Sanguineti - Filosofia Da Mente

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JUAN JOSÉ SANGUINETI FILOSOFIA DELLA MENTE Una prospettiva ontologica e antropologica PUBBLICATO IN EDUSC, ROMA 2007

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JUAN JOSÉ SANGUINETI

FILOSOFIA DELLA MENTE

Una prospettiva ontologica e

antropologica

PUBBLICATO IN EDUSC, ROMA 2007

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Presentazione

La filosofia della mente è un’area d’indagine filosofica maturata nella tradizione

anglosassone e nata dalla necessità epistemologica e linguistica di parlare di mente e

di atti mentali per riferirsi a certi aspetti delle operazioni e della condotta umana.

Nella filosofia classica, le tematiche affrontate da questo indirizzo corrisponderebbero

alla psicologia filosofica nella linea aristotelica e tomistica.

Dopo la crisi della metafisica classica provocata dall’empirismo e dal kantismo,

molti filosofi pensarono di abbandonare per sempre la tematica di anima e corpo. La

neuroscienza, la psicologia, la scienza computazionale e la dinamica interna della

filosofia del linguaggio obbligarono tuttavia a riproporre la terminologia “mentalista”,

con l’impiego di termini quali intenzionalità, rappresentazione e altri simili. Benché

raramente i filosofi si azzardassero a ritornare alle questioni ontologiche, almeno è

comparso una sorta di dualismo delle proprietà, nel senso della distinzione tra le

operazioni fisiche e le operazioni mentali.

Al contempo, nuovi tentativi di esautorare il discorso sull’anima, spesso

indicata come mente, si fecero avanti col comportamentismo e il riduzionismo

neurologistico. In questo modo sono sorti parecchi dibattiti, benché non propriamente

una filosofia sistematica, su temi “mentalisti” quali la percezione, le sensazioni, le

emozioni, l’intelligenza e la nota questione sul rapporto tra mente e cervello. Con la

comparsa delle scienze cognitive, la Philosophy of Mind trovò una collocazione in

quest’area epistemica, consolidandosi come una disciplina filosofica diversa

dall’epistemologia.

In questo volume cercherò di analizzare alcuni punti fondamentali abitualmente

discussi nella filosofia della mente, senza la pretesa di essere esaustivo. Dopo un

breve capitolo di carattere storico, non ci sarà più spazio per entrare nei particolari

della storia di questa disciplina né per sviscerare le posizioni dei singoli autori.

Affronterò i temi sistematici in maniera diretta, con una proposta di fondo personale,

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sia pure ispirata alla filosofia di Aristotele e Tommaso d’Aquino1. I capitoli 2 al 4 si

soffermano con una certa ampiezza sul problema filosofico dei rapporti tra le

operazioni cognitive e l’attività cerebrale. I capitoli 5 e 6 sono dedicati

rispettivamente all’intelligenza degli animali e all’automazione computazionale dei

processi cognitivi. Così, il lettore troverà in questo libro una serie di riflessioni sulle

“tre menti” spesso studiate in questo settore: la mente umana o personale, quella

animale e quella artificiale. Lungo l’esposizione ci saranno allusioni e riferimenti

obbligati a questioni scientifiche (specialmente di tipo neurologico), ma non entrerò

nei loro dettagli. Presuppongo la parte scientifica degli argomenti considerati e mi

soffermo sulle questioni di principio, puntando soprattutto alla valutazione filosofica

dei problemi.

Gli studi di filosofia della mente spesso si limitano a riflettere lo stato attuale

delle questioni. Sono utili per ricavarne una conoscenza storica, ma di solito non sono

molto concludenti, forse perché la competizione tra le scuole (funzionalismo,

dualismo, eliminativismo, emergentismo) è ancora in corso e nell’orizzonte non si

profilano altre prospettive. Gli autori di manuali2 tendono a presentare conclusioni

leggermente eclettiche. Cercano di far capire i termini del dibattito ma difficilmente

oltrepassano l’impostazione di confronto tra le opinioni. Un esempio di questa

situazione potrebbe essere l’opera di H. Putnam, Mente, corpo, mondo (1999), dove

egli manifesta in maniera euristica le sue molteplici e spesso variabili opinioni sulle

questioni della mente, secondo uno stile incisivo ma al contempo leggero, con una

prolifica presentazione di argomenti, esempi, controesempi e con frequenti richiami al

buon senso.

Non tutti gli autori impegnati in quest’area del pensiero hanno tale

atteggiamento. Certe loro posizioni possono essere molto radicali. In generale, però,

molti preferiscono limitarsi alla discussione dei problemi. Quest’impostazione risulta

ovviamente condizionata dalla situazione storica del momento, e nell’area filosofica

1 In alcune pagine di questo lavoro farò riferimento al pensiero di Tommaso d’Aquino in una prospettiva non storiografica. Traduco i suoi testi sulla base del testo originale. Trovo pertinenti alcune delle sue vedute sull’argomento “mente/corpo” e perciò le incorporo con libertà nel contesto dell’esposizione, con indipendenza dagli schemi particolari dell’Aquinate. 2 Ad esempio Bechtel, Bermúdez, Di Francesco, Flanagan, Heil, Kim, Lowe, Nannini, Paternoster: cfr. bibliografia finale.

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anglosassone, ormai diffusa in tutto il mondo, dal forte peso della tradizione

empirista. Dal punto di vista di questo studio, invece, spero sarà possibile arrivare ad

una valutazione speculativa delle posizioni grazie alla luce di una prospettiva più alta.

Tale prospettiva è raggiungibile purché sia superata l’ambientazione puramente

scientifica della filosofia della mente e ci si apra a una visione metafisica e

antropologica della persona3.

3 Per le questioni antropologiche affrontate in queste pagine, ad esempio sul corpo umano, i sentimenti, il linguaggio, la coscienza o l’azione, si vedano gli studi sistematici di antropologia, in particolare J. A. Lombo, F. Russo, Antropologia filosofica, Ed. Università della Santa Croce, Roma 2005 e J. M. Burgos, Antropología: una guía para la existencia, Palabra, Madrid 2003.

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Introduzione

Perché mente e corpo?

Sin dai tempi più remoti, nella cultura, nelle religioni e nelle dottrine filosofiche

c’è stata l’idea che l’uomo, pur essendo uno, è costituito non solo da parti fisiche, ma

anche da elementi psichici, spirituali o immateriali, come i pensieri, le fantasie,

l’anima, lo spirito, l’intelletto o la ragione. Questa pluralità di atti, potenze e perfino

anime spiegherebbe la complessità della condotta umana.

Le nostre azioni sono molto diverse. Alcune sono esterne, altre interne. Certe

attività possono predominare su altre (una persona può essere molto dominata dalla

sua parte sensitiva), oppure possono favorire tensioni o influire su altri atti, creando

una sinergia che rende conto del dinamismo umano. Quindi l’uomo va visto,

certamente, come uno, ma insieme come un’unità complessa. Si comprende la

necessità di parlare di potenze, di moduli o di livelli psichici. Secondo San Tommaso,

abbiamo due intelligenze4; secondo Gardner, le nostre intelligenze sarebbero sette5;

nella tradizione cristiana si parla dell’uomo vecchio che lotta contro l’uomo nuovo.

Ciascuno di quegli elementi possiede una sua autonomia e presenta le sue esigenze

(esigenze dei sensi, dei sentimenti, della ragione).

Siamo costituiti, dunque, da una pluralità di elementi strutturali. Se c’è

pluralità, vi è una distinzione, un’integrazione e una causalità tra questi elementi. È

questa la complessità dell’uomo. Alcuni autori non riconoscono l’unità della persona

umana. Minsky immagina la nostra pluralità interna come una “società di agenzie” in

competizione6, senza un io supervisore garante dell’unità dell’insieme. Noi però

abbiamo coscienza della nostra identità, una coscienza personale che ci consente di

dire io, specialmente quando siamo attivi e responsabili (“io ho fatto questo”). È

4 Intelletto agente e intelletto paziente: cfr. S. Th., I, q. 79, aa. 2 e 3. 5 Cfr. H. Gardner, Frames of Mind. The Theory of Multiple Intelligences, Basic Books, New York 1983. 6 Cfr. M. Minsky, La società della mente, Adelphi, Milano 1989.

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difficile urtare contro questa evidenza. Occorre però spiegare come siamo identici e

molteplici al contempo e in che senso dobbiamo auto-integrarci, poiché possiamo

pure disintegrarci. D’altra parte, se l’io fenomenologico manifesta uno spazio di

coscienza con elementi più o meno controllabili, vi sono in noi degli aspetti oscuri che

influiscono sul nostro modo di comportarci (tendenze, predisposizioni profonde,

emozioni latenti).

La presenza di un’identità in mezzo alla pluralità di forze della nostra natura

complessa è attestata a livello personale. Sentiamo la forza interiore dei desideri, dei

sentimenti, delle pulsioni. Il nostro io fenomenologico viene indicato in espressioni

come “la mia anima”, “il mio cuore”, “il mio interiore”, frequenti nella letteratura

spirituale. Ma occorre andare a un livello più profondo e ontologico, per cercare gli

elementi intrinseci costitutivi di ciò che davvero siamo. Inoltre la pluralità d’istanze

del nostro essere e le loro interazioni non sono sempre dello stesso genere. Ci vuole,

dunque, un’analisi approfondita dei termini del problema.

Nella storia della filosofia e delle scienze (psicologia, neurologia) talvolta si è

fatto ricorso a modelli analogici per raffigurarci come potrebbe essere l’ontologia

della nostra struttura personale. Abbiamo, ad esempio, il modello platonico della città

interiore, usato pure da Aristotele quando parla di un “dominio politico” sui nostri

stati d’animo. Eppure la società, a sua volta, è stata paragonata certe volte a un

organismo. Nel platonismo e in Cartesio, il dominio-guida dell’anima sul corpo è

stato spiegato secondo il modello del timoniere o della guida di un mezzo di trasporto.

Sin dai tempi di Cartesio è diventato frequente, invece, il modello meccanico del

corpo e dell’uomo, nel senso di concepire le nostra struttura come composta da una

serie di pezzi che vengono assemblati per costituire una macchina, dalla quale

nascono le sue funzioni. Negli ultimi decenni sono stati usati modelli computazionali

(la mente e il cervello visti con l’analogia del computer) e connessionisti (reti neurali).

I modelli possono essere gerarchici, stratificati, sinergici, sistemici.

In queste pagine vorrei proporre come punto di partenza il “modello ilemorfico”

di tipo aristotelico. Veramente non è un modello nel senso della scienza, nella quale la

modellizzazione semplifica o idealizza la realtà. L’ilemorfismo è un approccio

ontologico capace di abbracciare molteplici dimensioni della realtà seguendo una

linea interpretativa dove l’essere e la causalità acquistano sensi diversi. L’ilemorfismo

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aristotelico è collegato a una filosofia della sostanza: l’essere “indipendente” ovvero

l’essere in senso forte. Oggi si sente il bisogno dell’impiego di categorie ontologiche

per poter rendere conto delle differenze tra la mente umana, il corpo, la mente

animale, i computer, le menti “collettive” (come l’insieme delle conoscenze di una

biblioteca o di Internet) e i robot umanoidi dotati di intelligenza artificiale e magari di

emozioni. I grandi dibattiti della filosofia della mente mettono in crisi la distinzione

tra queste realtà. Talvolta non resta che affidarsi alla conoscenza comune, una volta

che lo sforzo analitico sembra esaurito, per dire ad esempio che “il computer non

pensa, ma non sappiamo spiegare perché”.

Nella tradizione filosofica, spicca in questo quadro la dualità di anima-corpo7.

Pur essendo il corpo una struttura complessa e anche se l’anima svolge diverse

funzioni a vari livelli, la dualità corpo e anima appare sempre fondamentale ed è

prevalsa sulla concezione tricotomica di corpo-anima-spirito (che pure ha un senso).

In qualche modo, quindi, la problematica si concentra sul modo in cui si concepisce

la dualità fondamentale di anima e corpo o di ciò che è proprietà, atto o evento

psichico e ciò che è proprietà, atto o evento fisico.

A causa dell’abbandono della categoria dell’anima, la “dualità originaria” di cui

oggi si parla è quella di mente-corpo (l’anima è stata sostituita dalla mente), e quindi

l’indagine è impostata intorno alla dualità di atti fisici-atti mentali. L’uso di mente

anziché di anima a mio parere favorisce il dualismo, nel senso che separa la “mente”

dal corpo più di quanto l’anima e il corpo fossero separati (almeno nell’aristotelismo,

dove l’anima era la forma del corpo). Comunque in questo libro mi adeguo spesso alla

terminologia “mentalista”, solo per far capire meglio i punti da discutere. Le posizioni

filosofiche profonde sono, quindi, posizioni relative alla distinzione -o non

distinzione- e al rapporto attivo tra il fisico e il mentale.

La fenomenologia, intesa in senso ampio, aiuta in un primo momento a capire

quanto succede in noi, sia nei nostri atti che nel comportamento. Tutti sperimentiamo

dei “vissuti” come le sensazioni, le emozioni, i pensieri, la volizione. Ma la

7 Per una visione sintetica della problematica mente/cervello nelle scienze cognitive, cfr. J. M. Maldamé, Sciences cognitives, neurosciences et âme humaine, “Revue Thomiste”, 106 (1998), pp. 282-322. Cfr. anche il mio lavoro Operazioni cognitive: un approccio ontologico al problema mente-cervello, “Acta Philosophica”, 14 (2005), pp. 233-258.

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fenomenologia non basta. Il ruolo del cervello nel pensiero passa completamente

inosservato. Dobbiamo prenderne atto indirettamente attraverso l’analitica causale. Di

conseguenza, le descrizioni e le spiegazioni sui rapporti tra il fisico e il mentale sono

condizionate e talvolta illustrate dalle indicazioni scientifiche (grazie alla neurologia,

ad esempio, veniamo a conoscere la corrispondenza tra il linguaggio e la regione

corticale linguistica). Una cosa simile accade a livello ontologico profondo. Le

interpretazioni sulla natura della mente, del cervello o dell’intelligenza artificiale sono

spesso collegate alle categorie metafisiche adoperate dagli autori (nozioni di causalità,

sostanza, soggetto, intelligenza, rappresentazione).

Prima di affrontare le questioni di fondo della filosofia della mente selezionate

in questo studio, come annunciato, daremo uno sguardo d’insieme alle posizioni

predominanti sullo scenario filosofico. Nel seguente capitolo si potrà capire più

facilmente la rilevanza dei problemi presentatisi lungo la storia circa i rapporti tra la

mente e il corpo. L’esposizione sarà un buon punto di partenza e uno stimolo per

motivare i lettori a proseguire nello studio e per renderli sensibili alle analisi e alle

argomentazioni dei successivi capitoli.

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Capitolo 1

Le posizioni filosofiche

In queste pagine esaminiamo in maniera sintetica le grandi risposte filosofiche

al problema mente/corpo, senza la pretesa di tracciare una storia della filosofia della

mente. Tralasciamo le sfumature dei singoli filosofi, per concentrarci

sull’inquadramento delle tesi principali. In teoria ci sarebbero soltanto due posizioni

di fondo: dualismo mente/corpo o monismo (spiritualistico o materialistico). Però,

come vedremo, le concezioni filosofiche alla fine risultano più complicate e un certo

dualismo, pur essendo la tesi più antica, riemerge sempre in modi più o meno

sofisticati8.

1. Dualismo e parallelismo

La posizione dualista sostiene, in termini generali, la distinzione reale tra anima

e corpo (dualismo ontologico) o almeno tra atti psichici (“mentali”) e atti fisici

(dualismo delle proprietà). In un senso più preciso, il dualismo non riconosce

l’integrazione delle due istanze nell’unità di un’unica sostanza (come invece fa

Aristotele). Nel dualismo l’insistenza ricade sulla distinzione, che arriva ad essere una

separazione tra mente e corpo, al punto che il loro rapporto è concepito spesso in

modo estrinseco, come se fosse il rapporto tra “due cose”.

Esiste un dualismo popolare frequente nelle tradizioni culturali e religiose, dove

la distinzione tra anima e corpo è scontata. Questo dualismo può essere considerato,

fino a un certo punto, legittimo e anche vero, dal momento che corrisponde alla

conoscenza ordinaria o alla percezione comune secondo cui insieme al corpo abbiamo

pure una dimensione spirituale, non sensibile e non spaziale, dove sono presenti i

nostri pensieri, idee, sentimenti e intenzioni. Un certo dualismo sembra naturale a

8 Per una visione storica complessiva della filosofia della mente, almeno fino a un certo periodo, cfr. l’eccellente studio di S. MORAVIA, L’enigma de la mente, Laterza, Roma-Bari 1988.

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ogni persona, secondo una prospettiva fenomenologica iniziale, comune a tutti e

sempre presente nell’autopercezione. In questo senso, in rapporto al tema che ci

occupa, il dualismo appare come la posizione più popolare e tradizionale.

Il dualismo dell’uomo comune, naturalmente, può essere influito

dall’educazione morale, religiosa, scientifica, filosofica, e sotto questo punto di vista è

condizionato dalle caratteristiche di ogni cultura. La civiltà semitica e greca, da cui

l’Occidente è debitore, ad esempio nei libri biblici, nell’ebraismo e nel cristianesimo,

è pervasa da un certo dualismo ontologico moderato. Appartiene alla cultura greca e

al semitismo ellenistico la convinzione dell’esistenza del corpo e dell’anima come

elementi diversi, al punto che l’anima, nella visione cristiana, è considerata immortale

e sussistente anche dopo la morte. Ma nel giudeo-cristianesimo il corpo è visto in

modo positivo, non come una sostanza legata al male o addirittura radice del male,

come invece avviene nel manicheismo e nelle concezioni gnostiche. Nella

terminologia religiosa giudeo-cristiana, il corpo da combattere non è il corpo in se

stesso, ma i desideri sensitivi disordinati (concupiscenza, ambizione, orgoglio). In

questo senso San Paolo contrappone la carne allo spirito9. Paolo non è dualista nel

senso di negare valore al corpo. La fede cristiana, nel sostenere l’incarnazione del

Verbo di Dio e la risurrezione della carne, valuta positivamente la corporeità.

Ci sono molte modalità di dualismo antropologico10. Il dualismo moderato

considera l’anima e il corpo come due cose o sostanze, ma non necessariamente nega

la loro unità tramite rapporti interattivi. Un dualismo radicalizzato, invece, concepisce

l’uomo come identico alla sua anima e vede nel corpo il domicilio provvisorio

9 Cfr. Gal 5, 16 ss. 10 Cfr. sul tema J. Seifert, Das Leib-Seele-Problem und die gegenwärtige philosophische Diskussion, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, pp. 158-162, con un’utile precisazione sui diversi tipi di dualismo. Seifert si riconosce dualista, con una posizione propria che non vede il corpo in modo negativo né accidentale. La persona umana, secondo questo autore, è una sola sostanza costituita da due sostanze, una spirituale e l’altra materiale (il corpo organico). Seifert trova certe difficoltà nella nozione di anima umana come forma del corpo (cfr. pp. 215-223) e quindi adopera un’ontologia che, a nostro parere, non è del tutto soddisfacente e non riesce a dar ragione di molti aspetti dell’unità dinamica anima/corpo. La sua posizione corrisponde alla tradizione spiritualistica cristiana arricchita dal personalismo, senza però accogliere pienamente la tesi tomistica dell’anima umana come forma del corpo umano. San Tommaso in S. Th., I, q. 75 si esprime sull’uomo come “composto da una sostanza spirituale e da una sostanza materiale”, ma solo per usare una formulazione neutra introduttiva, non nel senso di sostenere una tesi vera e propria.

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dell’anima, perfino il suo carcere o un’istanza opposta ai suoi interessi, quindi radice

del male. Secondo la teoria della trasmigrazione, le anime possono reincarnarsi in una

successione di corpi, nei quali trovano soltanto una sede estrinseca.

Il dualismo dei filosofi, più sofisticato e preciso, ammette molte varianti. Il

dualista classico per antonomasia è Platone. Le tesi filosofiche dei dualisti tentano di

spiegare in che senso sono diversi il corpo, l’anima e lo spirito (alcuni distinguono

due livelli sopracorporei, per cui si parla di “trialismo”), per poi affrontare il compito

di illustrare la loro interazione.

Il dualismo cartesiano oggi è ritenuto (forse un po’ ingiustamente) come

emblematico della posizione dualistica. Questa nuova posizione opera ormai in un

ambiente moderno, dove la spiegazione fisica di stampo galileiano o cartesiano è

divenuta il paradigma della scientificità. Il dualismo di Cartesio abbandona la nozione

aristotelica di anima come forma o atto sostanziale del corpo. L’anima umana viene

presa piuttosto nella linea dell’attestazione fenomenologica della coscienza. Si

comprende così il motivo della progressiva sostituzione del termine anima per mente.

Il corpo, quindi, non è ormai il corpo informato dall’anima, presentandosi come una

macchina autonoma che funziona secondo le leggi della natura. La separazione

ontologica di anima e corpo diventa così molto forte e include una separazione

epistemologica fondamentale. Nasce dunque il problema di come un evento cosciente,

non fisico (l’atto della coscienza), possa essere in grado di trasmettere movimento agli

ingranaggi meccanici del corpo.

La perdita della nozione di anima non significa dunque la scomparsa del

dualismo nella filosofia contemporanea. Al contrario, in un certo senso la filosofia e

la scienza moderna comportano un profondo dualismo, più epistemologico che

metafisico. Tutto ciò che corrisponde al pensiero, alla coscienza, alla persona e

all’esistenza umana spesso viene considerato come appartenente al dominio della

filosofia (fenomenologia, esistenzialismo, ermeneutica). A ciò si contrappone quanto

corrisponde all’organismo umano,visto nel quadro della biologia, quindi secondo

canoni deterministici e non di rado secondo il principio di “causalità fisica chiusa”

(ogni evento fisico deve avere una causa antecedente fisica). La neurologia rafforza,

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in molti autori, questa concezione chiusa del corpo umano11. Il dualismo

epistemologico è implicito, ad esempio, nella distinzione diltheyiana tra “scienze

dello spirito” e “scienze naturali”. La psicologia moderna, in questo senso, è stata una

scienza metodologicamente incerta, fluttuante tra una visione spiritualista dei

fenomeni psichici e una prospettiva naturalista, subordinata ai canoni delle scienze

naturali (si pensi alle incertezze di Husserl o Wittgenstein sulla natura della

psicologia).

Il dualismo moderno, quindi, è di natura fondamentalmente epistemologica. Per

questo motivo talvolta è collegato alla contrapposizione forte tra la filosofia e la

scienza. Nella sua radicalità epistemica, il dualismo moderno favorisce il passaggio ai

monismi. L’autonomia chiusa della neurobiologia, accentuatasi nel positivismo e

negli indirizzi “scientisti”, prepara la concezione monista materialista. La

svalutazione della conoscenza scientifica e il primato della filosofia, nel senso

dell’idealismo, fa inclinare la bilancia, invece, in favore del monismo spiritualista.

Una posizione vicina al dualismo è il parallelismo psicofisico. La differenza con

il dualismo è che il parallelismo abbandona il problema dell’interazione tra il fisico e

il mentale. Il rapporto tra il mentale e il fisico si vede spesso in termini di

“coordinamento”. L’atto psichico di vedere, ad esempio, sarebbe corrispondente al

funzionamento biologico dell’occhio. Per alcuni autori parallelisti, l’anima sarebbe

“ben coordinata” con i movimenti del corpo.

In altri tempi il parallelismo era di natura ontologica, come nell’occasionalismo.

Oggi è più frequente il parallelismo epistemologico, pur senza l’uso di questa

denominazione. È facile arrivare a sostenere, ad esempio, che gli atti mentali

sarebbero tali secondo una descrizione psicologica, benché ciascuno di essi avrebbe

un correlato fisico (neurologico), per cui potrebbe essere pure oggetto di una

descrizione neurologica.

In questa impostazione del problema si pone in primo piano la questione della

correlazione tra il fisico e il mentale. Ad esempio si parla di emozioni reali che

11 Per David Braine, questa è una concezione astratta o riduttiva del corpo: cfr. The Human Person: Animal and Spirit, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1992.

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avrebbero un correlato nella dinamica cerebrale. Il senso in cui la correlazione venga

interpretata può comportare ancora un dualismo, oppure uno spostamento verso il

monismo. L’insistenza sulla duplicità delle descrizioni può far pensare che, in fondo,

ci sarebbe un unico fenomeno, suscettibile di una descrizione psicologica o di una

descrizione neurofisiologica.

Secondo alcuni studiosi, la descrizione psicologica sarebbe importante per la

comunicazione umana. La “psicologia popolare”, in altre parole, sarebbe utile in

questo senso, ma la vera spiegazione sarebbe neurologica (il “monismo anomalo” di

Davidson è vicino a questa posizione12), così come per capirci parliamo delle cose in

termini fenomenologici e non scientifici, pur sapendo che la vera spiegazione si trova

nelle scienze sperimentali (fisica, chimica).

2. Monismo spiritualista

Per il monismo l’anima e il corpo sarebbero la stessa cosa, forse visti in maniera

diversa. Ma l’equiparazione tra anima e corpo può favorire uno dei due termini

dell’identità. Il monismo spiritualista non è una posizione molto diffusa e, in un senso

rigoroso, tra i filosofi più noti è stata sostenuta solo da Berkeley. Secondo il principio

immanentistico di Berkeley, i corpi sarebbero oggetti osservati da una coscienza.

Naturalmente, qualsiasi posizione filosofica in cui la nozione di corpo entri in crisi

sarà propensa alla riduzione della realtà allo spirito. Nell’idealismo occidentale tale

riduzione si compie tramite una via gnoseologistica.

Una forma vicina al monismo spiritualista è il panpsichismo, secondo il quale le

realtà inferiori alla vita umana e animale avrebbero una forma di psiche (in un modo

simile, alcuni autori hanno parlato di una intelligenza cosmica).

Tralasciando le vecchie mitologie animiste, l’attribuzione di psiche o di anima

alle cose inanimate e ai vegetali, come oggi fa l’australiano Chalmers13, è un segno

della debolezza di un’ontologia che consente di vedere ragione, intenzioni o coscienza

12 Cfr. D. Davidson, Azioni ed eventi, il Mulino, Bologna 1992. 13 Chalmers in un primo momento può sembrare dualista, dal momento che rivendica con validi argomenti l’irriducibilità della coscienza ad atti di altro genere. Ma alla fine egli estende la coscienza ad ogni entità dell’universo capace di contenere informazione: cfr. The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford 1996.

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in qualsiasi tipo di realtà. Dietro certe forme di apparente panpsichismo

contemporaneo non di rado si cela il materialismo (come quando si parla di geni

“intelligenti”). In altri casi, l’estensione indiscriminata di proprietà intenzionali a

quanto manifesta auto-organizzazione e finalità indica, per contrasto, la necessità di

un uso adeguato e non selvaggio della terminologia intenzionale. Certi autori oggi

attribuiscono facilmente intelligenza, capacità concettuale e ragionamenti agli

animali. Altri non vedono problemi nell’assegnare coscienza ai robot dotati

d’intelligenza artificiale. Anche alla vita e perfino all’intero cosmo è stata attribuita

una forma oscura di intelligenza.

Una filosofia della natura carente può essere la causa di queste bizzarre

posizioni. La presenza di finalismo e di ordine razionale nel mondo naturale non ha

sempre lo stesso senso. Gli antichi -perfino Tommaso d’Aquino- parlavano un po’

metaforicamente di un “appetito naturale” e di un “amore naturale” per cui tutte le

cose tendevano ai loro fini naturali. Tale appetito non era un vero desiderio né una

reale tendenza. La pietra non cade perché ama cadere nei suoi “luoghi naturali”.

Eppure la pietra, nel cadere secondo leggi precise, manifesta l’ordine intelligibile

della natura. Agendo in tal modo, essa contribuisce all’armonia del cosmo. La lezione

da trarre da queste attribuzioni indiscriminate di tendenze e di razionalità ad ogni cosa

che agisce in un modo razionale è la necessità di impiegare categorie ontologiche

adeguate e di contare con il significato analogico dei termini.

Il monismo spiritualista tende a una concezione unitaria di tutta la realtà, ma

non secondo la linea della materialità. In qualche modo, questo monismo può

presentare una certa finezza intellettuale e, sebbene sia molto minoritario nella

cultura, si comprende che sia tipico di alcune mentalità filosofiche. Molti antichi

provarono una particolare propensione nei suoi confronti, in quanto certe distinzioni

ontologiche e concettuali non erano ancora maturate in determinate culture (basti

pensare alla nozione imprecisa di corpo e di spirito nello stoicismo e nel

neoplatonismo). Il dualismo radicale cartesiano, invece, è un risultato estremo della

mentalità scientifica caratteristica della cultura occidentale.

Le perfezioni trascendentali -l’essere, l’unità, il bene, l’intelligibilità, la

bellezza- e altri aspetti affini ai trascendentali, come l’ordine, le relazioni, la causalità

ordinata, si trovano dappertutto nell’universo. Ma non sono identiche in tutti i casi e

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perciò non vanno prese univocamente. La vita artificiale non è la vita naturale.

L’intelligenza di un animale, di una società o di un robot umanoide non sono

“intelligenze” nello stesso senso. Di qui l’urgenza di un’ontologia capace di rendere

conto delle distinzioni forti presenti nella conoscenza comune.

3. Comportamentismo

La posizione comportamentista psicologica fu una reazione contro la psicologia

introspezionistica. Com’è noto, il progetto comportamentista (inizi del XX secolo) era

di ridurre i contenuti psichici “interioristici” a schemi di comportamento esterno,

secondo la struttura di “stimolo ambientale/risposta comportamentale” acquisita

tramite l’esperienza (apprendimento). La fame, la sete, il dolore, andrebbero

interpretati in termini di atti esterni, scientificamente analizzabili e possibilmente

riducibili a leggi, secondo il metodo abituale delle scienze sperimentali (ipotesi e

verificazione). La sequenza stimolo-risposta presa in considerazione era spesso di tipo

fisiologico.

Il comportamentismo psicologico è debitore del verificazionismo

epistemologico. Nella misura in cui a partire da presunte leggi fenomeniche si è

cercato di risalire a ipotesi causali più profonde (ad esempio, predisposizioni ad agire

in un certo modo), il comportamentismo si è affievolito. La psicologia cognitiva, nata

come reazione contro il comportamentismo (seconda metà del XX secolo), dimostrò

la pertinenza del ricorso a rappresentazioni e a stati interiori cognitivi ed emotivi allo

scopo di spiegare il comportamento intenzionale esterno (linguaggio e atti umani).

Il comportamentismo filosofico (Ryle), a sua volta, cercò di spiegare il

vocabolario psicologico interioristico (atti privati, accessibili solo all’io), tipico del

cartesianesimo, in termini di gruppi di atti esterni e pubblici (insieme alle

disposizioni), non tanto nel senso di una descrizione scientifica, bensì piuttosto nella

linea della fenomenologia ordinaria della condotta esterna14. Questo indirizzo

filosofico attirò l’attenzione verso i rapporti degli stati cognitivi ed emotivi con

l’attività esterna del soggetto, nella quale quegli stati si dimostrano effettivi, così

come l’ira si esprime in azioni esterne -attacco personale, vendetta-, o come qualcuno

14 Cfr. G. Ryle, The Concept of Mind, Hutchinson of London, Londra 1949.

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16

dimostra di avere intelligenza nell’abilità per compiere mosse intelligenti concrete.

L’idea di tralasciare la realtà degli atti psichici interiori -dolore, sensazione,

intenzione, volere-, chiamati qualia nella filosofia della mente quando sono

sensazioni, non è convincente. Nessun insieme di atti esterni può rendersi equivalente

a un atto interno. Gli atti interni possono manifestarsi in modi molto contingenti. Essi

non hanno una manifestazione esterna univoca che possa servire per definirli. Ciò che

veramente spiega una determinata condotta esterna umana è la motivazione del

soggetto. Se prendo un medicinale, normalmente è perché desidero guarire da un mal

di testa (desiderio, dolore). I comportamentisti a volte riconoscono la disposizione o

predisposizione come fattore che rende conto degli atti pubblici. Ma ciò non basta. Le

disposizioni a compiere determinati atti, nei soggetti che agiscono intenzionalmente,

sono proprio le rappresentazioni, le emozioni, le ragioni (in quanto stati abituali).

4. Neurologismo ed emergentismo

a) Teoria dell’identità

Il dualismo fisico/mentale potrebbe risolversi, secondo alcuni autori,

nell’identità in favore degli atti fisici. Il presunto atto mentale (idea, emozione,

sentimento) non sarebbe altro che un atto fisico complesso di tipo nervoso.

Lo sviluppo della neurologia rende attrattiva questa ipotesi. La scoperta delle

localizzazioni cerebrali delle funzioni superiori (linguaggio, memoria, percezione,

emozione, coscienza) favorisce l’idea secondo la quale i fenomeni psichici non

sarebbero altro che un’attività nervosa sofisticata. Inizialmente questo fenomeno

sarebbe inavvertito, come avviene in tante realtà fenomeniche la cui spiegazione

fisico-chimica si scopre posteriormente grazie al progresso scientifico. La variabilità e

le anomalie dei comportamenti psichici sarebbe spiegata in un senso veramente

scientifico in base alle condizioni dinamiche delle trasmissione neurali: reti neurali,

associazioni tra aree del cervello, computazioni neurali, caratteristiche delle sinapsi.

La psicologia (cognitiva, comportamentista) sarebbe solo descrittiva. La spiegazione

profonda della psiche sarebbe situata a livello neurofisiologico. Per questo motivo il

problema filosofico del rapporto “mente-corpo” spesso è indicato in termini di

rapporto mente-cervello. Per il neurologismo, l’attività mentale è “ciò che fa il

cervello”. La mente sarebbe semplicemente il funzionamento complessivo del

Page 17: Sanguineti - Filosofia Da Mente

17

cervello o del sistema nervoso come un tutto. Questa tesi, come posizione filosofica è

stata denominata teoria dell’identità (noi preferiamo il nome di neurologismo). È stata

sostenuta, ad esempio, da H. Feigl, U. Place e J. J. Smart e, in un grado più sofisticato

e vicino al funzionalismo, da D. K. Lewis e D. Armstrong.

Il neurologismo ha una parte della verità, dal momento che molte funzioni

psicologiche (sensazioni, percezioni, passioni) sono veramente causate da eventi

neurofisiologici. Questa causalità è parziale e, in linea di massima, nell’aristotelismo

sarebbe una causalità materiale, almeno per quanto si riferisce alla conoscenza

sensitiva. Bisognerebbe vedere, poi, il tipo di rapporto esistente tra pensieri, atti liberi

e attività cerebrale.

Ci sono qui due questioni: 1. Problema descrittivo: è possibile ridurre il

pensiero, la volontà, le emozioni, all’attività elettrochimica cerebrale? 2. Problema

causale: si può dire che il pensiero, l’amore, le credenze, siano semplicemente causati

dall’attività elettrochimica del sistema nervoso? La risposta del neurologismo a queste

domande è affermativa. Alcuni sostengono pure la tesi fortemente anti-intuitiva

secondo cui gli stessi qualia sarebbero irreali: un dolore non sarebbe altro che attività

elettrochimica. Il dolore psichico non esisterebbe.

Numerose critiche a questo tipo di riduzionismo si sono limitate a rivendicare,

in modi anche ingegnosi, l’ovvia esistenza degli atti interiori o atti di coscienza. La

causa di questo radicalismo riduttivo sembra essere epistemologica. I neurologisti non

conoscono altra scienza all’infuori delle scienze naturali: fisica, chimica, biologia.

“Spiegare” una realtà superando i parametri delle scienze sperimentali non sarebbe

scientifico. Ma la spiegazione scientifica delle scienze naturali, se non si ammettono

altre dimensioni ontologiche ed epistemologiche, è inevitabilmente riduttiva.

I sostenitori della teoria dell’identità neurologistica sembrano vivere una sorta

di schizofrenia epistemologica. Sono consapevoli di avere un’attività mentale, grazie

alla quale comprendono e insegnano le loro teorie, ma non sono in grado di spiegare

la realtà psichica umana se non in termini neurologici, per cui sono costretti ad essere

riduttivisti, appellandosi però al sostegno di una teoria epistemologica.

Il neurologismo si trova sempre nella scomoda situazione di aver a che fare con

la realtà intuitiva costantemente presente della coscienza, che comunque va

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18

emarginata dal quadro scientifico, negata o reinterpretata. Questo fatto provoca

l’incessante necessità di costruire teorie alla fine di “spiegare” perché crediamo di

pensare, di amare, di volere, quando in realtà non saremmo altro che entità fisico-

chimiche. È sottinteso il pregiudizio secondo cui non ci potrebbe essere niente al di

sopra dell’esistenza fisica, o che comunque tutto sarebbe dovuto a cause fisiche, sia

pure molto complesse. Talvolta questa tesi viene proposta come una novità della

scienza più recente, il che non è vero: siamo semplicemente davanti a

un’interpretazione filosofica.

Un modo molto radicale di essere neurologisti è il cosiddetto eliminativismo

(coniugi Churchland: Paul e Patricia Churchland15). Gli eventi mentali

apparterrebbero alla “psicologia popolare”, ridotta alla categoria della spiegazione

prescientifica, così come ci riferiamo al mondo fisico in maniera popolare, ma

sbagliata, dicendo “il sole si muove” o “le stelle sono punti luminosi del firmamento”.

A un livello esplicativo, la fraseologia neurologica dovrebbe sostituire a poco a poco

la terminologia fenomenologica. La sostituzione è qui una eliminazione. Dire “faccio

questo perché voglio” potrà avere un senso popolare, ma la vera spiegazione di questa

impressione sarebbe neurofisiologica.

Alcuni filosofi materialisti hanno cercato di giustificare l’uso del “linguaggio

mentalista”, con l’idea di garantire uno spazio di autonomia alla psicologia. Si è

tentato di legittimarlo, ad esempio, proponendo che gli “arnesi mentalisti” sarebbero

costruzioni teoriche, simili alle ipotesi causali inosservabili della fisica e magari anche

utili a scopi scientifici, linguistici o rappresentativi (ci avviciniamo così al

funzionalismo). In questa linea sembra profilarsi la proposta di Dennett della

intentional stance (“atteggiamento intenzionale”) che consente di “attribuire” stati

mentali anche agli animali e alle macchine (robot o altro)16. Così si prende in prestito

una categoria della filosofia della scienza, spesso interpretata in senso

strumentalistico, per dar ragione della convenienza di non abbandonare del tutto il

linguaggio mentalista. Ciò che è più ovvio (le nostre sensazioni, idee, intenzioni)

15 Cfr. P. S. Churchland, Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind/Brain, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1986; P. M. Churchland, The Engine of Reason, the Seat of the Soul, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1996; Matter and Consciousness, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1998. 16 Cfr D. C. Dennett, L’atteggiamento intenzionale, il Mulino, Bologna 1993.

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diventa adesso, paradossalmente, un costrutto teorico che al massimo potrebbe essere

felicemente utile.

Le conseguenze del neurologismo, se fossero prese con coerenza, potrebbero

essere anche totalitarie. Ogni attività umana di tipo morale, religioso, politico,

artistico, scientifico, dovrebbe sottostare al primato della neurologia, con conseguenze

talvolta inquietanti di carattere educativo e giuridico. Non a caso si è parlato di

neurofilosofia (Patricia Churchland). Talvolta si impiega persino anche troppo il

prefisso neuro in formule come neuroetica, neuroreligione, neuroestetica, e altro.

b) Biologismo neurale

Le restrizioni linguistiche e concettuali della teoria dell’identità non sono

necessarie per sostenere una visione neurologista. Alcuni autori, specialmente in

campo neurologico anziché filosofico, riconoscono volentieri livelli psichici elevati

(emozioni, concetti), solo che ne danno un’interpretazione prevalentemente

neurologica. La loro visione non corrisponde a una scuola filosofica elaborata, quanto

piuttosto ad una cosmovisione di tipo biologista neurale, sostenuta talvolta con

l’entusiasmo provocato dai successi della neuroscienza negli ultimi decenni. Il

biologismo prevale specialmente nei nostri giorni, dopo la crisi (relativa) del

funzionalismo computazionale che vedremo più avanti. Di solito questi autori

criticano sia il comportamentismo che il computazionalismo, posizioni considerate

insufficienti in quanto hanno emarginato l’importanza della biologia.

Studiosi in questa linea oggi molto noti sono, ad esempio J. P. Changeux17 e M.

S. Gazzaniga18, fortemente neurologisti. Altri meno radicali, anche se tendenzialmente

materialisti, eppure molto validi per le loro ricerche neurologiche, sono A. Damasio19

17 Una sua opera molto conosciuta è stata L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano 1988. 18 Cfr., tra altri suoi scritti, La mente inventata, Guerini, Milano 1999. 19 Cfr., ad esempio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000; Alla ricerca di Spinoza, Adelphi, Milano 2003.

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20

e G. Edelman20. Più aperto ad una visione non riduttiva ci sembra, invece, J.

LeDoux21.

Alcune posizioni di questi esponenti della scienza sarebbero compatibili con

l’emergentismo che vedremo in seguito. Le indicazioni scientifiche proposte da questi

ricercatori sulla coscienza, il linguaggio, le emozioni, e tante altre tematiche che

stanno tra la neuroscienza e la psicologia, sono importanti. Non è accettabile, invece,

l’eventuale tentativo di alcuni di essi di rendere conto in modo radicale della morale,

della religiosità o, più in generale, del comportamento umano in tutte le sue

dimensioni. La neurologia offre una piattaforma di base all’antropologia, ma non è il

suo nucleo essenziale. Tutto ciò che sia scientificamente corretto in questi studi,

comunque, è compatibile con la visione della filosofia della mente proposta in questo

libro.

c) Emergentismo

Secondo questa posizione filosofica, la complessità organica nervosa

produrrebbe delle proprietà olistiche superiori, non deducibili dalla somma delle parti

dell’organismo, analogamente al fenomeno per cui, da molte entità microscopiche

emergono delle proprietà macroscopiche dei corpi, le quali in un certo senso sono

“nuove” rispetto alle proprietà delle singole parti. Lo stesso si potrebbe dire riguardo

alle proprietà della vita. Così, i tratti della vita “emergerebbero” da una determinata

complessità chimica. Questa posizione è l’emergentismo. È sostenuta, ad esempio, da

Mario Bunge22.

Il novum “emergente” dal basso, secondo queste teorie, si avvicina in parte alla

nozione di forma aristotelica, almeno in un senso largo. Evidentemente un edificio

possiede una struttura propria, suscitata dall’ordine tra i mattoni e gli altri componenti

materiali della costruzione. Ma la proprietà olistica, in quanto intreccio di relazioni,

non gode del livello ontologico dell’atto sostanziale aristotelico. La proprietà olistica

20 Cfr., Il presente ricordato, Rizzoli, Milano 1991; Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993; insieme a G. Tononi, Un universo di coscienza, Einaudi, Torino 2000. 21 Cfr. J. LeDoux, Il Sé sinaptico, Cortina, Milano 2002; Il cervello emotivo, Baldini & Castoldi, Milano 1999. 22 Cfr. M. Bunge, The Mind-Body Problem. A Psychobiological Approach, Pergamon Press, Oxford 1980.

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non ha un ruolo causale riguardo al livello inferiore. La “forma” di una casa o di una

statua è irriducibile alle parti e dà loro un senso, ma non organizza la loro struttura. La

forma del tutto serve soltanto da criterio all’artista per la configurazione della sua

opera. La causalità formale aristotelica invece è un principio forte, cui fa capo la

strutturazione globale dell’individuo di una specie data.

Altri filosofi emergentisti riconoscono a certe configurazioni della materia la

capacità di suscitare (come la eductio formae della scolastica) atti veramente nuovi e

non semplici proprietà olistiche. Questa posizione è sostenuta, ad esempio, da Popper,

Margolis23 e probabilmente da Searle. È in questo modo come, secondo Popper, la

vita sorge dalla non-vita, la coscienza procede dalla vita e la mente umana emerge

dalla vita animale. L’emergentismo di Popper si ricollega al dualismo (dualismo

emergentista). I livelli superiori (coscienza, libertà) esercitano un controllo sui livelli

inferiori. Tra mente e corpo vi sono vere interazioni. L’emergentismo di Popper non è

materialista: la mente sorge dell’evoluzione, ma è diversa dalla realtà fisica. La sua

comparsa è quasi una creazione o un miracolo della natura24. Invece l’emergentismo

olistico è materialista, in quanto la mente si riduce alle proprietà olistiche del sistema

nervoso.

Nell’emergentismo di John Searle25, l’organizzazione e il dinamismo cerebrale

causano i fenomeni mentali (la coscienza, la soggettività e le sensazioni sono vere

qualia). Non sappiamo spiegare bene come si produce questo salto, ma esso

comunque è un evento reale di natura biologica. In difesa della realtà dei qualia (una

realtà “di prima persona”, non di “terza persona”), Searle ha sviluppato argomenti

formidabili contro il comportamentismo, il neurologismo, l’emergentismo olistico e,

infine, contro il funzionalismo (posizione che vedremo in seguito), cioè egli si è

opposto a ogni forma di riduzionismo che elimini la soggettività. Il dolore, ad

esempio, è una qualità soggettiva reale sofferta dal soggetto, non una semplice

23 Cfr. J. Margolis, Persons and Minds, Reidel, Dordrecht 1978. 24 Per Popper, la realtà psichica (mondo 2) è completamente diversa dal mondo materiale (mondo 1). Pensieri, opinioni, desideri, io, coscienza, non sono cose materiali. Cfr. K. Popper, J. C. Eccles, L’io e il suo cervello, Armando, Roma 1981; K. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972; Conoscenza oggettiva, Armando, Roma 1975. 25 J. Searle, Mente, cervello, intelligenza, Bompiani, Milano 1988; The Rediscovery of the Mind, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992; Consciousness and Language, Cambridge University Press, Cambridge 2002.

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caratteristica del tutto organico, presa in terza persona26. Lo stesso si può dire dell’io,

non identico alla struttura olistica del cervello. Searle rifiuta di essere considerato

dualista: la coscienza non è una proprietà separata dal cervello, ma è ad esso legata in

maniera intrinseca e unitaria, così come il carattere liquido o solido di una sostanza

“emerge” dai rapporti causali delle sue molecole27. La sua posizione, a differenza di

quella di Popper, è materialista28: gli stati mentali o soggettivi sono stati fisici “di alto

livello”, irriducibili a stati fisici non soggettivi, e sono spiegabili dalla causalità

cerebrale29.

d) Sopravvenienza

La tematica dell’emergenza degli stati mentali a partire dagli eventi nervosi è

stata affrontata dai filosofi della mente con la categoria della sopravvenienza.

Accettando la dualità problematica di eventi fisici ed eventi mentali, alcuni autori

(Kim30, Davidson31, Chalmers) propongono una loro reciproca correlazione, nel senso

che un soggetto con proprietà fisiche F (neurologiche) avrebbe in un modo

perfettamente correlato una serie di proprietà mentali M. Quindi due soggetti

fisicamente indiscernibili sarebbero psicologicamente indiscernibili. Si dice, allora,

che le proprietà M “sopravvengono” sulle proprietà F, poiché queste ultime

determinano l’apparire di M. Proprio come avviene nell’emergentismo, sono le

proprietà fisiche a determinare l’apparizione delle proprietà “più alte” (mentali), così

come la disposizione delle parole e delle frasi di un’opera letteraria determina il

26 Una descrizione “in terza persona” è oggettiva, indipendentemente da fenomeni soggettivi (così sono tutte le descrizioni fisico-chimiche e matematiche). La descrizione “in prima persona” si riferisce a una soggettività che la sente come propria. Per Searle, i fenomeni soggettivi sono reali (“epistemologicamente oggettivi”), ma se tentiamo di ridurli a fenomeni oggettivi (“ontologicamente oggettivi”) semplicemente li eliminiamo. 27 “L’esistenza della coscienza può essere spiegata dalle interazioni causali tra gli elementi del cervello a livello microfisico” (The Rediscovery of the Mind, cit., p. 112). 28 Searle è materialista in quanto non riconosce l’esistenza di uno spirito capace di essere indipendente dalla materia (l’anima umana immortale). Il materialismo neurologista di altri filosofi della mente consiste nella negazione, inoltre, degli atti soggettivi (sensazioni, pensieri, emozioni, io). Questi autori temono, a ragione, che il riconoscimento degli atti soggettivi scuota il primato assoluto della fisica e che, quindi, alla fine favorisca l’affermazione di una realtà metafisica o spirituale. 29 Per Searle la neurologia oggi non è capace di spiegare come dal cervello sorge “causalmente” la mente, ma un giorno potrebbe farlo. Per il momento, la coscienza rimane “un mistero”. 30 Cfr. J. Kim, The Philosophy of Mind, Westview Press, Boulder (Colorado) 1996. 31 Cfr. D. Davidson, Azioni ed eventi, cit.

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“sopravvenire” delle sue qualità artistiche o letterarie.

La sopravvenienza (supervenience) di per sé è una correlazione

monodirezionale: non è l’evento mentale a determinare l’evento fisico, ma viceversa.

Si applica molto bene al solito esempio del dolore: ovviamente, non è che il dolore

causi una stimolazione nervosa, ma piuttosto la stimolazione nervosa causa tale

sensazione. Ma non è così facile dire altrettanto degli stati mentali più alti, come

un’emozione o un pensiero.

La relazione di sopravvenienza può essere interpretata in molti modi, a seconda

del tipo di “realtà ontologica” ammessa dagli autori per gli stati mentali o soggettivi32.

Nel neurologismo radicale lo stato mentale “sopravveniente” è identico alla base

neurale. Nel funzionalismo, come vedremo adesso, lo stato mentale possiede la

categoria di una funzione. In Searle, la sopravvenienza è interpretata in un senso

causale: la base cerebrale provoca la comparsa degli stati mentali.

5. I funzionalismi

a) Computazionalismo

L’emergentismo e il principio della sopravvenienza sono vicini alla proposta

funzionalista. Questa corrente nacque in occasione dello sviluppo delle scienze

cognitive. Queste ultime superarono i divieti comportamentisti di non indagare sulla

“scatola nera” della mente interiore, grazie alla descrizione e spiegazione degli eventi

mentali sulla base dei modelli computazionali. La mente viene presa qui secondo

l’analogia del software di un computer, cioè come un programma o un metodo di

elaborazione e di trasmissione dell’informazione. Le due scienze principali del

cognitivismo -con influssi reciproci- sono la scienza computazionale e la psicologia

cognitiva33.

32 Cfr., per una discussione dell’argomento, N. Murphy, Supervenience and the Downward Efficacy of the Mental: a non Reductive Physicalist Account of Human Action, in R. J. Russell et al. (ed.), Neuroscience and the Person. Scientific Perspectives on Divine Action, Vatican Observatory Publications, Vatican City State 1999, pp. 147-164; J. Seifert, Das Leib-Seele-Problem und die gegenwärtige philosophische Diskussion, cit., pp. 74-76. 33 Oggi il cognitivismo psicologico segue altre strade. In questo paragrafo ci riferiamo al cognitivismo nel suo “periodo classico” (ultimi decenni del XX secolo). Come scuola psicologica, il cognitivismo reagì contro il comportamentismo, riconoscendo la realtà degli

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24

La posizione funzionalista intende reagire contro la riduzione degli stati mentali

a semplici stati neurologici o ad atti del comportamento. Occorre riconoscere agli stati

mentali un certo statuto autonomo. Una prima versione di funzionalismo, avviata da

Hilary Putnam (poi abbandonata da questo filosofo), prende la forma forte di

funzionalismo computazionale. Così come la macchina computazionale possiede certi

“stati interni” di tipo funzionale, non riducibili alle sue parti fisiche o elettroniche

(programmi, sequenze di simboli, memoria, istruzioni, operazioni di calcolo),

analogamente si potrebbe pensare alla nostra mente come una forma di

programmazione computazionale del cervello (il quale sarebbe l’hardware)34.

Veramente i computer sono stati creati seguendo un’analogia con i nostri

processi cognitivi, non all’inversa. L’input equivale all’arrivo di dati (come avviene,

ad esempio, nella sensazione), cui segue la loro elaborazione (processi talvolta simili

alla percezione, alle traduzioni e alle inferenze), poi la loro conservazione (memoria),

continuando fino agli output, così come la nostra mente arriva a conclusioni o

comanda azioni che configurano il nostro comportamento. I computer possono,

quindi, simulare, ma anche emulare e perfino sorpassare le riuscite delle elaborazioni

cognitive della nostra mente (calcoli, traduzioni, comando di azioni intelligenti). Da

qui è nata la tentazione del funzionalismo computazionale radicale, denominato anche

teoria dell’intelligenza artificiale forte. Secondo questa teoria non ci sarebbe alcuna

differenza di fondo tra la nostra mente o la nostra intelligenza e il funzionamento delle

macchine intelligenti (Minsky, Dennett)35.

Purtroppo il funzionalismo computazionale è una nuova versione del

riduttivismo. Esso prende gli stati soggettivi della mente come stati informatici di un

computer. Per questo motivo la tesi funzionalista è stata più convincente, almeno in

stati mentali (attenzione, percezione, memoria, emozioni, ragionamenti). L’avvicinamento alla scienza computazionale non è necessariamente una riduzione, ma piuttosto un’ispirazione, seguendo la metafora della mente come un computer. 34 Cfr. H. Putnam, Mind, Language, and Reality: Philosophical Papers, vol. 2, Cambridge University Press, Cambridge 1975, pp. 325-440; Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano 1993; Mente, corpo, mondo, il Mulino, Bologna 2003. 35 Cfr. M. Minsky, La società della mente, cit.; D. C. Dennett, L’atteggiamento intenzionale, cit.; M. Boden, Artificial Intelligence and Natural Mind, Harvester Press Lim., Brighton (Sussex) 1977; The Philosophy of Artificial Intelligence (ed.), Oxford University Press, Oxford 1989/90. Benché più moderata, Margaret Boden è vicina alla visione computazionalista della mente umana.

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parte, in rapporto ai processi puramente cognitivi (calcoli, soluzioni di problemi,

deduzioni), e molto meno in relazione a stati più ovviamente soggettivi, come i dolori,

le sensazioni o le emozioni. Un computer può compiere un vero calcolo (non come un

atto cognitivo, ma sì arrivando a un risultato corretto), mentre non può che imitare le

emozioni o l’io (dolore, angoscia, gioia, amore).

In termini generici, il funzionalismo comporta la riduzione degli atti o stati

mentali alle funzioni di una macchina, di un organismo, senza arrivare a parlare di atti

di un soggetto. In questo senso il funzionalismo sembra vicino all’emergentismo. Ma

il funzionalismo computazionale, come abbiamo detto, punta agli “stati interni” dei

computer tradizionali36. Questi stati sono informatici e simbolici. Il computer, in

questo senso, rassomiglia ad una mente non solo perché calcola o deduce, ma anche

perché elabora l’informazione tramite un linguaggio e una grammatica, facendo uso di

“categorie rappresentative”.

La possibilità di implementare i programmi computazionali su basi elettroniche

assai diverse (e anche di altro tipo) evidenziava l’esistenza di un abisso tra la “mente”

del computer e l’hardware. In questo senso, i funzionalisti difesero la tesi della

molteplice realizzabilità degli stati mentali, un punto che allontanò la teoria della

mente dalla base fisica. Il supporto nervoso appariva molto accidentale (così come il

contenuto di un libro è indipendente dalla materialità delle sue pagine).

Paradossalmente, il funzionalismo computazionale generò una sorta di nuovo

dualismo platonico. La “mente” era talmente indipendente dalla base materiale, che

poteva essere realizzata in ogni tipo di calcolatore, nei cervelli umani o in robot

quantistici del futuro. Da qui sono nate idee fantascientifiche oggi molto note, come

pensare alla possibilità che il “contenuto informatico” della nostra personalità un

giorno potrebbe essere preservato e trasferito a robot sofisticati o a fantomatici

computer cosmici del futuro (quasi una nuova forma di “reincarnazione delle anime”

e di “risurrezione”).

36 I computer tradizionali seguono la cosiddetta architettura di Turing o di von Neumann, basata sull’uso del simbolismo, cioè di una grammatica (regole sintattiche) contenuta nel programma. La computazione artificiale non simbolica segue invece l’architettura connessionistica (reti neurali): cfr. il nostro capitolo 6, n. 8.

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26

Queste idee bizzarre sono state favorite dalla confusione -o mescolanza

indifferenziata- tra le nozioni di sensazioni, atti intellettuali e contenuti del pensiero, i

quali spesso vengono presi in modo indistinto dai filosofi della mente37. È vero che i

contenuti oggettivi del pensiero sono immateriali e possono essere trascritti in molte

lingue, in libri stampati, in libri elettronici, e possono passare da una persona ad

un’altra, ma non è così per gli stati soggettivi. Non ha senso dire che un’emozione o

un atto di fede siano uno “stato informatico”38.

