quella che presiede al secondo e terzo comma dell’art. 475; su cui ci siamo già intrattenuti.

Disc. Per cui evitando di ripeterci passiamo all’art. 524, che recita: “(Impugnazione della rinunzia da parte dei creditori). Se taluno rinunzia, benché senza frode, a un’eredità con danno dei suoi creditori, questi possono farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti. (….)”.Direi, dunque, che con il disposto dell’articolo 524 il legislatore mira a tutelare, i creditori del chiamato all’eredità, contro il possibile danno, che loro potrebbe derivare dalla rinunzia. Danno che si verificherebbe se il patrimnio del “chiamato” non fosse in grado di soddisfare i debiti (da esso garantiti) mentre lo diventerebbe se incorporasse la quota devoluta in eredità al rinunziante.Per evitare tale danno giustamente dà ai creditori il potere di revocare la rinunzia.

Doc. Quel che dici va bene, purché tu tenga presente che, la revocatoria prevista dall’articolo 524, si basa su presupposti ben diversi di quelli della revocatoria prevista dall’articolo 2901. Infatti l’esercizio della revocatoria di cui all’articolo 524, é possibile a prescindere – non solo della scientia damni e del consilium fraudis del terzo di cui parla il n. 2 art. 2901 (e questo va da sé, dal momento che in subiecta materia non si saprebbe in chi individuare questo “terzo”)- ma prescinde, e questo é veramente rilevante, dal conislium fraudis e dalla scientia damni del debitore (alias, del chiamato all’eredità che rinunzia).

Disc. Altra differenza tra la revocatoria ex art. 524 e la revocatoria ex art. 2901 é che, al contrario di questa, quella può essere esercitata solo previa autorizzazione dell’autorità giuidziaria. Questo come si spiega?

Doc. Si spiega con la maggiore incisività della revocatoria ex art. 524: i creditori del rinunziante, che agiscono in revocatoria, non si limitano a revocare l’atto di rinunzia, ma vengono ad esercitare - sia pure al limitato “scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti” - i diritti spettanti sull’eredità al loro debitore rinunziante.

Disc. Quindi con l’articolo in esame il legislatore concede una tutela robusta, ai creditori del “chiamato”, contro il pericolo che può a loro derivare da una rinunzia alla eredità. Trovo però strano che il legislatore non si preoccupi di tutelare con eguale energia i creditori contro il pericolo che a loro può derivare, sia dall’accettazione di una hereditas damnosa che il “chiamato” abbia fatta, sia dalla sua inerzia nell’accettare un eredità invece felice e lucrosa.

Doc. Quel che dici é in parte vero e in parte no. E’ vero che la tutela contro i pericoli da te accennati é meno chiara e comunque più limitata e inefficace di quella apprestata contro il pericolo di una rinunzia inopportuna. Però non é del tutto deficiente.Contro il pericolo rappresentato dall’accettazione di una hereditas damnosa da parte del debitore-chiamato all’eredità, i creditori potranno servirsi dell’azione revocatoria.

Disc. Quella prevista dall’art. 524?

Doc. No, quella prevista dall’art.2901. Quindi dovranno provare la scientia damni o il consilium fraudis del debitore. Cosa certamente difficile ma non impossibile.

Disc. E contro l’inerzia del debitore – che, pur avendo un patrimonio insufficiente a soddisfare i suoi creditori, nulla fa per rimpolparlo con la quota ereditaria devolutagli – quali rimedi appresta la legge?

Doc. La legge sul punto tace, purtroppo. E gli studiosi hanno cercato di supplire al suo silenzio proponendo, starei per dire “inventando”, vari rimedi.

Disc. A me sembra che il rimedio più naturale dovrebbe essere l’esercizio dell’azione surrogatoria dell’art. 2901.

Doc. E infatti ciò é stato proposto. Ma si é osservato, a mio parere fondatamente, che l’esercizio dell’azione surrogatoria sarebbe un rimedio che va oltre il segno. Infatti, mentre l’azione revocatoria ex art. 524 non fa assumere al debitore la qualità ereditaria (infatti tale qualità resta sempre a chi, come sostituto, “rappresentante”, ulteriore chiamato, ha accettato in sua vece), il felice esito dell’azione surrogatoria lo fa diventare erede a tutti gli effetti, ciò che egli può non volere per motivi di carattere personale del tutto rispettabili e che comunque vanno rispettati: in altre parole l’azione surrogatoria contrasterebbe con il il disposto dell’art. 2901, che l’ammette solo per i diritti di “contenuto patrimoniale”.

Disc. E allora?

Doc. E allora autorevolmente si é suggerito ai creditori di esperire, prima, l’actio interrogatoria. Esperitala,tre diverse situazioni si potranno verificare: 1) il debitore accetta l’eredità: allora tutto o.k, nessun problema; 2) il debitore, rifiuta l’eredità: nessun dubbio che allora si possa esperire l’azione revocatoria dell’art. 524; 3) il debitore...non dice nulla, sta zitto: in tal caso si interpreta il suo silenzio come rinuncia e anche qui si procede con l’azione revocatoria. A me sembra che il marchingegno sia ben ideato e non trovi veri ostacoli nella lettera dell’ultima parte dell’art. 481 (che si limita a dire che lo “interrogato” che non risponde “perde il diritto di accettare”).

Disc. Ti pongo ora, per finire in bellezza la lezione, una questione che può sorgere sia in caso di accettazione che di rinunzia (all’eredità). Bianchi, il chiamato all’eredità, ha fatta la sua bella dichiarazione (di accettazione o di rinuncia) ma a questa é stato indotto da violenza (metti, ha accettata l’eredità perché un suo creditore lo ha minacciato “o accetti o ti sparo”), da dolo (metti, ha rinunziato all’eredità perché Rossi, chiamato a questa in sua sostituzione, gli ha fatto credere che era gravata da ingentissimi debiti) o da errore (ha accettato, credendo che non fosse oberata da debiti, mentre invece purtroppo lo é, credendo che rientrasse nell’asse ereditario quella villa da lui appetita da lungo tempo, mentre così non é, credendo non fosse chiamato all’eredità quell’antipatico di Rossi, mentre invece si troverà a sedere accanto a lui al tavolo della divisione). Che può fare, il povero Bianchi per evitare le conseguenze di una dichiarazione che non corrisponde alla sua vera volontà?

Doc. Nel caso di dolo e violenza può impugnare la dichiarazione (poco importa che sia di accettazione o di rinuncia). Tanto gli concedono l’articolo 482 (per l’accettazione) e l’articolo 526 (per la rinuncia); articoli che recitano, il primo, “L’accettazione dell’eredità si può impugnare quando é effetto di violenza o di dolo”, il secondo, “La rinunzia all’eredità si può impugnare solo (la sottolineatura é naturalmente mia) se é l’effetto di violenza o di dolo”.

Disc. Tali articoli sembrano l’uno la fotocopia dell’altro.

Doc. Sì, ma c’é una piccola differenza (quella che ho sottolineato) di cui dirò la rilevanza dopo parlando dell’errore. Ora preme osservare che gli articoli citati vanno pacificamente integrati, per la violenza, dagli artt. 1434 e segg., e, per il dolo, dall’art. 1439- tutti articoli questi che andranno applicati con particolare rigore, in considerazione di quella gravità delle conseguenze di un annullamento della dichiarazione (di accettazione o rinunzia) che, come vedremo subito, porta il legislatore a negare in toto o in parte rilevanza all’errore.

Disc. Dunque, l’errore in subiecta materia non rileva: parliamone subito.

Doc. Diciamo che l’errore non rileva, se non mai, quasi mai.

Disc. Da quali articoli é esclusa la rilevanza dell’errore?

Doc. La rilevanza dell’errore, per quel che riguarda la rinunzia, é esclusa, se non espressamente, molto chiaramente, da quel “solo” che io ho sottolineato riportando l’art. 526 (“la rinunzia si può impugnare solo se é l’effetto ecc.”), per quel che riguarda l’accettazione é esclusa, questa volta espressamente, dal primo comma dell’articolo 483, che suona “L’accettazione dell’eredità non si può impugnare se é viziata da errore”.

Disc. Parliamo dell’errore nell’accettazione. Dunque, il signor Bianchi che ha accettato l’eredità credendola erroneamente opulenta e priva di debiti – sto facendo il caso che mi pare più frequentemente accada in subiecta materia - non ha modo di scrollarsi di dosso con una bella impugnazione i debiti ereditari: per quali motivi?

Doc. I motivi sono due.

Primo, perché la Legge dà al chiamato all’eredità lo strumento, se non per evitare (prima dell’accettazione) un errore sulla “consistenza” dell’asse ereditario, almeno per ridurre al minimo le conseguenze negative che un tale errore può comportare – e con ciò mi riferisco all’istituto della accettazione con beneficio di inventario, su cui in altra lezione ci soffermeremo: se il Bianchi avrà usato di tale strumento avrà anche poco danno di cui lamentarsi, tanto poco da non giustificare lo scombussolamento che l’annullamento dell’accettazione comporterebbe; se non ne avrà usato...peggio per lui (vigilantibus non dormientibus ecc.ecc.).Secondo (motivo) perché l’annullamento di un’accettazione di eredità, così come, del resto, l’annullamento di una sua rinunzia, può comportare conseguenze e su una molteplicità di soggetti (creditori dell’eredità, coeredi, legatari...) e di grandissimo peso (una divisione laboriosissimamente costruita può saltare in aria, uno o più debiti pagati potrebbero dover essere restituiti …).

Disc. Capisco, ma tu dicendo prima che “quasi mai” l’errore giustifica l’annullamento, hai fatto capire che in alcuni casi lo giustifica.

Doc. Sì, e questi sono i casi, non dell’errore-vizio, ma dell’errore ostativo: il signor Gonzalez voleva dire “non accetto” e ha detto (metti per scarsa conoscenza della lingua) “accetto”. Ma tali casi sono veramente “rara avis”.

Disc. Come, penso, sarebbero stati rarissimi i casi di annullamento, anche a prescindire dall’articolo 483, semplicemente applicando i principi del diritto e in particolare gli articoli 1428, 1429. Per riferirci all’esempio da me stesso portato, quando mai l’errore sulla “vantaggiosità” di un contratto, e in genere di un atto giuridico, giustifica il suo annullamento (e prescindo dal considerare che, sempre secondo i principi, l’errore é causa di annullamento solo quando “é riconoscibile” dai soggetti su cui l’atto viziato ha prodotto i suoi effetti – soggetti che nel caso di rinuncia o accettazione all’eredità andrebbero individuati in tutta una molteplicità di persone: ben difficile che tutte fossero in grado di riconoscere l’errore in cui il chiamato all’eredità era caduto).

Doc. D’accordo sulla scarsa rilevanza pratica del primo comma dell’articolo 483. Merita invece attenzione il suo secondo comma, che, anche se non riconosce rilevanza all’ignoranza di un secondo testamento, limita però di tale ignoranza le conseguenze negative. Infatti esso recita: “Tuttavia se si scopre un testamento del quale non si aveva notizia al tempo dell’accettazione, l’erede non é tenuto a

soddisfare i legati scritti in esso oltre il valore dell’eredità, o con pregiudizio della porzione legittima che gli é dovuta. (...)”.

Lezione III-Eredità giacente. Poteri di vigilanza e di amministrazione del chiamato all’eredità

Doc. Abbiamo visto che l’accettazione dell’eredità comporta dei pro (subentro nei diritti del de cuius) e dei contro (assunzione dei suoi debiti), che una persona prudente deve poter soppesare con calma. Per cui passa del tempo, certe volte anche molto tempo, tra il momento dell’apertura della successione e quello dell’accettazione; in tale tempo l’eredità heredem non habet sed habere sperat: l’eredità aspetta un erede cioé un nuovo dominus. E che lo trovi presto é interesse dei creditori del de cuius (che finché l’eredità non é gestita non possono sperare di essere pagati), dei chiamati all’eredità e, alla fin fine, della Società tutta, che rischiano che col passare del tempo l’eredità vada in rovina.

Disc. Perché col tempo l’eredità rischia di andare in rovina?

Doc. Ma é evidente: perché i beni se non accuditi si danneggiano (si é rotto il tetto della casa: se non lo aggiusti, piove nell’appartamento sottostante e rovina i mobili; le mele sono maturate nell’albero: se non le raccogli, marciscono: meno mele, sulla tua tavola, meno mele sui banchi del mercato), perché i crediti, se non li realizzi, si prescrivono, perché negli immobili abbandonati estranei possono introdursi e comunque “farla da padroni”, e di essi diventerà difficile liberarsi, se subito non si castiga e reprime il loro comportamento abusivo con le azioni possessorie (…).

Disc. Che fa la Legge per ovviare a tutti questi inconvenienti?

Doc. Nomina un curatore all’eredità, il quale (naturalmente dietro compenso!), amministrerà il patrimonio ereditario. In ciò ispirandosi (come, mutatis mutandis, il tutore del minorenne) al principio di evitare ogni atto che si può, senza apprezzabile danno, ritardare e rimettere al momento (prevedibilmente non prossimo ma neanche troppo lontano) in cui l’eredità avrà finalmente un erede, che, com’é giusto, deciderà lui sull’opportunità di questo o quell’atto di gestione, secondo le sue esigenze, che potrebbero essere disapprovate da ogni bonus pater familias (“ah, quella palazzina, sì, a quel prezzo sarebbe venduta benissimo, ma io, che sono ricco sfondato, voglio usarla per alloggiarvi la mia amante di turno”).

Disc. Pertanto il curatore si dovrà accontentare di conservare integro il patrimonio ereditario.

Doc. Sì; ma anche così, i suoi compiti saranno più estesi - non solo di quelli di un chiamato all’eredità - che, come vedremo meglio in questa stessa lezione, ha anche lui poteri di amministrazione dell’eredità, ma limitati agli atti che non possono essere riservati al curatore (il curatore di cui stiamo parlando) - ma anche di quelli dell’erede beneficiato di cui agli artt. 484 segg., il cui compito, almeno nel caso di mancanza di altri chiamati all’eredità, si limita ad amministrare i beni ereditari, in modo che conservino un valore tale da soddisfare tutti i crediti, poco importando che tale valore si riduca, di tanto o di poco, rispetto a quello originario.

Disc. Ma il legislatore dice quali sono questi compiti del curatore?

Doc. Più che dire quali sono i suoi compiti dice quali sono i suoi poteri: sono gli stessi che le norme sull’amministrazione beneficiata attribuiscono all’erede (vedi l’articolo 531), con la differenza (non lieve) che, mentre l’erede può, senza autorizzazione del tribunale, pagare i creditori man mano che si presentano, il curatore può, anche lui, sì, fare ciò, ma solo con l’autorizzazione del tribunale (vedi melius, l’art. 530).

Disc. Fai degli esempi degli atti che può compiere il curatore.

Doc. Il curatore può - oltre pagare, come già si é detto, i creditori - stipulare locazioni, contratti di lavoro (metti ingaggiare lavoratori agricoli per la semina o la raccolta in un campo..), contratti d’opera (metti per far riparare un guasto a una cosa dell’eredità), può stare in giudizio, sia come attore sia come convenuto (e non solo in in cause possessorie, ma anche per rivendicare una proprietà o negare una servitù).

Disc. Può compiere atti di alienazione (trasferire la proprietà di un appartamento, di un quadro, costituire un diritto di servitù su un fondo...)?

Doc. Sì, se autorizzato di volta in volta dal tribunale (come vedremo meglio parlando dell’eredità beneficiata).

Disc. In definitiva i poteri del curatore non sono pochi: non sono previste cautele

contro l’eventualità di una sua mala gestio?

Doc. Naturalmente, sì: il curatore deve fare l’inventario, rendere il conto della sua gestione, così come vedremo deve fare l’erede beneficiato, e, cosa a cui, invece, questi non é tenuto, deve depositare il danaro dell’eredità in...luogo sicuro (salvo quello occorrente per le piccole spese: quindi per le piccole spese non dovrà ricorrere al giudice, per le altre avrà bisogno invece di ottenere da questo un mandato di pagamento che gli permetta di prelevare i soldi). Tutto questo risulta dall’art. 529, che recita: “(Obblighi del curatore) - Il curatore é tenuto a procedere all’inventario dell’eredità,(omissis) a depositare presso le casse postali o presso un istituto di credito designato dal tribunale il danaro che si trova nell’eredità o si ritrae dalla vendita dei mobili e degli immobili e, da ultimo, a rendere conto della propria gestione”.

Disc. A che si riferisce lo “omissis” che tu hai inserito nel corpo della citazione dell’articolo?

Doc. Si riferisce alla concessione al curatore degli obblighi-poteri di “esercitare e promuovere le ragioni dell’eredità, di rispondere alle istanze proposte contro la medesima e di amministrarla” - tutti obblighi e poteri che già risultano dall’art. 531 e che quindi il legislatore nell’articolo 529 superfluamente ripete.

Disc. Il curatore risponde di una sua eventuale mala gestio?.

Doc. Sì, e ne risponde anche per colpa lieve. Mentre invece, come vedremo, l’erede beneficiato ne risponde solo per colpa grave.

Disc. Perché questa differenza di trattamento?

Doc. Perché l’erede, che viene chiamato ad amministrare res suas, non va pungolato tanto alla diligenza (con la minaccia di sanzioni), quanto piuttosto all’accettazione dell’eredità (con la assicurazione che, eventuali errori in cui lui, che di solito non é un professionista, dovesse incorrere, gli sarebbero addebitati, appunto, solo per colpa grave); il curatore, invece, che nulla direttamente ci rimetterebbe nel caso di una cattiva gestione (se il valore del patrimonio ereditario da 100 si riduce a 50, sarà peggio per gli eredi e per i creditori, non certo per lui) va sollecitato alla diligenza dalla minaccia di una robusta sanzione.

Disc. Vi é un termine per la attivazione di una curatela dell’eredità?

Doc. No, il curatore può essere nominato in ogni tempo. Anzi di solito non lo si nomina. E il perché di ciò é chiaro: la curatela costa, é dunque un’extrema ratio.E, questa reticenza del legislatore alla nomina di un curatore, risulta dal fatto che ad essa non si può procedere, non solo quando un erede abbia accettato l’eredità (il che é abbastanza ovvio), ma anche quando un chiamato all’eredità sia nel possesso di un bene ereditario.

Disc. Basta che sia nel possesso anche di un solo bene ereditario?

Doc. Sì, a tale conclusione porta sia la lettera della legge sia la considerazione che, se il “chiamato” é nel possesso anche di un solo bene, in breve tempo, come vedremo, é costretto a scegliere: o rinuncia all’eredità (e allora si nominerà il curatore) o l’accetta (e allora penserà lui, il “chiamato”, ad amministrarla).

Disc. Quanto hai detto da quale articolo risulta?

Doc. Risulta dal primo comma dell’articolo 528, che recita: “(Nomina del curatore). Quando il chiamato non ha accettato l’eredità e non é nel possesso di beni ereditari, il tribunale (…) su istanza delle persone interessate o anche d’ufficio, nomina un curatore dell’eredità”

Disc. Ma il legislatore unisce in un endiadi accettazione e possesso di beni, mentre tu sostieni che basta o questo o quella.

Doc. E’ evidente che il legislatore nel formulare il suo pensiero é caduto in un lapsus: chiaro che, se il “chiamato” ha accettato, diventa irrilevante che sia o no nel possesso di un bene ereditario. Del resto ciò ha la sua contro-prova nel fatto che, per l’articolo 532 “il curatore cessa delle sue funzioni quando l’eredità é stata accettata”(e non quando l’eredità é stata accettata da chi é nel possesso ecc.).

Disc. Resta comunque ancora da spiegare perché, quello stesso possesso di un bene ereditario, che, intervenendo prima della nomina, la impediva, intervenendo dopo che la nomina é stata fatta, non la fa cessare.

Doc. Questo viene nei “lavori preparatori” spiegato con l’inopportunità di annullare quella nomina del curatore (che é venuta a costare tempo e denaro) per il verificarsi di una situazione (idest, la presa del possesso di un bene ereditario da parte del chiamato), che in fondo non dà quella stessa sicurezza, che vi sia una persona a curare la gestione dell’eredità, che fornisce la chiara accettazione di questa.

Disc. Cambiamo argomento. Mettiamo che nel possesso del bene ereditario sia Caio, chiamato all’eredità, sì, ma solo per il caso che Sempronio non l’accetti: in tal caso la nomina del curatore si può fare o no?

Doc. No, perché, nonostante l’imprecisione terminologica in cui cade il legislatore, deve intendersi che é ostativo alla curatela, non il possesso di chi é stato “chiamato”(sic et simpliciter) all’eredità, ma il possesso di chi, non solo é stato chiamato all’eredità, ma a cui l’eredità é stata “devoluta”.

Disc. Non capisco la distinzione che hai fatto.

Doc. Per comprenderla devi tenere presente, che non tutti i chiamati all’eredità acquistano con ciò stesso la legittimazione ad accettarla o no. Per riferirci all’esempio da te fatto, Caio, il sostituto, non ha, fino a che Sempronio non ha rifiutato l’eredità, il potere di accettarla. Altro esempio di soggetto che é,sì, chiamato all’eredità, ma a cui l’eredità ancora non é stata devoluta (in quanto ancora non é legittimato ad accettarla), é l’istituito sub condicione: pensa a Caio istituito erede a condizione che non si sposi. Questo secondo esempio é particolarmente importante perché é relativo ad un’ipotesi, che il legislatore disciplina dettagliatamente negli articoli 641 e segg. E se leggerai tali articoli vedrai che, in ipotesi di istituito sotto condizione sospensiva, il legislatore prevede la nomina di un “amministratore”, non di un “curatore”; anche se poi attribuisce a tale amministratore (vedi l’art. 644) gli stessi poteri del curatore dell’eredità giacente.

Disc. E allora la differenza tra l’istituto della curatela dell’eredità giacente e quello dell’amministrazione dell’eredità a cui é chiamata sub condicione una persona, qual’é?

Doc. Praticamente tale differenza si riduce nel diverso criterio della scelta dell’amministratore rispetto al curatore (vedi l’art. 642).

Disc. Cambiamo ancora argomento. Se non vi é un solo “chiamato” (uso anch’io per semplicità la terminologia del legislatore), ma vi sono più “chiamati, Tizio e Sempronio; e il primo ha accettata l’eredità, mentre il secondo ci vuole ancora pensare, il curatore si può nominare o no.

Doc. Relativamente alla situazione che tu prospetti il legislatore....tace: deve sbrogliarsela l’interprete. Il quale poveraccio, non manca di proporre varie soluzioni al busillis, alcune anche ingegnose, ma, ahimè tutte mancanti di quell’autorevolezza che può venire solo dal dictum legislatore. La tesi che trova più consensi é quella che esclude, nella situazione da te prospettata, la nomina di un curatore e ritiene che, il primo chiamato che ha accettato, succede “in universum ius”, cioé ha sul patrimonio ereditario i poteri che avrebbe un erede se fosse l’unico chiamato all’eredità. Se così non fosse, si sostiene, l’erede, che per primo accetta, sarebbe, in attesa che pure gli altri chiamati accettino, privo dei necessari poteri per amministrare il patrimonio ereditato. Il che é vero, ma anche é vero che non si può attribuire a tale erede quella pienezza di poteri che competerebbe all’erede unico: é evidente il rischio di abusi se egli potesse liberamente alienare i beni ereditari. Io ritengo pertanto che, all’erede che ha accettato, vadano concessi, sì, dei poteri di amministrazione, ma solo quei poteri che competono all’erede che ha accettato con beneficio di inventario. Egli ha un mezzo per superare le difficoltà nell’amministrazione, che così ancora potrà incontrare: costringere, usando dell’actio interrogatoria, gli altri chiamati all’eredità ad accettare.

Disc. Mi pare giunto il momento di voltare pagina e di parlare dei poteri di amministrazione e di vigilanza che spettano al “chiamato all’eredità”

Doc. La nomina del curatore, di cui abbiamo finora parlato, può avvenire con ritardo (anche di mesi e di anni) o addirittura non avvenire mai (anzi di solito non avviene mai, per risparmiare le relative spese). E tuttavia nell’assenza del curatore possono presentarsi delle situazioni che pongono a rischio la conservazione del patrimonio ereditario (un bene di questo ha subito un guasto e va riparato, prima che tale guasto aumenti e provochi danno, un credito dell’eredità sta per prescriversi, un estraneo si é introdotto abusivamente in un immobile...). In tal caso é interesse dei chiamati all’eredità, dei creditori della stessa e direi della Società tutta, che qualcuno intervenga a difesa dell’eredità stessa.Il legislatore dà, con l’articolo 460, questo potere di intervenire, non a uno qualsiasi degli interessati, ma al chiamato all’eredità, dovendosi intendere per tale, non il

semplice vocatus, ma il vocatus a cui sia devoluta l’eredità (se é stato chiamato all’eredità Bianchi e, per il caso che non accetti, Rossi, solo Bianchi avrà il potere di intervenire). Naturalmente il legislatore, che, come abbiamo visto, pone limiti ai poteri del curatore, non può non porli, e a maggior ragione, al “chiamato” (una persona che non é scelta, come il curatore, dal giudice, e può essere chissà chi, che non fa inventario, non deve rendere il conto....). E il legislatore tali limiti senza dubbio li vuol porre e li pone, purtroppo però tuttavia non li indica chiaramente: dall’art. 460 risulta,sì, che il “chiamato” può, oltre i meri atti conservati (le azioni possessorie, di cui al primo comma, una domanda di sequestro, una intimazione per interrompere la prescrizione...), spingersi a compiere atti di amministrazione “temporanea”; ma che si intende per “atti di amministrazione temporanea? L’interpretazione migliore é che il legislatore voglia, con l’aggettivo “temporanea” (amministrazione temporanea), permettere al chiamato tutti e solo quegli atti miranti alla conservazione del patrimonio ereditario che, senza apprezzabili inconvenienti, non potrebbero essere compiuti da un curatore o da un erede beneficiato, che entrino nella loro carica in un tempo ragionevolmente breve - esclusi comunque gli atti per cui anche il curatore dovrebbe farsi autorizzare dal giudice (la riscossione di crediti e la alienazione di beni immobili e mobili).

Disc. E, mi permetto di aggiungere, gli atti di godimento dei beni ereditari (come l’uso dell’auto del de cuius, l’abitazione nella casa del de cuius, peggio, la vendita di mobilia del de cuius).

Doc. Naturalmente. Se il chiamato compisse un atto di godimento dei beni ereditari, l’atto sarebbe valido, ma lui, che lo compie, diventerebbe bon grè mal grè erede. Infatti gli atti conservativi e di amministrazione, ancorché siano tutti atti che una persona “non avrebbe diritto di fare se non nella qualità di erede”, non vengono considerati “accettazione tacita” dell’eredità, solo in quanto di per sé non implicano la (maliziosa) volontà di usare e di godere dei beni dell’eredità senza pagare il “pedaggio” dell’assunzione dei debiti ereditari.

Disc. Sì, sul punto sei stato chiaro commentando l’articolo 476. Mi pare che a questo punto si possa dar lettura dell’articolo 460.

Doc. Art. 460 “(Poteri del chiamato prima dell’accettazione). Il chiamato alla eredità può esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione.

Egli inoltre può compiere atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione temporanea, e può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio.Non può il chiamato compiere gli atti indicati nei commi precedenti, qaundo si é provveduto alla nomina di un curatore dell’eredità a norma dell’art. 528.”.

Disc. Cosa significa che il chiamato può esercitare le azioni possessorie, senza bisogno di materiale apprensione?

Doc. Significa che il chiamato può esercitare tali azioni anche se, non essendo nel possesso del bene, a rigore non potrebbe dirsi né spogliato né molestato nel suo possesso. E’ chiaro, però, che nel possesso del bene deve essere stato il de cuius; ed é ancora chiaro che - se lo spoglio e la turbativa sono avvenuti in vita di questi ed egli é rimasto inerte, lasciando passare l’anno utile per l’esercizio delle azioni (vedi gli artt. 1168 e 1170) - il chiamato non potrà agire in possessoria.

Disc. E se lo spoglio o la turbativa sono avvenuti dopo la morte del de cuius, può il chiamato esercitare le azioni possessorie, anche se ha lasciato passare l’anno di cui agli articoli 1168 e 1170?

Doc. A mio parere, sì; come mi riservo di meglio spiegare parlando della c.d. petitio hereditatis (i cui principi sono trasferibili alle azioni possessorie del chiamato, dato che in buona sostanza l’art. 460 non fa che conferire in anticipo a questi quei poteri di iniziativa giudiziaria, che l’art.533 concede all’erede, salvo il limite, che soffre il chiamato e non l’erede, dell’esperibilità delle azioni solo quando il loro esercizio non può essere riservato a un futuro curatore o erede beneficiato – così come prima ho cercato di chiarire).

Disc. Mettiamo che siano chiamati all’eredità Bianchi e Rossi: naturalmente entrambi possono prendere l’iniziativa di esercitare i poteri loro concessi dall’art. 460, ma così stando le cose non possono verificarsi interferenze tra l’azione dell’uno e dell’altro?

Doc. No, perché, una volta che uno di loro, metti il Bianchi, ha assunto un’iniziativa, l’altro deve lasciarla condurre a lui: Bianchi ha nominato un avvocato e ha proposto un’azione di reintegra? Rossi non potrà pretendere di revocare l’avvocato (nominato dal Bianchi) e tanto meno di rinunciare all’azione. Egli però potrà svolgere un’opera di controllo e di vigilanza: nel caso prima fatto, potrà, ad esempio, intervenire nella

procedura promossa dal Bianchi ad adiuvandum (ma l’avocato lo dovrà pagare con i suoi soldi, non con i soldi dell’eredità).

Disc. Sì, parliamo di soldi. Il chiamato all’eredità che interviene a sua tutela ha diritto a vedersi rimborsare le spese?

Doc. Sì, su questo punto l’articolo 461 é esplicito.

Disc. Ed egli risponde per mala gestio.

Doc. Negli stessi limiti con cui ne risponderebbe un negotiorum gestor (v. l’art. 2030), quale in definitiva egli é.

Lezione IV: Diritto del “chiamato” all’inventario”. Accettazione coatta. Accettazione con beneficio di inventario.

Disc. Il chiamato per poter decidere saviamente sull’opportunità o meno di un’accettazione dell’eredità deve essere in grado di calcolare il valore del patrimonio ereditario e quindi, in primis, di conoscere quali sono i beni che lo compongono: la Legge tutela tale interesse?

Doc. Sì, lo tutela concedendo al “chiamato” il diritto all’inventario (vedi comb. disposto degli artt. 769-763 c.p.c.).

Disc. Ma che il “chiamato” abbia diritto a fare un inventario, dei beni ereditari a sua conoscenza, io, di certo, non ne dubitavo. Io volevo sapere se la legge gli dà il mezzo per superare gli impedimenti che terzi gli potrebbero frapporre alla conoscibilità di tali beni (penso a Pinco Pallino che, locatario di un appartamento ammobiliato del de cuius, impedisce al “chiamato” di entrarvi per fare l’elenco dei mobili, o anche al direttore della banca, che fa divieto al chiamato di prendere visione del contenuto della cassetta di sicurezza locata al de cuius) e all’ottenimento così di una prova sicura dell’esistenza di tali beni (e di chi li detiene e di dove si trovano).

Doc. Ma “diritto all’inventario”, nel contesto della nostra legge processuale, non significa semplicisticamente diritto a inventariare, ma significa diritto a che l’Autorità Giudiziaria dia incarico a un pubblico ufficiale (il cancelliere o il notaio) di: 1) prendere nota dei beni che, per il luogo in cui si trovano e la persona che li detiene,

potrebbero (a detta del richiedente l’inventario) rientrare nell’asse ereditario; 2) prenderne nota in un documento (che per essere stato formato da un pubblico ufficiale) verrà, fino a querela di falso, a far prova (non della proprietà del de cuius su tali beni, ma) dell’esistenza di tali beni, della loro detenzione da parte di Pinco Pallino, del luogo in cui si trovano; 3) prenderne nota superando, se del caso con la forza, eventuali resistenze che a ciò si pongano.

Disc. Il diritto di cui tu fai parola da quali articoli é contemplato?

Doc. Dagli articoli 769 e segg. c.p.c. Peraltro il “chiamato”, non solo ha diritto ad ottenere l’inventario (dei beni ereditari), ma, se é nel possesso di qualche bene ereditario, ha anche l’oneredi chiederlo e di promuoverne il compimento.

Disc. Da che risulta tale onere?

Doc. Risulta dall’art. 485 che impone al “chiamato” che é nel possesso di qualche bene - bada anche di un solo bene (che, però, sia naturalmente di apprezzabile valore) - di”fare l’inventario” (bada, non semplicemente di chiederlo!) entro un (piuttosto breve) termine.Evidentemente il legislatore di fronte la rischio che Fulano, il chiamato all’eredità che é nel possesso di beni ereditari, li.. .faccia sparire, vuole che di questi sia al più presto accertata la consistenza in un atto facente pubblica fede.

Disc. Ciò senza dubbio spiega perché Fulano, che, metti, abita in un appartamento rientrante nell’eredità, abbia l’onere di fare l’inventario dei beni in tale appartamento esistenti; ma perché imporgli l’onere di fare l’inventario di tutti i beni ereditari, anche di quelli situati in luoghi in cui lui non ha accesso?

Doc. Evidentemente il legislatore ritiene di profittare del fatto, che il pubblico ufficiale incaricato deve “muoversi” per fare l’inventario nell’abitazione di Fulano, per ottenere l’inventario di tutti i beni. Del resto le spese dell’inventario saranno a carico dell’eredità (quindi, se Fulano non diventa erede, potrà chiederne il rimborso agli eredi - forse che l’inventario non é un atto “conservativo”? forse che il co.2 dell’art.460 non dà diritto al chiamato, che compie atti conservativi del patrimonio ereditario, al rimborso delle relative spese? Vedi per completezza anche l’art. 511).

Disc. Penso che la conseguenza dell’inadempimento dell’onere sarà che Fulano, in

quanto gravato dal sospetto di aver sottratto beni all’eredità, sarà da questa escluso.

Doc. Per nulla. La migliore punizione del “chiamato”, che ha sottratta all’eredità la collana di perle, é quello di costringerlo bon grè mal grè a diventare erede (vedi art. 527). Perché in tal caso l’obbligo di rimborsarne il valore, che naturalmente verrebbe a gravarlo, sarebbe garantito, non solo dai beni dell’eredità, ma anche dai suoi beni personali (cosa di non poca importanza qualora la collana fosse...l’unico o quasi l’unico bene lasciato dal de cuius in eredità). E ciò che vale nel caso che vi sia la prova che Fulano abbia rubato, vale, mutatis mutandis, anche nel caso in cui Fulano dia adito a sospetti di aver rubato - il caso contemplato dall’art. 485.

Disc. L’articolo 485 é inserito in una “sezione” dedicata al “beneficio di inventario”, ma non mi pare che, i commi di tale articolo da noi presi in esame, dicano qualcosa rispetto a....una “accettazione con beneficio di inventario”.

Doc. E in effetti l’articolo 485 con l’istituto della “accettazione beneficiata” c’entra solo a metà. E la metà che abbiamo esaminata, meglio sarebbe stata collocata in un articolo 476bis (cioé dopo l’articolo 476, che parla dell’accettazione, tacita o coatta, come più piace chiamarla).

Disc. Parliamo allora di questa accettazione con beneficio di inventario, a cui il legislatore ritiene di dedicare quasi trenta articoli. A te la parola.

Doc. L’istituto della “accettazione con beneficio d’inventario” é stato creato dal legislatore per vincere le titubanze, che un chiamato all’eredità può avere ad accettarla: la Società ha interesse che Fulano accetti (perché ci vuole qualcuno che paghi i creditori del de cuius, che conservi e gestisca i beni, dal de cuius, lasciati...) e quindi vuole far superare a Fulano le titubanze, che possono nascere in lui dal timore di adire ad una hereditas damnosa.

Disc. Ma non basta a tale scopo concedere a Fulano il diritto di inventario?

Doc. No, perché l’inventario permette di conoscere in buona sostanza solo l’attivo dell’eredità, i beni che la compongono; ma un’eredità che ha beni per un milione può essere damnosa perché ha un passivo di due milioni.

Disc. Capisco, si tratta di far venire allo scoperto i creditori del de cuius.

Doc. In buona sostanza é così. E l’istituto de quo, l’accettazione con beneficio di inventario, é il marchingegno ideato dal legislatore allo scopo.

Disc. Ma se Fulano accetta l’eredità, deve poi pagarne i debiti attingendo anche al suo patrimonio.

Doc. Lo dovrebbe secondo la regola, però il legislatore propone a Fulano di fare a tale regola un’eccezione: tu, Fulano, accetti e io, legislatore, limito il diritto a soddisfarsi dei legatari e dei creditori, solo ai beni ereditari (esclusi quindi i beni del tuo patrimonio personale).

Disc. Naturalmente, attribuendo il potere di amministrare i beni ereditari ai creditori e ai legatari, così come avviene nella contrattuale “cessione dei beni ai creditori” prevista dall’art. 1977, in cui, com’é noto, “l’amministrazione dei beni ceduti spetta ai creditori cessionari” (art. 1979); é evidente, infatti, che non sarebbe giusto attribuire il potere di amministrazione a chi (l’erede), non verrebbe a subire le conseguenze negative del cattivo esercizio di tale potere.

Doc. No, attribuire ai creditori il potere di amministrare non si può, per due ragioni: prima ragione, perché ciò presupporrebbe che, come appunto avviene nel contratto di “cessione”, essi diano a ciò il loro consenso (dato che l’amministrare é un onere che essi potrebbero ritenere per sè troppo gravoso) – consenso che sarebbe troppo laborioso raccogliere; seconda ragione, perché occorrerebbe il consenso di tutti i creditori, mentre noi partiamo dal presupposto di una situazione in cui l’erede tituba ad accettare, perché non conosce il carico debitorio che grava l’eredità, ciò che, a sua volta, fa pensare che non conosca neanche i nomi dei creditori di questa.

Disc. E allora come risolve, il legislatore, il busillis?

Doc. Lo risolve dando il potere di amministrare all’erede, ma subordinandone l’esercizio a tutta una serie di cautele (redazione dell’inventario, rendimento del conto della gestione, cauzione, se così i creditori e i legatari richiedono) e, inoltre, al controllo dell’autorità giudiziaria.

Disc. Ciò potrebbe bastare a garantire una oculata amministrazione del patrimonio ereditario, ma tale amministrazione é finalizzata al pagamento dei creditori e dei

legatari, chi provvede a tale pagamento?

Doc. L’erede stesso.

Disc. Ma non sorge allora il pericolo che egli commetta favoritismi nei pagamenti (paghi prima e integralmente il creditore Bianchi così lasciando a becco asciutto il creditore Rossi)?

Doc. Contro tale pericolo il legislatore dà ai creditori (melius, a ciascun creditore e legatario) il potere di costringere l’erede a una procedura di liquidazione studiata proprio per assicurare la par condicio cerditoris.Tutto questo ti risulterà meglio dal rapido excursus, che faremo sui principali articoli che disciplinano l’istituto.

Disc. Cominciamo dunque.

Doc. Sì, cominciamo, e naturalmente dall’articolo che ci dice la forma che deve assumere l’accettazione beneficiata: l’articolo 484, che recita: “L’accettazione col beneficio d’inventario si fa mediante dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere (….)”.Nello stesso articolo 484 (comma terzo) viene, poi, stabilita la necessità della prima “cautela” di cui ti ho detto: “La dichiarazione deve essere proceduta o seguita dall’inventario, nelle forme prescritte dal codice di procedura civile”.Naturalmente il legislatore stabilisce precisi termini, sia per il compimento dell’inventario, nel caso che l’accettazione preceda (vedi il comma due dell’art. 485, per il caso che l’accettante abbia il possesso dei beni, e il comma due dell’art. 487, per il caso che l’accettante non lo abbia) sia per l’espressione dell’accettazione, per il caso che sia invece l’inventario a precedere (vedi il comma tre dell’art. 485, per il caso che l’inventariante abbia il possesso dei beni ereditari, e il comma tre dell’articolo 487, per il caso che non lo abbia).

Disc. Quali le conseguenze che derivano dall’inosservanza dei termini anzidetti?

Doc. Dall’inosservanza del termine stabilito per fare l’inventario (una volta espressa l’accettazione) deriva sempre l’assunzione bon grè mal grè da aprte del “chiamato” della veste di erede puro e semplice. Dall’inosservanza,invece, del termine stabilito per esprimere l’accettazione (una volta fatto l’inventario) derivano conseguenze

diverse a seconda che il “chiamato” sia in bonis oppure no. Se é in bonis, viene considereato erede puro e semplice (v. terzo comma art.485). Se non lo é, viene considerato “rinunciante” (vedi terzo comma art. 487).

Disc. Capisco perché il legislatore fa derivare dal mancato rispetto dei termini da parte del “chiamato”, che é in bonis, la accettazione pura e semplice: perché il suo permanere “irregolare” nel possesso dei beni ereditari ne fa temere la manomissione: lo stabilire che il chiamato in bonis che non farà l’inventario sarà considerato erede puro e semplice, costituisce, da una parte, una forte pressione a che ciò non avvenga, e, dall’altra, un modo per facilitare, nel caso che manomissioni dei beni ereditari effettivamente si verificassero, un modo per facilitare il diritto al risarcimento, da tali manomissioni, nascente.Ma perché considerare erede puro e semplice il “chiamato” non in bonis,che, espressa la sua volontà di accettare con beneficio di inventario, non esegue questo nei termini? egli infatti, proprio perché non é nel possesso dei beni, non può far temere che li manometta.

Doc. Nel caso del “chiamato” (non in bonis) che non rispetta i termini, il legislatore non vuole sanzionarne il comportamento, cerca solo di interpretarne la volontà. E tu converrai con me, che la cosa più logica é quella di attribuire, al chiamato (non in bonis) che, espressa la accettazione con beneficio di inventario, poi questo non fa, la volontà di accettare,sì, ma senza il “beneficio” e, al chiamato che, fatto l’inventario, poi non accetta, la volontà di rifiutare l’eredità (in considerazione proprio di quanto, dall’inventario, risulta)

Disc. Effettivamente non posso negare che questa é la spiegazione più logica. Passiamo all’articolo che delimita la responsabilità del chiamato che nei dovuti termini ha fatta sia l’accettazione che l’inventario: quindi del “chiamato” che é diventato “erede beneficiato”.

Doc. E’ l’articolo 490, che recita:“(Effetti del beneficio d’inventario). L’effetto del beneficio d’ inventario consiste nel tenere distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede.Conseguentemente:1) l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto tranne quelli che si sono estinti per effetto della morte;2) l’erede non é tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei

beni a lui pervenuti;3) i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede. Essi però non sono dispensati dal domandare la separazione dei beni, secondo le disposizioni del capo seguente, se vogliono conservare questa preferenza anche nel caso che l’erede decada dal beneficio d’inventario o vi rinunzi”.

Disc. Debbo dire che il contenuto dell’articolo ora riportato mi é tutt’altro che chiaro.

Doc. Fammi delle domande, io cercherò di rispondervi.

Disc. La mia prima domanda parte da una deduzione, che mi sembra piuttosto logica. E cioé. Dal fatto che “i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede” (n.3 de comma 2), dal fatto che questo patrimonio il legislatore lo vuole tenuto “distinto” da quello dell’erede (comma 1), dal fatto infine che l’erede “é tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati” fino al valore di tale patrimonio (arg. ex n.2 del comma 2), mi sembra lecito dedurre che l’erede, fino a che non ha pagato i debiti ereditari, non può gestire l’asse ereditario se non col fine precipuo di pagarli.

Doc. E’ una deduzione che in effetti é piuttosto logica. Va avanti, fa la tua domanda.

Disc. Eccola: l’erede come subisce dei vincoli nell’amministrazione del patrimonio ereditario, subisce dei limiti nel suo godimento? Ad esempio potrebbe prendere alloggio nell’appartamento che era stato del de cuius?

Doc. Dal fatto che i beni ereditari sono destinati al pagamento dei debiti ereditari, mi pare logico dedurre che l’erede non possa compiere tutti quegli atti di godimento di tali beni che ad essi impediscono di dare quei frutti (naturali o civili) che permetterebbero un maggiore soddisfacimento dei legatari e dei creditori stessi.

Disc. Quindi l’erede potrà alloggiare nella casa ricevuta in eredità se non ne é possibile la locazione, non potrà alloggiarvi se ne é possibile la locazione.Altra domanda: i creditori del de cuius e i legatari senz’altro possono soddisfare i loro crediti sui beni del patrimonio ereditario; però possono soddisfarli anche sui beni del patrimonio personale dell’erede (purché nei limiti di valore del patrimonio ereditario)?

Doc. La cosa é discussa; ma io credo che non lo possano: l’erede é tenuto a soddisfare gli eredi cum viribus hereditatis e non pro viribus hereditatis. E mi pare anche che sia possibile dimostrare ciò chiaramente, solo che si abbia la avvertenza di ragionare su una fattispecie semplificata. Mettiamo, dunque, che l’asse ereditario sia costituito da un unico bene del valore di cento. Mettiamo ancora che il credito di Tizio verso il de cuius fosse di cento. In tal caso Tizio, per realizzare la somma dovutagli, deve chiaramente pignorare e vendere all’asta un bene dell’erede che valga più di cento (dato che, é notorio, la vendita all’asta dà meno che l’effettivo valore del bene). Quindi Tizio, se vuole agire esecutivamente sui beni dell’erede, deve impoverirlo più di quanto questi (idest, l’erede) si arricchisca con l’acquisizione dell’eredità (in quanto abbiamo ipotizzato che questa sia data solo da un bene del valore di cento) - e ciò é proprio quello che un erede vuole evitare accettando con beneficio di inventario.Con tutto ciò debbo ammettere che la tesi contraria, a tutta prima, appare confortata dal disposto dell’articolo 497. Ma si tratta di una falsa apparenza destinata a cedere ad un approfondimento della ratio di detto articolo. E’ vero infatti che tale articolo concede ai creditori il potere di “di costringere (l’erede) al pagamento con i propri beni”. Ma questo costituisce solo un mezzo eccezionale di pressione per costringere l’erede a presentare il rendiconto: il legislatore che ritiene sproporzionato ed eccessivo raggiungere tale scopo minacciando la decadenza del beneficio, adotta una mezza-misura: minaccia l’erede “beneficiato” che sia moroso nella presentazione del conto di permettere ai creditori dell’erede di aggredire il suo patrimonio fino a che non rende il conto (quindi proprio dall’art. 497 si deduce a contrario che il legislatore non permette ai creditori del de cuius di aggredire i patrimoni degli eredi che non siano morosi nella peresntazione del conto!).

Disc. Leggo però nel secondo comma dell’articolo da te ora citato, che l’erede dopo la liquidazione del conto “può essere costretto al pagamento con i propri beni fino alla concorrenza delle somme di cui é debitore”.

Doc. Neanche questo ci deve trarre in inganno: a me sembra chiaro che il legislatore si metta nel caso in cui, presentato (ai sensi dell’art.263 c.p.c.) il conto....i conti non tornino (metti risulta che l’erede ha venduto dei preziosi quadri, ma non risulta che il relativo prezzo sia stato impiegato per pagare i creditori, per cui vi é da pensare che sia stato impiegato per soddisfare le esigenze personali dell’erede): giusto che in tal caso (ma solo in tal caso!) l’erede sia costretto a cavare dalle sue tasche quei soldi

che mai avrebbe dovuto metterci.

Disc. A proposito di debiti pagati con soldi cavati dalle tasche dell’erede, che succede se questi paga un debito ereditario con i suoi soldi?

Doc. Succede che egli viene surrogato nel credito soddisfatto (arg.ex n.4 art. 1203). Però é chiaro che l’erede pagando con soldi propri rischia di rimetterci. Ed é facile verificare ciò con un esempio: metti che il credito (pagato dall’erede) sia di 100 ed il patrimonio ereditario potesse soddisfarlo solo per la metà, cioé per 50: anch’egli (idest, l’erede surrogato) potrà ottenere solo 50.

Disc. Esaminiamo ora più particolarmente il numero due del secondo comma (dell’art. 490). Quindi, in deroga all’art. 1253, non si ha “confusione” tra i crediti ed i debiti reciproci dell’erede e del de cuius: perché?

Doc. Ovvio. Se, avendo avuto il de cuius l’obbligo di dare 100 all’erede, si applicasse l’art. 1253, il relativo credito di questi si estinguerebbe e questi perderebbe 100, cioé vedrebbe una diminuzione del suo patrimonio personale - diminuzione che, egli, accettando, sì, ma con beneficio di inventario, voleva evitare. Se, al contrario, l’erede fosse (non più il creditore, ma) il debitore, l’applicazione dell’articolo 1253, comportando l’estinzione del correlativo credito già del de cuius, determinerebbe un ingiustificato arricchimento del patrimonio personale dell’erede a scapito di quello ereditario (mentre abbiamo visto che l’istituto dell’accettazione beneficiata si regge sul principio, che l’erede si può arricchire con il patrimonio ereditario solo dopo che su di questo si sono soddisfatti i legatari e i creditori del de cuius).

Disc. Passiamo al disposto del n. 3 dell’art. 490. Quindi l’erede non può usare dei beni ereditari (ad esempio vendendoli) per pagare i suoi creditori: ho capito bene?

Doc. Hai capito benissimo: dal principio che l’erede non può arricchirsi a scapito del patrimonio ereditario fino a che non siano soddisfatti i legatari e i creditori del de cuius, deriva l’ulteriore principio che, fino a quando ciò non sia avvenuto, questo patrimonio deve essere gestito dall’erede con l’unico scopo di soddisfare tali creditori e tali legatari, e da questo secondo principio deriva con tutta evidenza il divieto per lui di usare i beni che lo costituiscono per soddisfare un proprio creditore.

Disc. E quindi anche il divieto per i creditori dell’erede di soddisfarsi aggredendo i

beni ereditari.

Doc. Mi pare logico: forse che anche in questo caso non si verificherebbe quell’arricchimento del patrimonio dell’erede (arricchimento dovuto al venir meno di uno dei debiti che lo gravavano) a scapito di un impoverimento del patrimonio ereditario (dovuto al venir meno di uno dei beni che lo costituivano) - cosa che invece il legislatore vuole evitare?

Disc. Tu prima hai detto che, per evitare la possibilità di abusi dell’erede, il legislatore ne subordina l’amministrazione al controllo dell’autorità giudiziaria: qual’è l’articolo che prevede ciò?

Doc. E’ l’articolo 493, che recita: “(Alienazione di beni ereditari senza autorizzazione). L’erede decade dal beneficio di inventario, se aliena o sottopone a pegno o ipoteca beni ereditari, o transige relativamente a questi beni senza l’autorizzazione giudiziaria e senza osservare le forme prescritte dal codice di procedura civile.Per i beni mobili l’autorizzazione non é necessaria trascorsi cinque anni dalla dichiarazione di accettare con beneficio d’inventario”.

Disc. “Alienazione” é sinonimo di vendita?

Doc. No, é chiaro che il termine “alienazione” va inteso in senso tecnico (quindi come comprensivo, ad esempio, anche della costituzione di un diritto reale).

Disc.L’art. 493 richiede l’autorizzazione anche per l’alienazione dei beni mobili: quindi se l’erede vuole vendere la bicicletta che era del de cuius, deve chiedere l’autorizzazione?

Doc. No. E’ chiaro che la norma va interpretata restrittivamente: sarebbe assurdo imporre l’onere di ottenere l’autorizzazione del tribunale, per la vendita di cose di così tenue valore da non giustificare la perdita di tempo e di denaro, che comporta la procedura, che (gli artt.747 e segg c.p.c.) prevedono per l’ottenimento dell’autorizzazione stessa. E’ chiaro che, invece, la norma va interpretata estensivamente là dove non prevede l’autorizzazione per l’acquisto di beni immobili o mobili (che, sia pur eccezionalmente si potrebbe rendere necessario: si pensi all’acquisto di un trattore per la coltivazione di un campo).

Disc. Ma gli atti compiuti in difetto dell’autorizzazione debbono considerarsi invalidi?

Doc. Assolutamente, no. L’inosservanza dell’articolo 493, così come ha per l’erede l’effetto negativo di comportare la sua decadenza dal beneficio di inventario e quindi la sua responsabilità senza limiti per i debiti ereditari, ha però l’effetto positivo di attribuirgli la pienezza dei poteri nel disporre dei beni ereditati: egli li può vendere quando vuole, a chi vuole e al prezzo che vuole (beninteso, salva la possibilità per i creditori di esercitare l’azione revocatoria di cui all’art. 2901).

Disc. Peraltro, anche come erede beneficiato, egli ha, direi, poteri amplissimi: egli può stare in giudizio come attore e convenuto per difendere le ragioni dell’eredità, può stipulare locazioni, contratti di opera e di lavoro, d’appalto ecc. così come se fosse il curatore di un’eredità giacente; anzi, mi pare che si debba ritenere, che tendenzialmente i suoi poteri sono maggiori di quelli di un curatore, dato che, come abbiamo già visto parlando dell’eredità giacente, maggiore é la fiducia che gli riserva il legislatore: il curatore non può tenere presso di sé il denaro che si trova nell’eredità, l’erede beneficiato lo può, il curatore risponde dell’amministrazione solo per colpa lieve, l’erede beneficiato ne, risponde, per l’art. 491, solo per colpa grave, il curatore non può pagare i creditori senza autorizzazione dell’A.G., l’erede beneficiato lo può.Ma tanta fiducia non può essere mal riposta? Il legislatore non adotta cautele contro il pericolo di abusi da parte dell’erede?

Doc. Certo che sì! Come ho già accennato, il legislatore, a prescindere dall’obbligo di inventario, impone all’erede un obbligo di rendiconto (vedi art. 496),gli impone, a richiesta dei “creditori e degli altri aventi interesse”, di “dare idonea garanzia per il valore dei beni mobili” (vedi melius, l’art. 492), lo chiama, come abbiamo or ora visto, a rispondere, sia pure solo per colpa grave, della sua mala gestio e dulcis in fundo, lo fa decadere dal beneficio di inventario, nel caso di sue omissioni o infedeltà in questo (vedi art 494) e nel caso di alienazioni non autorizzate (così come abbiamo or ora visto parlando dell’art. 493). E avremo ancora occasione di vedere che il legislatore non abbassa mai la guardia: stà lì, col fucile puntato, a minacciare la decadenza dal beneficio, per ogni inosservanza che faccia sospettare malafede o scorrettezza o anche una (non lieve) mancanza di diligenza nell’erede.

Disc. Voltiamo pagina; parliamo di quello che é lo scopo ultimo a cui

l’amministrazione del patrimonio ereditario tende: il pagamento dei legatari e dei creditori del de cuius: come avviene?

Doc. Il legislatore prevede due (principali) procedure di liquidazione: la c.d. liquidazione individuale e la c.d. liquidazione concorsuale.

Disc. Cominciamo a parlare della prima.

Doc. Nella liquidazione individuale “i creditori e i legatari sono pagati a misura che si presentano, salvi i loro diritti di poziorità” (vedi art. 495 co.1).

Disc. Quindi l’erede deve pagare prima chi per primo ha chiesto il pagamento,

Doc. Non é detto: se il legatario Bianchi presenta la sua richiesta il 15 febbraio e il creditore Rossi presenta la sua dieci giorni dopo, ma pur sempre prima che sia stato pagato il Bianchi, il Rossi é preferito.

Disc. Per quale ragione?

Doc. In ragione del suo diritto di poziorità; dato che i creditori sono preferiti ai legatari e i creditori muniti di diritto di prelazione sono preferiti ai chirografari (arg. ex co. 2 art. 499).Naturalmente, il problema di scegliere tra il legatario Bianchi e il creditore Rossi, oppure tra il creditore ipotecario Bianchi e il creditore chirografario Rossi, sorgerà solo quando il denaro necessario per i pagamenti scarseggerà. Il che difficilmente avverrà all’inizio della procedura. Quel che é invece probabile che avvenga, é che, inoltratisi un bel po’ nella procedura, il denaro venga effettivamente a mancare.

Disc. E allora?

Doc. Quel che succede allora te lo dice il secondo comma sempre dell’art. 495: “Esaurito l’asse ereditario, i creditori rimasti insoddisfatti hanno soltanto diritto di regresso contro i legatari, ancorché di cosa appartenente al testatore, nei limiti del valore del legato”.

Disc. L’erede per reperire la liquidità necessaria per i pagamenti può vendere anche un immobile ipotecato?

Doc. Naturalmente,sì (ma, sempre naturalmente, il creditore ipotecario avrà diritto di prelazione sul ricavato dalla vendita). E così come l’erede può decidere di vendere un immobile su cui grava un’ipoteca, così può decidere di pagare un creditore ipotecario senza vendere l’immobile (ipotecato). Quel che invece, a mio parere, l’erede non può fare, é di vendere l’oggetto di un legato di “cosa appartenente al testatore”. Se il de cuius ha legata a Bianchi quella sua certa collana di brillanti, questa collana passa recta via al Bianchi e il de cuius non la può vendere. Solo una volta esaurito l’asse ereditario, i creditori (non i legatari, arg. co.3 art. 499) rimasti insoddisfatti potranno chiedere al legatario (non la restituzione della collana, ma) il pagamento di una somma corrispondente al suo valore. Chiaro che, se il legatario non effettuerà tale pagamento, i creditori potranno soddisfarsi pignorando la collana, non diversamente di qualsiasi altro bene del legatario.

Disc. Se l’erede richiesto del pagamento lo rifiuta o lo ritarda, può il richiedente far valere il suo diritto davanti all’Autorità Giudiziaria?

Doc. Perché non dovrebbe? Certo che lo può; lo dice la logica e comunque si argomenta dall’art. 506. E’ solo nell’ambito della procedura di liquidazione concorsuale che il creditore (o il legatario) non può far valere il suo diritto davanti all’A.G (o meglio, non lo può far valere nelle forme ordinarie, ma solo nella forma di un’opposizione allo “stato di graduazione” - vedi melius, l’art. 501).

Disc. E’ previsto un termine oltre al quale i creditori (e i legatari) non possono più proporre domande di pagamento?.

Doc. Questo termine – che é previsto nella liquidazione concorsuale (vedi terzo comma art. 502) - non é invece previsto nella liquidazione individuale. Quindi l’erede, per sentirsi liberato dalla spada di Damocle di una richiesta di pagamento, può confidare solo nel maturare del tempo necessario alla prescrizione.Per concludere, la liquidazione individuale presenta i seguenti vantaggi e svantaggi rispetto a quella concorsuale. Vantaggi: 1)- evita le spese di una procedura che, come quella concorsuale, prevede notifiche, pubblicazione di annunci e, soprattutto, la nomina di un notaio; 2- non comporta la decadenza di un eventuale termine a quo posto a un credito: Bianchi che aveva un credito da lui esigibile (dal de cuius) solo a partire dal 15 gennaio 2016, deve aspettare il 15 gennaio 2016 per chiederne il pagamento (invece nella procedura concorsuale tale termine cadrebbe, proprio per

permettere a Bianchi di concorrere con gli altri creditori nella soddisfazione del suo credito).Svantaggi: 1) rischia di lasciare totalmente insoddisfatti dei creditori e dei legatari (mentre invece nella liquidazione concorsuale, “tra i creditori non aventi diritto a prelazione l’attivo ereditario é ripartito in proporzione dei rispettivi crediti” - vedi il secondo comma art. 499); 2) non é previsto un termine, diciamo così, di chiusura della liquidazione.

Disc. Passiamo ora a parlare della liquidazione concorsuale. Ma prima ancora dimmi: l’erede può scegliere a suo arbitrio l’una o l’altra procedura di liquidazione?

Doc. No, l’erede può optare per la liquidazione individuale invece che per la liquidazione concorsuale (e viceversa), ma non a suo arbitrio. Infatti, prima di tutto, il legislatore dà facoltà ai creditori e ai legatari di opporsi alla liquidazione individuale, al fine di ottenere che si proceda con quella concorsuale (ed é chiaro quando essi eserciteranno tale facoltà: l’eserciteranno tutte le volte che giudicheranno il patrimonio ereditario insufficiente al pagamento di tutti i crediti e di tutti i legati); in secondo luogo, anche se non vi é opposizione dei creditori e dei legatari, egli (idest, l’erede) non può optare per la liquidazione concorsuale, se ha effettuato dei pagamenti (a meno che i pagamenti siano a favore di crediti privilegiati o ipotecari – vedi l’articolo 503)

Disc. Perché l’articolo 503 pone questo (secondo) ostacolo all’opzione dell’erede?

Doc. Evidentemente perché teme che l’erede altrimenti possa favorire alcuni creditori pagandoli integralmente e, solo dopo fatto questo, opti per quella liquidazione concorsuale, che comporterà la riduzione proporzionale di tutti gli altri crediti. Insomma é come se il legislatore minacciasse “Bada, Fulano, se cedi alla tentazione di favorire qualche creditore, ti giochi la possibilità di avere la liquidazione concorsuale”.

Disc. E’ evidentemente per questo che i creditori e i legatari possono chiedere la liquidazione in ogni momento: riguardo ad essi non vi é da paventare il pericolo (di favoritismi) da te denunciato.

Doc. Tu ti sbagli: anche la opzione concessa ai creditori e ai legatari é sottoposta a un termine, anche se é vero che non vi é sottoposta per lo stesso motivo or ora indicato

per l’erede.Infatti il legislatore stabilisce un breve termine, decorrente grosso modo dall’accettazione con beneficio di inventario (vedi melius l’incipit dell’art. 495), che, mentre per l’erede ha la natura di un termine a quo in quanto solo alla sua scadenza l’erede può effettuare dei pagamenti, per i creditori e i legatari ha natura di un termine ad quem, in quanto solo entro tale termine, essi possono esercitare la facoltà di opzione (per la liquidazione concorsuale).E il perché di tale termine posto ai creditori e ai legatari, é evidente: il legislatore vuole impedire la confusione e lo scompiglio che potrebbe avvenire qualora l’erede dovesse interrompere una liquidazione (quella individuale) già iniziata, per iniziarne una nuova (quella concorsuale).

Disc. Tanto premesso vediamo in sintesi come si svolge una liquidazione concorsuale.

Doc. In primo luogo, l’erede invita (non lui direttamente, ma “a mezzo di un notaio”) i creditori e i legatari a presentare (entro un breve termine fissato, non da lui, ma dal notaio) le “dichiarazioni di credito”(vedi comma 2 art. 498)In secondo luogo, procede (co.1 art. 499) “con l’assistenza del notaio” a “liquidare le attività ereditarie” (naturalmente basandosi, per stabilire la quantità e l’importanza dei beni da alienare, sulla quantità dei crediti da soddisfare, come risultante dalle “dichiarazioni” dei creditori e dei legatari).In terzo luogo (co. 2 sempre art. 499), sempre con l’assistenza del notaio, forma lo “stato di graduazione”. In tale “stato di graduazione” “i creditori saranno collocati secondo i rispettivi diritti di prelazione” e saranno “preferiti ai legatari”. Poi “tra i creditori non aventi diritto di prelazione l’attivo ereditario sarà ripartito in proporzione dei rispettivi crediti”.In quarto luogo, il notaio dà avviso della formazione dello stato di graduazione ai creditori e ai legatari, a che, se credono, propongano “reclamo” all’autorità giudiziaria contro di esso (per lamentare o di essere stati esclusi o di essere stati inclusi per una somma insufficiente o perché é stato incluso chi non lo doveva ….).In quinto luogo, “divenuto definitivo lo stato di graduazione “(o perché non sono stati presentati reclami nel termine fissato, o perché é passata in giudicato la sentenza che li definisce) “l’erede deve soddisfare i creditori e i legatari in conformità dello stato medesimo”, che “costituisce titolo esecutivo contro di lui” (co. 1 art. 502).

Disc. Tu ripetutamente hai detto che il notaio “assiste”, nella procedura, l’erede; ma

in che senso lo “assiste”, nel senso che gli dà consulenza?

Doc. No, nello stesso senso con cui il curatore “assiste” l’emancipato (art. 394): cioé gli atti compiuti dall’erede non hanno efficacia se non sono controfirmati per assenso dal notaio: é chiaro infatti che non si possono rimettere alla discrezione dell’erede decisioni delicate, come, ad esempio, quelle sull’inclusione nello stato di graduazione di un credito.

Disc. Già parlando della liquidazione individuale si sono fatti vari riferimenti alla liquidazione concorsuale. Quindi non é il caso di ripeterci. Va comunque ricordato che: 1) durante la procedura di liquidazione concorsuale non possono essere promosse nuove procedure esecutive (co.1 art. 506); 2) che “i crediti a termine divengono esigibili” (v. melius co. 2 sempre dell’art. 506); 3) che i creditori e i legatari “che non si sono presentati”, cioé non hanno dichiarato il loro credito ai fini della sua inclusione nello “stato di graduazione”, possono ciò nonostante far valere ancora il loro diritto, anche se solo nei limiti e nel termine di cui al co. 3 art. 502.

Doc. Complimenti per la tua capacità di sintesi.

Disc. Ci gioca anche la stanchezza per un’esposizione che troppo si é allungata. Con tutto ciò voglio farti ancora due domande prima di finire questa (lunga) lezione.Prima domanda: la procedura di liquidazione concorsuale può diventare davvero troppo pesante, complicata e costosa per l’erede che si é deciso all’accettazione contando in un rapido pagamento dei debiti: egli non può rinunciare?

Doc. Rinunciare all’eredità, di certo non può (semel heres semper heres). Può rinunciare al beneficio di inventario e diventare erede puro e semplice. O anche può seguire una via di mezzo, giovarsi dell’istituto, previsto dall’art. 507, del “rilascio dei beni ai creditori e legatari”.

Disc. Cioé?

Disc. Deve fare una formale “dichiarazione di rilascio” e darne avviso al pubblico e ai creditorie legatati.

Disc. I quali debbono accettarla?

Doc. No, la loro accettazione non occorre. Del resto non saranno loro che verranno gravati dell’amministrazione dei beni ereditari, ma un curatore nominato dal tribunale.

Disc. Ovviamente l’erede con la “dichiarazione di rilascio” rinuncia al potere di amministrare i beni ereditari, ma rinuncia anche all’eredità?

Doc. No, col “rilascio” non rinuncia all’eredità, tanto é vero che il terzo commadell’ art. 508 é esplicito nel dire che, una volta che il curatore ha esaurita la liquidazione, “le attività che residuano, pagate le spese della curatela e soddisfatti i creditori e i legatari collocati nello stato di graduazione, spettano all’erede”.

Disc. Quindi la scelta della procedura de qua può presentare non pochi vantaggi per l’erede. Ma egli può sempre ottenerla, può sempre effettuare il “rilascio”?

Doc. No, egli può effettuare il “rilascio” solo a due condizioni (vedi co. 1 art. 507): “se non ha provveduto ad alcun atto di liquidazione” (prima condizione), se lo effettua entro un mese dalla scadenza del termine stabilito per presentare le dichiarazioni di credito” (e qui il legislatore evidentemente si riferisce a quelle dichiarazioni che, come abbiamo visto, sono previste solo nel contesto di una liquidazione concorsuale).

Disc. Quindi la dichiarazione de qua può essere fatta solo nel contesto di una procedura di liquidazione concorsuale già iniziata. Ma se così é, se si parte dal presupposto che sia iniziata una procedura di liquidazione concorsuale e naturalmente una procedura valida, che rilevanza può avere la prima “condizione”, che rilevanza può avere cioé che l’erede, evidentemente prima dell’inizio di tale procedura, abbia compiuto degli atti di disposizione?

Doc. Non saprei dirtelo.

Disc. Passo alla seconda e ultima domanda: la decadenza del beneficio di inventario senza dubbio può rappresentare uno svantaggio per l’erede, che vede di conseguenza il suo patrimonio personale esposto alle pretese dei legatari e dei creditori del de cuius, ma non può, almeno in certi casi, rappresentare uno svantaggio anche per i legatari e i creditori? In fondo, sussistendo il regime del beneficio di inventario, l’amministrazione dei beni ereditari era soggetta al controllo dell’Autorità

Giudiziaria, e, soprattutto, loro potevano giovarsi della procedura di liquidazione concorsuale: caduto tale regime, l’amministrazione dei beni e i pagamenti sono rimessi all’arbitrio dell’erede.

Doc. E’ così, effettivamente la decadenza dal beneficio di inventario può rivelarsi in certi casi un’arma a doppio taglio. Ma il legislatore tiene conto di ciò e, nell’art. 509, stabilisce che, se “nessuno dei creditori o legatari fa valere” la decadenza dal beneficio il tribunale può nominare un curatore con l’incarico di provvedere alla liquidazione dell’eredità secondo le norme degli articoli 499 e seguenti” - questo purché vi sia richiesta di uno (uno solo basta!) dei creditori e dei legatari.Con la nomina del curatore viene meno ogni potere di amministrazione dell’erede (sui beni dell’asse ereditario), ma viene anche anche meno la possibilità degli eredi e legatari di far valere la decadenza dal beneficio. Ciò significa che il patrimonio dell’erede continuerà ad essere protetto dalle pretese e dalle aggressioni dei legatari e degli eredi del de cuius.

Disc. Questa liquidazione a cura di un curatore, può essere richiesta ad ogni momento e per il verificarsi di ogni causa di decadenza (dal beneficio)?

Doc. Sembrerebbe di no, dal momento che (vedi l’incipit dell’art. 509) il legislatore la prevede solo se, “dopo la scadenza del termine stabilito per presentare le dichiarazioni di credito (idest, le dichiarazioni che debbono essere presentate nel corso della liquidazione concorsuale) l’erede incorre nella decadenza del beneficio d’inventario”. Se così fosse, se ne dovrebbe dedurre che il legislatore ritiene giustificata tale procedura solo dall’opportunità di non bruciare il lavoro già fatto (dall’erede, dal notaio e dai legatari e creditori stessi) per impostare la liquidazione concorsuale.

Lezione V: Della separazione dei beni del defunto

Doc. Abbiamo visto come, l’istituto della “accettazione con beneficio di inventario”, tuteli l’erede contro il pericolo di una hereditas damnosa, inibendo ai legatari e ai creditori del de cuius di soddisfarsi sul suo patrimonio personale; l’istituto che veniamo ora ad esaminare, la “separazione”, tutela invece i legatari e i creditori del de cuius contro il pericolo di un erede oberato di debiti, dando loro un diritto di prelazione e “di seguito” sui beni costituenti il patrimonio del de cuius stesso.Il diritto di prelazione, di cui ti sto parlando, risulta dal primo comma dell’art. 512,

che recita: “La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede assicura il soddisfacimento con in beni del defunto, dei creditori di lui e dei legatari che l’hanno esercitata a preferenza dei creditori dell’erede”.La concessione (ai creditori del de cuius e ai legatari) di un diritto “di seguito”, oltre che di un diritto di prelazione, risulta, poi, dal comma 3 dell’art. 518 e dal comma 3 dell’art. 517. Il co. 3 art. 518, dichiarando applicabili, “alle iscrizioni a titolo di separazione” (naturalmente sugli immobili), “le norme sulle ipoteche”; il co. 3 art. 517, stabilendo che il creditore e legatario possono chiedere, all’acquirente di un bene ereditario, solo il prezzo non pagato, se la vendita é avvenuta prima che sulla “conservazione” del bene stesso disponesse il giudice (ai sensi del co.2 stesso articolo) - ciò che permette di argomentare che essi (idest, i legatari e i creditori) possono chiedere all’acquirente anche il prezzo già pagato (melius, il valore del bene venduto), se la vendita é avvenuta dopo.

Disc. Quindi, i legatari e i creditori, con la “separazione” sono tutelati più efficacemente di quanto avvenga in una eredità “beneficiata”, dal momento che, la disciplina di questa, loro non riconosce nessun diritto di seguito. Vero é che l’articolo 494 fa (implicitamente) divieto, all’erede “beneficiato”, di alienare beni dell’asse ereditario, sanzionando severamente, con la decadenza dal beneficio, l’inosservanza di tale divieto.

Doc. Questo mentre, invece, in caso di “separazione”, nessun divieto all’erede é imposto: egli può amministrare il patrimonio ereditario in assoluta libertà.

Disc. Chiaro che, però, a conti fatti, la “separazione”, tutela di più i creditori e i legatari: essi possono giovarsene anche se l’erede ha accettato con beneficio d’inventario?

Doc. Senza dubbio: lo dice la logica e facilmente si argomenta dal n.3 co.2 art.490 (vedi la sua ultima parte).

Disc. I legatari e i creditori del defunto, hanno diritto di separazione su tutti i beni che costituiscono il patrimonio ereditario?

Doc. Sì, la legge non pone loro sul punto nessun limite. Certo però, il diritto di prelazione e di seguito, loro lo potranno esercitare solo rispetto a cui beni che essi hanno provveduto a “separare”. Mentre, se ti ricordi, nell’ambito della accettazione

“beneficiata”, a essi é riconosciuto un diritto di prelazione (e su tutti i beni dell’asse) ipso iure, senza che abbiano necessità di chiedere o fare alcunché.

Disc. Ma che cosa si deve fare per esercitare il diritto di separazione?

Doc. Bisogna distinguere a seconda che si voglia separare un bene mobile o immobile.Nel primo caso, l’art. 517 dispone che l’interessato faccia domanda ad hoc al Giudice; il quale, se l’accoglie, “ordina l’inventario” (naturalmente, non di tutti i beni ereditari, ma solo di quelli per cui si chiede la separazione) e “dà le disposizioni necessarie per la conservazione dei beni stessi”.

Disc. Un’espressione ben anodina quest’ultima: che vuol significare?

Doc. Un’espressione “anodina” a ragion veduta; dato che il legislatore non vuol legare le mani al giudice con espressioni troppo precise. Pertanto, a seconda dei casi, il giudice potrà disporre la custodia del bene “separato” o presso un pubblico ufficiale o presso il creditore o addirittura presso l’erede (anche dandogli facoltà di uasrne, metti se il bene é un’auto e l’erede ne ha bisogno per il suo lavoro). In ogni caso, certo, il bene dovrà essere staggito, cioé ne dovrà essere limitata la libera disponibilità: chi l’acquista sarà come se acquistasse una cosa sottoposta a sequestro.

Disc. E la separazione di un immobile come si fa?

Doc. Te lo dice il primo comma dell’art. 518, che recita: “Riguardo agli immobili e agli altri beni capaci d’ipoteca, il diritto alla separazione si esercita mediante l’iscrizione del credito o del legato sopra ciascuno dei beni stessi. L’iscrizione si esegue nei modi stabiliti per iscrivere le ipoteche. (…..)”.

Disc. Quindi bisognerà presentare al “conservatore” il titolo costitutivo del diritto di credito o del legato – titolo che naturalmente sarà dato da una copia autentica dell’atto pubblico o da una scrittura con sottoscrizione autenticata, come voglio gli artt. 2839, 2834, 2836.

Doc. Nient’affatto; l’articolo 518 esclude chiaramente ciò: “per l’iscrizione non é necessario esibire il titolo”, recita il suo secondo comma nella sua parte finale.

Disc. Senza dubbio il legislatore dimostra molta fiducia verso la correttezza dei legatari e dei creditori del de cuius!Ma tanta fiducia non fa sorgere due pericoli: quello di iscrizioni “eccessive” (Bianchi che ha solo un credito di 100 fa una “iscrizione” su un immobile che vale diecimila) e quello di iscrizioni per crediti totalmente infondati (Bianchi fa l’iscrizione a tutela di un legato, in base a un testamento chiaramente nullo perché redatto dal defunto, ma mancante di quella sua sottoscrizione voluta dall’art 602)-?

Doc. Certamente tali pericoli esistono; specialmente il primo (quello delle iscrizioni “eccessive”), che effettivamente costituisce il punto debole dell’istituto che stiamo studiando.Tuttavia non mancano gli strumenti per contrastarli.Nel caso di separazione, eccessiva o chiaramente infondata, chiesta per un bene mobile, il Giudice, in forza dei poteri concessigli dal secondo comma dell’art. 517, potrebbe: limitarne l’oggetto (“Sì, la separazione la concedo, ma solo sul bene A e non anche sul bene B”), renderla praticamente inoffensiva (ad esempio attribuendo all’erede la custodia della cosa con diritto di usarne) o, sic et simpliciter, non ammetterla (a mio parere, ma la cosa é discussa, non solo per un difetto del fumus boni iuris, ma anche del periculum in mora).Nel caso poi di separazione “eccessiva” chiesta su immobili, l’erede potrà chiederne la riduzione (in forza degli articoli 2872 e segg – articoli applicabili anche nella nostra materia per il rinvio che, come già detto, fa ad essi il terzo comma dell’art. 518).

Disc. E nel caso di una iscrizione chiesta a tutela di un credito in realtà inesistente?

Doc. Ahimè, in tal caso, l’unico rimedio che l’erede avrebbe, sarebbe la domanda al giudice di disporne la cancellazione (artt. 2882 e segg.).Certo il difetto in subiecta materia di un controllo preventivo (in forme simili a quelle previste per il sequestro conservativo dall’art. 671 c.p.c.), spesso lascerà all’erede, come unica via percorribile per liberare il bene, quella o di pagare il creditore (nel caso ritenga fondato il suo diritto ma solo contesti la necessità di garantirlo con la “separazione) o di dargli cauzione (nel caso invece ritenga infondato il diritto di credito); cosa che gli permette l’articolo 515 recitando “(Cessazione della separazione) – L’erede può impedire o far cessare la separazione pagando i creditori e i legatari, e dando cauzione per il pagamento di quelli il cui diritto é sospeso da condizione o sottoposto a termine, oppure é contestato”.

Disc. Vi é un termine per l’esercizio del diritto di separazione?

Doc. Sì, e risulta dall’art. 516, che recita “Il diritto alla separazione deve essere esercitato entro il termine di tre mesi dall’apertura della successione”.Evidentemente si é ritenuto opportuno porre l’erede in grado di conoscere al più presto quali dei beni ereditari venivano a subire il “vincolo”, per evitare quella paralisi, nella gestione del patrimonio ereditario, che potrebbe aversi qualora egli fosse portato ad astenersi dal trattare l’alienazione di un bene, dal timore che le trattative gli vengano scombussolate da una“separazione” che intervenga nel corso di esse (lui e la controparte stanno trattando sulla base del prezzo X e, la intervenuta separazione, li costringe a rimodulare tale prezzo; chè il bene A, il quale libero si può vendere per cento, “separato” si può ancora vendere, ma per un prezzo minore di cento)

Disc. Da quel che prima hai detto risulta che hanno diritto ad esercitare la separazione sia i creditori sia i legatari.Ora il diritto dei creditori lo capisco: concederlo risponde all’esigenza di rendere più sicuri il commercio e gli scambi: infatti Bianchi, come ogni avveduto uomo di affari, prima di concedere credito a Rossi, sente il bisogno di valutare la garanzia di solvibilità che gli dà il patrimonio di questi (“Rossi ha molti beni e pochi debiti, posso tranquillamente concludere con lui”); e, invece, tale valutazione gli sarebbe ben difficile, se avesse anche da mettere in conto che, morendo il Rossi, a garantire il suo credito, egli potrebbe trovarsi, non più il patrimonio di questi, ma quello di un “chissà chi”, che potrebbe essere con pochissimi beni e moltissimi debiti.Quel che non capisco, invece, é perché concedere il diritto di separazione ai legatari.

Doc. Ed effettivamente, la concessione ai legatari del diritto di esercitare la separazione, non ha fondamento nella tutela delle esigenze del commercio, ma sic et simpliciter, nella tutela della volontà presunta del de cuius: si presume che egli abbia voluto subordinare il soddisfacimento (su i suoi beni) dell’erede, all’integrale soddisfacimento dei legatari: “Tu, caro erede, potrai anche disporre e godere della tal villa che ti ho lasciato, ma solo dopo che Rossi avrà ricevuti quei dieci milioni che gli ho legato”.Però, anche in caso di “separazione”, vale il principio, di cui abbiamo visto applicazione in caso di eredità beneficiata: il diritto del creditore (del de cuius) é poziore rispetto a quello del legatario: in caso di insufficienza del patrimonio

ereditario, prima sarà pagato il creditore del de cuius e solo col residuo sarà pagato il legatario.

Disc. Anche se é un legatario di specie? Metti, Fulano, il de cuius, ha legato a Rossi una collana di perle: può il creditore di Fulano esercitare il diritto di separazione su tale collana.

Doc. Senza dubbio, sì, parla chiaramente in tal senso l’articolo 513, che recita: “I creditori del defunto possono esercitare la separazione anche rispetto ai beni che formano oggetto di legato di specie”. E ciò senza dubbio significa anche che il creditore può vendere la collana del tuo esempio, se ciò é necessario per soddisfarsi integralmente. Cosa giustissima: il testatore può fare tutti i legati che vuole, ma non a spese dei suoi creditori (nemo liberalis nisi liberatus). Però é anche giusto che la volontà del de cuius sia osservata, se ciò non nuoce ai creditori, e che, pertanto, l’oggetto del legato di specie, sia venduto solo dopo che sono stati venduti gli altri beni e, restando ancora insoddisfatti i creditori, la sua vendita si presenti necessaria (arg. ex comma tre art. 499).

Disc. I creditori. che hanno esercitato il diritto di separazione solo rispetto ad alcuni beni del patrimonio ereditario, continuano ad avere il diritto di soddisfarsi sui residui beni (da loro non assoggettati a vincolo)?

Doc. Sì, i creditori, ancorchè separatisti, possono ancora agire sia sui beni dell’erede (in concorso paritario con i creditori di questo) sia sui beni del patrimonio ereditario su cui non hanno esercitato la separazione (ma naturalmente rispetto a tali beni senza godere di un diritto di prelazione, quindi in concorso paritario con i creditori dell’erede). Ciò risulta dal terzo comma dell’art. 512, che recita: “La separazione non impedisce, ai creditori e ai legatari che l’hanno esercitata, di soddisfarsi anche suibeni propri dell’erede”. E la ratio di tale disposizione é evidente: una garanzia deve costituire un beneficio per il “garantito”, non deve trasformarsi, per lui, in un limite, non deve diventare controproducente; e tale invece diventerebbe se, essendosi rivelata o essendo divenuta insufficiente (metti per perimento parziale della res), impedisse al suo “garantito” di soddisfarsi su altro bene o, anche se, essendosi presentata a questo la possibilità di soddisfarsi più rapidamente e agevolmente su altro bene (metti intervenendo in una procedura esecutiva promossa da altro creditore) gli impedisse di coglierla. Questa stessa ratio spiega il comma secondo dell’articolo 512, che recita: “Il diritto alla separazione spetta anche ai creditori o

legatari che hanno altre garanzie sui beni del defunto”.

Disc. Quindi Bianchi, che ha il credito già garantito da un’ipoteca sul bene A, può, nonostante ciò, “separare” a sua ulteriore garanzia un bene B.Ma metti che, sul bene A su cui Bianchi ha ipoteca, un altro creditore, il creditore Rossi, eserciti il diritto di separazione, sul ricavato della vendita, chi di loro avrà diritto di soddisfarsi per primo, Bianchi o Rossi?

Doc. Bianchi, naturalmente; altrimenti si dovrebbe pensare che la morte del debitore viene a privare i suoi creditori delle loro garanzie: perché mai?

Disc. L’esercizio del diritto di separazione spetta a tutti i creditori, ma il suo esercizio dipende dall’iniziativa di ciascuno di loro. Quindi accanto a creditori separatisti possono esserci creditori non separatisti. Come si risolve il concorso tra di loro?

Doc. Per risponderti debbo fare varie ipotesi.Prima ipotesi: L’asse ereditario é dato da due beni, A e B, il primo del valore di 60, il secondo di 30. I creditori sono due, Bianchi, con un credito di 40 e, Rossi, con un credito di 20. Il primo, Bianchi, ha esercitato il diritto di separazione sul bene A; il secondo non ha esercitato nessun diritto di separazione. Orbene, in tale ipotesi nessun problema (dato che il bene A é in grado di soddisfare entrambi i creditori): Bianchi e Rossi concorreranno paritariamente sul bene A.

Disc. E se Negri, creditore, non del de cuius, ma dell’erede, volesse...partecipare al banchetto, soddisfarsi anche lui sul ricavato della vendita di A?

Doc. Lo potrà fare; ma su di lui avrà prelazione Rossi, anche se non separatista.

Disc. Fai ora l’ipotesi che il bene A (non abbia il valore di 60 ma di trenta, per cui) non sia sufficiente a soddisfare né il Bianchi né il Rossi, che succede?

Doc. In tal caso bisogna distinguere il caso che il bene B, per cui nessuno ha pensato di chiedere la separazione, fosse in grado di soddisfare integralmente il Rossi (in genere i creditori non separatisti) e il caso che invece a ciò non fosse in grado.Per la prima ipotesi, provvede il primo comma dell’articolo 514, che recita: “I creditori e i legatari, che hanno esercitato la separazione hanno diritto di soddisfarsisui beni separati a preferenza dei creditori e dei legatari che non l’hanno esercitata,

quando il valore della parte di patrimonio non separata sarebbe stato sufficiente a soddisfare i creditori e i legatari non separatisti”.

Disc. Soluzione più che giusta: diligentibus iura succurrunt: peggio per il Rossi (imputet sibi) se, potendo adeguatamente garantirsi, non l’ha fatto.Ma mettiamoci nel caso che la separazione sia stata esercita da Bianchi, creditore per 30, sia su A (il cui valore é 20) sia su B il cui valore é 15: Rossi, creditore per 20, che non ha esercitato il diritto di separazione, ha o no diritto a soddisfarsi in concorso con Bianchi sul ricavato della vendita di A e di B?

Doc. Sì, ti risponde l’incipit del secondo comma dell’articolo 514, che recita “Fuori di questo caso (cioé del caso che vi fossero stati beni non separati capaci di soddisfare integralmente anche i creditori che non hanno esercitato il diritto di separazione), i creditori e i legatari non separatisti possono concorrere con coloro che hanno esercitata la separazione (…)”.

Disc. Quindi il nostro Rossi potrà concorrere paritariamente con il Bianchi. E lo trovo giustissimo: infatti nessuna colpa può essergli addebitata, dal momento che, anche volendo, non avrebbe potuto esercitare il diritto di separazione su nessuno bene.Identica soluzione penso dovrà accogliersi nel caso il Bianchi abbia separato il bene A e il Rossi abbia separato il bene B.

Doc. Non lo dice esplicitamente il legislatore, ma lo dice la logica; dato che anche in questo caso non si saprebbe che colpa addebitare al Rossi.

Disc. Veniamo invece a un caso in cui nuovamente una colpa, al creditore separatista, può addebitarsi. Il caso può essere questo: L’asse ereditario é dato da A, del valore di 30, e da B, del valore di 10. Bianchi, creditore per 30, ha esercitato il diritto si separazione solo sul bene A; Rossi, creditore anche lui di 30, non ha esercitato per nulla il diritto di separazione.Quale soluzione dà il legislatore a tale caso?

Doc. Quella che ti risulta dalla seconda parte del secondo comma dell’articolo 514 – comma che di seguito riportiamo (integralmente, cioè compreso l’incipit già sopra citato): “Fuori di questo caso, i creditori e i legatari non separatisti possono concorrere con coloro che hanno esercitato la separazione; ma, se parte del patrimonio non é stata separata, il valore di questa si aggiunge al prezzo dei beni

separati per determinare quanto spetterebbe a ciascuno dei concorrenti e quindi si considera come attribuito integralmente ai creditori e ai legatari non separatisti”.

Disc. Abacadabra!

Doc. Sì, é un po’ difficile comprendere a tutta prima quel che vuol dire il legislatore. Io cercherò di chiarirtelo, indicandoti, con riferimento all’esempio prima fatto, leoperazioni che il legislatore vuole che siano compiute.Prima operazione: fittiziamente si sommano i valori di A e di B: il risultato é 40.Seconda operazione: si determinano le quote che sarebbero spettate a Bianchi e a Rossi, se avessero concorso paritariamente nella divisione del ricavato (melius, di quanto si sarebbe potuto ricavare) dalla vendita di A e di B: il risultato é che a Bianchi sarebbe spettato 20 e a Rossi ancora 20.Terza e ultima operazione: si imputa alla quota di Rossi, quanto si sarebbe potuto ricavare dalla vendita di B (che, ricordo, é il bene per cui Rossi non si é preoccupato di chiedere la separazione): il risultato é 10 (20 – 10 = 10); al Bianchi, invece, si attribuisce la somma data, dal ricavato della vendita di A, detratto da esso quanto deve essere dato a Rossi: il risultato é 20 (30 prezzo ricavato da A – 10 somma che va data a Rossi = 20).

Disc. Ciò significa che Rossi, il creditore negligente, prende qualche cosa del prezzo ricavato dalla vendita di A, a scapito del creditore diligente Bianchi (che vede diminuita la quota a lui spettante da 30 a 20): non mi pare giusto!|

Doc. E, come non pare giusto a te, non pare giusto a molti Studiosi della materia. Sed hoc iure utimur.

Disc. Ma come si spiega una disposizione così “strana”?

Doc. Secondo me si spiega così. Il Legislatore é partito dalla considerazione che vi sono dei casi in cui, l’inerzia del creditore non separatista (il Rossi del nostro esempio), si può giustificare col fatto, che, tanto piccolo era il valore dei beni, ancora possibile oggetto della separazione, che non sarebbe valsa la pena di spendere tempo e soldi per ottenerla. “Certo - ha poi ragionato – bisognerebbe distinguere questi casi da quelli in cui sarebbe, invece, valsa la pena di esercitare il diritto di separazione: ma quale criterio adottare per distinguere questi casi dagli altri?”. E, non avendo trovata un soddisfacente soluzione al busillis, ha fatto...di ogni erba un fascio. Può capitare,

non tiriamogli le pietre addosso.

Lezione VI: Petitio hereditatis

Doc. La “petizione di eredità” é un’azione sconosciuta a molti Ordinamenti giuridici. Accolta nel nostro dopo molte perplessità, non pochi Studiosi la ritengono pleonastica, in quanto i poteri, che pretenderebbe attribuire all’erede, già da altre norme o dai principi gli sarebbero conferiti.

Disc. Io penso però che nell’interpretare una norma si debba partire dal presupposto che, chi l’ha scritta, sano di mente, non si sia sobbarcato alla fatica assurda di dire cose inutili e superflue.

Doc. Così la penso anch’io. E in base a tale presupposto interpreteremo l’articolo 533, che tale azione istituisce recitando:“L’erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi.L’azione é imprescrittibile, salvi gli effetti della usucapione rispetto ai singoli beni.”

Disc., Quindi,sussistendo alcuni “elementi”, l’erede può ottenere la restituzione dei beni ereditari (da chi li possegga).Ma quali sono tali “elementi”.

Doc. Due di essi sono chiari: la “qualità di erede”, del richiedente la restituzione; la qualità di beni ereditari, che debbono avere i beni di cui si chiede la restituzione.Altri due elementi, si possono ricavare indirettamente, da certi termini che appaiono nella formula legislativa. E così, dal termine “restituzione” (l’erede può chiedere la restituzione ecc), si può ricavare, che deve trattarsi di beni, che precedentemente il convenuto aveva “presi” dal patrimonio del de cuius (si restituisce infatti quel che si é prima preso); e dal termine “possiede” (l’erede può agire “contro chiunque possiede), si può ricavare (salva la possibilità di un’interpretazione estensiva, di cui diremo in seguito), che i beni di cui si chiede la restituzione debbono essere suscettibili di possesso.

Disc.Che cosa si intende per “beni ereditari”?

Doc. Questo é un busillis. I nostri Giudici ritengono di scioglierlo dicendo che, per ottenere la “restituzione dei beni”, chi agisce deve provare, non solo la sua “qualità di erede”, ma anche che i beni richiesti rientravano nel “compendio ereditario”. Ma quand’é che si può dire che un bene “rientra nel compendio ereditario”? Si tratta chiaramente di formula vaga, che inutilmente cerca di colmare una lacuna legislativa.

Disc. Non si potrebbe dire che, rientra nel “compendio ereditario”, ogni bene che sia stato in possesso del defunto?

Doc. Si può dire, ma il busillis resta. Fulano é morto nel 2013, e nel 1999 era nel possesso del fondo Corneliano: il suo erede può basarsi su questo possesso lontanissimo per chiedere a Rossi, che ora é nel possesso di tale fondo, di fargliene consegna? Direi proprio di no!

Disc. Si potrebbe meglio precisare il concetto, dicendo che il bene, a che possa essere ritenuto rientrante nel “compendio ereditario”, deve essere stato in possesso del defunto al momento della sua morte.

Doc. A prescindere che ciò non é scritto nella norma - (ma, bada, non ti sto facendo per questo un appunto: anch’io, lo vedrai, mi permetterò delle “interpretazioni eccessive”: queste sono inevitabili, quando la norma é eccessivamente lacunosa, come lo é l’art. 533!) - ciò porterebbe a soluzioni assurde: Fulano é morto il 15 Agosto 2013; egli fino al 15 marzo 2013 (cioé a fino a cinque mesi prima della sua morte) era stato nel possesso del fondo Corneliano, e poi ne era stato spogliato da certo Rossi: vuoi negare al suo erede, Bianchi, il potere di chiedere la restituzione di tale bene (perché più non risultava nel possesso del de cuius alla sua morte)? Sarebbe assurdo!E bada, la questione, del momento in cui deve essere esistito il possesso del bene da parte del defunto, non é la sola che l’articolo 533 lascia insoluta. Altre, e non poche, ne vedremo nel proseguo del nostro studio.Orbene, io ritengo che, a tutte queste questioni, l’interprete debba dare una risposta ispirata alla considerazione, che il legislatore, con l’art. 533, si propone, non certo di ostacolare, ma di agevolare l’erede nella difesa del patrimonio ereditario.

Disc. Perché il legislatore dovrebbe far questo?

Doc. Perché il patrimonio di Fulano, il de cuius, alla morte di questi entra in una fase

critica, di “minorata difesa”.

Disc. Perché mai?

Doc. Ma perché, per pochi o tanti giorni, morto Fulano, é probabile che nessuno sia in grado di convenientemente vigilarlo e custodirlo. Sì, lo abbiamo visto, al chiamato all’eredità, non mancano i poteri per vigilare e custodire. Ma per ben vigilare e custodire un patrimonio bisogna sapere quali beni lo compongono, quali i diritti che Fulano aveva su tali beni (era proprietario, usufruttuario, locatario...?), quali diritti su tali beni Fulano aveva concessi a terzi (“Il Rossi, che vedo abitare nella casa del povero zio Fulano, é una persona a cui lo Zio aveva dato in locazione l’appartamento o é un abusivo?”). Ora tutte queste cose, al momento dell’apertura della successione(al momento della morte di Fulano), il chiamato all’eredità non le sa: le apprenderà sì, ma a poco a poco consultando le carte del de cuius.

Disc. E allora?

Doc. Allora, il legislatore viene in soccorso dell’erede in difficoltà con l’art. 533, che, in buona sostanza, potenzia i diritti già previsti dall’Ordinamento a difesa del patrimonio, correggendo o tout court eliminando quegli elementi che li limitano o li condizionano - purchè, ben s’intenda, tali elementi, giusti e opportuni in situazioni normali, divengono ingiusti nelle situazione anomala in cui si trova l’erede.

Disc. Ad esempio?

Doc. L’esempio classico é dato dalle azioni possessorie. Il termine di un anno concesso per esperire l’azione possessoria é già maturato al momento in cui tu, erede, hai accettato l’eredità? Poco importa, tu puoi agire, per il recupero del possesso, lo stesso. Il possesso del de cuius non aveva raggiunto l’anno (quell’anno a cui il comma due dell’art. 1170 subordina l’esercizio dell’azione di manutenzione)? Non importa,tu, erede, puoi agire lo stesso. Di più, dato che Rossi, l’attuale possessore, ha preso possesso del bene dopo la morte del de cuius, mancherebbe per agire il presupposto dello “spoglio”, anche di quello spoglio senza violenza e clandestinità, che é pur sempre necessario per recuperare il bene ai sensi del comma 2 art. 1170? Non importa tu, erede, hai diritto, ciò nonostante, di recuperare, di tale bene, il possesso.

Disc. Capisco il tuo ragionamento; ma, permettimi di aprire una parentesi nel tuo ragionare, perché dici che manca lo spoglio nel caso del Rossi, che prende possesso del bene dopo la morte del de cuius?

Disc. Perché lo spoglio, anche lo spoglio non violento e clandestino di cui all’art. 1170, richiede pur sempre una presa di possesso da parte del terzo (lo spoliator) senza soluzione di continuità, senza un iato con un precedente possesso (quello dello spoliatus). Ora il terzo, che prende possesso del bene A, dopo la morte del de cuius e quando l’erede non ha ancora preso, di tale bene, possesso, non subentra con continuità a nessunissimo possesso: non a quello del de cuius (da cui lo separa uno iato) e non a quello dell’erede che....non é mai cominciato (non a caso l’art. 460 concede, al chiamato all’eredità, l’esercizio delle azioni possessorie “senza bisogno di materiale apprensione” – e ciò che l’art. 460 concede al “chiamato”, l’art. 533 lo concede all’erede).

Disc. Ma fino a che punto giunge, la benevolenza, diciamo così, del legislatore verso l’erede? Metti,, Fulano ha subito lo spoglio nel marzo 2013 ed é morto nel 2015 senza esercitare l’azione di reintegra (per cui al momento della sua morte ne era decaduto), può Bianchi, il suo erede, esercitarla? O, per fare un altro esempio, Rossi ha maturati i venti anni previsti, dall’art. 1158, per l’usucapione, senza che Fulano provvedesse a interromperla: può il Bianchi interromperla?

Doc. Certamente, no. In tal casi, infatti, alla morte di Fulano, il patrimonio ereditario aveva già perduto, nel primo, il potere di esercitare l’azione di reintegra, nel secondo, la proprietà del bene: concedere all’erede di agire, per la reintegra o per la interruzione, non comporterebbe un’agevolazione dell’erede nella “difesa” del patrimonio ereditario, cioé in un’attività diretta a impedirne l’impoverimento, bensì un’agevolazione in un’attività diretta ad attuarne un arricchimento (con i beni già perduti).

Disc. Portando alle estreme conseguenze logiche la tua affermazione – l’affermazione, cioé, che l’art. 533 si innesta su diritti già previsti dall’Ordinamento e solo per privarli degli elementi, che verrebbero ad ostacolare la difesa del patrimonio ereditario (in quanto non giustificati, beninteso, dalla situazione anomala ecc. ecc.) - mi pare che si dovrebbe concludere che, come nelle azioni possessorie, anche nella petitio hereditatis, il giudice deve far applicazione del principio spoliatus ante omenia restituendus (che non ostacola, ma agevola l’erede): il convenuto eccepisce

che é nel possesso del bene in quanto titolare di un diritto reale sullo stesso (o perché l’ha ricevuto in comodato, in locazione....)? Tu, giudice, non devi esaminare la fondatezza di tale eccezione: essa é irrilevante: prima, il bene va restituito all’erede,e, poi, tu, convenuto, potrai agire per far valere il tuo (preteso) diritto. Ho capito bene?