Il funzionalismo computazionale, in conclusione, pur sembrando un

superamento del riduttivismo neurale e comportamentale, contribuì a mettere in crisi

la distinzione tra mente umana e “mente” della macchina, tra intelligenza umana e

intelligenza artificiale. Così fece Turing quando accennò alla possibilità che la nostra

intelligenza non fosse qualcosa di essenzialmente diverso dalle funzioni

computazionali più alte dei calcolatori39.

John Searle, con il noto esempio della “stanza cinese” e con altre

argomentazioni, introdusse utilmente la distinzione tra intenzionalità intrinseca e

intenzionalità derivata40. L’intenzionalità intrinseca nasce da veri atti cognitivi.

Quella derivata, invece, è relativa a un osservatore (un interprete). Così come un libro

non contiene pensieri, ma i suoi simboli indicano contenuti che un lettore può capire

37 I protagonisti dei dibattiti della filosofia della mente tendono a prendere gli stati mentali come se fossero un unico genere, senza distinguere tra il livello sensitivo e il livello intellettivo. Questa consuetudine è fonte di non poche oscurità (un dolore fisico è molto diverso da un pensiero). Molti atti mentali vengono accolti dagli autori sotto la categoria degli atteggiamenti proposizionali (“credo che p”, “desidero che p”), dove il verbo principale (“credo”, “desidero”, “penso”) indica un atteggiamento mentale nei confronti di un oggetto indicato con una proposizione subordinata che serve da complemento oggetto della frase. Ma la nozione di atteggiamento proposizionale, pur essendo rilevante per la filosofia linguistica, non appare decisiva per la discussione gnoseologica o epistemologica. Più importante è distinguere tra la conoscenza sensibile e intellettuale. Ad esempio, vedere una casa è un atto della sensazione o della percezione visiva. Dire, invece, “vedo una casa”, esprime un giudizio, un vero atto intellettuale. 38 Il computazionalismo astratto suscitò, per reazione, nuovi orientamenti del cognitivismo, portando ad accentuare la dimensione esterna (“ecologica”) in cui la conoscenza è situata, nonché il tipo di corporeità dove la conoscenza è insediata: conoscenza dunque situata e incarnata (embodied knowledge). Il nuovo indirizzo si ripercuote sulla robotica, con la tendenza a creare, anziché “intelligenze artificiali generali”, agenti intelligenti artificiali situati e con un corpo adatto, competenti per certe funzioni. 39 Cfr. A. Turing, Computing Machinery and Intelligence, “Mind”, 59 (1950), pp. 433-460, dove si propone il celebre “test di Turing”. 40 Cfr. J. Searle, Consciousness and Language, cit., pp. 77-89, 106-129.

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27

(intenzionalità derivata), qualcosa di simile accade con il computer. Il linguaggio dei

programmi è tale solo in rapporto all’interprete umano. Una macchina o una serie di

cose materiali non possono avere una semantica, né una sintassi intrinseca, benché il

linguaggio sarà sempre materializzato in un supporto materiale. L’intenzionalità

relativa, quindi, è in funzione dell’intenzionalità intrinseca.

Le reti connessionistiche41, una modalità non simbolica di computazione,

apparentemente sfuggirebbero a quest’obiezione. Le critiche alla metafora del

cervello come un computer rilevarono che il sistema nervoso non computa in un

modo simbolico.

Ma anche qui bisogna fare una serie di distinzioni. I termini computazione e

informazione hanno sensi diversi. La computazione vera e propria è un metodo ideato

dall’uomo per eseguire calcoli tramite la manipolazione di simboli o, in una visione

ancora più generale, è il metodo per cui l’uomo è in grado di trattare (processing)

l’informazione attraverso la manipolazione di simboli42. Tale elaborazione consiste, in

definitiva, nella produzione di sequenze ordinate tra simboli secondo regole stabilite,

come si fa, ad esempio, in una traduzione o in un calcolo aritmetico (i passaggi tra le

sequenze sono le operazioni computazionali). Informazione in termini generali è, a

sua volta, l’ordine introdotto in una serie di elementi, disponibile per essere

trasmesso. L’informatica si occupa della trasmissione ed elaborazione

dell’informazione tramite il simbolismo (ad esempio, codificazione, decodificazione).

L’informazione e la computazione si riferiscono originariamente a processi

cognitivi (informare classicamente significa trasmettere una conoscenza). In modo

derivato, invece, quei termini alludono a operazioni simboliche automatiche delle

macchine (computer), indicate comunque tramite una terminologia cognitiva

analogica (“messaggio”, “memoria”, “inferenza”). Ma l’uomo scopre pure un ordine

dinamico nella natura. Egli può descrivere e calcolare tale ordine in termini astratti

(leggi, funzioni matematiche), anche in modo informatico e computazionale.

41 Cfr. il nostro capitolo 6, n. 8. 42 Nella computazione in senso stretto, questo processo è eseguito automaticamente da una macchina (“intenzionalità derivata”), anche se la mente umana può computare usando la sua ragione (“intenzionalità intrinseca”).

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28

In questo senso possiamo parlare, per analogia, di un comportamento

“intelligente” della natura, come se essa facesse dei calcoli matematici, e ugualmente

attribuiamo agli organismi un “codice genetico”, o diciamo che il cervello “compie

delle computazioni” nei processi neurali. Qualcosa di simile si verifica nelle reti

neurali artificiali. Il loro modo di computare imita i processi neurali di trattare

l’informazione, in modo separato però dagli atti veramente intenzionali. Non per

questo va sottovalutato l’ordine naturale non cognitivo. Analogamente, capiamo la

natura con la matematica, ma nel mondo fisico non c’è propriamente un ordine

matematico (come invece sostenevano i pitagorici). L’ordine del cosmo non è una

fotocopia della matematica, né viceversa.

Il funzionalismo computazionale non è stato capace di operare un discernimento

ontologico tra questi aspetti. Gli atti personali cognitivi non si possono confondere

con le operazioni simboliche o non simboliche di un ingegnoso processore di

informazione, né con i processi naturali ordinati, intelligibili ma non intelligenti,

“razionali” solo nel senso derivato in cui possiamo parlare della razionalità della

natura43.

b) Altri funzionalismi

Altri tipi di funzionalismo sono stati più moderati. Il funzionalismo

rappresentazionale (Fodor44) impiega il modello computazionale in senso largo,

piuttosto metaforico, anche se non privo di ambiguità. In una linea inaugurata dalla

psicolinguistica di Chomsky, il punto centrale di questo indirizzo è vedere i processi

della mente umana come una serie di rapporti “sintattici” tra rappresentazioni

(concetti), nel contesto di un linguaggio del pensiero (“mentalese”) costituito da

proposizioni mentali. In contrasto con l’eliminativismo neurologista, la psicologia

fodoriana segue da vicino la fenomenologia della folkpsychology. Veramente il

43 Un’altra difesa della realtà degli atti soggettivi, sia contro il computazionalismo che contro la teoria dell’identità, si trova in Th. Nagel, What Is It Like To Be a Bat?, “The Philosophical Review”, 83 (1974), pp. 435-450. Questo articolo ebbe un grande impatto tra i filosofi della mente. 44 Cfr. J. A. Fodor, La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Mulino, Bologna 1988; Psicosemantica. Il problema del significato nella filosofia della mente, il Mulino, Bologna 1990; The Elm and the Expert: Mentalese and Its Semantics, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1994.

Page 29: Sanguineti - Filosofia Da Mente

29

“linguaggio del pensiero” non sembra distante dal pensiero stesso, o almeno da alcune

delle operazioni mentali considerate dalla filosofia classica, come la formazione di

proposizioni mentali.

Il funzionalismo causale (per esempio, Davidson) prende gli atti mentali nel

loro ruolo causale rispetto ad altri atti mentali (desideri, credenze) o riguardo a istanze

non psichiche (gli stimoli ambientali causano atti mentali che portano a modificare la

condotta). Si apre così lo spazio a un’analisi psicologica autonoma nei confronti della

descrizione neurologica e comportamentale. Alcuni funzionalisti hanno discusso

tematiche epistemologiche o gnoseologiche, come la questione del contenuto

significativo degli stati mentali (intenzionalità e rapporto col mondo). Altri

funzionalisti (“teleologici”)45 collegano gli stati mentali a situazioni biologiche o a

funzioni organiche adattive emerse con l’evoluzione dei viventi. Ma non si arriva al

riconoscimento degli stati psichici come veri atti soggettivi, e tanto meno personali.

Il funzionalismo rivendica l’autonomia degli stati mentali dal punto di vista

epistemologico, ma è ontologicamente carente. Per timore di cadere nel dualismo, non

elabora una vera teoria ontologica e antropologica degli atti psichici. La pura

funzionalità è ontologicamente neutra e, senza le dovute distinzioni, può essere

sempre pensata come trasferibile alle macchine o agli animali.

6. Verso un ridimensionamento del dibattito “anima e corpo”

La questione “mente/corpo”, “mente/cervello”, è stata impostata nella filosofia

della mente in una prospettiva ristretta. I dibattiti in qualche modo si sono esauriti e

talvolta non solo non aprono orizzonti filosofici, ma li chiudono. Sono stati vivaci

nella misura in cui hanno accompagnato l’emergenza di nuovi approcci disciplinari e

interdisciplinari provenienti dal campo informatico e neuroscientifico. Ma alla fine

non lasciano spazio se non per lo sviluppo scientifico, senza donarci al contempo,

come ci si poteva aspettare dalla filosofia, la consolazione di una visione umanistica.

Epistemologicamente i dibattiti si sono svolti sotto il primato tacito delle

scienze. Il punto in comune dei contendenti è il rifiuto del dualismo cartesiano, che

45 Cfr. W. Lycan, Consciousness, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1987.

Page 30: Sanguineti - Filosofia Da Mente

30

appare agli interlocutori come la vecchia roccaforte di uno spiritualismo ormai

tramontato. Alcune voci contro il riduttivismo si sono alzate, ma nei limiti della

cornice epistemologica sopra indicata. Certe forme di riduttivismo sono state criticate

solo per venir sostituite da nuovi riduttivismi. La confusione ontologica è notevole,

come abbiamo notato, e contro di essa si alza soltanto la reazione del buon senso, utile

ma non sufficiente.

Uno degli autori più efficaci nella critica antiriduttivista è stato John Searle46.

Eppure, a nostro avviso neanche Searle riesce a superare i limiti della filosofia della

mente standard. Nelle sue argomentazioni egli difende l’irriducibilità della coscienza,

andando così, coraggiosamente, contro il centro di gravità della filosofia della mente

degli autori più rinomati. Ma la sola rivendicazione della coscienza non basta. Una

visione neurologica che si occupi della coscienza sarà interessante, ma non

sufficiente. Manca in Searle quello che manca nell’impostazione generale della

filosofia della mente: una vera dimensione metafisica e antropologica dei problemi.

Senza di essa, l’affermazione della realtà della coscienza si mantiene a livello

biologico e così, in un certo senso, si banalizza.

Sembra strano che nel quadro delle posizioni filosofiche elencate sia assente

l’aristotelismo o il tomismo47. La sua assenza è un fatto storico e culturale che in

46 Un altro autore antiriduzionista è Th. Nagel (cfr. Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, Milano 1988). Nagel si accorge delle enormi difficoltà concettuali presenti nella filosofia per capire la soggettività e si oppone al riduzionismo, ma non riesce ad avanzare una teoria propria. La sua analisi rimane quindi sul piano problematico. 47 Esistono comunque alcuni studi sull’argomento in linea tomistica: oltre il mio lavoro Operazioni cognitive, “Acta Philosophica”, cit., e quello menzionato di J. M. Maldamé, Sciences cognitives, cfr: AA.VV., Homo Loquens. Uomo e linguaggio. Pensieri, cervelli e macchine, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1989; G. Basti, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1991; Il problema mente-corpo, in V. Possenti (curatore), Annuario di Filosofia 2000, Corpo e anima, Mondadori, Milano 2000, pp. 265-318; voce Mente-Corpo, Rapporto, in G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Città Nuova, Roma 2002, vol. 1, pp. 920-939; L. Borghi, L’antropologia tomista e il ‘Body-mind problem’ (alla ricerca di un contributo mancante), “Acta Philosophica”, 1 (1992), pp. 279-292; R. Cross, Aquinas and the Mind-Body Problem, in J. Haldane (ed.), Mind, Metaphysics, and Value in the Thomistic and Analytical Traditions, University of Notre Dame Press, Notre Dame (IN) 2002, pp. 36-53; J. Haldane, Analytical Philosophy and the Nature of Mind: Time for Another Rebirth, in R. Warner, T. Szubka (ed.), The Mind-Body Problem: A Guide to the Current Debate, Blackwell, Oxford, 1994, pp. 195-203; Breakdown of Philosophy of Mind, in J. Haldane (ed.), Mind, Metaphysics, and Value in the Thomistic and Analytical Traditions, cit., pp. 54-75; A.

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31

questo momento non possiamo considerare. Basta prendere nota della totale

ignoranza, da parte degli autori, della filosofia aristotelica o vicina ad Aristotele. Il

filosofo più antico preso in considerazione, peraltro non sempre ben compreso, è

Cartesio. Un Cartesio semplificato, ridotto ad uno schema fisso e impoverito. Ogni

proposta spiritualista sembra, quindi, condannata a ricadere nel dualismo cartesiano.

Quale intuizione potrebbe offrire un autore come Tommaso d’Aquino nel

quadro storico presentato? Rileverei due punti fondamentali:

1. L’anima umana come forma del corpo, come il suo atto sostanziale in unità

con la dimensione fisica e nella singolarità ontologica di una persona fisica. Questo

punto è correlativo a una filosofia della sensazione e della percezione in cui gli

elementi psichici e fisici siano intimamente uniti. Da qui può venir fuori, da un lato,

una particolare filosofia della vita animale, e dall’altro una filosofia della corporeità

umana. Questi aspetti sono completamente assenti nell’orizzonte della filosofia della

mente. La fenomenologia contemporanea e il personalismo potrebbero venir in aiuto,

a questo punto, per contribuire ad una visione del corpo animale e del corpo umano,

con tutte le sue funzioni, non ridotto alla prospettiva scientifica.

2. La trascendenza dell’intelligenza, della volontà e della libertà rispetto

all’organicità del corpo umano. Questa è la base che consente di parlare della

spiritualità della persona umana, una spiritualità incarnata, materializzata, ma non

ridotta alla funzionalità corporea. Questo punto, inaccettabile per la maggioranza dei

filosofi della mente in quanto sembra una posizione dualistica, è invece fondamentale.

Nelle pagine seguenti seguiremo questa traccia in modo sistematico. Saremo in

grado di vedere, così, la problematica della filosofia della mente da una prospettiva

ontologica, uscendo dai vicoli ciechi dei dibattiti storici. Non per questo intendiamo

ignorare la situazione contemporanea filosofica e scientifica di questo settore della

filosofia. Dalla cornice in cui saremo collocati potremo valutare tale situazione,

quindi potremo approfondire i problemi in un senso radicale, muovendoci sin

dall’inizio in una direzione metafisica e antropologica. Presuppongo certi punti

Kenny, The Metaphysics of Mind, Clarendon Press, Oxford 1989; Aquinas on Mind, Routledge, London 1993.

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fondamentali quali il realismo della conoscenza, la psicologia della percezione,

l’intenzionalità, la coscienza, l’identità della persona (talvolta considerati dai filosofi

della mente, ma con risultati scarsi), in quanto ritengo sia preferibile vederli in un

modo approfondito nella filosofia della conoscenza e nell’antropologia. Ne farò cenno

solo in rapporto alle questioni direttamente affrontate nei capitoli successivi.

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Capitolo 2

Il corpo senziente

1. Ilemorfismo: aspetti ontologici ed epistemologici

Il mondo fisico è caratterizzato dalla complessità, non solo nel senso in cui

viene intesa nelle scienze biologiche, ma in una prospettiva pluridimensionale e

analogica. Per questo motivo ci sono molti tipi di descrizione e di spiegazione delle

cose. Il problema è ontologico, epistemologico e linguistico.

Troveremo sempre, al momento dell’analisi, una pluralità di elementi, una

totalità, rapporti di coordinazione, subordinazione, gerarchie, diverse modalità di

unità sostanziale e di unità di ordine, nonché svariate forme di causalità. Quando è

prevalso solo un tipo di analisi, ad esempio la prospettiva delle scienze naturali, si

produce un impoverimento nella comprensione. L’analitica causale scientifica è

competente per tutto quanto riguarda la causalità materiale delle cose. Essa è utile per

la tecnica, dal momento che possiamo intervenire sui corpi solo alterando la loro

struttura materiale. Ma se i corpi possiedono altre dimensioni, l’analitica causale

scientifica risulta insufficiente. Con la fisica possiamo capire la struttura materiale in

cui è scritto un romanzo di Manzoni, ma questo non ci serve per comprenderne il

contenuto letterario.

L’analitica aristotelica comincia evidenziando una dualità strutturale di base in

ogni cosa materiale: la dualità di forma e materia. Può essere presa anche come due

sensi della causalità intrinseca: causalità formale e causalità materiale (causa o

principio: ciò da cui una cosa dipende nel suo essere e operare). Una stessa materia (il

legno) può essere “informata” da forme molto diverse (il letto, la sedia), e una stessa

formalità (il letto), può essere realizzata in diverse basi materiali (letto di legno, letto

di ferro). Materia indica qui una serie di elementi che, adeguatamente coordinati,

servono a far emergere un atto di una qualità superiore o di un ordine diverso di

quello cui le parti appartengono. Così, col solo concetto di pietra non si può capire la

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struttura casa, e la nozione di casa non dice niente sulla materialità di cui è fatta. La

materialità e la formalità vanno capite insieme.

L’ontologia e l’epistemologia sono implicate in questo intreccio tra la formalità

e la materialità. Il problema è anche d’intelligibilità. Dal basso, cioè dal solo livello

materiale, non possiamo capire l’alto, il livello formale. La struttura “casa” è una

formalità da capire per se stessa. Se nel mondo vi sono forme, vuol dire che non tutto

è materialità, nel senso in cui l’abbiamo presa in queste linee. Spesso, però,

nominiamo la materialità con l’implicazione della formalità e viceversa, e il composto

è pure considerato come materiale, cioè come un “essere materiale”. La materialità

possiede inoltre una connotazione epistemologica: “materiale” è quanto per noi è

tangibile, visibile, udibile, quanto cioè è capace di essere sottoposto ai nostri sensi

esterni. La forma, da sola, è un “principio d’immaterialità”: la capiamo come separata

dalla sua materia, in astratto, oppure come incorporata nella materialità.

Quando ascoltiamo le parole di qualcuno guardando soltanto il movimento delle

labbra, osserva Polanyi48, la concentrazione della nostra attenzione sul livello inferiore

fa sì che la nostra percezione del livello superiore svanisca. Invece, se stiamo attenti

centralmente alle parole, cogliamo il movimento delle labbra in modo secondario o

sussidiario. L’attenzione si rivolge, in questo caso, centralmente all’elemento formale

e secondariamente agli elementi materiali. I pezzi materiali, se non vengono colti

nella dimensione formale integrativa e superiore, diventano frammenti senza

significato. Ormai non sono più parti di un tutto più alto, ma sono soltanto elementi

del livello ontologico materiale: il loro senso, quindi, cambia totalmente.

La realtà ovviamente è ancora più complessa. I livelli formali non sono sempre

dello stesso tipo. Ci sono “forme che formalizzano altre” (forme per nulla univoche) e

questo parecchie volte. Ciò che prima era una struttura di forma/materia può essere

materiale rispetto a un atto “informante” più alto. “Più alto” non comporta qui un

giudizio di valore, bensì il fatto di informare una materialità, così come il livello

“squadra sportiva” è “più alto” di quello dei singoli giocatori. Salendo le successive

“forme di forme”, alla fine arriveremo al cosmo o universo, totalità formale

48 Cfr. M. Polanyi, The Structure of Consciousness, “Brain”, 88 (1965), pp. 799-810.

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35

abbracciante tutte le strutture del mondo. Quindi nell’universo vi sono molteplici

strutture a strati. La totalità emergente non è meramente quantitativa (somma delle

parti), ma è una vera realtà formale.

Il tutto formale e complesso esercita un tipo di causalità sulla materialità

(“causalità formale”), non solo come criterio d’intelligibilità, ma anche come

principio ontologico. La totalità formale è integrativa in quanto stabilisce vincoli

nuovi tra gli elementi, costituendo un nuovo tipo di essere. Tralasciamo per il

momento come si forma nel tempo questa strutturazione (problema dell’evoluzione).

Nel caso di un artefatto, l’integrazione formale è opera di un agente intelligente

esterno, l’uomo, che agisce in quanto comprende una forma ed è intenzionato a farla

emergere manipolando una materia. Le formalità naturali del mondo, invece,

appaiono spontaneamente e non hanno sempre lo stesso senso. Il tutto formale “nasce

dal basso”, cioè emerge, sopravviene, è suscitato, quando le parti materiali sono

predisposte in un certo modo.

Ho introdotto così, parzialmente e in un modo semplificato, il “modello”

ontologico ilemorfico della natura, ampio e poliedrico nella filosofia aristotelica (la

dualità forma/materia non ha sempre lo stesso senso). Le scienze naturali, benché non

usino esplicitamente questo modello, inevitabilmente studiano strutture ilemorfiche in

senso analogico: particelle elementari, nuclei atomici, atomi, molecole, aggregazioni,

composti di ogni tipo, fino ad arrivare al cosmo. Niente si può studiare solo

materialmente. Tutto si capisce a partire da qualche formalità, anche se alcune sono

più importanti di altre.

La struttura quantitativa talvolta si rivela utile per capire ciò che sono le cose,

almeno in un senso parziale. Si possono stabilire delle correlazioni tra le strutture

quantitative e le proprietà fisiche sottostanti. Possiamo capire bene i colori, ad

esempio, utilizzando la matematica nel campo dell’ottica. Naturalmente l’uomo,

quando cerca di figurarsi come sono le cose e le loro strutture, vi introduce alcuni

elementi logici. Questi elementi schematizzano, semplificano e talvolta idealizzano la

realtà fisica. Eppure, essi corrispondono al mondo e abitualmente non sono arbitrari.

L’elemento logico nasce quando l’uomo pensa la formalità separandola dalla base

materiale dove essa è realizzata.

Page 36: Sanguineti - Filosofia Da Mente

36

Uno sguardo al mondo materiale manifesta tre tipi di strutture significative

naturali: 1. La strutture sostanziali o forme specifiche forti (inanimate). 2. Le unità di

ordine o di composizione, sopraggiunte alle forme specifiche forti. 3. I composti

organici della vita vegetativa.

Senza entrare in dettagli e problemi di filosofia della natura, in generale

capiamo bene con l’aiuto delle scienze le specie fisiche inanimate grazie alla loro

forte unità e all’esistenza di proprietà e rapporti stabili e selettivi. Così le distinguiamo

dalle composizioni ordinate, più variabili e contingenti, nate dall’intreccio tra le unità

forti della natura. Sebbene si possa dubitare sul tipo di unità da assegnare alle svariate

strutturazioni della natura inanimata, comunque restiamo sempre a un livello

abbastanza omogeneo. Con gli stessi strumenti concettuali, la fisica e la chimica ci

consentono di capire l’atomo così bene come si comprende una stella o una galassia.

L’omogeneità talvolta è più accentuata dai nostri approcci epistemologici, col rischio

di livellare troppo le cose. Ad ogni modo, le forme forti della natura inanimata (le

specie) costituiscono la piattaforma delle forme più deboli (composizioni).

2. La corporeità vivente

Nelle unità organiche la formalità acquista un nuovo ruolo. L’organismo vivente

è qualcosa di qualitativamente diverso in paragone alle sostanze inorganiche. Le

funzioni biologiche di crescita, alimentazione e riproduzione mostrano la presenza di

un tipo di forma peculiare e in definitiva manifestano un modo originario di “essere

corpo”. L’organismo vede organizzate e amministrate le forze fisiche e le sostanze

chimiche di cui è costituito in una modalità nuova e inattesa rispetto alle

caratteristiche del mondo inorganico. Naturalmente quanto diremo in seguito va preso

in un senso analogico flessibile, poiché le manifestazioni della vita non finiscono di

sorprenderci e non si ripetono sempre nello stesso modo. Lo fanno in una maniera

molto graduale e talvolta con ramificazioni e variazioni di ogni tipo. La vita non si

può dedurre a priori. Bisogna seguirla e osservarla induttivamente in tutte le sue

varianti.

Tra i complessi processi studiati dalla biologia, spicca l’omeostasi

(autoregolazione in funzione delle variazioni ambientali) come modo in cui

l’organismo mantiene un certo ordine come fine a se stesso, un ordine da difendere

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anche aggressivamente e che comunque si può perdere con la morte o venire

indebolito con la malattia. Se viene a mancare questa costante e flessibile difesa, i

dinamismi fisici del livello inferiore portano l’individuo alla sua rapida distruzione.

L’organismo è veramente irriducibile alla materialità inerte. Non ha nuovi elementi

rispetto a quelli che sono noti nel mondo fisico-chimico, ma possiede un elemento

formale forte che fa dell’unità biologica un vero fine a se stesso. Tre aspetti possono

considerarsi in questo senso:

1) Autofinalismo. Nella vita la finalità emerge nel mondo per la prima volta non

come una semplice armonia tra le forme, ma come un nucleo differenziato che

afferma se stesso nelle sue operazioni. L’omeostasi e l’autodifesa organica ne sono

una manifestazione. Per questo motivo l’individuo biologico ostenta un nuovo

rapporto con il mondo: prende l’energia dall’esterno, che così diventa ambiente,

incorporandola e amministrandola al suo interno. Quindi il vivente ha qualcosa di

proprio, come se avesse una certa interiorità che lo contraddistingue dall’ambiente.

Anche per questo motivo il vivente, nonostante debba adattarsi all’esterno, in una

certa misura può adattarlo ai suoi fini.

2) Sostanzialità forte. I fini immanenti dell’unità vivente fanno di essa un

soggetto auto-finalizzato. Solo di un vivente diciamo che sta “bene” o “male”, che si

deve “difendere dai pericoli” o che si ammala e muore. Questa peculiare rilevanza

dell’individuo rende più chiara o più forte in esso la categoria ontologica del soggetto

o sostanza: il vivente emerge con una sorta di “personalità” proprio perché è

autofinalizzato. La sua unità di azione si auto-differenzia dal resto delle cose in una

maniera più netta: il vivente si riconosce facilmente in paragone all’ambiente

inanimato.

3) Prassi. L’organismo manifesta chiaramente una serie di attività destinate alla

sua sopravvivenza, crescita e riproduzione. Così come è più fortemente una sostanza,

le sue operazioni meritano il nome di azioni, atti cioè immanenti e teleologici destinati

alla propria sopravvivenza. Con i viventi, per la prima volta compare nel mondo la

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realtà della prassi49, vale a dire l’azione teleologica destinata a difendere un’unità

come un valore proprio. Il vivente opera per vivere, per mantenersi in vita o per

trasmetterla. Vive nel senso di “tendere a vivere” e di “sopravvivere”, poiché è

sempre minacciato da meccanismi entropici, da rischi, da malattie o da eventi

meccanici, fisici, chimici che possono facilmente distruggerlo.

Nel vivente tutto è autofinalizzato, tutto è al servizio del soggetto in vita e tutto

è prassi. Ciò che non si schiera in questa direzione, alla fine diventa nocivo. Proprio

per questo, le cose inanimate appaiono disorganizzate o prive di ordine se confrontate

con i viventi. In realtà esse hanno un ordine di livello più basso (ordine meccanico,

gravitazionale, termodinamico, elettromagnetico). Nelle cose inanimate è più difficile

distinguere tra ciò che è essenziale e accidentale, dal momento che qualsiasi struttura

va bene di per sé, anche se poi è rigidamente determinata oppure è soggetta a

fluttuazioni statistiche. La vita invece non ammette qualsiasi cosa proprio per la sua

finalità, mentre nello stesso tempo i rapporti dinamici vitali si fanno sempre più

flessibili e svariati. La flessibilità, la contingenza, un relativo indeterminismo, si

comprendono nel contesto della crescente complessità vitale e sono sempre in

rapporto ai fini biologici. Per questo il caso appare specialmente nella vita. Diventa

casuale (o accidentale) ciò che nella prassi biologica non è controllato dalla teleologia

della vita, quando cioè passa a dipendere solo dai livelli inferiori e dalle loro leggi (un

evento è casuale rispetto a un tipo di causalità, ma non in rapporto ad un altro ordine

causale).

Dal punto di vista epistemologico, la complessità del vivente dimostra ancora

una volta l’importanza dell’esistenza dei livelli di comprensione cui accennavamo

sopra. Infatti, i meccanismi fisico-chimici del vivente sono incorporati a una struttura

più alta, in funzione della quale sono finalizzati. Le funzioni vitali sono ora il criterio

primordiale d’intelligibilità della struttura fisica sottostante. Anzi se un evento fisico-

chimico organico si produce senza finalità, non soltanto non è intelligibile, ma

facilmente prepara la morte del vivente, così come se giochiamo a scacchi muovendo

i pezzi a vanvera, cominceremo subito a perdere la partita.

49 Impiego questo termine in un senso analogico. Si può parlare di prassi anche in modo esclusivo per l’uomo. Però è ovvio che nella vita appare un modo di operare autofinalizzato che merita una denominazione speciale.

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Le leggi dello strato inferiore sono autonome, ma sono anche al servizio delle

leggi dello strato superiore (non importa che sia più difficile parlare di leggi in senso

rigoroso per le dimensioni più complesse della realtà). Le leggi inferiori non bastano

per rivelare le operazioni formalmente più alte di un complesso stratificato (“strati”

qui è solo un modo metaforico di parlare). Viceversa, i principi più alti non possono

definirsi in virtù delle leggi inferiori. Di conseguenza, la legge inferiore è necessaria,

ma non sufficiente. I processi eseguiti secondo principi e cause inferiori servono

all’organismo, ma possono anche distruggerlo.

Quest’ultimo punto, pur essendo valido in termini generali, acquista un

peculiare valore per la vita. Nel campo fisico riferito agli esseri inanimati, la riduzione

di una teoria ad un’altra (ad esempio, la riduzione della termodinamica

fenomenologica a meccanica statistica) può avere un senso epistemologico positivo.

La complessità invece non è riducibile alla semplicità dei componenti. Questo

principio vale specialmente per la biologia. La lettura fisica e chimica della vita è

importante in quanto svela proprietà e cause che non possono essere ignorate, ma la

biologia non è semplicemente riducibile alla fisica e alla chimica.

3. Informazione senza conoscenza

Un’altra manifestazione della vita legata ai criteri indicati è il ruolo peculiare

che in essa acquista l’informazione50. In termini generici, come abbiamo anticipato nel

capitolo precedente, informazione è sinonimo di ordine. Esiste una certa

corrispondenza tra l’informazione nel senso scientifico del termine (nella teoria

dell’informazione) e la formalità aristotelica. L’informazione nelle sostanze

inanimate, dal punto di vista della fisica, è una nozione termodinamica correlata

all’ordine (l’entropia è una misura del “disordine” termodinamico).

a) Informazione e formalizzazione

In biologia la nozione di informazione, nata appunto nella teoria

dell’informazione (Shannon), è stata applicata con successo alla genetica.

50 Cfr., sul tema, E. Sarti, voce Informazione, in G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Dizionario Interdisciplinare di scienza e fede, cit., vol. 1; M. Artigas, The Mind of the Universe, Templeton Foundation Press, Philadelphia e Londra 2002, pp. 97-101.

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40

L’informazione in quest’ambito è collegata alla sua trasmissione spazio-temporale

(messaggio a un recettore). L’ordine dinamico dell’organismo esige, infatti, la

coordinazione delle funzioni svolte da molteplici elementi, distanti tra loro nello

spazio e nel tempo (ordine spaziale e temporale). La realizzazione dell’ordine

biologico esige dunque la trasmissione opportuna di un “segnale” -una sorta di

presimbolo con valore causale- attraverso il tempo e lo spazio, il quale “indicherà al

recettore” di fare qualcosa al momento opportuno, vale a dire di operare seguendo

un’ottima coordinazione con gli altri elementi della totalità organica. Ordinariamente

comprendiamo bene questi fenomeni nell’ambito cognitivo e organizzativo umano. La

sorpresa è vederli realizzati nell’ordine biologico senza la conoscenza. Il processo

indicato diventa specializzato nei viventi con sistema nervoso, dove è collegato alla

conoscenza sensibile. Ma nelle cellule il fenomeno già esiste ed è destinato alla

crescita differenziata e alla trasmissione del patrimonio ereditario della vita.

La trasmissione d’informazione tramite segnali è operante nell’organismo

grazie a un meccanismo, simile a una traduzione, chiamato trasduzione, presente

anche nella comunicazione nervosa. La trasduzione è un processo o un insieme di

processi tramite i quali una cellula trasforma un segnale o stimolo ricevuto in un altro

segnale o risposta specifica. Così l’organismo può funzionare grazie al coordinamento

“saggio” tra i suoi elementi interagenti e intercomunicati, come se ognuno di essi

“sapesse” non solo dove agire, ma anche il momento opportuno e la modalità o

misura conveniente in cui farlo (ad esempio, in quale momento conviene smettere di

trasmettere il segnale). Il coordinamento funzionale dell’organismo è ottimizzato,

dunque, dalla “trasmissione con valore causale” di segnali all’interno dell’unità

biologica. Detto in altre parole, il coordinamento -cioè l’ordine biologico- richiede un

buon sistema di comunicazione causale dell’informazione all’interno del vivente.

L’informazione esiste dappertutto nella natura, ma solo i viventi la usano, e la usano

in un senso teleologico.

I geni sono portatori di informazione biologica in una maniera non intenzionale.

Il codice genetico è concepito, per analogia, come una sorta di “linguaggio” con

“istruzioni” che serviranno, insieme ad altri fattori epigenetici, alla crescita

differenziata dell’organismo e alla trasmissione a nuovi individui dell’informazione

ereditaria relativa alla specie. Il codice genetico viene visto dunque come una sorta di

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41

“programma” che servirà da guida nella crescita e nella riproduzione. Tale

programma è anche un contenuto “immagazzinato” o conservato nella “memoria”

della specie. Grazie al genoma, grazie cioè al patrimonio genetico ereditario della

cellula, la specie può conservare la sua identità e può anche variarla (nell’eventualità

di mutazioni con conseguenze evolutive).

L’ilemorfismo biologico precosciente è un vero ilemorfismo, nel quale la

distinzione tra forma e materia diventa, per così dire, più netta e più bilanciata verso il

predominio di una forma organizzatrice che conserva una certa “memoria di se stessa”

e si distacca alquanto -se possiamo parlare così- dalla materialità. La capacità di

riproduzione indica una potenza di superamento della caducità individuale, una

virtuale “immortalità”51. L’individuo (il soma) invecchia, ma non invecchia la sua

dotazione genetica. La forma “immortale” è sempre in grado di trasmettersi a una

nuova materia. L’ereditarietà trasmette, quindi, elementi di per sé “perpetui” ed è

dissociata dallo sviluppo somatico52. Da questo punto di vista, la trasmissione della

specie è soprattutto una comunicazione di informazione, non primariamente un

influsso di materia o di energia in un nuovo soggetto.

Si potrebbe dire in qualche modo che nella trasmissione genetica la forma da

trasmettere appare quasi “astratta” (separata) dalla materialità somatica. Proprio per

questo, l’introduzione della nozione di informazione nella genetica è stata molto

adeguata e non può considerarsi una semplice metafora presa dalla scienza

dell’informazione. Questa forma di “astrazione” si vede anche nel fatto, ad esempio,

che i geni contengono al contempo la codificazione delle proteine (geni strutturali) e

il modo di farlo secondo determinati controlli (i geni regolatori)53, come se ci fosse un

51 L’alimentazione, in quanto modo di superare la tendenza al disordine conseguente al principio termodinamico dell’aumento di entropia, esprime la tendenza alla conservazione della vita. Nutrirsi è prendere dall’ambiente “entropia negativa”, secondo l’efficace espressione di Schrödinger (Che cosa è la vita, Sansoni, Firenze 1947, pp. 100-105), per così ristrutturare continuamente un edificio che, in base alle leggi “inferiori” della fisica, tende a disorganizzarsi. Vivere (biologicamente) è “mantenersi in vita”. 52 Cfr. Arantza Etxeberria Agiriano, Tomás Garcia Azkonobieta, Sobre la noción de información genética: semántica y excepcionalidad, “Theoria: Revista de teoría, historia y fundamentos de la ciencia”, vol. 19, n. 50, 2004, pagg. 209-230; E. Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima, Mondadori, Milano 1999. 53 Questo punto è stato intravisto da E. Schrödinger in Che cosa è la vita, cit. Il cromosoma cellulare “contiene in una specie di codice cifrato l’intero disegno del futuro sviluppo

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piano generale insieme a una funzione “prudenziale” incaricata di adeguare il piano

alle circostanze variabili.

Mi sono trattenuto sulla nozione di informazione applicata alla biologia a causa

della sua importanza epistemologica nella filosofia della mente. Un uso inadeguato di

tale concetto nell’ambito della natura ci porterebbe all’antropomorfismo54.

Ovviamente un certo antropomorfismo è inevitabile nella nostra lettura dei processi

naturali. Il “codice genetico” (come un alfabeto collegato a una grammatica), secondo

la nostra terminologia, è “letto” dalle cellule, invia “istruzioni” e “comandi”, viene

“tradotto”, “interpretato”, e quando è “mal letto”, con l’introduzione di errori, si

producono delle malattie o malformazioni. L’informazione contenuta nella natura,

quindi, è unita alla materialità ed ha un’efficacia causale. L’informazione nel senso

cognitivo umano invece è veramente astratta e si esprime in un linguaggio arbitrario.

In espressione metaforica, contenente però un fondamento di verità, ai tempi di

Galileo si diceva che la natura era “un libro scritto in un linguaggio matematico”,

mentre oggi la vediamo come una sorta di “linguaggio fatto da codici e segni”.

b) Segnali e processi causali

Nella natura organica l’ordine e gli aspetti formali sono strutturali e insieme

causali. La forma è unita alla materia, così come l’informazione è collegata

all’energia. L’alimentazione del vivente è un processo fisico, causale, materiale ed

energetico. Ma l’alimentazione contiene un aspetto “informativo”, nel senso che va

fatta secondo una misura, in certi tempi, seguendo certi canali. I classici direbbero che

l’alimentazione va compiuta in un modo “ordinato”, ed è questo l’aspetto formale di

cui stiamo parlando. L’organismo è dotato di elementi di controllo dei processi

biologici. Negli animali essi non sono esclusivamente cellulari, ma corrono a carico di

una parte specializzata del corpo: il sistema nervoso. Analogamente a come fanno le

cellule, il sistema nervoso recepisce dei segnali a titolo d’informazione sullo stato

dell’individuo e del suo funzionamento nello stadio della maturità. Ogni serie completa di cromosomi contiene l’intero testo del codice” (p. 33). Ancora: “le strutture cromosomiche sono, contemporaneamente, degli strumenti per portare innanzi lo sviluppo che esso simboleggiano. Esse sono codice di leggi e potere esecutivo, o, per usare un’altra metafora, sono il progetto dell’architetto e insieme abili costruttori” (p. 31). 54 Cfr., sul tema della razionalità, l’auto-organizzazione e la teleologia della natura, M. Artigas, The Mind of the Universe, cit., pp. 118-145.

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dell’ambiente e del corpo. In base a questi dati, il sistema nervoso invia dei segnali

all’organismo in modo da regolare l’utilizzo dell’energia necessaria per il buon

andamento delle funzioni organiche.

Con terminologia informatica, parliamo quindi di segnali (più in dietro ho

impiegato il termine presimbolico). Il segnale non è un simbolo vero e proprio. Il

simbolo inteso in un senso umano normalmente fa parte di un intero linguaggio, col

suo alfabeto e la sua grammatica. Il suo contenuto informativo di solito è arbitrario ed

è separato dalla sua efficacia causale. Il vero simbolo appartiene a un sistema

cognitivo ed è in funzione di una mente capace di leggerlo.

Riguardo alla conoscenza sensibile, presente negli animali e negli uomini,

parliamo invece di trasmissione di segnali, specialmente in riferimento alla

comunicazione luminosa e acustica. La trasmissione di segnali ottici, acustici, ecc., è

un processo fisico e causale, ma ora è anche una comunicazione cognitiva. I sensi

animali ricevono segnali il cui contenuto informativo scatena una serie di risposte

(l’animale sente un rumore minaccioso e fugge). I segnali naturali, come una nube

oscura è un segno di pioggia, o il fumo è un segno di fuoco, sono aspetti fisici che

consentono di conoscere “qualche altra cosa” del mondo, anche in maniera sensitiva e

non solo intellettuale (il cane interpreta bene la faccia allegra o triste del suo padrone).

I segnali negli animali possono pure diventare alquanto “arbitrari”, come se fossero

simboli astratti, tramite il processo del riflesso condizionato: il campanello, senza che

abbia di per sé un rapporto naturale con il cibo, può diventare un segnale per

l’animale affamato e condizionato, scatenando in lui una serie di reazioni fisiologiche.

Grazie alla flessibilità della vita animale, questi segnali “arbitrari” non sono

puramente cognitivi, poiché vengono ad incorporarsi nel dinamismo fisiologico

neurovegetativo.

Il caso è diverso nella vita vegetale. Le piante cominciano a fiorire non appena

“avvertono” i primi “segnali” della primavera. In questo caso i segnali non sono

cognitivi ma solo causali, pur avendo una dimensione informativa. Qualcosa di simile

vale per i messaggi genetici di cui abbiamo parlato sopra.

Concludendo, la trasmissione d’informazione nell’organismo, in particolare a

livello cellulare, studiata in dettaglio dalla biologia molecolare, si può spiegare in

Page 44: Sanguineti - Filosofia Da Mente

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termini di comunicazione di segnali e messaggi, ma è insieme un processo

intrinsecamente fisico e causale (richiedendo un dispendio almeno minimo di

energia). Tale trasmissione associa la causalità efficiente alla causalità formale. Si

può quindi descrivere, secondo il nostro modo analitico di parlare, come un certo

flusso di informazione.

I rapporti tra formalità e materialità, tra efficienza e finalità, sono quindi

peculiari nella vita. Il vivente riesce a controllare la sua attività organica

amministrando in un senso teleologico le risorse energetiche prese dall’ambiente.

L’aspetto di controllo corrisponde alla causalità formale e non comporta ancora

conoscenza. La causalità formale del vivente non è, dunque, una semplice armonia tra

le forze materiali, come accade nel mondo inanimato. L’organismo vivente, in un

certo senso, sta sempre auto-costruendosi. Questa auto-costruzione è una forma di

combinazione attiva tra la sua causalità formale e la sua materialità sempre in fieri.

Perciò usiamo spesso delle metafore costruttive per capire la vita, come quando

Schrödinger parlava, alludendo alla genetica, del piano regolativo e della sua

esecuzione, o della legge e della sua messa in pratica.

4. Sentire di vivere

La vita negli animali acquista una nuova caratteristica: la coscienza sensitiva,

l’atto cioè di sentire il corpo, i suoi processi e perfino l’ambiente esterno. Questa

novità ontologica sembra così sorprendente e inattesa in un primo momento, dal punto

di vista fisico, che portò molti filosofi alla concezione dualista, come se le funzioni

della coscienza sensitiva fossero qualcosa di completamente eterogeneo rispetto al

corpo, e quindi quasi “spirituale”. Come abbiamo visto nella parte storica, ancora oggi

riesce difficile a molti accettare la realtà dei qualia (atti di vedere, udire, sentire

dolore o piacere), o almeno di integrarli in una visione unitaria della vita animale. Per

questo motivo si è tentati spesso di eludere la realtà degli atti sensitivi e di concepirli

magari come funzioni o come elementi causali, senza la proprietà intrinseca della

coscienza.

In realtà, la coscienza sensitiva dovrebbe essere vista, in continuità con quanto

abbiamo considerato finora, come una modalità più alta di essere-corpo, anzi corpo

organico: il corpo animale, sensitivo, aggiunge all’essere-corpo-vivente la qualità di

Page 45: Sanguineti - Filosofia Da Mente

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sentire di vivere-nella-forma-della-corporeità. La pianta si alimenta, ma l’animale (e

noi stessi), non solo ci alimentiamo, ma sentiamo di farlo, con piacere se la funzione

vitale è esercitata in modo positivo, con dolore se essa viene a meno.

Non ogni funzione vegetativa è sentita, e le modalità sensitive sono molto

diverse. La crescita o le funzioni cellulari non si sentono. Ma la nutrizione, la

riproduzione, il movimento, il corpo come un tutto, certamente si sentono55.

L’atto di sentire non è deducibile né prevedibile da alcuna funzione vegetativa.

Bisogna accettarlo come un dato primitivo. Non è un semplice perfezionamento della

vita vegetativa, poiché non sta nella sua stessa linea. È un qualcosa di nuovo, un certo

salto che comincia a preannunciare, se si può parlare così, la coscienza superiore

dell’uomo. Questo punto si vede meglio nell’analisi del progressivo arricchimento

della vita sensitiva: immaginazione, memoria, intelligenza animale.

1. La sensazione come atto immanente. La struttura ilemorfica riceve un nuovo

senso con la coscienza sensitiva. In qualche modo la sensazione, in quanto atto

cognitivo compiuto da un corpo organico, è sopra-ilemorfica, seppure potremmo

vederla come la realizzazione dell’ilemorfismo in un senso diverso. Una cosa è la

struttura organica della mano (cellule, tessuti). Ben diverso invece è che la mano “sia

sentita come mano”, una qualità tattile legata alle sue capacità funzionali, come

prendere oggetti del mondo esterno, colpire o disporre meglio del proprio corpo.

L’atto di sentire sarà, se vogliamo, una “formalità” della mano, ma molto diversa

dalle forme corporee inanimate e vegetative. La sensazione è un atto non destinato

alla funzione di strutturare una materia, come accade invece nelle forme delle cose

inanimate e vegetali. La sensazione sorpassa la funzione organizzativa, inaugurando

la dimensione soggettiva della realtà.

La sensazione è, aristotelicamente parlando, atto immanente, cioè un atto con

valore per se stesso, non semplicemente definito per la sua funzione fisica

nell’organismo. Il movimento intenzionale ha senso solo quando raggiunge il fine

verso il quale si muove (ad esempio, un viaggio). Il suo senso quindi sta fuori di se

55 Scrive San Tommaso: “è questa la differenza tra gli animali e le altre cose naturali, che queste ultime, nel loro costituirsi in ciò che corrisponde alla loro natura, non lo sentono. Ma gli animali lo sentono”: S. Th., I-II, q. 31, a. 1.

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stesso (transitività). L’atto immanente invece “non si muove” verso un’altra cosa, in

quanto è di per sé un fine a se stesso, un fine già posseduto nel compiersi stesso

dell’atto. Il valore del sentire cioè sta nel sentire stesso, anche se per questo motivo

comporta una correlativa negatività, come accade nel dolore e nelle sensazioni

sgradevoli. Certamente possiamo trovare molte utilità delle sensazioni. Il dolore serve

per segnalare una disfunzione organica, il piacere attira verso atti organici positivi.

Ma non per questo le sensazioni si esauriscono nella loro utilità, altrimenti le

svuoteremmo di senso. Se gli animali fossero più abili nel conseguimento dei loro fini

senza sentirlo, mancherebbe loro ciò che è il nucleo stesso della vita animale.

2. Trascendenza sulla materialità vegetativa. Gli atti di sentire, percepire,

ricordare, pur essendo pienamente materiali, di per sé trascendono la pura funzione

vegetativa, anche se non tutti lo fanno nella stessa misura. Alcuni atti sensitivi sono

direttamente fisiologici, in quanto hanno a che vedere con la situazione organica del

corpo o con una funzione vegetativa. Così sono le sensazioni relative

all’alimentazione (fame, sete), alla sessualità, allo stato di benessere o di

malfunzionamento del corpo (dolore, piacere fisico, sensazioni muscolari,

cinestesiche).

Altri atti sensitivi invece non sono propriamente fisiologici, ad esempio gli atti

percettivi di forme intenzionali dell’ambiente. La visione dei colori, anche se viene

compiuta neurologicamente, non ha come scopo la costituzione e preservazione di un

organo fisiologico. Accade al contrario: un organo qui è usato (gli organi della vista,

dell’udito) al servizio di una funzione transorganica, che non per questo motivo è da

ritenersi spirituale. In questo senso,il filosofo spagnolo Leonardo Polo parla della

sensazione in termini di avanzo formale, cioè di una sorta di iperformalizzazione

concepita come un eccesso nei riguardi della materia56. In modo simile, i classici

parlavano di una certa immaterialità della sensazione nei confronti delle forme non

cognitive.

Questo fenomeno si può considerare anche dal versante neurologico. L’animale

non dipende soltanto dai suoi istinti innati, contenuti in qualche misura nel codice

56 Cfr. L. Polo, Curso de teoría del conocimiento, vol. I, Eunsa, Pamplona 1984, pp. 215 ss.

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genetico. L’animale deve agire imparando, cioè deve formalizzare alcuni dei suoi

organi e in un certo senso “costituirli come tali”. È vero che l’animale è già provvisto

del cervello. Ma l’anatomia cerebrale, oltre gli organi dei sensi esterni, lascia un

ampio spazio per la formalizzazione frutto dall’apprendimento, la quale sarà iscritta

nelle aree opportune dell’encefalo. L’animale deve in qualche modo “costruirsi” gli

organi fisiologici della memoria e dell’immaginazione, modellando il suo cervello.

Dunque quest’organo non è semplicemente destinato al controllo dell’organicità

vegetativa. Un animale con più memoria o con una maggiore intelligenza pratica non

per questo è cresciuto organicamente. È cresciuto invece intenzionalmente, ma lo ha

fatto attraverso l’utilizzazione di un organo “plastico” modellato in rapporto a quelle

nuove funzioni “transorganiche”57.

Possiamo dire dunque che: 1) l’animale vede elevate le funzioni organiche a una

nuova dimensione: si alimenta come le piante, ma sentendolo; inoltre, 2) si apre a

funzioni transorganiche, le quali non per questo motivo sono spirituali: funzioni

sociali, cooperazione con altri animali, gioco, comunicazione, costruzione di tane,

caccia, difesa, attacco. L’animale non è superiore ai vegetali per il fatto di essere un

“vegetale più perfetto”. Il perfezionamento vegetativo sembra esaurito nella vita

sensitiva. Stiamo adesso in una nuova linea ontologica, incomprensibile con categorie

causali di tipo fisico: l’unico modo di capirla è col concetto di intenzionalità58.

3. Ambito intenzionale. L’apertura cognitiva ed emotiva animale comporta

dunque in primo luogo la auto-sensibilizzazione del proprio corpo in alcune delle sue

funzioni organiche, come l’alimentazione e la riproduzione. Il corpo animale è un

corpo senziente e sentito59. L’animale sente le sue operazioni e passioni (coscienza

animale o sensitiva), il suo benessere e sofferenze, i suoi movimenti, sforzi e tensioni,

e il suo dinamismo somatico come una totalità. Proprio per questo può dominare

intenzionalmente il corpo e non si limita a dipendere da funzioni vegetative di

controllo (la crescita organica invece non è controllata intenzionalmente, ma solo

57 Cfr., per questo punto, L. Polo, Curso de teoría del conocimiento, vol. II, pp. 15 ss., Eunsa, Pamplona 1985. 58 Non occorre riservare l’intenzionalità alle funzioni intellettuali. Esiste un’intenzionalità negli animali, dal momento che essi hanno vere funzioni cognitive. 59 La lingua tedesca si riferisce al corpo vivente o animale col termine Leib, diverso da Körper o corpo in senso dimensionale.

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48

vegetativamente). La presa del proprio corpo avviene per lo più in un senso olistico.

L’animale sente il suo corpo come un tutto unitario disponibile per la locomozione e

per i movimenti intenzionali, come la corsa per attaccare o per fuggire, o lo sguardo

della faccia per capire le intenzioni di un avversario.

Inoltre la percezione sensitiva si apre all’ambiente, trascendendo così il proprio

corpo, come avviene nella vista, nell’udito e nelle altre attività dei sensi esterni.

L’animale percepisce l’ambito fisico in cui svolge la sua attività in funzione dei suoi

scopi pratici: una prateria come territorio in cui trovare riparo e alimento, una serie di

rilievi geografici come luogo di nascondiglio, elementi dell’ambiente atti per la

costruzione del nido o della tana. Egli percepisce, in modo particolare, l’esistenza di

altri individui della propria specie o di altre, dove è incluso anche l’uomo, visto come

amico, nemico potenziale, specie pericolosa o possibile. Gli animali sviluppano

quindi una certa intersoggettività: riconoscono altri individui, anche con funzioni

“sociali” (compagni, rivali, superiori, inferiori, prole, genitori, partner sessuali). Le

scimmie riconoscono dei soggetti della loro specie tramite una percezione accurata

della loro faccia.

La sensibilità animale si apre ulteriormente a una certa “interiorità

rappresentazionale”, superando così la chiusura dell’individuo nell’hic et nunc.

L’esperienza e i ricordi degli animali sorpassano l’ambito ridotto della percezione

istantanea. Tale esperienza consente loro, fino a un certo punto, di prevedere il futuro

e di anticipare così intenzioni di rivali o nemici. Questa capacità permette di avere

intenzioni di compiere azioni con una certa struttura a lunga scadenza, come può

essere, ad esempio, il pedinamento di un rivale, il compimento di una vendetta, la cura

della prole, la costruzione di tane sofisticate, la migrazione a luoghi lontani. Tutto

questo gli animali non lo compiono meccanicamente, come se fossero dei computer

programmati, ma lo fanno grazie all’accumulo di esperienze e all’apprendimento.

Non basta dire che gli animali realizzano questi atti “istintivamente”. Gli istinti

sono inclinazioni naturali predeterminate verso una certa condotta generica (ad

esempio, l’istinto di fuggire o di accudire la prole). Ma il comportamento istintivo non

si contrappone all’apprendimento né alla coscienza sensitiva. Di solito esso è una

spinta iniziale da completare tramite l’apprendimento. Gli animali debbono imparare

a difendersi, a cacciare, a volare. L’istinto quindi non si contrappone alla condotta

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49

intenzionale. Anche se un animale può aggredire “per istinto”, lo fa in un modo

flessibile, variabile a seconda delle circostanze, tramite operazioni percettive ed

emozioni e con il ricorso all’esperienza acquisita.

4. Integrazione e soggettivizzazione. Le sensazioni, percezioni, ricordi ed

emozioni animali, pur avendo la loro autonomia neurofisiologica, sono continuamente

integrate nella vita sensitiva. Questa integrazione è palese anche a livello neurologico:

gli animali più evoluti centralizzano la loro attività sensitiva nel sistema nervoso,

detto appunto “centrale”. L’encefalo diventa l’organo di governo della fisiologia degli

animali e della loro attività interna (controllo neurale del proprio corpo) ed esterna

(condotta). La testa dell’animale è, anche anatomicamente, l’organo di

comunicazione, di centralizzazione percettiva e di direzione comportamentale.

L’integrazione cognitiva ed emotiva è dinamica e continua, e non è mai

garantita del tutto, essendo in rapporto con un ambiente variabile e contingente. Essa

porta l’animale all’unità, a tal punto che dobbiamo denominarlo con un nuovo nome:

soggetto. Non è una persona, ma è un certo “soggetto”, in quanto possiede una

soggettività sensitiva (cognitiva ed emotiva) assolutamente insolita nei vegetali. Tale

soggettività non è la totalità del corpo, poiché non è una globalità spaziale né una

struttura anatomica completa. Quando l’animale soffre o si arrabbia, soffre come un

tutto, si arrabbia come un tutto soggettivo. Il fenomeno non si può descrivere in

termini spazio-temporali. Lo comprendiamo per analogia con i nostri comportamenti

soggettivi primari.

5. Condotta come prassi intenzionale. La sensibilità emotiva e cognitiva

animale crea un nuovo tipo di operazioni, diverso dalla “prassi vegetativa”. La prassi

animale è intenzionale: nasce dall’immaginazione, dall’attenzione, dalla memoria,

dall’esperienza, dagli impulsi emotivi, portando a vedere il mondo -ambiente e

rapporti intersoggettivi- come “pieno di significati animali”. Gli atti corporei

dell’animale si configurano in rapporto a questi significati e sono attribuibili al

soggetto come un tutto. La nuova prassi merita un nome particolare: condotta.