Doc. Tu hai capito bene. Ma sono i nostri Giudici che non hanno capito la natura e la funzione dell’art. 533. Essi, infatti, nel caso il convenuto (in una petitio hereditatis) sollevi, metti, la eccezione di aver usucapito il bene ereditario, ritengono di dover scendere all’esame della fondatezza di tale eccezione, col risultato che, se risulta loro fondata, respingono la domanda, condannando naturalmente l’attore alle spese. E ciò, é ovvio, rappresenta una remora e un ostacolo all’azione, per l’erede, dato che questi – che non é in grado di ricostruire la “storia” di ciascun bene ereditario (i suoi fatti costitutivi, impeditivi, estintivi...) - ha da temere di fare, iniziando la petitio...un salto nel buio: egli, infatti, non é in grado di prevedere le eccezioni, che il convenuto potrebbe opporgli e, quindi, il rischio di soccombenza.

Disc. Da come tu interpreti la funzione dell’articolo 533, si dovrebbe dedurre che l’erede possa agire con la petitio hereditatis anche per far valere un credito, che, in base agli artt. 2946 e segg, dovrebbe invece ritenersi (dopo la morte del de cuius) estinto.

Doc. Ed é così: io (e non solo io: ti vengo ad esporre un’opinione, che ha larghi consensi e che era accettata anche nel diritto romano) non vedo perché l’erede possa agire, per richiedere la reintegra, anche se é passato un anno dallo spoglio, e non possa, invece, agire, per chiedere il pagamento di una somma dovuta al de cuius, se sono passati gli anni di prescrizione previsti dagli articoli 2946 e segg.

Disc. Ma non é ingiusto esporre il debitore al rischio dell’esercizio di un diritto, che non si prescrive mai. Infatti, dal secondo comma dell’art. 533, risulta chiaramente che la azione di petizione di eredità é “imprescrittibile”.

Doc. Sulla imprescrittibilità di tale azione bisogna intendersi: essa é imprescrittibile,sì, ma nello stesso senso che lo é il diritto di proprietà. Tu, proprietario del bene A, puoi rivendicarne la proprietà senza limiti di tempo, se nessuno, tale tuo bene A, ha usucapito (metti, perché Fulano I, che ne era al possesso, dopo 19 anni che l’ha esercitato, se ne é stufato e se ne é andato, FulanoII, che gli é succeduto nel possesso, anche lui dopo un pò di tempo ha sbaraccato, e così via).

Però, la tua rivendica del diritto di proprietà contro Fulano I, cozza contro un muro, se questi, perseverando nel possesso, ha usucapito il bene. Lo stesso può ripetersi per la petitio hereditatis: tu puoi esercitarla anche dopo cento anni, ma se l’eserciti per far valere un credito contro Fulano I, nei cui riguardi il credito é prescritto, la tua domanda andrà rigettata; e similmente andrà rigettata, se l’eserciti per recuperare il possesso di un bene, da cui il de cuius o tu stesso siete stati spogliati, quando é già maturato il tempo, che porta alla decadenza da tale azione.

Doc. Quindi tu ritieni, per riferirci al secondo degli esempi da te fatti, che vi é un termine di decadenza anche per la petitio volta a recuperare un bene, da cui il de cuius o l’erede stesso sia stato spogliato.

Doc. Certo che lo ritengo. Ingiusto, sì, sarebbe far decorrere il termine di decadenza dal verificarsi dallo spoglio; ma una volta che l’erede ha accettata l’eredità, una volta che si trova in grado di ben informarsi sulla situazione dei beni ereditati, diventa giusto porgli un termine per agire.

Disc. E quale sarebbe tale termine?

Doc. Qui dovrebbero probabilmente farsi dei “distinguo”, a seconda che si tratti di termine di decadenza o di prescrizione, a seconda che si tratti di prescrizione acquisitiva o estintiva, ma grosso modo possiamo dire, che dovrebbe essere un termine pari a quello stabilito per la prescrizione del credito o la decadenza dall’azione, diciamo così, “di base” (per l’azione di reintegra per intenderci, per il diritto di credito a quella data somma, per intenderci..); e che tale termine dovrebbe essere fatto decorrere dall’accettazione dell’eredità.

Disc. L’erede é costretto a esercitare la petitio hereditatis, anche se già, in base ad un’altra norma, sia in grado di tutelare soddisfacentemente i suoi diritti sull’eredità? Mi spiego meglio: Fulano, che é stato spogliato di un bene ereditario, é costretto, per recuperarne il possesso, ad esercitare la petitio, anche se egli potrebbe tranquillamente agire, in base all’art. 1168, con una normale azione di reintegra (dato che vi é stato uno spoglio violento, dato che non é passato un anno da tale spoglio ecc. ecc.)

Doc. Chiaramente, sì: ripeto, con l’articolo 533, il legislatore non ha inteso privare l’erede delle normali difese, ne ha voluto solo aggiungere delle altre.

Disc. Poniamoci, ora, nel caso che un certo signor Rossi, senza essere nel possesso di nessun bene ereditario, reclami per sé la qualità di erede: “Erede di Fulano sono io, Rossi, e non tu, Bianchi”. Può il Bianchi, che (a torto o a ragione) si ritiene erede, agire per ottenere una sentenza, che dichiari che il Rossi non é erede, che erede é lui, Bianchi, e non il Rossi?

Doc. Certamente, può esercitare l’actio negatoria, prevista dall’art. 949, che recita:“Il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio (…)”.

Disc. Però potrebbe darsi il caso che il Rossi, affermi, sì, di essere erede, ma non vanti un diritto di proprietà su nessun preciso bene facente parte del patrimonio ereditario.

Doc. A me sembra, che l’articolo 949 possa senz’altro interpretarsi, nel senso che l’azione negatoria é esercitabile anche quando un terzo indirettamente si afferma proprietario su un bene. E certamente il Rossi, dichiarandosi erede, indirettamente si afferma proprietario dei beni componenti l’asse ereditario (col risultato, che il legislatore vuole evitare, che i potenziali acquirenti di tali beni potrebbero astenersi dall’acquistarli).

Disc. Mettiamo allora, per porre più chiaramente la questione, che nell’asse ereditario non esistano beni, che possano essere oggetto di un qualche diritto reale: esistono solo diritti di credito; o, addirittura, non esiste nessun bene: l’eredità é come una scatola vuota.

Doc. Capisco. Ebbene, io riterrei che, anche in questo caso, il Bianchi possa agire per ottenere una sentenza, che dichiari la sua qualità di erede. Questo, però, non in forza dell’art. 533 (che dà, sì, al Bianchi, il potere di chiedere “il riconoscimento della sua qualità di erede”, ma unicamente “allo scopo di ottenere la restituzione” di beni ereditari), ma in forza dei principi del diritto processuale civile.

Disc. Però, la questione sulla “qualità di erede” dell’attore, si porrà inevitabilmente, se pure non come questione principale, come “questione pregiudiziale”, anche in una causa di petizione di eredità: il giudice di questa dovrà decidere obbligatoriamente tale questione con efficacia di giudicato?

Doc. A me sembra che, una giusta interpretazione dell’articolo 34 c.p.c., comporti l’obbligo per il giudice, di decidere con efficacia di giudicato la questione sulla “qualità di erede”, solo quando le parti esplicitamente di ciò lo richiedono.

Disc. A questo punto dobbiamo affrettare il passo e metterci a parlare dell’art. 534, che recita:“(Diritti dei terzi) – L’erede può agire anche contro gli aventi causa da chi possiede a titolo di erede o senza titolo.Sono salvi i diritti acquistati, per effetto di convenzioni a titolo oneroso con l’erede apparente, dai terzi i quali provino di avere contrattato in buona fede.La disposizione del comma precedente non si applica ai beni immobili e ai beni mobili iscritti nei pubblici registri, se l’acquisto a titolo di erede e l’acquisto dall’erede apparente non sono stati trascritti anteriormente alla trascrizione dell’acquisto da parte dell’erede o del legatario vero, o alla trascrizione della domanda giudiziale contro l’erede apparente”.Dico subito che a me, il primo comma dell’articolo riportato, sembra veramente inutile. Infatti i casi sono due, o l’avente causa é nel possesso dei beni ereditari, e allora nessuno potrebbe dubitare che la petitio hereditatis contro di lui possa essere promossa, o non lo é, e allora, dal momento che la petitio può essere esercitata solo a fine recuperatorio di tali beni, nessuno può dubitare che essa.... non sia esperibile.

Doc. No, sbagli. Proprio per dare un senso a tale comma, bisogna interpretarlo come se, derogando in parte all’articolo 533, permetta al vero erede di agire, contro l’avente causa dal possessore dei beni a titolo di erede o senza titolo, anche se non chiede la restituzione dei beni ereditari, ma agisce solo per farsi riconoscere il diritto al loro possesso e l’inopponibilità nei suoi confronti dei diritti acquistati su di essi (dal convenuto).

Disc. Ma quand’é che il convenuto non può opporre al vero erede i diritti acquistati dal possessore.

Doc. Te lo dicono il secondo e il terzo comma sopra riportati.Il secondo comma esclude l’opponibilità dei diritti acquistati (dal convenuto), quando: 1) l’acquisto é stato fatto dal possessore senza titolo (possessor pro possessore); 2) o anche dal possessor pro herede, ma in tale caso é stato fatto in mala fede (cioé sapendo che il dante causa non era erede, nulla importando che

l’acquirente, ciò nonostante, lo ritenesse il vero proprietario dei beni acquistati) o anche in buona fede, cioé ritenendo per errore il dante causa vero erede, se tale errore é dipeso da colpa grave (arg ex co.3 art. 535).Ancora dal secondo comma, risulta (implicitamente) che per il legislatore deve ritenersi sempre dovuto a colpa grave, l’errore di chi ha acquistato, sì, da un possessor pro herede, ma non da un “erede apparente” - dovendosi intendere per erede “apparente” chi, non solamente si dichiara erede all’acquirente, ma non ha remore ad “apparire” come tale, spendendo il titolo di erede in pubblico (e senza che nessuno, sempre in pubblico, apertis verbis, glielo contesti).

Disc. Direi che anche il terzo comma si basa su una presunzione (assoluta) di colpa grave: “Tu, Rossi, che hai acquistato quel tale immobile (o quella tale automobile), ancorché in buona fede, non puoi opporre il tuo acquisto al vero erede, dal momento che, se prima di effettuarlo avessi fatta una visura dei registri immobiliari, vi avresti visti trascritti degli atti (l’atto di accettazione dell’eredità, di cui all’art.2648 o la domanda con cui “si contesta il fondamento di un acquisto a causa di morte”, di cui al n. 7 art.2652), che ti avrebbero dovuto mettere sull’avviso che forse stavi comprando da chi, erede vero, non era.

Doc. Il tuo ragionamento sarebbe giusto se il legislatore escludesse, l’opponibilità dell’acquisto, solo qualora questo fosse stato fatto quando già nei registri immobiliari gli atti che tu dici (l’accettazione dell’eredità da parte di un terzo ecc) erano trascritti; invece il legislatore esclude tale opponibilità anche quando, al momento dell’acquisto, tali atti (che avrebbero dovuto porre sull’avviso l’acquirente) non erano ancora trascritti, bastandogli, per la inopponibilità dell’atto di acquisto (del convenuto), la sua trascrizione dopo che già era avvenuta quella degli atti de quibus (idest, dell’atto di accettazione di un terzo ecc.). Pertanto io riterrei che, l’inopponibilità dell’atto di acquisto (del convenuto), si basa sic et simpliciter sui principi che reggono la disciplina delle trascrizioni.

Disc. Quel che dispongono i commi due e tre dell’articolo 534 vale, sia nel caso che Rossi, l’avente causa, non abbia acquisito (dal suo dante causa) il possesso del bene sia anche nel caso lo abbia acquisito?

Doc. Naturalmente,sì.

Disc. Allora, però, non capisco il perché Rossi, che acquista il bene A da Fulano, che

non é erede, nè appare erede, però appare proprietario di A, non dovrebbe acquisire la proprietà di A, quando sussistano tutti i requisiti voluti dall’articolo 1153 per un (valido) acquisto a non domino (possesso, buona fede, titolo idoneo ecc); tanto meno capisco, il perché Rossi non acquisti validamente, se Fulano, pur non essendo né l’erede né l’apparente erede, é però il vero proprietario del bene.

Doc. Non é che Rossi non acquista validamente. Semplicemente egli non può opporre il suo acquisto all’erede vero, al fine di rifiutargli il possesso dei beni ereditari. Una volta trasmessogli tale possesso (in base al principio spoliatus ante omnia restituendus), nessuno gli impedirà di rivendicare la proprietà del bene acquistato (da Fulano). E con ciò veramente chiudiamo sull’argomento.

Lezione VII: Rappresentazione – Accrescimento – Sostituzione.

Disc. Mettiamo che il de cuius abbia disposto col suo testamento per una sola parte del suo patrimonio. L’altra parte con che criteri viene attribuita?

Doc. Con i criteri che danno gli articolo 565 e segg., che disciplinano la c.d. “successione legittima”.

Disc. In tal caso verranno per così dire a coesistere una successione testamentaria e una successione legittima.

Doc. Cosa prevista dal legislatore nel secondo comma dell’art. 457, che recita: “Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria.Certo prima di ammettere una successione legittima parziale bisogna bene verificare che il testatore abbia disposto solo parzialmente del suo patrimonio. Il che si dovrebbe ritenere nel caso nella scheda testamentaria fosse solo scritto “Lascio un terzo dei miei beni a Fulano I e un terzo dei miei beni a Fulano II” e poi...stop. Mentre invece la cosa sarebbe dubbia, nel caso avesse proceduto a due istituzioni ex re certa: “Lascio, le mie due case di via Roma, a Fulano I, e, le mie due case di via Garibaldi, a Fulano II” - nulla dicendo sugli altri suoi beni. In tal caso infatti si potrebbe pensare, sia che il testatore non abbia voluto attribuire gli altri suoi beni né a Fulano I nè a Fulano II, sia che abbia voluto lasciare tutto il suo patrimonio metà a Fulano I e metà a Fulano II, procedendo poi a una divisione (quella divisione del testatore di cui parla l’art.734) solo parziale.

Disc. E tale dubbio come andrebbe risolto?.

Doc. Col criterio che, se non risulta “una diversa volontà del testatore” (e a mio parere questa diversa volontà deve risultare e chiaramente dalla scheda testamentaria), i beni non contemplati in questa, vanno attribuiti in base alle norme disciplinanti la successione legittima; giusta il disposto dell’articolo 734, già citato, il quale recita: “Se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alla legge, se non risulta una diversa volontà del testatore”.

Disc. Quindi, se nella scheda c’è scritto “Lascio metà del mio patrimonio a Fulano I e l’altra metà a Fulano II”, e poi ancora “L’appartamento di via Roma lo lascio a Fulano I, quello di via Garibaldi a Fulano II” - che si fa?

Doc. Si fa, che si attribuiscono i residui beni metà a Fulano I e metà a Fulano II, cioé si fa una successione testamentaria: forse che non risulta chiaro nel caso la volontà del testatore di non lasciar spazio alla successione legittima?!

Disc- Mettiamoci ora nel caso che chiamati all’eredità siano A, B, C.; e che C non possa accettare l’eredità (metti perché premorto, o perché “indegno” ai sensi dell’art. 463, o perché si é prescritto il suo diritto di accettare....) oppure semplicemente abbia manifestata (nelle forme volute dalla legge) la volontà di non accettarla – poco importa se questa volontà sia revocabile (come in caso di rinuncia – art.525) o no (come in caso di mancata risposta all’actio interrogatoria di cui all’art.481): che succede? la porzione ereditaria spettante a C si attribuisce in base alle norme sulla successione legittima (per cui, in mancanza di coniuge e di ascendenti di Fulano, in prima battuta, saranno chiamati a dividersi tale porzione, i suoi – idest, del de cuius, Fulano - figli, in seconda battuta, i suoi fratelli, in terza i suoi cugini)?

Doc. Può succedere anche questo, ma non é detto che succeda. Prima di tutto va premesso che, nella porzione di C, può accadere che non...succeda nessuno: é il caso questo in cui la “porzione” da attribuire consista “in un legato di usufrutto o di altro diritto di natura personale” (é chiaro che se, per legge o per volontà del de cuius, il diritto, oggetto della devoluzione, é destinato a estinguersi alla morte del chiamato all’eredità, ciò implica che se questi premuore al de cuius, il diritto non.. .c’é più al momento dell’apertura della successione e quindi é assurda la sua attribuzione a chi

che sia – vedi melius, comma due art. 519 e co. 2 art. 678).Tanto premesso, c’é da dire che, la attribuzione della “porzione” di C a coloro che sarebbero chiamati alla successione legittima, é, per il legislatore, un po’ come una extrema ratio. Infatti: (I) in prima battuta, il legislatore attribuisce la porzione a colui (o a coloro) che il testatore (qui ci si deve mettere nell’eventualità che la successione sia in tutto o in parte testamentaria) ha chiamato all’eredità, per il caso che C non possa o non voglia accettarla; (II) in seconda battuta, l’attribuisce a coloro che sarebbero i “rappresentanti” di C in base al fenomeno (giuridico) della c.d. “rappresentazione”; (III) in terza battuta, l’attribuisce a coloro che hanno, sussistendo le condizioni che poi vedremo, un “diritto di accrescimento”; (IV)se anche questo non é possibile, l’attribuisce a coloro che sarebbero stati chiamati a una successione legittima (v. art. 677)

Disc. Quindi, e mi riferisco a quanto detto da te sub I, il de cuius può nominare un “sostituto”?

Doc. Sì, prevede tale possibilità l’articolo 688, che recita: “Casi di sostituzione ordinaria) – Il testatore può sostituire all’erede istituito altra persona per il caso che il primo non possa o non voglia accettare l’eredità”.Tieni presente che la sostituzione di C con altra persona (per il caso che C non possa ecc.ecc.) può avvenire anche indirettamente: il testatore, esclude dall’eredità i “rappresentanti” (di cui ho detto sub II) ed é come nominasse sostituto di C i “chiamati” che hanno diritto all’accrescimento (come ho detto sub III); esclude i primi e i secondi, ed é come nominasse sostituti i chiamati alla successione legittima.

Disc. - Ma questa sostituzione “indiretta” é ammissibile?

Doc. Perché no? Ed é da ritenersi che non a caso il legislatore nel secondo comma dell’art. 467, escluda la “rappresentazione” (non semplicemente quando il testatore non ha nominato un sostituto, ma) “quando il testatore...non ha provveduto per il caso in cui l’istituito non possa o non voglia” ecc.

Disc. Parliamo dunque della “.rappresentazione”

Doc. Essa é disciplinata negli artt. 467 e segg.E’ l’articolo 467 (nel suo primo comma) a darci la nozione di “rappresentazione”

Disc. Quindi riportiamolo (per comodità dello studioso, nella sua integralità):Art. 467: “(Nozione)- La rappresentazione fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado del loro ascendente, in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare l’eredità o il legato.Si ha rappresentazione nella successione testamentaria quando il testatore non ha provveduto per il caso in cui l’istituito non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato, e sempre che non si tratti di legato di usufrutto o di altro diritto di natura personale”.Cosa significa che la rappresentazione fa “subentrare” i discendenti “nel luogo e nel grado del loro ascendente”?

Doc. Te lo spiego con un esempio: Fulano chiama all’eredità A,B,C ciascuno per un terzo. C rinuncia: i suoi figli C2, C3, subentrano “nel luogo” del loro padre C, nel senso che anche loro hanno diritto a un terzo dell’eredità. A un terzo e non di più (idest, non é che ciascuno dei due ha diritto a un terzo: hanno diritto a un terzo tutti e due insieme).

Disc. Quindi la successione per rappresentazione non nuoce ad A e a B.

Doc. La successione per rappresentazione di C1 e C2, non solo non viene a nuocere ad A e a B nel senso che in seguito a questa essi non vedranno diminuita la quota loro spettante, ma anche nel senso che i subentranti C1 e C2 avranno, sì, diritto di chiedere ad A e a B la divisione dei beni che con questi hanno in comune, ma non possono coinvolgerli nella divisione dei beni a loro esclusivamente spettanti (come successori di C): essi debbono dividere tali beni con una autonoma divisione.

Disc. In che senso C1 e C2 debbono dividere il terzo loro spettante con “autonoma divisione”?

Doc. In un doppio senso: nel senso che le spese relative ricadranno solo su C1 e C2 e nel senso che questa divisione, meglio “suddivisione”, non potrà ritardare e intralciare la divisione dei beni che essi hanno in comune con A e con B. Tanto vuol dire il terzo comma dell’articolo 469, recitando: “Quando vi é rappresentazione, la divisione si fa per stirpi”.

Disc. E a che si vuol riferire il legislatore quando parla di “grado” (i discendenti subentrano “nel luogo e grado)?

Doc. Ai “gradi” della successione legittima; che però nel discorso che stiamo facendo c’entrano....come i cavoli a merenda: puoi dimenticare tale riferimento: é inutile.

Disc. A conclusione di tutto questo nostro discorso, fammi vedere se ho capito bene: Fulano ha nel suo testamento nominato eredi i suoi due figli, Alberto e Luca, e poi ha legato la sua villa al mare a Mario, il compagno del tempo di guerra, a cui lo legano tanti ricordi; se questi gli premuore, gli subentrerà nel legato Marietto, suo figlio (idest, figlio di Mario) e a lui spetterà la villa.

Doc. No, non é così: nel caso la villa andrà ai successori legittimi del de cuius, Alberto e Luca. Infatti il legislatore, pone dei limiti alla successione per “rappresentazione.

Disc. Perché questo?

Doc. Perché la successione per rappresentazione aumenta il numero dei successibili e quindi aumenta, sia le difficoltà nella gestione della comunione dei beni ereditari e nella loro divisione, sia la frammentazione (antieconomica) dei beni ereditari. In considerazione di tali inconvenienti, il legislatore ammette la successione per “rappresentazione” solo nei limitati casi in cui, il subentro del discendente all’ascendente (che non può o non vuole accettare), corrisponde con alta probabilità ai desiderata del defunto.Il che non é certo nel caso da te esemplificato: i “ricordi” che legano Fulano, il de cuius, al commilitone Mario, non lo legano ai discendenti di questo; per cui é ben da pensare che, nella scelta tra questi e persone del suo stesso sangue, avrebbe preferito (come eredi) queste ultime. In buona sostanza, nel caso dell’esempio da te fatto, si può dire (tenendo presente quel che abbiamo detto nella prima lezione, cioé che la scelta dei parenti come successibili é fatta in base a una fictio mascherata da presunzione), che, negando la rappresentazione, il legislatore vuole operare a tutela della famiglia

Disc. Ma il limite di cui ora mi hai detto da che articolo risulta?

Doc. Dall’ 468, che recita: “(Soggetti) - La rappresentazione ha luogo, nella linea retta, a favore dei discendenti dei figli del defunto,e nella linea collaterale, a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto.

I discendenti possono succedere per rappresentazione anche se hanno rinunziato all’eredità della persona in luogo della quale subentrano, o sono incapaci o indegni di succedere a questa”.

Disc. Fai qualche esempio di successione per rappresentazione.

Doc. Esempio di rappresentazione in linea retta: Fulano morendo lascia tre figli: A, B, C. Il figlio C premuore lasciando il figlio C1; che pure lui premuore lasciando i figli CIbis e CIter. In questo caso CIbis e CIter, nipoti del primo chiamato all’eredità impossibilitato ad accettarla, C, gli subentrano (come “rappresentanti” - questo é il termine tecnico con cui si designano i discendenti che subentrano all’ascendente, il c.d. “rappresentato”).Esempio di “rappresentazione” in linea collaterale: Fulano, scapolo e senza figli, morendo lascia due fratelli A e B. Questi sono chiamati all’eredità ciascuno per la metà (non é detto che sia sempre così in base alle norme sulla successione legittima, ma fingiamo che nel caso sia così). Sia il fratello A sia il fratello B premuoiono a Fulano: A lascia, i figli A1, A2; B lascia, il figlio B1. Anche questi premuore lasciando i figli, BIIbis e BIIter. In questo caso i nipoti ex fratre A1 e A2 subentrano ad A (fratello del de cuius), che non ha potuto accettare.

Disc. Debbo dire che i risultati a cui sei giunto sia nel primo esempio che nel secondo mi lasciano perplesso.

Doc. Comincia a dire perché ti lasciano perplessi i risultati del primo esempio.

Disc. Io mi sarei aspettato che il legislatore escludesse dalla successione i pronipoti ex filio CIbis e CIter, e attribuisse la “porzione” di eredità devoluta a C (figlio del de cuius) agli altri due figli, A e B. Infatti, il superamento del limite all’applicabilità della rappresentazione, non sarebbe qui giustificato per nulla, dalla tutela della famiglia: A e B, i figli del de cuius, non solo sono suoi parenti, ma sono suoi parenti più stretti che i pronipoti ex filio CIbis e CIter.

Doc. La tua osservazione é giusta e mi costringe, per spiegarti la soluzione legislativa, a un ragionamento più articolato di quello fatto prima. Ragionamento che si sviluppa nei seguenti “passi”.(I) Primo “passo”: si parte dalla considerazione che il legislatore scelga come erede CIbis e CIter in quanto “presuma (o finga di presumere) che Fulano, come eredi, li

avrebbe scelti.(II) Secondo (passo): il legislatore presume in Fulano la volontà di tale scelta in quanto presume che Fulano non sia mosso, nella scelta dei suoi eredi, da un generico “sentimento della famiglia” (dato che in tal caso i prescelti sarebbero dovuti essere gli altri due figli di Fulano, con cui questi ha più sangue in comune che con i pronipoti e anche più ricordi e più esperienze, insomma più “familiarità”), ma dal desiderio (e qui, più che di un “desiderio”, si dovrebbe parlare di un istinto atavico) a che la sua weltanschauung (la sua visione del mondo, se vogliamo, il suo modo di vivere la vita) si perpetui nel tempo.

Disc. Ma anche così, tu non spieghi perché Fulano avrebbe scelto come eredi i pronipoti anziché i figli: forse che i figli non sono buoni trasmettitori della weltanschauung di Fulano, come i pronipoti?

Doc. Certo che lo sono, ma come le varie specie animali, spinte dall’istinto di trasmettere le proprie caratteristiche razziali, cercano di far più figli che possono (in base al calcolo istintivo che, più portatori di tali caratteristiche vi sono, più é facile che tali caratteristiche siano trasmesse nel futuro), così si deve presumere (e il legislatore evidentemente presume) che Fulano voglia (istintivamente) che siano suoi eredi, oltre ai figli A e B, anche i pronipoti, perché, più aumentano i trasmettitori della sua weltanschauung, più aumentano le probabilità che essa sia effettivamente trasmessa.

Disc. Il tuo ragionamento é un po’ laborioso, ma in fondo giusto; d’altronde come spiegare diversamente la successione per rappresentazione riconosciuta ai pronipoti?Passo ora alle perplessità che in me ha originato il tuo secondo esempio: perché, mentre nel primo esempio, fai succedere per rappresentazione i pronipoti, nel secondo, ammetti alla successione solo i nipoti ex fratre A1 e A2 ed escludi i pronipoti BIbis e BIter?

Doc. In effetti questa soluzione é assai discussa: molti Studiosi (e molti Ordinamenti giuridici stranieri) non la ammettono. La nostra Corte Suprema di Cassazione, con giurisprudenza ormai costante da lunghissimo tempo, ritiene però che,sì, i nipoti ex fratre possano succedere per rappresentazione, ma non i pronipoti ex fratre. E secondo me questa soluzione é saggia. Per comprenderne la saggezza, bisogna riflettere che la weltanschauung (la visione della vita) che anima dei fratelli (nel caso, Fulano, da una parte, e A e B, dall’altra) può essere affine ma non sempre é la stessa

(quanti fratelli hanno una visione della vita diversa!). Quindi l’interesse di una persona, del nostro Fulano, a che sia trasmessa la weltanschauung del fratello, certamente é inferiore a quello che sia trasmessa (dai propri figli, da chi cioé da lui é stato educato) la propria weltanschauung. E si può ritenere giusto, che, tale interesse “minore”, sia sopraffatto dall’interesse della Società, a che si ponga un limite alla proliferazione dei successibili e alla frammentazione dei patrimoni. Del resto il diritto romano non ammetteva la rappresentazione per linea collaterale. Questa fu introdotta solo nel diritto giustinianeo.

Disc. Sarà così, é senz’altro così: ma se é così, bisogna dire che l’istituto della rappresentazione, nella nostra civiltà materialistica e democratica, é decisamente un corpo estraneo.

Doc. Sì, un residuo di quando l’uomo non si era ancora degradato al livello di oggi. Tuttavia per ultimare il discorso, é doveroso riconoscere, che, la soluzione adottata dalla Corte, ancorché condivisibile, urta contro un grosso ostacolo.

Disc. E cioé, quale ostacolo?

Doc. Quello rappresentato dal disposto del primo comma dell’art. 469, che recita: “La rappresentazione ha luogo in infinito, siano uguali o disuguali il grado dei discendenti e il loro numero in ciacsuna stirpe”.

Disc. Si può sostenere che il legislatore dettando tale comma si riferisse solo alla rappresentazione per linea diretta.

Doc. Sì, si può sostenere. Ma ritorniamo alla nostra porzione di patrimonio ereditario, che, colui che é stato chiamato a diventarne erede o legatario, non può o non vuole accettare: il de cuius non ha nominato nessun sostituto e mancano i presupposti per una successione per “rappresentazione”: bisogna ora vedere se vi sono i presupposti per assegnare, tale porzione, in “accrescimento” di altra porzione già devoluta ad altro chiamato all’eredità: Tizio, Caio e Sempronio sono stati istituiti eredi (o legatari) ciascuno per una certa quota: Sempronio rinuncia alla sua, dobbiamo ora domandarci se questa può essere assegnata a Tizio e/o a Caio in aggiunta alla quota già loro devoluta. Le norme, che ci debbono dare la risposta a tale domanda, sono racchiuse negli articoli, 674, se la quota vacante é stata devoluta in eredità, 675, se é stata data in legato.

Disc. Comincio a leggere l’articolo 674, che recita:“(Accrescimento fra coeredi) - Quando più eredi sono stati istituiti con uno stesso testamento nell’universalità dei beni, senza determinazione di parti o in parti uguali, anche se determinate, qualora uno di essi non possa o non voglia accettare, la sua parte si accresce agli altri.Se più eredi sono stati istituiti in una stessa quota, l’accrescimento ha luogo a favore degli altri istituiti nella quota medesima.L’accrescimento non ha luogo quando dal testamento risulta una diversa volontà del testatore.E’ salvo in ogni caso il diritto di rappresentazione”.

Doc. Dunque i presupposti a che, la quota devoluta a Sempronio, vada ad accrescere le quote devolute a Tizio e a Caio sono tre:I- Primo presupposto: Sempronio deve essere stato istituito erede in quello stesso testamento, che ha istituito Tizio e Caio (secondo la formula tradizionale, Sempronio, Tizio e Caio debbono essere accomunati da una coniunctio verbis et re). Questo requisito, però, viene inteso da non pochi Studiosi con molta elasticità; da loro ritenendosi, che la coniunctio verbis vi sia, anche quando il testatore, dopo aver, metti,istituito eredi Tizio e Caio in un primo testamento, abbia istituito erede altra persona, Sempronio, sì, con un secondo testamento, ma in modo da escludere il dubbio, che questo secondo testamento annulli la istituzione di erede fatta nel primo(e come esempio di un’esclusione di tale dubbio, si porta il caso del de cuius che, dopo aver istituiti eredi Tizio e Caio ciascuno per la quota di un terzo, nella seconda scheda testamentaria scriva “Per il restante terzo nomino erede Sempronio”).

Disc. Quindi tali studiosi partono dall’idea, che il requisito in questione sia stato posto dal legislatore - non già per risolvere la questione di quando un erede sicuramente tale ha diritto di accrescersi con la quota sicuramente devoluta ad altra persona – ma per risolvere la questione (più a monte) di quando l’istituzione di un erede debba considerarsi annullata o no (in altre parole, la questione, per riferirci all’esempio prima introdotto, se Tizio e Caio possono considerarsi veri eredi o no).

Doc. E non é detto che abbiano torto; dato che, un legislatore un po’ confusionario, può anche pensare di risolvere in uno stesso articolo questioni così diverse come quelle a cui tu hai accennato. E il sospetto che proprio ciò sia avvenuto – e cioé che il requisito della coniunctio verbis nasca dalla mente di in legislatore “pasticcione” -

resta avvalorato dal fatto che rimane difficile comprendere l’utilità di tale requisito, ai fini di risolvere la questione se le quote di Tizio e Caio (per riferirci sempre all’esempio prima introdotto) vanno “accresciute” o no della quota di Sempronio, una volta che si sia sicuri che Tizio e Caio sono veri eredi.

Disc. Pare anche a me. Passa al secondo e terzo presupposto (necessari per il realizzarsi dell’accrescimento),

Doc. II- Secondo presupposto: Tizio (chiamiamo così l’erede a cui favore opera l’accrescimento) e Sempronio (chiamiamo così il chiamato all’eredità che non l’ha accettata), perché possa aversi accrescimento, o debbono essere chiamati “nell’universalità dei beni senza determinazione di quote” (“Nomino eredi Tizio e Sempronio”) o debbono essere chiamati in tale “universalità dei beni” “in parti uguali” (“Lascio a Tizio un terzo dei miei beni, lascio a Sempronio un altro terzo”) o debbono essere chiamati a una stessa quota (“Lascio a Caio un terzo e lascio a Tizio e Sempronio l’altro terzo”). Da tenere presente, però, che le quote possono essere anche “determinate” (co 1 articolo in commento): ad esempio: “Lascio a Caio l’appartamento di via Garibaldi, lascio a Sempronio l’appartamento di via Roma” - questo ben inteso se l’appartamento di via Garibaldi e quello di via Roma hanno uguale valore; altro esempio “Lascio a Caio la villa di Quarto e lascio a Tizio e Sempronio gli appartamenti di via Roma e di via Garibaldi”.III- Terzo presupposto: non deve risultare una volontà contraria del testatore. Volontà che può essere espressa (come quando il testatore abbia scritto nella scheda “Tizio non ha diritto all’accrescimento se Sempronio rinuncia”) oppure anche tacita (come quando il testatore abbia nominato un sostituto per il caso che Sempronio rinunci).Importante é, invece, che la contraria volontà del testatore risulti dal testamento: anche se dieci testi venissero a dire che “Il testatore escluse chiaramente l’accrescimento in mia presenza”, questo nulla varrebbe: l’accrescimento si dovrebbe lo stesso fare.

Disc. Abbiamo visto quel che dice l’articolo 674, ora vediamo quel che dice l’articolo 675.

Doc. L’articolo 675 recita così: “(Accrescimento tra collegatari) L’accrescimento ha luogo anche tra più legatari ai quali é stato legato uno stesso oggetto, salvo che dal testamento risulti una diversa volontà e salvo sempre il diritto di rappresentazione”.

Disc. Sembrerebbe, quindi che i presupposti per l’accrescimento tra collegatari siano notevolmente diversi, da quelli richiesti per l’accrescimento tra coeredi: non si richiede in particolare né che i collegatari siano chiamati senza determinazioni di parti o in parti uguali, e non si richiede che il legato sia stato lasciato (ai due legatari interessati, positivamente o negativamente, all’accrescimento) in uno stesso testamento.

Doc. La prima diversità, potrebbe spiegarsi con la rarità, di un legato con quote diverse: caso tanto raro che il legislatore non avrebbe ritenuto di prenderlo esplicitamente in considerazione nella norma, mentre però in considerazione lo dovrebbe prendere chi applica la norma (per escludere l’accrescimento con un’interpretazione, della norma, restrittiva) qualora si verificasse.La seconda diversità, alcuni Studiosi, la spiegano con una volontà del legislatore, che, tra i legatari, a che si operi l’accrescimento, basti solo una coniunctio re; altri Studiosi,invece, la spiegano con il fatto che l’articolo 675 sarebbe stato formulato dal legislatore nella convinzione, che bastasse, per rendere chiara l’operatività anche tra collegatari dei presupposti di cui all’art. 674, un rinvio implicito (ma allora perché il legislatore si é invece preoccupato di dire esplicitamente, che l’accrescimento tra collegatari opera “salvo che risulti dal testamento una diversa volontà”? se il legislatore avesse ritenuto bastante un rinvio implicito, per quel che riguarda il requisito della coniunctio verbis, avrebbe dovuto ritenerlo bastante anche per quel che riguarda il requisito del difetto di una contraria volontà del testatore all’accrescimento)

Disc. Ma veniamo al punto più importante: qual’é la ratio degli articoli 674 e 675? Pongo con più chiarezza la questione: perché il legislatore, dovendo scegliere tra attribuire, la porzione ereditaria non accettata da Sempronio, a Tizio e Caio oppure metti, al fratello del testatore, a cui avrebbe dovuto essere assegnata in applicazione delle norme sulla successione legittima, sceglie di assegnarla (sussistendo i presupposti voluti dall’art. 674: istituzione per quote eguali, istituzione a una stessa quota....) a Tizio e a Caio (e non ai successori legittimi – vedi art. 677)?

Doc. Secondo quella che può considerarsi una communis opinio tra gli Studiosi, il legislatore fa ciò: I- perché si ritiene vincolato a rispettare la volontà del testatore; II- perché deduce - dal fatto che l’istituzione di Tizio, Caio, Sempronio sia stata fatta nei modi previsti dall’articolo 674 (per quote uguali....) - che la volontà del testatore sarebbe stata, se avesse previsto la non accettazione di Sempronio, quella di

attribuire, la quota da lui non accettata, a Tizio e a Caio.

Disc. Da che cosa deducono, tali Studiosi, che il legislatore si ritiene vincolato a rispettare la volontà del testatore?

Doc. Dal fatto che, se il testatore esprime una volontà contraria, il legislatore (vedi terzo comma art. 674) non procede all’accrescimento.

Disc. Ma un legislatore, che si ritiene vincolato a rispettare la volontà del testatore solo se espressa chiaramente (e solo se espressa nel testamento!), può benissimo ritenersi (anzi, é logico che si ritenga) non vincolato a rispettare una volontà (del testatore) dubbia; e, rinunciando ad arrampicarsi sugli specchi per individuare tale volontà, preferisca assegnare la quota (non accettata) con criteri più sicuri e comunque diversi (da quello di una aderenza a una volontà dubbia).

Doc. E in effetti é ben difficile, é veramente un “arrampicarsi sugli specchi”, dedurre - dalla istituzione degli eredi Tizio, Caio, Sempronio, per quote eguali - la volontà del testatore di attribuire, la quota non accettata da Sempronio, a Tizio e a a Caio.

Disc. E tu allora come giustificheresti la scelta legislativa di cui si é detto?

Doc. La giustificherei con il timore del legislatore che, fare entrare nel numero degli eredi testamentari (quando la loro istituzione é avvenuta nei modi di cui all’art. 674), persone scelte con i criteri offerti dalle norme sulla successione legittima (nel caso esemplificato, il fratello del de cuius), finisca per rendere la gestione della comunione ereditaria e la sua divisione, più difficoltosa (quindi in buona sostanza attribuisco, naturalmente mutatis mutandis, all’art.674 la stessa ratio dell’art.732, che concede ai coeredi un diritto di prelazione nel caso uno di loro voglia alienare la sua quota a un estraneo).

Disc. Non capisco perché ci potrebbe essere il pericolo che, sostituendo la persona del fratello del de cuius a quella di Sempronio, la gestione della comunione e la sua divisione divengano più difficili.

Doc. Perché la buona gestione della comunione ereditaria e una sua rapida e amichevole divisione é possibile solo se tra i coeredi sussiste una buona armonia e affinità; quella armonia e affinità che sono da presumersi esistenti tra Sempronio, da

una parte, e Tizio e Caio, dall’altra.

Disc. Non capisco ciò che ti fa presumere questa armonia e affinità tra Sempronio, Tizio e Caio.

Doc. Me la fa presumere lo stesso fatto che il testatore li abbia istituiti eredi nei modi di cui all’articolo 674. Tu, se fossi il testatore, chiameresti all’eredità di una stessa quota ereditaria, metti di quel tal appartamento di via Roma, Tizio, Caio e Sempronio, se sapessi che sono tra di loro come cani e gatti? Certamente no (a meno che tu non volessi dar loro il classico.. .boccone avvelenato).

Disc. Capisco. Ma la ratio da te proposta é accettabile per quel che riguarda la quota attribuita a più eredi; meno convincente risulta nel caso di una istituzione di Tizio Caio, Sempronio per quote eguali

Doc. Questo lo riconosco. Però anche in tale caso non si può negare che, se il testatore ha riservato un trattamento paritario a Tizio Caio Sempronio, é perché essi hanno qualche cosa che li accomuna (cosa che potrebbe essere ad esempio, l’aver militato nello stesso reggimento o, e più probabilmente, l’essere tutti e tre parenti nello stesso grado e nella stessa linea, metti figli di quel tal fratello). Ora proprio questo qualcosa di comune, potrebbe far presumere tra di loro quell’armonia, che invece verrebbe a mancare, se insieme a loro fosse istituito erede, chi come tale fosse scelto solo in base alle norme sulla successione legittima

Disc. Diciamo che la tua spiegazione é..la meno peggio. E andiamo avanti. Cuius commoda eius incommoda: penso che tale principio valga anche in subiecta materia.

Doc. Certamente. Più precisamente dal secondo comma dell’art. 676 risulta che “i coeredi o i legatari, a favore dei quali si verifica l’accrescimento, subentrano negli obblighi a cui era sottoposto l’erede o il legatario mancante, salvo che si tratti di obblighi di carattere personale”.

Disc. Ma tali “obblighi” potrebbero essere anche più pesanti di quelli, che Tizio e Caio (per tornare sempre ai protagonisti dei nostri precedenti esempi) erano disposti ad assumersi quando accettarono l’eredità: penso quindi che l’accrescimento sarà subordinato all’accettazione dell’erede (la cui quota sarebbe accresciuta).

Doc. No, questo é escluso dal primo comma dell’art. 676 che recita: “L’acquisto per accrescimento ha luogo di diritto”.

Disc. Non trovo la cosa giusta.

Doc. Io, invece,sì: chi accetta un eredità sa di fare un salto nel vuoto, se vuole un paracadute deve accettarla con beneficio di inventario. Non pochi Studiosi però la pensano come te e ritengono che l’accettazione sia, sì, automatica, ma che l’erede “accresciuto” abbia sempre la possibilità di rinunciare (così come é per il legato, che “si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunciare” - v- art. 649).

Disc. Parlando del fenomeno dello “accrescimento” ci siamo sempre riferiti a una successione testamentaria: devo capire che tale fenomeno non si può verificare in una successione legittima?

Doc. Capiresti male, perché la possibilità che la quota di un chiamato all’eredità, nel caso che egli non possa o non voglia accettarla, si accresca alle quote di altri “chiamati”, al contrario di lui, accettanti, é espressamente contemplata dall’art. 522, che recita: “(Devoluzione nelle successioni legittime)- Nelle successioni legittime la parte di colui che rinunzia si accresce a coloro che avrebbero concorso col rinunziante, salvo il diritto di rappresentazione e salvo il disposto dell’ultimo comma dell’art. 571. Se il rinunziante é solo, l’eredità si devolve a coloro ai quali spetterebbe nel caso egli mancasse.”

Disc. Quindi se Pinco Pallino, chiamato all’eredità, vi rinunzia, qualora egli sia figlio o fratello del defunto, non si farà luogo ad accrescimento a favore di coloro che con lui concorrono, se e in quanto i suoi discendenti legittimi accetteranno di subentrargli. Questo é logico; voglio dire che, il prevalere, sul “accrescimento”, della successione per rappresentazione dei discendenti dei figli e dei fratelli del de cuius, é previsto per la successione testamentaria ed é, quindi, logico che sia previsto anche per quella legittima. Però mi pare che, dall’articolo in esame, anche risulti il prevalere, sullo “accrescimento”, di una sorta di successione per rappresentazione, dell’ascendente remoto rispetto ai genitori del de cuius, che nelle successioni testamentarie non é contemplata.

Doc. Sì, dal riferimento fatto dall’art. 522 all’art. 571 deriva, che “se entrambi i

genitori del de cuius, concorrenti alla successione con i fratelli del medesimo, rinunciano (o non possono succedere per premorienza,indegnità, decadenza o percsrizione del diritto di accettare), non c’é accrescimento della quota dei fratelli, ma la quota che sarebbe spettata ad uno dei genitori, in mancanza dell’altro, é devoluta agli ascendenti” (le parole tra virgolette, la stanchezza e l’ora tarda me le fanno copiare dal libro di un Maestro, il Luigi Ferri – il libro é “Successioni in generale” edito da Zanichelli).

Disc. Però a prescindere di questi casi di successione per rappresentazione, la quota del rinunziante verrà ad accrescere quella dei coeredi nello stesso grado: in buona sostanza, quindi, si può concludere, che, in caso di rinunzia, viene adottata dal legislatore quella stessa soluzione da lui adottata per il caso che il rinunziante non fosse mai venuto ad esistenza.

Doc. La conclusione a cui giungi é giusta. Non é però corretto che la quota del rinunziante (più in genere, di chi non ha voluto o potuto accettare l’eredità) venga ad accrescere quella degli altri coeredi, chiamati a succedere con lui nello stesso grado: in realtà viene ad accrescere le quote solo di quei coeredi, che con lui concorrono.

Disc. Non vedo la differenza.

Doc. La vedrai se pensi al seguente caso: Fulano muore e lascia il coniuge e i tre figli, Mario, Giuseppe, Luca. Quindi va fatta applicazione del secondo comma dell’articolo 542, che recita: “Quando i figli sono più di uno, ad essi é complessivamente riservata la metà del patrimonio e al coniuge spetta un quarto del patrimonio del defunto (...)”. Luca, uno dei figli, rinuncia: la quota derelitta non si aggiunge alla quota del coniuge, che pure é coerede nello stesso grado di Luca, bensì si aggiunge alle quote dei fratelli, dato che solo loro avrebbero “concorso” con lui.

Disc. Dalla pagina del Ferri da te citata, sembrerebbe che il disposto dell’articolo 522 si applichi, non solo in ipotesi di rinuncia, ma in ogni caso in cui il chiamato non voglia o non possa accettare.

Doc. Così é: il riferimento al solo caso della rinuncia, dipende solo da una fisima del legislatore, che ora mi sarebbe troppo lungo spiegarti. Ora é tempo di chiudere la lezione.

Disc.Tu hai precedentemente accennato al fatto che nel caso non si faccia luogo all’accrecsimento, la quota derelitta va ai successori elgittimi, ma non hai mai irportato l’articolo da cui questo risulta: bisogna riportarlo.

Doc. Giusto, é l’articolo 677, che recita: “(Mancanza di accrescimento) – Se non ha luogo l’accrescimento la porzione dell’erede mancante si devolve agli eredi legittimi e la porzione del legatario mancante va a profitto dell’onerato”.

Lezione VIII: Revocabilità della dichiarazione testamentaria. Patti successori.

Disc. Abbiamo visto in una delle precedenti lezioni, che i beni del de cuius vengono attribuiti, in prima battuta, in base alla scelta e all’indicazione (degli eredi) che fa il de cuius stesso. Ma, una volta fatta la sua scelta, il de cuius può ripensarci e revocarla? Per porre la questione in maniera più chiara: Fulano II ha indicato il 01.01.1980 (quando egli aveva ancora trent’anni), come erede, Fulano III; poi ci ripensa e, nel 2010 (quando ha cinquant’anni) indica come erede Fulano IV: il Legislatore ritiene valida la dichiarazione fatta nel 1980 o quella fatta nel 2010?

Doc. Certamente ritiene valida quella fatta nel 2010; e questo per le seguenti ragioni:1- Perché, se ritenesse valida la dichiarazione del 1980, rischierebbe di demotivare Fulano II: questi vuole lasciare i suoi beni a qualcuno che gli é caro; prima tale gli era Fulano III, ora però (a 50 anni di età) gli é caro Fulano IV (e addirittura Fulano III gli é diventato odioso): se egli sapesse che i beni, che con tanta fatica cerca di accumulare, andrebbero a Fulano III, egli non lavorerebbe più, anzi sarebbe tentato di sperperare i beni prima accumulati.2- Perché, lo stabilire la revocabilità della dichiarazione (testamentaria), é l’arma migliore che si possa dare a Fulano II, per eludere i tentativi captatori della sua volontà testamentaria. E infatti può capitare – e anzi spesso capita – che una persona, specie se in tarda età, sia assillata da persone che vorrebbero captargli una volontà testamentaria a loro favore (“Io sono qui che sgobbo per tenere pulita la tua casa e la tua persona e tu mi lasceresti alla tua morte senza il becco di un quattrino?! ”): la revocabilità del testamento dà la facile possibilità, a chi così é assillato, di eludere le pressioni degli assillanti senza scontentarli e farseli nemici: egli fa un testamento in cui beneficia (come erede, come legatario....), chi lo opprime con le sue richieste, e, poi....ne fa un altro tutto diverso, e...il gioco é fatto. E naturalmente quel che ora ho detto, vale, mutatis mutandis, per il caso che una persona sia vittima di veri atti intimidatori (“Se non mi nomini erede, ti uccido”).

Disc. Ma la revocabilità della volontà testamentaria mi pare un’arma a doppio taglio. Sì, é vero, tutela una persona contro possibili pressioni captatorie, però, togliendo ogni carattere impegnativo alla volontà espressa in un testamento, le toglie anche ogni valore, diciamo così, commerciale, voglio dire, le toglie ogni valore come merce di scambio per ottenere utili controprestazioni: ad esempio, priva di senso una proposta del tipo “Se tu, Fulano III, mi curerai durante la mia malattia, io, Fulano II, ti lascerò in eredità il mio appartamento di via Cairoli” - e la priva di senso in quanto quel che Fulano II scrivesse domani nel testamento, dopodomani potrebbe essere da lui revocato (all’insaputa di Fulano III).

Doc.Ma volontà del Legislatore é proprio quella di impedire accordi del tipo da te ora esemplificato; come risulta dal disposto dell’art. 458 che (sotto la rubrica “Divieto di patti successori”) recita: “Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768bis e seguenti, é nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propia successione. E’ del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”..

Disc. Ma perché mai ritenere nullo un accordo del tipo da me prima esemplificato?

Doc. Perché il rischio in questo tipo di accordi, in cui Fulano II dispone di un bene per dopo la sua morte al fine di avere un vantaggio durante la sua vita, é che Fulano II, per avere una cosa (o una prestazione....) che vale dieci, dia via una cosa che vale obiettivamente cento (ma che per lui vale zero, dato che, dopo morto, gli sarebbe di zero utilità).

Disc. Ma non si può negare che tale accordo sia conveniente sia per Fulano II che per Fulano III: Fulano II, come tu stesso hai ora detto, rinunciando a godere dell’appartamento....dopo morto, rinuncia a zero, e Fulano III, dando le sue cure a Fulano II compie delle prestazioni, che normalmente non gli sarebbero state pagate più di cento, per ottenere mille. E se, dunque, tale accordo é conveniente sia per Fulano II che per Fulano III, perché ritenerlo nullo, perché impedirlo?

Doc. Prima di tutto per tutelare l’interesse dei famigliari di Fulano II; in particolare l’interesse di quelli che, come abbiamo visto in una precedente lezione, sarebbero suoi “eredi necessari”.

Disc. Ma questi non sono già sufficientemente tutelati dal fatto che il legislatore “riserva” loro una quota di eredità?

Doc. Certo tale “riserva” costituisce una tutela dei loro interessi, ma fino a un certo punto: é infatti inutile riservare a Fulano IV il 50 per cento del patrimonio di Fulano II, se questo patrimonio, che, in vita di Fulano II, valeva mille, alla sua morte si é ridotto a valere non più di dieci (in seguito ai patti successori da lui stipulati).

Disc. Va bene, la nullità di un accordo come quello da me esemplificato io posso ammetterla nel caso Fulano II lasci degli eredi “necessari”: Ma mettiamo che non ne lasci, allora perché non ritenere valido tale accordo?

Doc. Per non premiare la presumibile disonestà di Fulano III.

Disc. Presumibile disonestà?

Doc. Sì, disonestà presumibile, ma con buon fondamento, perché chi fa un contratto in cui la controparte non é portata a valutare obiettivamente il valore di quello che dà, ben difficilmente non cede alla tentazione della disonestà: certo, Fulano III potrebbe dare A che vale cento per ottenere da Fulano II B che vale pure cento, ma con una controparte (Fulano II) disposta a spogliarsi di B per zero, é ben probabile che dia un A che vale cento per ottenere un B che vale mille.

Disc. I discorsi da te finora fatti possono giustificare la nullità dei patti “con cui taluno dispone della propria successione” (come detto nell’incipit dell’art. 458); ma come si giustifica la nullità degli “atti col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta o rinunzia ai medesimi”? Ad esempio: Fulano III cede a Fulano IV i diritti che gli potrebbero spettare in quanto erede di Fulano II in cambio di mille: perché ritenere nullo un tale patto?

Doc. In fondo per la stessa ragione per cui si riterrebbe nullo il patto con cui Fulano II avesse disposto dei suoi diritti per il post mortem: la difficoltà di una parte (nel caso contemplato dall’incipit dell’art. 458, il de cuius Fulano II, nel caso contemplato dall’ultima parte dell’art. 458, l’erede Fulano III) di valutare bene il valore dei beni di cui viene a disporre: infatti é ben difficile che l’erede Fulano III sia in grado di valutare giustamente il valore dei beni a cui rinuncia (non potendo bene sapere dei beni che comporranno il futuro asse ereditario, dei debiti che lo graveranno, dei

coeredi con cui andrà diviso....).

Disc. Seguendo i ragionamenti da te finora fatti, mi pare che si dovrebbero considerare anche invalide quelle disposizioni testamentarie con cui Fulano II lascia a Fulano III un A (metti, un appartamento) a patto che egli dia o faccia un B (metti, dia il bianco alla casa dell’erede Fulano IV).

Doc. No, il caso che tu stai facendo non é simile (analogo) a quelli da noi finora esaminati. E’ vero che, nel caso da te fatto, ha ancora ragion d’essere il timore che Fulano II non apprezzi debitamente il valore del A che viene a dare (dato che egli non é in grado di sentire la perdita di quel A avvenendo questa post mortem suam), però é anche vero che egli non dà quel A per ottenere in cambio un B da poter godere egli durante la sua vita, ma dà quel A per procurare un B di cui altri godrà (post mortem suam); e ciò almeno dà la garanzia che la sua volontà non sia viziata e sfuorviata da motivi bassamente egoistici (“après moi le diluge”).

Disc. Che dire di un accordo tra Fulano I e Fulano II in questo senso: “io, Fulano I, lascio in eredità tutti i miei beni a te, Fulano II, e tu, Fulano II, lasci in eredità tutti i tuoi beni a me, Fulano I”? deve considerarsi nullo anche tale patto?

Doc. Tale lo considera il legislatore nell’articolo 589, che (sotto la rubrica “testamento congiuntivo o reciproco”) recita: “Non si può fare testamento da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo, né con disposizione reciproca”.

Disc. La ratio di tale disposizione?

Doc.Per quel che riguarda il testamento congiuntivo essa é data, non tanto dalla volontà di salvaguardare la libertà di Fulano I e Fulano II di revocare la loro volontà testamentaria (e infatti nessuno potrebbe dubitare che il principio della revocabilità di questa sussista anche in caso che essa fosse espressa in una stessa scheda da due persone), quanto dal fatto che il duplice testamento in unica scheda implica e rivela il reciproco impegno dei testatori a non revocare unilateralmente la loro volontà testamentaria e tale reciproco impegno può far sì che uno di essi rimanga vittima della malafede dell’altro: Fulano I si astiene dal revocare la sua volontà testamentaria, per mantenere fede all’impegno preso, mentre Fulano II, che non ha tale scrupolo, revoca la sua volontà testamentaria unilateralmente e naturalmente all’insaputa

dell’altro.

Disc. E’ una spiegazione un po’ tirata.

Doc. Questo perché é la spiegazione di una norma che difficilmente può essere spiegata.

Disc. Passiamo alla ratio che porta al divieto del testamento reciproco.

Doc. In realtà il divieto del testamento reciproco si giustifica con una duplice ratio: quella ora vista, che giustifica il divieto del testamento congiuntivo, e quella (a mio parere più valida) che giustifica il disposto dell’art. 458 prima esaminato: Fulano I (o viceversa, Fulano II) potrebbe disporre a cuor leggero del suo patrimonio che vale dieci volte quello di Fulano II (tanto dopo morto non potrei godermelo) nella speranza di poter godere in vita il patrimonio di questo.

Lezione IX: I legittimari – L’azione di reintegra della quota loro riservata.

Disc. Abbiamo visto che vi sono degli eredi “necessari”, cioé delle persone che hanno diritto, volente o nolente il de cuius, a una pars bonorum.Sì, ma chi sono queste persone, qual’é la quantità di beni a cui hanno diritto?

Doc. Chi sono gli eredi necessari te lo dice l’articolo 536, che (sotto la rubrica “Legittimari”) recita: “Le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli, gli ascendenti (….)”.La parte di beni a loro necessariamente riservata ti viene poi indicata (dagli articoli che seguono quello ora riportato) sotto forma di frazione. Per esempio, l’articolo 537 ti dice che “se il genitore lascia un figliolo solo, a questi é riservata la metà del patrimonio”, l’art. 340 a sua volta ti dice che “a favore del coniuge é riservata la metà del patrimonio dell’altro coniuge” salvo che con esso concorrano dei figli nel qual caso invece ecc.ecc.

Disc. Ma come si calcola l’ammontare del patrimonio?

Doc. L’ammontare del patrimonio del de cuius o asse ereditario é dato da: valore del relictum (cioé del complesso dei beni in capo al de cuius al momento dell’apertura della successione) - valore dei debiti + valore del donatum (cioé dei beni che il de

cuius vita natural durante ha donato direttamente o anche direttamente, quindi anche rimettendo un debito).Così come risulta (implicitamente) dall’art. 556, che (sotto la rubrica“Determinazione della porzione disponibile”) recita: “Per determinare l’ammontare della quota di cui il defunto poteva disporre si forma una massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della morte, detraendone i debiti. Si riuniscono quindi fittiziamente i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, secondo il loro valore determinato in base alle regole dettate negli articoli 747 a 750 e sull’asse così formato si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre”.

Disc. Fai un esempio.

Doc. Alla morte di Fulano, avvenuta il 10.01.2010, risulta che: egli era proprietario di due appartamenti del valore pari a 200; aveva debiti per un valore di 100; aveva donato a Clara una collana del valore di 80. Pertanto il valore dell’asse ereditario é dato da 200 (valore al momento dell’apertura della successione dei due appartamenti) - 100 (valore dei debiti al momento dell’apertura della successione) = 100 + 80 (valore della collana sempre al momento dell’apertura della successione) = 180.

Disc. Con ciò mi hai fatto un esempio di come si calcola l’asse ereditario: fammi ora un esempio di come si calcola la quota riservata a un legittimario.

Doc. Metti che Fulano: abbia lasciato un asse come quello or ora esemplificato, cioé di valore 180 (relictum – debiti = 100 + 80 di donatum); abbia nominato suo unico erede il cugino Andrea; metti ancora che il padre di Fulano sia ancora vivente al momento dell’apertura della successione. In tal caso, riservando l’art. 538 un terzo del patrimonio all’ascendente, questi avrà diritto a una pars bonorum = 60 (180: 3 = 60).

Disc. Sì, ma dove li prende, il padre, legittimario pretermesso, questi 60?

Doc. Li prende dai beni che Fulano, il de cuius, aveva lasciati al cugino Andrea. Infatti il Codice dà al legittimario pretermesso un’azione, proprio per ridurre le donazioni (il donatum) e le pars bonorum, ricavate dal relictum e attribuite in base alle norme sulla successione legittima o testamentaria, che eccedono la “disponibile” - questo al fine di reintegrare (l’azione si chiama appunto “di reintegrazione”) la quota (lesa) del legittimario (in tutto o in parte pretermesso).

Pertanto nell’esempio fatto, Andrea vedrà ridursi la pars bonorum a lui spettante da 100 a 40 (100 corrispondente al valore del relictum, che abbiamo ipotizzato devoluto interamente a Andrea – 60, quota riservata al legittimario = 40).

Disc. Ma la “riduzione”, nell’esempio da te fatto, opera solo sulla disposizione testamentaria, quindi solo a sfavore dell’erede Andrea, mentre a me sembrerebbe giusto che colpisse in maniera proporzionale sia la disposizione testamentaria sia la donazione (a favore di Clara).

Doc. Il Legislatore....la pensa diversamente da te. Egli adotta, sì, il criterio proporzionale, ma questo solo per le disposizioni testamentarie; mentre per le donazioni adotta il criterio cronologico. Questo ti risulta dall’art. 558 co.1, dall’art. 555 co.2,, e dall’art. 559.Art. 558 co.1: “La riduzione delle disposizioni testamentarie avviene proporzionalmente, senza distinguere tra eredi e legatari”.Art, 555 co.2: Le donazioni non si riducono se non dopo esaurito il valore dei beni di cui é stato disposto per testamento”.Art. 559: “Le donazioni si riducono cominciando dall’ultima e risalendo via via alle anteriori”.

Disc. Ma come si giustifica l’adozione del criterio cronologico?

Doc. Si giustifica, secondo me, con l’esigenza di favorire il miglioramento e la circolazione dei beni donati: Cornelia, che ha ricevuto in dono (dal de cuius) un campicello, é tanto più portata ad astenersi dal migliorarlo e tante più difficoltà trova nel venderlo ad altri (che potrebbe migliorarlo), quanto maggiori sono le probabilità che un’azione di reintegra venga a privare di tale bene, lei o il suo avente causa (dato che, come vedremo, l’azione di reintegrazione viene anche a colpire gli aventi causa dei beni donati). Ora ciò costituisce un danno per l’economia e la Società. Proprio per ridurre tale danno il Legislatore cerca di rendere Cornelia il più sicura possibile che l’azione di reintegra non si rivolgerà contro di lei (“Tranquilla, Cornelia, la riduzione si opererà per prima sulle disposizioni testamentarie e, se i beni in queste ricompresi non bastono, colpirà, prima di te, Clara che ha ricevuta una donazione dopo di te).

Disc.Ho compresa la teoria: ora fammi un esempio pratico di come può l’azione di reintegra attingere anche il donatum.

Doc. Ecco l’esempio da te richiesto: il relictum é di 30 (100, valore dei beni – 70 valore dei debiti); il donatum é dato da una collana, del valore di 70, donata a Clara e da un campicello, del valore di 100 donato a Cornelia; il de cuis ha nominato unico erede il cugino Andrea e ha totalmente pretermesso il figlio Flaiano; il quale però ha diritto (art. 537) alla metà dell’asse ereditario.Orbene per reintegrare la sua quota di legittima del valore di 100 (valore dell’asse = 200: 2 = 1000), il figlio Flaiano riduce a zero la pars bonorum (= 30) spettante a all’erede Andrea, riduce a zero la donazione (=70) fatta illo tempore a Clara e...non tocca per nulla la donazione fatta a Cornelia: il campicello di questa é salvo.

Disc. Tu prima hai detto che si riduce, non solo la pars bonorum attribuita in base alle norme sulla successione testamentaria, ma anche quella attribuita in base alle norme che disciplinano la successione legittima. Ma com’é possibile che nello stesso Codice, da una parte, il legislatore ritenga, disciplinando la successione legittima, giusto che Andrea, fratello del de cuius, abbia, 100, quando concorre nella successione col genitore (del de cuius) e, dall’altra, disciplinando la successione necessaria dica, come se si fosse prima sbagliato, “No, non é giusto che Andrea quando concorre col genitore abbia 100: deve avere di meno per dare spazio alla quota di questi,”, così come se questa quota del genitore....si fosse, in base alle norme sulla successione necessaria, ingrandita e fosse diventata bisognosa di maggior spazio a spese della quota del fratello (del de cuius).

Doc. No, non é che la quota del successore legittimo - nell’esempio da te fatto, del genitore - venga ingrandita dalle norme sulla successione necessaria. Anzi, se prendi l’articolo 571, che disciplina il concorso nella successione legittima di ascendenti e fratelli, e lo confronti con l’articolo 538 (che stabilisce la quota che va necessariamente riservata al genitore), ti accorgi che, mentre, per le norme sulla successione legittima, al genitore che concorre con un solo fratello del de cuius, spetterebbe la metà, per le norme sulla successione necessaria spetterebbe solo un terzo.

Disc. Ma allora come si spiega che la puntuale applicazione dell’articolo 571 può portare alla violazione dell’articolo 538?

Doc. Si spiega col fatto che il pezzetto di torta riconosciuto dalle norme sulla successione necessaria al genitore é, sì, minore, ma é calcolato in relazione a.....una torta di diametro maggiore. Mi spiego meglio con un esempio: Fulano lascia una

massa di beni del valore (detratti i debiti) di 200: quindi, per l’art. 571, 100 spettano al fratello Andrea e 100 al genitore Flaiano. Però Fulano era in vita uno scialacquatore e fece donazioni per ben 400. Conseguenza il terzo spettante per l’art. 538 al genitore Flaiano é uguale a 200 (200+400 = 600, asse ereditario: 3 = 200 quota riservata al genitore) e il povero Andrea....rimane a becco asciutto.Con ciò spero di averti spiegato il busillis dell’articolo 553 che (sotto la rubrica “Riduzione delle porzioni degli eredi legittimi in concorso con i legittimari”) recita: “Quando sui beni lasciati dal defunto si apre in tutto o in parte la successione legittima, nel concorso di legittimari con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui é necessario per integrare la quota riservata ai legittimari, i quali però devono imputare a questa, ai sensi dell’art. 564, quanto hanno ricevuto dal defunto in virtù di donazioni o di legati”.

Disc. Volto pagina e ti domando: chi può chiedere la “riduzione”?

Doc. Te lo dice l’articolo 557, che (sotto la rubrica “Soggetti che possono chiedere la riduzione”) recita: “La riduzione delle donazioni e delle disposizioni lesive della porzione legittima non può essere domandato che dai legittimari e dai loro eredi o aventi causa (….)”.

Disc. Strano che al creditore del legittimario non sia riconosciuta la legittimazione a chiedere la riduzione!

Doc. No, non é strano, dal momento che il creditore del legittimario può pur sempre agire in surrogatoria (art. 2900); naturalmente, sussistendo quelli che sono i presupposti di tale azione, in particolare l’inerzia del debitore (nella nostra materia, del legittimario).Se mai é strano che sia permesso all’avente causa del legittimario (ad esempio, a Daniele, che ha acquistato dal legittimario, Fulano, l’immobile che il de cuius ha “legato” a Giuseppe) di agire in reintegra (e in riduzione del legato fatto a Giuseppe) a prescindere da una inerzia del legittimario (e suo dante causa) Fulano.

Disc. Comunque sia, il creditore del legittimario può agire (sia pure solo in surrogatoria) per ottenere la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive. E il creditore del de cuius? Può egli chiedere la riduzione?

Doc. Può chiederla solo nel caso in cui – non avendo il legittimario accettato con beneficio di inventario – egli può considerarsi creditore del legittimario stesso. Se invece il legittimario avesse accettato con beneficio di inventario, egli (idest, il creditore del de cuius), per tutelare il suo interesse a una riduzione delle donazioni (interesse che indubbiamente ha, dato che una tale riduzione aumenterebbe la massa dei beni posti a garanzia, ex art. 2740, del suo credito) non avrebbe (purché non prescritta) che quella stessa azione che avrebbe potuto far valere anche in vita del de cuius, cioé l’azione revocatoria dell’art. 2901 (cosa per cui per ottenere la riduzione – melius, la revoca della donazione - avrebbe l’onere di provare tutti i presupposti di tale azione, in particolare la scientia fraudis del de cuius – onere da cui invece é sollevato chi chiede la riduzione in base agli artt. 553 e segg.)

Disc. Ma il creditore del de cuius potrebbe anche avere interesse a vedere ridimensionata la quota di un coerede particolarmente oberato di debiti, al fine di ridurre conseguentemente la massa di beni su cui i creditori di questo potrebbero soddisfarsi.

Doc. No, sbagli, questo interesse non l’ha, dato che il suo interesse a impedire il concorso dei creditori dell’erede (in cattive acque) risulta già tutelato dal fatto che per l’accettazione con beneficio di inventario “i creditori dell’eredità....hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede” (n.3 art. 490).Mi pare quindi che vada esente da ogni critica il disposto dell’art. 557 (terzo comma, ultima parte) secondo cui “Non possono chiedere (la riduzione) né approfittarne (nemmeno) i creditori del defunto, se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato con beneficio di inventario”

Disc. Però una critica, questa disposizione, devi ammettere, la merita pur sempre.

Doc. Quale?

Disc. Non é illogico ammettere il creditore del legittimario a chiedere la riduzione solo sussistendo i presupposti della surrogatoria e invece ammettere il creditore del de cuius a chiedere la riduzione a prescindere da tali presupposti, liberamente (col solo limite che non vi sia stata accettazione con beneficio di inventario)?

Doc. Effettivamente illogico lo é.

Disc. Andiamo oltre: il legatario e il donatario possono chiedere la riduzione?

Doc. No, lo esclude l’art. 557 (incipit del terzo comma), recitando “I legatari e i donatari non possono chiedere la riduzione né approfittarne”. Ed é chiaro il perché di tale esclusione: legittimare, il legatario, a chiedere la riduzione di una donazione (qualsiasi) o, il donatario, a chiedere la riduzione di una donazione (più “vecchia”, più “datata” della sua), significherebbe dar loro il potere di sconvolgere l’ordine (nelle riduzioni) voluto dal 2° comma art. 555 e dall’art. 559.

Disc. L’azione revocatoria si prescrive in cinque anni: in quanto tempo si prescrive l’azione di reintegrazione?Doc. In dieci anni decorrenti dall’apertura della successione.

Disc. Tali dieci anni vanno fatti decorrere dall’apertura della successione, anche nel caso vi sia “stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario é venuto meno” (co. 3 art. 480)?

Doc. No, nel caso io riterrei che la prescrizione debba essere fatta decorrere dal momento della caducazione dell’acquisto del precedente chiamato. Ma riconosco che la soluzione é discutibile.

Disc.,. Dire che l’azione di reintegra si prescrive in dieci anni non significa, però, se ho capito bene, dire che può essere chiesta solo la riduzione delle donazioni intervenute negli ultimi dieci anni anteriori all’apertura della successione.

Doc. Assolutamente, no: il legittimario Fulano può benissimo chiedere la riduzione anche di una donazione intervenuta cinquant’anni prima della apertura della successione (né più né meno di come avviene, mutatis mutandis, nell’ambito dell’istituto della collazione).

Disc. Il donatario può usucapire il bene donatogli?

Doc. Chiaramente, no: sarebbe assurdo concedere al legittimario la possibilità di chiedere la riduzione di una donazione avvenuta anche cinquant’anni prima dell’apertura della successione e, poi, concedere al donatario di usucapire il bene.Però abbastanza stranamente quella possibilità di usucapire, che viene negata ai donatari, viene invece concessa ai loro aventi causa (v. melius, art. 563).

Disc. Però chi acquista dal donatario, usucapirà, penso, nel termine ridotto previsto(dagli artt. 1159 e 1160 segg,) per chi acquista in buona fede.

Doc. No, anche qui abbastanza stranamente, per l’usucapione degli immobili acquistati dal donatario (il legislatore non prevede il caso di chi abbia acquistato dal donatario una universalità di mobili o un bene mobile: é una delle tante lacune della disciplina legislativa) il legislatore richiede il decorso di 20 anni, così come se chi acquista dal donatario agisse in mala fede - questo mentre invece fa cosa perfettamente legittima.

Disc. E ciò significa che anche per chi acquista dal donatario una universalità di mobili o un bene mobile non va applicato il termine breve di usucapione.

Doc. Così sembrerebbe doversi concludere.

Disc. Mettiamoci ora nel caso che la persona richiesta della riduzione sia stata beneficata di un determinato bene (per quel che riguarda l’erede io penso al caso che con una institutio ex re certa o con una divisione a opera del testatore, gli sia stato attribuito un dato immobile, una data collana, un dato quadro, insomma una cosa, non fungibile, ma specifica). Domanda: egli (idest, la persona richiesta della riduzione) ha quella possibilità – concessa dagli artt. 746 e 750 a chi é richiesto della collazione di un bene donatogli - di dire “Il bene ricevuto me lo tengo e in cambio venga imputata alla mia quota ereditaria il suo valore”?

Doc. Naturalmente no, quando si tratta di donatario o legatario (dato che nel loro caso difetta la quota a cui poter imputare il valore del bene). Meno naturalmente, ma ancora no, nel caso la persona richiesta della riduzione sia un erede. In subiecta materia il legislatore non va per il sottile e, va detto subito, lascia anche aperte varie lacune nel suo discorso. Ad esempio prevede il caso della riduzione di una donazione e di un legato avente ad oggetto un immobile, ma non prevede il caso della riduzione di una disposizione testamentaria diversa dal legato (ad esempio una institutio ex re certa) o di una disposizione testamentaria o di una donazione che abbia ad oggetto universalità di mobili o un bene mobile (salvo quanto diremo a proposito dell’art.563).

Disc. Cominciamo a vedere la soluzione adottata dal legislatore nel caso di donazione

o legato di un bene immobile.

Doc. Questa soluzione é data nell’articolo 560 ed é ovvia nel caso l’immobile sia divisibile “comodamente” (cioé senza che venga diminuito in conseguenza della divisione il suo valore); per il tal caso il primo comma dell’articolo citato stabilisce che “quando oggetto del legato o della donazione da ridurre é un immobile, la riduzione si fa separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò può avvenire comodamente”.

Disc. Effettivamente tale soluzione é ovvia: la donazione riguardava un caseggiato con più appartamenti? il legittimario va reintegrato per un valore di 200? c’é un appartamento che vale 200? se é così, si dà ovviamente tale appartamento al legittimario.Vediamo cosa avviene nel caso in cui la separazione non possa avvenire “comodamente”.

Doc. Lo dice il secondo comma dell’articolo che, premetto subito, prevede una soluzione a netto favore del legittimario perché dà sì la possibilità al donatario o legatario di ritenere la res dando in cambio il suo valore, ma solo se questo valore é inferiore al quarto della porzione disponibile, mentre se non lo é, dà al legittimario la scelta se acquisire all’eredità l’immobile oppure pretenderne il valore in soldi.

Disc. Lascia anche a me giudicare: leggi questo secondo comma.

Doc. Questo secondo comma recita: “Se la separazione non può farsi comodamente e il legatario o il donatario ha nell’immobile un’eccedenza maggiore del quarto della porzione disponibile, l’immobile si deve lacsiare per intero nell’eredità, salvo il diritto di conseguire il valore della porzione disponibile. Se l’eccedenza non supera il quarto, il legatario o il donatario può ritenere tutto l’immobile, compensando in danaro i legittimari”.

Disc. Fai un esempio di come si opera la separazione.

Doc. Poniamo che: Fulano abbia lasciato suo unico erede il figlio Andrea; il relictum (depurato dai debiti) sia 100; il donatum,, rappresentato da un immobile donato a Cornelia sia 900. Quindi: valore dell’asse ereditario = 1000; un quarto di tale asse = 250; valore della quota riservata al figlio = 500 (v. art. 537); la donazione che poteva

essere fatta senza risultare lesiva della “legittima” (idest, la “disponibile”) = 500 (dato che basta togliere 400 al donatum, per aggiungerlo ai 100 del relictum, per reintegrare perfettamente la “legittima”). Conclusione: eccedendo di 400, il valore della donazione fatta (900) quello della disponibile (500), infatti 900 – 500 = 400; ed essendo tale eccedenza superiore al quarto del valore complessivo dell’asse (quarto che corrisponde a 250), Andrea, il legittimario può, se vuole, far suo l’immobile, salvo il diritto di Cornelia di “conseguire il valore della disponibile” (500).

Disc. Effettivamente non si può negare che il legislatore favorisca il legittimario (dato che gli assegna l’immobile anche se la “disponibile” rappresenta i cinque noni di questo). Ma il legislatore favorisce il legittimario ancora in tal modo (a mio parere ingiusto ed eccessivo) quando la azione di reintegra é da lui diretta, non contro il donatario o il legatario o l’erede, ma contro chi ha acquistato da lui?

Doc. No, almeno nel caso che si tratti di chi ha acquistato da un donatario (mi limito a far riferimento a questo caso perché il legislatore non prevede quello di chi ha acquistato da un legatario o da un erede: una delle tante lacune della normativa in subiecta materia). Infatti (per il disposto del terzo comma art. 563) chi acquista dal donatario (e qui il legislatore inopinatamente si riferisce sia all’acquisto di un immobile che di un bene mobile) ha la facoltà di “liberarsi dall’obbligo di restituire in natura le cose donate pagando l’equivalente in denaro”.

Disc. E per gli altri casi, quelli non contemplati dal legislatore, che soluzione adottare?

Doc. Io suggerirei di adottare, per i beni immobili oggetto di una disposizione testamentaria, la soluzione adottata nell’art. 560.

Disc. E per i beni mobili?

Doc. Suggerirei di operare così come si trattasse di beni caduti in comunione, di conseguenza applicando le disposizioni di cui all’art. 713 e segg.

Lezione X: Limiti alla volontà testamentaria.

Disc. Ti faccio questo caso: Fulano ha due appartamenti e due amici, Rossi e Bianchi; e col suo testamento vuole beneficare sia l’uno che l’altro, però in modo diverso:

dando di più all’uno e di meno all’altro: a Bianchi l’appartamento che vale 100 e a Rossi quello che vale 50: lo può fare?

Doc. Senz’altro sì, lo può fare.

Disc. Ora metti che Fulano abbia un grosso debito, metti di 90, verso Canidio.

Doc. ….tale debito verrà pagato naturalmente da Rossi e da Bianchi in proporzione della loro quota ereditaria: Bianchi che ha ricevuto il doppio di Rossi pagherà due quote del debito, cioé 60, e Bianchi pagherà solo la terza quota del debito, cioé 30.

Disc. Lasciami finire il discorso. Proseguo: metti che Fulano voglia beneficare Bianchi, non solo dandogli l’appartamento più di valore, ma anche esentandolo dal pagare il creditore Canidio: tutto il debito verso questo deve gravare su Rossi: Fulano può fare anche questo?

Doc. No, questo non lo può fare; perché é principio del nostro Ordinamento (vedi co. 2 art. 1372 C.C.) che una persona (nel caso il testatore) non possa influire negativamente con una sua dichiarazione di volontà sulla sfera giuridica e sugli interessi di un terzo. Anche quando, come meglio subito vedremo, il testatore impone degli obblighi all’erede e al legatario, non si può dire che tali obblighi sorgono (nell’erede e nel legatario) per sola volontà unilaterale del testatore: infatti tali obblighi non nascono se chi li subisce non consente a gravarsene (accettando l’eredità o il legato). E questo, bada, vale, non solo per l’erede, ma anche per il legatario, in quanto é vero che (per l’articolo 649) “il legato si acquista senza bisogno di accettazione”, ma ciò significa solo che l’accettazione viene presunta (“salva la facoltà di rinunziare” - vedi sempre art. 649), in considerazione del fatto che il legatario non risponde dei debiti ereditari (art. 752), e degli oneri e dei legati di cui, come vedremo, é ben possibile sia gravato, risponde solo nei “limiti di valore della cosa legata” (art. 671): insomma l’accettazione del legato, é presunta ma non coartata.

Disc. Ma chi sarebbe, nell’esempio fatto, il terzo che vedrebbe vulnerati i suoi diritti, dalla disposizione (testamentaria) di Fulano di esentare, dal pagamento dei debiti, l’erede Bianchi?

Doc. Sarebbe, secondo l’opinione che mi pare prevalente tra gli Studiosi, il creditore

Canidio, il quale in seguito a tale disposizione non potrebbe più soddisfare il suo credito sul patrimonio di Bianchi.

Disc. Però la tutela che il legislatore vuole, secondo tali Studiosi, offrire al creditore Canidio sarebbe facilmente elusa dal testatore, lasciando, non in eredità, ma in legato l’appartamento al Bianchi (forse che il legatario non é esentato dal pagamento dei debiti del de cuius?). E a parte ciò, l’erede Bianchi potrebbe pur sempre frustrare l’interesse di Canidio a soddisfarsi sul suo patrimonio, accettando, sì, l’eredità, ma con beneficio di inventario.

Doc. Dicendoti che il de cuius non può privare i creditori del potere di far valere i loro crediti verso un dato erede, io non ho fatto che riferirti l’opinione prevalente tra gli Studiosi; ma certo di tale opinione non voglio essere il.....difensore d’ufficio. Con tutto ciò debbo dire che, a favore di tale opinione, militano due considerazioni. Prima: é vero che il testatore potrebbe eludere la tutela apprestata al creditore,istituendo il beneficando, non erede, ma legatario; però é anche vero che un freno a tale elusione sarebbe costituito dal prezzo che dovrebbe pagare, o meglio, far pagare a chi vuol beneficare (nell’esempio, il Bianchi) per conseguire tale elusione.

Disc. E quale sarebbe questo prezzo?

Doc.L’impossibilità del beneficato di godere di eventuali aumenti, nella consistenza del patrimonio da lasciare in eredità, che si verificassero, tra il momento in cui il testamento é fatto e l’apertura della successione. Infatti mentre i beni lasciati all’erede hanno per così dire una vis espansiva (Fulano aveva seicento al momento di scrivere il testamento e al momento della sua morte ha seimila? Caio, che é coerede per il 50%, non prende trecento ma tremila), i beni lasciati in legato rimangono cristallizzati al momento in cui, il testamento, fu fatto: Fulano lasciò trecento in legato a Bianchi? anche se prima della sua morte il suo patrimonio é levitato a seimila, Bianchi non prenderà che trecento.

Disc. Resta il fatto, che Fulano potrebbe nominare erede Bianchi e questi, poi, potrebbe frustrare l’interesse del creditore Canidio a soddisfarsi sul suo patrimonio molto semplicemente accettando con beneficio di inventario.

Doc. Debbo riconoscere che questa tua osservazione colpisce nel segno; ma il fatto che, il disconoscimento, nel testatore, del potere di esentare del pagamento dei debiti

ereditari, non si possa giustificare con la tutela del interesse del creditore a soddisfarsi sui beni dell’erede, non significa che tale disconoscimento non esista e non trovi una valida ragion d’essere.

Disc. Quale sarebbe tale “valida ragion d’essere”?

Doc. Sarebbe la tutela del creditore, contro il pericolo che l’erede sottragga, al soddisfacimento dei crediti ereditari, una parte (che potrebbe essere considerevole) dei beni lasciati dal de cuius, con un’amministrazione di tali beni non oculata (o peggio). Perché, é vero che in caso di accettazione con beneficio d’inventario, l’erede non risponde più dei debiti ereditari con il suo patrimonio, e ciò potrebbe spingerlo a una disattenta e negligente (o addirittura depredatrice) amministrazione dei beni ereditati, ma, é anche vero che, contro il pericolo di ciò, il legislatore con l’istituto dell’accettazione beneficiata appresta delle difese (l’onere, imposto all’erede, dell’inventario, il controllo a cui l’erede accettante “con beneficio” viene sottoposto nell’amministrazione dei beni....), difese che invece mancherebbero nel caso si ammettesse che il testatore potesse esentare l’erede dal pagamento dei debiti sic et simpliciter: una volta che Bianchi sa di non dover rispondere dei debiti (del de cuius) col suo patrimonio, chi lo può trattenere dal fare man bassa dei beni (dal de cuis) lasciati o di disperderli con una cattiva amministrazione?

Disc. Quindi, il testatore Fulano non potrebbe caricare il peso del debito verso Canidio solo sul erede Rossi, sgravandone così il coerede Bianchi.

Doc. No, lo potrebbe, ma solo nel senso che – salvo il diritto di Canidio di aggredire i beni dell’erede Bianchi - Fulano potrebbe imporre al coerede Rossi di rimborsare Bianchi, una volta che questi avesse pagato Canidio.Ciò risulta piuttosto chiaramente dall’articolo 752, che recita: “I coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto”.Ma, ripeto, se Fulano volesse mettere veramente il beneficando Bianchi al sicuro degli assalti dei creditori (dell’eredità), non avrebbe altro mezzo che istituirlo legatario (e non erede).

Disc. Ciò, però, con possibile danno dei creditori, che non potrebbero soddisfarsi sul patrimonio del Bianchi.

Doc. E, bada, i creditori non sarebbero i soli a cui potrebbe derivare danno dalla nomina del Bianchi come legatario (e non erede): pensa al caso che il testatore sia morto mentre stava usucapendo un immobile posseduto in mala fede (quindi, tempo necessario a usucapire anni venti): ebbene, se Fulano avesse istituito Bianchi come erede, questi avrebbe dovuto calcolare il tempo necessario per l’usucapione pari ad anni venti, così come a venti anni avrebbe dovuto calcolarlo il suo dante causa, Fulano: forse che, nel caso, non si sarebbe dovuto applicare l’art. 1146? forse che “il possesso (di Fulano) non continuava “nel Bianchi? Avendo invece il testatore istituito il Bianchi come legatario, a questi, per l’usucapione, basteranno dieci anni (da lui calcolati, per di più, aggiungendo ai suoi anni di possesso quelli del suo dante causa, Fulano) - vedi art. 1159.

Disc. Ma se é così, se la qualifica di un beneficato come erede o legatario viene ad influire sui diritti di terzi, mi pare veramente assurdo (e in contrasto con quell’articolo 1372, da te prima citato!) che la si rimetta alla pura discrezione del testatore!Eppure sembrerebbe proprio questa la conclusione a cui dovrebbe arrivarsi in base al secondo comma dell’art. 588 che recita: “L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio”.

Doc. Tu hai perfettamente ragione; e io ritengo che per evitare tale assurdità si imponga una interpretazione restrittiva della disposizione da te riportata.

Disc. Interpretazione restrittiva in che senso?

Doc. Nel senso che deve ravvedersi un’istituzione come erede, e non come legatario, nonostante ogni contraria volontà del testatore, quando mancano altri eredi (diversi dallo Stato) o i beni assegnati a chi é stato nominato legatario rappresentino una quota di patrimonio non inferiore a quella assegnata al più svantaggiato degli eredi.

Disc. Il criterio da te proposto non mi sembra....il massimo della razionalità.

Doc. Lo riconosco; ma un criterio occorre pur trovarlo ai fini di stabilire un limite alla inammissibile discrezionalità del testatore; e altro criterio, diverso da quello ora proposto, non saprei trovare.

Disc. Ti pongo ora una nuova domanda: il testatore può istituire erede e legatario chiunque o incontra dei limiti in ciò.

Doc. Nessunissimo limite: Fulano può nominare erede o legatario chiunque gli garbi. Unica cosa, non può delegare a un terzo la scelta dell’erede o del legatario né rimettergli la determinazione della quota, spettante a questo o quello erede, né l’oggetto o anche solo la quantità del legato. Disposizioni del tipo: “Lascio al mio caro amico Fabio stabilire chi sarà mio erede ““Lascio a Fabio decidere la quota di eredità di spettanza a ciascuno dei miei figli” “Lego alla fedele mia servitrice Beppa la somma che vorrà stabilire mia moglie” sarebbero tutte disposizioni nulle. Ciò risulta dal primo comma degli articoli 631 e 632.L’articolo 631 nel suo prima comma recita: “E’ nulla ogni disposizioni testamentaria con la quale si fa dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario ovvero la determinazione della quota di eredità”.L’articolo 632, a sua volta, sempre nel primo comma, recita: “E’ nulla la disposizione che lascia al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo di determinare l’oggetto o la quantità del legato”.

Disc. Come si giustifica questa restrizione dei poteri dispositivi del testatore?

Doc. Si giustifica, a mio parere, molto semplicemente col venir meno in tali casi della ragion d’essere........ di un potere dispositivo del testatore. Mi spiego. Tale potere dispositivo é concesso al testatore per permettergli di apportare deroghe all’ ordo successionis stabilito dal legislatore negli articoli 565 e seguenti (c.d. successione legittima). E a sua volta, questa possibilità di apportare tali deroghe, é concessa al fine di incentivare Fulano alla buona amministrazione e all’incremento del suo patrimonio: Fulano, se sapesse che i suoi beni andrebbero alla brutta moglie e ai figli che non l’amano, o, peggio ancora, allo Stato, incrocerebbe le braccia, lascerebbe andare il suo patrimonio in malora; sapendo che, invece, almeno parte dei suo beni la potrà destinare a Marco e a Fabio, che gli sono tanto simpatici, si dimostrerà solerte e oculato amministratore dei suoi beni, così si spera. Ma che dire nei casi in cui Fulano abdica al potere di scegliersi un erede o un legatario? non dimostra egli così facendo che il pensiero di lasciare i suoi beni a questa o a quella persona gli é indifferente, che nessun incentivo da tale pensiero gli può venire per meglio e più alacremente amministrare il suo patrimonio? E se é così, che senso, che utilità ha conferirgli il potere di derogare alle norme sulla successione legittima?! Evidentemente, nessuno.Con tutto ciò tu devi tener presente che il legislatore, mentre ritiene nulla la

disposizione con cui il testatore rimette a un terzo l’indicazione dell’erede o della quota ereditaria, ritiene, invece, perfettamente valida la disposizione con cui il testatore rimette a un terzo l’indicazione della pars bonorum corrispondente alla quota ereditaria da lui indicata (“Lascio a ciascuno dei miei due figli la metà del mio patrimonio e rimetto al mio fedele amico Fabio la indicazione dei beni che di conseguenza loro spetteranno ”).Ciò risulta dal secondo comma dell’articolo 733, che recita: “Il testatore può disporre che la divisione si effettui secondo la stima di persona da lui designata che non sia erede o legatario: la divisione proposta da questa persona non vincola gli eredi, se l’autorità giudiziaria, su istanza di taluno di essi, la riconosce contraria alla volontà del testatore o manifestamente iniqua”.

Disc. Il testatore può apporre un termine finale o iniziale all’istituzione di erede? Voglio dire, sarebbero valide disposizioni del tipo “Nomino mio erede Fabio, ma solo per dieci anni” oppure “Fabio é mio erede però solo dal decimo anno successivo alla mia morte”?

Doc. No, non sarebbero valide. Lo esclude l’articolo 637 recitando: “Si considera non apposto a una disposizione a titolo universale il termine dal quale l’effetto di essa deve cominciare o cessare”.

Disc. Quale la ratio di questa disposizione?

Doc. La stessa che giustifica in buona sostanza il divieto del fedecommesso: si vuole evitare la manomorta o più semplicemente che i beni, costituenti la ricchezza nazionale, siano amministrati senza l’impegno e il dinamismo necessari per farli fruttare al massimo.

Disc. Come può avvenire questo?

Doc. Può avvenire, nel caso di termine iniziale, perché, mentre questo sta maturando, inevitabilmente l’amministrazione dovrebbe essere affidata a un curatore dotato dei limitati poteri che ha il curatore dell’eredità giacente (possibilità di alienare i beni? certo, sì, ma solo dietro autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria ecc.).

Disc. Ma, nel caso di termine finale, chi é chiamato all’eredità, subito, con la sua accettazione, ne entrerebbe in possesso e subito potrebbe direttamente amministrarla.

Doc. Ma certo non si potrebbe permettergli di amministrarla liberamente, dato che allo scadere del termine egli deve consegnare i beni al “nuovo erede”; pertanto anch’egli dovrebbe essere inevitabilmente sottoposto a vincoli nella sua gestione del patrimonio.

Disc. Ma anche il legato non può essere sottoposto a termine?

Doc. No, il legato può esserlo (come si argomenta facilmente anche dall’articolo 640).

Disc. Come si giustifica questa diversità di disciplina tra le disposizioni a titolo universale e quelle a titolo particolare?

Doc. Si giustifica, da una parte, con la considerazione che, in caso di amministrazione con poteri limitati di uno o pochi beni (infatti, a uno o pochi beni si riduce di solito l’oggetto di un legato), il danno - che, certamente, per l’economia nazionale sempre sussiste - non é, però, superiore a quello che si verifica nei casi in cui un bene viene dato in usufrutto (e in effetti, all’amministratore temporaneo dei beni legati, gli Studiosi attribuiscono i poteri che ha l’usufruttuario), dall’altra, con la considerazione, che in molti casi, l’apposizione di un termine a un legato, svolge un’utile funzione: pensa a questo caso: Fulano lega il suo appartamento di Firenze a suo nipote Marco, che a Firenze dovrà recarsi a studiare, fino a che compirà ventidue anni, presumendo che al ventiduesimo anno egli cesserà di frequentare l’università; pensa ancora a quest’altro caso: Fulano lega la sua azienda al nipote Marco, ma solo dopo che avrà compiuti i vent’anni (dato che a solo al raggiungimento di tale età Fulano presume che il nipote avrà raggiunta la maturità necessaria per ben amministrarla).

Disc. Ma chi é l’amministratore temporaneo di un bene legato sotto termine?

Doc. Nel caso che il termine sia iniziale, é l’erede (melius, l’onerato, dato che la persona che subisce il peso del legato può essere sia un erede che un altro legatario, e in effetti il nostro diritto conosce l’istituto del “prelegato”: il legato gravante su un legatario); nel caso di temine finale, é il beneficiario del legato, il legatario. (vedi articolo 640).

Disc. Immagino che il legato, così come può essere sottoposto a termine, così possa essere sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva. E immagino che le stesse ragioni, che portano ad escludere l’apposizione di un termine a una disposizione a titolo universale (necessità di evitare un’amministrazione azzoppata dei beni ereditari), portino invece ad escludere l’apposizione, a tale tipo di disposizione, di una condizione sospensiva o risolutiva.

Doc. Per quel che riguarda il legato immagini il giusto, mentre ti smentisce, per quel che riguarda le disposizioni a titolo universale, l’articolo 633, che recita: “Le disposizioni a titolo universale o particolare possono farsi sotto condizione sospensiva o risoluzione”.

Disc. Come si spiega che una disposizione a titolo universale, che non sopporta nessun termine, né iniziale né finale, tolleri invece una condizione sospensiva o risolutiva.? forse che l’esistenza di una tale condizione non giustifica il timore di un’amministrazione “debole” del patrimonio ereditario (o di una sua quota)?

Doc. Certo che lo giustifica, e in effetti la amministrazione della pars bonorum sottoposta a condizione sospensiva va affidata a un amministratore (v. art. 641) che la gestirà con gli stessi limiti che incontra il curatore dell’eredità giacente (v. art. 644), e se é vero che all’amministrazione della pars bonorum sottoposta a condizione risolutiva provvede direttamente l’erede (arg. ex art. 639), é anche vero che questi incontra, nella sua gestione, praticamente gli stessi limiti dell’usufruttuario.

Disc. - Quindi non può alienare i beni che compongono la sua quota (ereditaria).

Doc. No, in teoria lo può; siccome però ogni alienazione da lui fatta dovrebbe intendersi sottoposto a condizione risolutiva (v. art. 1357) é ben difficile che trovi acquirenti.

Disc. E allora, se il pericolo di una amministrazione azzoppata dei beni ereditari esiste, nel caso di apposizione di una condizione, perché il legislatore l’ammette?

Doc. Perché deve riconoscere che l’apposizione di una condizione svolge in molti casi un’utile funzione sociale (che porta a tenere in non cale gli inconvenienti che comporta). Ad esempio, é nell’interesse della società che Fulano lasci in eredità l’azienda al nipote Marco, a condizione che prenda la laurea in ingegneria

(preferendogli in caso contrario l’amico Fabio, che non ha il suo stesso sangue, ma che ingegnere lo é e dà quindi garanzie di ben gestire l’azienda). Ancora é nell’interesse della società, che Fulano disponga per la risoluzione del lascito ereditario per il caso che il nipote (sciaguratello) si faccia di nuovo condannare per spaccio di droga.Chiaro, poi, che, una volta apertosi un varco, in esso si intrufolano anche “condizioni” poste a tutela di interessi, che per la società sono indifferenti; cosa per cui, ad esempio, si ritengono dalla maggior parte degli Studiosi valide, ancorché siano poste a tutela di interessi familiari in definitiva indifferenti per lo Stato, la condizione si sine liberis decesserit (se mio figlio Marco morirà senza figli gli succederà nell’eredità Sempronio) e la condizione di non alienare i beni ereditari (purché il divieto di alienare sia contenuto in ragionevoli limiti di tempo, altrimenti la condizione si ritiene invalida).

Disc. Quindi mi pare di capire che vi sono condizioni che il legislatore considera illecite.

Doc. Sì, vi sono condizioni che il legislatore considera illecite, come risulta dall’articolo 634 che (sotto la rubrica “Condizioni impossibili o illecite”) recita: “Nelle disposizioni testamentarie si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, salvo quanto dispone l’art. 626” - articolo questo che a sua volta recita: “Il motivo illecito rende nulla la disposizione testamentaria, quando risulta dal testamento ed é il solo che ha determinato il testatore a disporre”.

Disc. Fai qualche esempio di condizione contraria a norme imperative?

Doc. La condizione di non chiedere il beneficio di inventario (v. co. 2 art. 470), la condizione di...uccidere una persona.

Disc. E ora qualche condizione contraria all’ordine pubblico.

Doc. La condizione di non sposarsi, di prendere una determinata laurea (a meno che essa sia giustificata dalla necessità di salvaguardare particolari interessi che la Società ritiene meritevoli di tutela, come nell’esempio prima fatto), di non iscriversi a un dato partito, di avere o meno figli e, in genere, tutte le condizioni che hanno il risultato di comprimere la libera manifestazione della personalità dell’erede (o legatario).

Disc. Ancora uno sforzo: dì una condizione da ritenersi contraria al buon costume.

Doc. Non é facile in una società permissiva come la nostra trovarne una: si può pensare alla condizione di permettere ai figli l’uso della droga (io ti nomino erede se tu non ti opporrai che i tuoi figli facciano libero uso della droga).

Disc. Dall’articolo riportato quindi risulta che la condizione impossibile o illecita non rende nulla la disposizione testamentaria (a meno che il suo avveramento o non-avveramento costituisca l’unico motivo che ha determinato “il testatore a disporre”).

Doc. Sì, é così, l’articolo 634 riprende la Regula sabiniana secondo cui, di norma, le condizioni impossibili o illecite vitiantur sed non vitiant.

Disc. Però per i contratti vale la regola contraria: le condizioni illecite e le condizioni impossibili (queste salvo che siano risolutive) per l’art.1354 vitiantur et vitiant. Come si spiega questa differenza di disciplina?

Doc. Si spiega con il principio del favor testamenti. Principio il quale a sua volta si spiega con l’impossibilità in cui si trova il testatore di ripetere la “disposizione” (senza la condizione viziante). In buona sostanza, se é dubbio che Rossi e Bianchi avrebbero stipulato il contratto in mancanza della condizione illecita, é giusto risolvere tale dubbio nel senso della nullità del contratto: nell’interpretazione della volontà delle parti si é sbagliato? si sarebbe dovuto ritenere che queste avrebbero stipulato il contratto anche in difetto della condizione viziata (caso in cui, secondo l’interpretazione restrittiva ma migliore dell’art. 1354, il contratto avrebbe dovuto ritenersi perfettamente valido)? pazienza, in definitiva Rossi e Bianchi hanno pur sempre la possibilità di rinnovare la stipula, naturalmente senza più apporre la condizione viziata. Questa possibilità invece manca al testatore; e questo rende preferibile risolvere il dubbio de quo nel senso che il testatore, dovendo scegliere, avrebbe scelto di ripetere la disposizione testamentaria ancorché priva della condizione.