L’animale, quando cerca la preda, corteggia l’altro sesso, si nasconde dal pericolo o

vive in stato di obbedienza nei confronti del suo padrone umano (animali

addomesticati), esercita un comportamento intenzionale, come ha rilevato l’etologia

moderna (superando così una visione puramente organica della zoologia). Gli atti

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50

della condotta animale sono “esterni” ed osservabili, ma solo per chi sa interpretarli

come espressioni della vita animale. L’esterno qui non è colto con una lettura fisico-

chimica, bensì in modo intenzionale.

La condotta è una prassi intenzionale. Nella vita appariva per la prima volta un

tipo di attività fortemente finalizzata. Nell’animale questo finalismo è ampliato ed è

intenzionale. Esso guida la sua condotta come un soggetto unitario in virtù della sua

cognizione, emotività e tendenze. Fenomenologicamente questo punto si vede, ad

esempio, nella motilità: l’animale dispone del suo corpo proprio nel senso di poterlo

articolare con una certa libertà (in senso analogico). L’articolazione somatica

costituisce la sua situazione (indicata dalla categoria aristotelica del situs o modo di

stare nel locus), non puramente meccanica, ma significativa per la vita: corpo in

agguato, corpo disteso, corpo in tensione. In un secondo aspetto della condotta

motrice, l’animale è capace di spostare il suo corpo localmente, con un certo dominio

del suo territorio (dominio ecologico). Infine, il comportamento corporeo si vede

nell’espressività facciale, dotata spesso di una valenza comunicativa: faccia

esprimente sofferenza, dolore, ferocia, inquietudine, panico, amicizia.

6. La base neurale: elaborazione dell’informazione. Negli animali compare il

sistema nervoso, il quale diventa sempre più sviluppato -centralizzazione,

encefalizzazione- nelle specie superiori. Così come la vita organica è organizzata e

trasmessa tramite la dotazione genetica, in questo livello l’informazione viene

recepita ed elaborata in un senso nuovo, al di sopra degli elementi genetici che pur

sono sempre conservati nell’organismo. La sensibilità consiste, in questo senso, nella

ricezione d’informazione proveniente dall’ambiente e dal corpo proprio, in un modo

sempre variabile, affinché sia elaborata, conservata nella memoria e funzionalizzata in

rapporto alle reazioni emotive e alla guida del comportamento. Sembra questo il

compito peculiare del sistema nervoso, particolarmente del cervello. La scienza

cognitiva ci ha fatto scoprire il cervello come un organo elaboratore di informazione.

Quest’elaborazione è un tutt’uno con gli aspetti intenzionali della cognizione e

dell’emozionalità. A partire da quest’ultima si produce il governo della condotta e di

tanti aspetti neurovegetativi collegati all’affettività.

L’elaborazione informazionale nervosa non segue una modalità simbolica.

Molti aspetti del ruolo dell’informazione nella vita vegetativa sono conservati ed

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51

elevati al nuovo livello della coscienza sensitiva oppure a momenti precoscienti o

inconsci propri della dimensione neurologica. Il sistema nervoso trasmette

informazione tramite un meccanismo causale “presimbolico”, dove i segnali recepiti

subiscono processi di trasduzione e sono interpretati in un determinato senso in

funzione della percezione e della risposta comportamentale. Seppure nell’animale non

esiste un linguaggio separato (astratto), la ricezione percettiva include

un’interpretazione degli eventi sensibili, nei quali l’individuo scorge un significato.

Un suono può rappresentare un pericolo, un odore indica la presenza di un individuo.

L’associazione di segnali può includere nuovi significati e viene impressa

nell’esperienza. Questa è la base dello sviluppo dei linguaggi animali.

5. Ontologia dell’atto sensitivo

a) Le cinque dimensioni delle operazioni sensitive

Nella nostra sezione storica abbiamo considerato come l’attività psichica viene

spesso vista in modo unilaterale (neurologismo, funzionalismo, comportamentismo)

da alcune correnti filosofiche. Adesso possiamo prendere atto in un modo più

esplicito della presenza di una serie di dimensioni della vita sensitiva. Queste

dimensioni sono una realtà ontologica e fondano gli approcci epistemologici della

conoscenza comune, della scienza e della filosofia nei confronti della vita sensitiva.

Nell’abituale filosofia della mente questo paragrafo sarebbe intitolato

“ontologia degli atti mentali”. Noi preferiamo distinguere tra l’atto sensitivo e l’atto

intellettuale, poiché essi non hanno esattamente la stessa struttura ontologica.

Confonderli è tipico del dualismo cartesiano. In modo generico si potrebbe pure

parlare di “atti psichici”, solo che, come diremo, psichica è piuttosto una dimensione

degli atti animali o umani. Dunque le cinque dimensioni sono:

a. La dimensione neurologica è la parte fisica o causa materiale dell’atto

sensitivo (cognitivo o emotivo). A livello di conoscenza ordinaria o

“fenomenologica”, questa dimensione di solito è velata, benché notiamo la presenza

dell’organo sensoriale e comprendiamo il suo ruolo. Avvertiamo di vedere con gli

occhi, nonché le ripercussioni fisiologiche delle nostre emozioni. Dal punto di vista

epistemologico, la dimensione neurofisiologica corrisponde a un tipo di astrazione in

cui sono considerati soltanto i parametri dei corpi corrispondenti alle descrizioni e alle

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52

spiegazioni caratteristiche delle scienze naturali, in rapporto all’osservazione esterna

delle proprietà anatomiche e fisiologiche organiche.

Possiamo studiare la vista materialmente, ad esempio, descrivendo e spiegando

fisicamente il sistema visivo (retina, vie nervose al cervello, centri corticali). A causa

dell’astrazione della metodologia scientifica, è possibile considerare questa

dimensione senza aver sperimentato le corrispondenti sensazioni o emozioni.

Possiamo studiare la percezione di ultrasuoni nei pipistrelli senza poter figurarci che

cosa “sentano”, correlando eventi nervosi e reazioni esterne, anche se ci serviamo

dell’analogia con processi intenzionali umani, di cui abbiamo un’esperienza

soggettiva, per farci una certa idea dell’esperienza la cui qualità specifica ignoriamo.

La descrizione neurale degli eventi psichici è importante per intervenire

causalmente sull’organismo senziente. Essa possiede la sua autonomia, dando luogo

alla scienza naturale della psiche. Ma tale descrizione ha senso solo presupponendo la

componente psicologica correlativa. Se un gatto non vede bene, la neuroscienza potrà

far sì che migliori la vista. La paura di un gatto, atto psicosomatico, forse si potrà

moderare con farmaci o con interventi neurali opportuni. In questo caso avremo preso

la via della materialità per suscitare o per modulare alcuni effetti psicosomatici.

Questa strada è utile in tante circostanze, ma la causalità naturale ordinaria

(intenzionale) della paura sta nella percezione di oggetti pericolosi, non nella pura

manipolazione del sistema nervoso.

b. La dimensione psichica soggettiva è la causa formale dell’atto sensitivo. La

descrizione psicologica degli atti sensitivi, in quanto si riferisce al loro aspetto

formale, è quella che “ha senso” per noi, e in questo senso è più importante della sola

dimensione fisica.

Etimologicamente psichico vuol dire “dell’anima”. Il vissuto psichico è la

qualità sentita in quanto tale (freddo, dolore), benché nel caso delle operazioni

intellettuali non diciamo di “sentirle”, bensì di “avvertirle” (“avverto le mie

intenzioni”). La qualità psichica normalmente è assegnata al soggetto senziente

(“sento freddo”). Di solito è cosciente (“coscienza sensitiva”), ma può anche non

esserlo.

La distinzione tra atti fisici (esternamente osservabili) e psichici (internamente

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53

osservabili) è stata proposta da Brentano60, anche se risale alla distinzione classica tra

anima e corpo e tra gli atti delle diverse potenze operative. Comunque qui non sto

parlando di due tipi di atti, ma di due dimensioni di un unico atto. La dimensione

psichica è un vissuto del soggetto senziente. Quindi è vissuta “in prima persona” o

“privatamente”, mentre la dimensione neurale è conosciuta “in terza persona” o

“pubblicamente” (questa terminologia è impiegata solo per l’uomo). La psicologia, se

non è comportamentista, normalmente si serve della fenomenologia psicologica o

dell’esperienza interna dei soggetti umani. Per analogia, possiamo immaginarci più o

meno bene aspetti della sensibilità animale più vicini alle nostre esperienze.

Il punto indicato è presente nel seguente testo di Tommaso d’Aquino:

“Nelle passioni dell’appetito sensitivo si possono considerare due aspetti,

uno materiale (quasi materiale), l’alterazione organica (corporalem

transmutationem), e l’altro formale (quasi formale), procedente

dall’appetito. Così come nell’ira, si legge in I de Anima61, l’elemento

materiale è l’incremento di sangue intorno al cuore, o qualcosa di questo

tipo, mentre l’elemento formale è il desiderio di vendetta”62.

La sede corporea dell’emotività, come sappiamo, non sta nel cuore ma nel

cervello, ma il punto essenziale non cambia. L’emozione, atto psicosomatico,

possiede una struttura “quasi ilemorfica”: la dimensione psichica è

l’iperformalizzazione di una struttura organica adeguata.

c. Dimensione oggettiva dell’intenzionalità psichica (rilevata da Brentano). Gli

atti sensitivi e percettivi hanno un lato soggettivo (l’atto come operazione del

soggetto) e un versante intenzionale oggettivo (da qui viene, appunto, il termine

intenzionalità). Così, l’atto di vedere è intenzionato ad un oggetto: il colore e la luce

delle cose visibili. Le due dimensioni, soggettiva e oggettiva, sia pure collegate e

inseparabili, non si possono confondere. La percezione ci apre al mondo reale,

60 Cfr. F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, Laterza, Roma-Bari 1997, vol. 1, pp. 144-146, corrispondenti al capitolo intitolato “La differenza tra fenomeni psichici e fenomeni fisici”. 61 Cfr. Aristotele, I De Anima, 403 a 30. 62 San Tommaso, S. Th., I, q. 20, a. 1, ad 2.

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l’immaginazione ci svela un mondo immaginario, diverso dalla stessa soggettività.

L’oggetto dell’atto intenzionale ordinariamente è il mondo esterno o il proprio

corpo nella misura in cui viene rivelato dall’approccio cognitivo. L’oggetto è la realtà

stessa in quanto si manifesta parzialmente o aspettualmente al soggetto cognitivo. In

alcuni casi, l’oggetto può essere una “rappresentazione” senza un riferimento diretto

alla realtà (ad esempio, i sogni). Nell’uomo, gli oggetti dell’immaginazione e del

pensiero razionale possiedono una propria autonomia (non si confondono con le

operazioni del soggetto), e sono indeducibili dalla struttura della soggettività63.

La conoscenza sensibile si rivolge direttamente al mondo, occultando in qualche

modo la soggettività, soprattutto nel caso dei sensi più “oggettivi” (vista e udito).

L’intenzionalità “favorisce” il darsi dell’oggetto e per questo nasconde il soggetto.

Invece le emozioni e i sentimenti sono più direttamente rivelatori della soggettività,

benché abbiano generalmente una dimensione oggettiva (ad esempio, la gioia

normalmente è dovuta a motivi oggettivi).

d. La dimensione comportamentale è costituita dagli atti esterni intenzionali che

configurano la prassi animale o condotta: mangiare, cacciare, nascondersi, richiamare

l’attenzione, fuggire. Quasi tutti gli atti psichici almeno hanno un rapporto con un

possibile quadro comportamentale (il dolore porta a lamentarsi e a cercare di fare

qualcosa per toglierlo; l’ira orienta verso l’aggressione). Nel comportamento si può

distinguere tra l’espressione o manifestazione esterna degli atti interni e le azioni che

ne sono la causa o la conseguenza. Quando gli atti sensitivi sono situazioni stabili o

abiti anziché operazioni (situazione di tristezza, memoria, rancore prolungato),

possiamo vedere la dimensione psichica come una predisposizione stabile ad agire in

un certo senso.

e. La dimensione metafisica si colloca a un livello ontologico preoperativo e

prefenomenico. È presente negli atti sia sensitivi che intellettuali. Ci riferiamo ad essa

quando diciamo, ad esempio, “questo animale sta soffrendo”, “sento la mia mano”.

Senza una nostra comprensione metafisica, implicita nella conoscenza ordinaria e

63 Questa dimensione, applicata al livello intellettuale umano, corrisponde alle nozioni di mondo 3 di Popper e di oggettività intenzionale di Husserl. L’interpretazione filosofica dell’oggettività è collegata alla problematica del realismo della conoscenza.

Page 55: Sanguineti - Filosofia Da Mente

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nelle scienze, non avrebbe senso parlare di questo animale o di io (l’io non è né

un’operazione, né una sensazione, né un oggetto, e comunque viene avvertito).

Questo punto è fondamentale, ovviamente, per comprendere l’uomo nella

completezza delle sue dimensioni o per poter parlare significativamente di persona,

io, coscienza, conoscenza della realtà, allucinazione (quest’ultima nozione

presuppone i concetti metafisici di verità e di errore). La dimensione metafisica è

avvertita dall’uomo con un atto intellettuale operante nella cognizione sensitiva.

L’empirismo di tradizione humeana trova difficile la comprensione dell’io o della

persona perché dissolve la comprensione metafisica a scapito delle altre dimensioni

(di conseguenza, l’io e altre realtà solo metafisicamente accessibili verranno viste

come costruzioni logiche, psichiche, sociali, ecc.).

Mi sono riferito a queste cinque dimensioni prevalentemente nei confronti degli

atti sensitivi, ma qualcosa di analogo si può dire in rapporto alle operazioni spirituali

dell’uomo, come capire, credere o volere, solo che in questo caso, come vedremo nel

capitolo 3, la dimensione neurologica, pur avendo un rapporto essenziale con

l’operazione spirituale, non è un suo costituente formale, benché possa essere

integrata con essa nell’unità di un singolo atto umano. Parlare, ad esempio, è un unico

atto umano, con una dimensione intellettiva e volitiva e un lato fisico linguistico. In

questo caso, l’atto intellettuale-volitivo contenuto nel parlare è spirituale, ma al

contempo include un versante fisico essenziale, dando luogo a un unico atto umano

personale (atto integrato quindi, da operazioni spirituali e fisiche)64.

Normalmente la nostra conoscenza comune dell’agire animale e umano coglie

in modo simultaneo queste cinque dimensioni. Nel dire “provo dolore alla mia mano”,

avverto il mio corpo e percepisco un mio evento psichico, mentre al contempo

comprendo il mio comportamento linguistico e la mia soggettività personale

senziente. Possiamo separare ciascuna delle cinque dimensioni sul piano

dell’astrazione, come fanno le scienze, ma allora le altre dimensioni si

presuppongono. La filosofia studia in un modo più sistematico l’aspetto metafisico

degli atti della vita animale e umana. La stessa distinzione di queste dimensioni si

64 Con una visione soltanto scientifica, mi si consenta di insistere, queste “integrazioni” di atti o di livelli sono semplicemente incomprensibili.

Page 56: Sanguineti - Filosofia Da Mente

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comprende solo nel quadro della conoscenza metafisica: non si può giustificare

situandoci esclusivamente sul piano psicologico o neurologico.

La realtà di queste dimensioni si potrà discutere, affermare o negare, come

quando si dice “la sensazione non è che attività neurale” o “l’io è fittizio”, ma ciò si fa

sul piano metafisico. Una tesi riduzionistica non può evitare di essere ontologica.

L’ignoranza di una di queste dimensioni può sembrare una posizione innocua, ma non

sempre è così, perché le cose più ovvie non si possono ignorare senza conseguenze

pratiche violente. Difatti, l’esclusione di uno di questi aspetti potrebbe portare ad

azioni deviate. Se riteniamo che gli animali non soffrano, potremmo farli soffrire

parecchio. In un modo analogo, potremmo uccidere vite umane innocenti se

ignoriamo la realtà metafisica della persona quando non è in grado di esercitare

l’autocoscienza in atto. La conoscenza ontologica quindi può essere una

responsabilità etica.

b) Carattere psicosomatico dell’atto sensitivo

A questo punto possiamo precisare meglio la natura dell’atto sensitivo.

Escludiamo l’esistenza di due atti o di due eventi, uno neurale e l’altro psichico.

L’atto sensitivo, sia cognitivo che tendenziale, è simultaneamente psichico e neurale.

È un unico atto psicosomatico, con una dimensione formale (psichica) e una

dimensione materiale (neurologica). Questo è un punto esplicito nell’Aquinate e in

Aristotele:

“Sentire non è un atto dell’anima, né del corpo, bensì del composto [di

anima e corpo]”65.

A livello di potenza, in modo correlativo, Tommaso d’Aquino concepisce la

facoltà psichica (ad esempio la vista) come una speciale potenzialità dell’anima

sensitiva inerente all’organo, così come, in modo strutturale, l’anima sensitiva è

l’atto-di-un-organismo, nell’unità di una sola sostanza e un solo individuo.

Questa tesi è ben diversa dalla teoria dell’identità, la quale identifica le due

65 Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 77, a. 5, sed contra, che è una citazione di Aristotele: Del sonno e della veglia, I, 454 a 7.

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dimensioni riducendo l’una all’altra. Al contrario, la dimensione formale e quella

materiale dell’atto sensitivo sono diverse, così come, in un altro ambito di cose, la

forma e la materia delle cose fisiche sono diverse, senza però essere “due cose”. Sono

due aspetti o co-principi che possono essere compresi, per astrazione, in un modo

separato, ma non sono due sostanze né due essenze.

L’unità sopra-ilemorfica tra la formalità psichica e la materialità neurale degli

atti psichici è una tesi ontologica ben comprensibile all’interno della metafisica

aristotelica. Siamo portati all’affermazione di questa tesi in base all’esperienza e alla

lettura metafisica della realtà. La fenomenologia della percezione non sempre l’attesta

direttamente. La scienza ci dà anche indicazioni interessanti al riguardo, operando

però all’interno di un’astrazione. Il linguaggio psicologico può adeguarsi a questi

livelli epistemologici.

c) Rilievi linguistici

Dal punto di vista linguistico, correlativo alla fenomenologia della percezione,

gli atti sensitivi fisiologici sono denominati fisici e sono attribuiti al soggetto, con o

senza una specificazione somatica particolare. Così, il dolore e il piacere corporei,

oppure la fame o la sete, sono sperimentati come atti fisici (“provo dolore nel dito”),

ma naturalmente atti fisici del corpo elevato o senziente. Possiamo dire “il mio

stomaco ha fame”, ma è un modo improprio di parlare. È più esatto dire “ho fame”: la

sensazione dello stomaco, benché sia di una parte del corpo, va attribuita al soggetto e

non a tutto il corpo (non è che tutto il mio corpo abbia fame).

Quindi ci sono perlomeno due nozioni di corpo: una è il corpo in quanto

appartiene a un livello ontologico inferiore, un’altra il corpo corrispondente al livello

superiore (somatico). Il “dolore fisico” non appartiene al corpo in quanto descritto

dalle scienze naturali (corpo astratto e in terza persona), neppure all’anima, ma è del

corpo animato o dell’anima incarnata. Invece non attribuiamo normalmente al

soggetto senziente le attività vegetative o fisico-chimiche delle parti del nostro corpo.

Se teniamo conto in modo esclusivo del linguaggio scientifico naturale, la

dimensione sensitiva apparirà dunque strana, misteriosa o incomprensibile. Sorgerà

quindi la tentazione di minimizzarla o di attribuirla soltanto allo spirito. Questo

dualismo finisce facilmente nel monismo materialista, poiché l’atto psichico visto

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come un elemento estraneo al corpo invita alla sua eliminazione.

Queste particolarità linguistiche dimostrano l’importanza dell’analogia nell’uso

dei termini psicologici. Se corpo può significare il corpo senziente, o il corpo in

quanto non senziente, qualcosa di simile vale per la terminologia cognitiva applicata

agli animali, agli uomini e alle macchine. Di solito prendiamo gli atti umani così

come vengono percepiti in circostanze ordinarie e talvolta li attribuiamo ad altre cose

in maniera un po’ indifferenziata. Nel dire “vedo una persona”, “il cane vede una

persona”, “il robot vede una persona”, utilizziamo il verbo vedere in modo analogico.

Il nostro vedere non è identico a quello di un animale e molto meno al “vedere” di un

computer attrezzato con sensori. Gli animali vedono persone, ma non le riconoscono

come tali, e i sensori di un robot propriamente non vedono, pur comportandosi come

se vedessero. Lo stesso vale per tanti verbi cognitivi e affettivi, come desiderare,

spaventarsi, volere, scegliere, capire, ricordare, accorgersi, contare, parlare.

Da quanto detto possiamo ricavare due conclusioni:

1) I termini di un livello ontologico acquistano un nuovo senso se valgono per

tale livello elevato a un grado ontologico più alto. Per questo motivo abbiamo parlato

di corpo elevato per riferirci al corpo sensibilizzato (ancor di più in riferimento al

corpo umano personalizzato), e di corpo astratto per parlare del corpo di un’entità

superiore preso nella prospettiva di un livello ontologico inferiore (nella terminologia

ordinaria queste distinzioni non sono seguite con rigore). Con un altro esempio,

parliamo degli animali per riferirci agli animali irrazionali o agli animali in quanto

costituiscono un genere cui partecipa l’uomo come “animale razionale”.

2) I termini di un livello superiore possono essere usati per i livelli inferiori con

analogia o equivocità. Il nome “intelligenza” non significa lo stesso usato per l’uomo

o per le scimmie, e attribuito a una macchina diventa equivoco. L’occhio di una statua

si dice “occhio” in senso equivoco.

Dal punto di vista della presentazione fenomenica, alcuni atti sensitivi

manifestano chiaramente la loro dimensione materiale. Altri, invece, più immateriali e

intenzionali, si rivelano preferentemente sul versante psicologico o sul piano

dell’oggettività. Quando compare nella nostra mente una melodia, siamo rivolti

all’oggettività: il lato soggettivo del fenomeno è conosciuto indirettamente e niente

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sappiamo dell’aspetto neurologico. Scoprire il ruolo del cervello nelle nostre attività

psichiche ci ha richiesto secoli.

d) Correlazioni e causalità: presentazione euristica del problema

Esaminiamo adesso alcuni problemi ontologici sul rapporto tra la materialità

neurale e la sopraformalizzazione psichica. Certe questioni al riguardo sono state

considerate da alcuni filosofi funzionalisti preoccupatisi di vedere il senso in cui una

struttura organica potrebbe corrispondere a una funzione psicologica e viceversa.

Sono celebri al riguardo le speculazioni di H. Putnam, con numerosi “esperimenti

mentali” allo scopo di vedere fino a che punto una funzione psicologica sarebbe

“molteplicemente realizzabile” in molti supporti neurali, o come un unico supporto

neurale sarebbe in grado di recepire parecchie formalizzazioni psichiche. La nozione

di sopravvenienza, menzionata nella nostra sezione storica, è stata usata proprio per

approfondire questo punto, senza però aver dato luogo a risultati conclusivi.

Pensare a priori che un tipo di formalità debba sempre corrispondere a un tipo

(type) o a un caso concreto (token) di materialità o viceversa sarebbe arbitrario. Anche

a livello ilemorfico semplice possiamo capire, ad esempio, come la struttura “sedia”

può essere realizzata in molti tipi e casi di materia (sedia di legno, di ferro), così come

la medesimo materia può ricevere diverse formalizzazioni (col legno possiamo fare

sedie, tavole, armadi). Parlare di correlazione non basta, benché sia orientativo in

mancanza di altre conoscenze. Le idee di correlazione o di sopravvenienza potrebbero

essere fuorvianti se non si passa a un’analisi ontologica della questione. Il dolore, ad

esempio, non è propriamente “il correlato” di una base neurale, ma è piuttosto una

certa struttura neurale vista dal suo versante formale, così come “bicchiere” non è il

correlato di un certo pezzo di cristallo, come se il bicchiere fosse una “cosa” diversa

dal pezzo di cristallo.

I filosofi della mente hanno cercato di risolvere i problemi legati alla

correlazione mente-corpo col ricorso a esperimenti mentali. Si è suggerita la

possibilità di immaginare certe strutture microfisiche quantistiche dotate di

sensazioni, come i dolori, o di pensare ad una sensazione di dolore senza una base

materiale. Questi esperimenti, a mio parere, tranne casi particolari non sono sempre

utili, perché il fatto che una possibilità non sia contraddittoria non garantisce il suo

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60

senso, e in qualsiasi caso non serve per l’elaborazione di un’ontologia realistica.

Potremmo pensare, ad esempio, ad un universo costituito soltanto da linee? Mettersi a

pensare a queste cose, benché non siano contraddittorie, non mi pare un utile metodo

filosofico.

La “correlazione” forma/materia, nelle sue molteplici possibilità, si apre alla

questione causale. Il binomio formalità-materialità contiene aspetti causali propri.

Una determinata configurazione materiale suscita il comparire di una forma. Nel

quadro dell’attività artistica dell’uomo, il processo è guidato dalla mente umana. Una

certa organizzazione di lettere “suscita” la Divina Commedia: in questo caso, le lettere

sono un semplice materiale che può essere ordinato svariatamente da qualcuno, con la

finalità di produrre sequenze simboliche dotate di significato. Nella natura, invece, la

materia talvolta si auto-organizza spontaneamente, o sembra di farlo, e così nascono

le specie o “tipi di enti” dell’universo. Quest’organizzazione relativamente spontanea,

subordinata comunque a leggi naturali, pone una serie di problemi metafisici che non

affronteremo in questa sede.

Andiamo invece alla questione mente/corpo. A un certo livello “basso”,

l’elemento materiale organizzato in un certo senso suscita la sensazione, ovviamente

in rapporto alla causalità ambientale. La visione, l’audizione, la percezione, il dolore,

la fame e tanti altri atti psichici elementari sono causati dall’organizzazione materiale

organica (causalità materiale), per cui sono controllabili quando sappiamo agire sulle

opportune disposizioni materiali. L’unico modo di produrre un dolore, di alleviarlo o

di eliminarlo, è agire causalmente sulle disposizioni neurofisiologiche corrispondenti

o sugli agenti esterni che provocano la stimolazione dolorosa. Vedere invece nelle

idee con cui Einstein scoprì la teoria della relatività il semplice risultato di una

complessa attività neurale sarebbe un esempio di riduzionismo materialista. Non basta

attribuire la causalità dei contenuti del pensiero a una certa organizzazione e

funzionalità del cervello. La questione merita un approfondimento e per ora mi limito

a presentarla, senza la pretesa di risolverla in questo momento (non tutti gli atti

psichici, comunque, sono analizzabili secondo un unico schema causale).

Perché una strutturazione materiale causa o suscita la comparsa di una

formalità? Questa domanda non può ricevere una risposta univoca. Possiamo

domandarci, ad esempio, perché una certa organizzazione materiale “suscita” una

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61

sedia. Ovviamente la sedia non si costituisce in qualsiasi modo. Bisogna adoperare i

materiali adeguati e assemblarli nel modo giusto affinché risulti una struttura con le

caratteristiche di una sedia, ad esempio, affinché un uomo possa sedersi su di essa e

così possa svolgere facilmente certi lavori. In quest’esempio, la “forma come fine”

guida la strutturazione della materia, come ha visto bene Aristotele all’inizio del libro

della Fisica66.

Eppure, quando ci domandiamo sui requisiti affinché una certa anatomia e

fisiologia nervosa possa dar luogo alle sensazioni coscienti o a qualsiasi processo

psichico, di solito non sappiamo cosa rispondere. E se in parte rispondiamo, non

siamo del tutto soddisfatti, in quanto ci sembra di rimanere a livello di corrispondenza

contingente e non d’intelligibilità necessaria. Tuttavia, una volta accettata la dualità

psichico/fisico con un minimo di corrispondenza reciproca, alcuni aspetti fisici

particolari ci sembrano più adatti per suscitare certi atti psichici, dal momento che

abbiamo imparato di fatto “come funzionano le cose”.

In questo senso Tommaso d’Aquino, ispirandosi ad Aristotele (influito a sua

volta dal pitagorismo), pose come condizione necessaria per la produzione della

sensazione l’esistenza di una precisa proporzione matematica (medietas, qualità

intermedia fisico-matematica) tra la costituzione fisica dell’organo sensoriale e le

caratteristiche degli stimoli ambientali, l’esistenza cioè di una fine “sintonizzazione”

tra organo recettore e stimoli67. Questo punto, pur legato alla visione fisica antica, è

significativo. Si vede qui la ricerca di una certa intelligibilità nella strutturazione

materiale capace di dar luogo alla sensazione. Tommaso d’Aquino si serviva di questa

tesi per “spiegarsi” perché i corpi celesti non potevano sentire (quindi non potevano

essere animati), in quanto non erano corpi organici, capaci di avere la medietas68. Egli

66 Cfr. Aristotele, Fisica, libro 2. 67 Cfr. Aristotele, Dell’anima, II, capp. 11 e 12, in particolare 424 a-b; III, cap. 1, in particolare 426 a 27 - 427 a 15, e il correlativo commento tomistico. Vedere anche C. Fabro, Percezione e pensiero, Vita e Pensiero, Milano 1941, pp. 20-26. 68 Gianfranco Basti ha stabilito un ponte tra la teoria della medietas e l’approccio informatico nello studio della sensazione. La medietas comporterebbe una sorta di computazione: “la ‘medietà’ consiste allora precisamente nella capacità dell’organo di senso di far corrispondere ad una qualche variazione dell’intensità dello stimolo dall’esterno un’analoga variazione di intensità di una grandezza fisica nella propria dinamica interna (...) Si tratta cioè di un computo essenzialmente ‘analogico’, diremmo oggi”: Le scienze cognitive: un ponte tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale, in S. Biolo (curatore), Intelligenza naturale e

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62

vedeva inoltre una correlazione tra il livello dell’intelligenza umana e l’ottima

costituzione fisica del corpo umano, atta per una delicata percezione sensibile69 e,

come vedremo più avanti, per motivi analoghi correlava la mente umana a una certa

anatomia cerebrale.

Pur sussistendo sempre un gap dimensionale tra l’ambito corporeo non sensibile

e il corpo senziente, si comprende bene l’esistenza della disponibilità di un tipo di

materialità nei confronti di una formalizzazione specifica. Siamo intelligenti, in parte,

perché abbiamo un certo tipo di cervello e non qualsiasi struttura, idoneo per poter

svolgere le funzioni sensitive. Il principio di una corrispondenza adeguata tra struttura

neurale e funzioni mentali appare intelligibile.

Capiamo bene, ad esempio perché una buona comunicazione nervosa o perché

la plasticità cerebrale facilitano certe attivazioni psichiche, così come comprendiamo

bene gli ostacoli neurologici al buon funzionamento della mente. In linea di massima

riteniamo che il pensiero deve avere come supporto un cervello di un certo volume e

complessità. Quindi sia pure a tastoni, a poco a poco capiamo come una buona

funzionalità mentale richiede delle condizioni anatomiche e fisiologiche precise. La

materialità impone le sue regole. Le impariamo come una necessità con certi margini

di contingenza. Il problema comunque rimane aperto.

Una via di soluzione di questo problema sta nell’approfondimento del

progressivo dominio della formalità sulla materialità. Nella visione ilemorfica di

Tommaso d’Aquino, le forme più alte (anima vegetativa, sensitiva e intellettiva)

“dominano” sempre meglio la materia. Questo dominio crescente non è la semplice

superiorità formale del tutto rispetto alle parti. Piuttosto si colloca nella linea

dell’organizzazione, la funzionalità, la sostanzialità, l’unità e la finalizzazione.

Ovviamente non avrebbe senso dire che la struttura di un aereo “domina” la materia di

cui è fatto. Una struttura d’ordine non è come la forma forte di una sostanza naturale o

di un vivente. Ma non bisogna pensare alla formalità superiore come a una specie di

intelligenza artificiale, Marietti, Genova 1991, p. 130. Cfr. ancora Basti, su questo punto, Filosofia dell’uomo, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1995, pp. 214-224. Su tematiche di Basti affini a questi punti, cfr. la voce Mente-Corpo, Rapporto, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e fede, cit. 69 Cfr. S. Th., I, q. 76, a. 5.

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“cosa” che controlla i meccanismi materiali, poiché in questo caso andremmo al

dualismo estrinseco. Così in Cartesio l’anima umana era come un fontaniere che

regolava i meccanismi della fontana del corpo, vale a dire, era una mente tecnica che

governava una macchina.

La formalità del vivente non cognitivo non è una speciale forza aggiunta che

mette in moto i meccanismi della vita, come sosteneva il vitalismo. Piuttosto è un atto

sostanziale immanente da cui dipende l’organismo nella sua identità e dinamismo

vitale unitario. Tale atto può essere suscitato da una certa complessità molecolare e

scompare a causa di certe disfunzioni organiche che distruggono la totalità vivente.

Qualcosa di simile si può dire della vita sensitiva. Ma nell’animale una parte

organica esercita le funzioni di controllo centralizzato. Questa parte del corpo è

“sopraformalizzata” dalle funzioni psichiche intenzionali. In questo caso, quindi, la

causalità della vita intenzionale non dipende semplicemente dai processi organici o

neurali in quanto puramente fisici. Dipende da essi in quanto sono animati e

sensibilizzati. Talvolta le funzioni psichiche sensitive più alte, transorganiche,

possono guidare la stessa formalizzazione materiale, nonché il funzionamento

intenzionale del corpo (condotta). Comincia ad apparire così una causalità top-down,

dall’alto in basso, una causalità formale attiva diversa dalla causalità bottom-up o dal

basso in alto, più caratteristica della pura materialità. Così, l’animale quando impara

tramite i suoi processi cognitivi ed emotivi sta organizzando il suo cervello in un certo

senso. Questa funzione di dominio “alto” della formalità sulla materialità appare a

poco a poco nelle funzioni sensitive superiori, senza comportare dualismo.

Torneremo sulla problematica della causalità nel capitolo 4. Volevamo farne

soltanto un cenno a proposito dell’ontologia dell’atto sensitivo. Non sempre, come

talvolta si pensa, le linee della causalità della vita sensitiva vanno dal basso verso

l’alto. In altre parole, la causalità nella vita animale non si esaurisce sul versante della

materialità. Gli atti intenzionali sono causalmente rilevanti. Il problema si presenta in

modo più forte nell’uomo, la cui condotta è guidata dalla volontà. Però, se negli

animali le funzioni superiori cominciano ad avere un ruolo causale proprio, allora

l’affermazione della causalità del nostro spirito sul corpo non apparirà strana o poco

naturale.

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64

6. Comportamento e interiorità

a) Introduzione

Nella visione razionalistica classica, solo il soggetto (“io”) avrebbe il privilegio

di accedere ai suoi stati interiori o stati di coscienza. Degli altri si avrebbe una

conoscenza fisica esterna e si arriverebbe alla loro interiorità solo per inferenza.

Questa posizione separava drasticamente l’esteriorità “pubblica” dall’interiorità

“privata”. Lo stesso si può dire dell’empirismo fenomenista, una posizione

gnoseologica secondo cui noi conosciamo primariamente le apparenze, i puri dati dei

sensi (sense-data) e non la realtà così come è veramente: il mondo esterno in quanto

conosciuto diventa un puro mondo interno. L’immediatezza sarebbe esclusivamente

l’interiorità o il mondo delle nostre rappresentazioni. Ne segue una speciale difficoltà

per distinguere tra percezione, immaginazione e allucinazione.

Il comportamentismo filosofico invece (Ryle), nonostante i suoi limiti, ha messo

in luce la portata dei legami tra gli atti interni e la condotta esterna. Inoltre, nel

superamento di una concezione puramente rappresentazionale della conoscenza, oggi

si tende a vedere la percezione e la vita cognitiva come un rapporto diretto verso la

realtà esterna. Esiste, certamente, una reale interiorità (sensazioni, emozioni, dubbi,

idee), ma nel quadro di un rapporto intenzionale con la realtà e non come qualcosa di

chiuso. Anche chi sogna o chi è allucinato non crede di conoscere soltanto sense-data,

ma ritiene, sia pure erroneamente, di essere presente nella realtà70. D. Braine71 segnala

con enfasi questo punto, come precedentemente lo aveva fatto J. Gibson72 sul versante

psicologico. Le mediazioni rappresentative comunque non si possono omettere,

poiché altrimenti non si potrebbero spiegare, ad esempio: 1) gli aspetti costruttivi

delle nostre facoltà cognitive; 2) gli errori e le inadeguatezze della percezione; 3) la

crescita e ricchezza del mondo interiore dell’uomo, grazie al pensiero e

all’immaginazione creativa.

70 La “teoria dei sense-data” fu criticata da J. Austin nella sua opera Sense and sensibilia, Clarendon Press, Oxford 1992. Quest’opera portò l’ultimo Putnam ad una posizione gnoseologica più favorevole al realismo naturale, lontana dal suo precedente “realismo interno”: cfr. H. Putnam, Mente, corpo, mondo, cit. 71 Cfr. D. Braine, The Human Person: Animal and Spirit, cit. 72 Cfr. J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna 1999.

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65

Nel cognitivismo oggi è dominante l’indirizzo della “conoscenza incarnata”

(embodied cognition), dove la cognizione è concepita come nata dalle interazioni tra il

soggetto conoscente e il suo ambiente. La conoscenza dipende da esperienze emerse

grazie al fatto di avere un corpo con certe capacità sensorio-motorie, e inizia a partire

dall’abilità di un organismo di agire nel suo ambiente73. Questi aspetti valgono

particolarmente per l’esperienza sensibile, sempre situata in un contesto fisico e in

rapporto alle attività intenzionali del conoscente74.

In queste discussioni bisogna mantenere un equilibrio tra l’interiorità e

l’esteriorità, tra la coscienza soggettiva e l’apertura al mondo, senza unilateralismi.

Nessuno può avere in proprio le sensazioni, emozioni o pensieri degli altri. Possiamo

conoscere quanto li succede e partecipare empaticamente alla loro vita, senza per

questo essere gli altri75.

Così come la conoscenza è un’apertura al mondo trascendente, precisamente

tramite le rappresentazioni la nostra capacità cognitiva è strutturalmente

intersoggettiva. La conoscenza delle altre persone, anche nella loro interiorità, è

naturale e in una prima fase è immediata. Conosciamo gli altri attraverso la

manifestazione della loro vita e condotta, dove si includono le espressioni gestuali, i

simboli e il linguaggio. Talvolta possiamo condividere empaticamente la loro

esistenza per mezzo della conoscenza di esperienza. Queste modalità cognitive sono

modalità percettive e apprensive superiori. Sono immediate in quanto arrivano alla

realtà esistenziale dell’altro (senza astrazione né ragionamento), e insieme sono

psicologicamente mediate, dato che si acquistano con l’esperienza e l’apprendimento.

73 La teoria della conoscenza incarnata nacque come reazione contro la visione eccessivamente astratta della conoscenza, propria del cognitivismo classico e del funzionalismo computazionale. Cfr., sul tema, W. J. Clancey, Situated Cognition, Cambridge University Press, Cambridge 1997; M. Johnson, The Body in the Mind, The University of Chicago Press, Chicago e Londra 1984; G. Lakoff, M. Johnson, Philosophy in the Flesh, Basic Bookls, New York 1999; D. Vallega-Neu, The Bodily Dimension in Thinking, State University of New York Press, Albany (NY) 2005; F. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1993; M. Wilson, Six Views of Embodied Cognition, “Psychonomic Bulletin and Review”, 9 (2002), pp. 625-636. 74 La conoscenza intellettuale, come diremo più avanti, trascende comunque ogni contesto dato e ogni situazione particolare dell’esperienza. Nei dibattiti cognitivi non sempre si distingue tra cognizione intellettuale e sensitiva. 75 Su questo punto torneremo nel capitolo 4, n. 9.

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66

Conoscere l’altro comporta saper interpretare bene le sue manifestazioni.

Questo processo si compie sia a livello percettivo, come abbiamo appena detto, sia a

livello di ragionamento astratto. Per sapere se una persona sta mentendo, possiamo

lasciarci guidare dall’intuizione, oppure fare una serie di ragionamenti, paragoni e

prove. Entrambi i metodi non sono completamente separati, poiché l’intuizione spesso

include un minimo di paragoni a livello di esperienza immediata. In alcuni casi le

manifestazioni dell’interiorità sono ovvie. Un sorriso esprime gioia in un modo

naturale, e in casi familiari più concreti scorgiamo bene le minime sfumature dei

sorrisi. In circostanze ambigue, il sorriso dovrà essere interpretato in base a una certa

indagine (se era sincero o puramente cortese, le sue vere cause, ecc.).

Conosciamo l’interiorità degli animali, d’altra parte, per analogia con quanto

succede nei nostri simili e anche perché hanno un’anatomia e fisiologia simile alla

nostra. Se hanno occhi ed orecchie, è naturale pensare che vedano e sentano come noi.

Riguardo agli animali lontani dalla nostra costituzione somatica, facciamo

un’inferenza analoga quando scopriamo il loro sistema nervoso. Quest’argomento

proviene da Searle76. Il nucleo del suo ragionamento è che noi conosciamo

empiricamente l’esistenza di coscienza negli animali non solo perché osserviamo il

loro comportamento, ma anche e soprattutto perché ne conosciamo la struttura

causale. Invece, nei riguardi di una matita o di un robot, benché non possiamo

dimostrare che “non hanno una coscienza”, sappiamo certamente che non possiedono

la struttura causale capace di produrla. Per lo stesso motivo, quando vediamo la TV

non pensiamo che lì dentro ci siano piccoli uomini in azione. Il motivo è empirico e

non a priori.

b) L’esterno e l’interno degli atti

Consideriamo adesso il rapporto tra la conoscenza e il comportamento.

Percepire, ricordare o capire sono azioni, una certa prassi, ma il problema si pone

specialmente nei confronti delle azioni esterne (camminare, salutare), visibili a tutti

gli osservatori. Ordinariamente le vediamo come espressioni di un atto interiore: se

qualcuno va a comprare un gelato, è perché vuole comprarlo; se una persona mi

76 Cfr. J. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit., c. 3.

Page 67: Sanguineti - Filosofia Da Mente

67

saluta, è perché desidera manifestarmi affetto o rispetto.

I moralisti e i giuristi hanno sempre mantenuto la distinzione tra atti interni

(volizioni, intenzioni) e atti esterni (movimenti significativi del corpo umano).

Secondo Tommaso d’Aquino, l’atto esterno è l’usus o impiego delle potenze fisiche

del corpo in seguito a un comando della volontà. L’interno e l’esterno spesso sono un

unico atto e non due atti articolati. Quando lavoriamo o parliamo, non c’è d’una parte

l’atto della volontà di “voler lavorare”, di “voler parlare”, e dall’altra parte l’azione

fisica corrispondente. Siamo piuttosto dinanzi a un unico atto con due dimensioni

integrate, in quanto una potenza è usata da un’altra77. Ancora una volta, siamo lontani

dal dualismo:

“L’atto interiore della volontà e l’atto esterno, in quanto considerati nel

genere dell’agire morale, costituiscono un unico atto”78.

Non conviene separare troppo queste due dimensioni, benché talvolta possano

scindersi quando ci sono atti solo esterni o solo interni. I tribunali giudicano gli

uomini secondo la loro condotta esterna e pubblica, presupponendola animata dalla

volontarietà interna. Tale volontarietà può essere ragionevolmente presunta grazie alla

conoscenza umana degli altri in quanto soggetti volontari.

Il rapporto tra il lato interno ed esterno degli atti non sempre è identico. Certi

eventi non fanno parte dell’atto intenzionale, ma ne sono l’effetto. Essi servono da

indizi e possono considerarsi una certa espressione di quanto succede nel soggetto. Ad

esempio, la sudorazione seguita dalla percezione di un pericolo è una conseguenza

fisiologica di un’emozione, non una sua vera espressione intenzionale. Lo stesso si

può dire delle lacrime che possono nascere dalla gioia o dalla tristezza o da una causa

puramente fisiologica. Invece un sorriso o lo stare accanto a un malato non sono

conseguenze fisiologiche, ma vere espressioni di un atto interiore (per esempio di

benevolenza), da cui non sempre si separano come se fossero un elemento diverso.

Che cosa è, dunque, la condotta? Il comportamento è il fare umano o l’insieme

77 Cfr. San Tommaso, S. Th., I-II, q. 17, a. 4: il cosiddetto imperium (comando volontario) è un tutt’uno con l’actus imperatus (movimento corporeo imperato dalla volontà). 78 San Tommaso, S. Th., I-II, q. 20, a. 3, c.

Page 68: Sanguineti - Filosofia Da Mente

68

delle nostre azioni: ciò che facciamo ovvero la prassi. In questo senso il capire o il

volere sono pure una prassi. Non fanno parte del nostro agire invece gli eventi

fisiologici o psichici, sentiti oppure inconsci, che patiamo o che semplicemente ci

capitano (ad esempio, un mal di testa). Questi eventi possono incorporarsi alla nostra

condotta se riusciamo ad integrarli nella prassi (il mal di testa può portarci a prendere

un medicinale). La distinzione tra teoria e prassi nasce perché gli atti contemplativi o

teorici (conoscere, amare) non modificano la realtà, mentre gli atti pratici la alterano

(lavoro, tecnica, arte).

c) Tre nozioni di condotta

Dopo il concetto generico di comportamento abbozzato nel paragrafo

precedente, ritengo se ne possano rilevare tre significati fondamentali:

1) Concatenazione di atti intenzionali indirizzata a un fine. Questa nozione di

condotta è applicabile anche alle operazioni intellettuali. “Sommare”, in questo senso,

è un tipo di comportamento. Per verificare se qualcuno sa sommare, bisogna osservare

cosa fa o quali operazioni mette in atto. Così si vedrà se sa sommare davvero ed

eventualmente si saprà pure come fa le addizioni (ci sono molti metodi di sommare).

Le operazioni dimostrano nei fatti il compimento di veri atti cognitivi.

Evidentemente questa è la chiave dei test d’intelligenza. L’importante qui non è tanto

la contrapposizione tra esterno ed interno, bensì il fatto che ci sia una serie di

operazioni ben collegate e orientate a un fine. Diciamo che uno sa giocare agli scacchi

se lo dimostra nella sua condotta, dove “condotta” indica il fatto di giocare bene.

Non è che tutto il comportamento si esaurisca in insiemi di operazioni. Le

operazioni manifestano, in questo caso, non tanto l’esistenza di un “atto interno”,

bensì di un abito. Chi gioca bene agli scacchi dimostra di possedere l’abito di saper

giocare agli scacchi79. Le conseguenze operative di un abito dimostrano la sua

79 Questa dimostrazione non è logica, poiché un insieme di operazioni non è mai equivalente a un abito. Dal punto di vista della logica oggettiva, dalle operazioni non si può risalire agli abiti. Per chi non si chiude nella pura oggettività, invece, è molto facile passare dalle operazioni alla loro fonte causale (dai segni della vita al vivente, dai segni della persona alla persona, dai segni degli abiti agli abiti). Questo passaggio è una dimostrazione metafisica, non logica.

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69

esistenza, anche se non lo esauriscono e tanto meno lo definiscono.

In questo senso l’apostolo Giacomo -se ci è consentito fare un salto ad un autore

biblico- vuole avere una conferma della fede di una persona vedendo le sue opere80.

Lo stesso si potrebbe dire riguardo all’amore o all’amicizia. “Ho un ricordo”, “ho

capito la storia”: per dimostrare di avere tale ricordo o tale comprensione, e per sapere

fino a che punto queste conoscenze sono padroneggiate, bisogna fare una serie di

domande al soggetto, obbligandolo a compiere certe operazioni. Allora lui stesso

conoscerà fino a che punto possiede quel ricordo o tale comprensione. Non per

questo, com’è ovvio, gli atti di capire o di ricordare, rimanendo nella memoria come

abiti, si riducono a tali operazioni di accertamento.

Un autore come Ryle ha superato il puro comportamentismo delle operazioni

passando alle disposizioni viste come le loro radici. Queste “disposizioni ad agire”

sono abiti nel senso aristotelico del termine. Ma l’esistenza di abiti o disposizioni non

elimina la realtà delle operazioni interiori, le quali possono includere una componente

dispositiva. “Provare odio” è un atto interno, sentito dal soggetto, e al contempo

suppone una disposizione a fare del male all’odiato tramite atti esterni (negargli il

saluto, criticarlo). Invece chi sa inglese, pur non sentendo assolutamente niente,

possiede nella sua mente un insieme di autentiche conoscenze, non in un senso

operazionale ma abituale. L’abito linguistico di sapere inglese è una disposizione a

produrre frasi in inglese, con un reale contenuto cognitivo inconscio e preoperativo.

Lo stesso vale per tanti abiti e abilità di carattere pratico (tecnici, artistici, sociali).

La condotta umana, quindi, risale a intrecci di abiti acquisiti. Un abito può

essere formato, a sua volta, da un insieme di abiti. Occorre distinguere, peraltro, tra

gli abiti umani, caratterizzati dalla libertà e la razionalità (abiti scientifici, abiti

sociali, virtù morali) e le abilità o destrezze animali. Queste ultime nascono da

condizionamenti o dalla ripetizione di certi circuiti intenzionali (esperienza e

apprendimento animale).

Quando l’abito include l’uso di certe abilità corporee (ad esempio, la capacità di

usare strumenti di lavoro, di ballare, di fare sport), possiamo parlare di condotta

80 Cfr. Gc 2, 17-18.

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70

esterna. Diciamo “esterna” in quanto è costituita da atti sensibili che, ben interpretati,

possono essere appresi da osservatori esterni, come quando diciamo “lei suona molto

bene la chitarra”. L’espressione esterna dimostra l’esistenza di un abito.

Questa prima nozione di comportamento è molto più ampia di quella usata

solitamente dai comportamentisti, fermi piuttosto alla contrapposizione tra l’interno e

l’esterno. La distinzione tra abiti e operazioni invece è fondamentale. Una quantità

enorme di azioni umane, come lavorare, parlare, giocare, studiare, pregare, pranzare,

pagare, sono intelligibili alla luce di tale distinzione. Un’incoerenza nella

concatenazione degli atti indirizzati a un fine -ad esempio, una serie di mosse casuali

nel gioco degli scacchi- produce una mancanza d’intelligibilità nella condotta. Per

questo diciamo talvolta di qualcuno: “non capisco come si comporta”.

La distinzione tra gli abiti umani cognitivi e le abilità animali cognitive non va

tralasciata. Le abilità dell’animale sono predisposizioni, piuttosto chiuse, destinate al

compimento di una serie di atti pratici collegati alle finalità animali (così sono, ad

esempio, le abilità delle api operaie). Gli abiti umani di natura intellettiva includono

invece una conoscenza universale, non limitata a una serie di atti tipici. Basta vedere

l’inesauribile capacità umana di formare abiti, ad esempio di imparare lingue o di fare

ogni tipo di tecnologia. Un cane potrà imparare a prendere un pallone con una grande

abilità, ma solo l’uomo sa che cosa è un pallone in termini universali. Di

conseguenza, le abilità dell’uomo quando inventa tutti i giochi possibili con il pallone,

in modo inesauribile, è ben diversa dalla destrezza fisica di giocare al pallone, la quale

è necessariamente limitata. Anche qui si vede la sproporzione tra le operazioni e gli

abiti razionali, perché le prime sono necessariamente finite, eppure possono

dimostrare l’esistenza di una comprensione universale a livello abituale. Solo così

possiamo sapere che gli altri, in base a ciò che fanno, possiedono delle conoscenze

universali.

2) Insieme di atti fisici dotati di un significato, specialmente quando hanno un

valore simbolico. Questo è il secondo senso di “comportamento”, adesso riferito alla

condotta esterna. Un esempio paradigmatico in tal senso sarebbe il comportamento

linguistico. L’atto di parlare include una dimensione fisica e significa una

comunicazione volontaria e intellettuale con un interlocutore. La dualità

segno/significato è una dualità esterno/interno, tenendo conto che il segno rende

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71

visibile l’interno anziché occultarlo.

L’unità segno-significato normalmente comporta l’unità di un unico atto

integrato da diverse potenze (potenze fisiologiche, capacità mnemoniche e altro).

Quando una persona ci saluta con la mano, non separiamo il movimento delle sue

mani dal saluto come atto volontario. Sarebbe alquanto strano dire che il movimento

fisico delle mani è l’espressione di un suo “saluto interiore”, come se ci fossero due

saluti, uno fisico e un altro “spirituale”. Proprio in questo senso Wittgenstein rilevava

che, quando vediamo una persona o ne vediamo il volto, abbiamo “un atteggiamento

nei confronti dell’ anima (eine Einstellung zur Seele)”81. L’anima risplende nel volto

della persona che parla o sorride, così come il significato illumina il segno. Nella

visione dualistica, al contrario, la parte spirituale della persona si nasconde dietro il

suo corpo, un corpo ridotto all’astrazione della fisica o forse ai sense-data.

3) Struttura di atti fisici in quanto consegue un piano intellettivo o esprime

emozioni e atti volontari. Questa terza forma di condotta comporta il rapporto tra un

progetto o intenzione e la sua realizzazione visibile, oppure tra un’emozione o

sentimento e la sua espressione sensibile nel corpo. Il comportamento si riferisce qui

alla dimensione visibile di una fonte cognitiva o emotiva, e non si confonde con i

rapporti indicati nei nn. 1 e 2, anche se possono sembrare molto simili. La condotta

esterna, in questo caso, può essere contingente, quindi non è una semplice

riproduzione della radice interna. L’emozione dell’ira, ad esempio, include, sia pure

in modo contingente, la predisposizione a compiere certi atti esterni (aggressioni,

accuse, contorsioni del corpo). Una persona può escogitare nella sua mente un

programma di gita sportiva o turistica: “condotta” sarà l’esecuzione di questo piano.

Se decido di vedere un film, la condotta sarà vederlo effettivamente.

Contro gli eccessi del comportamentismo, bisogna ribadire che gli atti interni

non comportano per forza un’espressione sensibile o una traduzione in atti esterni.

Una decisione può mantenersi, rimandando a più tardi l’esecuzione. Possiamo provare

mal di denti senza fare smorfie né dare segni esterni di dolore. Talvolta ci può essere

un contrasto tra ciò che si vuole o si prova e quanto si fa esternamente. Così succede

81 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, parte II, sezione IV, p. 235.

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72

negli attori quando fingono una condotta esterna dotata di un’intenzionalità non

corrispondente a ciò che sono nella vita reale. Un caso diverso è quello dell’ipocrita

che simula di avere certe intenzioni con lo scopo di ingannare. Non sempre il nostro

comportamento esterno dimostra la verità delle emozioni o delle intenzioni che

diciamo di avere. Talvolta consideriamo più conveniente occultare le nostre emozioni.

d) Visione riassuntiva

Fin qui ci siamo riferiti all’attività sempre più elevata dei viventi superiori, fino

ad arrivare agli animali, con pochi cenni sull’uomo. Tale attività appare unitaria e al

contempo molteplice, stratificata, gerarchica, con elementi da integrare ad ogni

momento. Sulla base dell’ilemorfismo, la cui massima perfezione si verifica

nell’ambito della vita organica, abbiamo visto come negli animali emerge un tipo di

attività che comincia ad interiorizzare il corpo (percezione, rappresentazioni,

memoria, intelligenza animale, emozioni), in un senso che abbiamo caratterizzato

come sopra-ilemorfico (avanzo formale, intenzionalità, transorganicità). Tutto questo

avviene senza dualismi, in una mirabile continuità-discontinuità con la vita organica e

con le leggi della struttura ilemorfica dei corpi. L’emergenza di una causalità

superiore, dall’alto verso il basso, sarà considerata nel capitolo 4 di questo volume.

Ci siamo dilungati sulla filosofia della vita animale perché solo una

comprensione completa della natura inferiore all’uomo può aiutarci a capire senza

dualismi la nostra dimensione spirituale, rendendo giustizia all’importanza della

nostra corporalità, come hanno fatto alcuni indirizzi della fenomenologia (ad esempio,

la filosofia del corpo di Merleau-Ponty o di Wojtyla). Il comportamento somatico è

personalizzato. Non come frutto di un’idealizzazione simbolica, ma nella linea di una

corporalità animale sempre più dominata dalle forme intenzionali della vita cognitiva

ed emotiva.

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73

Capitolo 3

L’intelligenza umana

1. La trascendenza dell’intelligenza umana sul corpo

Rivolgiamo adesso lo sguardo alla capacità cognitiva dell’uomo. Verificandosi

un salto abissale rispetto agli animali, nell’uomo troviamo una dimensione superiore,

costituita dalla razionalità e la libertà che: 1) sorpassa le potenze o energie della

materia anche sensibilizzata, come vedremo; 2) al contempo è in continuità con il

crescendo della vita terrestre.