Disc. Può il testatore imporre degli obblighi a chi ha istituito erede o legatario?

Doc. Certo, e li può imporre in due modi diversi; subordinando l’istituzione di erede o il legato a una condizione potestativa positiva o negativa (“Nomino Marco mio

erede a condizione che riedifichi la cappella dedicata alla Santissima Vergine”) oppure apponendo all’’istituzione o al legato un “onere” (“Nomino erede Marco imponendogli l’onere di ricostruire ecc.ecc.”).

Disc. Quali le differenze nei due casi?

Doc. Essenzialmente due.Prima differenza: nel primo caso (obbligo inserito sotto forma di condizione) l’erede (o il legatario) pur avendo accettato l’eredità (o il legato) può omettere di adempiere l’obbligo senza altra conseguenza di perdere l’eredità o il legato.Nel secondo caso, invece, il vocatus, una volta accettata l’eredità o il legato, non avrà altra scelta se non quella di adempiere l’onere, anche se si accorge (ahimè, tardivamente) che l’utile connesso all’eredità e al legato é inferiore alla spesa che comporta l’adempimento dell’onere (“Povero me, la spesa che comporta la ricostruzione della cappella é superiore al prezzo che posso ricavare dalla vendita del campicello legatomi”).

Disc. Passa a dire della seconda differenza tra obbligo risultante da una condizione potestativa e obbligo risultante da un onere.

Doc. La seconda differenza é questa: nel caso di obbligo imposto nella forma dell’onere, per il suo adempimento, come recita l’articolo 648, “può agire qualsiasi interessato” (l’erede Marco non adempie l’onere di restaurare la cappella? Il parroco può fargli causa per costringerlo ad adempiere); nel caso, invece, di obbligo imposto sotto forma di condizione, può far valere il suo inadempimento, solo chi subentrerebbe all’erede o al legatario in caso di mancato avveramento della condizione sospensiva o di avveramento di quella risolutiva (quindi, se si tratta di legato,l’onerato, se si tratta di istituzione a erede, la “persona a cui favore é stata disposta la sostituzione”, il coerede “quando tra esso e l’erede condizionale vi é diritto di accrescimento”, “il presunto erede legittimo” - vedi melius l’art. 642 che contempla una situazione analoga).

Disc. Abbiamo visto che la condizione potestativa impossibile o illecita si considera non apposta, penso che analoga disposizione sia prevista per l’onere impossibile o illecito.

Doc. E pensi il giusto. Infatti l’articolo 647 - dopo aver premesso nel suo primo

comma che “Tanto all’istituzione di erede quanto al legato può essere apposto un onere” - nel suo terzo comma recita: “L’onere impossibile o illecito si considera non apposto; rende tuttavia nulla la disposizione, se ne ha costituito il solo motivo determinante”.

Disc. Tu hai detto che per l’adempimento dell’onere può agire “qualsiasi interessato”. Ora in certe ipotesi é facile individuare la persona interessata all’adempimento dell’onere: Fulano impone all’erede l’onere di pagare ogni mese tot a Fabio: chiaro che é Fabio l’interessato all’adempimento dell’onere. Ma in altre ipotesi, l’individuazione dello “interessato” mi pare tutt’altro che facile; io penso al caso in cui il testatore abbia imposto di distribuire centomila euro tra i “poveri della città”: come si fanno a individuare tutti i poveri della città per dividere poi tra di loro i centomila euro?Vi sono poi ipotesi in cui non si può dire che viva un interessato all’adempimento dell’onere: penso al caso che il testatore abbia imposto di far dire messe per la salvezza della sua anima (é chiaro che l’unico interessato all’adempimento di questo onere é lui che però...non é più in vita). In altre ipotesi ancora l’interessato sarebbe anche facilmente individuabile (penso al caso in cui l’onere consiste nel pagamento di una somma al vincitore di un premio), però, data la piccolezza della posta in gioco si tratta di un interessato che.. ..non avrebbe interesse a sostenere le spese necessarie per costringere all’adempimento dell’onere.Insomma a me pare che in molte ipotesi l’onere imposto dal testatore sia destinato a restare inadempiuto.

Doc. Proprio in considerazione di quel che tu hai ora detto nel codice é previsto che il testatore nomini un esecutore testamentario (art. 700); cioé una persona col compito “di curare che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto”.

Disc. Ma l’esecutore testamentario ha solo il compito di curare che gli oneri imposti dal testatore siano adempiuti?

Doc. L’ampiezza dei compiti del curatore dipende in definitiva dalla volontà del testatore e quindi potrebbe ridursi effettivamente al compito di agire per l’esatto adempimento degli oneri imposti (o anche di un solo onere, vedi il terzo comma dell’art. 629, vedi anche l’art. 630). Però i compiti del curatore possono essere ben più ampi; come ti risulterà dalla lettura degli artt. 700 e seguenti (che ti invito a fare)

e in pratica effettivamente più ampi di solito sono.

Lezione XI: Capacità di disporre per testamento. Forma di questo.

Disc. Che cosa si intende per testamento?

Doc. Te lo dice il primo comma dell’articolo 587, che recita: “Il testamento é un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo per cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”.

Disc. Quindi non potrebbe considerarsi un testamento l’atto con cui Fulano si limitasse: a disporre per la sua salma (voglio essere cremato); a dare istruzioni ai figli sul come comportarsi (voglio che Giuseppe prenda la laurea).

Doc. No, un tale atto non potrebbe considerarsi un testamento: il legislatore non dà tutela e rilevanza alle ultime volontà di chi non si cura di disporre dei suoi beni (o di chi non dispone dei suoi beni per la semplicissima ragione che non ne ha).Ciò non significa però che nel testamento non possano essere inserite anche “disposizioni di carattere non patrimoniale” (ad esempio, un riconoscimento di paternità). Questo, direi, anche quando l’inserimento di tali disposizioni non sia “consentito” da un’espressa disposizione di legge (anche se so che, dicendo questo, vengo ad operare un’interpretazione restrittiva del secondo comma dell’articolo 587, la cui lettera farebbe pensare il contrario – infatti, tale comma suona “Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale”).

Disc. La legge riconosce a tutti il potere (melius, la capacità) di fare testamento? Anche l’analfabeta, anche lo “scemo del paese” o una persona dedita all’alcool o agli stupefacenti può disporre per testamento del suo patrimonio? E questo anche se il patrimonio é di gran rilevanza economico e sociale?

Doc. Sul punto ti risponde il primo comma dell’art. 591, che recita: “Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge”.

Disc. Ma chi sono quelli che la legge dihciara incapaci (a far testamento)?

Doc. Ti risulta dal secondo comma dello stesso articolo; che ne fa un elenco che, bada, deve considerarsi tassativo; cioé tu non puoi per analogia dedurre l’incapacità di chi non risulti, in tale elenco, rientrante.Precisamente il secondo comma in discorso recita:“Sono incapaci di testare. 1) coloro che non hanno compiuto la maggiore età; 2) gli interdetti per infermità di mente; 3) quelli che, sebbene non interdetti, si provi esserestati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere o di volere nel momento in cui fecero testamento”.

Disc. Quindi un giovane con il cervello sprizzante idee, sol perché non ha diciotto anni, non può fare testamento, mentre lo può fare un vecchio rimbambito: mi pare assurdo.

Doc. Sì, una persona anziana, anche se con l’età ha subito un decadimento delle sue facoltà intellettive e volitive, può testare (a meno che tale decadimento non arrivi a una vera incapacità di intendere e di volere): non si può togliere alle persone anziane, quell’arma, diciamo pure di ricatto, che é per loro la facoltà di fare (e revocare) un testamento (“se tu, Marco, non mi assisti, come erede nomino Giulio”).

Disc. Ma si considererà invalido anche il testamento fatto da Fulano, sì, quando aveva solo sedici anni, ma poi da lui, giunto in età matura, non revocato? Insomma, la mancata revoca, non dimostra che Fulano, con il maggior senno che danno gli anni, ha confermato il suo precedente testamento?

Doc. Non lo dimostra con quella chiarezza che il legislatore pretende per dare rilevanza a una volontà testamentaria. Noi vedremo subito che il legislatore, con varie norme del codice, non riconosce validità a tutte le dichiarazioni di una volontà testamentaria, ma solo a quelle che sono rivestite da quelle forme che garantiscono la loro autenticità: ammettere una conferma tacita di un testamento invalido costituirebbe una inammissibile deroga a tali norme.

Disc. Se un infermo di mente, che non sia interdetto, fa testamento in un momento di lucidità, il suo testamento va considerato valido, o no?

Doc. - Tu ti poni evidentemente nel caso di una infermità a carattere intermittente; ebbene, se, in un così detto “lucido intervallo” lasciato all’infermo dalla sua malattia, questi dispone del suo patrimonio, il testamento, da lui così fatto, é perfettamente

valido. Infatti per stabilire la validità di un testamento deve farsi riferimento al “momento” in cui é stato fatto (vedi ultima parte del numero tre). Quanto detto vale però solo per l’infermo non interdetto: per l’interdetto vale invece la regola che il testamento é invalido, anche se fatto in un momento di lucidità.

Disc. L’inabilitato può fare testamento?

Doc. Sì, una persona, ancorché inabilitata per prodigalità (e come tale riconosciuta incapace di bene disporre del suo patrimonio), può fare testamento.

Disc. Assurdo! E il minorenne emancipato? Se può fare testamento l’inabilitato, penso che lo potrà fare anche l’emancipato.

Doc. E invece ciò si nega da un’autorevole Dottrina, basandosi sulla lettera del numero 1(che parla di “minorenne” senza distinguere).

Disc. Doppiamente assurdo, specie se si tiene conto che il minorenne diventa emancipato dopo che il tribunale ha “accertata la sua maturità psicofisica” (art. 84). Ma un testamento invalido può essere impugnato da chiunque?

Doc. Non da “chiunque”, ma, quello, sì, da una nutrita serie di persone: infatti il terzo comma dell’articolo 591 in esame, recita: “Nei casi d’incapacità preveduti dal presente articolo il testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse”. E le persone che hanno interesse a impugnare un testamento possono essere numerosissime, dato che in esse rientrano, non solo che sarebbero chiamati all’eredità in caso di annullamento del testamento, ma anche i legatari e i beneficiati da un “onere”.

Disc. Il testamento fatto dall’incapace può essere impugnato in ogni tempo?

Doc. No, perché ciò contrasterebbe con l’esigenza di dare certezza alla destinazione del patrimonio ereditario (forse che non é interesse della Società che questo patrimonio venga validamente amministrato? forse che, chi é evocato all’eredità da un testamento su cui pende la spada di Damocle di un annullamento, sarebbe portato a impegnarsi seriamente nella sua amministrazione? forse che egli troverebbe gli acquirenti di quegli immobili di cui un’oculata amministrazione reclama la vendita?! ). Ciò spiega perché l’ultima parte del comma terzo, a cui prima ci siamo

riferiti, reciti: “L’azione (per impugnare il testamento) si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui é stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie”.

Disc. Non sarebbe più logico far decorrere il termine dall’apertura della successione?

Doc. No, perché il termine é opportuno che decorra – se non dal momento in cui gli interessati all’impugnazione sono venuti a conoscenza (non della morte del de cuius, ma) del testamento – almeno da un momento in cui l’esistenza del testamento viene rivelata inequivocabilmente al pubblico.

Disc. Quindi da un atto che ne dà esecuzione, come l’accettazione dell’eredità o la denuncia di successione.

Doc. No, l’accettazione e la denuncia di successione non potrebbero essere considerati inequivocabili atti esecutivi del testamento viziato (forse che con la sua dichiarazione di accettazione, Rossi non potrebbe voler semplicemente rispondere alla vocazione fatta a lui da un altro testamento, sempre dello stesso de cuius, ma valido?). Occorre invece che il termine decorra solo da un atto che da un vocato può essere compiuto solo in forza del testamento viziato.

Disc. Chi vuole fare testamento incontra gli stessi limiti di forma che incontrerebbe, per gli artt. 1350 seguenti, se dovesse fare un contratto: libero di disporre dei suoi beni mobili anche oralmente, vincolato alla forma scritta solo se dispone di beni immobili?

Doc. No, anche se il patrimonio di cui vuole disporre é di poche migliaia di euro (i mobili della cucina, l’orologio d’argento che porta al polso....), il testatore deve esprimere la sua volontà uniformandosi a precise formalità.

Disc. Quali?

Doc. Il legislatore, negli articoli 601 e segg., contempla vari tipi di testamento, stabilendo per ciascuno di essi le forme con cui va redatto: ebbene chi vuole fare testamento deve adottare uno di tali testamenti e le relative sue forme.

Disc. Allora ti domando, quali testamenti prevede, il legislatore, negli artt. 601 e segg.?

Doc. Il legislatore in tali articoli prevede due fondamentali categorie di testamenti. I testamenti ordinari e i testamenti speciali.I testamenti ordinari sono “il testamento olografo e il testamento per atto di notaio. Il testamento per atto di notaio – mi sto esprimendo con le parole dell’art. 601 – é pubblico o segreto”.

Disc. Quali sono i requisiti di forma del testamento olografo?

Doc. I requisiti di forma del testamento olografo, sono individuati dall’articolo 602: nella autografia, nell’apposizione della data e nella sottoscrizione.

Disc. Che comporta il requisito della autografia?

Doc. Comporta che il testamento: A) deve essere redatto personalmente dal testatore (egli non potrebbe delegare un terzo a scriverlo); B) deve essere redatto dal testatore “di proprio pugno” (quindi il testatore non potrebbe servirsi per scriverlo di un mezzo meccanico come il computer); C) deve essere redatto dal testatore utilizzando la propria calligrafia abituale (quindi, non sarebbe ammissibile una scrittura a stampatello).

Disc. E se il testamento fosse in parte autografo e in parte eterografo?

Doc. Secondo l’opinione prevalente tra gli studiosi, sarebbe nullo.

Disc. La data dove va collocata?

Doc. In qualsiasi luogo della scheda, purché sia chiaro che si riferisce al momento in cui il testamento fu redatto. Invece la sottoscrizione (che può essere fatta anche utilizzando elementi diversi dal nome e cognome) deve chiudere la parte dispositiva del testamento.

Disc. Bene, il testamento olografo si ha quando il testatore solo soletto si fa il suo testamento (col rischio di sbagliare, ma con il vantaggio di risparmiare gli onorari del notaio). Quando si hanno invece il testamento pubblico e il testamento segreto (cioé le due sottospecie del più ampio genus del testamento “per atto di notaio”)?

Doc. Il testamento pubblico si ha quando il testatore esprime oralmente la sua volontà al notaio che (interpretandola ed esprimendola in forma chiara e logica) la verbalizza. Questo in sintesi: nell’art. 603 (e nella legge notarile) potrai leggere la minuta disciplina che il legislatore dà a questo tipo di testamento.Il testamento segreto si ha quando la scheda testamentaria é redatta dal testatore (bada, senza che gli occorra scriverla di suo pugno, la potrebbe anche dattiloscrivere o dettarla a un terzo) e viene consegnata al notaio sigillata. Anche qui, per la dettagliata disciplina di questo testamento, ti rimando al codice e precisamente al suo art. 604.

Disc. L’inosservanza delle forme prescritte per i vari tipi di testamento sopra menzionati viene sanzionata dal legislatore?

Doc. Sì; e, alcune colte, con la nullità, altre, con la annullabilità. Come ti risulta dall’art. 606, che recita: “Il testamento é nullo quando manca l’autografia o la sottoscrizione nel caso di testamento olografo, ovvero manca la redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore o la sottoscrizione dell’uno o dell’altro, nel caso di testamento per atto di notaio.- Per ogni altro difetto di forma il testamento può essere annullato su istanza di chiunque vi ha interesse. L’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui é stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie”.

Disc. Fai un esempio di difetto di forma determinante solo l’annullamento.

Doc. La mancanza della data. Ed é logico che la mancanza della data non determini automaticamente la nullità del testamento. Infatti essa viene richiesta solo in vista di certe particolari situazioni (metti, quando si deve stabilire l’anteriorità tra due diversi testamenti oppure c’é il dubbio che il testamento sia stato redatto nella minore età del testatore....); pertanto, quando tali particolari situazioni difettano (non esiste nessun altro testamento, il testatore dispone a favore dei nipoti, chiaramente quindi in età maggiore...) sarebbe assurdo far derivare la nullità del testamento dalla sua mancanza.

Disc. Eppure, se “chi vi ha interesse” lo domanda, l’annullamento sarà dichiarato!

Doc. Sì, il legislatore si é....fermato a metà strada: avrebbe dovuto stabilire che la nullità non c’é se la mancanza della data non acquista rilievo (nel senso sopradetto).

Disc. Quali sono le esigenze che il legislatore vuole soddisfare gravando il testatore di tante formalità?

Disc. Sono, in genere, l’esigenza di assicurare che le disposizioni testamentarie provengono veramente dal de cuius, in una situazione in cui questi, non essendo più tra i vivi, non potrebbe farsi avanti per denunciare eventuali falsificazioni della sua volontà e, per quel che riguarda il requisito della data, l’esigenza di creare un elemento, che permetta di risolvere le questioni a cui poco fa ho fatto cenno(anteriorità di questo o quel testamento.....).

Disc. Il legislatore non ritiene una esigenza meritevole di essere soddisfatta, quella di sollecitare a una particolare serietà e approfondimento, chi vuole compiere un atto così importante come il testamento?

Doc. No, di tale esigenza non si preoccupa (se se ne preoccupasse non ammetterebbe il testamento olografo!).

Disc. Le formalità, imposte dal legislatore a chi vuole testare, saranno senz’altro opportune, ma ci sono situazioni in cui una persona potrebbe trovare impossibile o molto difficile adottarle (e penso qui soprattutto alle formalità connesse ai testamenti “per atto di notaio”), ancorché tali situazioni siano tali da farle temere per la sua vita.

Doc. Il legislatore si fa carico delle situazioni a cui tu ti riferisci e per esse prevede tipi di testamento, che contemplano, sì, delle forme, ma delle forme molto più semplificate rispetto a quelle imposte per il testamento per atto del notaio. Si tratta dei “testamenti speciali”, a cui prima ho fatto cenno e la cui disciplina tu potrai apprendere leggendo gli articoli 609 e segg.

Lezione XII: La divisione: il suo presupposto: la comunione ereditaria.

Disc. I coeredi, una volta apertasi la successione, si trovano ad avere in comune i beni che formavano il patrimonio del de cuius: a quali norme debbono uniformarsi nell’amministrazione di tale comune patrimonio.

Doc. Alle norme che disciplinano la comunione ordinaria: artt. 1100 e segg.Bada, però, che non é vero che sempre apertasi la successione i coeredi si trovino in

una situazione di comunione: se il de cuius nel suo testamento ha diviso tutti i beni del suo patrimonio, attribuendo, metti l’immobile B, a Caio, l’immobile C a Sempronio e così via, i beni così assegnati passano recta via nel patrimonio degli eredi senza che si determini tra di loro nessuna comunione.

Disc. Ma mettiamo che non sia così, mettiamo che una comunione ereditaria si determini: se a tale comunione si applicano le norme sulla comunione ordinaria, ciò significa che ad essa si applica anche l’articolo 1108, che richiede delle maggioranze qualificate (ben difficili a raggiungersi) per gli atti di straordinaria amministrazione e addirittura il consenso di tutti i partecipanti alla comunione “per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni superiori a nove anni”: ora a me pare assurdo che per vendere i...mobili della cucina (lasciati dal de cuius) si richieda l’unanimità dei coeredi. Regole così severe chiaramente non permettono una veramente proficua utilizzazione del patrimonio comune; tanto più che non sarà facile, il più delle volte, mettere d’accordo sull’adozione di un atto di amministrazione persone tra cui il dialogo é presumibilmente difficile, specie quando nessun legame familiare hanno tra di loro.

Doc. Tu dunque riterresti più razionale una normativa, che consentisse alla maggioranza dei coeredi di vendere una cosa appartenente all’asse ereditario, quando tale vendita, per la sua modesta importanza rispetto al complesso dei beni ereditari, potesse essere considerata di “ordinaria amministrazione” (un po’ come di ordinaria amministrazione potrebbe essere considerata la vendita di un elemento secondario di una universitas iuris: la vendita di una pecora facente parte di un gregge). Senonché tale soluzione a tutta prima di mero buon senso, in realtà sarebbe molto pericolosa perché aprirebbe un varco a ciò che giustamente il legislatore vuole evitare: a una divisione dei beni operata – non così come é giusto che sia o in base all’unanimità del consenso dei coeredi o in base al dictum del giudice – ma in base alla volontà della maggioranza dei coeredi – volontà che sarebbe portata a sacrificare l’interesse di un coerede al proprio interesse: ci sono tre eredi, Tizio, Caio, Sempronio e l’asse ereditario é costituito dai campi A e B fertili e verdeggianti e dal campo C che dà solo sterpaglia: Tizio e Caio si mettono d’accordo: “il campo A si vende a me, Tizio, per un prezzo “ragionevole”; il campo B si vende a te, Caio, per un prezzo altrettanto ragionevole; il campo C, che residua, si divide: e il gioco sarebbe fatto (a spese del povero Sempronio) se la normativa da te auspicata fosse stata adottata. Non é così? Ti sembra ancora una normativa da adottare quella da te auspicata?

Disc. Ma io auspicavo una normativa che permettesse alla maggioranza, sì, la alienazione di singoli beni dell’eredità; ma solo quando tale alienazione potesse considerarsi di ordinaria amministrazione.

Doc. Lo capisco; ma esiste un criterio chiaro e obiettivo in base a cui stabilire se la alienazione di un bene costituisce un atto di ordinario o di straordinaria amministrazione? No, non esiste. Per cui ripeto permettere le alienazioni di “ordinaria amministrazione” finirebbe ad aprire un varco alla divisione ad opera solo della maggioranza dei coeredi. Ciò che é inammissibile.

Disc. Ma allora prima che intervenga la divisione non si può vendere nessun bene dell’asse ereditario?

Doc. No, si può vendere, ma con alcuni limiti e cautele posti a tutela degli eventuali coeredi dissenzienti e dei creditori e legatari.

Disc. Cosa c’entrano i creditori e i legatari?

Doc. C’entrano perché essi verrebbero lesi nei loro interessi se un bene che vale cento venisse venduto a sottoprezzo e pertanto sostituito da solo cinquanta nel patrimonio ereditario (per cui essi solo su cinquanta e non più su cento potrebbero soddisfare il loro diritto).

Disc. E allora?

Doc. Allora, a meno che il bene sia messo “all’incanto” cosa che (in teoria!) garantisce i creditori e i legatari che non verrà venduto sottoprezzo, il legislatore concede loro di opporsi alla vendita, anche, bada, se questa é voluta da tutti i partecipi della comunione ereditaria, da tutti i coeredi. E’ questa senza dubbio una deroga all’art. 11O8, ma una deroga che si argomenta facilmente dall’articolo 719 (anche se questo, come vedremo subito, di per sé si riferisce solo alle vendite dei beni ereditari fatte al fine di pagare i debiti e i pesi ereditari).

Disc.Con ciò hai detto delle cautele a favore dei creditori e legatari, dì ora dei limiti e delle cautele poste a tutela dei coereid dissensienti:

Doc. Tali limiti e cautele comportano che la vendita di un bene rientrante nell’asse

ereditario si possa fare solo se: 1) é deliberata dai coeredi le cui quote corrispondono almeno al 51% dell’asse ereditario; 2) avviene al fine di pagare i”debiti e epsi ereditari”; 3) avvenga all’incanto, 4) riguardi beni immobili solo se mancano beni mobili; 5) tra i beni immobili riguardi in primis quelli “la cui alienazione erchi minor pergiudiizo agli interessi dei condividenti”.Tutto ciò riuslta dall’art. 719, che ercita. “Se i coeredi aventi diritto a più della metà dell’asse concordano nella neecssità della vendita per il pagamento deo debiti e pesi ereditari, si procede alla vendita dei beni mobili e, se occorre, di quei beni immobili la cui alienazione rechi minor pregiuidizo agli interessi dei condividenti.- Quando concorre il consenso di tutte le parti, la vendita, la vendita può seguire tra i soli condividenti e senza pubblicità, salvo che vi sia opposizione dei legatari o dei creditori”.

Disc. Dall’ultimo comma sembrerebbe che la evndita a trattativa privata possa farsi solo a favore dei “condividenti”; e non di terzi, e non capicso il perché.

Doc. E in realtà non c’é nulla da acpire: nonostante la contorta formula legislativa é pacifico che i coeredi possono vendere se concordi anche a un terzo: é ovvio che la volontà concorde di tutti i proprietari di un bene non incontra altri limiti che quelli dettati dalla tutela dei creditori e legatari.

Disc. Resta il fatto che, nonostante la deroga dell’articolo 719, i limiti posti, all’amministrazione dei beni ereditari, dall’art. 118 costringono a una sottoutilizzazione di questi beni con danno dell’economia.

Doc. Ed é per questo che il legislatore ispira le sue norme a un deciso favor divisionis: lo scioglimento della comunione va favorito al massimo, ben inteso una volta che siano individuati con certezza i coeredi; dato che una divisione a cui non partecipino tutti i coeredi sarebbe annullabile e, certo, il legislatore non può favorire una divisione che é a rischio di essere annullata! (Per casi in cui i coeredi non possono dirsi individuati con sicurezza - caso in cui il vocatus non é ancora nato ma é solo concepito, caso in cui pende ancora il giudizio per l’accertamento dello status di figlio naturale del vocatus....- vedi l’ art. 715).

Disc. Sì, ma in che modo il legislatore favorisce lo scioglimento della comunione?

Doc. Da una parte, riconoscendo chiaramente ai coeredi il diritto di chiedere in ogni

momento la divisione: recita il primo comma dell’articolo 713: “I coeredi possono sempre domandare la divisione”. Dall’altra, ponendo precisi limiti al potere – che pur riconosce al testatore – di porre un termine prima del quale la divisione non é possibile: termine che é normalmente é di cinque anni e che eccezionalmente viene prolungato, nel caso di eredi minori di età, fino a un anno dopo il raggiungimento della loro maggiore età (sul punto vedi melius l’art. 713)

Lezione XIII: La divisione (continuazione). L’attribuzione alle quote dei beni ereditari

Disc. Volendo sciogliere la comunione occorre attribuire ai coeredi i vari beni che compongono l’asse ereditario: con che criterio si opera tale attribuzione?

Doc. Col criterio di ottenere alla fine di questa la seguente equazione: valore dei beni attribuiti a ciascun coerede: al valore complessivo dei beni costituenti l’asse ereditario = la quota di beni spettanti a ciascun coerede: alla totalità dell’asse. Ad esempio se Fulano ha diritto alla quota di un terzo e il valore complessivo dei beni costituenti l’asse ereditario é 90, a Fulano vanno attribuiti beni per il valore di un terzo di 90 = 30. Questo come regola generale, salvo quanto diremo nella prossima lezione a proposito delle “imputazioni” e dei prelevamenti” di cui fanno parola gli articoli 724 e 725.

Disc. Quindi, per procedere alla divisione, si deve compiere una valutazione dei beni. Senonché questa, essendo operata da un essere umano, può ben essere falsata da errore incolpevole o addirittura doloso: per rifarci all’esempio precedente: a Fulano, a cui vanno attribuiti beni per un valore di 30, possono venire attribuiti i beni A e B il cui valore, affermato pari a trenta, é in realtà pari solo a 20. Come si può pensare di ridurre al massimo tale possibilità di errore?

Doc. Prima di tutto, e ovviamente, incaricando della stima dei beni un tecnico competente.

Disc. Vi é un articolo del codice che impone ciò?

Doc. No. L’articolo 726 impone, sì, di procedere alla stima dei beni, ma non dice da chi va effettuata. E non lo dice perché rientra nelle cose ovvie che, quando i beni hanno una certa rilevanza economica, alla loro stima provveda un tecnico.

Disc. Penso che la nomina di un tecnico non sia l’unico espediente per evitare errori nella stima dei beni ereditari.

Doc. Chiaro che no: un altro espediente per evitare errori nella stima dei beni e veramente radicale consiste......nell’evitare la loro stima.

Disc. Com’é possibile evitare la stima dei beni?

Doc. E’ possibile attribuendo a ciascun erede beni “di eguale natura e qualità,in proporzione dell’entità della (sua) quota” - così come impone l’articolo 727 co.1.. Mi spiego con un esempio: gli eredi sono tre, Caio I, Caio II, Caio III e l’asse ereditario é composto da sei quintali di grano e da sei quintali di miglio. Se si attribuiscono a ciascun erede due quintali di grano e due quintali di miglio, diventa inutile la stima di quanto valga il grano e quanto il miglio; se invece si volesse attribuire a un erede, a Caio I, solo del grano, si imporrebbe, allora sì, la necessità di previamente stabilire quanto vale il grano e quanto vale il miglio: se grano e miglio hanno uguale valore, nulla quaestio: si daranno quattro sacchi di grano a Caio I e tre sacchi di miglio + un sacco di grano agli altri due coeredi, Caio II e Caio III, ma se, metti, un sacco di grano avesse il doppio del valore di un sacco di miglio, si dovrebbero dare tre sacchi di grano a Caio I, e tre sacchi di miglio + un sacco e mezzo di grano agli altri due coeredi.

Disc. Che complicazione!

Doc. Proprio per evitare queste complicazioni e soprattutto la possibilità di errore che si annida in ogni stima, l’art. 727, come prima ho accennato, dispone che i beni ereditari,, salvo il caso in cui essi o alcuni di essi non siano ripartibili (per legge o per loro natura – sul punto vedi gli artt. 720 e 722), vadano attribuiti in modo che a ciascuno erede ne tocchi una parte; più precisamente l’articolo 727 recita: “”Salvo quanto disposto dagli artt. 720 e 722, le porzioni devono essere formate, previa stima dei beni, comprendendo una quantità di mobili immobili e crediti di eguale natura e qualità in proporzione dell’entità di ciascuna quota”.E l’articolo 718 - facendo evidente, anche se implicito, riferimento a quella species di bene che é il denaro e al caso che nell’asse ereditario siano compresi, oltre a questo, altri beni – esprime in buona sostanza lo stesso concetto dell’articolo 727 (tanto da potersi ritenere superfluo); infatti recita: “Ciascun coerede può chiedere la sua parte

in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli seguenti”.

Disc. Quindi se gli eredi sono due: Caio I e Caio II e l’asse é formato da sei quintali di grano e seicento euro; anche se ogni quintale di grano é stato stimato del valore di cento euro, il giudice non potrebbe attribuire tutto il grano a Caio I e tutti i soldi a Caio II. Tanto meno il giudice, nel caso che l’asse fosse composto solo da grano, potrebbe dare a Caio I tutto il grano e attribuire a Caio II solo il diritto ad avere in denaro la metà di quanto vale il grano (nell’esempio 300). Ho detto bene?

Doc. Hai detto benissimo.

Disc. L’articolo 718, alla sua fine, fa “salve le disposizioni degli articoli seguenti”. A che disposizioni si riferisce?

Doc. Si riferisce alle disposizioni contenute nell’articolo 728, che recita: “L’ineguaglianza in natura nelle quote ereditarie si compensa con un equivalente in denaro”.

Disc. La “ineguaglianza in natura” delle quote evidentemente si verifica quando vi erano nell’asse dei beni che non si sono potuti ripartire. Penso al caso in cui nell’asse vi sia un quadro d’autore che evidentemente non può essere diviso in tante parti quanti sono gli eredi se non azzerando il suo valore. E’ chiaro che, nel caso, il quadro sarà attribuito a un coerede e agli altri coeredi saranno dati dei soldi (o dei beni non divisibili di valore eguale a quello del quadro). Ma che dire se un bene é, sì, divisibile, ma la sua divisione é antieconomica: il campo A vale 300, ma le parti A1, A2, A3 in cui potrebbe essere diviso avrebbero ciascuna un valore solo pari a 80, cosa per cui la somma dei loro valori non darebbe il valore che ha il campo indiviso (300) ma un valore inferiore (240)?

Doc. Il codice prende in considerazione il caso nell’articolo 720, ma riferendosi soloa un bene immobile e, in più, usando espressioni un po’ anodine (parla di immobile non “comodamente” divisibile: ma quando si può dire che un immobile non sia “comodamente” divisibile? quando dividendolo si deprezza del 10%, quando si deprezza del 20 %?....).

Disc. E tu come interpreti questa anodina formula legislativa?

Doc. Io ritengo che per bene “non comodamente divisibile” debba intendersi un bene che, anche se di poco e addirittura di pochissimo, si deprezza con la divisione e ritengo altresì che, la soluzione adottata dall’art. 720 con riferimento ai beni immobili (attribuzione, in caso di “incomoda” indivisibilità, del bene a un coerede - vedi melius la seconda parte dell’articolo in oggetto), vada estesa a qualsiasi bene, mobile o immobile che sia.

Disc. Approfondiamo il caso che nell’asse ereditario vi siano beni non omogenei, quindi da sottoporre a stima: il legislatore non adotta nessun accorgimento per evitare che lo stimatore dolosamente valuti in modo errato tali beni?

Doc. Certo che l’addotta. E l’accorgimento é questo (vedi l’articolo 729): far sì che chi deve far le “porzioni” (di beni ereditari) da distribuire, non sappia a quale erede andrà attribuita ciascuna di esse. Metti che gli eredi siano tre e nell’asse vi siano: tre quadri, tre campi e del denaro; in tal caso lo estimatore si limiterà a formare tre porzioni (in ciascuna di esse inserendo, un campo, un quadro e del denaro – come vuole l’art. 727- e operando se necessario dei conguagli col denaro – come vuole l’art.728). Una volta che l’estimatore avrà fatto questo, le porzioni verranno assegnate, non da lui e in genere non in base al dictum di una persona, ma in base a sorteggio.

Disc. Ma l’attribuzione mediante sorteggio é possibile solo quando le quote degli eredi sono eguali.

Doc. Non solo in tal caso. In realtà la tecnica del sorteggio é adottabile anche, per usare le parole dell’articolo 729, “rispetto a beni costituenti frazioni uguali di quote disuguali”. Ad esempio gli eredi sono solo due, Caio I e Caio II, e nell’asse vi sono tre campi, A,B,C di uguale valore: in tal caso si comincerà ad attribuire un campo ad un “lotto” (alias, a una “porzione”), poi l’altro lotto si formerà con quell’altro campo che sarà (tra i due residui) sorteggiato allo scopo; a questo punto si procederà all’attribuzione mediante sorteggio dei due lotti.

Disc. E se non si potesse procedere così?

Doc. Ahimè ci si dovrebbe fidare della competenza e dell’onestà dello stimatore.

Disc. Facciamo un passo indietro: lo stimatore ha il compito di stabilire il valore dei beni ereditari, d’accordo; però con che criterio?

Doc.Col criterio del prezzo che si realizzerebbe con la vendita del bene (nel mercato del luogo in cui si é aperta la successione). Più precisamente l’articolo 726 co.1 recita: “Fatti i prelevamenti, si provvede alla stima di ciò che rimane nella massa, secondo il valore venale dei singoli oggetti”.

Disc. Ma a me sembra che adottare il criterio del valore venale possa portare a contraddire, almeno in certi casi, la volontà della legge e del de cuius.. Fulano ha attribuito metà dei suoi beni a ciascuno dei due figli, Luigi e Pedro, perché ha voluto assicurare a ciascuno di essi gli stessi vantaggi e le stesse utilità. Ora l’attribuzione dello stesso bene, può procurare diversi vantaggi e diverse utilità a Pedro e a Luigi in considerazione delle diverse esigenze e dei diversi interessi che possono avere: dare un pianoforte a Ernesto che é un amante della musica significa gratificarlo moltissimo, darlo a Luigi che detesta la musica significa...dargli zero; per fare un altro esempio, dare un campo situato a Napoli a Luigi, che abita a Napoli (e quindi può personalmente accudirlo e coltivarlo), significa dargli una utilità molto maggiore di quella che si procurerebbe a Pedro, che abita a Buenos Aires., dandogli lo stesso e identico campo. Ora, invece, il valore venale di un bene prescinde dalla considerazione di queste diverse esigenze e utilità, per cui, se vi sono due campi di eguale valoer venale a Napoli, si può anche concludere con apparente logica che dandone uno a Luigi e l’altro a Pedro si é realizzata una perfetta giustizia mentre invece si é fatta una perfetta ingiustizia.

Doc. Senza dubbio é così; ma, in una divisione giudiziale, non può essere che così, perché non si può gravare la nostra magistratura, già tanto oberata di lavoro, del carico di accertare le diverse esigenze di ciascun coerede, le diverse possibilità di utilizzo che egli ha di quel dato bene, cosa che invece dovrebbe fare se si volesse astrarre dal criterio del valore venale e riferirsi al vantaggio e all’utilità reale, che ciascun bene può dare ai vari coeredi.Tieni presente peraltro che il nostro diritto conosce un istituto, che dà a una persona avveduta e saggia la possibilità di distribuire i suoi beni ai suoi eredi tenendo conto delle loro diverse esigenze: é la così detta “divisione del testatore” (art. 733), di cui ci riserviamo di parlare più approfonditamente..

Lezione XIV: Divisione (continuazione): le “imputazioni, i “prelevamenti”,

e le altre operazioni della divisione.

Disc. Nella lezione precedente tu hai parlato di “imputazioni” e di “prelevamenti”: di che si tratta?

Doc. Si tratta di tecniche divisorie miranti a offrire una particolare tutela a certi crediti che i coeredi possono avere verso altri coeredi.

Disc. In che consiste tale tutela?

Doc. Consiste prima di tutto nel fatto che il coerede-debitore é costretto ad adempiere al suo debito prima che gli vengano attribuiti in singola proprietà dei beni ereditari: tu, Caio II, devi a Caio I cento? Prima dai quei cento, che devi, a Caio I e poi, e solo poi, si procederà alla divisione vera e propria dei beni..

Disc. E se Caio II volontariamente non dà quel che deve?

Doc. Allora, il creditore insoddisfatto non ha bisogno di procedere all’esecuzione forzata come prevista dal codice di procedura (non ha bisogno di fare un atto di precetto, di chiedere il pignoramento ecc. ecc.); no: il legislatore gli offre un modo molto semplice per soddisfarsi: l’imputazione, di cui parla l’articolo 724 nel suo secondo comma, che recita: “Ciascun erede deve imputare alla sua quota le somme di cui era debitore verso il defunto e quelle di cui é debitore verso i coeredi in dipendenza dei rapporti di comunione”.

Disc. Ma in consiste precisamente questa imputazione, della somma dovuta, alla quota del coerede debitore.

Doc. In buona sostanza consiste in una fictio: si finge che Caio II, il coerede debitore, abbia ricevuto in sede di ripartizione dei beni ereditari, proprio quei beni di cui era debitore: doveva 5000 euro? ebbene si finge che abbia ricevuti 5000 euro in sede di ripartizione dei beni ereditari; era debitore di due sacchi di grano? ebbene si finge che abbia ricevuti due sacchi di grano in sede di ripartizione dei beni ereditari.

Disc. E che ne é del suo debito?

Doc. Quello naturalmente si considera estinto. In buona sostanza il meccanismo é

assai simile a quello che si attua nella compensazione regolata dagli artt. 1241 e segg.: per comprenderlo mettiamoci nel caso più semplice: vi sono due eredi, Caio I e Caio II, questo é debitore verso Caio I di due sacchi di grano e nell’asse esistono quattro sacchi di grano (quindi Caio II avrebbe diritto a due di questi sacchi). Orbene a che porterebbe l’applicazione degli artt. 1241 e segg. se una persona fosse debitrice verso un’altra di una certa res e fosse creditrice verso questa stessa persona di una cosa fungibile dello stesso genere?

Disc.,- D’accordo, porterebbe alla compensazione tra credito e debito. Questo però se l’oggetto del debito e l’oggetto del credito fossero fungibili tra di loro. Come la mettiamo però se l’erede Caio II é debitore di due sacchi di grano ma non ha diritto ad avere due sacchi di grano dal coerede Caio I per la semplicissima ragione che quattro sacchi di grano non esistono nell’asse ereditario?

Doc. Semplice: nel caso si procederà come se Caio II avesse ricevuto (in sede di divisione vera e propria dei beni) una res indivisibile del valore dei due sacchi di grano dovuti; e in base a tale fictio si darà a Caio I a titolo di conguaglio la somma equivalente: i due ascchi di grano hanno il valore di mille? a Caio I si riconosce il diritto ad avere mille (o una res del valore di mille) in sede di divisione (come se l’altro coerede, il nostro amico Caio II, avesse ricevuto mille, mentre invece ha ricevuto zero).

Disc. Quindi se Caio II fosse stato debitore di 300 verso il coerede Caio I perché solo soletto egli (idest, Caio II) si era goduto il possesso di un bene ereditario, dovrà fingersi che egli abbia ricevuto beni per un ammontare di 300, e similmente se sempre Caio II fosse stato debitore di 300 verso il de cuius, anche qui si dovrebbe fingere che avesse ricevuti beni per 300.

Doc. Non é proprio così: giusto il tuo primo esempio, é però errato il secondo, in quanto non hai calcolato che metà del debito, che Caio II aveva verso il de cuius, si é estinto per confusione: quindi, si fingerà nel secondo esempio che Caio II abbia presi beni per solo 150 (300 – 150, la quota del debito estinta per confusione = 150).

Disc. Ho capito in che cosa consiste la tecnica delle imputazioni; ma, una volta riequilibrate, adottando questa tecnica, le posizioni dei coeredi, Caio I e Caio II, che bisogno c’é di concedere al coerede-creditore, a Caio I, di procedere a dei “prelevamenti”? In sede di divisione si sa che si deve fingere che a CaioII sia stato

dato tot, per cui i beni ereditari non si debbono più ripartire dando il 50% a Caio I e l’altro 50% a Caio II (mi metto qui per semplicità nell’ipotesi che le quote dei due coeredi, di Caio I e di Caio II, siano eguali), ma si deve dare a Caio I, l’erede-creditore, il 50 % più tot e.....giustizia é fatta. Insomma non capisco che funzione abbiano i “prelevamenti” di cui parla l’articolo 725?

Doc. Te lo spiegherò subito; ma prima chiariamoci bene le idee su che cosa sono questi prelevamenti leggendoci l’articolo 725, che recita: “Se i beni donati non sono conferiti in natura o se vi sono debiti da imputare alla quota di un erede a norma del secondo comma dell’articolo precedente, gli altri eredi prelevano dalla massa ereditaria beni in proporzione delle loro rispettive quote – I prelevamenti, per quanto é possibile si formano con oggetti della stessa natura e qualità di quelli che non sono stati conferiti in natura”.

Disc. Bene, letto l’articolo lo abbiamo letto, spiegami ora qual’é la funzione dei prelevamenti di cui parla.

Doc. I prelevamenti, di cui parla l’articolo 725, hanno la funzione di dare un’ulteriore tutela all’erede-creditore. Per renderti conto di ciò, pensa al caso che oggetto del debito a carico di Caio II fossero due sacchi di grano e che nell’asse ereditario esistano solo due altri sacchi di grano. Se l’articolo 727 non esistesse e quindi non esistesse la possibilità di effettuare i prelevamenti, si potrebbe pensare che, una volta fatta quella operazione contabile che é in definitiva la “imputazione” e una volta che si fosse passati alla fase dell’apporzionamento (di cui abbiamo parlato nella precedente lezione), si dovrebbe applicare l’articolo 727 e quindi dare un sacco di grano a Caio I e un sacco di grano a Caio II (che di conseguenza, calcolando i due sacchi di grano prima ricevuti, verrebbe ad avere tre sacchi di grano). Col sistema del prelevamento ciò non accade: infatti, prima che all’apporzionamento si arrivi, Caio I avrà prelevati e tenuti tutti per sé i due sacchi che sono nell’asse.

Disc. Capisco. Ma il prelevamento può effetturasi solo su cose omogenee a quelle che costituivano oggetto del debito del coerede, di Caio II per intenderci?

Doc. No: “se é possibile” va effettuato “su oggetti della stessa natura e qualità di quelli che non sono stati conferiti in natura” (oggetto del debito o oggetto del donatum da conferire in collazione erano due sacchi di grano? il prelevamento si effettua su due sacchi di grano), ma se ciò non é possibile si effettua su qualsiasi altro

oggetto (dando, questo sì, la preferenza ad oggetti affini a quelli oggetto del debito ecc.ecc.). Infatti concedendo il diritto al prelevamenti il legislatore non mira ad evitare l’alea degli errori connessi a una stima dei beni (stima che in effetti nel caso di prelevamento di cosa eterogenea non può mancare), ma solo a riequilibrare la posizione dei coeredi senza ricorrere all’attribuzione di conguagli in denaro a favore del coerede creditore, a favore di Caio I, per intenderci - ciò che costituirebbe un’inammissibile deroga all’articolo 718.

Disc. Tu hai detto che la tecnica dei prelevamenti é stata pensata dal legislatore a tutela dell’erede che é creditore verso un’altro coerede. Ciò significa che se Caio I, vanta un credito di mille verso Caio II a titolo di risarcimento per i danni conseguenti a un incidente stradale, anche tale credito di Caio I gode della tutela di cui sopra abbiamo parlato (con la conesguenza che il relativo debito deve essere imputato alla quota di Caio I I ecc. ecc.)?

Doc. Ciò potrebbe anche essere logico, ma praticamente non é possibile.

Disc. Perché?

Doc. Perché, riservare a un credito la tutela di cui abbiamo sopra parlato, significa una (nociva!) battuta d’arresto nel processo divisorio, qualora l’esistenza di tale credito fosse contestata; e più sono i crediti a cui si estende tale tutela, e più é la possibilità di tali battute di arresto.Quindi il legislatore, che vuole sgombrare il più possibile da ostacoli l’iter del processo divisorio, limita la tutela de qua solo: 1) ai crediti (verso un erede) che erano del de cuius (e che poi sono stati trasmessi agli eredi); 2) ai crediti che nascono “in dipendenza dei rapporti di comunione”; 3) ai crediti che nascono verso quegli coeredi che preferiscono non versare il bene ricevuto in donazione nel patrimonio ereditario – vedi artt. 746 e 750).

Disc., Abbiamo visto come si fa l’apporzionamento e come si fanno i prelevamenti. Ma prima di procedere ai prelevamenti bisogna accertare se esistono crediti del tipo di cui or ora hai detto; e prima di procedere agli apporzionamenti occorre stabilire di quali e quanti beni si compone il patrimonio ereditario.

Doc. Questo il legislatore lo sa bene e pertanto nell’articolo 723 stabilisce che “dopo la vendita, se ha avuto luogo, dei mobili o degli immobili si procede ai conti che i

condividenti si devono rendere, alla formazione dello stato attivo e passivo dell’eredità e alla determinazione delle porzioni ereditarie e dei conguagli o rimborsi che si devono tra loro i condividenti”.

Libro Sesto

Miscellanea: Donazione – Tutela diritti

1 -Titolo I: Donazioni – Obbligazioni naturali

1. La donazione(N.B. Le note sono poste a fine “titolo”)

L’art. 769 definisce la donazione come “il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.Il punto che, oscuro, rende oscura tutta questa definizione è dato dall’espressione ”per spirito di liberalità”. Che significa questa espressione? È essa sinonimo di “gratuità”? Proprio non sembrerebbe: se A, per liberare il suo magazzino dai sacchi di patate che lo ingombrano, dice a B “Vuoi questi sacchi, gratis et amore Dei, compreso il loro trasporto? e B accetta, certo A viene con ciò a stipulare con B un contratto a titolo gratuito, però tale contratto proprio non sembrerebbe fatto “con spirito di liberalità”! e allora?! Allora va detto che “spirito di liberalità” = “spontaneità” (e con tale domanda... . si torna al punto di partenza! (1).Noi riteniamo che tali difficoltà interpretative nascano dall’errore di voler cogliere il significato di un concetto (quello di donazione), a prescindere dalle norme che, di tale concetto, (non danno semplicemente la definizione, ma) fanno l’applicazione (2).Per questo noi passeremo subito all’esame delle (principali) disposizioni (del codice), che utilizzano il concetto di donazione per stabilire certi oneri, obblighi, diritti.

I) Disposizione di cui all’art. 782 co. 1°: <<La donazione deve essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità>>(3).

Domanda preliminare (per comprendere i limiti di applicazione della norma): perché mai imporre, a chi vuole stipulare un contratto, l’onere di rivestirlo della forma pubblica? Risposta (ovvia): per costringerlo ad una pausa di riflessione (che garantendo contro i suoi futuri pentimenti, anche renda più probabile l’esecuzione puntuale, leale e corretta del contratto stesso). E questa è una risposta certamente giusta, ma anche certamente…… inutile per il fine che noi ci proponiamo: quello di individuare i contratti di <<donazione>> (e in quanto tali assoggettati alla forma pubblica, al contrario degli altri). E infatti che i contratti siano stipulati re bene perpensa è cosa buona e auspicabile per tutti i tipi di contratto (e quindi non ci da un criterio per distinguere un tipo di contratto da un altro)(4). Affrontiamo pertanto il problema da un’altra angolazione e domandiamoci: perché il legislatore non richiede ad A, che si accinge a stipulare, una compravendita, una locazione, una assicurazione (e si potrebbe proseguire la citazione con l’elenco di quasi tutti i contratti), di adottare la forma pubblica? Qui la risposta è: perché teme, imponendo ad A una battuta d’arresto prima della sottoscrizione, di impedirgli la realizzazione di quel risultato economico (la conservazione e/o l’incremento del proprio patrimonio lato sensu inteso) che, col contratto, egli mira a raggiungere (perché teme in altre parole, di danneggiare, burocratizzandolo e rallentandolo nei suoi tempi di attuazione, il traffico giuridico).Questa risposta permette di attingere, secondo noi, il criterio per distinguere i contratti di <<donazione>> dagli altri. E infatti, se tale risposta è valida, c’è da pensare che il legislatore non imponga ad A di dare il publicum vestimentum al contratto (che vuole stipulare) quando non ha ragione di temere che, la conseguente battuta di arresto abbia il nefasto effetto di impedire ad A un incremento o una conservazione della propria consistenza patrimoniale. E quando mai il legislatore non avrà ragione di temere ciò? Semplice (e quasi lapalissiano), quando, col contratto stipulando, A non persegue….. un incremento o una conservazione della propria consistenza patrimoniale.