Sembra strano e addirittura è sconcertante questo connubio tra continuità e

discontinuità sul piano ontologico e operazionale. I classici comprendevano questo

punto nel contesto dei gradi dell’essere e della vita. Un principio del mistico

neoplatonico Dionigi accennava al fatto che ogni dimensione superiore nella scala

ontologica della natura viene in qualche modo preannunciata dai gradini più alti dei

livelli immediatamente inferiori.

Ma la scala ascendente della vita non presenta una sola dimensione. Nella

natura vi sono molteplici linee di sviluppo delle capacità biologiche. La formazione

delle specie comporta una specializzazione in cui molti guadagni impongono una

perdita in altri sensi. L’albero della vita fiorisce con diverse ramificazioni e non in

una sola direzione. Eppure, nell’insieme -vita vegetativa, animali inferiori, animali

superiori e uomo- si scorge un quadro complessivo di progresso, sia pure non

assoluto, in quanto è attraversato dalla contingenza e da molti elementi che

comportano rischi, limitazioni e possibilità di collasso.

Seguendo una tradizione secolare, possiamo denominare spirito i livelli più alti

dell’anima umana. In questa nuova dimensione antropologica rileviamo due aspetti:

1) Il superamento o trascendenza dello spirito umano rispetto alle potenze e

funzioni corporee. Ispirandosi ad Aristotele, Tommaso d’Aquino parlava di

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74

un’immaterialità assoluta dell’intelligenza umana.

2) Il rapporto essenziale e non accidentale dell’anima umana col corpo

proprio. Questo rapporto, lungi dal significare un abbandono della materialità fisica,

comporta un maggiore dominio sul corpo e sul mondo, pur includendo al contempo

un condizionamento causato dalla vita organica. Tale condizionamento è uno degli

aspetti del ruolo del corpo nelle funzioni spirituali. La corporeità pone dei limiti

all’operare dello spirito, ma soprattutto suscita condizioni antropologiche

caratteristiche dell’uomo: esistenza storica, razionalità, dimensione linguistica, aspetti

ermeneutici.

Consideriamo in primo luogo il punto relativo alla trascendenza assoluta

dell’intelligenza sul corpo. Abbiamo l’esperienza di compiere operazioni cognitive

che superano completamente la condizione dei corpi: le operazioni intellettuali. Gli

animali, infatti, anche se colgono rapporti non sensibili tra i corpi (rapporti di utilità,

strumentalità, pericolo, collaborazione, significato), lo fanno pur sempre in rapporto a

situazioni concrete della loro vita e non in astratto, cioè non in una maniera

generalizzabile a ogni situazione possibile. L’uomo invece comprende rapporti o

contenuti, sia sensibili che immateriali (oggetti, relazioni, eventi, proprietà), in un

modo completamente universale. L’uomo non capisce soltanto l’aspetto utile di tante

cose, ma comprende la stessa idea astratta di utilità o di rapporto mezzo-fine.

L’universalità astratta dei contenuti compresi comporta l’indipendenza da qualsiasi

situazione materiale data, quindi è dotata di una certa infinità, grazie alla quale risulta

applicabile a infinite situazioni in qualsiasi tempo.

Questo è il motivo per cui l’uomo è sempre in grado di capire qualsiasi tipo di

realtà al di sopra delle sue condizioni spaziali e temporali. In questo senso l’essere

umano si dimostra signore dello spazio e del tempo. È condizionato dal tempo e vive

solo in un periodo della storia, ma simultaneamente può tentare di capire la storia di

ogni epoca, può scrivere romanzi atemporali e progettare di costruire ogni tipo di cosa

in qualsiasi luogo o tempo futuro. Ciascuno di noi, se preparato, e l’umanità presa

globalmente, dimostra questa inesauribile capacità, che può essere ostacolata ma non

eliminata. Da qui nascono le seguenti caratteristiche:

1. Potenza ontologica. La persona umana è capace di riconoscere il valore di

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75

realtà come realtà e così distingue tra ciò che è reale, irreale, finzione, pensiero,

vero, falso, e può fare dei giudizi sull’essere di qualsiasi cosa. Siamo in grado di

discernere tra l’attualità, la possibilità, la necessità, l’impossibilità, l’essenzialità,

l’accidentalità di quanto pensiamo e conosciamo. Dunque ci regoliamo nei confronti

dell’essere preso come tale in rapporto a qualsiasi realtà esistente, possibile o anche

fittizia, in uno spazio cognitivo illimitato.

Questa sorta di “potenza ontologica” sta alla radice del significato profondo di

essere intelligente. L’intelligenza è, in un senso radicale, la capacità di aprirsi

all’essere, la capacità di interrogare qualsiasi cosa nella prospettiva dell’essere (“che

cosa vuol dire essere, essere corpo?”). I sensi e l’esperienza sensibile raggiungono

aspetti dei corpi, ma gli animali non possono far diventare questi aspetti l’oggetto di

un quesito ontologico, e perciò non possono riflettere su loro stessi per domandarsi

chi sono.

2. Capacità contemplativa disinteressata. Ne segue la potenzialità umana di

confrontarsi con ogni tipo di cognizione e di discorso per giudicare semplicemente

della sua verità o non-verità, al margine di altri interessi, e di poter regolare la vita

secondo la verità. L’uomo può considerare qualsiasi cosa per il solo piacere di

contemplarla, al di là delle sue funzionalità pratiche82.

3. Trascendenza cognitiva sulla corporeità. La trascendenza dell’intelligenza

sul corpo (senza escludere i nostri condizionamenti fisici) si vede nella capacità di

confrontarci con ogni realtà materiale e con l’universo corporeo, anzi di pensare senza

limiti ad altre possibilità cosmologiche. Possiamo capire le leggi dell’universo, ma

possiamo altresì pensare a illimitate altre leggi di infiniti universi possibili. La

nozione di universi infiniti, pur essendo solo potenziale, dimostra fino a che punto la

nostra mente non è incatenata a nessun tipo di corpo e a nessun universo definito.

Una conseguenza di questo punto è la capacità umana di creare le scienze, con

la possibilità di uno sviluppo di per sé indefinito, sempre aperto a nuovi orizzonti.

L’esistenza di una sola scienza sarebbe già sufficiente come segno di trascendenza

82 Parliamo di capacità e di tendenza, non di risultati assoluti. L’apertura ontologica trascendentale umana non comporta l’effettiva conoscenza di tutto in modo esauriente, come se fossimo Dio.

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76

della mente umana sulla materialità. Ma l’uomo è capace di creare una molteplicità

indefinita di scienze. Con la filosofia egli può porsi le domande universali e

fondamentali sulla realtà, su se stesso e sul senso della materialità.

4. Libertà. Dalla potenza ontologica e contemplativa umana nasce, sul versante

tendenziale, la capacità senza limiti di volere e di desiderare qualsiasi cosa, nella

misura in cui è. Allora l’essere acquista il valore di bene, cioè di una realtà dotata di

valore, desiderabile e amabile nei nostri confronti. La capacità di amare con la volontà

include la libertà, vale a dire l’indipendenza tendenziale dinanzi a qualsiasi realtà

finita. Con la volontà possiamo amare ogni cosa, con capacità di libera scelta. Il

volere umano si può estendere a ogni entità, quindi al cosmo, alle scienze e alle arti,

alla natura e alle persone. Il nostro volere non è inclinato in modo esclusivo o

determinato a bisogni materiali o a condizioni fisiche. Vogliamo con libertà la salute

del corpo, i beni sensibili, ma vogliamo pure la scienza, l’arte, la persona, la vita e

qualsiasi altra realtà naturale, personale o culturale. Questa è la radice

dell’orientamento della persona verso Dio.

5. Potenza simbolica universale. La libertà come dominio razionale sulla

materia si manifesta in modo particolare nella capacità di trasformare in una maniera

arbitraria qualsiasi cosa o evento sensibile in un simbolo, non restando legata a

nessuno di essi. Di conseguenza, l’uomo ha sempre il potere di cambiare a piacere le

regole tra i segni, potendo creare indefinite grammatiche, indefiniti linguaggi (libertà

sintattica). Egli può sempre cambiare i significati prefissati (libertà semantica) e può

farne un uso illimitato, cambiando quando vuole le regole e i significati (libertà

pragmatica).

6. Potenza tecnologica universale. Il dominio sul corpo e sul mondo naturale si

esprime ulteriormente nella capacità umana di orchestrare le forze della natura per

crearsi ogni tipo di artefatto utile o di valore artistico, sia pure con i limiti delle risorse

naturali e delle disponibilità energetiche. L’uomo non è determinato a fare nessun tipo

di cosa concreta, osservava Tommaso d’Aquino, in quanto può costruirsi sempre

nuovi tipi di strumenti tecnici, senza limiti formali, a causa della potenza infinita del

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77

suo dominio sulle formalità corporee83, pur con il condizionamento proveniente dai

limiti materiali, dalla conoscenza della verità e dalla convenienza del bene (questi

ultimi due aspetti non sono propriamente limiti).

Come dimostrare l’esistenza di queste caratteristiche dell’intelligenza umana,

anche se in verità sono evidenti? Un’indagine empirica, statistica o sociologica può

confermarle, ma solo in maniera parziale e non definitiva. Sono utili le osservazioni

psicologiche o sociologiche sugli aspetti dell’intelligenza in gruppi culturali, nei

bambini, ecc., solo che in questi casi avremo sempre a che fare con esperienze

limitate. Presupponendo però la spiritualità, queste esperienze sono una conferma

delle caratteristiche indicate.

In altre parole, l’esistenza dell’infinita potenza dell’intelligenza, con la

conseguente libertà, non è direttamente affrontabile con metodi scientifici naturali, né

psicologici né neurologici. Conosciamo le nostre capacità cognitive universali solo

grazie allo sguardo metafisico rivolto a ciò che siamo e facciamo, vale a dire,

impiegando il metodo filosofico e non i metodi delle scienze particolari. L’esperienza

metafisica del nostro pensiero non guarda gli atti umani isolati, bensì l’insieme di

operazioni, oggetti e risultati, in quanto si manifestano nella nostra vita, nella cultura e

nella storia.

Consideriamo in particolare le opere della civiltà. L’esistenza della filosofia,

delle scienze, delle tecnologie, dell’arte e della religione manifesta il carattere

inesauribile della nostra intelligenza, condizionata ma non incatenata alle funzioni

materiali della vita. Un uomo o una singola cultura forse saranno incapaci di superare

una certa situazione scientifica o culturale, ma non l’umanità nel suo complesso. Lo

sguardo d’insieme all’esperienza storica e culturale dimostra ciò che siamo. Per

conoscere la natura umana, osserva Spaemann, non bisogna rivolgersi agli inizi -che

cosa possono fare o non fare gli embrioni, i neonati, gli uomini primitivi-, bensì ai

83 Cfr. S. Th., I, q. 76, a. 5, ad 4. Le espressioni di questo brano si concentrano sulla potenza infinita della mente umana: “l’anima intellettuale, poiché comprende gli universali, possiede una potenza infinita”; grazie alla ragione, “l’uomo può costruirsi strumenti tecnici in modi infiniti e per infiniti effetti” (infinitorum modorum, et ad infinitos effectus). In modo simile si legge in S. Th., I, q. 91, a. 3, ad 2: “alla ragione naturale, in quanto può avere infinite concezioni (infinitarum conceptionum), corrisponde la capacità di prepararsi infiniti strumenti (infinita instrumenta)”.

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78

momenti sviluppati84.

Secondo la metodologia di Tommaso d’Aquino, conosciamo lo spirito umano

risalendo dagli oggetti alle operazioni, dal momento che è difficile “assistere” al

compiersi dell’operazione pura, data la sua intenzionalità. Naturalmente bisogna

rispettare la natura del salto e l’autenticità dell’accesso alla nuova dimensione. Le

operazioni mentali non sono oggetti. Eppure, a causa della proporzione tra oggetto e

operazione, la condizione dell’oggettività ci dà un indizio sulla natura delle operazioni

rispettive.

È questo il metodo seguito nelle nostre ultime considerazioni. Le realizzazioni

oggettive della ragione -le opere della civiltà umana- dimostrano la trascendenza della

mente sul corpo. La sproporzione infinita tra gli oggetti razionali e la dimensione

corporea ci porta così alla conclusione dell’immaterialità assoluta del pensiero, cioè

all’autentica spiritualità della potenza e delle operazioni intellettuali.

Il modo cartesiano di arrivare a questa tesi sarebbe invece fenomenologico: la

coscienza intellettuale si auto-attesta come non corporea, non spaziale, non

dimensionale. Senza escludere il valore positivo di quest’esperienza della spiritualità,

peraltro riconducibile all’agostinismo, la via aristotelica e tomistica appare più

ontologica: l’operazione intellettiva (intellectus, voûs) risulta intrinsecamente e

totalmente immateriale, quindi non causata in modo proprio da alcun intervento o

forza corporea. Nemmeno un organo altamente sensibilizzato, come il cervello visto

come organo dell’esperienza sensibile, può essere capace di causare l’atto infinito

della comprensione intellettuale. In altre parole, le operazioni dell’intelligenza non

possono essere compiute propriamente in virtù dell’intervento di una funzione

nervosa85. L’intelligenza umana dunque non è una potenza organica superiore. Pur

84 Cfr. R. Spaemann, Natura e ragione, Edusc, Roma 2006, p. 28. 85 Cfr., su questo punto, Tommaso d’Aquino, Q. de Anima, q. un., a. 1: “nella sua operazione propria [dell’anima intellettiva] non è possibile la comunicazione con un organo corporeo. Non esiste un organo dell’intelligenza, così come invece l’occhio è l’organo della vista, come dice Aristotele nel III libro del De Anima. L’anima intellettiva opera per se stessa, in quanto ha un’operazione propria, senza comunicazione col corpo”. Il riferimento è al III De Anima 429 a 10 - b 10. Tommaso segue il principio aristotelico della “separazione” totale operativa dell’intelligenza rispetto ad ogni dimensione corporea, precisando che non è una separazione secundum esse o costitutiva: cfr. In III De Anima, lect. 7. Si veda anche De Unitate

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79

essendo l’anima umana la forma del corpo, vi è in essa una potenza trascendente la

funzione di costituire in atto il corpo della persona umana come corpo organico e

senziente della nostra specie.

Un indizio della trascendenza dell’intelletto sul corpo sta nel fatto che con

l’uomo cessa ormai la progressiva trasformazione del sistema nervoso o del cervello

in funzione delle migliori prestazioni cognitive ed emotive. Nel quadro biologico

evolutivo, la complessità cognitiva appare collegata a un certo sviluppo del sistema

nervoso. Nella costituzione encefalica umana, invece, nonostante l’enorme salto

cognitivo della nostra intelligenza, non si osservano delle novità troppo sorprendenti

in paragone alle scimmie più progredite o agli ominidi. Le scimmie hanno già una

neocorteccia e il loro cervello conosce fenomeni come la lateralizzazione. In alcune

specie animali vi sono aree cerebrali deputate alla produzione di suoni significativi,

quasi come un anticipo delle aree linguistiche86.

Rilevante in questo senso è il fatto che lo sviluppo della civiltà umana non

implichi ormai cambiamenti neurofisiologici nel cervello, anche se tale sviluppo

allontana in modo stupefacente l’uomo dallo stile di vita scimmiesco. Abbiamo lo

stesso cervello degli uomini primitivi87. Il progresso anche fisico dell’uomo -maggiore

dominio del corpo, del territorio, dell’ambiente- adesso corre a carico dello sviluppo

culturale e tecnologico. La mente umana non cresce grazie a modificazioni correlative

del cervello, ma solo nella misura in cui acquista un linguaggio, impara scienze e arti,

crea istituzioni e vive in una cultura che gli consente lo sviluppo di abiti intellettuali.

Eppure il salto dell’intelligenza non elimina l’esistenza di una certa continuità

tra la vita dei mammiferi superiori e l’esistenza umana, una continuità nella

discontinuità. La manifestazione di una potenza sopracorporea in un corpo

Intellectus, cap. 1, dove si afferma che l’intelligenza non può essere l’atto di un corpo (actus corporis). 86 Naturalmente nel cervello e nel corpo umano esistono certe novità specifiche, come la posizione eretta, la nuova funzione delle mani, l’apparizione dell’organo fonatorio che produce alcuni cambiamenti cerebrali, lo sviluppo delle aree prefrontali e delle aree associative corticali e l’aumento del volume e peso del cervello in relazione al resto del corpo. Questi aspetti sono congruenti con le caratteristiche cognitive della nostra razionalità incarnata. 87 Cfr. A. Oliverio, Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Cortina, Milano 1999, pp. 56-62.

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80

sensibilizzato e intenzionale non è violenta ed estrinseca. Al di sopra della vita

organica, nella vita animale si era già aperta la strada di una “sovrabbondanza”

cognitiva e tendenziale più alta delle funzionalità organiche. Abbiamo già visto come

gli atti sensitivi animali non erano destinati alla pura produzione fisica, bensì allo

svolgimento di funzioni organiche accompagnate dall’immanenza di atti intenzionali

e addirittura all’esercizio di funzioni transvegetative (gioco, socialità, predazione,

tecnica). In questa linea, la sensibilità animale è radicata in una struttura cerebrale

deputata ad essere svariatamente formalizzata, attraverso circuiti nervosi non

predeterminati, correlati all’esperienza e destinati al compimento dei fini istintivi

animali. Gli animali debbono sopravvivere, alimentarsi, riprodursi, ma non come se

fossero “migliori vegetali”. Anzi in un certo senso sono “peggiori”, dal momento che

hanno una vita più breve e ricevono un’alimentazione eterotrofica, per cui devono

procurarsi materiale organico dall’ambiente88.

La vita intellettuale porta a compimento questa iperformalizzazione organica a

livello del cervello. La nostra sensibilità, specialmente ai livelli più alti, basandosi su

una struttura organica enormemente plastica capace d’istaurare miliardi di

connessioni sinaptiche, si orienta principalmente al servizio dei fini razionali della

vita umana. Molti di questi fini sono pure quelli degli animali, ma ora sono elevati ad

una dimensione più alta, per cui sono realizzati secondo nuove modalità (ad esempio,

la solidarietà animale adesso si trasforma in amicizia razionale).

La ragione appare dunque, pur nella sua trascendenza, come emergente a partire

da un terreno che l’ha preparata, non come un’aggiunta estrinseca89. I termini di

emergenza e sopravvenienza, usati nelle posizioni filosofiche contemporanee, non

erano del tutto ignorati nella tradizione classica. Per riferirsi al superamento

dell’intelletto sulla sensibilità Tommaso d’Aquino impiegava, in questo senso, verbi

quali excedit, transcendit, superexcedit, emerget, supergreditur, supervenit90.

88 Gli animali non possono sintetizzare i propri costituenti cellulari utilizzando sostanze inorganiche semplici, come fanno invece i vegetali (autotrofismo, ad eccezione dei funghi). 89 Utilizzo qui il termine emergenza in senso ampio, compatibile con una trascendenza non causata dalla materia. 90 Cfr. S. Th., I, q. 76, a. 1 c.; ib., ad 4; ib., a. 4, ad 3 (“semper autem secundum superveniens priori, perfectius est”: ciò che sopravviene in secondo termine è sempre più perfetto di ciò che era prima); ib., q. 78, a. 1; De Spiritualibus Creaturis, a. 2, ad 2; Q. de Anima, a. 1.

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81

Tralascio la luce che questo punto potrebbe implicare per una comprensione dei

fenomeni evolutivi degli ominidi fino alla comparsa dell’uomo dotato di una mente

spirituale e personale. Inoltre, il carattere non estrinseco dell’emergenza dell’anima

spirituale in un organismo altamente sensibilizzato comporta una manifestazione lenta

e naturale, non brusca e totale, delle potenzialità del nostro intelletto. L’intelligenza

può maturare sulla base di un organismo predisposto e in un ambiente umano ricco in

esperienze e risorse simboliche. Quindi non è una sorpresa la graduale

temporalizzazione dello sviluppo intellettuale dei bambini, nonché la relativamente

bassa velocità del progresso tecnologico e culturale lungo la storia, finché non si

arriva al possesso di strumenti che rendono accelerato questo processo.

2. Il ruolo del cervello nel pensiero

La trascendenza sopracorporea del pensiero non rende secondario né accidentale

il coinvolgimento del cervello nei suoi confronti. Il suo ruolo nella cognizione è stato

ignorato durante secoli perché la base organica rimane nascosta alla coscienza

fenomenologica dell’oggetto. Questo nascondimento è un bene naturale, poiché così

risplende alla visione della mente soltanto la dimensione dell’oggettività, mentre

sarebbe senz’altro un intralcio notare gli interventi dei neuroni nei processi sensitivi

che stanno alla base del pensiero. L’occultamento della funzione cerebrale nella

cognizione umana favorisce le posizioni dualistiche, che non per caso sono le più

antiche. Tuttavia questo fatto è in favore della tesi spiritualistica: conosciamo meglio

le grandi verità antropologiche (siamo liberi, siamo persone) e solo posteriormente

arriviamo ai dettagli della causalità materiale propria della dimensione corporea.

L’uomo antico ha avuto una coscienza di sé stesso molto spirituale (religiosità,

credenza nello spirito e nell’aldilà), benché non priva di confusioni. La scoperta

dell’importanza della materialità è piuttosto tardiva nell’uomo.

Naturalmente in qualsiasi cultura sempre troveremo l’ovvia percezione del

legame tra la testa e le funzioni cognitive, anche più alte. Guardiamo le persone

rivolgendo gli occhi alle espressioni del volto, dove avvertiamo lo sguardo intelligente

ed emotivo. La faccia è il luogo del linguaggio parlato. Il capo è chiaramente la parte

anatomica con cui governiamo il corpo. Esiste una sensazione diffusa, ma vera, che

“pensiamo con la testa”, e i disturbi alla testa sono quelli che più ci impediscono di

pensare. La neuroscienza conferma e ovviamente allarga queste impressioni, fino a

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82

livelli incredibili di finezza e dettaglio analitico.

I principi della gnoseologia di Tommaso in questo punto appaiono

particolarmente interessanti nei confronti della situazione scientifica e filosofica

contemporanea. Secondo tali principi, il rapporto dell’intelligenza con il cervello è

essenziale, pur restando fermo il carattere inorganico di tale facoltà. La potenza

intellettiva non può rendersi operativa, e quindi crescere nelle sue abilità, se non è

preceduta da un’attività sensibile superiore sufficientemente ampia e matura. Tale

attività dev’essere continua e quindi coinvolge il cervello in modo permanente, come

funzione di sostegno di una sensibilità costantemente aperta all’attività intellettuale.

Un ambito della sensibilità particolarmente legato alle operazioni intellettuali, anzi

direttamente controllato da esse, è il simbolismo (linguaggio). Di conseguenza

l’uomo, animale razionale, deve imparare a parlare, cioè deve crearsi una sfera

superiore della sensibilità e quindi deve “strutturare” il suo cervello in una certa forma

per poter pensare.

a) Tommaso d’Aquino e il cervello

Vorrei indicare in seguito alcuni punti concreti di Tommaso d’Aquino dove il

ruolo del cervello nella conoscenza intellettuale appare con notevole chiarezza. Non

lo farò in un senso storiografico -per cui ometto tanti dettagli-, bensì cercando

piuttosto di vedere negli spunti segnalati delle implicazioni interessanti per la filosofia

della mente.

1. Rapporto intrinseco tra pensiero e sensibilità. Nella psicologia

dell’aristotelico Aquinate il rapporto tra pensiero e sensibilità è assolutamente

intrinseco. L’intera sensibilità, a sua volta, è organica (e insieme transorganica, come

abbiamo detto). Il rapporto ragione/sensibilità si snoda in questi aspetti:

* La coscienza sensibile è condizione fondamentale per l’esercizio del pensiero.

L’attivazione dei sensi è condizione sine qua non per l’esercizio della ragione e per

l’uso della libertà. La coscienza sensitiva -lo stato di veglia, contrapposto al sonno,

allo svenimento o allo stato comatoso- è la situazione intenzionale normale atta per il

riconoscimento dell’ambiente, del corpo e della propria unità psicosomatica. Questa è

la prima condizione per poter essere padroni delle nostre facoltà superiori

(intelligenza e volontà). La perturbazione della coscienza sensitiva annulla o

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83

indebolisce la forza della ragione e della volontà.

* Astrazione a partire dall’esperienza sensibile. In modo originario, la

comprensione intellettuale prende spunto da una serie di esperienze sensibili

illuminate dall’intelletto. Senza tali esperienze, la comprensione non può nascere91.

* Linguaggio. L’uso e lo sviluppo del pensiero razionale esige la creazione del

linguaggio, opera della sensibilità in collegamento con la ragione. L’apprendimento di

una lingua presuppone la capacità percettiva, immaginativa e mnemonica di

riconoscere, richiamare e collegare i segni linguistici in modo razionale.

* “Conversio ad phantasmata” e cogitativa. La conoscenza intellettuale

concreta delle cose o degli eventi materiali richiede la conversione dell’intelligenza

agli oggetti della fantasia, all’esperienza sensibile e al mondo della percezione

esterna. In questo modo, la sensibilità stessa comincia a partecipare intrinsecamente

alla razionalità, cioè viene elevata “per illuminazione” a un livello cognitivo più

alto92.

Tommaso d’Aquino assegna questo compito alla facoltà sensitiva chiamata

cogitativa, simile all’estimativa animale, solo che elevata grazie alla partecipazione

alla razionalità93. Dunque il riconoscimento delle facce, degli individui come persone,

dei segni sensibili come portatori di un significato, correrebbe a carico di una facoltà

sensitiva elevata al piano della razionalità. Ciò che negli animali è l’esperienza

animale, livello superiore della loro sensibilità e luogo della loro “intelligenza”

pratica, come vedremo, negli uomini è l’esperienza umana, un’esperienza penetrata

dall’intelligenza universale, delle strutture ontologiche della realtà.

Non è importante qui ammettere o meno la “cogitativa” come facoltà. Ciò che

conta è il collegamento dinamico tra l’intelligenza astratta e l’esperienza concreta,

perché in questo modo l’esperienza supera il livello della sensibilità e si apre alla

91 Cfr. S. Th., I, q. 84, 6. 92 Cfr. S. Th., I, q. 84, a. 7. 93 Secondo l’Aquinate, l’estimativa è la capacità sensitiva animale di riconoscimento attivo di aspetti utili o significativi dell’ambiente. L’animale così “intuisce” in un modo concreto rapporti o eventi (per esempio, causali), talvolta anche azioni da intraprendere in funzione dei suoi fini istintivi: cfr. S. Th, I, q. 78, a. 4.

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pregnanza intelligibile, diventando esperienza umana.

Le nostre conoscenze ordinarie -“vedo un amico”, “vado all’università”- sono

fusioni di livelli cognitivi. Avevamo già trovato questa caratteristica quando

parlavamo dell’ontologia dell’atto sensitivo. Non abbiamo d’una parte l’intelligenza e

dall’altra parte i sensi esterni e interni, come se fossero separati tra loro. Abbiamo una

conoscenza unitaria stratificata, integrata, elevata, e per questo non facile da

analizzare. “Vedo l’università” comporta il riconoscimento di un pattern sensitivo (un

edificio, un campus) e al contempo suppone la lettura intelligente di quel pattern

come “università”, usando il concetto universale corrispondente. Gli animali

riconoscono invece la configurazione tipica di altre specie e possono discernere

individui di una specie o di un’altra (riconoscere uomini, cani, gatti), ma non lo fanno

usando concetti universali comprensivi, bensì ricorrendo ad esperienze attive tipiche

che si formano nel gioco delle loro operazioni sensitive (pure noi facciamo lo stesso,

ma arrivando all’universalità astratta).

Di conseguenza, quando l’animale riconosce un adulto o un bambino, possiamo

attribuire la sua percezione al cervello in quanto sede organica adeguata

dell’esperienza sensitiva. Quando invece riconosciamo un altro uomo, una donna, un

bambino o altro, la nostra esperienza, resa possibile dall’attività neurale, riceve inoltre

la luce dell’intelligenza come facoltà inorganica che trascende la potenzialità sensitiva

del cervello, anche se opera all’interno della sensibilità cerebrale.

Queste conclusioni si collocano sul piano metafisico. Non si possono dimostrare

né confutare empiricamente, ma non per questo le postuliamo a priori. Il metodo di

una filosofia metafisica e realista è la riflessione intellettuale basata sulle esperienze

umane. Solo in questo modo possiamo riconoscere l’esistenza di concetti universali,

l’esistenza della persona umana o il rapporto di verità, e tante altre realtà metafisiche

del mondo94. Le scienze particolari (psicologia, linguistica, neuroscienza)

94 L’empirismo si concentra sull’esperienza presa in modo riduttivo, cercando di eliminarne gli elementi metafisici o antropologici. Alcuni scienziati cognitivi capiscono con difficoltà il passaggio al livello metafisico a causa dell’incidenza dell’empirismo nella lettura scientifica dei fatti. Così si spiega, ad esempio, che certi autori non riescano a vedere una distinzione fondamentale tra uomini e animali. In qualche modo hanno ragione: col solo metodo empirico

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presuppongono questi punti, anzi potrebbero contribuire ad approfondirli, dal

momento che possono essere in connessione con alcune tesi filosofiche. Comunque

esse non sono dimostrabili con metodi scientifici particolari (metodi statistici,

osservazioni empiriche, esperienze scientifiche).

2. Il cervello. Per Tommaso d’Aquino, seguendo la medicina galenica e araba,

l’organo della sensibilità superiore (la cogitativa) è il cervello95. Due testi

significativi:

“Il funzionamento efficace delle potenze sensitive interiori, quali

l’immaginazione, la memoria e la cogitativa, richiede una buona

disposizione del cervello (bona dispositio cerebri). Perciò l’uomo possiede

un cervello maggiore tra gli altri animali, secondo la proporzione della sua

quantità”96.

“Era conveniente che l’uomo, tra tutti gli animali, possedesse un cervello da

dimensioni massime (maximum cerebrum), affinché le operazioni delle sue

capacità sensitive interiori, necessarie in rapporto all’operare intellettivo,

potessero essere adoperate con maggiore libertà”97.

3. Temperamento e fisiologia. Secondo Tommaso, certe disposizioni del

temperamento collegate alla fisiologia possono senza colpa o merito inclinare in

qualche modo a determinati vizi o virtù, come accade con la debolezza del carattere,

la forza della concupiscenza o l’aggressività. L’Aquinate vede questa dotazione -oggi

parleremmo di predisposizioni genetiche e di aspetti epigenetici e neurofisiologici-

alla luce della fisiologia umorale galenica. Ciascuno deve impegnarsi in modo

non si può capire il senso di tale distinzione, la quale comunque non cessa mai di accompagnare la conoscenza comune. 95 Cfr. S. Th., I, q. 78, a. 4. 96 Q. de Anima, q. un., a. 8, c. 97 S. Th., I, q. 91, a. 3, ad 1. Inoltre, seguendo Aristotele (cfr. De motu animalium), Tommaso d’Aquino ritiene erroneamente che il cuore sia il primum movens fisiologico del corpo, l’organo cioè che comunica al resto del corpo l’automovimento animato (come una sorta di vibrazione ritmica continua), benché l’unione anima/corpo sia immediata e non compiuta tramite un organo particolare: cfr. Q. de Anima, a. 9, e l’opuscolo De motu cordis. La funzione di controllo vegetativo dell’organismo, oggi sappiamo, spetta al sistema nervoso. L’indicazione di Tommaso, comunque, rivela la compatibilità, a suo avviso, tra la funzione informante dell’anima e il primato dinamico globale di un organo rispetto al resto del corpo.

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responsabile, con l’educazione e la formazione delle virtù, per contrastare o superare

le inclinazioni umanamente negative che possono far parte del suo temperamento98.

4. Patologie. Le indisposizioni o la mancata attivazione della sensibilità -

disturbi della coscienza, della memoria, dell’attenzione, della capacità di

concentrazione o di pianificazione- impediscono il normale esercizio della ragione99. I

disturbi cognitivi ed emotivi a livello patologico sono attribuibili, secondo l’Aquinate,

a una disfunzione cerebrale:

“La lesione di alcuni organi impedisce all’anima di comprendere

direttamente se stessa e le altre cose, come quando si verifica una lesione al

cervello (laeditur cerebrum)”100.

Certi squilibri psichici chiaramente patologici di tipo affettivo (perversitas,

bestialitas)101, pur sembrando gravi depravazioni morali anche di carattere aggressivo

o sessuale, potrebbero essere dovuti a malattie fisiologiche, sebbene possano essere

pure favoriti da depravazioni sociali nelle consuetudini culturali102. Secondo

quest’ultima indicazione, le carenze patologiche cognitive e affettive non sempre sono

da ricondursi semplicemente a lesioni neurali. La loro causa può stare nei primi

sviluppi dell’infanzia collegati a fattori importanti dell’educazione (ambiente e

famiglia).

Queste brevi note mostrano fino a che punto un pensatore antico come

98 Cfr. S. Th., II-II, q. 155, a. 4; q. 156, a. 1. 99 Cfr. S. Th, I, q. 84, a. 8. 100 De Spiritualibus Creaturis, q. un., a. 2, ad 7. Cfr. S. Th., I, q. 84, a. 7, dove si fa riferimento a malattie mentali (“frenetici”, “letargici”) causate da lesioni fisiche che impediscono l’uso dell’intelligenza. 101 Gli antichi conoscevano il fenomeno delle malattie mentali e non è vero che le attribuissero sempre al demonio. Alcuni termini all’uso nel tempo di San Tommaso per riferirsi ai malati di mente erano: frenetici, maniaci, furiosi, malinconici, letargici, lunatici, amentes, insani. 102 Cfr., su questi punti, l’intero libro In VII Ethicorum e i rispettivi libri aristotelici. In queste idee, Tommaso segue Aristotele e la medicina araba. Cfr., al riguardo, l’articolo di M. F. Echavarría, La enfermedad “psíquica” (‘aegritudo animalis’) según Santo Tomás, in www.geocities.com/allerlist/echavarria2.html, e il suo lavoro La praxis de la Psicología y sus niveles epistemológicos según Tomás de Aquino, Universitat Abat Oliba CEU, Documenta Universitaria, Gerona 2005, pp. 435-465; ved. anche G. Roth, Amentia ex aegritudinibus cerebralibus. Psychopathologia in doctrina sancti Thomae et psychiatria biologica contemporanea, in AA. VV., L’anima nell’antropologia di S. Tommaso d’Aquino, Massimo, Milano 1987 (Atti del Congresso della SITA del 1986), pp. 597-604; A. Muntané Sánchez, La mente y el cerebro, Libros EnRed, Buenos Aires 2005.

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87

Tommaso, guidato da Aristotele, è arrivato a sostenere una visione abbastanza chiara

circa il rapporto intrinseco ed essenziale tra le funzioni spirituali e l’attività cerebrale.

Cerchiamo adesso di esprimere questi punti in una maniera più sistematica e

ontologica.

b) La causalità del cervello in rapporto all’atto intellettuale

Le indagini neurologiche sul rapporto tra cervello e intelligenza ci presentano

correlazioni. In questo senso, possiamo parlare di condizioni ottimali del

funzionamento del cervello, nonché della sua conformazione anatomica, affinché

possiamo compiere certe funzioni cognitive ed emotive. Il punto risulta

particolarmente chiaro nelle disfunzioni. Le lesioni meccaniche (un colpo alla testa),

elettriche (scosse elettriche al cervello), chimiche (droghe), le disfunzioni

neurofisiologiche, possono compromettere la capacità di usare le nostre potenze

razionali, decisionali o linguistiche.

Le condizioni neurali segnalano un tipo di causalità. Esse sono molteplici,

complesse e stanno tutte nella linea della materialità. In questo senso sono un po’

simili alle condizioni fisiche necessarie per scrivere bene una serie de parole. La

causalità fisica necessaria e non sufficiente per scrivere un libro non è causa del suo

contenuto scientifico o artistico, ma solo della sua materialità.

Non è molto rigoroso dunque dire che una certa attivazione neurale “ci fa

pensare” o “ci muove a decidere”, dal momento che la causalità neurale sul pensiero e

sulla decisione è parziale, pur essendo una condizione imprescindibile. Ma alcuni

autori, a causa della loro mentalità esclusivamente scientifica, non conoscono altre

cause se non quelle fisiche. Solo che così il problema si è deciso a priori e il pensiero

non potrà avere altro tipo di cause.

Paul Ricoeur, nella sua opera Ce qui nous fait penser, scritta in dialogo con

Pierre Changeux e dedicata al tema mente-cervello103, contro il riduzionismo di

quest’ultimo vede l’attività neurale come un sostrato, come una certa causa materiale

sine qua non del pensiero, servendosi del quadruplice significato della causalità in

103 Cfr. Jean-Pierre Changeux, Paul Ricoeur, Ce qui nous fait penser, Poches Odile Jacob, Parigi 2000.

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88

Aristotele (causa formale, materiale, efficiente e finale).

Le funzioni sensitive superiori, inseparabili dall’organismo, indubbiamente

esercitano una certa causalità sull’atto intellettivo. Ma non dobbiamo vedere la

causalità sempre dal basso verso l’alto, poiché nell’ambito psicosomatico essa opera

pure nella direzione inversa. La causalità delle immagini e dell’esperienza sensitiva

sull’intelligenza è l’offerta di un oggetto adeguato, predisposto affinché la mente

possa illuminarlo. La piattaforma sensitiva suscita l’apparizione di un contenuto

intellettuale, ma l’illuminare intellettivo è originario. Non è il prodotto di forze

materiale e nemmeno è un semplice frutto delle presentazioni dell’esperienza

sensibile.

Il problema causale, quindi, non va posto in un modo direi “brutale”

semplicemente tra attività neurale e pensiero. Questo ci porterebbe o al materialismo,

se neghiamo il pensiero, oppure al dualismo cartesiano. La causalità in questo

problema piuttosto si gioca tutta nella linea della mediazione della sensibilità

superiore. La sensibilità, costituita dall’organicità cerebrale a titolo di causa

materiale, esercita una causalità parziale nella nascita dell’operazione intellettuale, ma

è anche guidata e illuminata dalle luci intellettuali nelle loro successive

configurazioni104.

Possiamo trarne adesso le nostre conclusioni. In primo luogo, ricordiamo il

ruolo di causa materiale del sistema nervoso nell’attività sensitiva. Non ogni causa

materiale, tuttavia, va capita nello stesso senso e, come segnala L. Polo, i diversi sensi

della causalità non vanno visti isolatamente, ma nel loro rapporto vicendevole105.

D’una parte, come abbiamo visto, la materialità organica sensibilizzata dà un nuovo

senso alla corporeità (“corpo senziente”), sia in funzione del potenziamento delle

funzioni organiche, sia in rapporto ai fini transorganici animali ed umani. La

materialità entra dunque come causa materiale nella misura in cui consente di

104 Secondo Searle, come abbiamo visto (cfr. il nostro capitolo 1, n. 4), gli atti della coscienza sono causati da complessi meccanismi cerebrali. Alla luce di quanto stiamo dicendo, questa tesi appare insufficiente: bisogna precisare il tipo di causalità corrispondente al sistema nervoso, e insieme distinguere tra la coscienza sensitiva e il pensiero (un dolore e un pensiero matematico non hanno le stesse cause). 105 Cfr. L. Polo, El conocimiento racional de la realidad, Cuadernos de Anuario Filosófico, Pamplona 2004, pp. 77 ss.

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89

raccogliere e di selezionare l’informazione in una maniera sempre più plastica e

indeterminata, in base a miliardi di connessioni. Così a poco a poco i processi bottom-

up lasciano più spazio alla causalità top-down delle funzioni superiori. Il dinamismo

complessivo del cervello diventa sistemico. Le unità psicosomatiche si rafforzano a

vicenda nei loro singoli livelli.

Possiamo dire in sintesi: il sistema nervoso, organo del sistema intenzionale

della vita sensitiva, nel passaggio alla funzione intellettiva agisce a titolo di causa

materiale, dispositiva e strumentale: 1) per consentire la comparsa dell’atto

intellettivo e volitivo; 2) per recepire al suo livello l’influsso e la guida continua dei

contenuti superiori (creandosi così meccanismi di feedback).

Il ruolo del cervello nel pensiero quindi è necessario, intrinseco, essenziale,

proprio perché è un “cervello elevato” dalle funzioni intenzionali. I suoi interventi

comunque sono parziale, anzi sproporzionati, vista l’infinita eccedenza del pensiero

rispetto a qualsiasi struttura fisica e ad ogni esperienza sensitiva. Pensiamo dunque

con il cervello? Sì, con il cervello elevato, in un modo dispositivo e non pienamente

proporzionato. E che cosa apporta la dimensione strettamente neurale al pensiero?

Apporta una gestione dell’informazione che, consentendo più direttamente la

comparsa di atti intenzionali, agevola le condizioni in cui la potenza spirituale umana

può operare e così può dominare lo stesso cervello dal punto di vista della maggiore

funzionalità cognitiva.

Per illustrare il ruolo di causa strumentale del cervello rispetto all’atto di capire

qualcuno potrebbe pensare alla metafora della matita. Lo scrittore non può tradurre in

atto le sue idee se non ha uno strumento materiale capace di scrivere simboli (la

matita). L’analogia è tipica del dualismo e in questo senso è inadeguata. La matita è

una causa strumentale estrinseca, mentre il cervello è un organo intrinseco alla

persona che pensa. La matita non apporta contenuti, mentre il cervello “conosce” in

quanto sensibilizzato, così come l’occhio “vede” in quanto organo sensibilizzato.

Questa conoscenza sensitiva superiore apre lo spazio all’illuminazione intellettuale.

Di conseguenza, semplicemente non esiste una causa fisica dell’atto

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90

intellettuale e volitivo106. Per indagare sui principi propri della cognizione intellettiva

bisognerebbe quindi inoltrarsi in un’analisi della nascita del pensiero, dove entrano in

gioco l’intelligibilità della realtà, la natura e l’oggetto dell’intelligenza, l’articolazione

di concetti e proposizioni e l’uso della razionalità. I filosofi, i logici, gli scienziati, si

sono fatti un’idea ampia e precisa del funzionamento della nostra intelligenza senza

bisogno di sapere neurologia. Le loro indicazioni, se vere, restano sempre valide.

Questo fatto è un’indicazione del carattere strumentale e dispositivo del cervello nella

genesi del pensiero. L’esperienza, per quanto alta, non causa, ma solo dispone verso

l’apparizione di nuovi pensieri (specialmente quando sono creativi).

D’altronde, ordinariamente l’esperienza suscita nuovi pensieri in quanto è già

arricchita da pensieri precedenti (memoria e sapere abituale). La causalità dal basso,

quindi, non sta soltanto nel cervello come entità elettrochimica, ma piuttosto nel ruolo

delle immagini, del linguaggio e della memoria, potenze organiche e quindi cerebrali.

Però, una volta che l’intelligenza comincia a operare, essa porta con sé la propria

dinamica. Quindi non basta cercare le causalità predispositive della comprensione nel

dinamismo cerebrale. Le cause proprie del progresso nella cognizione intellettuale si

trovano nell’attuazione opportuna dell’intelligenza stessa, nelle sue operazioni e abiti

in rapporto all’intera personalità del soggetto, ovviamente in funzione di altri soggetti,

del mondo culturale e dell’essere trascendente come fonte inesauribile del pensiero.

Due punti ancora prima di passare ad altri argomenti. Il primo si riferisce al

pensiero come atto personale, il secondo all’unità dell’atto intellettivo integrato con la

sensibilità:

1. Il pensiero come parte della vita razionale della persona. In continuità con

quanto abbiamo visto sulla vita organica e intenzionale, l’intelligenza apre un nuovo

stile di vita corrispondente alla persona umana come animale dotato di razionalità.

L’uomo vive come persona nella misura in cui conosce intellettualmente e orienta la

sua vita secondo la verità conosciuta e amata.

Ciononostante, il pensiero può essere considerato in astratto, senza riferimento

106 La nostra analisi si è concentrata sull’atto intellettuale. Indirettamente si estende anche all’atto volitivo, dal momento che la volontà può agire solo all’interno della comprensione intellettuale.

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alla persona (ad esempio, quando ragioniamo sugli oggetti matematici). I contenuti e

le operazioni intellettuali possono essere pure oggettivati in simboli e in meccanismi

di elaborazione dell’informazione. In questi casi il pensiero si separa in qualche modo

dalla persona, acquistando una forma di “autonomia” (ma non dobbiamo postulare per

questo motivo il mondo platonico delle idee). Ma la dimensione di oggettività astratta

del pensiero acquista un senso definitivo nella misura in cui è incorporata alla vita

intelligente della persona.

Le scienze e le verità scientifiche sono considerate ai margini delle persone

umane per una necessità dell’astrazione scientifica (dimensione dell’oggettività). Un

libro di scienza contiene “pensieri potenziali”. Questi contenuti saranno resi attuali

soltanto da una mente personale che li comprenderà grazie alla lettura del libro.

Qualcosa di analogo si può dire nei confronti dei procedimenti e risultati “oggettivati”

delle macchine intelligenti (computer dotati di intelligenza artificiale).

Non importa quindi se le elaborazioni di un “agente intelligente artificiale”

sembrano più potenti delle risorse intellettuali di una persona, o se una calcolatrice

può compiere calcoli dalle dimensioni astronomiche, inaccessibili alle capacità

personali. Il pensiero di una persona comunque rimane essenzialmente diverso dalle

oggettivazioni artificiali dell’intelligenza, semplicemente perché è personale,

appartenente alla sua vita cognitiva e volontaria. In questo senso nessun tipo di

trattamento dell’informazione esterno alla persona può sostituirlo. Questo fatto non

toglie però la necessità di astrarre e di oggettivare per progredire nello sviluppo

cognitivo (nel capitolo 6 vedremo con più ampiezza il problema dell’intelligenza

artificiale)107.

2. L’unità psicosomatica e personale dell’atto di comprendere. La trascendenza

dell’atto intelligente rispetto al corpo e alla sensibilità non impedisce la loro

integrazione nell’unità di un solo atto, così come l’anima umana trascende il corpo ma

insieme costituisce con esso una sola unità sostanziale (la persona). La frase “questa è

la mia casa”, pronunciata mentre la vediamo, fa parte di un unico atto intellettivo-

107 In questo senso, E. Sprague, in Persons and Their Minds, Westview Press, Boulder (Colorado) 1999, contrappone le filosofie della mente, concentrate sull’epistemologia (mindism), ad una filosofia che invece dovrebbe andare più centralmente alla persona (personism).

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sensitivo. Un singolo atto personale integra qui la comprensione, il proposito

volontario, l’atto linguistico, la visione e la conseguente attività neurale. In modo

analogo, quando salutiamo con la mano una persona compiamo un unico atto

personale integrato da molti elementi.

Le azioni umane sono solitamente integrate da molteplici operazioni compiute

da diverse potenze (volontà, intelligenza, sensi, muscoli). Così quelle operazioni

possono costituire una singola azione umana. Non saranno allora due o più atti

correlati, ma un’unica azione personale, dove l’elemento formale più alto -

normalmente la volontà intellettiva- formalizza gli altri elementi e quindi li unifica108.

Vediamo in seguito due questioni correlate alla problematica mente/cervello. La

prima è relativa all’inconscio cognitivo; l’altra riguarda il problema dell’identità

personale, anche in rapporto alla sopravvivenza dell’anima umana dopo la morte.

3. L’inconscio cognitivo

Pur essendo tante le modalità in cui si può parlare di coscienza, ne indichiamo

almeno tre livelli fondamentali :

1) Coscienza sensitiva o stato sensitivo di veglia, comune agli animali e

all’uomo, con un radicamento cerebrale ben noto. Nell’uomo questa è la base di ogni

altro stato di coscienza. La “coscienza onirica” -i sogni mentre dormiamo- potrebbe

essere considerata come un grado basso e poco integrato della coscienza sensibile,

magari arricchito anche da contenuti superiori, senza però una piena integrazione.

2) Coscienza intellettiva come avvertenza chiara e profonda di alcuni oggetti

della conoscenza, con la possibilità di gradi diversi d’intensità. Si può essere più o

meno cosciente di avere un oggetto di valore tra le mani, di sentire i rumori della

strada, o di trovarsi davanti a una persona importante. In questo secondo senso,

“coscienza” e “conoscenza” sono praticamente sinonimi.

108 Quando l’atto di un agente volontario provoca un effetto esterno, la causa propria dell’effetto è l’agente stesso, non le operazioni tramite le quali si giunge all’effetto. Se una persona spara e uccide qualcuno, la causa propria della morte è l’agente, non i processi fisico-chimici del suo cervello o la pallottola che ferisce il corpo provocandone la morte. Cfr. E. Lowe, An Introduction to the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge 2000, cap. 9.

Page 93: Sanguineti - Filosofia Da Mente

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3) Coscienza come auto-conoscenza del proprio soggetto e dei suoi atti o stati:

coscienza di essere responsabile, di agire liberamente, di essere una persona, di aver

commesso un delitto, di avere un braccio. Anche l’auto-conoscenza ammette parecchi

gradi d’intensità e di profondità109. In questo senso, avvertiamo la nostra esistenza

personale operante (“sono”, “esisto”, “vivo”), la nostra attività intenzionale (“sto

guardando dalla finestra”), i nostri sentimenti (“sono nervoso”), il nostro corpo.

Possiamo sapere di noi stessi molti aspetti (il nostro nome, l’ora in cui viviamo, tanti

ricordi biografici personali, le nostre qualità o difetti, ecc.).

L’autocoscienza intellettuale presuppone la coscienza sensitiva vigile e ci

consente di dominare liberamente gli atti disponibili del nostro corpo e di esprimerci

linguisticamente o con gesti significativi liberi. La diminuzione o la perdita

dell’autocoscienza, o di certi aspetti della coscienza di sé (ad esempio, perdita di

memoria biografica), annulla questa capacità e quindi interferisce nell’uso della nostra

libertà.

La coscienza, pur essendo una situazione cognitiva alta, non è equivalente alla

conoscenza. Non possiamo pretendere che tutta la nostra vita psichica sia

semplicemente cosciente. Al contrario, molte nostre conoscenze, ricordi, abiti o

disposizioni non sono aperti alla coscienza e comunque sono importanti, in quanto

costituiscono un certo fondamento di quanto facciamo e pensiamo nei momenti della

coscienza attivata. Così, soltanto grazie alla nostra padronanza di una scienza o di un

linguaggio possiamo creare frasi significative, consistenti e vere.

Il sapere abituale non si presenta alla coscienza, né oggettiva né operazionale.

Sappiamo inglese, italiano, senza avvertirlo in modo sensibile né “vederlo”

intellettualmente. Concludiamo di avere tali abiti linguistici perché osserviamo la

buona riuscita delle nostre frasi coscienti. In definitiva, ciò che ho presente davanti

alla mia considerazione in atto (“ciò in cui sto adesso pensando”: la mia finestra

cognitiva), sebbene sia molto importante per l’uso della mia libertà, è minimo nei

109 Cfr., sul tema, in ambito di filosofia della mente, Q. Cassam (ed.), Self-Knowledge, Oxford University Press, Oxford 1994; S. Shoemaker, The First-Person Perspective and Other Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1996; N. Nelkin, Consciousness and the Origins of Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1996; D. Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective, Clarendon Press, Oxford 2001.

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confronti delle dotazioni, assai complesse, della mia persona in quanto essere

conoscente e tendenziale (volontà, inclinazioni, stati animici). La memoria di lavoro o

cornice cosciente in cui si espande la nostra attenzione è solo una parte della nostra

vita cognitiva.

La geografia dell’inconscio cognitivo e tendenziale è complessa. D’una parte

abbiamo gli oggetti rimasti nella memoria, oppure certe operazioni cognitive non

arrivate alla soglia della coscienza. Questi oggetti/operazioni (ad esempio, il ricordo

risalente a due anni di aver fatto una gita) possono essere accessibili (oppure no) alla

chiarezza cosciente. La coscienza in questo senso è graduale, poiché ci sono oggetti

molto coscienti e altri semicoscienti. Ulteriori aspetti psichici, come gli abiti e le

inclinazioni, semplicemente per la loro natura non possono essere coscienti, nel senso

di essere sentiti o avvertiti. Il possesso di abilità, virtù, vizi, disposizioni, non è

visibile alla mente come oggetto fenomenico, e neanche è avvertito nel modo in cui

notiamo le nostre operazioni in atto o perfino il nostro io quando agisce.

Qual è il rapporto tra gli aspetti psichici inconsci e il sistema nervoso? Il

cervello accumula informazione latente e implicita, resa disponibile nei momenti

opportuni, e ci sono al riguardo delle aree o circuiti legati alla memoria a lungo e a

breve termine, nonché alla memoria “procedurale” e a quella “dichiarativa”. La nostra

conoscenza linguistica ha un suo radicamento cerebrale. Si può però domandare:

l’amnesia ci fa perdere i ricordi, o soltanto la possibilità di ricuperarli?

Il tema è ampio e qui possiamo soltanto suggerire qualche indicazione filosofica

di principio in base a quanto abbiamo visto finora nella nostra esposizione. Searle

riconduce i contenuti cognitivi inconsci a predisposizioni cerebrali110. Sarebbe troppo

sbrigativo, a suo parere, concepire le nostre conoscenze inconsce come se fossero una

sorta di fotocopia oscura delle cognizioni coscienti, semplicemente “situate in una

zona d’ombra”. Searle però elabora, in un’altra sezione del suo lavoro111,

un’interessante teoria del background cognitivo, secondo la quale i nostri atti

intenzionali funzionano in un contesto di capacità mentali non intenzionali o non

rappresentative. Il senso delle nostre espressioni linguistiche (ad esempio, tagliare in

110 Cfr. J. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit., cap. 7. 111 Cfr. ibid., cap. 8.

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frasi come “tagliare l’erba”, “tagliare le spese”) potrebbe essere infinito secondo i

contesti. Soltanto il rapporto con reti semantiche e, in definitiva, con uno sfondo pre-

intenzionale (background) determina in modo soddisfacente il senso e la verità di

quanto si esprime intenzionalmente. Così, mentre un soggetto dorme, non si può

pensare che egli abbia nella sua mente una sorta di “contenitore” con tutte le frasi

possibili relative a ciò che egli sa (lingue, scienze). Qual è, allora, lo statuto

ontologico del background cognitivo? Il punto rimane oscuro in Searle, ma alla fine

egli, non potendo concepire un tipo di contenuto psichico che non sia intenzionale,

riferisce tale sfondo alle capacità o a una sorta di potenzialità del cervello.

Questa tesi non è del tutto soddisfacente. Non siamo tenuti a ridurre la

conoscenza a operazioni coscienti intenzionali. Esiste un piano cognitivo abituale

preoperativo e preconscio dotato di contenuti (ad esempio, il sapere conservato nella

memoria, o le virtù intellettive e morali) non riducibile a semplici predisposizioni. È

qui dove si collocano il background, le reti semantiche e tutto quanto sconfina gli

stretti margini delle finestre cognitive, o dove è situata la pregnanza dei primi principi

noetici in rapporto al resto delle nostre conoscenze operative. Ma se le operazioni

sensitive sono psicosomatiche, analogamente la conformazione stabile e preoperativa

del cervello come organo sensitivo sarà altrettanto psicosomatica, sarà cioè costituita

da una dimensione materiale e da una corrispondente dimensione formale

precosciente. Searle ha ragione nel non voler immaginare questo strato secondo il

modello della conoscenza operativa. Ma non c’è difficoltà nell’ammettere l’esistenza

di una vera psiche inconscia, legata al cervello in tutto quanto è relativo alla

sensibilità, ma non semplicemente identificata con le strutture neurali.

Il rapporto dei contenuti intellettivi preconsci col cervello sarà analogo a quello

delle operazioni rispettive. La nostra anima spirituale dunque può essere piena di

ricordi, scienze, principi, atteggiamenti intellettuali e volontari e intenzioni implicite.

Il sapere abituale, una sorta di magazzino o tesoro pieno di innumerevoli specie

(thesaurus specierum), secondo la metafora di Tommaso d’Aquino112, è un insieme di

acquisti stabili costituenti la mente informata a titolo di abiti o possessi intellettivi.

Questi contenuti hanno un radicamento neurale nella misura in cui sono stabilmente

112 Cfr. S. Th., I, q. 78, a. 4.

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collegati a determinate esperienze e a un certo linguaggio. Così avviene, ad esempio,

nel sapere linguistico correlato alle aree linguistiche corticali.

Come esiste, ad esempio, un ricordo nella nostra mente, quando non lo

ricordiamo in atto? La traccia mnemonica cerebrale corrispondente a tale ricordo,

fintanto non è attivata, possiede un contenuto psichico preconscio? La co-

appartenenza tra dimensione psichica e neurologica ci spinge a dare una risposta

affermativa a questa domanda. Ma il ricordo potenziale non è come un oggetto messo

in ombra. Il ricordo “immagazzinato” è un tipo di stato psichico che possiamo

chiamare abituale. Il possesso abituale di una cognizione non si può “concepire”,

proprio perché sta alla base di ogni concettualizzazione. Un ricordo, un’intuizione

pregnante o un sapere previo potranno dar luogo a una serie di operazioni o di

rappresentazioni oggettive. Queste ultime spesso non esprimono che un aspetto

parziale della forza cognitiva dell’abito113.

Il contenuto cognitivo abituale della mente è immenso. Esso influisce sul nostro

comportamento e sul nostro pensiero (senza causarli in modo deterministico), anche

senza il passaggio alle rappresentazioni, cioè a quello che i classici chiamavano verbi

mentali (un pensiero, una proposizione). D’altronde gli abiti -ad esempio i ricordi

latenti- non vanno presi in una maniera atomistica. Non possiamo enumerarli come se

fossero delle unità isolate. Sotto un certo punto di vista, essi sono strutture a rete, con

nuclei sistemici più forti e altri più deboli. Grazie alla cognizione abituale possiamo

dare “sguardi luminosi di insieme” alla molteplicità delle nostre idee e delle nostre

esperienze, anche paragonandole a vicenda. Così possiamo vedere e capire meglio,

senza la necessità di dover compiere continuamente nuove operazioni per ogni

momento nostro di insight, cosa impossibile perché creerebbe catene all’infinito di

operazioni mentali114.

113 Scrive Tommaso d’Aquino: “la concezione attuale nasce dalla conoscenza abituale”: Q. de Veritate, q. 4, a. 2. Sappiamo e ricordiamo, anzi, molto di più di quanto riusciamo a pensare in ogni singolo momento: “l’intelligenza non riesce a esprimere nella concezione di un verbo tutto quanto abbiamo nella conoscenza abituale, bensì soltanto un aspetto”: Q. de Veritate, q. 4, a. 4. 114 Cfr., in questo senso, E. Moss, The Grammar of Consciousness. An Exploration of Tacit Knowing, St. Martin’s Press, New York 1995, dove si delinea una filosofia della mente ispirata alle idee di Polanyi sulla conoscenza tacita.

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4. Anima, corpo e identità personale

In questo libro non consideriamo problemi ontologici propri dell’antropologia.

Ci limitiamo agli aspetti cognitivi tipicamente studiati dai filosofi della mente.

Comunque adesso mi riferirò ad alcuni punti relativi all’identità della persona,

indispensabili per il nostro sviluppo tematico (presupponendo le nozioni

antropologiche fondamentali di persona e anima umana). In alcuni casi sarà

sufficiente fare solo qualche precisazione terminologica115.

a) Persona

La trascendenza dell’intelligenza umana sulla sensibilità, insieme al suo legame

intrinseco con essa, è correlativo alla trascendenza dell’anima spirituale sulla materia

e al suo vincolo sostanziale con il corpo116. L’unità anima/corpo è un tutt’uno con

l’identità e unità ontologica della persona umana. La persona non è il corpo né

l’anima, ma la totalità sussistente di corpo ed anima. A questa totalità conviene

propriamente l’attribuzione di essere. In rigore, solo la persona è, non le sue parti, e

solo la persona agisce, in quanto è padrona dei suoi atti grazie alla libertà. Veramente

solo la persona realizza in grado massimo la perfezione esistenziale dell’essere.

La persona è sempre presente, anche quando non opera all’altezza di tutte le sue

potenzialità o quando non è riconosciuta da nessuno (la conoscenza non crea la

persona). L’embrione umano è persona, benché non possa ancora esercitare le

funzioni superiori umane. In qualche stadio primitivo egli potrebbe non avere

nemmeno sensazioni, così come un uomo anestetizzato o in stato di coma perde

l’esercizio della sua coscienza intellettuale e sensitiva. In questi casi siamo sempre

davanti a persone umane. Sappiamo di esserlo quando siamo davanti a un corpo vivo

appartenente alla specie umana. Riconoscere l’altro come persona è tanto importante

quanto riconoscere noi stessi come persone. Naturalmente, il criterio di conoscenza

115 Cfr., su questo tema nella prospettiva della filosofia della mente, J. Perry (ed.), Personal Identity, University of California Press, Berkeley e Los Angeles 1975; J. Cornwell (ed.), Consciousness and Human Identity, Oxford University Press, Oxford 1998; S. Shoemaker, Identity, Cause, and Mind, Clarendon Press, Oxford 2003; J. Searle, Mind, Oxford University Press, Oxford 2004. 116 Sul concetto aristotelico di anima, nel contesto del dibattito mente-corpo, cfr. J. Quitterer, L’anima umana: illusione o realtà neurobiologica? Un contributo all’attualità del concetto di anima, “Rivista teologica di Lugano”, VIII (2/2003), pp. 217-231.

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dell’identità umana non si confonde con l’identità ontologica della persona stessa.

b) Coscienza e io

La coscienza della propria identità è un aspetto della conoscenza intellettuale.

La coscienza personale non è la persona (una persona umana può essere incosciente).

Come abbiamo visto nella sezione sull’inconscio, la coscienza personale si manifesta

quando ci comprendiamo in modo naturale e in mezzo alle nostre azioni come

soggetti di riferimento di quanto facciamo o di quanto ci accade. La parola

normalmente impiegata per indicare l’autocoscienza personale è io, il me stesso. L’io

quindi è la propria persona in quanto avverte se stessa nei suoi atti.

L’io non si “sente” e non è appreso come oggetto di nessuna operazione, bensì

si avverte come il soggetto delle mie operazioni o passioni (“voglio”, “vedo”,

“soffro”). La conoscenza dell’io è metafisica e insieme sperimentale, benché non

empirica (ci sono molte esperienze metafisiche e spirituali).

L’esperienza dell’io è misteriosa e al contempo chiara. Comprende il proprio

corpo, ma lo sorpassa (“il mio corpo è mio, ma io non sono semplicemente la totalità

del mio corpo”)117. “Io” si riferisce specialmente agli atti superiori (“ragiono”) o agli

atti fisici in quanto includono il tutto personale attivo o passivo (“corro”, “mi

perseguitano”), mentre gli atti delle parti del corpo diciamo di averli o che sono nostri

(“ho un dolore al dito”, “il mio braccio è ferito”). Per attribuzione semantica possiamo

riferire l’io ad un’altra persona, persino quando non è cosciente (“quel soggetto che

dorme è un io”).

Esiste una correlazione tra l’autocoscienza e l’attività cerebrale? La risposta è

affermativa, dal momento che l’autocoscienza è un’attività dell’intelligenza collegata

all’attivazione della sensibilità superiore118. Non esiste una localizzazione

dell’intelligenza come potenza spirituale, né delle sue operazioni spirituali in quanto

117 Sul rapporto tra io e corpo, cfr. C. Fabro, L’io e l’esistenza, a cura di A. Acerbi, Ediz. Università della Santa Croce, Roma 2006. Fabro prende la dualità io/corpo come fenomenologicamente corrispondente alla dualità ontologica di anima/corpo. Ne segue uno sviluppo ampio e ricco dell’esperienza vissuta dell’io nel suo rapporto col corpo. 118 Cfr. il n. 8 di questo capitolo sulle correlazioni tra atti intellettivi e fenomeni neurali. Ved. sul tema, dal punto di vista neurologico, T. E. Feinberg, J. P. Keenan (ed.), The Lost Self: Pathologies of the Brain and Identity, Oxford University Press, Oxford 2005.

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tali. Ma tali operazioni (atti relativi alla coscienza di sé, giudizi, scelte, progetti) sono

in collegamento con le aree corticali e subcorticali della sensibilità superiore

cognitiva, emotiva e motoria119. Comunque su questa tematica è bene ricordare i

diversi livelli della coscienza personale prima accennati (situazione di veglia,

memoria autobiografica, capacità di riconoscere aspetti cognitivi o parti del corpo

come nostri, ecc.) da cui risulta una particolare complessità del problema a livello

neurologico. Un livello della coscienza personale sono i ricordi della propria vita, ma

la coscienza personale non è necessariamente identica alla coscienza narrativa.

Possiamo dire “io” e agire liberamente, pur avendo perso la memoria della nostra

identità narrativa120.

c) Anima come io e anima come atto del corpo

L’io è stato tradizionalmente denominato anima o spirito in riferimento

specifico alla sua vita intellettuale o spirituale orientata a fini trascendenti (scienza,

arte, moralità, religione, amicizia), pur contando con la partecipazione della

sensibilità. La vita superiore dello spirito non è necessariamente separata dal corpo,

anzi riesce a coinvolgerlo nei fini trascendenti, come avviene in un modo particolare

nell’arte. Così come l’intelligenza e la libertà possono orientarsi al servizio di fini

corporei -cercare alimenti, curare la salute-, è altrettanto naturale il processo inverso,

quando le dimensioni più alte del corpo si pongono al servizio dello spirito121.

David Braine parla, in questo senso, di una concezione fenomenologica e

prefilosofica dell’anima, frequente nelle Sacre Scritture, quando si parla di “cuore

umano” o di “amare Dio con tutta l’anima”122, oppure nella letteratura e nel

linguaggio colloquiale (“la mia anima è turbata”, “il mio spirito gioisce”). Questo

modo di riferirsi alla parte più alta della persona -la dimensione spirituale- non

comporta una particolare teoria dell’anima come forma del corpo123. In questi usi i

119 Cfr. il nostro capitolo 4, nn. 7 ed 8, dove la correlazione è ricondotta alla causalità. 120 Cfr., sul tema, lo studio di A. Damasio, Emozione e coscienza, cit. 121 Secondo la fede cristiana, la spiritualizzazione del corpo avverrà in grado massimo nello stato di gloria. La scomparsa della contingenza biologica renderà superflue le attività sensitive destinate alla sopravvivenza di un corpo sottomesso al degrado entropico. Il corpo risorto e santificato sarà più pienamente partecipe della gloria del suo spirito. 122 Cfr., ad esempio, Mt 26, 37; Lc 1, 46; 10, 27; 12, 19; Gv 14, 1. 123 Cfr. D. Braine, The Human Person: Animal and Spirit, cit., pp. 481 ss.

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termini “anima” o “spirito” valgono per “io” o “la mia persona”. È naturale esprimersi

in questo modo, poiché molte attività superiori non possono attribuirsi al corpo. Non

ha senso dire “il mio corpo è pieno di incertezze”, “il mio corpo ha votato”, mentre

invece ha senso dire “il mio corpo si è indebolito”. Secondo Braine, la concezione

fenomenologica dell’anima non comporta dualismo, benché Cartesio le abbia dato

una falsa ontologia, separandola dal corpo. Tale concezione non è incompatibile con

la nozione aristotelica di anima come forma del corpo.

d) Identità del corpo umano e cervello

La persona è la totalità unitaria e individuata di corpo-anima, non una parte

speciale dell’anima o del corpo. Dal momento che l’anima, forma del corpo, rende

specificamente umano tutto il corpo (“il mio corpo”), l’anima non può essere l’atto di

una parte somatica, ma lo è dell’insieme delle parti dell’organismo preso come un

tutto.

Le parti del nostro corpo, comunque, sono sostituibili. Questo avviene

naturalmente durante tutta la vita (rinnovamento cellulare) e può essere anche

realizzato artificialmente, come succede nelle protesi. La sostituzione di parti del

nostro organismo non significa che esse siano contingenti o accidentali. La totalità

somatica conserva la sua identità grazie alla presenza della forma -anima- in un corpo

che può rinnovarsi materialmente di continuo, privandosi di parti o incorporando parti

alla sua totalità in flusso124. La permanenza dell’identità personale è attestata dalla

continuità dei ricordi dell’io cosciente (“io narrativo”). Però, come abbiamo detto, la

coscienza non si confonde con l’identità personale. Ripetiamolo ancora: la persona,

una realtà ontologica, sussiste anche nei casi in cui si perde la coscienza: amnesia,

stati comatosi, patologie della coscienza.

La radice neurofisiologica dell’identità dinamica del corpo umano sta

nell’encefalo, centro del sistema nervoso e quindi centro dell’organizzazione

dell’intero corpo umano in tutte le sue funzioni, neurovegetative e neurosensitive.

124 Talvolta si pone il problema dell’identità “numerica” di una nave le cui parti materiali siano a poco a poco tutte sostituite. La questione è diversa, poiché la nave non è una sostanza, ma un’unità fisica collettiva. Non entro adesso nella problematica dell’identità delle unità collettive le cui parti cambiano (un popolo, o l’esempio menzionato della nave).

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Questo fatto non significa che l’identità del corpo umano125 sia l’identità

dell’encefalo. Se fosse così, il corpo umano sarebbe soltanto il suo cervello e il resto

sarebbe accidentale. L’attribuzione all’encefalo della funzione di radice dell’identità

dinamica del nostro corpo significa che la distruzione dell’encefalo comporta

direttamente la morte (la disintegrazione) di tutto il corpo. Ovviamente, il principio

fondamentale dell’unità del corpo umano è l’anima, non l’encefalo. Però, alcune parti

del corpo dipendono da altre e una di esse si dimostra la parte organica principale,

dalla quale dipende dinamicamente la sussistenza dell’intero organismo.

Per questo motivo, l’encefalo preso come un tutto è l’unico organo insostituibile

del corpo umano. Nel caso ipotetico, forse puramente teorico, di un encefalo

“trapiantato” in un altro tronco somatico umano, la persona “seguirebbe” il destino

dell’encefalo (invece, un trapianto di cuore non comporta un cambio di persona), ma

non perché esso sia sede delle funzioni superiori, poiché la persona non s’identifica

con le sue funzioni superiori, bensì perché, come abbiamo detto, l’encefalo è la radice

organica dinamica dell’identità numerica del proprio corpo, e la persona sta dove sta il

proprio corpo. Il caso di due gemelli uniti fisicamente in un unico tronco condiviso,

per indicare un fatto apparentemente problematico in questo senso, in realtà non

significa la presenza di due persone in un unico corpo. In questo caso ci sono piuttosto

due persone con due corpi uniti, con la condivisione di alcune parti. Sappiamo che

sono due persone perché siamo davanti a due encefali vivi e diversi.

L’asportazione e sostituzione di parti del cervello non intacca necessariamente

la sua unità e identità funzionale. Questo genere di interventi, pure in quadri

fantascientifici, al massimo potrebbe comportare la morte oppure una menomazione

cognitiva e tendenziale/emotiva della persona (molti di questi interventi, se possibili,

potrebbero essere immorali). Anche i casi patologici di “molteplici personalità”

(schizofrenia, cervello diviso) sono esempi di disintegrazione cognitiva ed emotiva

che non comportano la scomparsa dell’identità personale ontologica. Un malato

mentale, con la sua coscienza divisa, non per questo motivo cessa di essere persona.

125 Mi riferisco sia all’identità numerica (ciò che fa di questo corpo il mio corpo) che specifica (ciò che fa di una struttura corporea un corpo umano). Nella filosofia analitica si parla di identità come type (specifica) e di identità come token (numerica o del caso concreto).

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Talvolta si pone la domanda sulla possibilità di un trasferimento di funzioni

cognitive nei casi ipotetici di trapianti di parti di cervello. Veramente non è stato mai

dimostrato che un eventuale trapianto di sezioni cerebrali in un altro cervello implichi

un trasferimento di informazioni e di contenuti cognitivi da soggetto a soggetto.

L’idea fantascientifica di un trapianto dell’area linguistica da un soggetto ad altro che

comportasse un trasferimento della competenza linguistica correlata ci sembra

improponibile. Si può trapiantare biologicamente un occhio e la potenza visiva, ma

non i contenuti intenzionali del pensiero (ricordi, sapere, esperienza). Con la perdita

di connessione con le funzioni intenzionali, la massa cerebrale smette di essere il loro

adeguato supporto126.

Per un motivo analogo, l’idea di poter “trasportare” l’informazione psichica

(personalità, ricordi, sapere) dal cervello a un supporto informatico, balenata in autori

affini al funzionalismo, è altrettanto stravagante. Tramite mezzi artificiali,

ovviamente, si potrebbe fare una “ricopiatura” virtuale di alcuni aspetti della nostra

personalità, o dei contenuti del nostro sapere, ma ciò non sarebbe un trasferimento

della persona, bensì la costruzione di una sua simulazione informatica.

Diverso è il caso dell’impianto nel cervello di una “protesi” cognitiva artificiale,

come quelle che oggi si adoperano per riparare danni o carenze dei sensi esterni

(visione artificiale) o di funzioni motorie. Un collegamento neurotecnologico del

nostro cervello a un computer (interfaccia cervello/computer) potrebbe giovare alle

prestazioni della sensibilità. Ciò potrebbe significare l’apertura di una nuova via di

accesso a fonti informative, ma il problema della perdita dell’identità personale

ontologica qui non si pone127.

Il collegamento biotecnologico del nostro cervello con strumenti informatici

può essere utile, se possibile, finché rimane nel campo dell’informazione o dei

comandi motori. In un quadro fantascientifico, tale collegamento risulterebbe

problematico dal punto di vista etico e forse della salute mentale, se il congegno

elettronico dovesse contenere simulazioni psichiche di natura emotiva, tendenziale o

126 Cfr. il nostro capitolo 3, n. 7, sulla codificazione cerebrale. 127 Torno su questo tema nel capitolo 6, n. 6 e).

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pratica che potrebbero nuocere la persona come agente libero ed emotivo128. La

neurotecnologia, al pari di ogni altro genere di tecnica, ha i suoi limiti antropologici e

morali.

e) L’anima separata dal corpo

Mi riferirò brevemente a questo punto secondo il pensiero di Tommaso

d’Aquino. La trascendenza dell’anima umana sul corpo porta l’Aquinate a sostenere

la sua sussistenza dopo la morte129. In questo caso l’anima separata, mancandole una

parte essenziale, si trova in una situazione imperfetta (questa è una tesi tomistica130),

benché in quanto sussistente non smetta di essere una persona umana. La presenza

della persona segue sempre la parte che sussiste senza cambiare identità, nonostante le

possibili asportazioni e trapianti. Il corpo umano muore, ma non l’anima spirituale,

quindi non muore la persona131. Ciò non significa che la persona sia l’anima, così

come il corpo umano non è solo l’encefalo, anche se un encefalo teoricamente

mantenuto in vita privo del suo tronco sarebbe ancora una persona umana. Invece un

dito mantenuto artificialmente in vita non è una persona, poiché è stato separato dalla

radice dinamica dell’identità del nostro corpo, come abbiamo visto.

Il legame essenziale dell’esercizio dell’intelligenza umana con l’esperienza e il

cervello pone il problema del modo in cui si dovrebbe concepire la mente umana nella

sua esistenza (sia pure provvisoria, secondo la fede cristiana) staccata dalla base

neurale. Ad esempio, in che senso dovrebbero rimanere nell’anima separata le scienze

o le lingue imparate dalla persona? In risposta a tale quesito, Tommaso si limita a

ipotizzare una conoscenza “confusa e generica”, sebbene questa imperfezione sarebbe

128 Cfr. sull’intelligenza artificiale il nostro capitolo 6, in particolare n. 6 e). 129 Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 75, aa. 2 e 6. 130 Cfr. San Tommaso, C. G., IV, 79, n. 4135-36 (ed. Marietti). 131 San Tommaso sembra negare che l’anima umana separata dal corpo sia persona, ma solo perché egli intende per persona l’unità sussistente nell’integrità della sua natura, la quale esige anche il corpo (cfr. In III Sent., d. 5, q. 3, a. 2; In I Cor., XI, lect. 2). Il contesto di queste affermazioni è l’argomentazione in favore della risurrezione del corpo, insieme all’intenzione di evitare il platonismo. Ciononostante, secondo l’Aquinate l’anima umana separata conosce in atto, benché imperfettamente: cfr. S. Th., I, q. 89; I-II, q. 4, a. 5, ad 2. Cfr., sul tema, J. A. Lombo, La persona humana en Tomás de Aquino, Pontificia Università della Santa Croce, Apollinari Studi, Roma 2001, pp. 325-335.

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rimediata nella situazione di visione beatifica132. Degli abiti cognitivi, cioè il sapere

abituale acquisito in questa vita, rimarrebbe nell’anima separata tutto ciò che è in se

stesso puramente intellettuale, separato e quindi anche trasformato dai contenuti legati

alla sensibilità133.

Questa risposta potrà apparire poco soddisfacente, ma forse è il massimo che si

può dire sul piano filosofico. La fede cristiana, benché contenga dei punti relativi alla

vita ultraterrena senza corpo, tace sulla modalità esistenziale delle operazioni

spirituali dell’anima, un punto sul quale non abbiamo alcuna esperienza. Le nostre

esperienze cognitive (astrazione, oggettivazione, ragionamento, scienze) sono relative

all’intelligenza che opera in unione con la sensibilità. La filosofia può puntare

all’immortalità dell’anima, come ha fatto Platone, ma non è competente per parlare

sulla modalità concreta dell’esistenza ultraterrena.

5. Lo sviluppo dell’intelligenza

Nei seguenti paragrafi intendo considerare alcuni aspetti dell’intelligenza

particolarmente collegati al cervello, centro di attenzione delle indagini della filosofia

della mente134. Lo sviluppo mentale è condizionato da elementi neurologici collegati

al buon funzionamento delle nostre funzioni psichiche superiori. Il problema non si

riferisce solo agli atti intellettivi, ma allo stesso sviluppo dell’intelligenza. Nel quadro

classico, come sappiamo, questo sviluppo non è visto come un puro accumulo di

informazioni, ma soprattutto come una crescita a livello di abiti ovvero di peculiari

potenzialità acquisite dalla mente.

Lo sviluppo cognitivo è individuale ma anche collettivo, a causa

dell’interconnessione sociale tra le persone tramite i mezzi di comunicazione. Con gli

abiti acquisiti, se sono positivi, cresce l’idoneità personale per compiere con facilità

una serie di operazioni intellettuali. Su una certa base offerta dalla natura, le

prestazioni intellettuali migliorano con lo sforzo dell’apprendimento cognitivo. Il

132 Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 89. 133 Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 89, a. 5. 134 Non entriamo nella problematica psicologica dello sviluppo dell’intelligenza nel bambino e nei ragazzi. Su questo tema si veda J. Piaget, La nascita dell’intelligenza nel bambino, Giunti e Barbera, Firenze 1993; La costruzione del reale nel bambino, La Nuova Italia, Firenze 1973; L’equilibrazione delle strutture cognitive, Boringhieri, Torino 1981.

Page 105: Sanguineti - Filosofia Da Mente

105

risultato non è solo l’acquisto di abilità procedurali per mettere in atto una schiera di

atti razionali. Più ampiamente, il risultato è un potenziamento della stessa capacità

comprensiva dell’intelletto, quindi un’abilitazione per compiere con naturalezza e

opportunamente operazioni intellettuali, anche nuove, che prima il soggetto non era

capace di esercitare. Il “grado” di intelligenza di una persona si riferisce a un misto tra

elementi innati e acquisiti che facilitano lo sviluppo delle risorse intellettuali. Questo

sviluppo si può riferire alle operazioni intellettuali in generale oppure ad alcuni campi

specifici (capacità scientifica, artistica, meccanica, organizzativa).

La crescita razionale non dipende solo dalle variabili neurologiche, ma da un

insieme di elementi che vanno presi simultaneamente e in modo sistemico, cioè con

influssi reciproci. Vediamo di elencarne alcuni:

1. Sistema nervoso. È la condizione materiale fondamentale. Sono inclusi in

questa dimensione aspetti genetici ed epigenetici, nonché elementi legati all’ambiente

fisico e alle prime fasi di sviluppo embrionale e dei primi anni dell’infanzia.

2. Livello culturale. Una civiltà letteraria, scientifica, artistica e aperta ai valori

intellettuali è stimolante e orientativa per la ragione umana. Al contrario, una cultura

può contenere elementi poco favorevoli allo sviluppo intellettuale (ad esempio, se è

chiusa al progresso scientifico o ai valori dell’intelligenza).

3. Linguaggio, simboli. L’intelligenza può crescere solo se trova nella cultura la

disponibilità di un sistema linguistico e simbolico. Ad esempio, l’intelligenza

matematica si fa avanti solo se impara un simbolismo matematico preciso.

4. Ambiente sociale a livello familiare, istituzionale e di amicizia. Questo punto,

insieme al n. 3, potrebbe essere incluso nel n. 2. Lo indichiamo in modo separato

soltanto per renderlo più esplicito. Il n. 2 lo riferiamo piuttosto alla macrocultura,

mentre in questo numero pensiamo alla microcultura. L’interazione con interlocutori

intelligenti in questi ambiti (famiglia, scuola, amici), nonché le caratteristiche di

questi nuclei sociali, favoriscono od ostacolano lo sviluppo razionale, volontario ed

emotivo.

5. Educazione. Anche questo punto è implicito nei numeri precedenti.

L’intelligenza umana cresce se è educata, con l’aiuto di maestri e istituzioni. Il primo

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106

apprendimento linguistico e di altre abilità di base è collegato ai “tempi critici”,

quindi è in un particolare rapporto con le prime specializzazioni della sensibilità

superiore dell’uomo, quando la plasticità cerebrale è ancora in una fase molto delicata

e ricettiva. I periodi della prima infanzia, cioè delle prime esperienze, sono decisivi

per lo sviluppo intellettuale e affettivo di base (ad esempio, apprendimento di lingue o

di abilità musicali e artistiche).

6. Abiti intellettuali. Questo fattore è interno alla mente, benché sia

condizionato da elementi esterni. Come accennavamo sopra, le persone diventano in

qualche modo “più intelligenti” quando acquistano delle virtù o “competenze” di

eccellenza cognitiva di ogni tipo: abiti scientifici, tecnici, artistici, organizzativi,

filosofici, morali, sociali. Ciò dipende dall’impegno personale, dalla dedicazione,

dall’interesse, dallo studio e da tante esperienze personali in campi concreti.

7. Dimensione personale e affettiva. Le virtù etiche e l’equilibrio complessivo

della personalità incidono sulla formazione intellettuale. La personalità morale è in un

particolare rapporto con gli aspetti sapienziali della conoscenza umana (senso della

vita, religiosità, moralità, considerati a livello di comprensione e di prassi vissuta).

Molti elementi della cosiddetta “intelligenza emotiva” (capacità di empatizzare,

comprensione delle situazioni degli altri) hanno a che vedere con questa dimensione.

Come si vede, potrebbe essere una semplificazione ritenere fisso il livello

intellettuale di una persona o pensare che ciò dipenda unicamente dalle dotazioni del

suo cervello. I grandi scienziati non erano necessariamente gente con un cervello più

potente. Spesso erano persone dotate di grandi passioni intellettuali, di molta tenacità

e disciplina intellettuale, che hanno trovato e seppero trarre profitto di circostanze

favorevoli, quasi sempre indipendenti dalla loro volontà, per dedicarsi allo studio e

alla ricerca in una certa area del sapere.

Il quadro presentato è solo orientativo e va capito in un senso sistemico, con

meccanismi di feed-back. Ogni dimensione può influire o condizionare le altre,

sincronicamente e diacronicamente. L’agire umano elevato dagli abiti intellettivi

incide sulla cultura e produce opere (libri, strumenti tecnici, istituzioni). Ciò crea le

condizioni culturali che a loro volta aiutano a elevare il livello intellettuale delle

persone (ma potrebbero anche ostacolarlo). L’ambiente culturale inoltre suscita abiti

Page 107: Sanguineti - Filosofia Da Mente

107

collettivi, in successione storica, abiti trasmessi alle singole persone tramite

l’educazione.

Non esiste una “intelligenza sociale” come un’entità ipostatica, ma sì esistono

condizioni culturali e organizzative più favorevoli all’intelligenza o più

intelligentemente impostate. Lo stimolo dei maestri e gli interessi degli studenti

condizionano lo sviluppo dell’intelligenza nella direzione di un campo specifico o di

una serie di virtù (senso della verità, serietà, profondità, chiarezza, razionalità,

mentalità critica, ragionevolezza, equilibrio, apertura, creatività). Il positivismo

scientifico, o il relativismo intellettuale, non sono soltanto correnti filosofiche, ma

possono anch’essere caratteristiche di una mentalità ambientale che condizionano lo

sviluppo della mente in una certa direzione o che magari restringono l’uso delle sue

potenzialità (il positivismo scientifico chiude la mente alla sensibilità filosofica).

In queste indicazioni sono presenti degli aspetti valutativi e altri più tecnici,

sebbene non ci sia una netta divisione tra di essi. Tutti considerano più intelligente la

persona capace di fare facilmente calcoli matematici molto sofisticati, o se è in grado

di vedere le implicazioni o i presupposti di certe situazioni, o se capisce subito il

significato di una storia. I test sul quoziente intellettuale valutano il grado

d’intelligenza in funzione di certe abilità razionali, preferentemente di tipo

matematico e logico (saper trovare analogie, scoprire relazioni nascoste, saper

ricollegare aspetti). Però i criteri di intelligenza sono tanti (saper comunicare bene le

proprie idee, saper sintetizzare, saper generalizzare, saper prevedere) e alcuni di essi

possono essere in rapporto a valutazioni sociali, culturali o filosofiche.

I modelli di ciò che si ritiene una “intelligenza brillante” sono parecchi. Alcuni

possono essere relativamente contingenti (ad esempio, in una determinata cultura la

gente può assegnare grande valore alle capacità retoriche, o al sapere matematico).

Certe presunte qualità intellettuali possono essere pure vincolate a una concezione

discutibile o perfino sbagliata dell’intelligenza. In mezzi sociali dove dilaga la

corruzione, chi non si lascia corrompere può apparire poco furbo. In un ambiente

positivista, la sensibilità filosofica può apparire fuorviante. In un contesto ideologico

o totalitario, facilmente saranno stimati come più intelligenti coloro che si adeguano

all’ideologia dominante o alle idee “politicamente corrette”.

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108

Inoltre i valori intellettuali sono da prendersi spesso in una prospettiva di

armonia. Sapere molta matematica o essere bravi negli scacchi è un valore

intellettuale, ma lascia di esserlo se la persona diventa troppo unilaterale nei loro

riguardi. La mentalità critica può essere una virtù intellettuale, ma non lo è più se

diventa ipercritica o non è in armonia con l’amore per la verità. Avere convinzioni

riguardo alla verità è un bene intellettuale, ma non lo è cadere nel fanatismo o nella

chiusura mentale.

La valutazione definitiva di ciò che vuol dire “essere più intelligenti” è un

problema antropologico, talvolta con un versante morale e prudenziale. Grazie al noto

libro di D. Goleman135, oggi si parla di intelligenza emotiva, vale a dire la capacità di

amministrare in modo intelligente le nostre emozioni e doti comunicative. Si

dovrebbe pure parlare di una intelligenza sapienziale, diversa dall’intelligenza

scientifica, tecnica o calcolatrice. Il problema è anche educativo: che tipo di

intelligenza vogliamo vedere sviluppata nei giovani e nei nostri figli? La risposta

sincera a questa domanda da parte di alcuni strati sociali potrebbe essere povera e

deludente.

6. Cervello e grado di intelligenza136

Tutto ciò che è cognitivo nell’uomo, nella misura in cui deve passare per la

sensibilità, “passa” per il cervello, ma non per questo tutto dipende dal cervello.

L’apprendimento di una lingua, ad esempio, è un evento cerebrale (non però in modo

esclusivo), perché chi impara una lingua sta plasmando il suo cervello. Ma egli o lei

lo fanno a partire da una situazione culturale. Per imparare le lingue non servono

farmaci né interventi chirurgici sul cervello. Occorre invece trovare un linguaggio

disponibile nella cultura e poi studiarlo effettivamente. In questo caso si sta

esercitando una causalità sul cervello “dall’alto verso il basso”, destinata alla

135 Cfr. D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996. 136 Le tematiche sul rapporto tra l’attività intelligente e il cervello sono oggetto di ricerca scientifica, spesso in prospettiva euristica e con conclusioni non del tutto definitive. Cfr., al riguardo, H. J. Eysenck, The Inequality of Man, Temple Smith, Londra 1973; H. J. Jerison, Evolution of the Brain and Intelligence, Academic Press, New York 1973; F. Mora (ed.), El cerebro sintiente, Ariel, Barcellona 2000; F. Mora, El reloj de la sabiduría. Tiempos y espacios en el cerebro humano, Alianza Editorial, Madrid 2001; D. Purves (curatore), Neuroscienze, Zanichelli, Bologna 2000, pp. 480-498.

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109

formalizzazione delle aree corticali linguistiche. La causalità “dal basso verso l’alto”

serve a rendere più atte le condizioni materiali che consentono la formalizzazione

procedente dall’alto. In parte è quanto avviene nel modellare una statua o nello

scrivere un libro: l’intervento dall’alto produce una strutturazione della materia basata

su criteri artistici o intellettivi. L’intervento dal basso potrà occuparsi invece delle

basi materiali, ad esempio, per quanto riguarda il libro, del livello ortografico secondo

criteri grammaticali, o del livello grafico affinché le lettere siano riconoscibili, o del

livello fisico di base affinché le pagine si conservino a lungo.

A parità di condizioni educative, culturali, caratteriali, personali, una notevole

capacità intellettiva in uno o più campi potrebbe essere dovuta, naturalmente, a

condizioni cerebrali favorevoli. Presupponendo a sua volta una parità di condizioni

cerebrali in rapporto alle capacità mentali, si potrebbe pensare a gradi di intensità

della stessa intelligenza nei diversi individui? Il fatto che alcune persone siano più

creative o facciano scoperte geniali potrebbe essere dovuto a una “maggiore forza”

della loro intelligenza e non ad altri fattori?

Non credo sia possibile rispondere a questa domanda. Il fondo ultimo dello

spirito è insondabile. Le persone nascono con una certa configurazione genetica e con

una serie di condizioni neurofisiologiche dove contano gli influssi ambientali dei

primi tempi dello sviluppo psicosomatico. A partire da questa base emergono

individui più dotati o meno dotati, in generale o per un certo tipo di competenza

cognitiva, con un determinato temperamento e modi di agire molto personali. Tranne

il caso di malattie e malformazioni neurali, non possiamo correlare i gradi e le

modalità dell’intelligenza a nessuna situazione genetica di base, anche perché i

concetti di “gradi” e “modalità” dell’intelligenza sono alquanto relativi, a causa della

loro complessità.

Il resto, cioè lo sviluppo mentale, dipende da un intreccio di fattori, dove le

capacità cognitive si manifestano col tempo, per cui non possiamo valutarle all’inizio,

quando sono soltanto potenziali. Se un bambino dimostra una memoria prodigiosa o

una capacità notevole di concentrazione dell’attenzione, superiore alla norma, in linea

di principio si tende ad attribuire queste qualità a cause neurologiche, ma oggi ci

mancano dati sufficienti per confermare empiricamente quest’ipotesi in modo

univoco.

Page 110: Sanguineti - Filosofia Da Mente

110

Possiamo stabilire una corrispondenza generica tra sviluppo cerebrale e crescita

delle capacità cognitive comparando le diverse specie animali. Il criterio

dell’aumento di peso e di volume della massa encefalica non basta da solo in questo

senso. Un parametro impiegato per stabilire in qualche modo tale correlazione è il

coefficiente di encefalizzazione (rapporto tra dimensione encefalica e peso del corpo),

ma neanche esso è sufficiente se non si aggiungono elementi quali la struttura stessa

del cervello e lo sviluppo della neocorteccia.

Questi criteri invece non servono come indice del grado d’intelligenza tra gli

uomini (tra gruppi razziali, sessi, individui). Ciò non è dovuto al fatto che le

condizioni cerebrali siano irrilevanti per l’intelligenza. Il problema è che la realtà è

troppo complessa. Nemmeno possiamo stabilire correlazioni empiriche univoche che

consentano di ritenere semplicemente ereditarie le capacità intellettuali (ad eccezione

di alcuni deficit psichici e di certe abilità cognitive di base, più legate alla materialità,

come le capacità musicali), tra l’altro perché in questo campo non possiamo

distinguere facilmente tra eredità biologica ed eredità culturale e perché gli elementi

in gioco sono troppi. Inoltre, la plasticità del cervello consente talvolta uno sviluppo

intellettivo capace di superare alcuni limiti neurologici. Certi difetti neurologici si

possono aggirare e compensare nei tempi critici, ma non altri. Alcuni individui hanno

sviluppato un’intelligenza normale pur avendo disponibile solo un emisfero

cerebrale137.

Possiamo piuttosto segnalare delle condizioni neurologiche generali favorevoli

allo sviluppo dell’intelligenza, alcune delle quali le troviamo nella specie umana a

differenza di altre specie animali, ad esempio, l’ampio sviluppo delle aree corticali

associative e dei lobi prefrontali. Ovviamente tutto ciò che favorisce l’adeguata

attività del cervello e la comunicazione dinamica tra le regioni cerebrali rilevanti per

la percezione, la memoria, l’attenzione, la coscienza, l’equilibrio emotivo, il

linguaggio, la pianificazione motoria, costituisce una base indispensabile per lo

sviluppo ed esercizio dell’intelligenza, in modo particolare riguardo alle funzioni

intellettuali collegate a un’area percettiva o linguistica (ad esempio, “intelligenza

137 Cfr. A. Battro, Half a Brain is Enough, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

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111

musicale”, “intelligenza spaziale”, “intelligenza linguistica”, ecc.138). Sul versante

negativo, come abbiamo detto, certe lesioni o deficit neurologici impediscono il

normale funzionamento della razionalità. Questi punti rimangono fermi in linea di

principio, ma non sono da prendere in modo rigido o assoluto a causa dell’enorme

complessità del cervello, un organo plastico molto versatile.

Per concludere, una parola sull’importanza delle prime esperienze per lo

sviluppo mentale, quando il cervello in qualche modo si sta ancora costituendo. Le

buone capacità cognitive ed emotive di un individuo e certe loro variazioni a livello di

base, e proprio per questo fondamentali, dipendono fortemente dalle prime

esperienze. In molti animali le prime esperienze servono per determinare meglio la

loro condotta istintiva primaria. Nell’uomo ci sono tempi critici per imparare a parlare

la prima lingua (anche negli uccelli, per imparare a cantare o volare). Le prime

esperienze possono determinare certe capacità cognitive ed emotive di base in un

modo ampio, oppure “esclusivistico” e più rigido139. L’individuo nasce piuttosto

indifferenziato e molto flessibile, un aspetto correlato alla plasticità sinaptica. Più

tardi questa plasticità si perde, quando ormai si sono create certe specialità che

comportano pure una forma di “esclusività”. È questo il motivo per cui la tonalità

musicale di una lingua non si può imparare perfettamente dopo la pubertà. Dopo il

primo anno di vita i bambini perdono la capacità di distinguere tra fonemi troppo

somiglianti. Analogamente, un difetto nell’uso di un occhio nei primi anni produce il

fenomeno dell’occhio pigro (ambliopia), il quale perde capacità visiva quando

all’inizio è stato ignorato dal cervello.

Questi punti si riferiscono a certe abilità di base, come la percezione musicale o

la visione. Invece lo studio di una nuova lingua non “specializza troppo”. Al

contrario, saperne parecchie facilita ancora lo studio di nuove lingue. Però se ai tempi

critici non si impara nessuna, l’individuo troverà molte difficoltà per parlare bene più

tardi. Ciò che è limitata qui è la capacità percettiva e motoria più legata alla

materialità. Non ci sono invece tempi critici per imparare abilità cognitive più alte,

138 Cfr., su questo punto, H. Gardner, Frames of Mind, cit. 139 Gardner, in Frames of Mind, cit., menziona il caso del “Suzuki Talent Center” nel Giappone, dove bambini sin dal primo anno di vita fino agli 7-8 anni ricevono un insegnamento musicale intensivo. A quell’età sembrano prodigi per le loro abilità musicali. L’esperienza è interessante, anche se discutibile dal punto di vista educativo.

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112

come scienze, filosofia, arti o tecniche.

7. Cervello, linguaggio, immagini e pensiero140

a) Necessità del linguaggio

L’esperienza linguistica è fondamentale sin dall’inizio per lo sviluppo e

l’esercizio dell’intelligenza141. Il motivo è che ordinariamente l’atto intellettuale non

si può compiere in modo adeguato senza simboli. Certamente il pensiero crea il

linguaggio e non viceversa, ma lo crea per necessità. Senza simboli sensibili,

l’operazione intellettuale rimane sfuggente e così non può essere ricuperata,

individuata e utilizzata convenientemente. Il pensiero quindi non può progredire senza

simboli, anche se normalmente quando parliamo o scriviamo capiamo più di quanto

esprimiamo linguisticamente, poiché non tutto quanto si comprende si può dire con le

parole. La realtà è più ampia del pensiero e il pensiero è più ampio del linguaggio.

L’uso del simbolismo facilita ma anche condiziona l’esercizio del pensiero.

Veramente il linguaggio è in se stesso pensiero (incarnato) e non un insieme di eventi

puramente fisici. Il linguaggio contiene e veicola pensiero. Dato un sistema simbolico

creato culturalmente dall’uomo, per far diventare una persona (un bambino)

operativamente intelligente occorre insegnarle un linguaggio, insieme ai gesti che

aiutano a contestualizzarlo. I bimbi lasciati da soli in ambienti naturali sin dall’inizio,

senza un aiuto umano, senza linguaggio, alcuni allevati da animali (“bambini

selvaggi”), non hanno potuto sviluppare convenientemente la loro intelligenza. Ciò

non significa comunque che lo sviluppo cognitivo sia identico né esattamente

parallelo allo sviluppo linguistico.

140 Cfr., su questi argomenti, S. Auroux, La filosofia del linguaggio, Ed. Riuniti, Roma 1998; P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, Carocci, Roma 2002; P. Carruthers, Language, Thought and Consciousness, Cambridge University Press, Cambridge 1996; P. Carruthers, J. Boucher (eds.), Language and Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1998; F. Conesa, J. Nubiola, Filosofía del lenguaje, Herder, Barcellona 1999; L. Formigari, Il linguaggio. Storia delle teorie, Laterza, Roma-Bari 2001; E. H. Lenneberg, Biological Foundations of Language, J. Wiley and Sons, New York 1967. 141 L’apprendimento linguistico primario è collegato anche alle prime esperienze sociali e affettive. L’intelligenza non comincia a evolversi nel bambino senza l’intervento continuato di un’altra persona parlante e affettuosa (normalmente la madre e il padre). La mente umana è intersoggettiva sin dall’inizio.

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113

Siamo anatomicamente predisposti per parlare. Il linguaggio orale è un fatto

naturale della specie umana. La creazione concreta di un linguaggio e

l’apprendimento linguistico, invece, sono un evento culturale -non puramente

naturale- che consente all’uomo di poter muoversi razionalmente nel mondo naturale

e nell’ambiente umano. Nell’insegnare lingue trasmettiamo alla gente un sapere

sedimentato da secoli. Non un sapere nel senso di giudizi, bensì una piattaforma

concettuale e di abiti che poi vanno usati personalmente e in modo creativo dalle

persone.

b) Il linguaggio, tra l’intelligenza e il cervello

Il linguaggio, costituito da simboli acustici e grafici, appartiene all’ambito

dell’immaginazione e della memoria sensitiva, potenze organiche che partecipano

all’intelligenza. Il cervello, di conseguenza, in unione con l’apparato fonatorio, è

organo del linguaggio, come lo dimostra l’esistenza di aree corticali linguistiche

conosciute dalla neurologia sin dal XIX secolo. Come abbiamo detto sopra,

l’apprendimento linguistico è una certa configurazione del cervello operata dall’alto

(dall’intelletto razionale). La “crescita del cervello” qui non è solo fisiologica, ma è

relativa alla sua formalizzazione in quanto strumento delle attività intenzionali.

Questo succede in qualsiasi forma di crescita delle esperienze sensitive alte

dell’uomo. Il cervello diventa così, a poco a poco, un organo più idoneo e più duttile

per svolgere le sue funzioni al servizio dell’intelligenza.

Il cervello linguistico si dimostra, in questo senso, uno strumento organico del

pensiero, così come le mani sono uno strumento corporeo della ragione in rapporto al

lavoro, mentre il volto è pure uno strumento o, meglio, la rivelazione corporea della

vita interiore della persona e un mezzo naturale della sua comunicazione (insieme al

linguaggio: non per nulla il linguaggio orale è un evento facciale). E così come le

nostre mani creano strumenti separati di lavoro (la tecnologia), ugualmente il cervello

linguistico ha bisogno di strumenti separati per raggiungere traguardi lontani nelle

opere della ragione.

Lo strumento esterno fondamentale del pensiero/linguaggio è il linguaggio

scritto. La scrittura è l’oggettivazione esterna e fisica di una ragione che usa

naturalmente un cervello. Qualcosa di analogo si potrebbe dire oggi dei computer, in

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114

quanto non sono macchine di trasformazione dell’energia ma strumenti di

elaborazione dell’informazione. La scrittura e i computer costituiscono elaborazioni

tecniche al servizio delle nostre attività intenzionali. In questo senso sono come

strumenti separati del cervello, il quale a sua volta è uno strumento intrinseco (un

organo) in funzione di un pensiero tenuto a usare un linguaggio. Inoltre, benché oggi

sia possibile l’impianto di biochip nel nostro organismo per potenziare alcune delle

sue funzioni, essi restano comunque strumenti tecnologici e non organici, il cui valore

deriva dal loro servizio all’organismo e alla persona142.

La “separazione” delle attività razionali implicate nelle creazioni tecnologiche è

una manifestazione del dominio umano sul mondo fisico. Tale separazione è una

forma di astrazione. Essa comporta dei vantaggi e insieme certi inconvenienti da

superare nella misura del possibile. In quanto ai vantaggi, la scrittura consente al

pensiero di arrivare molto al di là di quanto lo permette la nostra ristretta memoria di

lavoro. I computer ci consentono di compiere operazioni razionali con risultati

inaccessibili alla nostra intelligenza in certi campi della razionalità. Lo svantaggio è

che la separazione impone, riguardo alla lingua scritta, un peculiare sforzo

ermeneutico, e qualcosa di analogo si può dire dell’ausilio informatico in rapporto alla

nostra razionalità. Dobbiamo sempre incorporare alla nostra intelligenza personale il

servizio esterno dei testi e dei computer. Essi non si sostituiscono alla nostra

comprensione, ma soltanto la facilitano.

Il linguaggio si rivela, in definitiva, come lo strato più alto della nostra

sensibilità superiore ed è, in questo, senso, il vero mediatore tra l’intelligenza e il

corpo, anche se questo ruolo può essere assegnato a qualsiasi simbolo o gesto

sensibile usato dall’uomo per esprimere un’intenzione razionale o volontaria. Il

linguaggio sta sotto la guida immediata della ragione e così rende possibile la nostra

vita razionale nella forma di un’unità dinamica tra la mente e il corpo.

La ragione, come articolazione dei nostri pensieri, richiede i canali linguistici.

La forma linguistica articolata di base è la proposizione, inizio della ragione, cui

seguono i processi inferenziali e gli altri nessi del discorso linguistico. Esiste una

142 Cfr. il nostro capitolo 6, n. 6 e).

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115

corrispondenza tra razionalità e discorso linguistico, non però una perfetta simmetria.

Le costruzioni linguistiche hanno le loro leggi e la loro autonomia: sono al servizio

della ragione, ma non sono isomorfe alle operazioni razionali.

c) La codificazione cerebrale del linguaggio

In che senso il cervello contiene una “codificazione” nelle aree linguistiche?

Come risulta immagazzinata nei circuiti cerebrali una lingua, con il suo lessico -nomi,

verbi- e le sue regole? La risposta a questa domanda non è facile143. L’informazione

ottica e acustica proveniente dall’esterno è recepita dai sensi e comunicata al cervello

tramite i meccanismi di trasduzione. Essi trasformano l’informazione ottica accolta

dalla retina in un’informazione elettrochimica sempre più elaborata che dà luogo alla

percezione delle forme visive. Lo stesso si può dire della percezione acustica.

Nascono così le immagini luminose e acustiche. In seguito, gruppi di immagini

preselezionate, corrispondenti ai fonemi linguistici e ai rispettivi segni grafici della

scrittura, cominciano a svolgere la funzione di segni in certe regioni corticali, con il

noto fenomeno della lateralizzazione linguistica (di solito nell’emisfero sinistro, non

però in modo esclusivo). I segni orali potranno essere interpretati (ascoltati) o prodotti

(parlati), e i segni grafici potranno essere visti e capiti (letti) e trascritti (scritti).

Abbiamo così le quattro dimensioni linguistiche: ascoltare e parlare, leggere e

scrivere.

I segni linguistici radicati nel cervello -neuroni e assemblee di neuroni-

diventano immagini tipiche (patterns da riconoscere) e vengono collegati a un

significato mentale. Ma i segni sono pure associati tra loro secondo regole (sintassi).

Il loro significato completo (semantica) nasce ordinariamente da questi rapporti, i

quali si stabiliscono a diversi livelli: rapporti tra lettere, tra parole, tra frasi e tra

gruppi di frasi, e così si potrebbe andare all’infinito.

La lingua è un sistema di segni basato su una serie di regole astratte e generali:

la grammatica. Di per sé la lingua è un codice, cioè un insieme di segni sensibili o un

143 Sul rapporto tra cervello e linguaggio, cfr. Ch. Temple, Il nostro cervello. Come funziona e come usarlo, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 85-113, 159-194; L. K. Obler, K. Gjerlow, Cervello e linguaggio, McGraw-Hill, Milano 2001.

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116

sistema simbolico che, secondo regole di combinazione tra i suoi elementi e regole di

generazione e di trasformazione di sequenze, può associarsi a svariati significati e può

produrre indefinitamente sequenze significative (il discorso). La lingua è una

creazione culturale che noi comprendiamo a livello fenomenologico. Quindi il codice

linguistico di per sé è un’oggettività del pensiero dipendente da un abito intellettivo, il

quale comporta un certo uso intenzionale di oggetti della percezione. Il linguaggio,

detto in un altro modo, è un’oggettività del pensiero resa disponibile, in quanto abito,

all’uso della ragione. Non è un fenomeno biologico, anche se è in un rapporto

intrinseco con la biologia “computazionale” del cervello.

Siamo riusciti a creare sistemi simbolici di elaborazione dell’informazione in

base al principio della codificazione grammaticale nei computer dotati

dell’architettura di von Neumann o di Turing. Abbiamo così imparato a incorporare il

trattamento dell’informazione in una base fisica. Possiamo usare un computer anche

per incorporarvi una lingua (dizionari, programmi ortografici o di traduzione). Ora, si

può dire che facciamo spontaneamente qualcosa di analogo quando usiamo il nostro

cervello per imparare a parlare o a leggere?

Oggi sappiamo che la risposta a questa domanda è negativa. Il cervello non è un

computer simbolico. Non è come l’hardware di un programma, con le sue regole e

una memoria “domiciliata” in un archivio. Le nostre grammatiche non sono

incorporate alle regioni linguistiche cerebrali come possono esserlo in un computer

simbolico. Eppure, in qualche modo complesso e indiretto, alcuni aspetti di base delle

grammatiche e il lessico delle lingue sono “iscritti” nel cervello (si ricordi quanto

abbiamo visto nel capitolo 2, n. 3, sull’analogia dei concetti di informazione e di

computazione). Conosciamo questo punto perché le lesioni cerebrali che comportano

dei deficit linguistici e l’osservazione di attivazioni di aree corticali in seguito

all’esecuzione di compiti linguistici dimostrano un coinvolgimento cerebrale in alcuni

aspetti specifici dell’uso della lingua. Anche se molto rimane ancora aperto alla

ricerca, alcuni aspetti linguistici concreti con basi cerebrali chiare sono: fluidità e

tonalità del linguaggio, comprensione e produzione verbale, padronanza dei nomi di

individui in certe categorie semantiche, uso di nomi e verbi, bilinguismo o

poliglottismo.

Sebbene oggi ignoriamo molto sul come della “codificazione linguistica”

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117

cerebrale (codificazione in senso metaforico), possiamo prevedere in termini generici

l’applicazione in questo punto dei principi associativi dell’architettura

connessionistica (reti neurali), su una base di “computazione” di natura

elettrochimica. Questa codificazione, a titolo di base materiale, ovviamente sta in

rapporto alla sensibilità superiore umana (percezione, memoria, immaginazione) e al

suo dinamismo associativo, in dipendenza diretta dalla creazione razionale di un

sistema linguistico.

D’altra parte, quando parliamo, ascoltiamo, leggiamo, tutto il cervello è

operante in un modo complesso e non solo le aree linguistiche. Un discorso

significativo esige collegare molte memorie, l’attenzione, la pianificazione motrice

inerente al parlare, le regioni linguistiche, le aree percettive e l’emotività. La pratica

linguistica presuppone il dominio di un lessico e di una serie di regole, e anche il

possesso di una “teoria della mente” degli interlocutori (vale a dire, saper intuire

quanto succede nella mente altrui e anticiparne le risposte). Il dominio linguistico a

livello di conversazione richiede inoltre saper fare un piano narrativo o

argomentativo, adeguare il discorso ai contesti variabili, prevedere le reazioni a

quanto diciamo e tener conto di tanti altri aspetti considerati dalla teoria della

comunicazione.

d) La questione dell’innatismo linguistico

Secondo Noam Chomsky144, ogni lingua si riconduce a una “grammatica

universale” profonda innata, appartenente a una funzionalità di base del cervello

umano, così come è naturale all’uomo avere un apparato fonatorio previsto per

parlare. Solo così si spiegherebbe il fatto che i bambini ordinariamente imparano con

facilità e senza un particolare sforzo la lingua materna, con regole di produzione che

consentono una sistematicità e una creatività molto al di là di quanto si potrebbe

aspettare dal contatto sempre limitato con le esperienze linguistiche.

La tesi chomskiana superò la visione comportamentista, troppo limitata ai

processi di apprendimento linguistico basati su condizionamenti e associazioni. Resta

144 Cfr., tra le sue numerose opere di linguistica, Le strutture della sintassi, Laterza, Bari 1970; Linguaggio e problemi della conoscenza, il Mulino, Bologna 1991; Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, Il Saggiatore, Milano 2005.

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118

da vedere in che senso si potrebbe parlare di una predisposizione innata verso alcune

strutture sintattiche di base cui tenderebbe ogni linguaggio concreto formatosi

storicamente, quali l’italiano, l’inglese, l’ebraico, ecc. Ad esempio, le strutture

nomi/verbi, soggetto/predicato, costituiscono davvero un “universale linguistico” cui

si tende, o sono convenzionali e arbitrarie come qualsiasi lingua concreta?

Questo problema risulta talvolta oscuro a causa dell’intreccio tra sensibilità alta

e intelligenza, anzi tra linguistica e logica. Nell’origine e nell’apprendimento di un

linguaggio queste dimensioni sono intrinsecamente collegate. La formazione di un

linguaggio non è un fatto biologico, bensì culturale e razionale, sia pure con una base

neurologica. La nascita del linguaggio è una delle prime opere della ragione, per cui

non sorprende il suo forte legame con la nostra natura psicosomatica alta.

Empiricamente non sappiamo come siano nati i linguaggi umani primitivi o, in

altre parole, come sia nata la civiltà umana in mezzo alla vita selvaggia degli uomini

primitivi145. Una teoria evoluzionistica puramente biologica potrà dar ragione della

formazione dei “linguaggi” animali, ma non della nascita del linguaggio umano, frutto

dell’intelligenza come potenza universale. Il fenomeno dei bambini selvatici prima

menzionato non ci ha dato nessuna luce empirica sull’origine del linguaggio. In

generale questi bambini non sono stati capaci di imparare un vero linguaggio, e

certamente non li abbiamo visti inventare da soli forme grammaticali nuove, sia pure

minime. Questa creazione richiederebbe contesti sociali adeguati e tempi lunghissimi.

Probabilmente l’uomo cominciò a costruirsi strutture linguistiche primarie e

imperfette in un modo simile a come riuscì a elaborare procedimenti aritmetici

elementari (contare, calcolare, creare i numeri), sulla base di regole generali

dell’esperienza che più tardi diverrebbero vere strutture universali e astratte.

Sulla questione dell’innatismo, potrebbe farsi un paragone con gli animali che

emettono suoni significativi. Il canto di alcuni uccelli è innato, cioè legato alla specie,

ma la predisposizione innata non prende forma se non grazie a un minimo di

esperienza primaria in tempi critici, la quale talvolta include l’ascolto e la

145 Cfr., sul tema, S. R. Harnad et al. (eds.), Origins and Evolution of Language and Speech, The New York Academy of Science, New York 1976; M. I. Landsberg (ed.), The Genesis of Language, M. de Gruyter, Berlino 1988; T. Deacon, Symbolic Species: The Coevolution of Language and the Brain, Norton, New York 1997.

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119

conseguente imitazione dei canti146. Nell’uomo l’unico innatismo ovvio riguardo al

linguaggio è l’apparato fonatorio e quindi la capacità fisica di parlare, attualizzata

solo se c’è un contatto umano con una lingua culturale.