E con ciò abbiamo detto quello che, secondo noi, deve essere il discrimen tra <<donazione>> e altri contratti: con la <<donazione>>(5) non si persegue né direttamente, né indirettamente lo scopo di un incremento o di una conservazione del proprio patrimonio. Si badi, ciò non significa che (con la donazione) non si possa

perseguire uno scopo egoistico (6).Torniamo all’esempio all’inizio introdotto: A trasferisce a B la proprietà della merce in magazzino: può farlo per uno scopo altruistico (gli piange il cuore al pensiero del desco di B privo di che sfamarlo!) o per uno scopo egoistico (egli spera che B, che è una gentile signora, ricevuta la merce, anche riceva lui nel suo letto): poco importa, in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un atto di donazione (7): in entrambi i casi il patrimonio di A non va in malora se il contratto ha un costo in denaro (8) e un ritardo nel tempo (9).

E si badi, così come lo scopo egoistico (di chi dispone di un suo diritto o assume un’obbligazione a favore di altri) non esclude la donazione, così neanche la esclude il fatto che il beneficiario sia gravato da pesi, da <<oneri>> (10) (si badi, anche oneri economici), che alla fine vengono a escludere proprio quel carattere della gratuità, che, a prima vista, sembrerebbe dover caratterizzare le <<donazioni>>. Quel che importa, perché l’atto continui a meritare la qualifica di donazione, è che gli oneri imposti al donatario non vengano a contraddire lo <<spirito di liberalità>> che deve animarlo, cioè che essi (idest, tali oneri) non siano stati imposti dal donante allo scopo di incrementare o salvaguardare il proprio patrimonio. E così potrà ancora chiamarsi donazione l’atto con cui il beneficiario (l’<<arricchito>> dell’art. 769) assume l’onere: di portare il nome del donante, di vestire l’abito ecclesiastico, di edificare sul suolo donatogli una scuola o una chiesa (11); mentre; invece, non potrebbe più chiamarsi donazione, il contratto con cui il <<donatario>>, in cambio della proprietà di uno dei tre appartamenti di un edificio, assuma l’onere (melius qui si direbbe, l’obbligo) di ristrutturare gli altri due appartamenti rimasti in proprietà del donante (12).

Se, come abbiamo visto, il motivo egoistico non esclude la donazione; tanto meno può escluderla il motivo di adempiere quello che si ritiene un proprio dovere morale (così come accade nella c.d. <<donazione rimuneratoria>>(13) – almeno nei casi in cui essa è fatta <<per riconoscenza>>). Ne potrebbero dubitare coloro che vedono nella spontaneità dell’atto la caratteristica della donazione (spontaneità, che in effetti, appare appannata in chi agisce astretto dal senso del dovere), ma non ne può dubitare chi, come noi, vede tale caratteristica – sic et simpliciter – nell’assenza, in chi agisce nel motivo di incrementare o salvaguardare il proprio patrimonio.

Con tutto ciò il legislatore ha voluto esplicitare nell’art. 770 (che porta la rubrica <<Donazione rimuneratoria>> che <<è donazione anche la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario (14) o per speciale rimunerazione>>(15).

A può realizzare l’arricchimento di B per spirito di liberalità, sì, con uno degli atti

previsti dell’art. 769, ma anche in altre mille maniere; ad esempio: rimettendogli un debito (16), stipulando in suo favore un contratto (17), accollandosi un suo debito.

Ci si aspetterebbe che tutti questi atti (diversi da quelli previsti dall’art. 769) fossero assoggettati alla forma pubblica (come quelli previsti dall’art. 769 da cui, nella sostanza e nella funzione, economico-sociale non si distinguono). Invece apprendiamo, leggendo l’art. 809, che il legislatore rifiuta tale soluzione (e la rifiuta in modo molto semplice, negando a tali atti il nome di <<donazione>>: li chiama <<atti di liberalità>>(18) e…. il gioco è fatto).

Perché questo? Perché il Legislatore rifiuta di prescrivere per tali atti la forma pubblica? Perché si tratta di atti, diciamo così, <<molti-uso>>: potrebbero servire a realizzare una <<donazione>> (usiamo per intenderci questo termine rifiutato dal Legislatore) e potrebbero servire a realizzare qualche altro negozio: per stabilirlo occorrerebbe indagare di volta in volta il motivo per cui sono stati fatti. Ed è proprio questo che il Legislatore ha voluto evitare: è pericoloso, rischia di creare intralcio al traffico giuridico, far dipendere la validità di un atto dal motivo che l’ha dettato: si pensi a C, a cui A propone di costruire una villa per B: che ne può sapere, lui, se A con ciò vuole arricchire B per spirito di liberalità, oppure no? Se, quindi, si stabilisse l’onere della forma pubblica, per la prima ipotesi, si verrebbe a costringere C o a fidarsi di quel che gli dice A oppure a….. arruolare un detective per scoprire il motivo che realmente spinge A: assurdo! (19).

Tuttavia queste donazioni, mascherate sotto il nome di <<atti di liberalità>>, rivelano la loro vera natura, nella necessità, che incontra il Legislatore, di assoggettarle alle principali <<norme materiali>> che disciplinano le <<donazioni>> (dichiarate tali). Così come risulta dall’art. 809, che recita: <<le liberalità, anche se risultano da atti diversi da quelli previsti dall’art.769, sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli, nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. – Questa disposizione non si applica alle liberalità previste dal secondo comma dell’art. 770 e a quelle che a norma dell’art. 742 non sono soggette a collazione>>.

Abbiamo così visto che di contenuti va riempito il concetto di <<donazione>>, se riferito alla norma di cui all’art. 782; passiamo ora ad altre norme, quelle di cui agli artt. 536 e ss.II) Norme di cui agli artt. 536 ss.

Dovendo sintetizzare, si può dire che da tali norme risulta che se una persona, A, vita natural durante, ha intaccato la quota che il legislatore vuole riservare <<ai

legittimari>> (art. 536) con una compravendita rovinosa e cervellotica (o con un qualsiasi altro rovinoso e cervellotico contratto: di locazione, di società, di appalto…..), ebbene, pazienza: il legittimario non potrà revocare tale compravendita (o tale locazione, ecc.) e dovrà subirne i nefasti effetti; mentre se tale <<quota di riserva>> egli ha intaccato con un contratto di <<donazione>>, questo può (a certe condizioni) essere revocato.

Da qui l’importanza di stabilire quando ci si trovi di fronte a una donazione e quando no. E per stabilire ciò naturalmente bisogna risalire alla ratio della normativa. Ebbene questa è evidentemente dettata dalla preoccupazione di non tarpare le ali ad A quando questi intende compiere un negozio, che mira all’incremento e alla conservazione del patrimonio (ciò che invece accadrebbe se, chi contratta con lui, avesse a temere che tale negozio potesse essere revocato se lesivo della legittima)(20): solo quando tale preoccupazione non ha ragione di essere, perché il contratto stipulando da A non mira alla conservazione e all’incremento del patrimonio, il legislatore (apposta su tale contratto l’etichetta di <<contratto di donazione>>) ne ammette la revocabilità. Come si vede il significato che il termine <<donazione>> ha ai fini degli artt. 536 ss. é del tutto identico a quello che noi gli abbiamo attribuito in sede di interpretazione dell’art. 782.

A questo punto passiamo ad altre due norme (che attribuiscono rilevanza al concetto di donazione).

III) Norme di cui agli artt. 801 e 803 C.C.

Tali articoli prevedono entrambi la revoca della donazione, ma, naturalmente, per motivi diversi: il primo in considerazione dell’ingratitudine dimostrata dal donatario, il secondo in considerazione della sopravvenienza al donante di figli.

E’ inutile qui fare lunghi discorsi: chiara è la ratio delle due norme ed è anche chiaro che, il significato del termine <<donazione>> che più risponde e aderisce a tale ratio, è quello che noi gli abbiamo attribuito in sede di interpretazione dell’art. 782: contratto di donazione è quello con cui una parte arricchisce l’altra ecc. ecc. senza mirare allo scopo di incrementare o conservare il proprio patrimonio. La facile controprova la otteniamo richiamando quell’esempio, che all’inizio abbiamo fatto, di atto gratuito (però non animato da spirito di liberalità): A dà a B la merce del suo magazzino all’unico fine di sbarazzarlo. Perché A dovrebbe aspettarsi da B gratitudine per un atto che compie nel proprio interesse? Perché A dovrebbe avere la possibilità di revocare l’atto in caso di sopravvenienza di figli? egli compiendo l’atto

agì per conservare e incrementare il proprio patrimonio e, quindi, a maggior ragione, lo avrebbe compiuto se dei figli avesse avuto.

Il discorso fatto in commento degli artt. 782, 536 s., 801, 803 può essere ripetuto (mutatis mutandis) e per giungere agli stessi risultati (donazione = atto non compiuto per incrementare o conservare il patrimonio ecc. ecc.) anche con gli artt. 775, 777 (21) e molti altri ancora, che lasciamo alla sagacia dello studioso di scoprire.

Ma vi possono essere anche norme per cui è dubbio che la definizione (di donazione) finora accolta si attanagli; così come per esempio la norma di cui all’art. 17.

IV) Norma di cui all’art. 17.

L’art. 17 stabilisce che <<la persona giuridica non può…. accettare donazioni…. senza autorizzazione governativa>>.

Tale autorizzazione serve a garantire la società contro il pericolo della c.d. <<mano morta>>: la persona giuridica infatti tende, non a far circolare la ricchezza, ma a trattenerla (così come la mano di un morto trattiene gli oggetti agguantati nello spasimo dell’agonia). Ora tale pericolo non sembra presente quando la persona giuridica, nel mentre riceve, dà anche (come accade tipicamente in una compravendita), però tale pericolo si attualizza quando la persona giuridica riceve gratuitamente, e poco importa che riceva in forza di un atto ispirato a liberalità o no. Ecco perché dubitiamo che la definizione di donazione, che abbiamo verificato congrua, in sede dell’interpretazione degli articoli finora esaminati, tale ancora risulti in sede di interpretazione dell’art. 17.

2. Le obbligazioni naturali.(N.B. Le note sono poste a fine “titolo”)

In deroga alla regola (stabilita nell’art. 2033) che <<chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato>>, il legislatore prevede, in non pochi articoli del codice, casi in cui, invece, chi ha pagato indebitamente non ha diritto alla ripetizione (vedi ad esempio i casi previsti dagli articoli 1933, 590, 627). Il più importante di tali articoli (derogatori dell’art. 2033) è il 2034 che (intitolato <<Obbligazioni naturali>>) recita (nel suo 1° co.) così: <<Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace>>.

Esempi di pagamenti irripetibili, perché effettuati in adempimento di

un’obbligazione naturale, sono quelli di chi corrisponde, a persona con lui convivente more uxorio, delle somme, (per il vitto, il vestiario, i medicinali…) (22) o di chi paga interessi superiori ai legali, ancorché non li abbia per iscritto pattuiti (23).

E’ evidente che, ciò che viene corrisposto in adempimento di un’obbligazione naturale (o, ampliando il discorso, viene comunque corrisposto nullo iure cogente nei vari altri casi in cui la ripetizione non è ammessa) (24), viene corrisposto per spirito di liberalità (25): chi paga un debito di gioco, chi paga l’ospedale al convivente <<arricchisce>> altri (il giocatore avversario e fortunato, la convivente ….) e basta: non si propone per nulla lo scopo di un incremento o di una preservazione del proprio patrimonio. Per cui il suo atto ha la funzione e la sostanza di una donazione, con la differenza importante, però, che tale atto non soggiace alle regole formali (non occorre in particolare che sia rivestito della forma pubblica) e materiali (non può essere revocato per ingratitudine, per sopravvenienza di figli ….) che riguardano questa (idest, la donazione). Quale la spiegazione di tale differente disciplina? Ebbene non vi è una spiegazione che (ci si perdoni il bisticcio di parole) spieghi tutte le deroghe. Nel caso di deroga alla regola della revocabilità delle donazioni per ingratitudine e sopravvenienza di figli, la spiegazione è data dal fatto che, chi dà in adempimento di un dovere morale o sociale, non ha diritto a una particolare gratitudine da parte del beneficiario (non fa che il suo dovere!) e neanche può pensarsi che al dare si sarebbe sottratto, se avesse avuto dei figli (forse che l’avere dei figli esime dall’adempimento dei propri doveri!?).

Nel caso di deroga alle regole sulla forma, la spiegazione sta evidentemente nel fatto che il vestimentum publicum della donazione mira a costringere a una decisione meditata, ciò che però non è necessario in caso di adempimento di un dovere morale o sociale (dato che la decisione di adempiere un tale dovere non va meditata ma presa e subito attuata!).

Attenzione, però, ciò che giustifica l’esenzione di un atto (ancorché compiuto per spirito di liberalità) dalle regole formali e materiali a cui sottostanno le donazioni (o, se vogliamo esprimerci con altre parole, ciò che fa sì che un pagamento costituisca adempimento di un’obbligazione naturale e non contratto di donazione), non è l’essere l’atto (il pagamento) risultato di un soggettivo impulso morale, ma, la cosa è ben diversa, il suo aderire a regole di morale e di costume condivise da tutta la Comunità (26). E il perché di ciò non è difficile a cogliersi: sarebbe assurdo non costringere a una salutare pausa di riflessione chi vuole <<arricchire>> altri mosso da un soggettivo impulso morale (che potrebbe essere frutto di un temporaneo e sproporzionato entusiasmo o addirittura cervellotico), mentre invece è ragionevole esentare dalla suddetta <<pausa di riflessione>>, chi compie un pagamento (non

giuridicamente dovuto, sì, però) conforme a regole di condotta e di costume, che, per essere seguite dalla media delle persone, si ha da presumere savie ed equilibrate (27).

Quanto ora detto ci da anche il discrimen tra <<adempimento di un’obbligazione naturale>> e donazione rimuneratoria: si ha adempimento di un’obbligazione naturale, quando l’atto è conforme a radicate e largamente condivise regole di morale o di costume; si ha invece donazione rimuneratoria quando l’atto è frutto di un soggettivo impulso morale o sociale (29).

Note.(1) Cioè si torna….. nelle nebbie. E infatti, se la spontaneità è ravvisata nella mancanza di una coazione giuridica (sulle orme della celebre definizione di Papiniano – in D, 50, 17, 82 – “donare videtur quod nulle jure cogente conceditur”), va poi spiegato perché mai A, che stipula un contratto di donazione, dovrebbe ritenersi libero da una coazione giuridica e B, che stipula un contratto di compravendita, invece, no: forse che l’uno e l’altro non sono entrambi liberi al momento di stipulare, e divengono (entrambi!) vincolati dopo aver stipulato? Se, invece, la spontaneità è ravvisata nella mancanza di una coazione psicologica, va poi portato un esempio, uno solo! Di persona che faccia una donazione libera da una coazione psicologica: sarà ben difficile trovarlo questo esempio: infatti tutti gli uomini agiscono sotto la spinta (alias, la coazione) di un motivo (se no, se non avessero motivo per agire….. non agirebbero!) ed il donante a ciò non può certo fare eccezione.Comunque sia, l’orientamento prevalente è proprio quello qui criticato. ANTONIO PALAZZO (Donazione, Digesto, VII, 1991, p.139): <<Spirito di liberalità significa che “non basta un’attribuzione patrimoniale senza corrispettivo” (arricchimento) ma occorre che questa sia giustificata dall’animo liberale, dalla coscienza cioè di conferire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi costretto (liberalitas nullo iure cogente in accipientem facta)>>. E per fare, tra le tante, un’altra citazione (rappresentativa dell’orientamento prevalente da noi criticato), ecco quel che scrive VINCENZO RODOLFO CASULLI (Donazione – dir. Civ., Enc. Dir., p. 968); <<La nozione di liberalità racchiude in se l’idea di libertà, spontaneità, mancanza di qualsiasi coazione (….). L’atto necessitato non può considerarsi in nessun caso come liberalità, anche se la necessitas presenta tutta una gradazione che va dalla coazione fisica a quella esclusivamente morale, per cui non può considerarsi liberalità l’adempimento dell’obbligazione naturale>>.

Come tutti gli errori, anche quello che stiamo criticando, presenta una parte di verità; che nel caso è data dal fatto che <<chi da>>, mosso da un sentimento di amore, generosità, carità, sente molto meno la sgradevole sofferenza (connessa alla privazione che si autoinfligge), di <<chi da>>, mosso dalla ricerca (bruta, affannosa …) del pane quotidiano (e del suo companatico). Per cui – stabilita l’equazione, schiavitù (coazione) = sofferenza – dove è impercettibile la sofferenza, si è portati a negare la schiavitù (la coazione).

Una volta ravvisato l’elemento caratterizzante della donazione nella mancanza di coazione, viene quasi naturale concludere per l’irrilevanza dei motivi (e, quindi, per la non necessità di un’indagine sui motivi) che hanno impulsato alla donazione. Affermazione questa (evidentemente!) erronea, ma che contiene pur essa una parte di verità: che è questa: accertato che all’arricchimento altrui

l’agente non fu mosso dal motivo di incrementare o salvaguardare il proprio patrimonio (sulla rilevanza di tale motivo diremo postea), non è effettivamente necessario indagare quali motivi (positivi) abbiano influito sull’agente.Spieghiamo meglio il nostro pensiero con un esempio semplice (ma proprio per questo più chiarificatore). Mettiamo che il legislatore dia di <<persona immatura>> la seguente definizione:<< E’ immaturo chi non è in grado di sopportare gli effetti negativi che certe azioni comportano>>. Di fronte a tale definizione sarebbe legittimo (e anche irresolubile!) il dubbio dell’interprete: <<Ma il legislatore ha voluto intendere immaturità mentale oppure immaturità fisica?>>. Tale dubbio però sarebbe destinato a cadere appena che l’interprete facesse riferimento non più alla norma che dà, del concetto, le definizione, ma a quella che ne fa applicazione: questa suona <<Gli immaturi non sono ammessi a guardare la televisione>>? È chiaro che il concetto di immaturità attiene alla mente! Questa (idest, la norma applicativa) invece suona <<Gli immaturi non possono bere alcolici>>? Se è così, l’immaturità va riferita al fisico!(5) O, per essere più precisi, con i contratti (<<con quali una parte arricchisce l’altra ecc.>> e) a cui il legislatore appone l’etichetta di <<donazione>>, per indicare che essi vanno fatti per atto pubblico.(6) E non solo, con la donazione si potrebbe anche realizzare uno scopo illecito: io ti dono 100 perché tu hai compiuto un atto terroristico. Mette in rilievo come la <<donazione pura>>,<<vestita nella forma notarile>>, <<si può prestare anche a realizzare motivi illeciti che possono rimanere per sempre non scoperti>> - ANTONIO PA-LAZZO (Donazione, Digesto, cit., p. 148). Ha approfondito il punto, H.MEAU-LADOUR (La donation désguiséè en droit civil francais, Paris, 1985, 44ss.).(7) O, per essere più precisi, ci troviamo di fronte ad uno dei contratti che il legislatore, denominandoli come <<contratti di donazione>>, vuole fatti per atto pubblico.(8) Certo, i maggiori costi connessi all’adozione della forma pubblica, peseranno sul patrimonio di A; ma non tanto da metterlo in grande o anche piccola crisi: se il costo del contratto di donazione è troppo alto, A non ha che da rinunciarvi, sapendo che, rinunciandovi, non ci rimette nulla.(9) Mettiamoci, invece, nel caso di A che vuole trasferire (gratuitamente) a B la proprietà della merce in magazzino per sbarazzarlo e accogliervi, metti, della merce pregiata, delle stoffe di seta. Qui, sì, che un costo eccessivo del contratto può impedire ad A, rendendola antieconomica, un’operazione che sarebbe utile all’incremento del suo patrimonio (la stoffa rende più che le patate!). Qui, sì che un ritardo può determinare per lui un danno patrimoniale (più tardi il contratto con B si fa, più tardi le stoffe vengono a sostituire le patate nel magazzino, più tardi i maggiori utili che la vendita delle stoffe assicura rispetto alla vendita delle patate, si realizzeranno).(10) Vedi l’art. 793 co. 1, che recita <<la donazione può essere gravata da un onere>>.(11) Purchè la costruzione della scuola o della chiesa non comporti un vantaggio patrimoniale per il donante.(12) Quid iuris nel caso in cui il donatario riceva la proprietà di due appartamenti e si limiti ad assumere l’onere di ristrutturare il terzo appartamento; cioè nel caso in cui vi sia un’evidente sproporzione, tra ciò che il donatario riceve, e, ciò che egli da al donante (il donatario dal negozio riceve un’utilità di 100 e si assume un onere che attribuisce al donante solo l’utilità 10)? A noi sembra che in questi casi ci si trovi di fronte ad un contratto <<misto>>, ad un contratto, vale a dire, che è, per una parte, una donazione e, per un’altra parte, <<qualche altro negozio>> (tipico o atipico - nella fattispecie esemplificata ci si troverebbe di fronte a una donazione + un contratto atipico

derivante dall’incastro, per così dire, di una vendita con un appalto). L’esempio più chiaro e, per così dire, classico di tale monstrum giuridico è dato dalla vendita di una res a prezzo ridotto (A vende l’immobile, che vale 100, per solo 20).

A quale disciplina assoggettare tale negozio? Sembrerebbe a prima vista che la parte corrispondente alla donazione, per una sorta di vis attractiva dovrebbe rendere necessaria la forma pubblica per tutto quanto il contratto: però non è questa la soluzione che ci sembra la migliore: meglio ci sembra considerare l’atto come uno degli <<atti di liberalità>> di cui all’art. 800 e come tale esentarlo dall’onere di assumere la forma pubblica.(13) Di cui all’art. 770, che recita: <<E’ donazione anche la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale rimunerazione. – Non costituisce donazione la liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi>>.(14) Il donatario ha realizzata un’importante scoperta scientifica.(15) Per il quadro era stato pattuito 100, ma il pittore è stato tanto bravo che il committente gli da 200.(16) O rinunciando a un proprio diritto – metti, di usufrutto, di servitù – sul fondo B, (c.d. rinuncia abdicativa).(17) Si pensi al c.d. contratto a favore di terzo: A stipula con C un contratto con cui C si obbliga a costruire una casa per B (o trasportarlo in aereo da Buenos Aires a Roma).(18) A tali atti la dottrina si riferisce anche con la denominazione di <<Donazioni indirette>>. E’ poi pacifico che tali atti, anche se esonerati dalla forma solenne imposta al contratto di donazione, <<debbano rivestire la forma prevista>> per <<l’atto da cui eventualmente risultano>> - cfr. VINCENZO RODOLFO CASULLI (Donazione, cit., p. 974). Vedi anche FAVARA, La forma nelle donazioni indirette, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1955, 11, 61.

Il CASULLI (Donazione, cit., p. 989) ritiene che la donazione indiretta <<non costituisce sempre un negozio, potendo anche identificarsi con un atto materiale, come la satio, plantatio, inaedificatio, sul fondo altrui>>. La tesi è opinabile.(19) Certo, la spiegazione offerta nel testo è calzante per i casi, in cui l’atto di liberalità coinvolge un terzo (contratto a favore di terzo, cessione di credito, accollo,…..), ma si deve ammettere che non è appagante per gli altri casi, ad esempio per una remissione di debito. Ma il difetto non sta nella spiegazione offerta (altra migliore non ne vediamo), ma in una lacuna legislativa: il Legislatore si è dimenticato di operare un <<distinguo>>, che forse era opportuno (forse si e forse no: in fondo tanti <<distinguo>> in una codificazione nuocciono: certe volte è meglio rinunciare ad eliminare degli elementi di illogicità, piuttosto che complicare spropositatamente il discorso legislativo).(20) E il legislatore si preoccupa di non menomare la capacità negoziale di A, non solo pensando all’interesse di A, ma anche a quello dei suoi successori <<legittimari>; che, se A non potesse amministrare liberamente il patrimonio familiare, rischierebbero di trovarsi con questo, non solo non aumentato, ma addirittura diminuito.(21) E’ infatti evidente che l’art. 775 si discosta dall’art. 428, nel non richiedere la prova del <<grande pregiudizio>> subito dall’incapace, perché tale pregiudizio è da ritenersi in re ipsa per atti compiuti senza scopo di conservare o incrementare il proprio patrimonio (idest, in pura perdita).

E’ evidente che è del tutto logico impedire (come fa l’art. 777) al padre e al tutore di compiere atti che, non mirando alla conservazione e all’incremento del patrimonio del minore e del pupillo, sarebbero in pura perdita (mentre non ci sarebbe ragione di impedire un loro atto, sì, gratuito, ma

che mira all’incremento del patrimonio: il tutore <<regala>> delle vecchie cianfrusaglie al fine di sbarazzare la cantina e poterla occupare con dei mobili di pregio, che si stanno deteriorando).(22) Per provvedere insomma a tutte quelle necessità, a cui sarebbe tenuto a sopperire se legato al convivente da valido matrimonio.(23) Come vorrebbe l’art. 1284, per dare validità giuridica alla pattuizione. Peraltro avanza dubbi sulla fondatezza della giurisprudenza che vede nel pagamento di interessi extralegali l’adempimento di un’obbligazione naturale: NIVARRA LUCA (Obbligazione naturale, Digesto, XII, 1995, p.379).(24) E il discorso va ampliato a tali casi, perché, a ben guardare, non vi è una reale differenza tra essi e i casi che, nel comma 1 art. 2034, vengono considerati come adempimento di obbligazioni naturali.

Ritiene che occorra <<eguagliare i due commi dell’art. 2034 c.c. e, per conseguenza, ricondurre le species legislativamente definite, al genus delle obbligazioni naturali>> - NIVARRA (Obbligazione naturale, Digesto, XII, cit., p. 387).(25) Nel senso chiarito nel precedente paragrafo, cioè nel senso che chi paga non si propone lo scopo di incrementare o preservare il proprio patrimonio.(26) Sul punto che <<soltanto i valori condivisi dalle generalità possono aspirare alla sanzione di rilevanza implicita nell’art. 2034, 1° co. c.c.>> vedi NIVARRA (Obbligazioni, cit. p. 379). In giurisprudenza, Cass. 12 febbraio 1980, giur. It. I, 1, 1537.

Meriterebbe un approfondimento l’affermazione di NIVARRA (Obbligazione, cit., p. 380), che vanno esclusi, dal campo delle obbligazioni naturali, certi comportamenti <<di cortesia>> dettati dal costume sociale (<<si pensi al dono che precede, accompagna o segue un invito a pranzo>>).(27) Ma, si badi, un pagamento può non rientrare nell’adempimento di un’obbligazione naturale, sia quando non è previsto e comandato né dalla morale né dal costume, sia quando è <<eccessivo>> rispetto al comportamento previsto dalla morale e dal costume: Caio che, salvato dalle acque, dà al suo salvatore una somma, proporzionata alle sue sostanze e al rischio corso dal suo soccorritore, adempie un’obbligazione naturale; Caio che dà al suo salvatore l’attico centralissimo che, non solo vale una fortuna, ma che anche è la sua unica fortuna, si colloca <<fuori della regola>> (sia pure per un eccesso di generosità): non adempie un’obbligazione naturale, ma compie un atto di donazione.Ciò è indubbio, solo c’è da domandarsi se, chi agisce dietro la spinta di un impulso, che rivela una particolare sensibilità morale o una particolare generosità (nel compensare o nel retribuire), compia una donazione rimuneratoria (per cui in caso di ingratitudine o di sopravvenienza di figli non potrà richiedere la revoca del donatium) o una pura e semplice donazione. E il dubbio sorge dal fatto che – mentre è giusto non pretendere e non aspettarsi gratitudine (limitiamoci, per semplificare il nostro discorso, all’esame dell’ipotesi di un’ingratitudine del donatario) da chi ha ricevuto, sì, una ricompensa o una retribuzione non dovuta ma pur sempre proporzionata alle sue prestazioni – sarebbe invece ben giusto aspettarsi riconoscenza da chi ha ricevuto dalla generosità altrui molto più di quanto aveva meritato.

Ebbe a sostenere che i comportamenti dettati da sentimenti come la carità, la pietà fuoriescono dall’ambito dell’art. 2034, IEMOLO (Cessione dell’aspettativa che nasce dall’obbligazione di coscienza?, Rivista Diritto Civ., II, 1966, 431).(28) La tesi che ha avuto più fortuna in subjecta materia <<vuole – stiamo esponendo questa tesi con le parole di LUCA NAVARRA (Obbligazione naturale, cit. p. 373) – il dovere di riconoscenza

di cui all’art. 770, 1° co., c.c. identico nella struttura (….) ma meno intenso nei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c.>>.

Altra tesi, meno fortunata ma sempre diffusa, pretende che <<i doveri morali e sociali dell’art. 2034 – stiamo sempre usando le parole di LUCA NAVARRA (Obbligazione, cit., p. 373) – avrebbero, al contrario del dovere di riconoscenza e degli altri, più generici – pietà, carità, ecc. – che spingono o possono spingere al compimento di attribuzioni liberali – un contenuto patrimoniale>>.

Non manca infine chi trova il criterio per distinguere (la ratio distinguendi) tra obbligazione naturale e donazione <<nella presenza o, specularmente, nell’assenza dello spirito di liberalità>> - cfr. sempre NIVARRA (Obbligazioni, cit., p. 374 n. 47).(29) In questo secondo caso, come si è detto, l’atto si riterrà valido solo se a garantire, per così dire, che è frutto di una decisione meditata, sta l’adozione (per compierlo) della forma pubblica.

Però una volta che tale forma è stata adottata (una volta che tale garanzia di serietà è stata offerta), il donante rimuneratorio si trova stessa identica posizione del pagante un’obbligazione naturale, rispetto alla eventuale irriconoscenza del beneficato e alla eventuale sopravvenienza di figli: sia l’uno che l’altro, in tale ipotesi, non potranno chiedere indietro quel che ebbero a dare.

Titolo II: La tutela dei diritti

3 - Espropriazione ed esecuzione in forma specifica.

Non dovrebbe essere indifferente per un creditore che lo Stato gli assicuri l’esatto adempimento dell’obbligo assunto dal suo debitore oppure solo l’esatto risarcimento del suo inadempimento? A tutta prima questa domanda sembrerebbe meritare una risposta positiva: infatti, come già abbiamo visto in altra parte, il risarcimento, che il nostro Legislatore assicura, tende a coprire tutti i danni conseguenti all’inadempimento: non solo il c.d. danno emergente (il debitore non è venuto ad aggiustare il tetto e, l’acqua filtrata, ha rovinata la mobilia), ma anche il c.d. lucro cessante (quei 100 milioni che, il creditore di 100 quintali di grano, si riprometteva di lucrare dalla loro rivendita a maggior prezzo).L’esperienza però dimostrala falsità di questa prima impressione: infatti il risarcimento espone il creditore al rischio che alcuni danni non siano dal giudice (che dovrebbe liquidarli) percepiti (come può un giudice, che non abbia l’anima dell’artista, rendersi conto della sofferenza estetica che, nell’animo del creditore, invece sensibile al bello, provoca il casermone che il debitore ha costruito in spregio al suo obbligo?!) o convenientemente apprezzati (quei 100 quintali di grano il compratore avrebbe potuto rivenderli a 100, però c’è il rischio che un giudice, poco pratico del mercato, ritenga che solo 900 poteva essere il prezzo che dalla loro rivendita poteva spuntarsi).

Tutto questo spiega perché l’optimum per un creditore sia l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo (il cui adempimento gli spetta): Caio si era obbligato a darmi 100 quintali di grano? ebbene, io, creditore, voglio mi siano dati proprio cento quintali di grano

Sennonché l’esecuzione specifica spesso non è possibile: e in effetti o tale esecuzione viene fatta ad opera del debitore, a ciò convinto dalla minaccia di una sanzione che più del risarcimento del danno lo intimorisce (ma il comminare una pena ad un debitore solo perché inadempiente, pare offendere la … sensibilità di un legislatore come il nostro), oppure tale esecuzione viene fatta pagando (naturalmente con i soldi del debitore: io, Stato, esproprio e vendo alcuni beni del debitore e col ricavato pago) terze persone che facciano, loro, quel che il debitore avrebbe dovuto fare; ad esempio costruiscano quella casa, che il debitore si era impegnato a fare o distruggono quel muro che il debitore si era impegnato a non costruire (ma non sempre il <<fare>>, dovuto dal debitore, è fungibile, cioè può essere espletato con identici, positivi risultati da un terzo: Paganini si era obbligato a suonare alla mia festa e ora si rifiuta, vai a trovare una persona che suoni come Paganini!).E anche quando l’esecuzione in forma specifica è teoricamente possibile, essa non è sempre accettabile dal Legislatore; e questo per due buoni motivi.Primo motivo: perché essa viene a ledere il principio della par condicio creditorum. Cornelio è creditore di 120 quintali di grano verso Caio; però egli non è l’unico creditore di questi: vi è Sempronio, che verso Caio può vantare un credito si 10 milioni. Ora metti che il patrimonio del debitore Caio si riduca a solo proprio quei 120 quintali di grano (di cui Cornelio reclama la consegna) e che i crediti di Cornelio e di Sempronio rappresentino rispettivamente un terzo e due terzi della massa debitoria: la puntuale applicazione del principio della par condicio vorrebbe che Cornelio si soddisfacesse solo su un terzo del patrimonio del debitore (id est, su soli 40 quintali di grano) e Sempronio si soddisfacesse sui residui due terzi (id est, su 80 quintali di grano): invece, l’esecuzione specifica del credito di Cornelio, attribuirebbe la totalità del patrimonio a Cornelio e lascerebbe Sempronio …. a bocca asciutta.Secondo motivo (che può consigliare al Legislatore di soddisfare il credito leso dall’inadempimento solo con un risarcimento del danno, realizzato se del caso con una espropriazione forzata): un contrasto tra l’esecuzione in forma specifica del diritto e gli interessi dell’economia nazionale. L’esempio più evidente che di un tale contrasto si può portare è quello del debitore che, in spregio a un suo obbligo di non fare, costruisce un’opera costosa e utile all’economia, metti una fabbrica: la sua distruzione darebbe al creditore un’utilità 100 (gli permetterebbe solo di vedere meglio il panorama dal suo castello), ma causerebbe un danno di 1000 per ogni

persona che nella fabbrica lavora: non è logico dare in risarcimento 100 al creditore e così evitare un danno di molto maggiore di 100 alla Comunità?Oltre a esempi come questi, altri se ne possono portare, in cui meno evidente, ma pur sempre reale è la lesione all’interesse dell’economia nazionale. Si pensi a questo caso: la ditta A fabbrica cuscinetti a sfera e ne ha promesso la consegna di 1000 alla ditta B – il prezzo di ciascun cuscinetto è stato convenuto in 1 euro; però, proprio prima della consegna, la ditta C si offre di comprare quegli stessi cuscinetti al prezzo di 2 euro cadauno, e ciò fa ben presumere che ciascun cuscinetto, nella fabbrica C, riveli un’utilità doppia che nella fabbrica B (ciò che a sua volta fa presumere che, quel che il pubblico compra da C, sia più utile di quel che compra da B, tanto è vero che …. è disposto a pagarlo a un maggior prezzo): stando così le cose, non conviene a uno Stato (desideroso di incoraggiare tutto ciò che fa prosperare l’economia nazionale) limitarsi a minacciare ad A, in caso di un suo inadempimento, un obbligo di risarcimento, anziché un’esecuzione in forma specifica (il che è come dire all’imprenditore A: <<fatti bene i tuoi calcoli e se scopri che il maggior prezzo offertoti da C compensa il risarcimento del danno per inadempimento, renditi pure inadempiente>>)? Sembrerebbe proprio di si.E con ciò abbiamo esposti i principali argomenti che depongono pro e contro un’esecuzione specifica degli obblighi inadempiuti. Quale soluzione il nostro Legislatore ha inteso adottare lo studioso la ricaverà dagli artt. 2930ss.

Autorevolmente si fa notare che il nostro Legislatore, con tali articoli, non consente l’esecuzione in forma specifica in tutti i casi in cui sarebbe praticamente possibile. In particolare l’esecuzione in forma specifica non è da Lui ammessa quando comporta <<la distruzione della cosa>><<se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale>>(cpv. art. 2933) e quando si tratterebbe di eseguire un obbligo di consegnare cose non <<determinate>>(art. 2930): lo studioso pensi all’obbligo di consegnare il grano o i bulloni, di cui abbiamo parlato nei nostri precedenti esempi.

A prescindere dai divieti (di esecuzione specifica) espressi claris verbis dal Legislatore, lo studioso terrà presente che altri ve ne sono in cui, la volontà legislativa di vietare tale forma di esecuzione, è mascherata e resa irriconoscibile da fumose ancorché vetuste teorie: si ricorda lo studioso l’esempio che facemmo parlando dei diritti reali? A ha concesso a B il diritto di venire ogni domenica a giocare a bocce sul suo terreno; però la ditta C, che su tale terreno vuole costruire un grattacielo, si offre di comprarlo per un miliardo: anche nel caso il proprietario potrà con serenità scegliere, se far fronte all’obbligo di lasciar giocare a bocce B o vendere a C: e nel caso opti per questa seconda soluzione, lo Stato non procederà a nessuna esecuzione

in forma specifica: perché? Risposta (comunemente data): perché il diritto di B manca del carattere della realità (di quel carattere della realità che invece potrebbe avere un diritto di passo, di acquedotto, tanto per citare alcuni tipi di servitù). Belle parole: ma la realtà e che esse mascherano un rifiuto dell’esecuzione in forma specifica!

Vi è infine da far osservare che dagli artt. 2930 ss. risulta che l’esecuzione in forma specifica è un optional del creditore: egli può preferire il risarcimento del danno anche quando un’esecuzione in forma specifica non sarebbe né particolarmente difficile né particolarmente onerosa. Ciò in definitiva è in linea con il disposto dell’art. 1453.

4 -Tutela e autotutela dei diritti

Alcune volte la realizzazione di un diritto implica l’esercizio di una violenza su cose o su persone (il debitore si è barricato in casa, deciso a non permettere che la sua mobilia sia presa e venduta all’asta). In tali casi è evidente l’opportunità di rimettere la forzata realizzazione di un diritto ad un organo pubblico, allo Stato: il creditore è mingherlino e il debitore è un omaccione: come potrebbe il primo trovare la forza per superare le resistenze del secondo? oppure il caso contrario: il creditore non abuserà allora della sua forza? non eccederà nella violenza (invece di dosarla nello stretto necessario per superare la resistenza altrui)?!

Vi sono però casi in cui la realizzazione coattiva del diritto potrebbe anche avvenire senza l’uso della violenza, però presenta il pericolo di scatenarla: Caio ha diritto di avere la consegna di quel certo trattore dal vicino e questo trattore si trova proprio lì, in prossimità del confine non difeso né da muri né da reticolati: basta che il creditore attraversi il confine, ingrani la marcia del trattore ed …. è fatta. Oppure, Caio ha il diritto di passare per il fondo di Sempronio: questi glielo vuole impedire e ha messo sul sentiero una cancellata, che però si può aprire senza violenza e senza provocare danni. Perché in tali casi non permettere al creditore di operare da solo la realizzazione del suo diritto? Evidentemente la risposta al quesito dipende dall’intensità del rischio di violenza che tale realizzazione comporta e dal grado di rischio (all’ordine pubblico) che il Legislatore è disposto ad accettare. Io, Legislatore, posso pensare che, nel primo esempio fatto, il rischio per l’ordine pubblico sia troppo alto (perché? perché il fatto di una persona che entra in <<casa altrui>> e vi prende delle cose, urta e sollecita la reazione di ancestrali tabù!) e quindi posso vietare l’autotutela del creditore. Mentre, invece, posso pensare che il rischio del secondo esempio sia accettabile (Sempronio è abituato al fatto che Caio passi sul suo terreno, perché questi l’ha fatto altre volte: certo, ora lo fa contro il suo divieto, ma ciò può,

sì, urtarlo, ma non sembrargli un’intollerabile offesa al suo diritto di proprietà). E con analoghi ragionamenti il Legislatore può concludere, per l’ammissibilità dell’autotutela, nel caso di Caio, che ritiene di aver diritto di tagliare le radici dell’albero del vicino, e, per la sua inammissibilità, nel caso di Sempronio, che ritiene di aver diritto di tagliare i rami dell’albero sorto sul confine del suo fondo.

Il fatto che il titolare di un diritto non debba rivolgersi allo Stato per la realizzazione coattiva del suo diritto, non significa, di per sé, che egli, allo Stato, non abbia interesse e non abbia diritto di rivolgersi, per un’esecuzione del suo diritto, che sarebbe improprio dire <<forzata>>, dato che, pur attuandosi con le procedure dell’esecuzione forzata, avviene senza necessità di superare delle resistenze (e quindi senza necessità di usare la forza). L’esempio che si può portare è quello di A, che vuole esercitare il suo diritto di distruggere l’opus edificato da un terzo, B, nel suo terreno (id est, nel terreno di A): A certamente potrebbe provvedere direttamente alla distruzione dell’opus, però ha interesse lo stesso a rivolgersi allo Stato per promuovere una procedura esecutiva: infatti così facendo (cioè provvedendo ai lavori di distruzione dell’opus sotto il controllo e la supervisione dell’Autorità Giudiziaria), evita il rischio di vedersi contestare da B, le spese fatte, come eccessive. Questa esecuzione che, si ripete, solo impropriamente potrebbe chiamarsi <<forzata>> e più propriamente dovrebbe chiamarsi <<giurisdizionalmente controllata>>, viene con tutta evidenza a tutelare un interesse diverso da quello della realizzazione di un diritto e di minore importanza sociale, cosa per cui ben potrebbe essere che lo Stato, disposto ad attivare il suo apparato (i suoi giudici, i suoi cancellieri.. . . ) per quella (id est, per l’esecuzione forzata), non sia a ciò disposto per questa (id est, per l’esecuzione giurisdizionalmente controllata).

5 -Potere del debitore di disporre liberamente del suo patrimonio.

Un ordinamento giuridico – che, come quelli moderni, rifiuta di pungolare il debitore all’esatto adempimento dell’obbligazione pecuniaria da lui assunta, con la minaccia di sanzioni corporali – dovrebbe rassegnarsi alla paralisi del traffico commerciale (dato che ben pochi accetterebbero di stipulare contratti che sarebbero fonte di diritti, la cui realizzazione verrebbe a dipendere …. dalla buona volontà del debitore), se non concedesse al titolare di un diritto a somma di denaro (e si badi, tutti i diritti, salvo quelli per cui è possibile un’esecuzione in forma specifica (10) sorgono o si trasformano in diritti a una somma in denaro) di espropriare i beni, e tutti i beni, del debitore per procurarsi con la loro vendita (o assegnazione) la soddisfazione del proprio credito (11).Per questo ha il sapore quasi di cosa ultronea il disposto del comma 1 dell’art. 2740:

<<il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri>>.Ma se il patrimonio del debitore viene a costituire la principale garanzia dell’adempimento delle obbligazioni, dal debitore stesso assunte, non è opportuno privare questo della possibilità di disporne (vendendo beni, assumendo obbligazioni ….) col pericolo con ciò stesso di diminuirne la portata?No, di certo: perché le remore di una persona ad assumere un’obbligazione sarebbero fortissime, se l’assumerla comportasse il congelamento del suo patrimonio; perché, inoltre, è interesse del creditore stesso che il patrimonio del suo debitore continui a essere cosa viva e fruttifera: è interesse del creditore che il debitore possa stipulare il contratto di appalto per la riparazione della sua casa, possa vendere il grano raccolto nel suo campo, non solo, ma anche possa alienare un suo immobile dato che è presumibile che ciò che viene a sostituire il bene alienato sia, di questo, di maggior valore.Con tutto ciò l’interesse del creditore, a che il patrimonio del suo debitore non si immiserisca, senza dubbio c’è; ed anzi si può dire che, uno dei principali problemi del diritto privato, è dato dalla conciliazione, di quest’interesse del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale, con l’interesse che, si ripete, non è solo del debitore, ma del creditore stesso, a che il patrimonio del debitore continui ad essere amministrato (sperabilmente, bene).

6 -Par condicio creditorum

Non sarebbe giusto che Primus, il quale è diventato creditore di A nel gennaio 2000, si soddisfi, espropriando e vendendo i beni di A, a preferenza di Secundus, che, di questi, è diventato creditore solo nel 2004? No; perché non ha senso dare ad A (il debitore) il potere di disporre del suo patrimonio (stipulando contratti di vendita, di locazione ….), se non gli si da il potere di assumere obbligazioni; e non ha senso dargli il potere di assumere nuove obbligazioni, se non si concede ai nuovi creditori di soddisfarsi, proporzionalmente alla quantità del proprio credito ma a prescindere dalla data in cui è sorto, su tutti i beni che costituiscono il patrimonio del debitore. E, infatti, Secundus, tanto più facilmente accetterà di far credito ad A, quante più speranze avrà di recuperare il suo credito; ed è chiaro che tali speranze saranno maggiori se egli saprà che, per mal che vada, potrà dividere la torta su un piano di eguaglianza con gli eventuali creditori che possano averlo preceduto nel tempo (e del cui numero e della cui importanza, si badi, lui potrebbe difficilmente avere conoscenza!); mentre tali speranze caleranno vistosamente se egli, il nuovo creditore, avrà a temere di essere lasciato, da precedenti creditori, solo a rosicchiare …. le ossa rimaste del loro lauto pasto.

E’ quindi di solare evidenza l’opportunità del principio (affermato nel comma 1, art. 2741) che <<i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore salve le cause legittime di prelazione>>.

7 - L’ipoteca

Abbiamo già accennato che nella vita economico-sociale entrano in conflitto due diversi interessi: quello del creditore a non perdere quella garanzia per lui rappresentata dal patrimonio del suo debitore e quello del debitore a continuare a disporre del suo patrimonio. Il diritto di ipoteca, frutto di una millenaria e tormentata esperienza, opera di tali opposti interessi la conciliazione. Infatti, da una parte, il debitore conserva il più completo potere di disposizione sul bene gravato dal diritto di ipoteca (e pertanto può venderlo, in tutto o in parte, può costituirvi un usufrutto, una servitù ….) e, dall’altra, il creditore, non solo ha il c.d. diritto di sequela su tale bene, cioè conserva integro lo jus vendendi su tale bene ancorché in tutto o in parte non rientri più nel patrimonio del venditore (questi ha venduto il bene? poco importa, io creditore ipotecario potrò lo stesso espropriarlo presso il terzo acquirente, al quale non rimarrà che rivalersi per la subita espropriazione sul debitore-suo dante causa), ma viene a godere di un diritto di prelazione sugli altri creditori (il mio debitore ipotecario vuole assumere altri obblighi e altri crediti? lo faccia pure, io, creditore ipotecario metti per 10, so che, se si dovrà espropriare e vendere il bene ipotecato per 15 e concorrerò con altri due creditori, uno per 5, l’altro per 20, avrò diritto di prendermi sempre 10 e …. di lasciare agli altri solo le briciole).Chiaramente il diritto di sequela e il diritto di prelazione vengono a realizzarsi a danno di terzi: i creditori e gli acquirenti del debitore; e, pertanto, se non si desse modo, a chi entra in rapporti economici con una persona, di controllare se i suoi beni sono, o no, gravati da ipoteca, ciò verrebbe a costituire una fortissima remora al libero e dinamico svolgimento del commercio. Il legislatore elimina tale remora (al commercio) subordinando il riconoscimento del diritto ipotecario alla sua pubblicizzazione (mediante sua iscrizione nei c.d. registri ipotecari): tu, Caio, vuoi comprare da Cornelio l’immobile A e vuoi essere sicuro di non correre il rischio di vedertelo espropriare da un creditore ipotecario? Recati all’ufficio ipoteche e verifica. E lo stesso può ripetersi per Sempronio che sta per far credito a Cornelio (però, in questo secondo caso, tenendo presente che, mentre chi acquista e trascrive il suo acquisto in mancanza di iscrizioni ipotecarie, può …. dormire tra due guanciali: posteriori iscrizioni ipotecarie non gli nuocerebbero; chi, invece, fa credito, anche se al momento non sussistessero iscrizioni ipotecarie, non potrebbe essere tranquillo di non essere pregiudicato da future iscrizioni: io dò a mutuo 100 a Cornelio i cui beni sono vergini da ipoteche, però dopo un anno Sempronio ne iscrive una: Sempronio

avrà diritto di prelazione su di me).Però, perché l’ipoteca possa essere pubblicizzata, bisogna che (naturalmente!) sia indicato il bene su cui grava e, di conseguenza, occorre che questo bene sia suscettibile di essere individuato (da chi consulta il libro ipotecario) mediante la sua descrizione. Ora ciò non è possibile per tutti i beni: è possibile per un immobile (basta indicarne i confini), è possibile per una automobile (basta indicarne la targa), ma non è possibile metti per una collana o per un anello o per un cavallo (come si può, di tali cose, fare una descrizione tale che permetta la loro individuazione al momento di doverle espropriare? Una collana è uguale a mille altre collane, un anello è uguale a mille altri anelli ….). E’ per questo che il legislatore ammette l’ipoteca solo sui beni da lui (tassativamente) indicati (in definitiva lo stabilire l’individuabilità di un bene implica una discrezionalità: è naturale quindi che spetti al solo Legislatore)(13).A questo punto possiamo riportare la definizione dell’ipoteca che da il Legislatore nell’art. 2808: <<(Costituzione ed effetti dell’ipoteca). L’ipoteca attribuisce al creditore il diritto di espropriare, anche in confronto del terzo acquirente, i beni vincolati a garanzia del suo credito e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo dichiarato dall’espropriazione. – L’ipoteca può avere per oggetto beni del debitore o di un terzo e si costituisce mediante iscrizione nei registri immobiliari. – L’ipoteca è legale, giudiziale o volontaria>>.Passiamo ora in rapida rassegna alcune caratteristiche e condizioni d’esistenza del diritto di ipoteca.I- Accessorietà. – Tale carattere dell’ipoteca pretende ch’essa abbia solo la funzione di garantire un credito ed esclude la c.d. ipoteca del proprietarioII- Pubblicità. – L’ipoteca non nasce dal nulla, nsce da un fatto (una sentenza, un contratto, una dichiarazione unilaterale ….) che costituisce il suo titolo (e proprio in base al titolo, il Legislatore distingue, un’ipoteca legale, giudiziale, volontaria. Però tale fatto, tale titolo, è condizione necessaria ma non sufficiente: perché il diritto di ipoteca venga a giuridica esistenza, occorre che sia portato a conoscenza del pubblico, che sia pubblicizzato: come? <<mediante iscrizione nei registri immobiliari>>.