Sul piano dell’intelligenza, sono innate le capacità per compiere determinati atti

e per conoscere alcuni contenuti fondamentali. In questo senso, così come è culturale

e non naturale parlare inglese o vivere in una città, invece è naturale ragionare,

giudicare, conoscere i primi principi, parlare qualche lingua o vivere in una famiglia.

Ma ciò che è naturale o innato non necessariamente esiste in atto sin dall’inizio.

Piuttosto il suo sviluppo è naturale, pur con tante variazioni storiche contingenti.

All’origine gli elementi innati possono essere solo potenziali. La loro attualizzazione,

inoltre, potrebbe essere ostacolata o impedita (ad esempio, la condizione libera è

naturale all’uomo, eppure esiste la schiavitù). Comunque la domanda sussiste: esiste

una tendenza congenita verso la formazione di una protostruttura sintattica?

Cercheremo di dare una risposta a tale quesito nel seguente paragrafo.

e) Esiste un linguaggio mentale previo ai linguaggi convenzionali?

Il problema degli “universali linguistici” e della “grammatica universale”

potrebbe essere impostato con una maggiore chiarezza se distinguiamo tra la logica e

la grammatica, cercando al contempo di vederne i collegamenti. Ad esempio, la

struttura soggetto/predicato, appartiene alla grammatica o alla logica universale?

Questa alternativa si pone anche davanti alla tesi di Fodor, ispiratasi a Chomsky,

dell’esistenza di un mentalese o linguaggio del pensiero stesso, previo ai linguaggi

convenzionali come il francese, lo spagnolo o il cinese147.

Se consideriamo i singoli nomi, la distinzione tra pensiero e linguaggio appare

chiara: cavallo o horse esprimono lo stesso concetto, quindi la parola convenzionale

non è il concetto. Ma la distinzione, ad esempio, tra neve e nevicare, ovviamente

linguistica, non è anche logica? Se lo è, allora la distinzione tra nome e verbo è logica,

146 Sul rapporto tra innatismo e apprendimento, cfr. il nostro capitolo 4, n. 2. 147 Nel nostro capitolo 1, n. 5, ci sono alcuni riferimenti bibliografici su Fodor. Le mie considerazioni sono indipendenti dall’articolazione dettagliata della tesi fodoriana. Come nel caso di Chomsky, intendo soltanto proporre un giudizio orientativo generale sulla tesi della grammatica universale e dell’eventuale esistenza di un “linguaggio” della mente.

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120

quindi risponde a un pensiero. Quando diciamo “questa persona è uno scrittore”, la

proposizione, articolata come l’attribuzione di un predicato a un soggetto, non è

puramente grammaticale, ma è logico-grammaticale. La formazione di una

proposizione mentale non è identica alla sua espressione in una lingua convenzionale.

Eppure, noi non formiamo prima una proposizione “mentale” per poi “tradurla” al

linguaggio, ma la pensiamo già in un linguaggio, potendo poi tradurla ad un’altra

lingua.

Il “mentalese” e gli “universali linguistici” sono a mio avviso il pensiero stesso

in quanto diventa articolato in certe strutture logiche fondamentali e naturali148.

Queste articolazioni corrispondono alle operazioni mentali compositive nelle quali

comincia a svilupparsi la ragione, di cui quella primaria è la proposizione. Per questo

motivo, non è facile distinguere tra la logica proposizionale, con tutte le sue possibili

operazioni, e quello che i medievali chiamavano la “grammatica speculativa”.

L’articolazione sistematica di una certa logica possiede un valore universale -come

universali sono i sillogismi-, ma nello stesso tempo è condizionata in una maniera

alquanto contingente dall’esistenza di un linguaggio evoluto, nel quale ad esempio sia

presente la distinzione tra nomi concreti, nomi astratti, verbi, soggetto e predicato,

nonché certi connettivi logici (e, o, se).

La logica è universale, non puramente culturale, ma può nascere solo radicata in

una cultura che abbia sviluppato un linguaggio. La logica e gli elementi logici di base

del linguaggio non sono innati, dal momento che si formano a partire dall’esperienza.

Ma sono naturali nel senso che sono formazioni cui la mente umana tende per natura.

In questo senso la conoscenza dei primi principi e le operazioni mentali di base

(giudizi, ragionamenti) sono naturali. Sono collegati al cervello nella misura in cui

non si attualizzano senza un linguaggio, anzi appartengono alla struttura profonda del

linguaggio. La logica, in definitiva, è universale, pur nascendo in una cultura. Il

linguaggio concreto, invece, è sempre un fenomeno locale.

148 Queste forme, ad esempio il ruolo logico-grammaticale del verbo essere, hanno una portata metafisica, ma non sono semplicemente isomorfe alle strutture ontologiche.

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121

f) Linguaggio, immagine e significato universale

L’evento linguistico di base è l’associazione tra segno e significato. L’animale

può associare una forma vista, udita e interpretata in qualche modo (ad esempio, come

pericolosa) ad un’emozione e ad una condotta. Un fischio rivolto a un cane può

incitarlo ad avvicinarsi a me. L’uomo, però, quando sente dei fischi in molteplici

situazioni, anche in quelle che non riguardano la sua vita pratica, sa che cosa è il

fischio, pur potendo faticare a riconoscerlo come tale in casi particolari.

L’uomo può collegare indefinitamente il fischio ad altre esperienze: fischiare

alle persone, per divertirsi, per disapprovare e per altri motivi, e può immaginare

indefinite variazioni nel modo di farlo. Riconosciamo dunque il pattern “fischio”, ma

lo comprendiamo a livello di concetto universale. Possiamo definirlo e fare

un’indagine sul suo senso in generale o in casi particolari, vale a dire, dalla sua

comprensione possiamo ricavare un sapere e non solo una serie di esperienze

concrete. Le esperienze particolari dell’evento “fischio” hanno una radicazione

neurale (anche se ignoriamo quale sia nei suoi minimi dettagli). Però l’attivazione di

quelle esperienze vengono accompagnate da una comprensione essenziale. Tale

comprensione è un atto intellettuale, non organico e non localizzato, benché sia in

rapporto con le radicazioni cerebrali delle rispettive esperienze.

Inoltre denominiamo l’atto di fischiare con un termine arbitrario resosi

indipendente dall’esperienza concreta e dalla prassi ad essa collegata. La nostra

comprensione intellettuale viene si collega così non solo a un’esperienza sensitiva, ma

a una parola, cioè a una nuova immagine che adesso diventa “astratta” (simbolo) e

che sta al servizio della comprensione del concetto corrispondente.

I simboli usati dagli animali, benché si possano separare dalle esperienze di cui

sono simboli, e anche se sono integrabili in un’associazione pseudo-sintattica con altri

simboli149, in realtà non si separano mai dai contesti concreti relativi ai fini

intenzionali animali. Questo è vero anche se un animale, per ipotesi, fosse in grado di

riconoscere migliaia di fischi diversi e di metterli in connessione a scopi pragmatici.

149 L’animale potrebbe collegare, ad esempio, un fischio a un grido successivo, attribuendo a tale connessione un significato concreto in funzione della sua condotta.

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122

Non per questo arriverebbe alla comprensione disinteressata e teoretica della realtà

come possibile oggetto di contemplazione.

Tra l’esperienza (può essere un’immagine acustica), la parola e il concetto

universale si crea dunque un triangolo cognitivo. È il triangolo tra immaginazione,

linguaggio e pensiero. Le reti neurali corrispondenti all’unità tra immaginazione,

memoria, parola e riproduzione motoria della parola quindi sono sostenute dalla

comprensione intellettuale (pur essendo autonome rispetto a quest’ultima, con la

possibilità quindi di rimanere scollegate dalla luce razionale). La comprensione è la

radice della lettura intelligente dell’immagine e della parola. Il processo cognitivo

linguistico così è nato dall’alto (dall’intelligenza), manifestandosi come un dominio

intenzionale del corpo. L’intelligenza esprime naturalmente i suoi contenuti nella

produzione verbale, dando così al corpo una funzione significativa naturale.

Quanto abbiamo detto presuppone il riconoscimento ontologico del pensiero

astratto. L’esistenza di concetti universali non si può dimostrare neurologicamente,

ma neanche confutare. Lo stesso vale in rapporto ai test empirici di comprensione

intellettuale (quei test presuppongono, ma non dimostrano, l’esistenza del pensiero

universale). I concetti universali si colgono nell’esperienza intellettuale di portata

metafisica. Essa richiede una riflessione sui contenuti significati dal linguaggio. Non è

un’esperienza della propria soggettività, quindi non è il risultato di un’introspezione

psichica. I concetti, in definitiva, sono astratti e quindi li comprendiamo solo

nell’astrazione.

Neanche le altre sfere della vita dello spirito, come l’amore o la libera scelta, si

possono accertare nella sola prospettiva neurologica. Se per un motivo filosofico o

ideologico, ma non veramente scientifico, non si riconoscono queste dimensioni della

vita umana, allora l’interpretazione di alcuni eventi corporei dell’uomo sarà distorta.

Se non capisco l’arte, la mia interpretazione dei movimenti della mano di Raffaello

quando muove il pennello non sarà adeguata. Se riduciamo tutto a chimica, allora nel

cervello, nel linguaggio o nell’amore non vedremo che chimica.

Le immagini (non verbali), in quanto rimandano a contenuti intellettuali,

insieme al linguaggio (costituito da immagini arbitrarie o più “astratte”), costituiscono

una base induttiva dei pensieri e una loro espressione. L’intelligenza di ciascuno

Page 123: Sanguineti - Filosofia Da Mente

123

ovviamente può essere più immaginativa o più verbale, benché queste due modalità in

fondo siano complementari150. Un’immagine, una scena o una serie di eventi ci fanno

capire implicitamente molte cose. Nel racconto di una storia, il linguaggio si pone al

servizio delle esperienze. Ma i commenti verbali su tale storia rendono esplicito

quanto possiamo aver capito solo implicitamente nell’immaginarla.

La pregnanza intelligibile dell’esperienza dell’immaginazione è molto forte.

Però, a sua volta, la verbalizzazione attualizza il pensiero e lo fa scorrere in un modo

più astratto. La parola, così, appare più docile nei confronti dell’intelligenza

cosciente. L’immaginazione è la base del pensiero, ma il linguaggio è la parte della

sensibilità più vicina all’intelligenza.

8. Correlazione tra atti intellettivi ed eventi neurali

La neuroscienza considera il rapporto tra operazioni psichiche e neurali spesso

in termini di correlazione. La “sopravvenienza”151 sarebbe una forma biunivoca di

correlazione tra gli atti mentali e gli atti neurali. La ricerca sulle correlazioni lascia in

sospeso il problema causale, ma serve almeno come indicazione di un rapporto

funzionale. Poniamo adesso la seguente domanda: esiste una correlazione tra gli atti

spirituali (pensiero, volontà) e gli eventi neurali? Se i nostri pensieri sono sostentati da

una piattaforma dell’immaginazione, allora i nostri atti intellettuali comporteranno

l’attivazione di zone o reti cerebrali di sostegno correlate alla loro base sensitiva.

Se diciamo “Dio esiste”, il cervello è attivo per la produzione di questa frase,

benché il giudizio sia un atto spirituale. Se vediamo un cane e lo riconosciamo

concettualmente, la nostra idea di cane è associata al riconoscimento sensitivo di un

pattern e quindi è collegata a un’adeguata base neurale. L’uso di concetti astratti

all’infuori dell’esperienza sensibile possiede una corrispondenza neurale almeno nella

misura in cui tali concetti ricorrono al linguaggio. Quale base neurale si può ipotizzare

per concetti come “essere”, “senso della vita”, “obbligo morale”, “limiti della

libertà”? Nessuna di per sé, in modo specifico. Sennonché, quando pensiamo a queste

realtà usiamo un linguaggio e stiamo attenti, il che richiede una corrispondente attività

150 Cfr., sul tema, M. Eysenck, M. T. Keane, Manuale di psicologia cognitiva, ed. Sorbona, Milano 1995, pp. 181-224. 151 Cfr. il nostro capitolo 1, n. 4, a), e il capitolo 2, n. 5.

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124

cerebrale152.

Questa non è una vera correlazione o almeno non può essere pensata come

biunivoca o “proporzionale”. È semplicistico ritenere che un pensiero trovi una

precisa corrispondenza con un evento neurale specifico, come postula il principio di

sopravvenienza. Quando parliamo con un minimo di emozione, non soltanto si stanno

attivando le aree cerebrali pertinenti, ma vi sono pure attivazioni latenti di tutto

quanto può essere associato alle funzioni cognitive, emotive e motrici. I nostri

pensieri concettuali -ad esempio la frase “adesso prenderò l’autobus”- sono associati

in modo latente a tantissimi altri concetti a rete e a tanti abiti intellettivi -ciò che

Searle chiama il background della mente-, ad esempio all’abito per cui comprendiamo

continuamente l’esistenza del mondo e il principio di non contraddizione, nonché a

tanti concetti collegati alla nozione di autobus, quali “mezzo di trasporto”, “città”,

ecc. Il pensiero sovrabbonda sul linguaggio e sull’immaginazione. Benché correlato al

cervello, il pensiero “sovrabbonda” sull’organismo, sia in quanto all’atto che nel suo

oggetto, per non parlare dei suoi contenuti impliciti o non tematizzati.

Il problema della correlazione inoltre va impostato in una maniera dinamica e

causale, non statica. La mente sta sempre in movimento. Ad esempio: una

professoressa sta tenendo una conferenza. Il suo pensiero si svolge secondo

successioni logiche che dipendono dalle sue previe conoscenze e dalle domande dei

suoi interlocutori, talvolta anticipate o previste. Il suo pensiero dunque sta in

un’interazione continua con altri soggetti intelligenti. Mentre lei parla, sta guidando in

modo naturale e inconsapevole numerosissime attivazioni cerebrali di tipo linguistico

e immaginativo, anche perché sta mantenendo in atto la sua memoria di lavoro,

collegata all’attenzione e al richiamo di tanti elementi mnemonici. La professoressa

dipende da innumerevoli configurazioni cerebrali che lei stessa ha creato nel suo

apprendimento cognitivo.

Un animale fa qualcosa di simile per dirigere la sua condotta intenzionale. Ma

l’animale è spinto dai suoi dinamismi istintivi, mentre la persona orienta il suo

152 Le localizzazioni cerebrali, d’altra parte, vanno viste in un quadro di complessità. Sono flessibili e molto complesse, a causa della plasticità del cervello e delle sue caratteristiche sistemiche e di funzionamento a rete.

Page 125: Sanguineti - Filosofia Da Mente

125

comportamento in base al dinamismo della sua vita razionale e personale.

Materialmente lei dipende dalla funzionalità organica del suo sistema nervoso, di cui

non è responsabile. Un intervento biologico sul suo cervello si potrà giustificare solo

per rendere efficace il funzionamento nervoso (per esempio, prendere del caffè prima

della conferenza, per essere più sveglia). Ma la causalità “dall’alto” che promuove i

suoi processi cerebrali sta nelle sue capacità cognitive e volontarie.

Le nostre funzioni cognitive più alte dominano in modo naturale le nostre

dimensioni inferiori, certamente non in qualsiasi modo ma secondo canali precisi.

Questo dominio comprende la capacità di operare una continua formalizzazione

integrativa dei nostri strati sensitivi. Se la persona non riesce a guidare con la ragione

i suoi dinamismi sensitivi per cause morali o forse patologiche, la sua vita entra in un

processo di disintegrazione. Questo punto ci introduce nel problema della causalità e

lo affronteremo con più ampio respiro nel seguente capitolo.

In definitiva, le correlazioni tra pensiero e sostegno neurale stanno cambiando

costantemente e in buona misura sono guidate dall’intelletto. Facciamo un paragone

con un libro. Le sue caratteristiche scientifiche o letterarie “corrispondono” a una

configurazione fisica del libro stampato (anche in questo caso si parla, infatti, di

“sopravvenienza”). Però l’importante è che il libro è stato scritto dall’alto (dallo

scrittore). Se modifichiamo a caso una parola stampata, probabilmente ne altereremo

a caso qualche qualità letteraria o scientifica. Se lo facciamo affinché il volume sia

più leggibile, si agisce sulla sua materialità con criteri materiali. Se il libro rischia di

rovinarsi a causa di un logoramento fisico, chiameremo l’esperto perché prenda le

misure opportune. Se invece vogliamo migliorarne le qualità artistiche o scientifiche,

dovremo ricorrere all’autore, il quale agirà sulla materialità del testo con una causalità

più alta153. È quanto accade quando la professoressa del nostro esempio precedente

migliora la sua prossima conferenza studiando di più. Allora lei configura il suo

cervello in un certo senso, non con criteri materiali, ma in funzione di una tematica

cognitiva di alto livello.

Consideriamo un ultimo punto. La codificazione dell’immaginazione e del

153 Il paragone del libro è solo un esempio analogico. Non intendiamo sostenere una posizione dualistica.

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126

linguaggio nel cervello, in quanto base del pensiero, potrebbe consentire in linea di

principio di “leggere” ciò che un individuo sta immaginando, parlando nel suo interno

o addirittura pensando? Le possibilità in questo senso a mio parere sono limitate e lo

saranno sempre in futuro. Al massimo, tale lettura non sarebbe completamente diversa

da quella che compiamo quando arriviamo al pensiero di una persona osservando e

interpretando il suo comportamento, gesti e linguaggio. Ci sarebbe quindi un

problema di natura ermeneutica, certamente molto più complesso. Oggi siamo capaci,

con certi limiti, di scoprire “neurologicamente” se una persona mente, se legge, se

scrive o se ha un deficit cognitivo. Ma è difficile pensare che tale lettura arrivi ai

contenuti precisi. L’eventuale “lettura” dei contenuti intenzionali dell’informazione

cerebrale non è come la lettura di un archivio elettronico.

9. Quadro panoramico

Vediamo adesso un quadro d’insieme delle tematiche affrontate. Dobbiamo

considerare l’attività sensitiva e intellettuale nella sua dinamica completa, sia dal

punto di vista della base permanente da cui le operazioni emergono -abiti, sapere

acquisito, predisposizioni-, sia in rapporto alle sollecitazioni in atto -stimoli,

domande, letture- che di volta in volta arrivano ai nostri sensi e alla nostra

intelligenza. La causalità degli atti intenzionali non va intesa, quindi, solo nel solito

senso lineare di input, operazioni interne e output (stimoli → atti mentali →

comportamento), ma va vista in un modo più ampio. Le architetture cognitive

elaborate dalla scienza cognitiva nella linea della computazione simbolica -con i loro

elementi: memoria di lavoro, memoria dichiarativa, regole di produzione- non sono

un modello sufficiente della nostra mente. Neanche ci servono a questo scopo i

modelli connessionisti. Piuttosto è il contrario: questi modelli di mente artificiale sono

stati elaborati sotto l’ispirazione di ciò che, in parte, farebbe la nostra mente o il

nostro cervello, e ovviamente sono parziali. Del resto, non possiamo limitarci al

funzionamento del cervello. Va presentato un quadro antropologico, dove il nucleo

fondamentale è la persona umana nei suoi rapporti con gli altri, con la cultura e

l’ambiente, tenendo conto delle “opere” culturali, che a loro volta influiscono sulle

persone nei loro rapporti intersoggettivi. Il quadro dunque è complesso e va preso in

un modo sistemico.

Il nostro primo schema illustra i livelli preoperativi permanenti della nostra

Page 127: Sanguineti - Filosofia Da Mente

127

personalità:

Il nostro corpo è animato dalla vita organica ed è sensibilizzato: corpo elevato.

Alcune delle sue funzioni vegetative sono accompagnate dalla coscienza sensitiva. Le

funzioni più alte della sensibilità sono intenzionali e relative ai fini della vita

sensitiva. Queste funzioni partecipano agli influssi delle operazioni spirituali e così

creano ambiti sensibili specificamente umani (linguaggio, esperienza, immaginazione

creativa, comportamento esterno razionale). Il cervello contiene le formalizzazioni

relative alla vita sensitiva cognitiva ed emotiva. Le potenze spirituali sorpassano la

dimensione somatica, ma al contempo sono legate al cervello sensitivo. Questi strati si

innestano in un senso gerarchico e sistemico. Le funzioni più alte formalizzano,

integrano e dominano le funzioni inferiori. La base permanente della persona è

costituita da principi innati: anima e corpo (con la base genetica), potenze, istinti,

temperamento. Altri principi permanenti sono acquisiti: riflessi condizionati, abiti,

memorie, consuetudini, sapere.

Il secondo schema si riferisce ai rapporti interattivi tra la persona umana e il

mondo esterno:

Aspetti innati

Aspetti acquisiti

Intelligenza, volontà Integrazione superiore Comandi sulla vita intenzionale

Sensibilità intenzionale Linguaggio Esperienza Memoria Coscienza sensibile Emozioni

Sensibilità vegetativa o fisiologica

Fisiologia corporea

Cervello Sistema nervoso Soma

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128

Il dinamismo antropologico comprende gli influssi operanti sugli strati della

persona: influssi fisici (stimoli) o di tipo personale interattivo (domande degli altri,

aspettative, richieste). Essi agiscono a livello cognitivo, affettivo e comportamentale.

Altri influssi sono di tipo sociale e culturale: storia, tradizioni, opinione pubblica,

istituzioni, famiglia, opere culturali e tecniche. Questi elementi dunque, insieme al

bagaglio personale permanente, inducono le risposte operative e comportamentali

della persona. Da essa nascono le operazioni immanenti (intellettuali, volontarie,

emotive), dalle quali segue la condotta esterna: atti di parlare, viaggiare, giocare,

salutare, lavorare. Il comportamento esterno personale possiede sempre una

dimensione immanente (comprensione, amore).

Le operazioni immanenti e transitive delle persone riconfigurano la base

permanente della personalità, in quanto aumentano la memoria, modificano le

predisposizioni e creano nuovi abiti. Il cerchio vitale abiti-operazioni alimenta se

stesso, come in un meccanismo di feed-back. La dimensione esterna della nostra

condotta modifica l’ambiente fisico -lavoro fisico e tecnologia- e influisce

interattivamente con le altre persone tramite il linguaggio e le opere culturali. Le

prime opere culturali sono il linguaggio e i sistemi simbolici. Seguono gli strumenti

tecnologici finalizzati al lavoro fisico, gli strumenti simbolici destinati al servizio

dell’operare intenzionale (libri, computer), le scienze, le arti e le istituzioni. Queste

Persona umana Abiti Cervello

Stimoli ambientali

Altre persone

Operazioni immanenti (intellettive, volontarie)

Linguaggio Altri tipi di comportamento

Opere della cultura

Tecnologia Scienze, arti Istituzioni Strumenti

simbolici Libri Computer

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129

ultime consentono l’agire collettivo. L’uomo crea cultura, interagisce con altre

persone e modifica l’ambiente fisico.

Tre spunti ulteriori da commentare del quadro presentato sono:

1. Il ruolo causale del cervello è importante come base materiale in questa

cornice, ma è sempre strumentale. Il comportamento e le opere dell’uomo non si

spiegano semplicemente con il cervello. Si spiegano, a livello alto, secondo il

dinamismo interiore della persona in interazione con gli altri e con la cultura.

2. La cultura -linguaggio, scienza, istituzioni, tecnologia, arte- è creata

dall’uomo e forma le persone. L’ambiente esterno alla persona è triplice: mondo

fisico, mondo culturale, persone umane (singole o in gruppo).

3. Nella base personale permanente sono presenti gli abiti primordiali e le

inclinazioni fondamentali della persona. Gli abiti cognitivi basilari sono la conoscenza

abituale delle realtà ontologiche primarie e dei loro primi principi: conoscenza del

mondo, degli altri e di noi stessi, e i principi rispettivi (non-contraddizione, causalità,

dignità della persona, verità, libertà, moralità di base). Alcune inclinazioni

antropologiche fondamentali sono l’amore di noi stessi, il rispetto e l’amore del

prossimo, la tendenza alla convivenza familiare e sociale, l’inclinazione al sapere e

alla creazione tecnica e artistica.

Non è possibile spiegare il dinamismo personale ricorrendo solo alla cultura o

alla biologia. La cultura può facilitare (ma anche ostacolare) l’espansione dei principi

antropologici naturali. La biologia fornisce una base non solo fisica, bensì pure

sensitiva alta, poiché alcune dimensioni della vita umana sono “accennate” dalla vita

intenzionale animale (tendenza alla comunicazione, socialità, cenni di elaborazione

tecnica, percezione significativa dell’ambiente). Il comportamento umano razionale

nasce radicalmente, in definitiva, dalla natura umana nella sua dimensione spirituale

cognitiva/tendenziale, in quanto incarnata in un corpo elevato.

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130

Capitolo 4

La causalità mente-cervello

1. Introduzione al problema

Nei capitoli precedenti mi sono concentrato specialmente sull’argomento della

distinzione e integrazione ontologica tra le operazioni psichiche e gli atti organici.

Adesso vorrei affrontare la questione causale, in parte già anticipata in rapporto allo

sviluppo dell’intelligenza. Il problema va visto alla luce del comportamento e la sua

soluzione dev’essere ontologica, non puramente biologica o computazionale. Dalla

concezione stratificata dei gradi della vita, infatti, emerge una visione causale

profonda e complessa.

Che cosa ci spinge ad agire in una determinata maniera? La problematica si

concentra su questa domanda. Ma la risposta non può essere univoca, se vogliamo

tener conto di tutti gli elementi in gioco (diacronici e sincronici) che influiscono ma

non determinano l’agire umano e nemmeno, in un altro senso, l’agire animale.

Innanzitutto, la questione non si può risolvere nel modo giusto se contiamo solo con

gli strumenti concettuali offerti dalla scienza naturale o computazionale, dove la

causalità viene presa in un modo abbastanza univoco e spesso è vista piuttosto in

riferimento agli aspetti materiali.

Il nostro problema è impostato tradizionalmente nella cornice della “causalità

anima/corpo” (o “mente/corpo”), come suggerisce il titolo scelto per questo capitolo.

Secondo Platone, l’anima semplicemente muove il corpo. Questa impostazione, anche

se risponde a una certa visione fenomenologica (i viventi sembrano muovere se stessi,

dunque avrebbero l’anima come principio di automovimento), in realtà è fuorviante.

Pure nel mondo inorganico esiste una forma di auto-movimento, poiché la realtà

materiale non è del tutto inerte (questo punto è collegato alle carenze della meccanica

peripatetica).

Nel dualismo cartesiano, la questione si riduce all’impulso che lo spirito

Page 131: Sanguineti - Filosofia Da Mente

131

cosciente dovrebbe esercitare su un di pezzo di materia meccanica, elettrica o altro.

Tale impulso non sarebbe meccanico, elettrico, ecc., quindi sarebbe qualcosa di

misterioso che comunque produrrebbe un nuovo movimento nel mondo fisico, non

derivato dalle forze naturali, quindi violando in un certo senso le leggi fisiche

(violando, ad esempio, il principio di conservazione dell’energia, poiché l’impulso

spirituale comporterebbe la creazione di nuova energia). Più misteriosa ancora

sarebbe la causalità esercitata dal corpo sulla mente: come è possibile che un

fenomeno meccanico, elettrico o chimico causi un evento spirituale o psichico? Si

comprende la rinuncia dei parallelisti all’indagine sul problema causale, per passare a

parlare solo di correlazioni o di coordinamento.

I materialisti riducono la questione alla pura causalità fisica così come viene

vista dalla descrizione scientifica, la quale comporta un modo ristretto, sia pure utile,

di considerare la causalità fisica. Si oppongono, in questo senso, all’esperienza

intuitiva secondo la quale alcuni dei nostri atti, come i ragionamenti, non hanno cause

fisiche vere e proprie. Certi autori sono costretti ad ammettere che le cause

neurofisiologiche “suscitano eventi mentali”. Questo fenomeno viene accolto, al

massimo, come una forma di emergenza olistica o come un risultato globale di un

insieme di cose, o come un epifenomeno o una sopravvenienza. La linea causale in

quest’impostazione procede sempre dal basso, cioè dalla causalità materiale.

I funzionalisti affrontarono il problema causale evitando impegni ontologici. In

qualche modo, essi riproposero l’antico dualismo in termini funzionali. Molti hanno

riconosciuto la causazione tra eventi psichici, ma in rapporto alla base fisica

preferiscono restare a livello di correlazione o di sopravvenienza. Una credenza, ad

esempio, unita a un desiderio, potrebbe produrre un ragionamento e portare alla

conclusione pratica che comanda l’azione: “credo che nel frigorifero ci sia un gelato;

questo pensiero suscita in me il desiderio di mangiarlo; so che, per prendere il gelato,

devo aprire il frigorifero; dopo un breve ragionamento pratico, apro il frigorifero,

prendo il gelato e me lo mangio”. Questa descrizione “alta” della condotta è

intelligibile in quanto spiega razionalmente una condotta. Più in dietro ci sarebbero le

corrispondenti concatenazioni causali di natura neurofisiologica: la mia credenza

come evento neurale causa l’evento neurale del desiderio, ecc. Di conseguenza,

l’intreccio delle azioni umane sarebbe spiegabile dal punto di vista delle catene

Page 132: Sanguineti - Filosofia Da Mente

132

causali fisiche, anche se la spiegazione fenomenologica psichica sarebbe pure valida

per capirci a livello prescientifico.

La riduzione della causalità psichica a quella fisica potrebbe portare a pensare

che ogni problema umano, psicologico, morale o religioso, in fondo sarebbe riducibile

a un problema neurologico, da risolvere eventualmente con metodi neurologici

(interventi, farmaci) o tecnoneurologici (combinazione tra neurologia e procedimenti

computazionali). Il riduzionismo causale potrebbe portare a eludere troppo

sbrigativamente la responsabilità e l’impegno delle proprie scelte.

Parecchie malattie psichiche possono derivare da lesioni fisiche del sistema

nervoso. Ma non ogni anomalia del comportamento umano si riduce a un difetto

neurale o “computazionale” della nostra mente assimilata al cervello. Anche nei casi

di deficit cognitivi ed emotivi dovuti a cause fisiche, gli interventi intenzionali

dall’alto (dalla dimensione spirituale) non sono da tralasciare, dato l’intreccio tra i

livelli della vita sensibile e intellettuale. Perciò, la psicoterapia di sostegno spesso

completa il trattamento farmacologico di alcune disfunzioni psiconeurali. Non è male

ricordare che molti squilibri emotivi, non patologici, tradizionalmente venivano

affrontati nella prospettiva della virtù, cioè in una dimensione formativa del carattere

collegata all’impegno della libertà e della ragione.

Le virtù sono un potenziamento o una crescita delle facoltà spirituali o sensitive

superiori nei suoi aspetti operativi e comportamentali. Possono integrare aspetti anche

materiali della sensibilità, come il mangiare, il bere, l’uso della sessualità. Le virtù

sono energie personali, non innate ma acquisite, capaci di portarci a un autocontrollo

intenzionale, libero, convinto e consapevole, nei confronti della nostra affettività e

della nostra condotta. Nel dominio virtuoso della sensibilità, dell’affettività e della

condotta, l’uomo cresce come persona. Non c’è nessun motivo scientifico per

considerare superata questa visione, anzi è quella di cui oggi il mondo ha più bisogno.

Alcuni libri di auto-aiuto in fondo sono saggi sulle virtù umane.

Il problema della causalità psicosomatica, dunque, non è semplice. Nei viventi

intenzionali e razionali ci sono molte vie causali. La dimensione organica influisce

sulla dimensione psichica in modalità molto diverse, secondo il tipo di attività

implicata e secondo circostanze assai variabili. Un dolore fisico cronico può portare

Page 133: Sanguineti - Filosofia Da Mente

133

alla tristezza, questa alla depressione, la quale indebolisce la capacità di giudicare e di

valutare le cose e, a sua volta, può facilitare l’insorgere di nuovi disturbi organici

(meno difese immunitarie, alterazioni del sistema endocrino). Una crisi psicologica o

morale può portare al decadimento fisico, da cui seguono numerose conseguenze

fisiche, sociali e morali. Questi esempi evidenziano le complesse vie della causalità

tra i livelli corporei e spirituali154.

2. Il dinamismo causale nella vita animale

In questo capitolo cercheremo di presentare una panoramica sistematica del

problema causale. Bisogna tener conto dell’insieme delle cause in gioco, vale a dire

cause interne ed esterne, innate e acquisite, nei loro livelli e interazioni. L’attenzione

va rivolta pure all’eventuale causalità specifica principale in un ambito dell’attività

psicosomatica, pur sapendo che, insieme a una causa primaria, ci possono essere altre

cause collaterali, il cui influsso potrà essere più o meno intenso o più o meno

determinante nella produzione di un atto comportamentale.

Iniziamo con la considerazione della vita animale, oppure della dimensione

animale della nostra vita personale. L’impostazione dell’indagine causale deve tener

conto della complessità del vivente intenzionale. Non è adeguato, quindi, impostare il

problema in termini di “causalità tra l’anima e il corpo”, come se fossero due elementi

interagenti155. Analogamente, pensare al problema proponendo un quadro dove ci

sono “atti mentali” che causano “atti fisici” e viceversa è fuorviante e dualistico. La

realtà non è che l’anima causa un effetto nel corpo. Piuttosto una situazione

psicosomatica a un certo livello, spesso in funzione di cause esterne o dei diversi

background del soggetto, produce una conseguenza psicosomatica ad un altro (o lo

stesso) livello, spesso modificando l’ambiente o influendo su altre persone.

In un individuo emerge, ad esempio, l’emozione della gioia. La causa specifica

di questo sentimento sarà di solito un motivo oggettivo, ad esempio, una buona

notizia o l’incontro con un caro amico. Tale emozione potrà sorgere soltanto se il

154 Cfr., su questa tematica nella filosofia della mente, J. Heil, A. Mele (eds.), Mental Causation, Clarendon Press, Oxford 1993. 155 Searle fa notare questa erronea impostazione dell’argomento: cfr. Mind, cit., pp. 193-214. Significativamente, Tommaso d’Aquino non segue mai questa modalità.

Page 134: Sanguineti - Filosofia Da Mente

134

soggetto è predisposto. La gioia non arriverà facilmente se la persona è amareggiata

per altri motivi, se ha un’indisposizione nervosa o altro. Quindi la gioia è causata, in

questo caso normalissimo, da una conoscenza positiva forse inattesa o da un incontro

della persona con un bene, benché richieda una disposizione emotiva soggettiva. Il

sentimento nasce, di conseguenza, da una causalità dall’alto -sfera psichica superiore-,

presupponendo un’attivazione neurale adeguata. La gioia provoca inoltre certe

alterazioni psicosomatiche che il soggetto può ben notare, ovviamente correlate alla

funzionalità cerebrale. Tale sentimento rende il nostro corpo più agile e attivo e si

ripercuote sul comportamento, inducendo un volto sereno e sorridente, buon umore e

comunicabilità. Tralasciamo gli effetti positivi di questo fatto in altre persone. Ecco

un esempio semplice di una situazione psicosomatica causata da elementi esterni

agenti sul corpo elevato (la ricezione di messaggi positivi per la vita intenzionale).

Qualcosa di analogo si può dire riguardo agli animali, nella misura in cui essi provano

emozioni positive nei confronti di beni concreti appartenenti allo loro sfera

intenzionale.

a) Riflessi

Il comportamento animale è prefigurato in qualche modo nelle reazioni delle

cellule nei confronti degli stimoli ambientali. Queste reazioni costituiscono un primo

esempio di “condotta” o prassi organica, orientata teleologicamente alla difesa,

conservazione, omeostasi e riproduzione dell’organismo156. I vegetali, benché non

sentano, “avvertono” degli agenti ambientali variabili -stimoli- tramite recettori e

meccanismi di trasduzione (segnali elettrici e messaggi chimici), come se avessero già

una sorta di prefigurazione del sistema nervoso157. Tali stimoli inducono delle

risposte, ad esempio, movimenti delle parti verso certe direzioni, adattamenti ed

effetti di crescita. La pianta si addatta ad un ambiente variabile e cerca attivamente le

fonti energetiche che la nutrono. Denominiamo tropismi, tassie, nastie, kinessie,

morfogenesi, queste reazioni “comportamentali” innate dei vegetali nei confronti di

stimoli come la luce, la temperatura, la presenza di sostanze chimiche, l’umidità, la

gravitazione, il magnetismo (l’eliotropismo, ad esempio, è il movimento delle piante

156 Cfr. il nostro capitolo 2, n. 2. 157 Cfr. il nostro capitolo 2, n. 3.

Page 135: Sanguineti - Filosofia Da Mente

135

destinato ad assorbire il massimo dell’energia solare).

Le unità comportamentali elementari negli animali che continuano ed ampliano

i tropismi e i processi vegetali analoghi, incorporandosi gradualmente all’ambito

sensitivo, sono i riflessi. Il riflesso è una risposta neurale predeterminata di fronte ad

uno stimolo definito. Si manifesta particolarmente come movimento muscolare o

come secrezione ghiandolare158. Il suo scopo è l’autoregolazione dell’organismo in

funzione della sua attività biologica. Esempi di riflessi sono i movimenti delle

palpebre, la lacrimazione, la salivazione, la sudorazione, la contrazione delle pupille,

il vomito, la tosse, la minzione o le risposte posturali. Sono controllati da centri

midollari o encefalici del sistema nervoso. I riflessi di base sono assoluti o

incondizionati (sono innati). Il fenomeno del condizionamento a partire da stimoli

inizialmente neutri è una prima forma di “apprendimento animale” che crea i riflessi

condizionati (scoperti da Pavlov e interpretati in un senso riduzionista da Watson,

fondatore del comportamentismo). Con i riflessi condizionati appare nella vita

animale una struttura quasi simbolica, dal momento che il riflesso condizionato è un

“segnale” indotto che suscita una risposta comportamentale159.

Il comportamentismo psicologico cercò di spiegare la condotta animale

fondamentalmente in base al dinamismo dei riflessi. Al condizionamento classico

pavloviano si è aggiunto il condizionamento operante o strumentale (Thorndike,

Skinner), dove il condizionamento appreso non è il semplice abbinamento tra uno

stimolo assoluto e un altro neutro, bensì l’articolazione di una condotta animale

appresa -ad esempio, azionare una leva o azioni più complesse- mirata all’ottenimento

del premio verso cui si tende. Il condizionamento strumentale alla fine si confonde

con l’apprendimento tramite prove ed errori ovvero tramite esplorazioni associative.

Il fenomeno è inquadrabile nell’ambito cognitivo ed emotivo. Superiamo così le

ristrettezze del comportamentismo.

Il comportamentismo aveva affrontato i dinamismi animali in una prospettiva

causale troppo ristretta, come se la successione stimoli→reazioni fosse analoga a

158 Riflesso non è sinonimo di atto vegetativo (come la respirazione o la digestione). L’arco o circuito riflesso è una regolazione nervosa dell’attività dell’organismo. 159 Cfr. un ampio studio di queste tematiche in J. L. Pinillos, Principios de psicología, Alianza, Madrid 1975, pp. 217-404.

Page 136: Sanguineti - Filosofia Da Mente

136

qualsiasi successione regolare fisica del tipo antecedenti→conseguenti. Si perdeva

così la natura della vita. Lo stimolo ambientale non è la causa principale della prassi

vitale, ma è solo una causa inferiore e spesso non vivente che, incidendo

sull’organismo induce un atto organico, la cui radice sta nella costituzione del vivente,

così come la luce, nell’arrivare all’occhio, “produce” la visione come causa materiale

esterna, necessaria ma non sufficiente per vedere. La luce fa vedere soltanto se incide

su un corpo sensibilizzato per la visione. Di per sé, gli stimoli ambientali sono

eterogenei rispetto ai loro effetti organici. Non li spiegano se non presupponendo la

causalità propria del vivente.

I riflessi, quindi, non vanno capiti nel senso tradizionale del comportamentismo.

Essi sono già una prima condotta vitale, spesso accompagnata dalla sensazione,

quindi da una prima forma di emotività, inesistente nei tropismi vegetali. Il riflesso

non è una risposta passiva all’input ambientale, come il moto della pallina colpita da

fuori. Il riflesso come prassi attiva è un’attività teleologica dell’organismo in funzione

del suo operare vegetativo -ad esempio, riflessi intestinali, riflessi sessuali-, oppure

orientata alla difesa da pericoli, ostacoli o squilibri esterni o interni del dinamismo

vitale160.

Il comportamento degli animali segue il seguente schema:

1. Informazione percepita (ad esempio, avvertire la presenza di un animale). 2. Presa dei significati (interpretare tale presenza, ad esempio, come pericolosa). 3. Reazioni emotive (con una forza motrice: ad esempio, la paura). 4. Comandi motori. 5. Condotta esterna (ad esempio, la fuga).

Questo schema è già implicito nei riflessi, dove la risposta comportamentale

non solo dipende dalla percezione dello stimolo, ma anche dall’emozione suscitata: i

riflessi salivari del cane possono essere condizionati da un campanello, ma sono pure

attivati perché l’animale ha fame, cioè ha una sensazione organica che induce il suo

movimento verso il cibo. Nei livelli superiori della condotta animale scopriamo, però,

una maggiore plasticità e un intervento più ampio degli elementi interiori (cognizione

160 Questa versione attivista dei riflessi si può vedere nei commenti di Popper alla teoria dei riflessi condizionati: cfr. L’io e il suo cervello, cit., pp. 167-172.

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137

ed emozione), al di sopra dei meccanismi troppo rigidi dei riflessi, e quindi una

maggiore possibilità di “scelta” nelle risposte comportamentali.

b) Istinti

Gli istinti sono elementi innati, geneticamente ereditati e collegati alla specie,

che portano l’animale a una condotta predeterminata, finalizzata e “intelligente”.

L’istinto sessuale, l’istinto di curare la prole, l’istinto aggressivo, quello di volare o di

nuotare, ecc., di solito sono descritti in prospettive diverse161. In un modo più preciso,

l’istinto può essere preso:

1) Come una forma di comportamento articolato, schematico e stereotipato,

automatico ma anche flessibile, innato o quasi programmato, come se includesse una

memoria procedurale (ad esempio, l’istinto delle formiche di costruire in un modo

preciso i formicai o l’istinto del ragno di costruire la ragnatela).

2) Si può insistere sull’elemento cognitivo legato a tale comportamento. In

questo senso l’istinto sarebbe equivalente a una forma innata d’intelligenza animale.

3) Come inclinazione verso un tipo specifico di condotta (come quando diciamo

che “il cane aggredisce o si accoppia per istinto”). Le tendenze istintive sono

finalizzate ai grandi fini della vita animale: conservazione, nutrizione, difesa,

predazione, attacco, riproduzione, gregarismo, abitazione.

Ciò che chiamiamo istinto comprende, quindi, come un “triangolo” costituito da

1) schemi comportamentali innati e tipici della specie; 2) una cognizione ugualmente

tipica per la specie; 3) un’inclinazione dello stesso ordine. I riflessi, anche se

sembrano istintivi, sono un tipo di comportamento più elementare. Seguendo la

visione dei gradi della vita, l’istinto appare come una forma di comportamento

intenzionale più ricca della condotta basata su puri riflessi, i quali sono più automatici

e prevalentemente vegetativi.

L’istinto può abbracciare una serie articolata di riflessi elevati a un piano più

161 Il concetto di istinto è stato sempre soggetto a discussioni di natura biologica, psicologica e filosofica, spesso collegate agli indirizzi scientifici. In queste pagine ne darò un’interpretazione coerente con l’impostazione del nostro studio.

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138

alto. Ad esempio, i riflessi della masticazione, della deglutizione, ecc., sono

inquadrabili nell’istinto nutritivo. Quest’ultimo non viene preso qui in un modo

generico, bensì comprende tutte le attività unitarie e coordinate che portano l’animale

a ricercare il cibo e a consumarlo in un certo modo innato ed ereditato. Nei confronti

dei riflessi, gli istinti appaiono meno rigidi e sono più soggetti all’apprendimento in

base all’esperienza. Ad esempio, non si impara a tossire, a starnutire, e invece

l’animale deve imparare a difendersi, a muoversi nel suo territorio o a procurarsi il

cibo in ambienti difficili. Consideriamo in seguito una serie di punti:

a. Anche se l’istinto è un principio di comportamento non deliberato, non

bisogna separarlo dalla coscienza sensibile e neanche dall’intelligenza animale di cui

parleremo nel capitolo 5. L’istinto non è un puro automatismo. Inoltre l’istinto è

fortemente finalizzato, anche se l’animale non sa di averlo (non può riflettere sulla sua

condotta istintiva). La non deliberazione “impulsiva” dell’istinto si contrappone al

comportamento razionale, secondo il quale l’uomo opera dopo aver riflettuto.

b. L’innatismo istintivo appare contrapposto all’apprendimento. Lo schema

innato di azioni istintive non s’impara (il ragno costruisce la ragnatela senza imparare

a farlo). Occorre precisare tuttavia che i comportamenti innati complessi hanno

bisogno di una certa esperienza per essere portati al loro sviluppo operativo. L’istinto

si attualizza bene in un certo ambiente e nei confronti di altri soggetti animali

(genitori, prole, compagni, nemici)162. L’animale deve imparare a cacciare, a

difendersi o a temere certe situazioni. Gli animali che costruiscono tane, se sono

portati ad altri ambienti o se il loro ambiente è modificato, entro certi margini possono

adeguarsi alla nuova situazione e modificare convenientemente le loro opere163. Non

c’è un confine assoluto tra comportamento istintivo e imparato. Nella misura in cui la

vita animale è più complessa, l’istinto è più aperto all’apprendimento in base

all’esperienza e alle associazioni (spesso per prova ed errori). Questo fenomeno

162 Il comportamento istintivo di solito scatta dinanzi a certi segnali o stimoli precisi (releasers) di tipo visivo, acustico, olfattivo, chimico. In certi casi le prime impressioni possono essere decisive in tempi critici per fare scattare un comportamento che poi diventa quasi irreversibile (ad esempio, affinché il pulcino segua i genitori). Questo fenomeno è denominato imprinting: “lasciare una impronta”. I releasers e l’imprint sono stati studiati dagli etologi (ad esempio Lorenz). 163 Cfr. J. L. Gould, C. G. Gould, The Animal Mind, HPHLP, New York 1994, pp. 22-67.

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139

richiede una vita psichica più ricca e indeterminata 164.

In questa linea ascendente, risulta notevole la povertà istintiva dell’uomo,

collegata alla minore specializzazione del corpo e alla necessità di dover imparare

quasi tutto165, per cui si comprendono i lunghi tempi dell’educazione. L’uomo nasce

molto più indifeso degli altri animali e perciò ha più bisogno delle cure della famiglia

e dell’educazione. L’indeterminazione delle funzioni sensitive umane costituisce una

piattaforma molto atta per la regolazione superiore procedente dalla ragione in un

contesto sociale166.

Gli istinti come conoscenze non imparate o come programmi motori prefissati

non esistono nell’uomo, o sono ridotti ad azioni elementari di base. Questa

dimensione dell’istinto è sostituita dalla cultura e dalla tecnica. Ciò che sembra

istintivo nell’uomo sono piuttosto le sue inclinazioni naturali legate al corpo in quanto

organismo vegetativo-sensitivo. Queste inclinazioni -fame, sete, sessualità- non sono

però istintive nell’uomo come negli animali, perché, pur essendo sperimentate come

impulsi forti verso beni sensibili, sono incorporate e sempre guidate dalla ragione.

L’uomo sente la fame, ma non si lascia guidare da impulsi incontrollati verso il cibo,

come se fosse un animale. Egli decide quando, come, dove e cosa mangiare, e può

anche non farlo.

A causa di queste caratteristiche, tenendo conto del significato abituale del

termine istinto (impulso cieco, non razionale), sembra più corretto parlare di

164 Gli animali non possono imparare qualsiasi cosa, come sembravano suggerire alcuni comportamentisti, ma solo ciò che sta nella linea della loro specie. La stessa conformazione anatomica animale dimostra che la specie è già “specializzata” per compiere certi atti naturali (appunto istintivi), come mangiare, vedere, riprodursi in un certo modo, lavorare con un certo ruolo sociale (come accade nelle api) o, per quanto riguarda l’uomo, parlare. L’etologia (K. Lorenz, N. Tinbergen, K. von Frisch) rilevò l’esistenza di comportamenti specifici negli animali. 165 Cfr., sul tema, la visione antropologica di A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983. 166 Tommaso d’Aquino, commentando la scarsa specializzazione anatomica umana, osserva come in compenso l’uomo ha la ragione e le mani, i cui movimenti indeterminati sono guidati dalla ragione e si orientano alla produzione artistica e tecnica (S. Th., I, q. 76, a. 5, ad 4; q. 91, a. 3, ad 2). Anche per questo motivo l’essere umano ha un particolare bisogno di essere educato (C. G., III, c. 122). L’uomo non si adatta semplicemente all’ambiente, ma crea un proprio ambiente (la città, la cultura). Non ha una nicchia ecologica o, se vogliamo, la sua nicchia è la superficie terrestre. Ciononostante, l’uomo è sempre un essere naturale che deve vivere in un ambiente fisico adatto, avendo cura del suo habitat.

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140

inclinazione o di tendenza anziché di istinto per riferirci alla parte tendenziale

sensitiva umana167. A un livello più alto, vi sono nell’uomo inclinazioni

antropologiche naturali di carattere spirituale (ad esempio inclinazioni verso la vita

sociale, l’amicizia, il lavoro, la religione, il sapere e tanti altri valori umani)168. Alcune

di esse possono avere una base nella sensibilità tendenziale elevata alla dimensione

della persona.

P. D. MacLean ipotizzò l’esistenza di tre livelli evolutivi e strutturali nei

vertebrati. Il livello più basso o “cervello da rettile” è dominato da riflessi controllati

dalla parte superiore del midollo spinale, dal ponte, dal mesencefalo e de aree vicine

collegate a funzioni di mantenimento vegetativo (respirazione, circolazione,

riproduzione). Il livello medio, proprio dei mammiferi inferiori, trova la sua sede nel

paleoencefalo ed è in rapporto con le attività istintive e l’emotività. Il livello

superiore, caratteristico dei primati, è sotto il dominio del neoencefalo, con funzioni

cognitive aperte all’esperienza e all’apprendimento.

167 Parliamo di tendenza nel senso di un impulso inconscio oppure sentito verso il compimento di certi atti. Alcune tendenze possono essere individuali, come la propensione personale di una persona verso l’arte, la scienza, la politica, ecc. 168 Le inclinazioni antropologiche naturali sono orientamenti della volontà verso il bene. Esse costituiscono un aspetto strutturale della natura umana, motivo per il quale sono il fondamento naturale dell’etica: cfr. Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 94, a. 2. Non ogni tendenza umana è per forza biologica. Una visione sistematica delle tendenze umane, contrapposte agli istinti, con un particolare approfondimento della teoria tomistica, si trova nell’eccellente studio di A. Malo, Antropologia dell’affettività, Armando, Roma 1999, pp. 105-211. Cfr. anche M. Rhonheimer, Legge naturale e ragione pratica, Armando, Roma 2001, pp. 107-109; J. A. Lombo, F. Russo, Antropologia filosofica, cit., pp. 97-102.

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141

Questa triplice divisione, seppure alquanto semplificata, risulta orientativa.

Secondo la tesi di fondo di MacLean, i livelli sensitivi inferiori non spariscono, ma

sono integrati nei livelli superiori in corrispondenza con le strutture encefaliche

tardive169. I livelli sensitivi più alti (emozioni, immaginazione, esperienza),

aggiungiamo noi, sono più facilmente trasfigurati dalle funzioni spirituali (così, la

tendenza sessuale viene elevata ed è vissuta come dimensione emotiva personalizzata

rispetto all’altro sesso). Invece i livelli più bassi (i riflessi) sono rigidi e poco

malleabili (ad esempio, le tendenze alla nutrizione o alla sessualità a livello di

riflessi), anche se sono pure controllabili dalla persona umana.

169 Cfr. P. MacLean, The Triune Brain in Evolution, Plenum Press, New York 1990.

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142

c) Passioni organiche

Consideriamo in seguito il ruolo dell’emotività o passionalità nella condotta. La

sensibilità animale e umana “formalizza” le funzioni neurovegetative o fisiologiche.

La digestione, ad esempio, può essere accompagnata da benessere, malessere,

sensazione di pesantezza, ecc. L’attività organica acquista così una coloritura

psicosomatica causalmente rilevante.

Le sensazioni somatiche (periferiche, viscerali, muscolari) sono apparentemente

passive, per cui i classici le chiamavano passioni (cioè non sono azioni nostre, ma “ci

capitano”). Queste sensazioni, indotte da alterazioni fisiologiche interne o da stimoli

ambientali, orientano all’azione. Il dolore fisico, tipico esempio di passione sensitiva

vegetativa, quando è possibile induce una reazione corporea orientata a evitare la sua

causa. Il dolore, quindi, muove o causa nella direzione della difesa o della riparazione

dell’organismo. Ciò che causa non è il sistema nervoso “parallelo al dolore”, né

l’anima, bensì il dolore in quanto atto psiconeurale.

Il piacere fisico, un’altra passione, ugualmente è causato e causa, anzi il piacere

è un importante elemento causale del dinamismo del “corpo che sente se stesso”. Il

piacere è una sensazione organica più diffusa del dolore (piacere tattile, del gusto,

della vista, ecc.). Generalmente è collegato a un bene (sentito) dell’organismo,

sebbene possa essere derivato da una causa intenzionale (ad esempio, da un segno di

affetto). Come espressione di benessere organico, il piacere fisico nasce di solito dal

compimento adeguato di alcune attività organiche sentite. La sua funzione vitale è di

attirare verso la loro realizzazione (ad esempio, spinge a consumare un alimento

gradevole), seppure in questo senso il piacere piuttosto è preceduto dalla passione del

desiderio (fisico). Il soggetto senziente prova una mancanza organica (fame, sete170),

170 Il desiderio sessuale è legato alla funzione riproduttiva, ma non è del tutto simmetrico alla fame o alla sete, poiché negli animali superiori la sua dimensione sensibile normalmente è trasfigurata nell’amore sensibile verso il maschio o la femmina presi come soggetti intenzionali. Di conseguenza, la sessualità (anche animale) trascende in parte la pura funzionalità vegetativa in quanto sentita. L’amore sessuale animale, in definitiva, è una passione più alta della fame o della sete. Nell’uomo la dimensione animale dell’attrazione sessuale viene incorporata nella struttura della persona e quindi è attuata, secondo le circostanze, nella modalità “elevata” dell’amore tra uomo e donna, in un contesto di virtù e di libertà e non secondo semplici impulsi istintivi. La separazione tra queste dimensioni dell’amore può comportare un fattore di disintegrazione del comportamento umano. Cfr., sul

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143

una sensazione-desiderio che insieme inquieta ed è anche dolorosa se il

soddisfacimento -attrazione del piacere- viene ritardato oltre misura.

I classici denominarono concupiscenza o appetito il desiderio sensibile, anche

se il concetto può essere trasferito a livelli più alti (desiderio di ricchezze, di onori,

ecc.). Il desiderio fisico si sperimenta come la tendenza verso un oggetto piacevole ai

sensi, o come la ricerca di soddisfacimento di un impulso verso un bene fisico

sensibile, il che include il compimento di una funzione fisiologica (mangiare, bere,

attività sessuale). Nel momento in cui la funzione viene adempiuta e il desiderio è

così “appagato”, si sente il piacere, cui segue la scomparsa del desiderio e molto

rapidamente anche del piacere stesso. Il piacere sensibile è breve: va via non appena

si compie la consumazione del bene sensibile (si pensi al piacere sfuggente di bere un

bicchiere d’acqua quando si ha molta sete). La natura è avara con i piaceri fisici,

benché sia spesso violenta riguardo a certi desideri sensibili.

Con questi elementi vogliamo far notare il senso in cui gli animali sono mossi

dai loro desideri e passioni sensibili e non semplicemente dalle loro strutture

biologiche, genetiche e nervose, non in una modalità dualistica, ma nell’unità di

queste dimensioni. Il dinamismo del piacere-desiderio è perfettamente integrato con

gli elementi fisiologici e non c’è da stupirsi che abbia un circuito cerebrale proprio.

Se la dimensione fisiologica si rende indipendente e tende alla ripetizione, si

produce la caduta dell’individuo senziente nella situazione di dipendenza (droga,

tabacco, alcolismo). Il soggetto afflitto da questo male, di cui forse è moralmente

responsabile, sente con violenza la necessità fisiologica di compiere in frequente

ripetizione una serie di atti che soddisfano le regolari e urgenti richieste dei

meccanismi di dipendenza. Ciò che forse era mancanza di temperanza, adesso diventa

patologico, e le sue cause sono primordialmente fisiologiche (siamo di fronte a un

livello causale basso del soggetto psicosomatico). I meccanismi e la forza della

tossicodipendenza sono diversi a seconda del tipo di processo funzionale in atto. La

tossicodipendenza focalizza ossessivamente l’attenzione e il comportamento

tema, K. Wojtyla, Amore e responsabilità, in Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2003, pp. 461 ss, e Persona e atto, in ibid., pp. 1071-1089 (sul concetto di disintegrazione).

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144

dell’individuo, riducendo i suoi spazi di azione. Non potendo opporsi facilmente agli

impulsi della dipendenza, il soggetto si trova sotto una forma di “schiavitù organica”.

Dalla disabilità tossicodipendente è possibile riabilitarsi con metodi oggi ampiamente

conosciuti.

Esistono pure forme “più alte” -meno fisiche- di dipendenza psicologica che

“assediano” l’anima, come la passione per il gioco, le ossessioni di tipo lavorativo,

erotico, ecc., le quali hanno comunque una base neurale, in quanto tali deviazioni

della condotta catturano la memoria, l’immaginazione e i desideri e così schiavizzano

la ragione. Il modo più elevato di superare queste situazioni è l’impegno personale

nella creazione di virtù morali cognitive, emotive e comportamentali. Il soggetto deve

essere prima convinto del valore da promuovere in se stesso, e in seguito deve avere

la coerenza di fare o di non fare ciò che sta nella linea della virtù desiderata. Contro

una tendenza oggi troppo diffusa, falsamente confusa con la spontaneità e la libertà, la

persona, riguardo a queste problematiche, dev’essere talvolta portata a saper dire di

no, vale a dire, deve saper esercitare una certa violenza contro le incitazioni sociali, le

pressioni culturali o la ribellione di “una parte di noi” che ci porta dove non

vogliamo171. Questo è il senso di quanto nell’ambito ascetico è chiamato

mortificazione intesa come abito virtuoso.

La parola repressione è stata troppo abusata e ideologizzata, come se ogni

tentativo -educativo o politico- di frenare una tendenza deviata dovesse essere sempre

contrario all’espansione della libertà. Ma una libertà non disposta a soffrire, anche ad

auto-negarsi per motivi validi e nel modo giusto, può finire nella schiavitù o

nell’ingiustizia, così come una società non disposta a frenare la criminalità, con mezzi

legittimi, diventerà sempre più indebolita e ridurrà i suoi spazi di libertà172.

Bisogna distinguere tra le anomalie tendenziali morali, facilmente sottoponibili

171 La fede cristiana sostiene l’esistenza di un principio di squilibrio affettivo in ogni persona (la concupiscenza in senso teologico), per cui i nostri impulsi emotivi, di per sé positivi, non sempre ci portano dove vorremmo o dove con la ragione vediamo che ci conviene andare. Dal punto di vista teologico, questo squilibrio congenito è una delle conseguenze del peccato originale. 172 La cosiddetta ideologia del ‘68, nella misura in cui si è polarizzata unilateralmente in favore di una libertà contrapposta a qualsiasi forma di vincolo, confuso con la repressione, è stata purtroppo disastrosa dal punto di vista educativo.

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145

alla ragione, benché non senza sforzo e travaglio interiore, e quelle veramente

patologiche, ormai fuori controllo e di cui forse il soggetto non è del tutto (o per

nulla) responsabile. In certi casi il confine tra il comportamento moralmente negativo

-vizio, peccato, immoralità- e la condotta patologica può non essere netto, a causa

della complessità dei dinamismi psicosomatici. Nella misura del possibile, comunque,

la persona va aiutata a superare ogni difficoltà tendenziale puntando principalmente al

potenziamento e all’esercizio consapevole della sua libertà.

d) Passioni animali “alte”

La vita sensitiva animale e umana non è univocamente collegata alla

funzionalità neurovegetativa. La percezione esterna apre la soggettività senziente a

oggetti intenzionali che non sono funzioni vegetative, come quando un animale vede

alberi, foreste o avverte pericoli nell’ambiente. Tale percezione suscita nell’animale

passioni relative alla sua vita istintiva transvegetativa.

Nelle sensazioni relative allo stato dell’organismo non è facile separare la

dimensione informativa da quella passionale. Sentiamo il movimento del braccio

(sensazione cinestesica), ma possiamo sentirlo anche dolorosamente (elemento

sgradevole o passione nel senso classico). Nelle sensazioni più intenzionali il corpo si

occulta in favore dell’oggetto esterno. In quest’ordine della sensibilità la dimensione

cognitiva ed emotiva diventano chiaramente differenziate. Ad esempio, la visione

animale della faccia di un altro animale può lasciarlo indifferente, ma può anche

incutergli paura, desiderio, gelosia. Le passioni suscitate dalla percezione esterna sono

“passioni alte”, che guidano il comportamento intenzionale. Queste passioni animali

(possiamo chiamarle anche emozioni) sono dinamismi orientati al servizio dei fini

istintivi: conservazione della vita, cura della prole, caccia, costruzione di tane.

Nell’uomo, le passioni sensitive “alte” sono al servizio dei fini della vita razionale. La

visione umana del volto di un amico suscita sentimenti personali e promuove un

comportamento adeguato al livello ontologico della persona.

Gli animali sono mossi dalle loro passioni istintive, stati affettivi o emozioni173:

173 Aristotele aveva già osservato che il motore del comportamento animale sta nelle sue inclinazioni sensitive: cfr. III De Anima, 433 a 10 ss; 433 b 5 ss.

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spavento, rabbia, desiderio di vendetta, gelosia, giocosità, aggressività, agitazione,

trepidazione, inquietudine, obbedienza a un capo, sottomissione. Queste passioni,

innescate da stimoli esterni significativi o da situazioni interne organiche,

promuovono una condotta intenzionale: collaborazione sociale, operosità, difesa,

caccia, amicizia o inimicizia animale, corteggiamento sessuale, comunicazione,

strategie di lavoro, comportamenti materni, solitudine.

Non siamo adesso interesatti a fare una classificazione completa di queste

passioni e dei comportamenti conseguenti, né intendiamo proporre una distinzione

tecnica tra emozioni, sentimenti o inclinazioni174. Spesso tali classificazioni seguono

criteri naturali, ma possono avere anche una componente logica (ad esempio, il

desiderio sensitivo potrebbe essere un genere, specificato come fame, sete, desiderio

sessuale, ecc.). Di solito i nomi di inclinazioni, istinti o appetiti (la oJrmhv dei classici

greci) sono generici (inclinazione alla conservazione, alla nutrizione, alla

procreazione, alla socialità), mentre le passioni o emozioni sono piuttosto le loro

attuazioni concrete (così, l’emozione della paura manifesta la tendenza alla difesa)175.

Aristotele introdusse una distinzione interessante tra la tendenza al semplice

possesso di un bene sensibile, attuata come desiderio o piacere, e la tendenza verso i

mezzi da adoperare quando tale possesso (o conservazione) è difficile o trova ostacoli.

Quest’ultimo punto crea l’aggressività (attacco, difesa), ma promuove anche

l’intelligenza animale, che deve darsi da fare non per godere semplicemente dei beni

sensibili, bensì per conquistarli e proteggerli, staccandosi così dalla pura ricerca del

piacevole. In qualsiasi caso, il criterio d’intelligibilità della vita affettiva animale è

sempre la finalità. Gli animali soffrono, lavorano, si muovono, perché hanno fini

intenzionali.

La causalità della vita affettiva, cognitiva e comportamentale animale, in questo

livello transvegetativo, è psicosomatica, in un senso più complesso della causalità

psicosomatica della sensibilità vegetativa. Un gatto, ad esempio, provando paura di

fronte a un cane inferocito, può reagire con la fuga. La causa propria della sua paura è

174 Cfr., sul tema, A. Damasio, Emozione e coscienza, cit., pp. 51-104. 175 A. Malo, in Antropologia dell’affettività, cit., impiega in modo sistematico la distinzione tra tendenza e fenomeno affettivo concreto (emozione, passione, sentimento). Il fenomeno affettivo è una “attualizzazione” della tendenza.

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147

la percezione del cane inferocito: tale riconoscimento percettivo è un evento

psicosomatico causato da uno stimolo esterno complesso. Questa percezione suscita

un altro evento psicosomatico: l’emozione della paura. La parte neurale della

successione causale di questi due eventi psicosomatici è il collegamento cerebrale tra

le aree percettive, emotive e motorie. Non si pone qui la questione dell’anima che

“muove” il corpo. Un evento psicosomatico, causato intenzionalmente e non in un

modo puramente fisico, causa un altro evento psicosomatico.

Possiamo seguire neurologicamente (con aspetti pure genetici, ormonali, ecc.)

questo tipo di causalità psicosomatica alta degli animali. In quanto alta e non

destinata a perfezionare il corpo vegetativo, la dimensione intenzionale comunque

acquista una maggiore importanza nella spiegazione del comportamento. Se siamo

interessati a che un cane impari a custodire bene la nostra casa, dovremo agire al

livello dell’intenzionalità propria dell’animale, adoperando le cause adeguate che

promuovono tale comportamento (stimolazione attrattiva, allenamento). La base

neurale, benché imprescindibile, in questo caso risulta più strumentale, come abbiamo

avuto occasione di osservare in precedenza.

e) Fenomenologia della motricità animale

Una visione fenomenologica della condotta degli animali superiori rivela il

primato di comando della testa, luogo del cervello. La tradizione popolare assegnò ad

essa la funzione di guida (i governanti sono i capi della società)176. Palesemente la

testa è la sede degli organi dei sensi, tranne il tatto, ed è altrettanto il luogo del

controllo percettivo che guida i movimenti intenzionali del corpo. Il volto è sede

dell’espressività e luogo della funzione linguistica. La faccia esprime la

comunicazione con altri soggetti e non solo trasmette informazione, ma manifesta lo

stato di animo dell’individuo e i suoi interessi comunicativi. Nello sguardo e negli

occhi si nota l’attenzione e spesso l’intenzione del soggetto, il suo stato di coscienza e

il tipo di emozione che sta provando nei suoi rapporti sociali (autorità, simpatia,

amicizia, docilità, richiesta, dolcezza, timore, impazienza). Il volto umano è

veramente l’espressione dell’anima. Il cervello è la parte più nascosta e protetta del

176 La visione popolare coincide in questo caso con la scienza. Non così, invece, per quanto riguarda l’attribuzione dell’affettività al cuore.

Page 148: Sanguineti - Filosofia Da Mente

148

corpo, ma la testa e il volto umano sono le parti che più manifestano la persona.

I movimenti del corpo senziente sono di vario tipo. Quelli di natura vegetativa

sono causati dai muscoli lisci. I movimenti intenzionali (volontari nell’uomo) sono

causati dai muscoli striati. I primi sono controllati dal sistema nervoso vegetativo, i

secondi dal sistema nervoso centrale. Quindi la motricità intenzionale delle parti del

corpo è dovuta negli animali (e nell’uomo) all’organo effettore denominato muscolo.

La separazione tra motricità intenzionale ed alterazioni metaboliche è una

caratteristica importante degli animali, a differenza delle piante. Il corpo animale non

solo rivela una vitalità vegetativa legata all’ambiente, ma diventa anche soggettivo in

funzione di fini transvegetativi, per cui nell’ambiente appaiono “oggetti” dell’azione

corporea intenzionale (ad esempio, il ramo dell’albero oggettivato come “qualcosa su

cui arrampicarsi”)177. Il fenomeno dell’oggettivazione appare già in qualche modo

nella percezione animale.

I movimenti somatici intenzionali sono azioni dell’animale come un tutto

soggettivo e procedono dalle sue funzioni superiori. Il corpo animale (pure il nostro) è

parzialmente disponibile come una totalità che si muoverà con una certa autonomia,

distaccandosi in un certo senso dalla pura aderenza fisiologica all’ambiente. I

mammiferi muovono la testa con certi gradi di libertà, non deterministicamente, e così

si sdraiano, si alzano, corrono, si fermano, muovono le mani e prendono oggetti (i

primati), si nascondono, lavorano: in definitiva, dominano intenzionalmente, non

vegetativamente, le posizioni articolate del loro corpo soggettivo. A differenza dei

tropismi vegetali, questi movimenti sono variabili, reversibili, discontinui, veloci,

controllati. Essi non cambiano lo stato dell’organismo: sono più distanziati dalla

natura vegetativa e dai rapporti omeostatici con l’ambiente178.

Gli arti (braccia e gambe) sono le membra specialmente deputate a queste

funzioni. Essi godono del privilegio di uno spazio di “libertà motrice” e costituiscono

il fondamento del comportamento intenzionale di molti animali. Gambe e piedi sono

le membra della locomozione di molti mammiferi (movimento locale intenzionale), e

177 Cfr., su questo tema, H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 1991, pp. 292-302. 178 Cfr. ibid.

Page 149: Sanguineti - Filosofia Da Mente

149

sono pure gli organi degli spostamenti autonomi e veloci. La locomozione esprime un

certo dominio ecologico e manifesta quella “libertà territoriale” che viene impedita

con il carcere o la gabbia. Ulteriormente le mani per l’uomo, liberate ormai dalla

funzione locomotrice, diventano un organo di comunicazione gestuale e lo strumento

primordiale del lavoro razionale, grazie alla loro libertà di movimento per eseguire

ogni tipo di comandi razionali. Con le mani l’uomo afferra e muove le cose

volontariamente e crea e maneggia gli strumenti di lavoro. In definitiva, con le sue

mani come strumenti della ragione l’uomo muove e perfeziona le cose del mondo.

Consideriamo adesso, sempre in prospettiva fenomenologica, alcuni aspetti

causali della motricità intenzionale. L’animale muove i suoi arti spontaneamente, non

meccanicamente, seguendo comandi motori procedenti dal cervello. Questi comandi

nascono da reti e associazioni complesse tra le aree percettive, emotive e motorie179. Il

comando motorio animale è un atto sensitivo superiore suscitato dall’incontro tra

un’operazione percettiva e una reazione emotiva (il che costituisce un tutt’uno con la

base nervosa, nella modalità dell’iperformalizzazione menzionata spesso in queste

pagine). La guida principale dei moti intenzionali animali non è il dinamismo

vegetativo, dove la materialità è più dominante, bensì la vita e gli “interessi” propri

dell’attività sensitiva. L’animale si muove intenzionalmente in quanto è sollecitato da

richiami del suo mondo significativo, richiami ai quali risponde emotivamente e con

l’intelligenza pratica.

Mostro un oggetto qualsiasi, ad esempio, al mio animale domestico. L’animale

ha fiducia in me, quindi coglie l’oggetto, che potrebbe essere interessante per lui, e

forse comincia a esplorarlo, ad annusarlo, a seguirlo con la vista, o magari lo prende

con le zampe o vuole afferrarlo con la bocca. Eventualmente egli troverà l’utilità

dell’oggetto in funzione delle “finalità” della sua vita (per lui inconsapevoli).

L’oggetto potrebbe essergli buono come alimento, oppure potrebbe essere un oggetto

per giocare o da catturare.

Questi movimenti hanno la plasticità e la libertà consentiti dagli spazi percettivi

179 Qualcosa di simile accade nei nostri atti volontari, solo che nei nostri circuiti nervosi interviene la guida superiore della razionalità volontaria, come vedremo meglio nei nn. 7-8 di questo capitolo.

Page 150: Sanguineti - Filosofia Da Mente

150

dove all’animale vengono presentati in continuazione innumerevoli oggetti, cose cioè

che possono essere integrate nel suo orizzonte vitale, verso le quali egli è già

predisposto per agire in un certo senso: perseguimento e cattura, segnali appresi che

spingono a muoversi (ad esempio, alzarsi in volo, volare in una certa direzione),

risposte aggressive, obbedienza ai richiami di altri animali. L’animale domestico, in

questo senso, ha imparato ad obbedire ai comandi del padrone umano. Egli riconosce

in certi segni -sguardi, cenni di movimento, parole- la necessità di reagire con una

condotta, la quale spesso -specialmente nei cani- è una forma di “obbedienza”180:

inseguire il padrone, realizzare una determinata azione o smettere di farla, stare attenti

a ciò che verrà dopo (quando, ad esempio, c’è un’aspettativa di alimento). Questo

modo di agire lo vediamo anche nei bambini più piccoli, solo che in loro a poco a

poco cominciano a manifestarsi i segni della razionalità e una capacità linguistica

creativa.

3. Volontà e motricità secondo San Tommaso

L’uomo agisce “a livello umano”, ha sempre sostenuto la tradizione classica,

quando opera mosso non da dinamismi istintivi, ma secondo scelte razionali e libere.

In base ad esse muoviamo il corpo in rapporto alla nostra sensibilità percettiva ed

emotiva. Riteniamo vera questa spiegazione e intendiamo approfondirla in questo

capitolo, anche con il proposito di non cadere nel dualismo cartesiano. La dualità

anima-corpo comunque esiste (ma il corpo è “corpo vegetativo-sensitivo-emotivo”).

Quindi la spiegazione monista (neurologistica) del comportamento umano è da

escludere. La proposizione “io muovo il mio corpo perché voglio” è vera. Questo “io”

indica la persona totale col suo corpo in quanto è guidata dalla libertà e razionalità.

Possiamo considerare il problema da diversi punti di vista. Per chi sostiene la

spiritualità dell’anima è fuori questione che il nostro spirito (il nostro io libero) sia in

grado di muovere il corpo personale. Ma si cade in una semplificazione -dualismo

cartesiano- se riduciamo questo influsso causale all’esercizio di una semplice

causalità efficiente del pensiero su qualche struttura cerebrale particolare. Nelle

pagine seguenti prima mi soffermerò sulle motivazioni intenzionali delle nostre scelte,

180 In mancanza di altri termini, impiego una terminologia alquanto antropomorfica per riferirmi alla vita intenzionale animale.

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151

in secondo luogo affronterò l’argomento delle loro fonti causali, per poi analizzare la

genesi dell’atto per cui da una scelta segue il movimento intenzionale del corpo, con

un riferimento speciale al coinvolgimento della base neurale. Come introduzione a

queste tematiche, vorrei illustrare brevemente come Tommaso d’Aquino, seguendo

Aristotele, ha impostato il problema.

Se andiamo a leggere i testi tomisti su questa problematica, non troveremo mai

l’impostazione di “come l’anima muove il corpo umano”. Il punto di partenza di

Tommaso è il “triangolo aristotelico del comportamento” di tendenza, ragione (o

intelletto pratico) e azione181. In definitiva, l’appetito182, in base a una conoscenza

(percezione o ragionamento), muove all’azione. L’appetito può essere l’impulso

emotivo animale (passione, desiderio) o la tendenza razionale umana o volontà. La

conoscenza può includere la percezione, l’immaginazione e nell’uomo specialmente

la ragione pratica, che compie ragionamenti a partire da ciò che l’appetito ama o

desidera. Dal punto di vista dell’oggetto intenzionale dell’impulso affettivo, ciò che è

amato, tramite la conoscenza razionale, muove all’azione. Scrive Aristotele:

“L’oggetto stesso del desiderio diviene il principio dell’intelletto pratico; il

termine finale del ragionamento è il punto di partenza dell’azione”183.

La conoscenza razionale pratica non può essere un’inferenza impostata solo in

termini universali (allora non sarebbe pratica), ma deve scendere alla singolarità

(“sillogismo pratico concreto”). Questo punto richiede il coinvolgimento delle

potenze sensitive (percezione e immaginazione), specialmente per la segnalazione

delle situazioni concrete. Aristotele fa il seguente esempio nel suo breve opuscolo

181 Cfr. Aristotele, III de Anima, capitoli 9 ss. 182 Il termine latino appetitus corrisponde a ciò che ordinariamente chiamiamo tendenza o appetito. Traduce il termine greco o[rexi", mentre il desiderio in greco è detto ejpiqumiva e in latino è stato tradotto come concupiscentia, spesso con una connotazione di bramosia sensibile o forte desiderio fisico. 183 Aristotele, III de Anima, 433 a 15-17 (traduco dalla versione francese De l’âme, Les Belles Lettres, Parigi 1995). L’ordine successivo causale qui è: desiderio→ragione→azione. In questo triangolo non compare la causa fisica (efficiente). Il desiderato muove come causa finale. Ciò che è inferito razionalmente muove pure a livello di finalità, conferendo razionalità al desiderio e concretizzando i mezzi per raggiungere l’oggetto amato. La questione della motricità fisica qui non si pone. A mio avviso, in Aristotele essa si riconduce alquanto oscuramente al cuore come organo fisiologico. È come se l’emotività sensitiva incidesse nel cuore, da dove nascerebbero i “comandi motori”. Tommaso scavalca certe lacune del testo aristotelico e trova una sintesi più elaborata.

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152

sulla motricità animale:

“Devo coprirmi [oggetto desiderato]. La coperta serve a coprirmi. Dunque

ho bisogno di una coperta [prima conclusione di un sillogismo pratico]. Ciò

di cui ho bisogno devo produrlo. Quindi devo farmi una coperta [seconda

conclusione di un sillogismo pratico, ormai diventata una scelta, principio

motorio della prassi]”184.

Nella prospettiva tomista, basata come quella aristotelica sull’esperienza

ordinaria, l’elemento motorio fondamentale dell’agire umano è la volontà, potenza

libera nei confronti delle forze sensitive e materiali e capace di muovere se stessa

(autodeterminarsi) sia per amare che per volere i mezzi adeguati per giungere agli

oggetti amati185. Dire volontà in pratica è dire io, nucleo personale della potenza

volontaria. L’autodeterminazione personale non è però assoluta, dal momento che la

volontà è pure “mossa”, in un senso particolare, dagli oggetti amati e compresi (i beni,

come le persone amate). Ciò che è amato incide sui dinamismi volontari nella linea

spirituale della “finalità che attira”, non in un modo fisico-causale e tanto meno

deterministico.

La motricità corrisponde, in un modo più preciso, al dominio esercitato dalla

volontà sulle altre forze umane, denominato usus da Tommaso, il quale, per quanto

riguarda l’applicazione concreta agli atti, dà luogo all’imperium (oggi diremmo

comando) e alla executio186. Gli atti volontari del corpo, quindi, sono imperati

(=comandati) dalla volontà187. Parlando in termini generali:

“La volontà muove le altre potenze dell’anima ai loro atti. Usiamo le altre

potenze quando vogliamo”188.

La volontà, tuttavia, muove ordinariamente secundum rationem: muove in

armonia con quanto indicato dalla ragione come conveniente in funzione dei fini o

184 Aristotele, De motu animalium, 701 a 15-22 (traduco dalla versione francese Mouvement des animaux, Les Belles Lettres, Parigi 1973). 185 Cfr. San Tommaso, S. Th., I-II, q. 9, a. 3. 186 Cfr. S. Th., I-II, qq. 16 (usus) e 17 (imperium). 187 Cfr. S. Th, I-II, q. 17, a. 9. 188 S. Th., I-II, q. 9, a. 1.

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153

valori amati (Dio, persone, scienza, arte, politica, prestigio, ecc.).

San Tommaso è inoltre consapevole che la volontà non può muovere le forze

vegetative e puramente naturali del corpo e che neanche esercita un influsso diretto

sulle passioni o emozioni. Queste ultime piuttosto sono suscitate da dinamismi propri,

spesso in rapporto alle funzioni della sensibilità cognitiva. A loro volta, le passioni

sono vere spinte motrici (proviamo fame, quindi ci sentiamo spinti a mangiare) e

hanno ripercussioni fisiologiche caratteristiche (la paura suscita reazioni corporee

concomitanti).

In sintesi: la volontà (l’io) muove direttamente la capacità intellettuale e le

potenze cognitive sensitive (penso o immagino quando voglio), e muove le forze di

locomozione del corpo nella misura in cui esse sono controllate dalla sensibilità

(muovo le mani o gli occhi volontariamente). Il dominio razionale/volontario del

corpo secondo Tommaso si esercita tramite il controllo immediato delle forze motrici

sensitive189. Ovviamente la ragione può anche muovere il corpo indirettamente,

decidendo agire sulle sue cause, se le conosciamo (come quando prendiamo un

farmaco). In modo simile, la volontà può influire sulle proprie passioni (non

“dispoticamente”, ma “politicamente”, secondo la metafora aristotelica190), orientando

la cognizione (percezione, immaginazione, ricordi) verso gli oggetti che attivano gli

affetti191. Questi punti sono sostenuti in base alla nostra esperienza normale

comportamentale, al di là di situazioni patologiche o straordinarie.

Come fa la volontà (o la ragione) a muovere un membro del corpo? Come

abbiamo detto, la risposta di Tommaso segue il principio della mediazione della

sensibilità, anche se rimane un po’ vaga a causa delle scarse conoscenze biologiche

del suo tempo. Leggiamo con attenzione:

“La forza cognitiva non muove se non attraverso la forza appetitiva. Così

come la ragione universale non muove se non tramite la ragione particolare

[cioè la cogitativa], come si dice nel III de Anima, analogamente l’appetito

189 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 9. 190 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 7. 191 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 9, ad 3, dove spiega come la volontà può esercitare un dominio naturale sulla sensibilità sessuale.

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154

razionale, denominato volontà, non muove se non attraverso l’appetito

sensitivo. Quindi il motore prossimo del nostro corpo è l’appetito sensitivo.

Per questo motivo l’atto dell’appetito sensitivo è sempre seguito da

un’alterazione concomitante del corpo, principalmente nel cuore, che è il

principio dei movimenti degli animali”192.

Ovviamente l’Aquinate ignora il rapporto neurologico tra l’emotività e la

motricità, attribuito semplicemente al cuore secondo la tesi aristotelica193. Nonostante

le ripercussioni corporali delle passioni non siano precisamente il tipo di movimento

volontario del corpo su cui stiamo indagando, da quanto dice l’Aquinate appare ovvio

che egli concede forza motrice alla volontà solo nella misura in cui essa sia collegata

all’emotività orientata alle situazioni concrete. Torneremo su questo punto più avanti.

La volontà non è tuttavia puramente attiva, dal momento che può essere

influenzata -non determinata, altrimenti si annullerebbe- da una serie d’istanze,

potendo specialmente essere guidata dalle nostre idee e convinzioni (credenze). Il

nostro io volontario è passivo nei confronti delle presentazioni cognitive (muovo la

mano liberamente, sì, ma guidato da ciò che vedo e percepisco) e della pressione dei

sentimenti, i quali ci presentano i beni in una maniera attrattiva per la volontà (più

avanti esamineremo il rapporto tra sentimenti e volontà).

Il volere motorio quindi nasce dal volere come amore, il quale è suscitato e

guidato -non causato- dalla conoscenza e in parte dalle passioni. Vengono così a

crearsi interazioni assai complesse tra le idee, l’amore, la percezione e le emozioni, in

un quadro non puramente interiore, ma in rapporto agli oggetti reali, alle sollecitazioni

di stimoli ambientali o ai richiami di altre persone nei nostri confronti.

Un aspetto di questa complessità è il conflitto tra la volontà e le passioni,

ampiamente contemplato dai classici, in particolare dalla letteratura ascetica cristiana

e dalla teologia morale. Seguendo Aristotele, ma citando anche San Paolo (“le due

leggi interiori”: quella dello spirito e quella della carne194), l’Aquinate menziona

192 S. Th., I, q. 20, a. 1, ad 1. 193 La sede organica delle passioni sensibili secondo Tommaso è il cuore: cfr. S. Th., I-II, q. 24, a. 2, ad 2. 194 Cfr. Rm, 7, 15-23.

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155

l’eventuale contrasto tra la volontà e i desideri sensitivi, come accade

nell’incontinenza o nell’intemperanza195 (due vizi collegati alla mancanza di

temperanza e ai piaceri, menzionati con termini tecnici). L’inclinazione sensitiva

esercita una pressione psicologica -anzi psicosomatica- sulla volontà, senza però

forzarla con necessità. Neanche la ragione riesce a dominare sempre e del tutto le

inclinazioni dei sentimenti e dei desideri sensibili.

Continuo a esporre qui alcuni punti tomisti sull’argomento in esame. Un’intensa

forza emotiva può oscurare la capacità di giudizio della persona, poiché a molti

talvolta le cose sembrano giuste quando sono d’accordo con le loro preferenze

passionali, almeno a livello di giudizio pratico immediato (deterioramento del

giudizio prudenziale). Una passione sensibile molto intensa fa diminuire la forza della

volontà e può perfino togliere l’uso della ragione in un determinato momento, così

come vediamo che alcuni, per un amore folle o presi da un’enorme indignazione,

commettono delle pazzie196. Una fortissima presa dell’immaginazione o del giudizio

della cogitativa potrebbe compromettere la libertà dell’atto volontario, come avviene

in modo abituale in alcuni malati mentali (amentes)197. Quindi la deviazione razionale

provocata dai disordini passionali può avere una valenza morale, quando la persona

esercita il normale dominio razionale sul comportamento, oppure potrebbe essere

dovuta a cause patologiche. Le inclinazioni temperamentali, di radice fisiologica,

oppure l’influsso delle consuetudini sociali, possono ostacolare il normale sviluppo

della vita razionale, sebbene possano ugualmente aiutarlo. Pure qui la persona si vede

di fronte al compito di far crescere la sua libertà mediante lo sviluppo delle virtù

intellettuali e morali.

Questi tre elementi, le consuetudini sociali, il temperamento con la sua base

195 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 7. La mancanza di temperanza è studiata da Aristotele nel libro VII dell’Etica a Nicomaco. Nella prospettiva aristotelica, cui Tommaso aderisce, intemperante è chi segue i desideri disordinati per propria scelta o convinzione, quindi senza sforzarsi per contrastarli. Invece incontinente è chi, pur essendo convinto della necessità di comportarsi in un certo modo, quando arriva la sollecitazione passionale non ha la forza di opporvisi. L’Aquinate fa l’esempio di chi si è deciso a non prendere dolci fuori orario, ma a un certo punto ne vede uno in un altro momento e si lascia vincere dal desiderio di mangiarlo. Forse se ne pente subito, quando la passione non è più attiva: cfr. In VII Ethic., lect. 3, n. 1347 dell’edizione Marietti. 196 Cfr. S. Th., I-II, q. 77, a. 2. 197 Cfr. S. Th., I-II, q. 77, a. 1.

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fisiologica e le malattie nervose, sono esplicitamente menzionati da Tommaso

d’Aquino come fattori che possono diminuire o annullare la capacità di scelta

responsabile della persona. Tommaso riconosce la complessità di alcune situazioni nel

suo commento al libro VII dell’Etica a Nicomaco198. Ad esempio, gravi disgrazie

possono far precipitare una persona nella follia. Le consuetudini sociali o familiari

depravate sono più pericolose quando incidono sui bambini.

La persona cresce, di conseguenza, sulla base di un complesso di inclinazioni,

alcune delle quali sono sensitive (ad esempio, inclinazioni verso l’aggressività, verso

la mansuetudine o verso la socialità), quindi fondate anche su una certa struttura

neurobiologica. Questo punto, prettamente tomistico, appare rilevante per la

discussione sulle “basi biologiche” dell’etica199. Ad esempio negli animali superiori,

riconosce Tommaso, si potrebbe addirittura parlare di “prudenza”, “ferocia”,

“inganno”, “mansuetudine”, sebbene queste inclinazioni solo metaforicamente

potrebbero dirsi virtù o vizi200. Un temperamento irascibile può essere dovuto, egli

sostiene ancora, alla complexio naturalis, cioè alla base neurofisiologica della

persona, anche ereditaria201. La moralità non è kantianamente situata alle spalle della

dotazione naturale psicosomatica della persona. La libertà non è dualisticamente

opposta alla natura. Ciò che nell’animale non è ancora morale, nella persona si

presenta come una base impulsiva psiconeurale sulla quale, con l’intervento attivo

della libertà e la formazione delle virtù, si può costruire l’edificio della vita morale.

Queste indicazioni non comportano una visione negativa della passionalità,

come se essa fosse solo restrittiva della libertà nella linea “ascendente”. Anche una

scelta di vita sbagliata può alimentare l’emotività in un senso negativo e

“discendente”, in un modo che finirà per restringere la libertà. A sua volta, l’emotività

in un senso positivo può condurre la libertà nella giusta direzione, dal basso verso

l’alto, oppure la libertà può suscitare sentimenti positivi, dall’alto verso il basso, col

risultato felice di portare così all’integrazione della persona.

198 Cfr. altri luoghi dell’Aquinate citati nel nostro capitolo 3, n. 2. 199 Considerare la biologia come il fondamento dell’etica sarebbe naturalizzare la morale e quindi farla scomparire (magari riducendola alla medicina). L’etica, però, tiene conto dei dinamismi biologici e cerca di integrarli con le esigenze della persona. 200 Cfr. In VII Ethic., lect. 6 (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 1149 b 30-35). 201 Cfr. In VII Ethic., lect. 6.

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157

L’impostazione di Tommaso sull’interazione tra gli elementi dinamici della

persona vista in queste pagine mi pare molto orientativa, purché si lavori con una

nozione analogica della causalità. Gli attuali dibattiti sulla “causalità mente/corpo”

soffrono purtroppo della restrizione della causalità alla visione esclusivamente

scientifico-naturale, dove i rapporti causali e le conseguenti leggi sono considerati in

un modo particolare, non secondo tutte le loro dimensioni ontologiche.

4. La razionalità della scelta: motivi e ragioni

In continuità con quanto abbiamo esaminato nelle pagine precedenti, in seguito

presenterò una panoramica d’insieme applicata all’uomo sull’argomento centrale di

questo capitolo.

a) La decisione: amore e ragioni

Una prima differenza spicca tra la condotta animale e umana:prima di agire,

l’uomo è capace di pensare, quindi di fermare i suoi impulsi eventualmente istintivi.

Possiamo domandarci cosa dobbiamo fare, come farla, quando, dove e con quali

mezzi, esaminando le motivazioni del nostro agire futuro e progettando possibili piani

di azione.

Questi processi costituiscono la deliberazione. Deliberando, l’uomo può tornare

riflessivamente sui suoi piani o rivedere ciò che ha fatto, e può anche “meta-

teorizzare” le finalità di ciò che fa, ponendo in questione la legittimità e il senso dei

suoi stessi fini. La deliberazione è un momento rigorosamente razionale. Non è un

semplice ragionamento astratto. La deliberazione, in quanto auto-programmazione e

auto-giustificazione della condotta, è un atto -o una serie di atti- in cui la persona

torna completamente su se stessa, e perciò può dirsi un io, cioè un soggetto

autocosciente in prima persona, non solo razionale ma libero, poiché dirige se stesso

nel suo operare teleologico, anche se non è né il creatore né l’ultima fonte di ciò che

egli è e può fare.

Alla deliberazione segue la decisione o scelta, cioè la determinazione di fare

qualcosa, ordinariamente con libertà anche nel tempo. La decisione non nasce

radicalmente da un impulso naturale, fisiologico o emotivo, e nemmeno è il risultato

automatico dei ragionamenti deliberativi. Si compie nello spazio di libertà aperto

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158

dall’intelligenza. Come azione libera, quindi, si richiama al potere di essere attuata in

modo originario dal soggetto autocosciente.

Chiamiamo questo potere la volontà, il cui verbo corrispondente è voglio.

Compiere una scelta deliberata è dire “voglio”, con la perfetta possibilità di dire “non

voglio”, in modo netto e senza mezzi termini. Se un oscuro meccanismo ci ingannasse

su questo potere, non ci sarebbe la libertà e saremmo semplicemente degli esseri

naturali (animali superiori) o macchine complesse. Io, libertà, scelta, persona sono

correlativi: ciascuno di questi elementi non può esistere senza gli altri. La persona è il

soggetto ontologico che può fare scelte libere quando è autocosciente202.

“Decidersi” è autodeterminarsi nei confronti della propria condotta. La

decisione si compie in rapporto a un fare o a un’azione: mi decido sulla mia condotta.

“Decido di agire” vuol dire: “decido quale sarà la mia condotta futura”. Non ho

bisogno di fare adesso ciò che scelgo. Posso decidere di fare una cosa domani, tra un

anno, ecc., senza limiti di tempo (tranne quelli che la natura non mi offre). Nel

momento temporale già deciso in anticipo, muoverò il mio corpo, riattualizzando la

scelta e portandola al piano dell’esecuzione corporea nel tempo.

L’azione decisa è razionale se è motivata (altrimenti sarà libera, ma irrazionale).

La decisione si confronta, in questo senso, con due elementi giustificanti: i motivi e le

ragioni. Prendo una medicina e, dinanzi alla domanda “perché la prendi?”

(giustificazione dell’azione), posso rispondere: 1) indicandone il motivo: “desidero

star bene, togliermi la febbre, il dolore di testa”; 2) menzionando in seguito la

ragione: “ritengo che prendere questo farmaco mi toglierà il mal di testa”.

La struttura della scelta quindi è duplice: 1) decidiamo puntando a un bene o

valore, oggetto del nostro amore o desiderio (dimensione affettiva); 2) coerentemente

decidiamo in base a una serie di ragionamenti che stabiliscono una connessione tra

certe mie possibili azioni e i valori da raggiungere o da proteggere (dimensione

razionale). “Decido di prendere adesso questa medicina perché so che farà bene alla

202 La persona non sempre agisce secondo tutte le dimensioni della sua vita. Un puro atto fisiologico di un uomo appartiene alla persona, ma non è personale. L’embrione umano, un individuo svenuto o dormente sono persone. Ma in questi stati non possono compiere atti personali.

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mia salute”: poiché io amo la mia salute, ho visto la convenienza di prendere questa

medicina. La salute è la finalità, il bene amato e perciò custodito, mentre la medicina

è il mezzo scoperto per ricuperare la mia salute. Arrivo a tale conclusione tramite il

“sillogismo pratico aristotelico”, cioè con l’intelligenza pratica o ragione203.

In definitiva, la condotta più caratteristica quando la persona sta nella pienezza

delle sue capacità è la scelta razionale, una scelta intrinsecamente teleologica,

primariamente nata dall’amore verso un fine, un valore o una persona (la salute, la

famiglia, la professione, la comunità civile, la patria, gli amici, la scienza, l’arte, Dio).

Questi beni sono amati in se stessi e non puramente “in funzione di un’altra cosa”

(altrimenti sarebbero beni strumentali)204. Ma il fine bisogna raggiungerlo, custodirlo,

o dobbiamo svilupparne l’adesione, il che comporta riflettere razionalmente sui mezzi

adeguati ordinati alle azioni giuste in tal senso. Se voglio studiare una scienza, debbo

scegliere di andare a un’università; voglio bene un amico e quindi decido di farli una

visita, e così via205. In sintesi:

I beni amati in se stessi generalmente sono presupposti delle scelte e non motivo

di discussione e di scelta. L’adesione ai beni antropologici fondamentali -amore di

Dio, rispetto della moralità, adesione a certi valori- spesso è promossa dalle tradizioni

203 Il bene amato dev’essere al contempo percepito (come un fine o bene). La ragione propriamente riguarda i mezzi conducenti al bene. Questi ultimi possono essere visti, a loro volta, come un fine amato derivato che richiede nuovi mezzi. Presupponendo il fine secondario di “imparare a guidare”, si penseranno altre cose utili conseguenti. 204 Certe volte dobbiamo “scegliere” di accettare cose o situazioni non volute di per sé, vedendoci costretti a farlo per diversi motivi (ad esempio se ci minacciano, o se il menu da scegliere non ci soddisfa). Ma anche in questi casi la decisione tiene conto di qualche cosa amata di per sé e che muove a “rassegnarsi” a fare un certa scelta. Se il menu di un ristorante ci dispiace, comunque scegliamo un pasto perché vogliamo mangiare; se un ladro ci obbliga a consegnargli il nostro portafoglio, scegliamo di darglielo perché amiamo la nostra vita, messa in pericolo. 205 Ovviamente la realtà è più complessa. Tramite una sola azione possiamo raggiungere molti scopi alla volta, alcuni primari e altri secondari. I mezzi, poi, possono essere necessari oppure opzionali. Un fine amato può essere ordinato a un fine più alto (gerarchia di finalità). Comunque la struttura fini/mezzi, beni amati/azioni conseguente, amore/ragioni, regge sempre. Moltiplichiamo le nostre azioni in base a valori o beni ritenuti fondamentali per la nostra vita.

Amore di un bene

Deliberazione sull’azione da fare Scelta Azione

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culturali e religiose o dall’educazione, anche se possono essere scoperti

personalmente attraverso molte vie. L’uomo tende per natura a questi beni e la cultura

li offre in modi svariati (purtroppo anche con deviazioni). I beni fondamentali, anche

in modo concreto e non solo in generale (ad esempio, la nostra vita, i genitori, gli

amici dell’infanzia, la patria), non sono propriamente oggetto di scelta anche perché

spesso ci vengono dati. Dobbiamo però accoglierli di cuore206, e nelle scelte della vita

compiute in coerenza con essi riconfermiamo che li amiamo. Non li scegliamo come

se fossero oggetti nell’elenco di un menu, ma possiamo invece deciderci ad amarli

con più coerenza e dedizione (e possiamo anche rifiutarli).

Altri beni particolari sono trovati, nelle circostanze della vita, in diverse forme

di esperienza. Così incontriamo amici o scopriamo compiti concreti. La conoscenza di

una realtà amabile può catturare la nostra volontà. È in questo modo come una

persona decide di sposarsi o di seguire una determinata vocazione.

b) La dimensione etica

Come si vede, insieme alla razionalità dei mezzi esiste pure una “razionalità dei

fini”. Chi ama qualcosa, anche fondamentale, può domandarsi se quell’oggetto di

amore è giusto, o se lo ama nel modo giusto. Quando molti beni sono in gioco, la

ragione può riflettere se sono ben coordinati o gerarchizzati, poiché talvolta possono

sorgere dei conflitti tra i beni che amiamo, e alcuni di essi sono per noi prioritari o più

incondizionati rispetto ad altri. Ogni persona può considerare se le sue ultime priorità

-i suoi “amori” o “valori” ultimi- sono valide o se magari dovrebbero essere

riesaminate. Anche il fatto di non amare niente in modo incondizionato, come frutto

di una posizione scettica o egoista, può essere esaminato con la ragione. In questo

modo una persona può vedersi spinta, come in un’ultima istanza, a riflettere in modo

personale sugli ultimi valori della sua vita (la filosofia esegue questo compito in modo

teoretico).

La morale esiste proprio per guidare l’uomo -in termini universali- ad amare

bene ciò che egli è tenuto o ha scelto di amare, anche se eventualmente la razionalità

dell’amore -meglio: la verità dell’amore- potrebbe entrare in contrasto con i

206 Cfr. J. Philippe, La libertà interiore, San Paolo, Milano 2002, pp. 25 ss.

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sentimenti o con altri elementi (ad esempio, con consuetudini sociali discutibili o con

pressioni economiche). Così, l’egoista farà innumerevoli scelte razionali al servizio

dei suoi interessi, mentre chi è troppo dominato dal timore nei confronti di certe

difficoltà spesso sceglierà condizionato dalle sue paure e non secondo ciò che egli

veramente vorrebbe. Nel primo esempio, la razionalità dei mezzi è ben pensata, ma il

fine amato è sbagliato (l’egoismo è un male morale). Nel secondo esempio, la paura

introduce un ostacolo nella razionalità dei mezzi, il che potrebbe mettere a rischio la

genuinità dell’amore verso un fine.

Le spinte verso una scelta procedono da molti ambiti -consigli, pressioni,

passioni, interessi, amore, difficoltà- e quindi le scelte non sono sempre facili e spesso

non nascono semplicemente da ciò che vogliamo fare. Possiamo anche volere cose

impossibili; talvolta dobbiamo scegliere tra le possibilità che ci offre una cultura, una

nazione o una situazione data. L’intenzione di sposarsi, ad esempio, normalmente

nasce dall’amore sponsale verso una persona. Questo è il motivo proprio e adeguato

del matrimonio e non altri interessi, poiché tra l’oggetto amato e l’atto di amarlo ci

dev’essere una proporzione207. Ma la scelta di sposarsi deve anche tener conto dei

valori fondamentali prioritari (ad esempio, relativi alle condizioni antropologiche del

matrimonio come istituzione sociale).

Proprio qui entrano le priorità morali di cui parlavamo. L’istanza etica intende

appunto indicare il giusto ordine degli amori. Il bene da rispettare eticamente è

sempre un bene incondizionato(proprio questo lo definisce come morale). Esso non

nasce da fuori, non è imposto, ma scaturisce dalla struttura antropologica della

persona208. Ognuno ha necessariamente le sue priorità e per questo è un agente

207 Secondo questa proporzione, i beni strumentali -come la tecnica- vanno amati in funzione dei loro fini e non semplicemente per se stessi. I beni amabili di per sé -scienza, amore, amicizia- invece vanno voluti in se stessi, ma possono essere ordinati ad altri valori e possono pure riportare delle utilità. Uno scienziato può amare la scienza in se stessa, inoltre può ordinare la sua ricerca in favore dell’istituzione dove lavora, e al contempo può ricevere un compenso economico in funzione di un ulteriore bene amato. 208 La base dell’etica sono i beni antropologici fondamentali, verso i quali la natura umana tende (queste tendenze appartengono a quello che Tommaso d’Aquino denominava “volontà come natura”: cfr. A. Malo, Antropologia dell’affettività, cit., p. 231 ss). La libertà non è indifferenza, ma tende all’amore di un bene. Scegliere contrariando le inclinazioni antropologiche naturali è violento e opposto alla persona umana. Per questo motivo, la moralità è intrinseca all’uomo, non estrinseca come le leggi civili, anche se dobbiamo

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morale. Ma tali priorità debbono essere giuste. Se qualcuno ama i beni morali in modo

condizionato (ad esempio, rispetta la vita degli altri finché non si presenti una

situazione in cui forse potrebbe decidere di non farlo), allora cade nell’immoralità e

così diventa moralmente cattivo. La moralità non crea l’amore e non sempre ci dice

quali beni concreti dobbiamo amare (ad esempio, quali amici dobbiamo avere).

L’etica piuttosto segnala in modo universale l’ambito e certe condizioni dei nostri

amori affinché siano giusti.

c) Conflitti e dinamismo delle scelte

Il nostro comportamento è indotto da spinte provenienti da molte istanze: una

necessità fisiologica, un impulso emotivo, una pressione sociale o familiare, le

esigenze dell’amore, una ragione di utilità. L’iniziativa che muove la nostra condotta

può sorgere da un’idea personale o potrebbe anche nascere dalla volontà di altri che ci

offrono una proposta. Alcune scelte nascono da una certa necessità (fisica, morale),

altre sono opzionali (motivi di convenienza).

Il quadro comportamentale susseguente sarà razionale solo se la spinta ricevuta

verso l’azione passa attraverso il vaglio della libera scelta o accettazione. Possiamo

sentire una forte sete, ma la nostra azione di bere sarà razionale e non meramente

fisiologica solo se decidiamo di bere, cioè se consideriamo conveniente bere adesso o

domani, questa o l’altra bevanda.

I conflitti di scelta si presentano quando i beni proposti da quelle diverse

possibili vie sono concorrenti, non simultaneamente attendibili o perfino

incompatibili. I conflitti si possono superare in molti modi, ma saranno risolti al

livello della persona solo se prendiamo una decisione secondo una riflessione

razionale. Così, può capitarci di voler bere a causa di una forte sete e di non poterlo

fare nel momento in cui siamo impegnati in un compito più urgente: la soluzione

razionale sarà decidere di bere più tardi. In altri casi la soluzione del conflitto può

comportare una rinuncia: se dobbiamo scegliere tra studiare in un’università o in

un’altra, ciascuna delle quali comporta per noi certi vantaggi, alla fine dovremo

“oggettivare” l’etica nella forma di norme morali espresse in modo proposizionale (“non rubare”, “non uccidere”, ecc.).

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sceglierne una rinunciando ai vantaggi dell’altra209.

I conflitti morali pongono a rischio beni irrinunciabili. La persona onesta

considera intangibili certi valori morali. Non sarà disposta, ad esempio, a

intraprendere un compito economicamente molto vantaggioso se comporta il

tradimento di valori morali che perturberebbero l’amore di cose o persone che è

tenuta ad amare. La persona moralmente retta difende i suoi amori verso Dio, la

società, la sua famiglia. Quando un individuo non osserva un criterio morale

fondamentale, spesso è perché ha ceduto ad altre preferenze che per lui, almeno in un

certo momento, sono divenute prioritarie (il proprio interesse passionale, il prestigio,

la posizione sociale). Ovviamente si può anche non rispettare un valore morale per

ignoranza o per motivi ideologici.

Le scelte non sono sempre facili. Le spinte conflittuali possono essere forti o

deboli. Sono facili le scelte scontate riguardanti azioni strumentali ordinarie in favore

di beni voluti senza particolari problemi. Normalmente non è complicato scegliere un

mezzo di trasporto per recarci al posto di lavoro. Certe scelte sono operative in una

maniera abituale e fanno scattare in noi meccanismi di condotta quasi automatici.

Quando cammino verso un certo posto mi affido agli automatismi del mio corpo,

controllandoli dal di sopra (la mia scelta opera in quei momenti in modo implicito o

virtuale). Questi automatismi sono simili a quelli con cui marcia il cane che forse mi

accompagna, ma in lui essi sono controllati dall’istinto che lo ha portato a seguirmi.

Se un amico m’interrompe nel mio tragitto, eventualmente potrò trovarmi nel piccolo

conflitto morale di dover scegliere tra il bene dell’amicizia (fermarmi per un po’ di

tempo col mio amico) e il bene della puntualità nel mio orario di lavoro.

Le scelte sono difficili per diverse cause: 1) alcune scelte esigono una lunga e

intensa deliberazione intellettuale (ad esempio, una complessa scelta economica); 2)

altre sono dure perché si oppongono a inclinazioni affettive contrarie (ad esempio, se

so che una mia scelta non troverà consensi); 3) certe scelte sono difficili perché la loro

209 Le scelte si compiono sempre in funzione di un bene percepito con l’intelligenza e amato con la volontà, ordinariamente accompagnata anche dagli affetti. Alcuni beni sono necessari e altri solo convenienti. Spesso scegliamo cose utili non per noi, ma per altri, ad esempio, per il bene di una persona amata o di un’istituzione o impresa nella quale siamo coinvolti. Aiutiamo gli altri a scegliere con i nostri consigli.

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esecuzione non sarà facile (posso decidere di studiare sapendo che mi costerà; una

scelta è faticosa se ho pochi mezzi per portarla a compimento, o perché troverò

speciali difficoltà giuridiche); 4) determinate decisioni faranno scattare l’opposizione

di altri e quindi sono scelte difficili. Le virtù conferiscono al soggetto energia interiore

-saggia, non semplicemente “volontaristica”- per compiere queste scelte difficili. Gli

altri ci aiutano pure a decidere: ad esempio, il consiglio di un esperto è utile nel senso

del n. 1, mentre gli incoraggiamenti o le esortazioni possono contribuire a superare le

difficoltà indicate nei nn. 2-4.

5. Le fonti delle motivazioni

La scelta nasce da un’istanza deliberata grazie all’interazione tra la volontà e

l’intelligenza. Quest’istanza non emerge dal nulla, ma da una piattaforma sempre

presente e, insieme, da una serie di attivazioni del momento. Consideriamo questi

aspetti.

La “piattaforma sempre presente” è la nostra natura umana -corpo e anima- con

le sue potenze e inclinazioni naturali e il patrimonio genetico ereditato. S’includono

qui pure i tratti stabili acquisiti della personalità, come gli abiti -virtù e vizi-,

l’esperienza accumulata, il sapere imparato, insieme alla situazione del mondo in cui

si svolge la nostra attività intenzionale (ambiente, storia, cultura, regole sociali,

tradizioni, istituzioni). Da questo sfondo ogni persona riceve una quantità immensa di

possibilità e di stimoli per agire in un certo senso nei confronti degli spazi di

comportamento. La scelta nasce, insomma, nel quadro di una natura, con elementi

innati e altri acquisiti stabilmente, e nell’ambito di una cultura.

Vediamo questi punti in un modo più analitico. L’atto libero emerge da un

intreccio di fattori causali, almeno a titolo di predisposizioni:

* Le condizioni neurofisiologiche consentono di compiere bene gli atti necessari

per arrivare alla scelta libera e alla sua esecuzione materiale. Esempi di queste

condizioni sono la capacità cognitiva normale, un’affettività non patologica, uno stato

adeguato della coscienza.

* Gli abiti cognitivi, affettivi e volontari positivi permettono di arrivare

facilmente alla scelta e all’esecuzione, mentre quelli negativi producono l’effetto

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contrario. Una persona poco riflessiva, precipitosa, indecisa, o che si lascia trascinare

dalle emozioni, o incapace di opporsi seriamente alla volontà altrui, trova delle

difficoltà per compiere scelte prudenti. Le idee morali, i preconcetti, le inclinazioni, le

virtù o i vizi inclinano verso un certo tipo di scelte.

* L’ambiente culturale e familiare, l’educazione ricevuta sono ovviamente

elementi fortemente orientativi delle scelte.

In sintesi:

Come si vede nello schema, la scelta nasce spesso suscitata da un input esterno

(ad esempio, l’invito a fare una passeggiata), oppure deriva direttamente

dall’iniziativa personale. La radice della scelta sta sempre in una situazione

psicosomatica personale situata in un ambiente sociale. Per questo motivo possiamo

in qualche modo prevedere i comportamenti delle persone, dato che conosciamo la

“piattaforma di base” in cui operano le loro scelte personali (conoscendo le opinioni

di una persona, possiamo facilmente prevedere alcune delle sue scelte).

Questo secondo quadro illustra altri aspetti delle fonti dell’atto libero:

Base neurofisiologica

Cultura Ambiente Famiglia Educazione

Abiti cognitivi Abiti affettivi Sapere Inclinazioni

Scelta Esecuzione

Input concreto

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La “piattaforma sempre presente” offre uno spazio di possibilità alla libertà.

Non sta nella linea del determinismo. Al contrario, nella misura in cui gli oggetti

conosciuti sono più ampi e le inclinazioni sono positive, lo spazio delle scelte si apre

ancor di più. Lo riducono le disfunzioni neurologiche, le restrizioni cognitive o la

negatività affettiva o volontaria (i vizi). Le restrizioni possono provenire dalla cultura,

dalla società, da carenze educative o da trascuratezze personali. Ma anche coloro che

contano con pochi margini decisionali -ad esempio, malati mentali gravi, persone

private della libertà fisica- conservano una base di libertà non derivata dalle loro

dotazioni naturali, bensì da loro stessi, il cui uso configura la loro levatura morale.

Anche quel margine si può perdere, così come possiamo perdere la coscienza e la vita.

Tuttavia, questa conseguenza della contingenza della nostra struttura fisica non

Struttura anima-corpo Base neurologica Condizionamenti materiali Piattaforma Primi principi abituali sempre presente Inclinazioni naturali Conoscenze, sapere Sistemi di valore “Amori” Abiti Ecc.

Spinta prevalente Riflessione razionale

Scelta volontaria

Pressioni emotive Pressioni sociali Iniziativa personale Letture Proposte di altri Obblighi morali Bisogni materiali Ecc.

Attivazioni del

momento

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cancella la libertà.

Le “attivazioni del momento” possono procedere dall’ambiente esterno: un

evento ambientale, una circostanza politica o sociale concreta, il consiglio di un

amico, un influsso familiare. Oppure dall’ambito interno, secondo gli strati ontologici

della persona: situazioni fisiche particolari del corpo, passioni organiche, emozioni o

sentimenti, amore o adesione a valori, motivi razionali. Tra queste sollecitazioni di

solito ci sarà un’attivazione o fattore scatenante decisivo (spinta prevalente) che porta

alla necessità di prendere una decisione, rapidamente o dando un tempo. Può essere,

ad esempio, l’invito personale ad assumere un lavoro, o la necessità pressante di una

persona che richiede un aiuto. L’attenzione alla salute impone negli individui la

necessità di compiere numerose scelte e lo stesso si può dire di altri bisogni del corpo

o legati alla nostra materialità.

Immaginiamo il seguente esempio. Un individuo riceve l’invito a stabilirsi in un

paese per svolgervi un importante compito sociale o per realizzarvi una serie di studi.

L’iniziativa in questo caso è nata dall’esterno, ma tocca a lui prendere una decisione

al riguardo. Nella sua scelta ci saranno tanti elementi in gioco: amore e gusto per la

scienza, desiderio di servire la società e di fare del bene, possibilità reali di

intraprendere il compito (idoneità, condizioni favorevoli), eventuali altre priorità (beni

importanti da non trascurare), sentimenti di “basso livello morale”, come una certa

ambizione, la voglia di avere prestigio, la paura nei confronti delle difficoltà. La

persona si trova, dunque, davanti a un sistema di valori, ma è anche spinta da

pressioni emotive e da condizionamenti materiali che possono aggiungere gradi di

difficoltà alle sue opzioni. Alcune scelte di questo tipo, per il sì o per il no riguardo a

un bene, forse saranno moralmente obbligate se riguardano amori intangibili, mentre

altre saranno opzionali.