Che i diritti del creditore (ipotecario) contro i terzi (il diritto di seguito, il diritto di prelazione) vengano a giuridica esistenza solo quando i terzi possono averne conoscenza, è cosa abbastanza logica, ma perché subordinare alla pubblicità l’esistenza di diritti, che il creditore potrebbe esercitare solo verso il suo debitore? e ciò, si badi con un evidente deroga ai principi: se a Caio viene alienato un immobile, subito, in base al titolo dell’alienazione (vendita, permuta.. .), acquisisce il relativo

diritto di proprietà, se invece a Caio viene attribuito un diritto di ipoteca, in base al relativo titolo <<costitutivo>> egli acquisisce non il diritto di ipoteca ma solo il diritto a costituire l’ipoteca: come dunque si spiega tale deroga ai principi? Si spiega come una forma di pressione che il Legislatore vuole esercitare sul creditore, affinché quanto prima provveda alla pubblicità del diritto acquisito.

L’ipoteca rappresenta un grosso vantaggio per il creditore, ma un grave peso per proprietario del bene (ipotecato). Ad evitare che questi, da tale peso, sia gravato senza vero e autentico titolo (un vicino, metti per porgli intralci, alla vendita del bene, fa carte false e in base ad esse rende questo inappetibile facendolo apparire gravato da un’ipoteca), il Legislatore, non solo impone che <<per eseguire l’iscrizione deve presentarsi il titolo costitutivo>>(art. 2839), ma per il caso che tale titolo <<risulti da scrittura privata>>, dispone che <<la sottoscrizione di chi ha concesso l’ipoteca deve essere autenticata o accertata giudizialmente>> (art. 2835).III. Specialità. – Dispone il comma 1, art. 2809: <<L’ipoteca deve essere scritta su beni specialmente indicati e per una somma determinata in danaro>>.

Imponendo la iscrizione <<su beni specialmente indicati>> il Legislatore ha voluto negare la possibilità di <<ipoteche generali>>. Pertanto un debitore non potrebbe concedere ipoteca al suo creditore <<su tutti i suoi immobili>> (o anche su metà, un terzo dei suoi immobili); nulla però gli impedirebbe – se fosse, metti, proprietario di tre beni, A, B, C – di concedere ipoteca su tutti e tre i beni specificatamente indicandoli (v. anche l’art. 2826).

Peraltro il Legislatore deroga al disposto dell’art. 2809 per alcune ipoteche legali (v. art. 2817, n. 3) e per le ipoteche giudiziali (v. art. 2818). In tali ipotesi (di ipoteche generali) può presentarsi naturalmente la possibilità di abusi, che il legislatore argina concedendo all’interessato di domandare la <<riduzione>>, se vi è un’eccessiva sproporzione tra il valore dei beni ipotecati e l’ammontare del credito (v. melius art. 2874).

L’iscrizione ipotecaria – impone l’art. 2809 sempre nel suo comma 1 – può farsi solo <<per una somma determinata in danaro>>. La ratio della disposizione è intuitiva: a chi vuole acquistare A non interessa solo sapere se A è, o no, ipotecato, ma anche la somma per cui è stato ipotecato: io posso anche comprare A se esso, che vale 100, è gravato da un’ipoteca per 30, ma ci penserò mille volte prima di comprare A, che vale 100, ed è ipotecato per 100.

Va attirata l’attenzione dello studioso sul fatto che la somma per cui è iscritta ipoteca (cioè la somma su cui il creditore avrà diritto di soddisfarsi con prelazione sugli altri concorrenti creditori) può non corrispondere al credito garantito. E questo per due motivi.

Primo, perché – mentre necessariamente la somma per cui è iscritta ipoteca va espressa in danaro (necessariamente, si ripete, dato che deve indicare il diritto di prelazione su quella somma in danaro che rappresenterà il risultato dell’espropriazione) – il credito garantito, invece, può avere ad oggetto cose diverse dal danaro: Caio ha diritto ad avere 100 quintali di grano da Sempronio e costituisce a sua garanzia un’ipoteca per 10 mila sull’immobile A: ciò significa che egli avrà diritto di prelevare sul ricavato di un’eventuale vendita forzata fino a 10 mila.

Secondo, perché nulla vieta al creditore di iscrivere ipoteca per una somma inferiore o anche (metti per cautelarsi contro una possibile svalutazione della moneta) superiore: Caio ha un credito di 1000 e scrive ipoteca per 800 o per 1200.IV. Indivisibilità. – Recita il cpv. art. 2809: <<(L’ipoteca è indivisibile e sussiste per intero sopra tutti i beni vincolati, sopra ciascuno di essi e sopra ogni loro parte>>.

Il principio della indivisibilità serve a rendere meno complicata e più sicura la realizzazione del credito garantito. Degli esempi chiariranno il concetto.

A ha ipoteca per 1000 su un immobile in comproprietà a B e C. I due comproprietari decidono di dividere l’immobile a metà. Loro interesse sarebbe che il creditore A potesse aggredire la quota di fondo attribuita a B solo per avere 500 e la quota di fondo attribuita a C solo per avere ancora 500 (e infatti in tal caso ciascuno di loro potrebbe salvare il suo bene dall’aggressione solo pagando 500). L’interesse invece di A è l’opposto: infatti, non è detto che, presi i 500 da B, egli poi riesca a ricavare i residui 500 da C: invero il fondo toccato a C potrebbe valere meno di quello toccato a B (nel caso ad esempio la divisione tra B e C fosse stata <<squilibrata>>) e in ogni caso la vendita separata dei due fondi potrebbe dare un ricavato inferiore alla vendita del fondo originario (cioè non ancora diviso). Con l’art. 2809 il Legislatore decide appunto di tutelare l’interesse del creditore (a preferenza di quello dei proprietari del bene ipotecato) dando a quello (id est, al creditore) il potere di espropriare e vendere questo (id est, il bene ipotecato) come se fosse indiviso. Ma come il creditore può avere interesse ad aggredire tutto il fondo (come se fosse indiviso) così può avere interesse ad aggredire solo la parte di un fondo (parte risultante da una divisione o anche da una vendita parziale). Torniamo a B e C che hanno diviso il fondo a metà: se il valore della parte toccata a B dà garanzie di soddisfare completamente il credito di A, perché obbligare questi alla complicazione di espropriare anche la parte toccata a C? Proprio per evitare tale <<complicazione>> il nostro legislatore sancisce nell’art. 2809 il principio che l’ipoteca sussiste <<sopra ogni parte>> del bene ipotecato.

8.-Il Pegno

Il Legislatore – dopo aver detto, nell’art. 2874, che <<il pegno è costituito a garanzia dell’obbligazione del debitore o da un terzo per il debitore>> - passa a disciplinare, in due diverse <<sezioni>>, il <<pegno dei beni mobili>> (artt. 2786 ss.).

Sennonché tali due forme di pegno hanno, sì, la stessa funzione di garanzia del credito, ma la realizzano in modi così diversi da rendere molto dubbia l’opportunità di accomunarle in un unico genus. Di ciò ci permetterà di renderci meglio conto un esame anche rapido della loro disciplina.

Pegno dei beni mobili. – Parlando dell’ipoteca abbiamo visto come la funzione di garanzia di un bene (il bene ipotecato) si realizzi senza praticamente diminuire la piena disponibilità che su tale bene ha il suo proprietario; che, non solo può continuare a disporne giuridicamente (affittandolo, vendendolo, …), ma anche può continuare a goderne materialmente (coltivandolo, cogliendone i frutti, …). Questo, però, è possibile solo per quei beni che sono suscettibili di essere individuati in base a una semplice descrizione (nei registri immobiliari). E per gli altri beni (una collana, un quadro …)? Per questi beni l’unico sistema per garantire al creditore la possibilità di disporne (al momento di procedere esecutivamente contro il debitore) è quello, drastico, di spossessarne il proprietario: se io voglio essere sicuro che, tu, proprietario di quella collana offertami in garanzia, non la farai sparire (vendendola o anche semplicemente nascondendola), debbo toglierla dal tuo forziere (poco importa se per custodirla nel mio forziere o in quello di persona che gode della mia e tua fiducia). Ecco perché l’art. 2786 recita: <<Il pegno si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilità della cosa. La cosa o il documento possono essere anche consegnati a un terzo designato dalle parti o possono essere posti in custodia di entrambe, in modo che il costituente sia nell’impossibilità di disporne senza la cooperazione del creditore>>.

Certo, l’impossibilità per il debitore (melius, per il proprietario) di disporre materialmente del bene, tranquillizzerebbe solo a metà il creditore, se poi vi fosse la possibilità per un terzo di acquistare un diritto (ablativo del pegno) sulla res stipulando contratti con il suo proprietario (ancorché privo del possesso); ma ciò è possibile, è possibile che Caio acquisti dal debitore Sempronio la proprietà (ablata dal pegno) della collana di perle, ancorché si trovi essa ora nei forzieri del creditore? No, lo esclude l’art. 1153(26): peraltro è dubbio che di un diritto di seguito, nel senso in cui se ne è parlato nell’ipoteca, abbia senso parlare a proposito del pegno.

Proprio invece, come nell’ipoteca, il creditore (pignoratizio) gode di un diritto di prelazione: <<il creditore – recita il comma 1, art. 2787 – ha il diritto di farsi pagare con prelazione sulla cosa ricevuta in pegno>>.

Però il legislatore subordina l’esercizio di tale prelazione a due presupposti.Primo (valevole per tutti i crediti quale ne sia l’ammontare): che <<la cosa data in

pegno (sia) rimasta in possesso del creditore o presso il terzo designato dalle parti> (comma 2, art. 2787). Qui, ci pare, il legislatore vuole riferirsi soprattutto al caso in cui il possesso, perso dal creditore, è ritornato al debitore (più genericamente, al proprietario del bene pignorato): in tal caso, la presenza del bene nella disponibilità del debitore, potrebbe costituire un vero tranello per i terzi (che entrano con lui in rapporti commerciali: Tizio vede la collana al collo di Caia e crede di poter in futuro soddisfarsi su tale collana se mai Caia non gli restituisse il prestito che è sollecitato a farle): ora è proprio la possibilità di tali tranelli (con la conseguente remora ai traffici commerciali) che il legislatore vuole evitare.

Secondo presupposto (all’esercizio del diritto di prelazione – presupposto valevole solo per i crediti eccedenti una certa somma): la prelazione deve risultare da scrittura con data certa (vedi melius comma 2, art. 2787). Il pericolo che qui il legislatore vuole evitare è quello di eventuali frodi agli altri creditori.

Ritornando allo spossessamento del proprietario (del bene pignorato), va detto ch’esso serve a garantire il credito, non solo in quanto impedisce la dispersione del bene, ma anche perché costituisce una forte pressione sul debitore a che adempia la sua obbligazione: questi sa che, se vuole tornare in possesso del suo bene, deve prima pagare. Infatti dice l’art. 2794: <<colui che ha costituito il pegno non può esigerne la restituzione, se non sono stati pagati il capitale e gli interessi e non sono state rimborsate le spese relative al debito e al pegno>>. E tale diritto di ritenzione, si badi, sussiste nel creditore anche quando egli non può vantare il diritto di prelazione (perché il pegno non risulta da scrittura privata – v. comma 2, art. 2787): ed è chiaro il perché di ciò: il requisito della scrittura è preteso per tutelare, non il proprietario del bene, ma solo i terzi creditori (dai pericoli di frode che essi possono correre a causa del disonesto operare del proprietario stesso).Pegno di crediti e di altri diritti. – Si sa che il codice di procedura concede al creditore insoddisfatto di pignorare, prima, e, poi, di farsi assegnare o di far vendere, anche i diritti (diritto di marchio, di brevetto, d’autore …) e in specie quelli di credito.

Però, anche per tali diritti, il creditore corre il duplice rischio: che il debitore riesca, prima del pignoramento, a sottrarli (ad esempio, alienandoli o riscuotendoli prima del pignoramento); che il concorso di altri creditori renda insufficiente (alla soddisfazione integrale del suo credito) il ricavato dell’esecuzione forzata.

Il Legislatore disciplina il pegno dei crediti e dei diritti in modo da concedere (anche se, ahimé! con non molta chiarezza!) al creditore una possibile garanzia contro

tali rischi.Infatti, dall’art. 2804, dal rinvio effettuato dall’art. 2807 all’art. 2787, e dai principi

del diritto, si ricava che il creditore pignoratizio ha, sia un diritto di prelazione rispetto ai concreditori, sia un diritto di farsi assegnare o di far vendere il credito del proprio debitore, ancorché tale credito sia stato precedentemente riscosso o alienato.

Però la concessione di tale diritto di prelazione e di tale diritto di seguito (sia pure sui generis) costituirebbe una forte remora al traffico commerciale (33), se non fosse subordinata a certi requisiti, necessari per fugare l’ignoranza (sull’esistenza del pegno) e per evitare frodi ai concreditori (di chi vanta il pegno) e agli acquirenti del credito (che si pretende oggetto di pegno).

Ecco quindi l’art. 2800, che recita: <<Nel pegno di crediti la prelazione non ha luogo, se non quando il pegno risulta da atto scritto e la costituzione di esso è stata notificata al debitore del credito dato in pegno ovvero è stata da questo accettata con scrittura avente data certa>>.

Come si vede, quindi, anche la costituzione del pegno su un diritto va pubblicizzata; ma non con lo spossessamento (dato che questo presupporrebbe un possesso del bene che, invece, il titolare di un diritto – melius, di un diritto su cui si può costituire un pegno nei modi disciplinati dagli artt. 2800 ss. – non ha) né con la registrazione in pubblici registri (dato che tali registri non esistono per quel che riguarda i diritti a cui gli artt. 2800 ss. si riferiscono), ma con la semplice comunicazione al debitore (comunicazione su cui e sulla cui data, dà certezza la notifica o l’accettazione nelle forme di cui all’ultima parte art. 2800).

Chiudiamo il paragrafo con alcuni accenni a due istituti assai simili al pegno: la <<cessio pro solvendo>> e il <<pegno irregolare>>.

Nella cessio pro solvendo il debitore cede al suo creditore un diritto in adempimento del suo debito; mentre nella costituzione di un pegno, il debitore dà il suo diritto semplicemente in garanzia. Questa distinzione di per sé chiara, si oscura di non poco quando il debitore dà in pegno il suo diritto, col patto che, se non adempirà, la titolarità di tale diritto passerà al creditore.

In tale caso la somiglianza tra cessio e pegno senza dubbio è forte; ma c’è anche la differenza, quella differenza che spiega perché il legislatore, in caso di pegno, consideri nullo il trasferimento del diritto da debitore (inadempiente) a creditore, e, nella cessio, invece lo ammetta. E la differenza è questa: nel pegno ci troviamo di fronte ad un debitore, che (presumibilmente) è fiducioso di pagare il suo debito e di recuperare il diritto dato in pegno (e che per tale fiducia può essere portato a sottoscrivere superficialmente un patto a lui sfavorevole: il debito è di mille e il credito pignorato che promette di cedere vale diecimila); nella cessio, invece, ci

troviamo di fronte un debitore, che sa di stare rinunciando definitivamente ad un suo diritto (per cui ha da presumersi che abbia ben calcolato l’esattezza e la convenienza dell’equazione: valore dell’adempimento = credito ceduto).

Pegno irregolare: si ha quando vengono date <<in pegno>> delle cose fungibili, di cui il creditore diventa proprietario; cosa per cui, se il debito verrà pagato (o addirittura non verrà ad esistenza), egli dovrà restituire il tantundem (questo mentre in caso di pegno regolare, il debitore ha diritto a riavere le stesse e identiche cose che ha date).

La cosa data in pegno (irregolare) può essere della stessa natura e qualità del debito (debbo 10 quintali di grano e dò in pegno del grano) oppure di diversa qualità (debbo 100 euro e dò in pegno 10 quintali di grano).

Evidentemente, nel primo caso, il pegno ha senso solo se mira a garantire un eventuale debito futuro: caso tipico, il locatario che da al locatore una somma in danaro per garantire il risarcimento dei danni, che potrebbe causare durante la locazione.

Nel secondo caso, invece, il pegno ha la funzione di una anticipata datio in solutum (in base a un patto che, però, sarebbe nullo, perché in spregio al divieto del patto commissario, se disponesse sic et simpliciter che le cose date in pegno passassero, in caso di inadempimento, in proprietà del creditore).

9 – I privilegi.

Abbiamo visto, parlando dell’ipoteca e del pegno, che il Legislatore subordina l’esistenza dei diritti, di privilegio e di seguito, a certi presupposti e vi pone certi limiti. Nulla impedisce, però, al Legislatore di ammettere tali diritti (di prelazione e di seguito) anche al di fuori di tali presupposti e di tali limiti: ad esempio, io, Legislatore, riconosco al creditore il diritto di prelazione, anche a prescindere dal fatto ch’esso sia portato a conoscenza dei terzi con un mezzo idoneo di pubblicità (com’è l’iscrizione, per quel che riguarda l’ipoteca, e com’è il possesso, per quel che riguarda il pegno).

E in effetti il Legislatore in numerosi casi, con leggi speciali e anche con il codice, concede a dei creditori un diritto di prelazione, congiunto o no a un diritto di seguito, al di fuori dei presupposti e dei limiti in cui è disposto a riconoscere un diritto di pegno o di ipoteca.

Sennonché le ragioni che giustificano la concessione di tale <<privilegio>> sono, nei vari casi, diversissime; e ciò rende estremamente difficile un’organica disciplina della materia; che viene tuttavia tentata dal Legislatore negli artt. 2745 ss..

Il Legislatore non dà la definizione, di che cosa si deve intendere per

<<privilegio>>, in un articolo ad hoc; ma tale definizione dovrebbe ricavarsi dal combinato disposto di due diversi articoli: l’art. 2741, comma 2, che recita: <<sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e le ipoteche>> e l’art. 2745, che recita: <<il privilegio è accordato dalla legge in considerazione della causa del credito. La costituzione del privilegio può tuttavia dalla legge essere subordinata alla convenzione delle parti; può anche essere subordinata a particolari forme di pubblicità>>.

Trattasi però con tutta evidenza di una definizione …. mancata: d’accordo, i privilegi sono <<cause legittime di prelazione>>, ma in che cosa si distinguono dall’ipoteca e dal pegno? dal fatto che sono <<accordati per legge>>? se con ciò si vuole dire che sono accordati a prescindere da una dichiarazione di volontà delle parti (in particolare, del debitore), allora si deve anche riconoscere che tale elemento non distingue in nulla il privilegio da un’ipoteca giudiziale o legale. Si distinguono allora i privilegi (dall’ipoteca e dal pegno) per essere <<accordati dalla legge in considerazione della causa del credito>>? Ciò effettivamente caratterizza la maggior parte dei privilegi rispetto alla maggior parte delle ipoteche, ma non di tutte le ipoteche, infatti in quelle legali il diritto di prelazione è riconosciuto senza dubbio in considerazione della causa del credito. I privilegi, allora, si distinguono per il fatto che la loro esistenza non è subordinata a forme di pubblicità? In effetti per la stragrande maggioranza dei privilegi è così (e questo è senza dubbio il fenomeno giuridico che più colpisce ed interessa il giurista), però non è così per tutti i privilegi: è lo stesso art. 2745 ad avvertire che <<la costituzione del privilegio … può anche essere subordinata a particolari forme di pubblicità>>.

Il Legislatore, dopo aver tentata (come si è visto, con non grande successo) una definizione dei privilegi, passa a distinguerli, nell’art. 2746, in <<generali>> e <<speciali>>: i primi <<si esercitano su tutti i beni mobili del debitore, i secondi, su determinati beni mobili ed immobili>>. Tale distinzione importante perché il Legislatore nei successivi articoli disciplina diversamente le due serie di privilegi.

In particolare, per il comma 2 dell’art. 2747, <<il privilegio speciale sui mobili, sempre che sussista la particolare situazione alla quale è subordinato, può esercitarsi in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi posteriormente al sorgere di esso>>: altrimenti sarebbe troppo facile al debitore (inadempiente) frustrare il privilegio: io ho comprato una macchina e non posso pagarla: ormai per me è persa, tanto vale che la venda (e vendendola potrei frustrare il privilegio concesso al venditore dall’art. 2762, se ad impedirmelo non ci fosse la disposizione in oggetto!).

Tale diritto di seguito viene concesso anche al privilegio speciale sugli immobili? La legge lascia senza una risposta tale domanda; e tale silenzio è frutto, non tanto di

una disattenzione, quanto dell’ovvietà.Il comma 1 dell’art. 2747 è, invece, esplicito nel negare il diritto di seguito a chi ha

un privilegio generale (e si ricordi che il privilegio generale è solo sui <<mobili>>); tale comma infatti recita: <<il privilegio generale non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti spettanti ai terzi sui mobili che ne formano oggetto>>. Questo, anche se tali diritti sono sorti dopo il sorgere del privilegio: evidentemente il legislatore ha pensato che, il pericolo di vendite a elusione del privilegio, fosse meno da paventare nei casi in cui il debitore, non sapendo quali dei suoi beni potrebbe aggredire il creditore, per eludere … dovrebbe venderli tutti.

Per l’art. 2748, quella distinzione tra privilegi speciali e generali che ha tanto rilievo per l’art. 2747, perde importanza; importante, invece, diventa distinguere tra privilegi speciali sui mobili e sugli immobili.

Infatti per il comma 2 dell’art. 2748 <<i creditori che hanno privilegi sui beni immobili sono preferiti ai creditori ipotecari se la legge non dispone diversamente>>. Questo perché? Perché di solito (e quando non è così <<la legge dispone diversamente>>), i crediti assistiti da privilegio su immobile, nascono da operazioni finanziarie dirette a permettere attività di conservazione e di miglioramento dell’immobile, cioè si tratta di crediti che vanno incoraggiati (preferendoli a quelli ipotecari) in quanto, che siano fatti, in definitiva giova anche ai creditori ipotecari. Ciò invece non avviene per i crediti assistiti da privilegio su beni mobili, e ciò spiega perché il comma 1, art. 2748 escluda che <<il privilegio speciale sui beni mobili (possa) esercitarsi in pregiudizio del creditore pignoratizio>>.

Dopo questi cenni sulle principali delle <<disposizioni generali>>(sui privilegi), domandiamoci: ma perché il legislatore concede un privilegio a un certo diritto di credito? Le risposte a tale domanda possono essere le più varie.

Alcune volte il legislatore concede il privilegio a un credito per incoraggiare la prestazione, l’attività che sarà fonte di tale diritto di credito; e questo perché ritiene che tale attività serva ad evitare un evento che è interesse di tutta la Società evitare (come il fatto che una persona non abbia le cure mediche necessarie, o muoia di fame o non abbia degna sepoltura ….).

Altre volte il Legislatore privilegia un credito per giovare all’economia: un imprenditore, ad esempio, sarà portato a ridurre il prezzo di vendita dei suoi prodotti, se saprà che un privilegio gli garantirà la riscossione del corrispettivo della vendita.

Altre volte ancora, il Legislatore riconosce come privilegiato un credito per ragioni di equità: l’attività di A, che ha dato origine al credito, ha giovato anche a B, giusto dunque che il credito di A sia preferito a quello di B.

Queste, lo studioso ben lo comprende, sono alcune delle ragioni che possono

portare un legislatore a considerare privilegiato un credito; un più dettagliato esame non rientrerebbe nell’economia della nostra fatica.

10 -Azione surrogatoria e revocatoria: premessa

Caio è creditore di Sempronio: ciò significa (si ricordi l’art. 2740) che Caio potrà soddisfarsi, in caso di inadempimento, su tutti i beni di Sempronio; sì, però, sui beni di Sempronio esistenti al momento in cui, rivelatosi il suo inadempimento, Caio potrà aggredire con una procedura esecutiva il suo patrimonio. Pertanto, se il credito è sorto nel gennaio 2004 e diventa esigibile nel dicembre 2010, Caio potrà soddisfarsi solo sui beni esistenti (nel patrimonio di Sempronio) nel dicembre 2010. E nel frattempo tali beni possono essere diventati insufficienti a soddisfare il suo credito. Questo per varie cause:I). per il loro malizioso occultamento, con atti materiali (Sempronio, prende il pregiato quadro che orna la sua casa e lo trasferisce in casa di un compiacente amico) o giuridici (Sempronio simula la vendita di un appartamento);II). perché atti di disposizione giuridica (ancorché reali e non simulati) hanno fatto uscire tali beni (dal patrimonio di Caio) in perdita, totale (Sempronio ha fatto dono del quadro) o parziale (Sempronio ha venduto il quadro, che vale 1000, per 500);III). perché Sempronio si è astenuto (maliziosamente, o no, poco importa) di acquisire beni e di esercitare diritti, in casi in cui l’acquisizione dei primi e l’esercizio dei secondi avrebbe incrementato il suo patrimonio.

Il Legislatore, però, contro il verificarsi di tali eventi non lascia Caio (il creditore) indifeso, ma, al contrario, lo munisce di numerosi mezzi di difesa (giuridica): il sequestro dei beni del debitore (per impedire il celamento dei beni); l’azione di simulazione (per recuperare i beni simulatamente alienati); l’azione revocatoria (per recuperare i beni di cui sia stato disposto <<in perdita>>); l’azione surrogatoria (per esercitare i diritti che Sempronio avesse trascurato di esercitare)(….).

Noi ci limiteremo, nelle pagine che seguono, a parlare dei più importanti tra tali mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: le azioni, surrogatoria e revocatoria.

11- L’azione surrogatoria.

Mettiamoci nel caso di Caio, che vanta un diritto di credito verso Sempronio; poco importa che si tratti del diritto ad avere una cosa determinata o ad avere una cosa fungibile (del danaro, ad esempio); quel che importa è che la realizzazione di tale diritto dipenda da quel che Sempronio (il debitore) fa o non fa.

Situazione antipatica quella di Caio (nessuno ama dipendere dal comportamento di un altro!): ovvia la sua tendenza e il suo interesse a surrogarsi nell’agire a Sempronio

(<<Sempronio sbaglia a non fare A e sbagliando mi impedisce di realizzare il mio diritto: provvederò io, farò io A>>).

Ovvio è anche l’interesse del debitore (di Sempronio) a non ammettere l’ingerenza del creditore (ciascuno vuole ben essere padrone della sua vita e del suo patrimonio!).

Alla conciliazione di tali due opposti interessi (che costituisce il centro della problematica in subjecta materia) il Legislatore cerca di giungere nell’art. 2900 riconoscendo, sì, al creditore un potere di surroga, ma ponendogli anche i numerosi limiti che passiamo subito ad esaminare.

Primo limite. La surroga è ammessa solo in caso di <<trascuratezza>>: in caso di <<calcolo errato>>, sia pur evidentemente errato, del debitore nella gestione del suo patrimonio, il creditore non può sostituirsi a lui: se tu, Sempronio, non riscuoti mille dollari perché di questi non te ne importa più nulla (dato che, presili con la mano destra, con la mano sinistra dovresti subito trasferirli al tuo creditore), allora, sì, la surroga è ammessa, ma se non li riscuoti in base a un calcolo di convenienza economica (<<meglio aspettare a riscuotere soldi che ora mi danno interessi tanto rilevanti>>), nessun potere al creditore è riconosciuto di sostituirsi a te. Ciò è logico: quando si tratta di prendere una decisione che comporta dei vantaggi e degli svantaggi (ritornare nel possesso dei soldi, è un vantaggio, perdere gli interessi è uno svantaggio) l’opinione del debitore deve prevalere su quella del creditore: sia perché è pur sempre il debitore che subisce direttamente (e presumibilmente in modo più grave) le conseguenze negative di un’erronea decisione, sia perché stabilire il contrario verrebbe a costituire una grave remora alle transazioni commerciali (ogni persona ci penserebbe 10 volte prima di stipulare un contratto, che verrebbe ad attribuire alla controparte, insieme a un diritto di credito, il potere di ingerirsi nella gestione del suo patrimonio!).

Secondo limite alla surroga. Questa è ammessa solo in un ambito molto ristretto: quello relativo all’<<esercizio dei diritti e delle azioni>>.

Se il debitore non accetta la proposta di acquisto di un suo bene, non domanda la divisione dell’immobile (di cui è comproprietario), non agisce per ottenere la risoluzione o l’annullamento di un contratto (perché viziato o perché la controparte è inadempiente), in questi e consimili casi la surroga non è ammessa; e, si badi, non è ammessa, anche quando l’esercizio del potere non è frutto di un calcolo economico, ma è dovuto a semplice trascuratezza. Perché questo? perché per tali atti – a cui ci riferiremo d’ora in poi come ad <<atti di gestione patrimoniale>> per motivi di comodità espositiva – la surroga non è ammessa, e, invece, lo è per atti di esercizio di un diritto e di un’azione? La risposta migliore a tale domanda ci pare vada trovata nella maggior gravità degli effetti negativi di una decisione errata (del creditore) in

ipotesi di surroga nei loro riguardi (id est, nei riguardi degli <<atti di gestione>>): non è che riflessi negativi non ci possano essere in ipotesi di esercizio (errato) di un diritto o di un’azione, ma il loro verificarsi è (o, almeno, che così sia, evidentemente lo pensa il Legislatore) più raro e in fondo si riduce alle spese inutilmente fatte in caso di esercizio infruttifero del diritto.

Un criterio pratico per il giudice, per determinare se si trova di fronte all’<<esercizio di un diritto o di un’azione>> oppure di fronte all’esercizio di un <<potere gestionale>>, secondo noi é quello di por mente alle conseguenze negative che, da un errato esercizio del <<diritto-potere>>, potrebbero derivare: se tali conseguenze si riducono solo alla perdita delle spese (per l’esercizio del diritto), ammetta la surroga, se no, no.

Terzo limite all’ammissibilità di una surroga. Questa non è ammessa quando <<si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare>>.

Pertanto, un creditore non potrà surrogarsi al suo debitore per: chiedere il divorzio, disconoscere un figlio, revocare (per ingratitudine) una donazione. Ponendo tale limite il Legislatore evidentemente vuole porre in conto, per escludere la surroga, non solo i riflessi (che potrebbero essere anche positivi) che questa può avere nella sfera economica del debitore, ma anche quelli che può avere nella sua sfera morale e sentimentale (e che il debitore potrebbe sentire come disastrosamente negativi: <<sì, il divorzio è stato un ottimo affare dal punto di vista economico: quella spendacciona di mia moglie ha finito di succhiarmi soldi! però …. ora sono solo come un cane!>>). Dunque il giudice, per stabilire se ammettere o escludere la surroga, si baserà sull’esistenza, o meno, di riflessi negativi che essa può comportare nella sfera morale o sentimentale del debitore? Sì, lo potrà fare; ma cum grano salis: il debitore si oppone alla riscossione di 100 mila Euro da Fulvia, che lo favorisce delle sue grazie, dicendo che il recupero dei soldi gli farà perdere le carezze per lui più importanti dei soldi? Nel caso io non terrei conto di tale opposizione.

Quarto limite alla ammissibilità della surroga. Questa non è ammessa se ad essa il creditore non ha interesse.

Da questo limite (dettato dalla logica) derivano i seguenti due corollari. Primo: la surroga non è ammessa per i diritti e le azioni che <<non hanno contenuto patrimoniale>>.

Secondo (corollario): la surroga non è ammessa quando la trascuratezza del debitore non mette in pericolo la garanzia patrimoniale (<<Sempronio non riscuote quei 10 mila euro, ma che importa? egli è ricco a palate, gli appartamenti di cui è proprietario non si contano: se dovrò agire esecutivamente contro di lui, sarà facile a

me, suo creditore, trovare i beni su cui soddisfarmi!>>).

12. Della revocatoria.

Nel paragrafo che precede, abbiamo vista la difesa (l’azione surrogatoria) concessa al creditore contro il debitore che trascura di esercitare i suoi diritti; ma forse che un debitore non può annullare o ridurre la garanzia, che il suo patrimonio offre al creditore, (non con lo stare inerte, ma al contrario) col compiere degli atti di disposizione, materiale (distruzione, occultamento di beni ….) o giuridica (vendita, locazione di beni, assunzione di obbligazioni, costituzione di pegni e ipoteche ….)? Certo che sì, e anche contro tali atti il legislatore appresta delle difese: il sequestro (artt. 2905 ss.) contro gli atti di disposizione materiale, la revocatoria (artt. 2901 ss.)(64) contro quelli di disposizione giuridica.

Nelle pagine che seguono ci limiteremo a parlare dell’azione revocatoria.Anche per questa azione si presenta il problema, che il legislatore ha dovuto

affrontare nella disciplina dell’azione surrogatoria: il problema, cioè, di conciliare, da una parte, l’interesse del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale – interesse la cui più sicura tutela vorrebbe che il creditore potesse ingerirsi nella gestione del patrimonio debitorio per impedire o almeno revocare gli atti che, a suo parere, la garanzia di tale patrimonio menomano – e, dall’altra parte, l’interesse del debitore a gestire con assoluta libertà e discrezionalità i suoi beni, interesse la cui più completa tutela vorrebbe che fosse escluso ogni potere del creditore di influire sugli atti che lui (id est, il debitore) intende compiere o ha già compiuti.

Il legislatore pensa di risolvere tale problema, di conciliare tale conflitto di opposti interessi, concedendo, da una parte, al creditore il potere (non di opporsi, ma solo) di domandare che siano dichiarati (non nulli ma solo)inefficaci nei confronti (non di tutti, ma solo nei confronti) suoi, gli atti di disposizione del debitore, dall’altra, subordinando l’esercizio di tale potere all’esistenza dei limiti e delle condizioni, che subito passiamo ad indicare.1.Eventus damni. – Possono essere revocati solo gli atti <<con i quali il debitore rechi pregiudizio alle ragioni>> del creditore.

Tale pregiudizio si verifica quando il debitore dispone del suo patrimonio o in modo che ne esca A (del valore di 10) e ne entri B (solo del valore di 5) o addirittura non ne entri niente (A viene ad esempio donato) oppure in modo che ne esca A (facilmente esecutabile: un appartamento) e ne entri B (difficilmente esecutabile perché facilmente occultabile: dei soldi, ad esempio); - e così disponendo egli (id est, il debitore) rende insufficiente (a soddisfare la futura ed eventuale azione esecutiva del creditore) la garanzia rappresentata dal suo patrimonio (ché se, al contrario, il

debitore donasse la metà del suo patrimonio e l’altra metà fosse più che sufficiente a soddisfare l’azione esecutiva, nessuna ragione ci sarebbe di concedere la revocatoria al creditore!).

Come si vede, quindi, il pregiudizio (che deve comportare l’atto di disposizione del debitore per giustificare la revocatoria) consiste, non in un danno sicuro e certo (quel danno rappresentato dall’infruttuosità dell’azione esecutiva: il creditore apre la cassaforte del debitore e … non vi trova più nulla), ma nel rischio di un danno. Danno che successivamente potrebbe anche non verificarsi (e, infatti, non è detto che, in un momento successivo al compimento dell’atto <<pregiudizievole>>, non entri nel patrimonio debitorio un bene B di maggior valore del bene A che ne era uscito; non è detto che il debitore effettivamente occulti quei beni, che pur sarebbero così facilmente occultabili...).

E va da sè che se, al momento in cui il creditore chiede la revoca (dell’atto che illo tempore si presentava <<pregiudizievole>>), il danno (paventato) è escluso da nuovi fatti, l’azione diventa inammissibile; ma questo, non per difetto del requisito della pregiudizievolezza (dell’atto del debitore), ma per mancanza di quell’interesse ad agire che, come abbiamo già visto per la surrogatoria, anche per la revocatoria costituisce una condizione (implicita) dell’azione.

2.Scientia damni – Consilium fraudis del debitore. – Il Legislatore pretende un particolare <<stato soggettivo>> del debitore, per concedere la revoca di un suo atto di disposizione; ma configura in maniera diversa tale <<stato>> a seconda che l’atto (del debitore) sia posto in essere prima o dopo il sorgere del diritto di credito (di chi pretende la revoca). Nel primo caso, per la revoca occorre che, nel debitore, vi sia stato un vero e proprio consilium fraudis, nel secondo basta vi sia stata una semplice scientia damni.

Scientia damni – Consiste nella consapevolezza, che il debitore aveva, che il suo <<atto di disposizione>> veniva a pregiudicare <<le ragioni>> del suo creditore.

Se manca tale consapevolezza, l’atto non è revocabile anche se pregiudizievole: e guai se non fosse così: guai al libero e rapido svolgersi dei traffici commerciali: chi mai farebbe un contratto sapendo che la controparte, insieme al diritto di credito, viene ad acquistare un petulante diritto di sindacato sul governo ch’egli faccia del suo patrimonio (<<Tu, debitore, hai acquistato l’appartamento A: ma è un negozio sbagliato: tra non molto i prezzi delle case vanno a crollare e l’appartamento non varrà i soldi che ci hai spesi: insomma l’acquisto è un atto pregiudizievole che va subito revocato>>).

Nulla rileverà, ai fini di escludere la scientia damni, che il debitore non fosse

animato da un pravo animus nocendi verso i suoi creditori (<<Mi vendo tutto e così, quando l’ufficiale giudiziario dei miei creditori busserà alla mia porta, nulla troverà>>), ma, metti, da un animus beneficandi (<<quella mia povera amica in difficoltà: doniamole quella preziosa collana anche se ciò depaupererà il mio patrimonio>>); così come nulla rileverà ch’egli agisse sicuro di rendere insufficiente la garanzia patrimoniale o sapendo di porla a rischio ma sperando che fatti nuovi la avrebbero salvaguardata (<<Io dono la collana, ma l’eredità futura riequilibrerà di mio patrimonio>>).

A quest’ultima regola, però, a nostro parere, va fatta eccezione nel caso in cui l’atto di disposizione sia in funzione dell’incremento o della conservazione del patrimonio: l’imprenditore Caio, che acquista le azioni A, sapendo che possono ridursi a carta straccia, ma contando sul loro apprezzamento, compie un atto d’azzardo ma non un atto revocabile: non revocabile perché la savia gestione di un patrimonio richiede l’accettazione di un certo rischio ed è quindi interesse stesso dei creditori che il debitore non trovi, nella paura della revocatoria, un’inibizione ad accettarlo.

Consilium fraudis. – Come si è accennato, nel caso l’atto di disposizione (che menoma la garanzia patrimoniale) sia stato compiuto prima del sorgere del credito di chi pretende chiederne la revoca, per questa (revoca) non è più sufficiente che l’atto sia stato compiuto con una semplice scientia damni, occorre qualche cosa di più, cioè che sia stato compiuto con un consilium fraudis. Che significa ciò? Significa, per cominciare, che, se il principe Vladimiro (tanto per riesumare un personaggio già da noi incontrato), prevedendo di dover chiedere un prestito all’usuraio Shilok e non sapendo se potrà restituirlo, compie degli atti di disposizione su alcuni suoi beni (metti i beni A e B) per trasformarli in soldi facilmente occultabili (<<se dovrò subire una procedura esecutiva di Shilok, questi troverà solo …. castagne secche!>>), ebbene tali atti non sono revocabili: perché questo? perché non basta più per la revoca di tali atti (indubbiamente pregiudizievoli alle ragioni di Shilok, del creditore) la semplice scientia damni (del debitore)? Perché tali atti menomeranno, sì, la garanzia patrimoniale, ma non quella su cui avrà a far conto Shilok (il creditore) al momento di concedere il suo prestito: questa non sarà per nulla intaccata dagli atti di disposizione del debitore: quando Shilok farà il suo prestito, il debitore avrà ancora i suoi beni C e D (beni di cui egli non dispose): quindi il creditore non avrà visto pregiudicate le aspettative ch’egli aveva di realizzare il suo credito. Ecco perché il Legislatore per la revoca di atti di disposizione posti in essere prima del sorgere del credito, pretende nel debitore disponente qualche cosa di più della semplice consapevolezza di causare un danno ai suoi creditori. Ma in che può consistere questo

quid pluris? Evidentemente solo in una vera e propria attività posta in essere per ingannare i futuri creditori (come suggerisce l’espressione atti <<dolosamente preordinati>> usata dal Legislatore).

3.Scientia fraudis o partecipazione al consilium fraudis, del terzo. – Nel caso gli atti di disposizione siano a titolo gratuito il Legislatore concede la revoca sulla sola base dei requisiti sopra indicati sub 1 e sub 2, senza preoccuparsi se il terzo (destinatario dell’atto di disposizione revocato) fosse, o no, in buona fede; mentre se gli atti erano a titolo oneroso, il Legislatore concede la revoca solo se il terzo era in malafede (vedremo poi meglio in che va ravvisata tale <<malafede>>).

Perché questo? Perché la revoca di un atto a titolo gratuito priva il terzo solo di un guadagno (<<ah, la bella collana che il principe mi ha donato, che peccato mi sia tolta: ma in fondo ho vissuto prima senza tale collana, e senza questa continuerò a vivere poi>>); mentre, invece, la revoca di un atto a titolo oneroso, espone il terzo al rischio di un impoverimento (rispetto alla sua situazione precedente: <<Restituire la collana che ho comprato? Ma è terribile! pazienza per la collana, ma i soldi che ho dati per comprarla, chi mi assicura che li riavrò? forse che il patrimonio di chi mi ha venduto, non è in dissesto?!>>).

Come si è accennato, il Legislatore richiede per la revoca di un atto di disposizione (a titolo oneroso), la malafede del terzo: se il terzo era in buona fede, l’atto non si revoca. E tanto dispone il Legislatore, evidentemente per favorire il rapido e sicuro svolgersi delle transazioni commerciali: <<Tu, Caio, che stai per comprare da Sempronio, non devi preoccuparti di indagare se questi con l’acquisto che ti propone, danneggia, o no, i suoi creditori: compra sicuro e tranquillo: se sei in buona fede nessun pericolo di una revoca corri>>.

Ma in che cosa precisamente il legislatore ravvisa lo stato psicologico del terzo (a cui noi finora per semplicità ci siamo riferiti col termine di mala fede e che) ai suoi occhi giustifica la revoca dell’atto? Qui bisogna distinguere a seconda che si tratti di atto compiuto dopo o prima del sorgere del credito.

Nel primo caso (quando cioè il debitore compie l’atto dispositivo, dopo che già il credito è sorto) il legislatore ravvisa lo stato psicologico del terzo (meritevole di subire la revoca) nella <<consapevolezza del pregiudizio> (che l’atto arrecava): quindi in una semplice scientia damni.

Nel secondo caso, il Legislatore sembra ravvisare tale stato psicologico in qualche cosa di più di una semplice scientia damni: infatti, egli subordina la revoca al fatto, che il terzo <<fosse partecipe della dolosa preordinazione>>: quindi la subordina, così sembrerebbe, a un concorso del terzo nel consilium fraudis, cioè in quell’operare ingannatorio del debitore di cui prima abbiamo parlato. Noi, però, qui crediamo o che

le parole hanno tradito il pensiero del legislatore o che un amore (fuori luogo) per la simmetria lo ha fuorviato: forse che la ratio della tutela del terzo non sta nell’intento (legislativo) di togliere remore al rapido svolgersi delle transazioni commerciali? forse che tale intento già non si realizza quando si rassicurano terzi (potenziali contraenti) che, se in buona fede, nessun rischio (di revoca) corrono? che bisogno c’è di promettere loro <<tranquilli, anche se in mala fede, non rischiate nulla perché l’atto verrà revocato solo se partecipate al consilium fraudis>>? Tutto ciò sembra assurdo e illogico.

Dopo aver esposto le condizioni per la esperibilità dell’azione revocatoria e prima di chiudere il discorso su tale azione, due parole ancora sul comma 3 dell’art. 2901.

Era stata per lungo tempo una vexata quaestio se anche gli atti compiuti in adempimento di un obbligo potevano essere revocati.

Il codice Rocco volle troncare ogni disputa sul punto disponendo (appunto nel comma 3 dell’art. 2901) che <<Non è soggetto a revoca l’adempimento di un debito scaduto>>. Di conseguenza un debitore è libero, anche se decotto, di pagare questo anzi che quel suo creditore. La spiegazione di tale norma va vista nel desiderio di eliminare quella contraddizione che si avrebbe se, da una parte, il Legislatore minacciasse una sanzione (sia pure quella sanzione sui generis che è il risarcimento del danno) se una persona (il debitore appunto) non compie un atto (l’adempimento appunto) e, dall’altra, revocasse tale atto se compiuto. Ma, se tale è la ratio della disposizione, risulta anche che il legislatore nel terzo comma in esame plus dixit quam voluit: infatti, in base a tale ratio, non basta che un debito sia scaduto (perché il suo pagamento non sia revocabile), occorre anche che sia <<in mora>> (cioè che il suo omesso pagamento incontri le sanzioni di cui agli artt. 1218 ss.): il termine di scadenza (a favore del debitore) è il 10 maggio 2005? ciò significa che il 10 maggio 2005 il debito è scaduto, ma non significa necessariamente che sia <<in mora>>, e, fino a che non lo è, il suo pagamento deve considerarsi revocabile.

13. Divieto del patto commissorio.

Chi assume un’obbligazione ha fiducia di adempierla, o, almeno, deve fingere (col suo creditore) di avere una tale fiducia. Ma tale fiducia o finzione di fiducia lo espone al rischio di accettare patti per lui svantaggiosi: per la superficialità a cui lo conduce (<<Tu, controparte, mi chiedi di darti, se non adempio, il bene A, che vale 1000, mentre il mio debito sarebbe di solo 500? Perché no, dal momento che sono sicuro di adempiere?!>>) oppure per il sottile ricatto a cui lo espone (Caio domanda: <<se sei tanto sicuro di adempiere, perché non accetti di darmi A in caso di inadempimento>>

e Sempronio, se non vuole <<perdere la faccia>>, che può fare …. se non accettare?!).

La volontà legislativa di evitare, a chi assume un debito, un tale rischio, costituisce per noi la ratio del divieto del patto commissorio; divieto stabilito dall’art. 2744, che recita: <<(Divieto del patto commissorio). – E’ nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato. La proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore.

Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno>>.Il divieto del patto sussiste anche se stipulato da un terzo (<<Caio costituisce

un’ipoteca a favore debitore Sempronio sull’immobile A e conviene con il creditore che A passerà a lui se ecc.>>? La norma sul punto non è chiara, ma noi diamo risposta positiva al quesito, perché, in definitiva, sussistono per il terzo (mutatis mutandis) quelle ragioni di tutela che già abbiamo indicate per il debitore (73).

E’ colpito dal divieto il patto anche <<se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno>>? Qui la risposta positiva si trova data chiaramente nello stesso art. 2744 e fu giustificata dal Guardasigilli col fatto che <<è facile che il debitore, versando in gravi angustie economiche, si assoggetti per ottenere una dilazione, alla stipulazione del patto>>(e tale giustificazione con qualche piccola rettifica è accettabile anche da noi).

Data la ratio, che giustifica l’art. 2744, questo non è contraddetto né dall’art. 1197 (relativo alla datio in solutum) né dall’art. 1851 (relativo al pegno irregolare)né dal c.d. patto marciano. Infatti, con la datio in solutum il debitore decide di dare un bene, in luogo dell’adempimento (prima promesso), quando già è chiaro che tale adempimento non gli è possibile (quindi tale decisione non può essergli dettata, né dalla fallace illusione di poter adempiere né da un ricatto che giochi sulla sua affermazione di poter adempiere).

Nel pegno irregolare la banca, in caso di inadempimento, non si trattiene tutte le cose date in pegno, ma solo il tantundem corrispondente all’ammontare del debito.

Nel patto marciano, si conviene, sì, che in caso di inadempimento la proprietà di un bene del debitore <<passi>> al creditore, ma dietro corrispettivo di un prezzo <<fissato da un terzo>>(successivamente all’inadempimento).

Sono, invece, ispirati alla stessa ratio dell’articolo in esame, non solo (con tutta evidenza dato che, dell’art. 2744, riproduce sostanzialmente la formula) l’art. 1963 in tema di anticresi, ma anche l’art. 1384 (in quanto la riduzione della <<penale>> da esso prevista, si giustifica nell’ipotesi di un debitore che, essendo o volendo apparire fiducioso dell’adempimento, abbia accettata una penale <<eccessiva>>).

14 - L’inammissibilità di limiti alla responsabilità patrimoniale del debitore.

Una persona risponde di un suo debito con tutti i suoi beni: sia quelli esistenti nel suo patrimonio al momento al momento dell’assunzione del debito sia quelli che solo in seguito vi sono entrati (80). Ciò è detto nel primo comma dell’art. 2740; e di ciò abbiamo già parlato.

Ma poniamoci ora nel caso dell’imprenditore A: gli si è aperta la possibilità di un’attività (metti, la costruzione di case popolari); attività che, se andasse bene, lo farebbe di molto più ricco, ma che potrebbe andare male gravandolo di debiti e ingoiando con questi tutto il suo patrimonio; orbene se a lui, che è incerto se gettarsi nell’impresa, si potesse concedere di limitare la sua responsabilità a solo alcuni suoi beni, non troverebbe egli più coraggio per agire (con beneficio dell’intera società che, per prosperare ed arricchire, ha bisogno che si compiano anche imprese non del tutto economicamente sicure)?

La risposta è sì e in tale positiva risposta ci sarebbe un buon motivo per ammettere limitazioni alla responsabilità patrimoniale; ma, a pesare sull’altro piatto della bilancia, c’è il timore (del Legislatore) che chi può limitare la sua responsabilità, si getti superficialmente in imprese troppo rischiose. Ed è proprio da questo secondo piatto che finisce per pendere la bilancia del nostro legislatore, portandolo a stabilire espressamente, nel comma 2 dell’art. 2740, che <<Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge>>.

A tale regola severa, il Legislatore è disposto a fare eccezioni (più o meno forti) se esse favoriscono il realizzarsi di scopi ch’egli particolarmente apprezza o più semplicemente favoriscono il crearsi tra più persone di una collaborazione volta al raggiungimento di comuni obiettivi, in altre parole di forme associative di attività.

Spieghiamoci meglio (sia rispetto alle forme associative di attività, sia rispetto alle attività caratterizzate da scopi particolarmente apprezzabili).

Limitazioni di responsabilità destinate a favorire il sorgere di forme associative. Uno stato ha interesse che, per il raggiungimento di scopi non realizzabili con le forze di uno solo, si costituisca una collaborazione tra più persone: l’edificazione di quel ponte supera la forza (economica) dell’imprenditore A? ben venga una <<associazione>>tra A e un altro imprenditore B. Oppure, pagare il canone per la conduzione di un appartamento in cui organizzare piacevoli partite di scacchi, supera le forze del pensionato A? ben venga una “associazione” tra A e altri pensionati (associazione avente ad oggetto l’organizzazione di partite tra appassionati scacchisti).

Sì, ma se l’imprenditore A (o il pensionato A) fa una società (un’associazione) con

B, ciò significa (normalmente) che rimette a B, in tutto o in parte, le decisioni relative all’attività da esercitare in comune: se comprare o no quei sacchi di cemento a quel dato prezzo, se pagare o no un canone di tot euro, non lo decide più il solo A, ma lo decide A insieme a B o addirittura il solo B. E intuitive sono le remore che avrà A a fare la società o l’associazione con B, se da decisioni, che non sono sue o esclusivamente sue, può derivare un rischio per tutto il suo patrimonio: se il legislatore vuole che si creino delle società, che si facciano delle associazioni, deve consentire a limitazioni della responsabilità. Cosa che Egli fa in vari gradi (dato anche che diverso è il grado di apprezzamento ch’egli ha verso una data forma associativa: quella società tra Caio e Sempronio? Sì, come tutte le attività per produrre beni e servizi – quei beni e servizi tanto richiesti dal mercato – é benvenuta! quella associazione per la lotta contro il fumo? certo à benvenuta anch’essa, come tutto ciò che giova alla salute, o a una sana ricreazione, o alla difesa delle parti socialmente deboli! quella associazione, invece, per la diffusione di anticoncezionali? certo non la si può vietare, ma neanche si deve troppo aiutarla!).

Il limite più alto e più sicuro alla responsabilità patrimoniale di chi partecipa ad un’associazione (o a un comitato, che in definitiva non é che un tipo di associazione) o a una società, é la concessione a queste (id est, all’associazione, alla società) della <<personalità giuridica>>: ciò significa che i debiti (e naturalmente i diritti) che assume la società (la associazione) sono come i debiti (i diritti) di un qualsiasi Pinco Pallino: il creditore di Pinco Pallino potrebbe soddisfare il suo diritto sul patrimonio di A? no, di certo, perché A nulla c’entra con i debiti del signor Pinco Pallino: sono due “persone” diverse; per la stessa ragione il creditore dell’associazione B (dotata di personalità giuridica) non può soddisfarsi sul patrimonio di A, che ne é un iscritto: l’associazione (a cui é stata riconosciuta la personalità giuridica) e il suo iscritto, sono due soggetti giuridici diversi. Per uno Stato, quindi, riconoscere la personalità giuridica di un associazione (di una società) é un modo per dire ai creditori di questa: <<badate, sul patrimonio personale dei suoi iscritti proprio non ci potete contare>>. Una forma meno radicale, ma pur sempre <<forte>>, di limitazione della responsabilità si ha quando l’ordinamento giuridico limita la responsabilità dell’associato a quanto ha conferito nell’associazione (<<tu, pensionato A, hai conferito nel circolo culturale, un tavolo e due sedie? solo queste e quello rischi, se l’associazione viene sommersa dai debiti>>), a meno che l’associato abbia assunto obbligazioni in nome dell’associazione (<<Tu, pensionato A, hai stipulato il contratto di locazione in nome del circolo? Ebbene il locatore potrà, per soddisfare il suo credito, bussare anche al tuo patrimonio!>>). Ciò accade nel nostro Ordinamento per le associazioni non riconosciute (v. melius l’art. 38).

Una limitazione molto più tenue della responsabilità, si ha, infine, quando l’Ordinamento afferma, sì, la responsabilità personale del socio per i debiti della società, ma subordinando la sua escussione a quella del patrimonio sociale (v. melius l’art. 2304, 2268).

Limitazioni di responsabilità per favorire attività caratterizzate da scopi particolarmente apprezzabili. – Poniamo che A, imprenditore oleario, voglia costruire un ospedale per la cura delle malattie infantili: lo scopo è altamente nobile, ma per la sua realizzazione A è disposto a rischiare (anche la generosità ha i suoi limiti!) solo la somma tot: altri gestiranno l’ospedale (lui si intende di olio e non di ospedali!) ed egli non vuole rischiare il suo patrimonio per i debiti, che tali gestori imprudentemente assumessero. Come conciliare l’encomiabile altruismo dell’imprenditore con la sua comprensibile prudenza? È un problema! Ma è un problema a cui noi giuristi sappiamo dare una ingegnosa soluzione: i beni conferiti dall’imprenditore saranno considerati un patrimonio separato dal suo, né più né meno che facesse capo a una diversa persona giuridica: e che sarà questa? Un parto della fantasia giuridica a cui si darà il nome di <<Fondazione Gaslini>>. Questa fondazione sarà gestita naturalmente da persone (persone che dovranno conformarsi a uno statuto) e dei suoi debiti (naturalmente) non risponderà il suo fondatore (il nostro generoso imprenditore oleario).

APPENDICE

“Distanze” e parti comuni condominialispiegate con disegni

Avvertenza: i disegni, dovuti, all’abilità di un funzionario del Comune di Genova,

il sig. Sergio Valentini, sono collocati dopo il titolo II.

Titolo I: Distanze dalle costruzioni, da muri, da siepi (….) - da luci e vedute

1. Distanze dalle costruzioni (da muri....) - Art. 873: “Le costruzioni su fondi finitimi se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.La ratio dell’articolo riportato va individuata nell’intento di evitare il formarsi tra le costruzioni di intercapedini che verrebbero ad attirare i rifiuti e a togliere aria e luce agli edifici.

Fig.1.- Secondo un criterio largamente adottato le facciate di due edifici non possono considerarsi frontistanti quando, facendo avanzare una, essa non viene ad incontrare l’altra in nessun punto.In base a tale criterio l’edificio N va ritenuto frontistante di M, poco importando che le due facciate “ab” e “cd” non si fronteggino che per un piccolo tratto, “ed”.

Fig.2.- In base al criterio ora enunciato (in commento alla figura 1) l’edificio N non dovrebbe considerarsi frontistante di M: in effetti la facciata cd avanzando non incontra in nessun punto la facciata “ab”. Però questo allo stato delle costruzioni: chi può escludere che il proprietario N in un domani non sopraelevi un altro piano “aefg” che renderebbe N frontistante di M?Proprio in considerazione di tale eventualità alcuni riterrebbero l’illiceità della costruzione N, anche se allo stato non frontistante; (ma forse la soluzione migliore è di ritenere la liceità di N allo stato, e di ritenere l’illiceità dell’eventuale sopraelevazione).

Fig.3.- La distanza di un edificio si misura tirando una linea perpendicolare al confine o alla facciata frontistante.Di conseguenza “Mm” e “RD” rappersentano la misurazione esatta ed “MO” la misurazione errata.

Fig.4- Altro importante criterio nella misurazione delle distanze é che queste “vanno misurate sempre sul suolo, alla base degli edifici medesimi o, in caso di sporgenze, alla proiezione di queste sul suolo” Così, G. Pistone, Le distanze nei rapporti di vicinato,1999, p.143).

Di conseguenza la distanza tra gli edifici A e B é misurata da “mn” e non da RS.

Fig. 5.- Peraltro il criterio enunciato in commento alla fig. 4 viene applicato dalla giurisprudenza con (saggia) elasticità. E’ infatti autorevole insegnamento che “in armonia con la ratio dell’art.873c.c.” non debba tenersi conto “di quegli sporti che non siano idonei a determinare, per la loro struttura, entità e ubicazione, intercapediniche siano fonti di danno o comunque di apprezzabile pericolo – così come potrebbe essere un fregio ornamentale o una scaletta di soli due o tre scalini.Senza dubbio, però, deve tenersi conto dei pilastri che, elevandosi dal suolo, formano parte integrante della facciata del fabbricato e ne fuoriescono. Di conseguenza nell’esempio di cui alla figura la distanza della casa A dal confine é data da “mn” e non da RS.

Fig.6.- Nel caso di costruzione in spregio alle distanze legali, il proprietario leso può(naturalmente) ottenere la riduzione in pristino; però solo della parte illegittimamente costruita.Di conseguenza M potrà ottenere solo la demolizione di “abcd”.Comunione forzosa del muro sul confine - Art. 874: “Il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione per tutta l’altezza o per parte di essa, purché lo faccia per tutta l’estensione della sua proprietà. Per ottenere la comunione deve pagare la metà del valore del muro, o della parte di muro resa comune, e la metà del valore del suolo su cui il muro é costruito. Deve inoltre eseguire le opere che concorrono per non danneggiare il vicino”.

Fig.7.- Si fa qui l’ipotesi – non di un muro a cavallo del confine (nel qual caso il muro sarebbe, per la parte che poggia sul fondo A, di A, e per la parte che poggia sul fondo B, di B) – ma di un muro interamente su un fondo, metti il fondo B, ma arrivante a toccare il fondo limitrofo (il fondo A). In tale ipotesi – dice l’articolo 874 – A può (non costruirvi in appoggio o in aderenza, ma) chiederne la comunione (a prescindere della sua volontà di costruirvi – ed é questo che differenzia l’ipotesi dell’art. 874 da quella dell’art. 875). E tale richiesta di comunione non deve riguardare tutta l’altezza “ae” del muro: può limitarsi ad un’altezza minore, l’altezza “ab”, ma deve riguardare, questo sì, tutta l’estensione del muro: cioé A non potrebbe limitarsi a chiedere la comunione di “abc1d1”, ma deve chiedere la comunione di “abcd”.Invece, in caso di usucapione (nata ad esempio dal fatto che A ha appoggiato una sua fabbrica al muro sul confine), l’acquisto della comunione potrebbe limitarsi allo

spazio “abc1d1” (se solo a quella parte di muro, la fabbrica di A si é appoggiata).Comunione forzosa del muro che non é sul confine.- Art. 875: “Quando il muro is trova a una distanza dal confine minore di un metro e mezzo ovvero a distanza minore della metà di quella stabilita dai regolamenti locali, il vicino può chiedere la comunione del muro soltanto allo scopo di fabbricare contro il muro stesso, pagando, oltre il valore della metà del muro, il valore del suolo da occupare con la nuova fabbrica salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro fino al confine. Il vicino che intende domandare la comunione deve interpellare preventivamente il proprietario se preferisca di estendere il muro al confine o di procedere alla sua demolizione. Questi deve manifestare la propria volontà entro il termine di quindici giorni e deve procedere alla costruzione o alla demolizione entro sei mesi dal giorno in cui ha comunicato la risposta”.Chi per primo costruisce nella zona di confine (c.d. proprietario preveniente) può optare tra le seguenti alternative: prima alternativa, costruire sul confine (sempre che sia consentito dai regolamenti locali: infatti questi spesso proibiscono le costruzioni sul confine); seconda alternativa, costruire ad una distanza “minore di un metro e mezzo ovvero a distanza minore della metà di quella stabilita dai regolamenti locali”; terza alternativa, costruire nel rispetto delle suddette distanze.Se opta per la prima alternativa, il proprietario finitimo (c.d. proprietario suvveniente) ha diritto di chiedere, come abbiamo già visto, la comunione totale o parziale del muro. Se opta per la seconda alternativa, il vicino “suvveniente” ha diritto di chiedere la comunione “soltanto allo scopo di fabbricare contro il muro stesso” (e pagando ecc.ecc.).

Fig. 8. - Vi sono rappresentate le tre alternative per cui può optare chi costruisce sul confine per pirmo (proprietario preveniente).Alternativa I. B, il proprietario finitimo (suvveniente), può chiedere, come abbiamo già visto parlando dell’articolo 874, la comunione del muro “ab”.Alternativa II. B può costruire in appoggio acquistando il terreno “mnpo” e pagando metà del valore del muro “mo”) o in aderenza(acquistando il solo terreno “mnpo” - per la differenza tra costruzioni in aderenza e in appoggio, vedi postea).Alternativa III. B deve a sua volta rispettare le distanze dal confine.

Fig.9.- Il preveniente ha costruito l’edificio A, parte sul confine e parte no. Di conseguenza il proprietario finitimo suvveniente può costruire la sua casa B sul confine solo per la parte “mn”, mentre per la parte “op” deve a sua volta rispettare le distanze.

Innesto nel muro sul confine - Art. 876: “Se il vicino vuole servirsi del muro esistente sul confine solo per innestarvi un capo del proprio muro, non ha l’obbligo di renderlo comune a norma dell’art. 874, ma deve pagare un’indennità per l’innesto”.

Fig.10. - In deroga a quanto disposto dall’art. 874, il proprietario del fondo A può innestare il capo del muro A al muro B senza essere con ciò costretto a chiedere la comunione di tutto “aefd”.Costruzione in aderenza. - Art. 877: Il vicino, senza chiedere la comunione del muro posto sul confine, può costruire sul confine stesso in aderenza, ma senza appoggiare la sua fabbrica a quella preesistente (….)”.

Fig.11.- La casa A e la casa B sono costruite in aderenza: infatti il muro “rsvt” della casa A e il muro “mnop” della casa B pur combaciando perfettamente, senza lasciare intercapedini, sono, dal punto di vista statico, autonomi e indipendenti: la casa B potrebbe essere tutta demolita senza che la stabilità della casa A ne soffra.

Fig.12.- Invece la casa A1 e la casa B1 sono costruite in appoggio: infatti esse hanno in comunione il muro “rsvt”; cosa per cui la totale demolizione della prima, di riflesso danneggerebbe la seconda.Muro di cinta. - Art. 878: “Il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un’altezza superiore ai tre metri non é considerato per il computo della distanza indicata dall’art. 873. Esso, quando é posto sul confine, può essere reso comune anche a scopo d’appoggio, purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore ai tre metri”.Fig. 13.- Anche se i regolamenti imponessero una distanza di 20 metri tra una costruzione e l’altra, l’edificio A dovrebbe considerarsi costruito legittimamente. Infatti la distanza “mn” tra l’edificio A e il muro di cinta non rileva: quel che conta é solo la distanza “pq” (di 20 metri) tra l’edificio A e il frontistante edificio B.Tenere presente che, una volta che A é stato costruito, il proprietario del muro di cinta non potrebbe sopraelevarlo oltre i tre metri (trasformandolo così da muro di cinta in muro di fabbrica).Costruzione del muro di cinta. - Art.- 886: “Ciascuno può costringere il vicino a contribuire per metà nella spesa di costruzione dei muri di cinta che separano le rispettive case, i cortili e i giardini posti negli abitati. L’altezza di essi, se non é diversamente determinata dai regolamenti locali o dalla convenzione. Deve essere di tre metri”.Art. 887: “Se di due fondi posti negli abitati uno é superiore e l’altro é inferiore, il proprietario del fondo superiore deve sopportare per intero le spese di costruzione e

conservazione del muro”.

Fig. 14.- Nel caso di fondi a dislivello, il muro (di solito) viene a svolgere una duplice funzione: di cinta e di contenimento della scarpata superiore.Ora, mentre le spese di costruzione e di manutenzione della parte del muro che ha funzione di contenimento (nel disegno, la parte “mn”) sono a carico totale del proprietario del fondo superiore (che ha l’obbligo di impedire smottamenti in danno del fondo inferiore); le spese di costruzione e di manutenzione della parte di muro che ha funzione di cinta (nel disegno, la parte “no”) vanno ripartite a metà tra i due proprietari. Mentre il sacrificio in denaro é, come si vede, differente per il proprietario del fondo superiore e per il proprietario del fondo inferiore, il sacrificio in terreno é uguale: infatti la base “m1m” del muro, deve insistere per metà sul fondo superiore e per metà sul fondo inferiore. E questa regola, valida per i fondi a dislivello, é a maggior ragione valida per i fondi sullo stesso livello.Presunzione di proprietà esclusiva del muro divisorio – Art. 881: “Si presume che il muro divisorio tra i campi, cortili, giardini od orti appartenga al proprietario del fondo verso il quale esiste il piovente e in ragione del piovente medesimo. Se esistono sporti, come cornicioni, mensole e simili, o vani che si addentrano oltre la metà della grossezza del muro, e gli uni e gli altri risultano costruiti col muro stesso, si presume che questo spetti al proprietario dalla cui parte gli sporti o i vani si presentano, anche se vi sia soltanto qualcuno di tali segni. Se uno o più di essi sono da una parte, e uno o più dalla parte opposta, il muro é reputato in comune; in ogni caso la positura del piovente prevale su tutti gli altri indizi”.L’art. 880 indica i casi in cui un muro divisorio deve presumersi comune; l’art. 881 ci dice invece i casi in cui il muro deve presumersi di proprietà esclusiva.

Fig15. AB é un piovente. C un vano ricavato nel muro (metti, ad uso ripostiglio). DE é una mensola. Nonostante la presenza di due indizi a favore della proprietà esclusiva del proprietario M, il muro si presume di N in ragione del piovente (che é diretto appunto verso il fondo di N.Appoggio e immissioni di travi e catene nel muro comune.Art. 884: “Il comproprietario di un muro comune può fabbricare appoggiandovi le sue costruzioni e può immettervi travi, purché le mantenga a distanza di cinque metri dalla superficie opposta, salvo il diritto dell’altro comproprietario di fare accorciare la trave fino alla metà del muro, nel caso in cui egli voglia collocare una trave nello stesso luogo, aprirvi un incavo o appoggiarvi un camino. Il comproprietario può anche attraversare il muro con chiavi e catene di rinforzo, mantenendo la stessa

distanza (….) “.Abbiamo prima visto come può il proprietario di un fondo diventare comproprietario col vicino di un muro. Ora l’art. 884 ci dice i vantaggi che da ciò derivano (così come l’art. 882 ce ne dice...i pesi e gli obblighi).

Fig.16.- Il proprietario del fondo N usando della facoltà concessagli dall’art. 884 ha costruito in appoggio il casotto D. A sua volta il proprietario del fondo M ha immesso nel muro la trave PQ; e l’ha immessa fino a cinque centimetri dalla superficie opposta, ciò significa (essendo la larghezza “rs” del muro = 20 cm) che nell’immetterla é andato oltre la parte di muro che si poggia sul suo terreno (e che é individuata dalla linea ideale AB).Distanze per pozzi, cisterne, fossi e tubi -Distanze per fabbriche e depositi nocivi. - Art. 889: “Chi vuole aprire pozzi, cisterne, fosse di latrina o di concime presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, deve osservare la distanza di almeno due metri tra il confine e il punto più vicino del perimetro interno delle opere predette. Per i tubi d’acqua pura o lurida, per quelli di gas e simili e loro diramazioni deve osservarsi la distanza di almeno un metro dal confine. Sono salve in ogni caso le disposizioni dei regolamenti locali”.

Fig. 17. - Nella figura é rappresentata l’ipotesi piuttosto frequente che sulla linea di confine tra i due fondi (il fondo A, che ospita l’opera, e il finitimo fondo B) ci sia un muro In tal caso, nel misurare le distanze imposte dall’art. 889, bisogna tenere presente che: se il muro é comune, la distanza é data da A1C1 (in quanto il confine é costituito dalla superficie del muro, che dà verso il fondo A e non, si badi, dalla linea mediana del muro!), se invece il muro é di proprietà esclusiva di A, la distanza é data da AC (infatti in tal caso il confine viene a cadere lungo la superficie che dà verso il fondo B).Nel disegno, Q indica il confine, nell’ipotesi che il muro sia in comproprietà; P indica il confine, nell’ipotesi che il muro sia di esclusiva proprietà di A.

Fig. 18- Il fatto che il tubo (di cui all’art. 889 comma 2 o all’art. 890) passi dentro un muro non esime dal rispetto delle distanze. Pertanto se l’edificio A é costruito proprio sulla linea di confine, il tubo (indicato col tratteggio) che sale dentro il muro perimetrale é contra ius (se, com’é del tutto verosimile, la distanza “rs” che lo separa dal confine é inferiore a quella legale).Mettiamo ora che l’edificio sia diviso in due appartamenti A1 e A2 di proprietà di due diverse persone e che il tubo (vedi sempre la linea tratteggiata) passi attraverso la

soletta (idest, sul confine orizzontale tra gli appartamenti A1 e A2): il tubo deve, quindi, considerarsi contra ius? No perché, almeno secondo la prevalente giurisprudenza, le norme sulle distanze non si applicano nei rapporti interni tra condomini (soluzione certamente da approvare, ma non facile a giustificare in base alla lettera della legge!).

Fig.19. - Mostra come si misura la distanza tra un pozzo e il confine: nel caso la distanza si misura da AB e non da CD.N.B. La distanza si misura diversamente a seconda che si tratti di un pozzo o di un fosso (v. postea); pertanto é importante distinguere quando si tratta di un pozzo e quando di un fosso: il criterio distintivo tra pozzo e fosso é visto nel modesto diametro di apertura di quello.

Fig. 20. - Rappresenta una fossa contenente concime: la distanza legale é data da AB e non da CD (infatti per l’art. 889 la distanza va misurata tra il confine “e il punto più vicino del perimetro interno” dell’opera.N.B. Se lo stallatico fosse ammonticchiato (anziché interrato) dovrebbe applicarsi, non l’art. 889, ma l’art. 890 e di conseguenza lo stallatico dovrebbe essere tenuto ala distanza (presumibilmente maggiore dei due metri pretesi dall’art. 889 per i fossi) che fosse prescritta dai regolamenti o in loro mancanza fosse “necessaria a preservare i fondi vicini da ogni danno (:...)”.

Fig.21. - I camini e le canne fumarie rientrano nella previsione dell’art. 890: pertanto F così come si erge sul muro perimetrale “abcd” posto a filo sulla linea di confine, non é in regola.Distanze per canali e fossi. - Art. 891: “Chi vuole scavare fossi o canali presso il confine, se non dispongono in modo diverso i regolamenti locali, deve osservare una distanza eguale alla profondità del fosso o canale. La distanza si misura dal confine al ciglio della sponda più vicina, la quale deve essere a scarpa naturale oppure munita di opere di sostegno. Se il confine si trova in fosso comune o in una via privata, la distanza si misura da ciglio a ciglio o dal ciglio al lembo esteriore della via”.La distanza imposta dall’art. 891 mira ad impedire (non, come quella voluta dall’art. 889, infiltrazioni da un fondo all’altro, ma) franamenti.Siccome il pericolo di tali franamenti é tanto maggiore quanto maggiore é la profondità del fosso, si comprende il perché il legislatore voglia (per sostenere le spinte centrifughe) l’esistenza, a lato di questo, di un’estensione di terreno tanto maggiore quanto maggiore é tale profondità: più precisamente voglia tra il confine e

il ciglio del fosso una distanza almeno pari alla profondità di questo (c.d. “distinza solonica”, perché attribuita al grande legislatore ateniese).

Fig. 22. - Perché l’art. 891 sia rispettato occorre che AB sia almeno eguale ad AC.

Fig. 23. - Naturalmente non sorge il problema delle distanze se il fosso é comune.MN indica un mucchio di spurgo: la sua esistenza é un indizio (non necessariamente univoco) che il fosso (o canale), non é comune, ma di esclusiva proprietà di B (per cui il confine del fondo B, va fatto cadere in P). Se così fosse mancherebbe dal lato P la “distanza solonica” a favore del fondo A. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che il fosso non é opera dell’uomo o anche ad un puro stato di fatto che si é trasformato o sta per trasformarsi, per usucapione, in stato di diritto.Distanze tra gli alberi. - Art. 892: “Chi vuole piantare alberi presso il confine deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, dagli usi locali. Se gli uni e gli altri non dispongono, devono essere osservate le seguenti distanze dal confine: 1) tre metri per gli alberi di alto fusto (….). Rispetto alle distanze, si considerano alberi di alto fusto quelli il cui fusto, semplice o diviso in rami sorge ad altezza notevole (....); un metro e mezzo per gli alberi di non alto fusto. Sono reputti tali quelli il cui fusto, sorto ad altezza non superiore a tre metri, si diffonde in rami;3) mezzo metro per le viti, gli arbusti, le siepi vive, le piante da frutto di altezza non maggiore di due metri e mezzo (….). La distanza si misura dalla linea del confine alla base esterna del tronco dell’albero nel tempo della piantagione o dalla linea stessa al luogo dove fu fatta la semina. Le distanze anzidette non si devono osservare se sul confine esiste un muro divisorio proprio o comune, purché le piante siano tenute ad altezza che non ecceda la sommità del muro”.

Fig. 24. - La distanza (che rileva ai fini dell’art. 892) é data da BA (dove A indica il punto in cui l’albero fu piantato) e non da BC (infatti nulla rileva l’ispessimento del fusto dovuto alla crescita!) e tanto meno da B1C1 (minore distanza dovuta all’inclinazione dell’albero, poco importa se ad opera o no dell’uomo).

Fig. 25. - Se sul confine é posto un muro, poco importa che esso sia comune o no: in ogni caso la distanza si misura dalla faccia esterna del muro. Nell’esempio la distanza é data da AB e non da AC.

Fig. 26.- Per stabilire in quali delle tre categorie indicate nell’art. 892 va fatto rientrare un albero, bisogna far riferimento “all’altezza che l’albero é destinato

naturalmente a raggiungere, in relazione alla sua specie e alle sue caratteristiche vegetative, e non già all’altezza che ha raggiunto” (così Giorgio Pistone, in Le distanze nei rapporti di vicinato, Maggioli, p.197).Nella figura si può vedere come si determina l’altezza dell’albero di “medio fusto” (comma 2 art. 892): si fa riferimento al punto in cui il fusto si diffonde in rami(punto A).Recisione di rami protesi e di radici – Art.896: “Quegli sul cui fondo si protendono i rami degli alberi del vicino può in qualunque momento costringerlo a tagliarli, e può egli stesso tagliare tagliare le radici che si addentrano nel suo fondo, salvi però in ambedue i casi i regolamenti e gli usi locali. Se gli usi locali non dispongono diversamente i frutti naturalmente caduti dai rami protesi sul fondo del vicino appartengono al proprietario del fondo su cui sono caduti (…)”.

Fig. 27. - Il proprietario del fondo A può (non tagliare lui stesso, ma) costringere il vicino a tagliare l’albero secondo la linea AB. Questo, come dice espressamente la norma, “in qualunque momento” (ciò che di per sé basta ad escludere la usucapibilità, da parte del proprietario del fondo B, del diritto di tenere rami protesi sul fondo A).2 -Distanze da luci e vedute-Art. 900: “Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”.

Fig. 28. - L’apertura AB posta al primo piano dell’edificio certamente non é una veduta; infatti, avendo il suo lato inferiore “ad un’altezza non minore di due metri” dal pavimento, non permette quella (comoda) inspectio e prospectio sul fondo vicino M, che appunto il n.2 art. 901 mira ad impedire. Tale apertura non dà, é vero, al vicino una completa sicurezza che da essa non sarà tentato un accesso al suo fondo (essa ha, infatti, sì, il lato inferiore ad un’altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo M (BD = 2,30) così come vuole il n.3 sempre dell’art.901, ma non é munita dell’inferriata di cui al numero 1 stesso art. 901), però il vicino “avrà sempre il diritto di esigere” che l’inferriata sia collocata e la sua sicurezza garantita al 100 per 100.L’apertura E é invece in violazione sia del n.1 (manca di grata l’inferriata) sia del n.2 (infatti, essendo a pianterreno, l’altezza per essa richiesta non é di soli due metri ma di due metri e 30). Peraltro essa non é in violazione del n.3, dato che, é vero, il suo lato inferiore é a un’altezza “minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo del

vicino”, ma é anche vero che il locale a cui dà luce é “in parte a livello inferiore al suolo del vicino”. Siccome essa con tutta evidenza (per quel che riguarda la violazione al n.2) non può essere “regolarizzata”, il vicino non potrà che chiedere tout court la sua eliminazione.Stabilire se un’apertura é luce o veduta é importante, perché nel primo caso: 1) può “essere aperta dal proprietario del muro contiguo al fondo altrui” (art. 903 comma 1) e non deve rispettare le distanze imposte per le “vedute” dall’art. 905; 2) il vicino può chiuderla costruendo in appoggio (art. 904 comma 2) e comunque (senza chiuderla ma praticamente accecandola) può costruire in aderenza (art. 904 comma 1 – v. invece per le vedute, l’art. 907); 3) non può dar luogo ad usucapione (melius, se in situazione irregolare tale stato di fatto può essere in ogni momento – v. art. 902 comma 2 – regolarizzato senza mai poter portare col passare del tempo ad una situazione di diritto, come invece può essere per le vedute, che sono usucapibili); 4) può essere aperta in caso di sopraelevazione e nella parte sopraelevata senza il consenso del vicino (art. 903 comma 2).

Fig. 29. - Rappresenta un tipico prospicere in alienum. Come si vede il davanzale serve di sostegno al petto e permette di sporgere, senza pericolo, il capo per vedere sia a destra che a sinistra.

Fig. 30. - Rappresenta il muro divisorio di due fondi. Essendo questi a dislivello le persone che si trovano nel fondo superiore possono guardare in quello inferiore ed anche affacciarvisi. Con tutto ciò il manufatto-muretto non dà luogo ad una “veduta”: infatti non ha come sua destinazione naturale quella di permettere la prospectio.

Fig.31. - Le aperture A e B della casa P permettono una veduta diretta sul fondo M, una veduta laterale sul fondo O e una veduta obliqua sul fondo N. Pertanto esse sono secundum ius rispetto al fondo M (essendo la distanza “mn” tra tali vedute e il fondo M di due metri, mentre l’art. 905 ne richiede solo 1,30), ancora secundum ius rispetto al fondo N (essendo la distinza “rt” tra la evduta più vicina e il fondo N di un metro, mentre l’art. 906 richiede solo 75 cm), ma una delle due aperture, B, é contra ius rispetto al fondo O (essendo la distanza “rs” tra tale veduta e tale fondo di soli 30 cm, mentre l’art. 906 ne pretenderebbe 75).

Fig. 32. - Gli artt. 905 e 906 prescrivono quale distanza vi deve essere tra una veduta e il fondo finitimo (a prescindere dall’esistenza in questo di costruzioni) e danno altresì le indicazioni sul come misurarla.

Cerchiamo di fare corretta applicazione di tali prescrizioni e indicazioni rispetto alla fattispecie raffigurata.Tale fattispecie é data da un edificio in cui é stato costruito il balcone B e, in una nicchia, una finestra T.Le distanze del balcone noi le prendiamo (non da V, ma) da P, cioé dal limite estremo del balcone, tirando una linea orizzontale PQ fino ad incontrare la verticale QR alzata dalla linea di confine (pertanto la distanza sarebbe mal misurata dalla retta PR abbassata dal balcone fino alla linea di confine).Anche per misurare le distanze dalla finestra, noi tireremo una linea orizzontale ut supra, ma tale linea la faremo iniziare (non dalla finestra, non da T, ma) dalla faccia esterna del muro, da “m”.

Fig. 33.- Mettiamo che si debba risolvere la questione se le distanze tra un dato balcone A e una data costruzione B sono, o no, conformi a legge. Bene, nel caso dobbiamo preliminarmente stabilire se prima....é nato il balcone A o la costruzione B.Infatti, se é nata prima la costruzione B, dobbiamo fare unicamente applicazione dei già visti artt. 905 e 906 (con la conseguenza che una distanza di un metro e 30 potrà essere considerata legittima).Se, invece, é nato prima il balcone. Dobbiamo fare applicazione dell’art. 907, con la conseguenza che non potrà essere considerata legittima una distanza inferiore ai tre metri. La distanza de qua dovrà essere osservata anche quando il confinante costruisca in appoggio al muro in cui si apre la veduta. Per cui, nell’esempio fatto, essendo “mn” inferiore di tre metri, la costruzione va considerata illegittima.

Titolo II: Le parti comuni di un edificio

Quali sono le parti comuni di un edificio, lo dice l’art. 1117 C.C.Però non sempre – a chi é digiuno di nozioni di architettura, come molti di noi, uomini di legge – riesce facile dire, guardando un edificio, se quella tale sua parte é un “muro maestro”, se quell’altra é, o no, un “lastrico solare” e così via.I disegni di cui in appresso (e che ci piace ricordarlo sono, come quelli del “titolo” precedente, opera di un valente funzionario del Comune di Genova, il sig. Sergio Valentino) e i brevi commenti con cui li accompagneremo, vorrebbero addestrare l’occhio dello studioso a individuare – con la rapidità necessaria per dare una pronta risposta al cliente o al giudice – ciò che é comune (ai condomini) e ciò che é di esclusiva proprietà (del cliente o dell’avversario).

Suolo. - Si presume comune quello racchiuso nei muri perimetrali. Questo in forza dell’art. 1117. In forza poi (non più dell’art. 1117, ma) dell’art. 818, si considerano comuni (se non risultano pubbliche o di un terzo privato) quelle strisce di terreno che non raramente fiancheggiano un edificio condominiale (e che di solito sono lasciate inedificate dal costruttore per rispettare le distanze legali). Pertanto il singolo condomino che pretendesse un diritto esclusivo su tali strisce di terreno, avrebbe l’onere di darne la prova.

Fig. 34. - Per quanto sopra detto la striscia di terreno ABCDE (che non appartiene né al fondo M né al fondo N) deve presumersi condominiale.Sottosuolo. - E’ lo spazio sottostante al suolo. Siccome questo, come si é visto, é comune, anche il sottosuolo deve ritenersi comune (non per l’art. 1117, che si riferisce solo ad una parte, le fondazioni, ma per l’art. 840).

Fig. 35. - Sia F che S1 e S2 indicano le cc.dd. fondazioni. Per tali dovendosi intendere “le opere murarie interrate, che sorreggono l’edificio. Di queste, alcune, come F, non sono altro che le prosecuzioni sotto il piano stradale a-b dei muri maestri e portanti; le altre, sono il risultato dei lavori necessari per raggiungere lo strato R naturale, compatto e resistente” (così L.Rizzi e V. Rizzi. Il condominio degli edifici,Bari,s.d.).La lettera V indica un c.d. vespaio; per tale intendendosi quella parte del sottosuolo, posta immediatamente sotto il pavimento, che, di solito costituita di particolare materiale, ha lo scopo di preservare il locale soprastante dalla umidità. Il vespaio, servendo unicamente al pavimento sovrastante, deve considerarsi (non comune, ma) di proprietà del solo condomino proprietario del pavimento stesso.Scantinati, seminterrati, intercapedini. - Si ponga mente alla Fig. 36. M indica uno “scantinato” cioé un locale “totalmente al di sotto del livello stradale” (cfr. L.Rizzi e V. Rizzi, Opera cit., p. 231). N indica, invece, un seminterrato, cioé un locale che si trova, sì, nel sottosuolo, ma ha la sua parte superiore al di sopra del livello stradale (per cui può ricevere aria e luce dalla finestrella R ricavata nel muro perimetrale). P infine indica una intercapedine, cioé uno spazio vuoto che ha la funzione di proteggere dalla umidità i muri perimetrali.Mentre le intercapedini si presumono senz’altro comuni (essendo “necessarie all’uso comune” - art. 1117), gli scantinati e i seminterrati invece si potranno presumere comuni solo se destinati ad ospitare servizi ed attività comuni, come la lavanderia e il riscaldamento.Muri maestri e di tramezzo. - Fig. 37. AB, CD indicano dei muri maestri; cioé dei

muri “che, sotto qualsiasi forma e dimensione, servono a sostenere l’edificio condominiale, per cui, senza di essi l’edificio stesso non potrebbe reggersi” (confr. L.Rizzi e V. Rizzi, Opera cit., 235). Essi allo stato “rustico” sono condominiali; questo per il n.1 art. 1117. Ancora condominiali (ma non più per il n.1, bensì per il n.3 art. 1117) sono le sovrastrutture delle loro facciate o prospetti esterni (i fregi, le decorazioni, il cornicione, le mensole, le gronde, i canali per le pluviali.....). Invece, sono del singolo condomino, l’intonaco, le pitture e le altre sovrastrutture di quelle loro parti, che vengono a formare le pareti interne di un appartamento.E-F, S-H, I-L, M-N indicano dei muri di tramezzo; cioé dei muri interni il cui unico scopo é di dividere lo spazio interno dell’edificio in più locali. Essi non sono condominiali; nel senso che non appartengono a tutti i condomini, anche se nulla esclude che possano appartenere a due condomini (il che si verifica, ad esempio, quando separano due appartamenti siti nello stesso piano).Mentre é pacifico che i muri maestri siano “comuni”, é, invece, controverso il significato da dare a tale espressione (di per sé anodina). Secondo alcuni, essa significa semplicemente che su tutti i condomini gravano le spese della loro manutenzione; ma non significa per nulla che ogni condomino possa utilizzare ogni parte delle loro facciate (in tal senso, Visco, Le case in condominio, 1960,p.120), che, ad esempio, il condomino M possa apporre un’insegna nello spazio P (del muro AB), che corrisponde all’altezza dell’appartamento N. Invece, secondo altri (in tal senso l’opinione di gran lunga prevalente in giurisprudenza, ora anche confortata dalla recente modifica dell’art.1122), ciascun proprietario dei diversi piani può servirsi, nel suo interesse, del muro comune, anche nella parte rispondente al piano di altro proprietario.Parapetti, gronde, fumaioli, canne di aereazione – Fig. 38. I parapetti (P) dei lastrici solari sono comuni, se i lastrici sono comuni; altrimenti vanno considerati di esclusiva proprietà del singolo condomino a cui il lastrico appartiene (ciò che significa che sul singolo condomino graveranno le eventuali spese della loro riparazione).Però, anche quando il lastrico non é da considerarsi condominiale, vengono, condominiali, considerati: i cornicioni (C), le gronde pluviali (a), i doccioni verticali (d-e); questo forse perché tali elementi servono ad impedire quell’inconveniente dello stillicidio, che tutti i condomini verrebbe a danneggiare.Quanto ai fumaioli (F) e alle canne di aereazione esse si considerano comuni se servono dei locali comuni, come ad esempio l’appartamento del portiere o le fognature, mentre negli altri casi si considerano di proprietà del condomino (o dei condomini) ai cui locali servono.

Balconi – Di solito i balconi appartengono solo al condomino che li usa (nel senso che, se occorre ripararli, la relativa spesa ricade su di lui, e che se, andando in rovina, arrecano danni a terzi, é lui che deve risarcirli....).Però non é sempre così; e ce ne renderemo meglio conto guardando la Fig. 39.Guardandola infatti, appare subito che il balcone M svolge un’utile funzione, non solo per A (il proprietario dell’appartamento al suo livello) a cui permette di affacciarsi e di prendere aria, ma anche per B (il proprietario dell’appartamento sottostante) a cui dà ombra e riparo contro la pioggia: é giusto, pertanto, che eventuali spese di riparazione dello stesso ricadano, non solo su A, ma anche su B. Lo stesso non può ripetersi per il balcone N; non già perché esso non ripari lo spazio sottostante di C dalle intemperie, ma perché tale spazio C non é destinato a soggiorno.Tetto e suoi annessi – Il tetto, com’é noto, é “quella struttura che (da sola o con il lastrici solari) ricopre la sommità di un edificio, garantendolo dalle piogge, nevi e altre intemperie “(cfr. L. Rizzi e V. Rizzi, Opera cit., p. 235). La sua superficie“esterna é formata da piani inclinati che si intersecano per formare in alto “linee di displuvio” (atte cioé a far scivolare l’acqua in basso, dove sarà convogliata da appositi canali di gronda negli scarichi verticali).Il sottotetto “é quell’ambiente ricavato sotto il tetto, che serve essenzialmente a difendere le stanze dell’ultimo piano dal caldo, dal freddo e dall’umidità “(cfr. L.Rizzi e V. Rizzi, Opera citata, ibidem). Esso viene a formare così una grande “camera d’aria” limitata, in alto dalla struttura del tetto, ed in basso, dal solaio (o dalle volte o dalle soffittature) che coprono gli ambienti dell’ultimo piano” (confr sempre L.Rizzi e V. Rizzi, ibidem)Il sottotetto alcune volte può essere abitato (e allora diventa una “camera a tetto”), altre volte può solo servire per deposito (si parla allora di “soffitta”), altre volte, infine, é inservibile sia come deposito sia come abitazione (e allora é il c.d. “palco morto”).L’art. 1117 menziona, tra gli elementi di proprietà comune, il tetto ma non il sottotetto; e infatti questo, anche se può essere (come qualsiasi altro locale dell’edificio) comune, molto spesso appartiene ad un unico condomino.

Fig. 40. - Nella figura 40, lo spazio “abcd” indica il sottotetto, S é il solaio cioé il piano di calpestio di questo, e C naturalmente il tetto.Le finestrelle M e M1 e la particolare inclinazione della falda, indicano che ci troviamo di fronte ad una mansarda (le mansarde, com’è noto, sono piani abitabili ricavati nel sottotetto e che prendono luce e aria da aperture a livello di cornicione).Lastrico solare e terrazza. - Come il tetto anche il lastrico solare é destinato a

copertura dell’edificio, ma, a differenza del tetto, assumendo una forma pianeggiante, consente l’accesso per lo svolgimento di alcuni servizi d’interesse comune (sciorinare biancheria ecc.): nella Fig. 41, ab indica un lastrico solare.La terrazza é una sottospecie del lastrico, che, per la maggior ricercatezza delle sue opere murarie ed accessorie (presenza di parapetti, di ringhiere....) permette ai suoi proprietari di soggiornarvi.I lastrici solari (e quindi anche i terrazzi che dei lastrici, si ripete, non sono che una sottospecie) sono fatti rientrare dall’art. 1117 nelle parti che si presumono comuni. Tale presunzione evidentemente si basa o sull’inaccessibilità del lastrico, che gli permette di svolgere unicamente le funzioni di copertura dell’edificio (funzioni egualmente utili, ovviamente, a tutti i condomini) o sulla sua accessibilità comune a tutti i condomini. Vi sono, però, dei casi in cui l’edificio é strutturato in maniera da permettere l’accesso al lastrico solo dall’appartamento di un condomino. Tipico é il caso delle c.d. “terrazze a sole” o “terrazze a livello”, di cui d-e rappresenta un chiaro esempio: solo il proprietario E é in grado di accedere alla terrazza d-e. In tale ipotesi evidentemente la presunzione di cui all’art. 1117 cade e si deve ritenere la proprietà esclusiva sul lastrico del solo condomino, che vi ha la possibilità di accesso.Nella figura, c indica una tettoia, che come tale é di proprietà comune, anche se il sottotetto é di proprietà del solo F (che solo ha la possibilità di accedervi).Abbaini e lucernari. - Fig. 42. A indica un abbaino costruito lungo la falda di un tetto. B indica un lucernario costruito su una terrazza a livello.Secondo alcuni, abbaini e lucernari, seguono la condizione giuridica della struttura in cui sono inseriti (se quindi sono inseriti in un tetto o in un lastrico solare, siccome questi si presumono comuni, anche gli abbaini e i lucernari si debbono presumere comuni). Secondo altri, invece, abbaini e lucernari sono di proprietà esclusiva del proprietario dei locali a cui danno aria e luce.Può dirsi invece pacifico che un condomino possa aprire abbaini e lucernari sul tetto e lastrico comune senza il consenso degli altri condomini (ma naturalmente nel rispetto dell’art. 1122).Soffitti, volte, solai – Fig. 43. Sono strutture orizzontali poste tra due appartamenti sovrastanti. Sono costituite da tre parti: 1) il pavimento (indicato dalle lettere a,b); 2) il solaio, vera propria struttura portante della volta (indicata dalla lettera c); 3) strato di intonaco (semplice o decorato) che ricopre la superficie inferiore (e che é indicato da d).E’ l’articolo 1125 che stabilisce la ripartizione delle spese di riparazione e rifacimento delle strutture in oggetto. Facciamo applicazione di tale articolo a un caso un po’ più complicato del solito, in quanto si riferisce ad una fattispecie in cui proprietario del locale sovrastante é (non un singolo condomino, ma) tutto il

condominio, mentre proprietario del locale sottostante é un solo condomino, B: abbiamo allora la seguente ripartizione: 1) spesa del pavimento, a carico di tutti i condomini (compreso B); 2) spesa del solaio, per metà a carico di tutti i condomini (sempre compreso nel loro numero, B) e per metà a carico del solo condomino B; 3) spesa dell’intonaco, tutta a carico di B.Portoni, androni, scale – Fig. 44. La lettera C indica un portone, che, com’é noto, é “l’infisso formante una grande porta di chiusura dell’accesso principale all’edificio dalla via pubblica” (così, L.Rizzi e V. Rizzi, in Opera cit., p. 276)La lettera A indica invece il c.d. androne che é “quello spazio che deve essere attraversato per raggiungere, una volta varcato il portone, il cortile interno o le scale dell’edificio” (così, sempre L.Rizzi e V. Rizzi, in Opera cit. ibidem)

Fig. 45. Le scale – oltre alla funzione (principale) di permettere l’accesso ai singoli appartamenti di abitazione e ai locali destinati (non ad abitazione, ma) ad attività particolari (come le cantine, i lavatoi, le “soffitte”...) - hanno altresì la funzione di permettere l’accesso alle strutture di copertura e di protezione dell’edificio (tetto, lastrici solari...). Quindi, anche A, pur essendo proprietario unicamente di un appartamento a pian terreno, deve contribuire alle spese di manutenzione e rifacimento delle scale (sia pure in misura minore dei condomini proprietari degli appartamenti sovrastanti) – questa mi sembra la più ovvia interpretazione dell’articolo 1124.

Fig. 46. - Il proprietario dei due appartamenti, D e C, non può congiungere tali suoi due appartamenti, trasformando il pianerottolo PG in un locale della nuova abitazione così ricavata. Infatti, così facendo, impedirebbe a tutti gli altri condomini di servirsi liberamente della scala PR per accedere al lastrico solare MN (e compiervi le necessarie opere di manutenzione).Cortili – Sono aree scoperte adiacenti un edificio.Per l’art. 1117 n.1 “sono oggetto di proprietà comune” se “necessarie all’uso comune”.Il che con tutta evidenza accade nel caso del cortile abcd (vedi fig. 47) che serve a dar aria e luce ai locali interni dell’edificio e non accade nel caso del cortile efgh antistante all’edificio.Non é peraltro detto che un cortile, che svolge la funzione di dare aria e luce ai locali interni di un edificio, sia necessariamente di proprietà comune; potrebbe benissimo essere di proprietà esclusiva di un condomino - il che non deve stupirci: non abbiamo visto che un lastrico solare, pur continuando a svolgere (a favore di tutto il

condominio) la funzione di riparo e protezione dalle intemperie, può essere di “proprietà esclusiva” di un solo condomino? Può anche essere che un cortile sia funzionalmente destinato a servire solo un gruppo di condomini. Ad esempio, il cortile abcd rappresentato nella figura 48 é destinato a servire solo i condomini del settore M e non quelli del settore N.Di conseguenza le spese di “manutenzione” (ma non quelle di rifacimento e riparazione!) saranno a carico solo dei condomini di M. Ciò nonostante i condomini di N avranno diritto di passare nel cortile M, ancorché possano godere dell’autonomo accesso mn alla via pubblica (il che non deve stupire: forse che gli appartamenti dell’ala A servita dalla scala a, non possono servirsi della scala b che serve l’ala B?!(Naturalmente in un caso simile sarà molto importante stabilire – e la cosa non sarà facile! - se A e B sono settori di uno stesso edificio o due edifici autonomi: infatti in questo secondo caso i condomini di N, da una parte, non dovranno provvedere alle spese di riparazione e rifacimento del cortile abcd, dall’altra, neanche potranno accedervi se non titolari di un vero e proprio diritto di servitù).Stabilire se un cortile é, o no, in comproprietà é importante anche ai fini di di stabilire la possibilità di aprire su di esso delle “vedute”. Si ponga mente alla Fig. 49. Se il condomino dell’edificio M vuole sopraelevare e aprire nel nuovo appartamento un balcone A, lo potrà fare senz’altro se il cortile mn é di proprietà comune, se invece é di proprietà esclusiva di un condomino (o di un terzo) lo potrà fare solo acquistando da questo un diritto di servitù.

APPENDICE

I disegni a cui fanno riferimento i titoli I e II