Se un elemento tra quelli indicati perturba il giudizio razionale -paura,

ambizione, superficialità nell’esaminare la questione, pressioni esterne-, la razionalità

della scelta verrà compromessa. Come si vede, ogni sorta di “attivazione del

momento” è accettabile, sia come “spinta prevalente” che come fattore concorrente,

collaterale o coadiuvante. Nonostante, la scelta sarà situata a livello umano “alto” solo

se passa attraverso la deliberazione razionale. La scelta deliberata sarà giusta o

adeguata, a sua volta: 1) se parte da premesse collegate ai valori amati, purché siano

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168

validi; 2) se il soggetto ha percepito bene il vincolo tra il fine amato e una certa

attività da compiere in suo favore. In definitiva, occorre una buona scelta dei mezzi in

funzione di un amore giusto. Altrimenti la decisione perde spessore razionale.

6. La libertà nella genesi dell’atto di scelta

Nelle sezioni successive vedremo alcuni aspetti della dinamica delle libere

scelte, cercando anche di indicare il ruolo che in esse svolgono le strutture cerebrali,

non da una prospettiva scientifica sperimentale, bensì a livello di principi.

Come abbiamo visto, il nostro pensiero è collegato al cervello nella misura in

cui è in rapporto con la sensibilità. Questo legame è ascendente e discendente. Vale a

dire, la sensibilità (percezione, memoria, immaginazione, emozioni) offre spunti,

spazi e orientamenti al pensiero deliberativo, il quale a sua volta guida attivamente,

con la volontà, il dinamismo della sensibilità nella direzione richiesta

dall’intenzionalità personale. Quindi mentre pensiamo, deliberiamo, decidiamo,

stiamo attivando molte aree e reti cerebrali, nella misura in cui l’intelligenza e la

volontà, sempre unite, sono co-presenti e co-operanti nella sensibilità superiore

“cerebralizzata”.

Nelle condizioni normali si produce, così, una sorta di scambio dinamico tra le

funzioni superiori (intelligenza e volontà) e gli elementi della sensibilità, cui segue la

programmazione motoria e la condotta esterna. In assenza di malattie, questo scambio

è dominato dal primato della libertà, con tutti i suoi condizionamenti. Tale primato

comporta uno sforzo continuato di discernimento, integrazione e ridimensionamento

delle strutture cognitive. Se il pensiero di un individuo si lascia vincere dalle passioni

o dall’immaginazione, si scende al livello della “schiavitù” delle scelte, che saranno

dettate dai disordini di una sensibilità non ben guidata o dagli errori di una scelta

irrazionale.

In questo flusso di energie fisiche, psichiche e spirituali, la mediazione della

sensibilità è fondamentale. Probabilmente è questo il nocciolo del classico problema

“mente-cervello”. Il punto più delicato -per alcuni il più difficile da capire- è che la

sensibilità umana superiore contiene al suo interno una sorta di “fusione” o di “co-

abitazione” tra spiritualità e sensibilità. Per dirlo in un modo più preciso, la sensibilità

superiore partecipa intrinsecamente alla spiritualità e quest’ultima, a sua volta, sia

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169

come intelligenza che come volontà, non porta a termine il suo dinamismo se non in

collegamento con la sensibilità, vale a dire, come esperienza intelligente del concreto

con la conseguente reazione emotiva (svilupperò questo punto nel n. 7 di questo

capitolo).

a) La libertà della scelta

Le scelte nascono nell’esperienza, grazie ai canali di pensiero aperti dal

linguaggio. In quanto le nostre scelte sono portate all’orbita dell’intelligenza

universale e della deliberazione, non sono mai rinchiuse nella materialità di uno

scenario pratico concreto (questo punto si manifesta con più chiarezza nelle scelte

serene, dove non ci sono elementi di urgenza o di costrizione). Voglio fare, ad

esempio, un viaggio turistico per riposarmi. Considero altre possibili finalità (viaggio

di lavoro, viaggio per fare una visita familiare), e inoltre percepisco una rosa di

possibili mezzi (treni, macchina, aereo) e di possibili percorsi, tappe o mète in

funzione dello scopo che mi sono prefissato. Posso prendere in considerazione

vantaggi e svantaggi, le condizioni di sicurezza dei mezzi di trasporto, le date

disponibili, le variabili economiche. Analizzo tutti questi quadri aperti con una

sorprendente libertà di pensiero. In definitiva, quando decidiamo e progettiamo un

viaggio per tanti motivi, e in tanti altri progetti, non siamo mai chiusi in uno scenario

materiale univoco. Il nostro pensiero deliberativo si muove in uno spazio di

universalità nelle diverse rappresentazioni e paragoni che compie per arrivare alla

decisione.

Si può dire la stessa cosa della parte volitiva, benché il punto sembri meno

immediato. L’universalità cognitiva fa emergere una forma di universalità volitiva,

anche se ciò che amiamo sarà sempre concreto. Non abbiamo desideri specializzati se

non nel campo fisiologico. Potenzialmente possiamo desiderare e volere ogni tipo di

cosa, di valore, di situazione, di persona, poiché tutte le cose contengono per noi

aspetti amabili, come oggetti pratici, di scienza, di arte, di contemplazione, di

convivenza. Vogliamo e amiamo cose concrete, ma la nostra volontà non resta mai

chiusa in nessun oggetto amato. L’essere finito non esaurisce mai la nostra infinita

capacità di amare. È questa la radice profonda della nostra libertà di amare: tutto ci

può attirare, ma niente ci può determinare. Restiamo liberi perché la nostra volontà è

aperta all’universalità dell’essere conosciuto dall’intelligenza. Questa è la radice, in

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170

definitiva, del nostro orientamento profondo e radicale verso Dio.

b) Alcune difficoltà relative alla libertà di scelta

Consideriamo in seguito una serie di punti apparentemente difficili da conciliare

con la libertà elettiva:

1. Non possiamo scegliere qualsiasi cosa, come se fossimo onnipotenti.

Ordinariamente scegliamo situati, nel quadro di un dato ambito di possibilità. Eppure

scegliamo in base a considerazioni universali e con una volontà di solito al di sopra

delle offerte disponibili. Possiamo desiderare anche cose in apparenza impossibili,

superando le ristrettezze del presente, e talvolta anche riusciamo ad ottenerle.

2. Spesso, anziché scegliere, siamo costretti ad accettare quanto ci viene

imposto dalle circostanze. A questa difficoltà facciamo notare due punti: 1. In molte

esperienze della vita godiamo di ampi margini di scelta e di iniziativa, senza

costrizioni. Tali situazioni sono sufficienti per dimostrare l’esistenza della libertà,

benché alle volte l’uomo sia dominato per lunghi anni da condizioni costrittive

(carcere, malattia, oppressione). 2. Anche in queste situazioni gli uomini e le donne

trovano spazi di libertà o riescono a crearli, grazie alla capacità di fare considerazioni

universali (gli animali in cattività, invece, forse riescono a fuggire, ma non lo fanno in

modo deliberativo).

3. La libertà di scelta di solito è legata a qualche forma di necessità logica (se

vogliamo un fine, per coerenza dobbiamo volere i mezzi), fisica (scegliamo costretti

da bisogni materiali), morale (siamo moralmente obbligati a compiere certe scelte).

Comunque l’autodeterminazione sussiste: per decidersi, la volontà deve porre il

proprio atto. Non può aspettare di essere causata, semplicemente perché la volontà

può causare ma non è causata (dal punto di vista della causa efficiente). I motivi e le

ragioni non sono cause efficienti.

4. Nella scelta, la volontà segue ordinariamente il giudizio della ragione, frutto

della deliberazione. Purtroppo, non di rado questo giudizio è viziato dagli interessi

volontari, e così le ragioni facilmente possono diventare una semplice giustificazione

per fare ciò che vogliamo e non ciò che sarebbe giusto. Questa difficoltà mostra i

limiti della nostra libertà nei confronti della verità. Non siamo creatori della verità e

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del bene, ma con la nostra volontà disordinata possiamo manipolare la verità e

abusare della razionalità. La situazione però non è irrimediabile, perché nella

coscienza umana rimane sempre uno sfondo di verità e di rettitudine. Con la

deliberazione della ragione, la persona può riconoscersi colpevole di un’ingiustizia e

pentirsi sinceramente. La possibilità della conversione è una manifestazione di libertà,

anzi libera ancor di più l’uomo dalla schiavitù della coscienza oscurata a causa del suo

attaccamento ad atti ingiusti.

c) Scelte animali

Gli animali manifestano una modalità particolare di “scelta non razionale”

quando gli istinti li spingono alla ricerca selettiva di oggetti, con capacità molto

diverse in ogni specie. Il predatore “sceglie” la preda, l’animale in fuga “sceglie”

dove andare, l’uccello migratorio seleziona una rotta, il cane infuriato aspetta con

attenzione e controlla il momento migliore per lanciare un attacco. Le api “scelgono”

tra varie opzioni il luogo dove stabilire un nuovo alveare, anche dopo giornate di

accurata esplorazione, e “decidono” pure il luogo dove andare a raccogliere il nettare,

in base alle indicazioni delle api danzatrici210.

Queste scelte emergono dalle inclinazioni istintive degli animali e dalla loro

intelligenza pratica (cfr. il seguente capitolo). Si compiono in base a una continua

informazione sensitiva proveniente da un ambiente variabile e difficile, dove

l’animale è costretto a fare qualcosa di proprio per arrivare al risultato desiderato.

Dalle scelte animali nasce un comportamento intenzionale flessibile, non

deterministico. Ma le scelte animali sono prive della dimensione etica.

Non possono capire la realtà delle scelte animali coloro che seguono una

concezione deterministica della natura. Inoltre è possibile discernere tra le scelte

animali e le scelte razionali dell’uomo, ma solo se si riconosce l’ampiezza e la libertà

delle scelte umane, basate sulla capacità di deliberare e di programmare in astratto.

La distinzione tra scelte umane (razionali) e scelte animali ci porta a precisare il

210 Cfr., su questi temi D. R. Griffin, Menti animali, Boringhieri, Torino 1999; J. L. Gould, C. G. Gould, The Animal Mind, cit.; J. Vauclair, L’intelligence de l’animal, Ed. du Seuil, Parigi 1995.

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senso del termine razionalità. Le scelte animali potrebbero dirsi “razionali” in modo

analogico, poiché la natura manifesta dinamismi ordinati e in questo senso tutto

l’universo possiede un’intelligibilità. La razionalità imperfetta e analogica

dell’animale è sempre pratica, concreta e sensitiva. La razionalità umana è universale

e autoreferenziale, poiché contiene la capacità di giudizio, di autocritica e di auto-

pianificazione astratta.

Gli animali sono detti irrazionali in quanto non hanno la ragione universale

umana. Il comportamento umano diventa irrazionale quando la persona agisce senza

la dovuta deliberazione (condotta impulsiva e passionale) o quando le sue ragioni

sono false o il suo amore è inadeguato (sarebbe irrazionale voler andare sulla luna a

piedi, o amare i gatti come se fossero persone). L’irrazionalità può infiltrarsi in tutti i

momenti della nostra condotta complessa (irrazionalità di una scelta, di un consiglio,

di un comportamento, di un’ideologia sociale).

L’irrazionalità nell’uso della libertà nei confronti degli amori che siamo tenuti a

salvare è l’ingiustizia o peccato (irrazionalità morale). Esiste ugualmente una

irrazionalità patologica, dovuta a disturbi neuropsichici nell’uso delle nostre facoltà

superiori. Nei gradi estremi, diciamo appunto che un individuo “ha perso la ragione”

o che agisce in maniera folle. In gradi minori, la razionalità di una persona può essere

indebolita, ad esempio, a causa di una difficoltà nel prendere decisioni, nel pianificare

o nel dirigere l’attenzione verso un piano di condotta o verso altre realtà.

7. Dalla scelta alla motricità. La mediazione emotiva e dei sentimenti

a) Impostazione del problema

Vediamo adesso l’argomento della connessione tra la scelta umana e i relativi

comandi motori. Voglio muovere un dito (scelta, intenzione efficace), ad esempio, per

scrivere un testo. Se non trovo ostacoli e non soffro una paralisi, muovo le mie dita

senza problemi. Una mia intenzione ha indotto una serie di alterazioni nel mio

cervello, concretamente è avvenuta una programmazione motoria capace di

trasmettere un impulso ai muscoli delle mie membra.

L’attestazione fenomenologica ci porta a distinguere il volere come scelta,

talvolta chiamato intenzione, e il volere come comando motorio volontario. Posso

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decidere: “tra due ore muoverò la mia mano”. La scelta non è ancora il comando

motorio. Compiuto il tempo prefissato, rinnoverò la scelta, solo che questa volta essa

sarà operante in atto in quanto si è identificata con il comando motorio.

L’esempio proposto è una banale scelta motrice. Negli animali superiori

troviamo fenomeni molto simili, anzi per quanto riguarda quell’esempio,

materialmente quasi uguali211. Una scimmia può “decidersi” a muovere un tasto con la

sua mano. Muove le dita in quanto compie a livello animale il “triangolo della

motricità”: desiderio, percezione adeguata e azione. La scimmia desidera fare

qualcosa con le dita, percepisce uno spazio di movimento, sente le membra da

muovere e quindi muove una parte del corpo. Quello che essa fa si può descrivere

perfettamente in termini di circuiti nervosi: stimoli sensibili, percezione, attivazione

delle aree emotive, conseguente attivazione delle aree motorie, con l’eventuale uso di

una memoria procedurale212.

I movimenti volontari del corpo umano si possono altresì descrivere secondo

opportuni circuiti neurofisiologici, nella linea della causalità materiale213. Dal punto di

vista neuroscientifico, nessun elemento ci consente di distinguere essenzialmente la

nostra condotta da quella dei mammiferi vicini a noi (i primati). Se ci limitiamo

all’osservazione fisica tipica delle scienze naturali, soltanto si vedrà l’attivazione

elettrochimica di una serie di centri o di reti tra le aree deputate alle funzioni

psichiche superiori (cognitive, affettive, motorie). Quindi tra l’osservazione

neurologica di una scimmia o di un uomo in azione non c’è niente di

sbalorditivamente diverso.

Questo fatto è naturale. La sola osservazione empirica secondo i canoni delle

scienze naturali non ci porterà mai a rilevare un evento spirituale. Empiricamente, se

211 Solo per analogia possiamo denominare “volontari” questi movimenti del corpo dell’animale. Possiamo chiamarli in modo più preciso movimenti intenzionali. Ovviamente sono diversi dai riflessi e dai movimenti automatici organici (come la respirazione). 212 Non sempre i movimenti intenzionali sono la risposta ad uno stimolo esterno. I movimenti umani e animali delle labbra o degli occhi, e tanti altri moti delle membra, sono intenzionali e non nascono necessariamente da un input esterno, benché tengano conto dell’ambiente. 213 Cfr., su questo tema, F. Keller, A. Acerbi, Aspetti neurofisiologici e filosofici della volizione, Convegno Dinamiche della volizione e libertà, Istituto Auxologico Italiano, 10-11 marzo 2006, Milano, in corso di stampa; B. J. Baars, A Cognitive Theory of Consciousness, Cambridge University Press, Cambridge 1998.

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non badiamo ai risultati tecnici del lavoro umano (cattedrali, aeroporti), non siamo

molto diversi dagli animali superiori. Tuttavia, dal momento che l’animale non è

mosso semplicemente dai suoi neuroni, bensì da una complessa vita intenzionale,

cognitiva e affettiva, allora non c’è una difficoltà enorme per capire come pure la

nostra condotta, tramite le dovute attivazioni neurali, deriva in senso proprio da una

complessissima vita cognitiva e affettiva superiore, di natura ben più alta della sola

sensibilità: una vita dominata dall’intelligenza e dalla volontà.

Personalmente abbiamo un’esperienza privilegiata di questa causalità superiore.

Vogliamo muovere la mano e la muoviamo con tutta libertà. Conosciamo per

esperienza i motivi della nostra condotta, sappiamo che molti dei nostri atti li

facciamo perché vogliamo, mentre altri li vogliamo e non riusciamo a compierli, altri

ancora le compiamo con difficoltà, e infine altri ci capitano e non li vogliamo, benché

possiamo accettarli.

Vediamo in seguito due difficoltà normalmente contemplate nei libri di filosofia

della mente sul problema del movimento libero del corpo. Una è nata da certi

esperimenti di Libet. L’altra è collegata a una presunta violazione del principio di

conservazione dell’energia.

b) Gli esperimenti di Libet

Alcuni esperimenti condotti da N. Libet e collaboratori negli anni ‘80 del secolo

scorso sembravano evidenziare che il cosiddetto “potenziale di preparazione” (PP)

corticale per il movimento volontario cominciasse leggermente prima che il soggetto

indicasse la sua scelta cosciente di muovere le membra del corpo.

Questo esperimento continua ad essere oggetto di discussione. Una possibile

spiegazione del fatto è che il soggetto nei brevissimi istanti prima della scelta, quando

sta considerando quasi inconsciamente la possibilità di dover muoversi o sta

anticipandosi in un modo semiconscio a un certo movimento più o meno previsto e

abitualmente noto, induce delle alterazioni anticipate relative al PP. Ulteriori

esperimenti hanno ridimensionato le conclusioni che si possono trarre dagli

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175

esperimenti di Libet214:

“Il PP si presenta prima, quando accade un certo grado di pre-

pianificazione, anziché quando il movimento è completamente spontaneo.

Presi come un tutto, questi risultati sono ulteriormente in favore dell’idea

che il PP possa essere generato da alcuni processi non-motori implicati nella

considerazione del movimento che dovrà accadere in un certo momento del

futuro. Questo punto indebolisce la pretesa secondo cui un anticipato

impostarsi del PP indicherebbe che il cervello comincia a preparare il

movimento prima che il partecipante [all’esperimento] abbia deciso

coscientemente di farlo”215.

Un’altra possibile risposta al problema, suggerita da Keller-Acerbi, è che

l’individuo in realtà mette in atto un’operazione piuttosto automatica grazie ad una

previa scelta di partecipare all’esperimento. Quest’ultima sarebbe la vera scelta

volontaria, una decisione che impegna il soggetto ed esige una vera riflessione.

Analogamente, dopo la scelta di andare a piedi verso un posto, mettiamo in atto una

serie di automatismi abituali che non comportano necessariamente nuove scelte

razionali frutto di una coscienza riflessa216. Comunque tali automatismi non sono del

tutto privi della coscienza. Sarebbero piuttosto operazioni sensitive controllate in

modo globale dalla volontà. Questo punto richiede, fanno notare Keller-Acerbi, una

concezione “non humeana” della causalità, contrariamente a quanto fa un’analisi

dualistica di questo problema. La causalità volontaria sul corpo non va concepita

come un antecedente temporale puntuale che in un istante matematico muove un

punto del corpo. La volontà piuttosto attiva un organo adeguatamente sensibilizzato, e

non lo fa a titolo di un antecedente temporale, come vedremo più avanti.

214 Cfr. J. A. Trevena, J. Miller, Cortical Movement Preparation before and after a Conscious Decision to Move, “Consciousness and Cognition”, 11 (2002), pp. 162-190. 215 Ibid., p. 169. Con indipendenza da quest’ultima ipotesi, “i risultati di Libet e altri (1983) non dimostrano senza ambiguità che il movimento di preparazione cominci in modo inconscio”: ibid., p. 188. Cfr. B. Libet, Unconscious Cerebral Initiative and the Role of Conscious Will in Voluntary Action, “The Behavioral and Brain Sciences”, 8 (1985), pp. 529-566. 216 Cfr. F. Keller, A. Acerbi, Aspetti neurofisiologici e filosofici della volizione, cit.

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176

c) Violazione del principio di conservazione dell’energia?

Secondo un’obiezione abbastanza antica, l’intervento della libertà nel corpo

umano comporterebbe una creazione di energia nel mondo fisico, contraria alle leggi

della fisica. Questa difficoltà oggi mi sembra improponibile. Se fosse accettabile,

dovrebbe essere pertinente anche per i movimenti fisici intenzionali degli animali.

La serie di movimenti fisici che avvengono nel cervello e nel corpo di un

animale o dell’uomo si possono descrivere perfettamente secondo i principi della

dinamica fisica e non violano alcun principio fisico. Fenomenicamente non vediamo

altro che una certa utilizzazione dell’energia disponibile, sia quando cade un sasso che

quando muoviamo un dito o un neurone. La causa superiore agisce certamente, e

spiega il comportamento nella sua dimensione intenzionale, ma tutto ciò è irrilevante

per la prospettiva della fisica. Il principio di conservazione dell’energia non è certo

violato, ma esiste una causalità al di sopra di esso. Il problema nasce quando la

causalità, così come viene presa dalla fisica, viene interpretata in un senso troppo

ontologico e addirittura chiuso. Allora qualsiasi causalità superiore sarà vista come

concorrente e quindi incomprensibile.

Il ricorso all’indeterminismo quantistico o alla dinamica fisica non-lineare può

rendere più intelligibile le predisposizioni fisiche dell’organismo per essere informato

da dimensioni più alte (sensibilità e razionalità), ma non va utilizzato semplicemente

per “dare un piccolo spazio” alla causalità dello spirito sul corpo, che così sarebbe

concepita in una maniera dualistica. Neppure il determinismo newtoniano, se non era

recepito in modo chiuso, cioè antimetafisico, era incompatibile con la libertà, anche se

offriva una base fisica meno adatta alla filosofia della natura di stampo aristotelico.

Le discussioni su “libertà e indeterminismo”, “libertà e cervello”, di solito

confondono le prospettive scientifica e filosofica e prendono l’argomento della

causalità dell’atto libero quasi in concorrenza con la concezione scientifica della

causalità (come se le due forme della causalità fossero sullo stesso piano)217. Questi

dibattiti mescolano il dualismo cartesiano con una visione humeana della causalità e

217 Qualcosa di simile si può dire sulla tematica della creazione divina in rapporto ai processi fisici naturali e sulla questione dei miracoli di Dio nella natura.

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177

così finiscono in una strada senza uscita.

d) La mediazione dei sentimenti nella motricità volontaria

Nelle pagine successive cercherò di approfondire il problema della causalità

della volontà sui movimenti intenzionali del corpo. Farò ricorso in questo senso al

principio tomistico della mediazione della sensibilità superiore come vincolo

dinamico tra le funzioni spirituali e gli atti corporei. Così come la comprensione

intellettuale secondo San Tommaso arriva all’esperienza delle cose concrete tramite la

razionalità particolare, il cui organo è il cervello, analogamente si può dire che la

volontà promuove la condotta corporea tramite l’affettività superiore, collegata alle

aree cerebrali dell’emotività e della motricità218.

Per illustrare la questione, andiamo all’esperienza ordinaria. La conoscenza

pratica e immediata di fini o valori, nonché dei mezzi che conducono ai fini, suscita

nelle persone sentimenti ed emozioni carichi di una forte spinta comportamentale.

Così avviene nell’innamoramento, ad esempio quando si pensa o si vede la persona

amata. Ma accade pure ogniqualvolta desideriamo il possesso di alcune cose. Un

professore di filosofia, sapendo che il libro della Metafisica di Aristotele sta

immagazzinato in una biblioteca, può sentire il desiderio di andare a leggerlo. Questo

desiderio è razionale, quindi volontario (“il professore vuole avere quel libro”), e al

contempo è sensitivo (“egli sente il desiderio di avere il libro”), non perché sia

l’aspirazione a un bene sensibile, bensì per il fatto che il bene desiderato (un libro da

leggere) è concreto, materiale e sensibile. La sua volontà è dunque caricata da

un’emozione sensibile movente.

Da tale intenzione/desiderio nascerà il comando motorio in virtù del quale quel

professore andrà in fretta alla biblioteca, forse pensando che possono chiuderla, cioè

con un certo timore (un’altra emozione, legata all’intensità della sua volontà). Queste

emozioni, promosse dalla volontà e dalla ragione, sono sensitive e quindi hanno un

radicamento cerebrale, e come tali si collegano ai comandi motori cerebrali che

attivano il comportamento corporeo.

218 Abbiamo visto questo punto in Tommaso, nel nostro capitolo 4, n. 3.

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178

Vediamo adesso di argomentare la validità di questa tesi considerando due

punti: gli stati affettivi e il loro rapporto con la volontà.

d. 1) Emozioni e sentimenti

Credo sia un errore frequente in questo campo la riduzione della volontà al

momento “freddo” della scelta deliberata (freddo in quanto momento della ragione) o

della pura mozione motoria (“voglio muovere le gambe e le muovo”). La volontà

principalmente ama, e quindi sperimenta affetti o sentimenti: desideri, speranza, gioia,

timore, amore. Non bisogna ridurre i sentimenti umani alle passioni sensitive

condivise con gli animali219.

Questo punto potrebbe risultare alquanto oscuro per alcuni perché non esiste tra

gli autori, né classici né moderni, una teoria troppo elaborata e accettata sui

sentimenti, emozioni, sensazioni, passioni, affetti, e il vocabolario psicologico

emotivo corrente a questo riguardo si presenta, in generale, fluido e poco preciso220.

La questione potrebbe essere articolata nei seguenti termini. Come abbiamo

visto nel numero 2 di questo capitolo, alcune passioni animali sono organiche, quali la

fame, la sete o il desiderio sessuale, e altre (“emozioni”) sono transorganiche e

intenzionali, come la paura, l’ira, la gelosia, la sottomissione, l’aggressività, la

depressione, il desiderio di giocare, la tristezza (alcuni stati affettivi elevano al livello

intenzionale le passioni organiche). Nell’affettività umana, a sua volta, possiamo fare

le seguenti distinzioni221:

1) Le passioni organiche, per quanto siano incorporate al dinamismo

dell’intelligenza e della volontà, conservano comunque una chiara autonomia a causa

del loro carattere fisico. La fame è sempre la stessa e non si può contrariare

219 L’argomento è ampiamente sviluppato da A. Malo, Antropologia dell’affettività, cit., pp. 194-211. 220 Tommaso d’Aquino considera le emozioni umane alla stregua della classificazione aristotelica delle passioni animali (piacere, dolore, desiderio, ira, amore), ma al contempo egli riconosce nell’uomo affetti spirituali, anche se talvolta possono avere lo stesso nome (amore, speranza, desiderio), affetti attribuibili direttamente alla volontà a titolo di atti o di stati: cfr. S. Th., I, q. 19, a. 1, ad 2; a. 2; I, q. 20, a. 1. 221 Cfr., sul tema, G. Perna, Le emozioni della mente, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2004; E. T., Rolls, The Brain and Emotion, Oxford University Press, Oxford 1999.

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direttamente.

2) Le emozioni sensitive intenzionali condivise con gli animali, pur avendo una

dimensione cerebrale, nell’uomo sono più suscettibili di essere incorporate e

fortemente trasformate dall’intenzionalità spirituale. Così, l’ira nell’animale si attua

nei confronti dei beni collegati ai cicli istintivi, mentre nell’uomo l’ira si accende

dinanzi a oggetti intellettuali o personali: indignazione davanti a un’ingiustizia, o

perché ci hanno rubato un libro di poesie, o rabbia perché non riusciamo a capire bene

un’operazione matematica.

Le emozioni, essendo sensitive, sono accompagnate da alterazioni

neurofisiologiche (nella respirazione, nella circolazione, nel metabolismo), prova

lampante della loro base cerebrale. Le passioni organiche, invece, anziché alterazioni

fisiologiche, sono semplicemente una forma di autosensibilità del corpo in alcune

delle sue funzioni organiche. Le emozioni sensitive intenzionali costituiscono un

settore di ciò che si potrebbe considerare la “base biologica” dell’etica. Quest’ultima

in parte cerca, in parte, di introdurre nelle emozioni e nelle passioni un ordine

consono alla persona. L’emotività, come vedremo più avanti, partecipa alla volontà

nella sua dimensione affettiva, pur possedendo una certa autonomia nei suoi confronti

a causa della sua radicazione neurale.

3) Una situazione intermedia tra i primi due tipi di affetti sono certi stati

d’animo psicosomatici, positivi o negativi, collegati a condizioni neurofisiologiche: il

nervosismo, l’ansietà, l’euforia, l’insicurezza, la timidezza, il benessere fisiologico, il

buon umore, la stanchezza, la giovialità. Alcuni di questi stati, se sono permanenti,

tradizionalmente vengono assegnati al “temperamento” della persona. Così,

l’indignazione o l’amore non si manifestano ugualmente in una persona nervosa, tesa,

ansiosa, serena o equanime222.

4) Gli atti e stati affettivi intensi e brevi di solito si chiamano emozioni. Gli

antichi li denominavano passioni nel senso di situazioni “che ci capitano”, in

contrapposizione alle azioni, le quali invece dipendono da noi in quanto agenti liberi.

222 A. Damasio chiama “emozioni di fondo” questi stati animici: cfr. Emozione e coscienza, cit., pp. 69-72.

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Talvolta passione indica uno stato affettivo frequente, intenso e poco controllato,

indirizzato a un oggetto (passione per il gioco, innamoramento passionale). Ci sono

anche predisposizioni abituali -tendenze particolari- verso certi stati animici ed

emozioni (fanno parte del temperamento). Ad esempio, l’irascibile tende all’ira, e chi

serba un rancore può tendere ad atti aggressivi. Quando un abito affettivo è frutto di

un lavoro di formazione guidato dalla ragione e dalla volontà ed è orientato al bene

personale, diventa una virtù dell’affettività (così, una persona può essere affabile e

simpatica per virtù, oppure per predisposizione naturale)223.

5) Alcuni stati d’animo, prevalentemente chiamati sentimenti, sono

specificamente umani e non li troviamo negli animali: ammirazione, gioia,

esaltazione, felicità, rimpianto, sentimenti estetici, sentimenti religiosi. Questi stati

affettivi sono spirituali. Quando sono molto intensi, diventano “emozioni” e possono

avere risonanze fisiologiche (nel ritmo cardiaco e la pressione arteriosa, effetti

ormonali, ecc.), probabilmente perché sono in connessione con affetti sensibili situati

nel medesimo genere analogico. L’esultanza, la felicità, l’amore umano, in qualche

modo appartengono allo stesso genere dell’allegria sensitiva di tipo animale (sono

infatti sentimenti positivi nei confronti di beni aspettati o posseduti), sia pure con

ovvie differenze analogiche. Quindi alcuni sentimenti spirituali possono avere effetti

neurofisiologici simili a quelli provocati dalle passioni sensitive “analoghe”. Una tale

continuità appare coerente con il principio di gradazione della vita. Quello che negli

animali è solo sensitivo, nell’uomo è elevato, ampliato e trasformato, ma rimane

anche incarnato.

I sentimenti spirituali non nascono da meccanismi neurali o solo psicologici, ma

dal riconoscimento o apprezzamento personale di oggetti intenzionali come possono

essere una situazione della vita, un’opera artistica meravigliosa, un insieme simbolico

suggerente, una persona cara (amico, padre, madre), un bel paesaggio, la patria, Dio.

Perciò, la tonalità affettiva della persona può riflettere spesso un atteggiamento di

fondo davanti alla realtà, una certa “situazione esistenziale” di carattere psicosomatico

223 Le pagine successive di questo capitolo talvolta sfiorano questioni etiche. Cfr., al riguardo, A. Rodríguez Luño, Ética general, Eunsa, Pamplona 2001, in particolare pp. 155-174, in riferimento alle inclinazioni, e il già citato volume di M. Rhonheimer, Legge naturale e ragione pratica.

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che incide sul comportamento umano224. Una visione del mondo religiosa, morale,

nichilistica, ecc. suscita dei sentimenti corrispondenti. Comunque, la tonalità affettiva

della persona può essere anche temperamentale, dovuta alle condizioni

psicosomatiche di carattere sensitivo menzionate nel n. 3 di queste divisioni.

I sentimenti, pur essendo naturali, hanno sfumature diverse secondo la cultura,

l’educazione e la ricchezza della propria personalità. L’arte, l’ornamentazione, le

immagini, l’ambiente, possono suscitare determinati sentimenti. Gli affetti, inoltre,

sono comunicativi e quindi hanno una dimensione interattiva. I nostri sentimenti

positivi come la benevolenza, la misericordia, la solidarietà, hanno effetti benefici

nelle persone con cui conviviamo. Il contrario accade con i sentimenti negativi

(durezza di cuore, asprezza, egoismo, disprezzo, rancore, arroganza).

6) Le virtù sono condizioni permanenti di eccellenza delle operazioni volontarie

in riferimento a determinati oggetti, e come tali sono predisposizioni della condotta

volontaria225. Sono, quindi, un perfezionamento della stessa capacità volontaria o

personale di amare e di comandare la condotta, motivo per il quale includono una

dimensione cognitiva o razionale. Ad esempio, la virtù dell’umiltà contiene una

valutazione giusta di ciò che siamo, pure nei confronti degli altri, e insieme comporta

una stima moderata di noi stessi226.

In quanto predisposizioni, le virtù non sono sentite e neanche sono sentimenti.

Esse arrivano laddove giunge l’influsso della volontà. Di conseguenza, le virtù

introducono ordine ed eccellenza in tutto il piano dell’affettività (considerato nei

numeri 1-5 delle nostre divisioni; così avviene con la temperanza, la castità, la

fortezza, la misericordia), ma anche nella conoscenza (come fa la prudenza) e nel

224 A. Malo, in Antropologia dell’affettività, cit., p. 204, menziona sentimenti dell’uomo nei confronti dei trascendentali dell’essere: atteggiamenti emotivi relativi al bene e al male, alla verità e alla bellezza delle cose. 225 Parliamo delle virtù della volontà. Ci sono anche abiti intellettivi o “virtù intellettuali” di cui adesso non ci occupiamo, anche se esiste un intreccio delicato tra molte virtù volontarie e certi abiti intellettivi. 226 Sul tema della virtù, rimando all’opera di C. Peterson, M. Seligman Character Strengths and Virtues, Oxford University Press, Oxford 2004. Merito di questo lavoro è di portare la tematica delle “forze del carattere” e della virtù, base di una vita buona e sana, al piano della psicologia, superando l’unilateralismo di concepire la normalità come semplice assenza di malattie psicologiche.

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comportamento (così la giustizia o la carità). Anzi la virtù normalmente incide

simultaneamente su questi tre ambiti. La carità, ad esempio, migliora i sentimenti di

amore verso gli altri, ci aiuta a conoscerli meglio e soprattutto spinge a compiere atti

indirizzati al loro bene.

Il compimento del dinamismo volontario è l’atto umano, o atto personale,

libero e razionale. Di conseguenza, la dimensione fondamentale della virtù non è il

sentimento né la conoscenza, ma la prassi umana. La virtù è essenzialmente

comportamentale, nel senso antropologico del termine (non è giusto chi si sente

giusto, ma chi fa opere di giustizia). La volontà di una persona si rivela

principalmente nella sua condotta libera. In modo sintetico, si potrebbe anche dire che

le virtù volontarie sono, complessivamente, la crescita della persona in quanto

persona. In modo antitetico, i vizi sono deviazioni stabili della persona nelle sue

diverse dimensioni. Alcuni di essi introducono disarmonie (l’egoismo, l’ossessione

per il denaro o il potere), e altri sono semplicemente disgregativi (pigrizia,

sentimentalismo, sensualità non controllata).

d. 2) Il rapporto tra sentimenti e volontà

Mi riferirò in seguito ai sentimenti, affetti ed emozioni umane prendendoli come

sinonimi, diversi dalle sensazioni organiche. Il punto da considerare adesso è il

rapporto tra questi stati affettivi e la volontà.

Il problema è vedere fino a che punto i sentimenti sono atti o stati della volontà

o invece sono indipendenti da essa. L’appetito sensibile (organico) chiaramente non si

confonde con la volontà: posso sentire fame eppure non voler mangiare, forse perché

ritengo che mi farà male, o perché desidero praticare un digiuno, o per motivi di

orario. Invece, se ho sentimenti di amicizia verso qualcuno, è questo uno stato della

mia volontà o qualcosa di estraneo ad essa?

La questione non è facile da risolvere, visto che la volontà, come abbiamo

insinuato, non può ridursi all’atto di scelta. La volontà comporta primariamente la

capacità e anche la tendenza di amore verso beni o valori umani -specialmente

persone- conosciuti con l’intelligenza. Però la volontà, trovandosi in situazioni molto

diverse nei confronti del bene amabile, può esercitare molti atti, come desiderare,

avere un’intenzione, amare, gioire, sperare, pentirsi, e può anche trovarsi in stati

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abituali come l’amicizia, l’odio, l’avversione, la felicità. In quanto capacità, può

essere perfezionata dalle virtù volontarie, quali la giustizia, la generosità (o può anche

rovinarsi con i vizi, come l’egoismo). Detto tra parentesi: quando diciamo “volontà”,

si potrebbe dire ugualmente la persona, visto che gli atti volontari non sono che gli atti

della persona presa come un tutto. Diciamo “ti amo”, non “la mia volontà ti ama”,

proprio perché la volontà siamo noi stessi227.

La complessità delle situazioni volontarie procede dal fatto che possiamo

sperimentare simultaneamente rapporti dinamici molteplici nei confronti di diversi

beni, che forse sono concorrenti. Ad esempio, la nostra intenzione di andare a finire

un lavoro urgente potrebbe essere ostacolata dalla convenienza di accompagnare una

persona cara a fare una passeggiata. L’urto tra queste due sollecitazioni potrebbe

provocare ansietà e nervosismo, obbligando la volontà a compiere rettifiche delle

scelte già fatte. I livelli della sensibilità s’intrecciano nel loro dinamismo con l’ambito

della persona come soggetto responsabile. Così, una buona notizia riempie la nostra

volontà di gioia, la quale si trasmette anche alla base organica, dandoci più energie

fisiche per lavorare e vincere ostacoli. L’indisposizione fisica, invece, può disporci

più facilmente ad avere uno scatto d’ira o può farci cadere nella tristezza, forse

favorendo scelte sbagliate. Gli esempi di questi intrecci sono innumerevoli.

Il punto centrale di questo problema è la comunicazione partecipativa e

interattiva della volontà con la dimensione emotiva e sentimentale della persona.

Quando questa comunicazione è positiva ed è presieduta dalla dimensione più alta

della persona (la volontà, la ragione, la scelta, le virtù), la sfera sentimentale diventa

integrata e si trasforma in una forza trascinante e operativa della vita umana. Al

contrario, quando la parte emotiva e sentimentale predomina sulla dimensione

razionale, la conseguenza è la disgregazione della persona e la caduta nel

soggettivismo. In entrambi i casi, volontà e sentimento vanno all’incontro e in qualche

modo finiscono per fondersi, sia pure con risultati diversi228.

227 Ontologicamente la persona non è identica alla volontà. La volontà però non è una semplice capacità umana tra altre, ma è il nucleo stesso della persona nella sua capacità di agire come soggetto. D’altra parte, la volontà e l’intelligenza sono compenetrate e non si possono separare se non analiticamente. 228 In Persona e atto, Wojtyla denomina eccitazione ciò che noi abbiamo chiamato passione organica, e commozione l’emozione e il sentimento. Quando l’emozione diventa uno stato

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La dimensione alta di una persona, comunque, potrebbe essere deviata da

ideologie, scelte sbagliate, forme razionali corrotte, mentre il suo “cuore

sentimentale” forse rimane ancora nobile nei confronti dei valori. Così, un individuo

educato in un’ideologia perversa, davanti a crimini giustificati da essa potrebbe

provare dei sentimenti di ripugnanza che forse lo porteranno a ravvedersi. Il criterio

ultimo di validità delle nostre scelte comunque non è immanente a noi (ragione o

sentimento), ma trascendente: la verità dell’essere. Spesso la ragione vede la verità e

il sentimento può essere ribelle, ma il contrario potrebbe anche accadere. Né il

razionalismo né il sentimentalismo sono posizioni giuste. Ciò che più conta è la

trascendenza della verità e del bene.

I sentimenti hanno una loro autonomia rispetto alla “pura” volontà a causa del

loro risvolto neurale. Così una persona che prova odio verso qualcuno a un certo

punto può pentirsi e non voler più odiare. La sua scelta razionale e convinta è di non

odiare più. Questa decisione, tuttavia, non eliminerà automaticamente la sua

predisposizione sentimentale verso gli atti di odio, il che potrebbe, naturalmente,

mettere a rischio il suo pentimento. La persona, quindi, grazie alla riflessione

razionale, può decidere con libertà di cambiare oggetto o modalità nei suoi atti e

condotta conseguente, ma dovrà pure impegnarsi -educando la sua affettività- per far

sì che la sua parte emotiva sia congruente con le sue scelte.

L’interazione tra i sentimenti “volontari per partecipazione” e la “volontà di

decisione” è reciproca, pur mantenendosi sempre il rapporto con la dimensione

cognitiva. I sentimenti possono emergere in un modo più o meno spontaneo in certe

circostanze, spingendo la volontà in un determinato senso. Così accade, ad esempio,

con tanti sentimenti naturali di amicizia e di benevolenza verso alcune persone, o

quando ci si affeziona a un certo lavoro. Però questi sentimenti potrebbero entrare in

contrasto con altri affetti o con l’amore verso beni indicati dall’intelligenza come

prevalenti o addirittura incondizionati. Spetta alla ragione considerare l’eventuale

irrazionalità di un certo sentimento, che quindi bisognerebbe tentare di inibire. Ad

esempio, se un’amicizia coinvolge una persona in un possibile atto criminale, il

permanente -atteggiamenti stabili di simpatia, avversione, rancore, amore-, allora praticamente si è fusa con la volontà: cfr. Persona e atto, cit., pp. 1136-1139.

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sentimento -normalmente nobile- di voler fare ciò gli amici chiedono si è trasformato

in un affetto irrazionale229. La volontà è capace non solo di non seguire tale affetto,

ma anche di moderarlo o purificarlo, orientando così la dimensione emotiva verso la

razionalità e l’amore giusto. La volontà potrebbe anche accettare irrazionalmente una

richiesta sentimentale ingiusta. La volontà può cedere, ma tende comunque a fondersi

con il sentimento, perché le due istanze sono sempre tendenziali e sono spinte

naturalmente alla convergenza e alla loro unificazione.

Peraltro, alcune disfunzioni nervose possono incidere sull’affettività e sulla

capacità cognitiva di una persona, rendendola meno abile nelle sue decisioni o giudizi

pratici. In questo caso la persona diventa meno responsabile delle sue scelte

irrazionali, che così non saranno vere scelte. In altre circostanze, invece, a causa di

una deformazione nell’educazione degli affetti, alcuni individui si lasciano trascinare

fortemente dalla loro emotività congruente con certe scelte non esplicite e in questo

senso “protette”. Di conseguenza, tali persone non accettano facilmente la proposta di

ragionare sulle loro opzioni pratiche. Preferiscono assumere atteggiamenti

sentimentali e quasi impazziscono se una proposta contraria alle loro inclinazioni

viene offerta alla loro considerazione, e in questo modo finiscono per imporre la loro

volontà. Da questo esempio si vede l’importanza dell’educazione dei sentimenti,

affinché collaborino con le scelte razionali e non diventino complici delle opzioni

irrazionali.

Non sempre è facile distinguere tra ciò che è patologico e ciò di cui una persona

è veramente responsabile. In qualsiasi caso, non bisogna perdere di vista il ruolo

guida della ragione fondata sulla verità e del conseguente amore autentico. Questi

elementi debbono governare la persona, non i sentimenti, né una ragione razionalista.

Ma i sentimenti sono di per sé positivi e assolutamente imprescindibili per la

229 Non tutti i sentimenti sono sempre buoni in modo concreto e in qualsiasi situazione. Alcuni sentimenti, secondo i contesti, vanno lasciati da parte, non ascoltati e non alimentati, in attesa di una trasformazione positiva dell’affettività di una persona. Questo compito è delicato e va eseguito con convinzione e impegno, specialmente nel campo dell’educazione. È un errore la repressione autoritaria ed esteriore di ogni sentimento che sembri deviato, ma è altrettanto sbagliato considerare sacri e intangibili i sentimenti. Il senso dell’importanza della ragione e dell’amore vero è una guida affinché le persone riconoscano la loro fragilità emotiva e sentimentale e s’impegnino nell’educazione dell’affettività.

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dimensione motoria, come vedremo nel n. 8 di questo capitolo230 .

È questa, a mio avviso, la giusta impostazione della tradizionale tematica

dell’influsso dell’anima sul corpo e viceversa. Gli strati in gioco sono tre, non due:

dimensione psicosomatica vegetativa (sensazioni organiche), psichismo emotivo e

volontà razionale (spirito). A questo puntavano, in parte, le antiche tricotomie di

corpo, psiche e spirito, riprese in un certo modo da Wojtyla e in un altro senso dalla

concezione tripartita di MacLean. Tra questi strati ci sono linee ascendenti e

discendenti di interazione, integrazione o possibile dissociazione, come si è visto in

queste pagine.

Il seguente schema illustra gli strati e le loro interazioni:

230 J. LeDoux, in Il Sé sinaptico, Cortina, Milano 2002, pp. 419-450, sostiene l’importanza dell’integrazione psichica (molto diversa è la tesi aberrante di Minsky e Dennett, secondo cui l’uomo non è un io, ma un insieme di forze in associazione). “Questo è il motivo -scrive LeDoux- per cui un matematico brillante oppure un artista o un imprenditore di successo possono come chiunque altro cadere vittime di una seduzione sessuale, della collera suscitata dal traffico, della gelosia (...) Il nostro cervello non si è evoluto a un punto tale che i nuovi sistemi, i quali rendono possibile un pensiero complesso, riescano facilmente a controllare i sistemi antichi che danno origine ai nostri bisogni e moventi di base, nonché alle reazioni emotive. Ciò non vuol dire che siamo completamente in balia del nostro cervello e che non ci resti che cedere ai nostri impulsi. Significa invece che la causalità discendente è a volte un’impresa ardua. Fare la cosa giusta non sempre scaturisce spontaneamente dal fatto di sapere quale sia la cosa giusta da fare” (ibid., p. 449). L’intuizione di LeDoux sulla possibilità di dissociazioni tra le funzioni alte e basse della vita psichica è giusta. Il medesimo concetto si legge poco più avanti: “talvolta, però, pensieri, emozioni e motivazioni si dissociano. Se la trilogia mentale si scompone, è probabile che il Sé cominci a disgregarsi e la salute mentale a deteriorarsi. Quando i pensieri sono completamente dissociati dalle emozioni e dalle motivazioni, come nella schizofrenia, la personalità può drasticamente trasformarsi. Quando le emozioni imperversano liberamente, come nei disturbi dell’ansia e nella depressione, una persona non è quella che era un tempo. E quando le motivazioni sono piegate dalla dipendenza dalle droghe, gli aspetti emotivi e intellettuali della vita ne risentono” (ibid., p. 450). Certi aspetti neurofisiologici legati alle decisioni sono considerati in quest’opera nelle pp. 350-360.

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187

Sullo strato psicosomatico neurovegetativo la persona esercita un controllo

indiretto e piuttosto rigido, secondo canali precisi, ad esempio riguardo a funzioni

come l’alimentazione e la sessualità. Non possiamo evitare di avere fame, ma entro

certi margini possiamo decidere quando e come mangiare e, se non desideriamo

cadere nella golosità, possiamo decidere di tenerci lontani da certi cibi succulenti. Il

dominio dei sensi esterni ed interni (immaginazione, memoria), l’approccio adeguato

agli universi simbolici e raffigurativi, la prudenza nella frequentazione di ambienti e

persone, fanno parte degli elementi coi quali possiamo essere padroni della sessualità

nella sua dimensione organica e sentimentale. Invece non possiamo controllare

direttamente certe sensazioni o alterazioni organiche (dolori, malessere fisiologico),

né siamo signori dei nostri stati animici psicosomatici (come il nervosismo), se non

agendo talvolta sulle loro cause fisiche (ambientali o neurofisiologiche), se è

conveniente in certi casi, o sugli elementi delle dimensioni superiori della persona

Volontà Virtù

Sentimenti spirituali Intelligenza

Razionalità pratica

Psichismo emotivo

Partecipa alla volontà Radicazione cerebrale

Ragione sensitiva

Sede cerebrale

Sensibilità cognitiva organica

Stati d’animo psicosomatici

Passioni organiche

(con attivazioni fisiologiche proprie)

Alterazioni neurofisiologiche

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188

eventualmente ad essi correlati (ad esempio, il nervosismo può essere alleviato in

ambienti umani rasserenanti, o assumendo atteggiamenti positivi nel lavoro o in altre

attività). Tralascio qui la questione delle tecniche psicologiche o psicosomatiche di

controllo dei settori della sensibilità neurovegetativa e della coscienza sensitiva.

Sullo psichismo emotivo e dei sentimenti abbiamo un dominio “politico” e non

“dispotico”, come diceva Aristotele, cioè non immediato, bensì attraverso le cause

intenzionali e psicosomatiche che suscitano direttamente gli affetti. Come accade

negli altri strati, nel dominio dei nostri sentimenti raramente agiamo da soli, poiché

dipendiamo dall’ambiente (ad esempio, dai mezzi di comunicazione) e dalle persone

che ci circondano (famiglia, amici, colleghi). Un articolo violento o aggressivo di un

giornale può suscitare nella gente sentimenti bellici, razzisti o nazionalistici.

In una linea ascendente, i sentimenti nati in noi in modo naturale, suscitati da

cause intenzionali personali, ambientali o simboliche (talvolta anche da situazioni

fisiche stimolanti), se sono positivi e si trovano in armonia con le nostre scelte

autentiche e giuste, vanno accolti dalla nostra dimensione tendenziale profonda, la

volontà, e così contribuiranno all’integrazione dinamica del comportamento con le

altre dimensioni della nostra personalità. Invece, se i sentimenti spontanei suscitati da

quelle cause sono negativi o poco convenienti, allora vanno purificati, moderati o

respinti con la forza di sentimenti superiori e delle virtù corrispondenti, oppure

agendo sulle loro cause intenzionali.

Ad esempio, la perdita del lavoro può produrre una profonda tristezza in una

persona. Questo sentimento è naturale, ma contiene un elemento negativo, poiché

potrebbe portare alla depressione, all’inazione o alla disperazione. In questo caso,

anziché respingere con “freddezza razionale” e stoica tale sentimento, sembra più

conveniente cercare di superarlo con atteggiamenti positivi: la virtù della fortezza

(non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà) può aiutare in tal senso, nonché i consigli e

conforto degli amici, cose che pongono il soggetto davanti a beni più alti. Questi beni,

conosciuti e amati, creano nel soggetto una condizione emozionale più positiva,

basata su cause reali e non false. La tristezza potrebbe continuare in questo caso

(sarebbe sradicata del tutto, ovviamente, se la persona trovasse un nuovo lavoro, cosa

auspicabile ma contingente), ma si eviterebbe che essa prendesse una forza tale da

distruggere la personalità.

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189

Dal punto di vista discendente, la volontà razionale diventa completamente

umana ed efficace se è incarnata nella dimensione dei sentimenti. L’amore vero,

autentico e forte si traduce necessariamente in slancio anche emotivo, talvolta in

passione ed entusiasmo. L’educazione dell’affettività, attraverso mezzi estetici,

retorici, simbolici, ambientali, personali, deve cercare di suscitare sentimenti nobili,

come la misericordia, l’affabilità, la giocondità, il gusto per la collaborazione e il

servizio, mentre vanno evitati sentimenti negativi come l’irritabilità, la suscettibilità,

lo scoraggiamento, l’incomprensione delle persone o l’impazienza.

Le vie ascendenti e discendenti si intrecciano a vicenda. La persona dotata di

sentimenti positivi, altruisti, costruttivi, li comunica facilmente agli altri e vince con

maggiore efficacia l’assalto di sentimenti negativi, dovuti a cause reali o fittizie (ad

esempio, troppo amplificate). In definitiva i nostri sentimenti sono autentici se sono

risonanze affettive davanti alla realtà o alla verità. Eventi reali negativi (dolore,

malattia, morte, ingiustizie, penuria, guerre, crolli economici) necessariamente

provocano sentimenti negativi. A questo livello tocchiamo lo sfondo esistenziale della

persona. Di fronte a queste esperienze negative, forti e basate sulla verità, solo una

realtà positiva più alta può costituire una causa adeguata di superamento personale sul

piano dei sentimenti.

A questo punto l’aggancio con i valori trascendenti offerti dalla religione è

fondamentale. Il dispiacere perché ci hanno dato una risposta sgradevole si può

superare passeggiando con un buon amico. Il dolore provocato dalla morte di persone

care o dalla prospettiva della propria morte solo si può superare davvero con la

speranza nella vita trascendente. Tale speranza, peraltro, va presa nel modo giusto e

non in qualsiasi modo, il che dipende, ancora una volta, dalla verità teologica nel suo

adeguato rapporto all’uomo231. In definitiva, l’identificazione dei sentimenti con la

volontà acquista un valore positivo quando è fondata sulla verità e sul bene, non

semplicemente su eventi psicologici e neurali.

231 Nell’ambito della fede cristiana, questo punto è garantito dalla Rivelazione di Dio in Cristo e dalla conseguente risposta personale di adesione alla verità di Dio.

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d. 3) Alcuni spunti wojtyleani sulla questione dei sentimenti e la volontà

Per finire questa sezione, vorrei proporre alcune idee di K. Wojtyla

sull’argomento delle pagine precedenti232. Secondo la sua terminologia, egli parla

dell’integrazione dell’ambito soggettivo dei sentimenti nell’operatività della persona.

La dimensione emotiva è “l’io soggettivo”, la tradizionale psiche, mentre la

dimensione più alta della persona è “l’io trascendente”, la ragione, la libertà o lo

spirito, il livello della decisione e della conoscenza della verità trascendente. Tra le

due istanze possono insorgere delle tensioni, in un quadro però tendente

all’integrazione.

La stabilizzazione permanente dei sentimenti, cioè la “fissazione” dei sentimenti

in stati affettivi continui è proprio il costituirsi dell’io soggettivo. Se manca

l’integrazione, si produce la “emozionalizzazione della coscienza”, la quale in casi

estremi impedisce al soggetto di agire con responsabilità e autodeterminazione,

disgregando la sua operatività personale233. Tranne questi casi, l’emozionalità può

avvicinarsi al livello della persona e così può trasformarsi in un’esperienza vissuta dei

valori, punto vicino a Scheler, anche se Wojtyla riconosce pure la cognizione

intellettiva dei valori. In questo modo Wojtyla vede nell’esperienza di una emotività

intenzionale aperta ai valori una partecipazione del vissuto alle funzioni superiori

della persona. Il livello più alto della persona corrisponde al volere nel momento della

scelta e del confronto con la verità.

“L’operatività, e con essa l’autodeterminazione personale, si forma nella

decisione e nella scelta, e queste presuppongono la relazione con la verità, il

riferimento dinamico ad essa nella volontà stessa. In questo modo, tuttavia,

nella spontanea esperienza vissuta del valore e nella tendenza ad essa legata,

alla realizzazione emozionale della propria soggettività entra un fattore

nuovo, trascendente. Questo fattore indirizza la persona verso la

realizzazione di se stessa nell’atto, non attraverso la semplice spontaneità

emozionale, ma attraverso la relazione trascendente con la verità, con il

dovere e la responsabilità ad essa legati. Nelle concezioni tradizionali questo

232 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, cit., pp. 1138-1151. 233 Cfr. ibid., pp. 1144-1149.

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fattore dinamico della vita personale è stato definito ragione (...) Questa

capacità determina la forza autentica dello spirito, che fa da asse portante

all’agire umano. La proprietà di questa forza, anche se esige una certa

distanza dai valori spontaneamente vissuti (e per così dire una ‘distanza di

verità’), tuttavia non nega affatto tali valori, non li rifiuta in nome della

‘pura trascendenza’, come apparentemente volevano gli stoici e Kant. La

subordinazione autentica alla verità, come principio delle decisioni e delle

scelte della libera volontà umana, nella sfera delle emozioni richiede

piuttosto una particolare connessione tra la trascendenza e

l’integrazione”234.

L’ultima osservazione del testo punta alla tesi di questa sezione sulla

comunicazione partecipativa dell’affettività umana alla volontà, comunicazione

positiva quando è guidata dalla verità.

8. Muovere il corpo volontariamente

Consideriamo in seguito un punto nucleare che stiamo inseguendo in questo

capitolo: dopo la scelta, come fa la volontà a muovere il corpo? Nella sezione

precedente siamo arrivati a una conclusione importante: la volontà, potenza razionale,

s’incarna nell’affettività superiore e nelle sue sedi cerebrali, e a tale affettività spetta il

ruolo di produrre i comandi motori volontari. Cercheremo di esporre e di difendere

questa tesi.

a) Funzioni psichiche e mutamenti fisici

La radice dei movimenti intenzionali animali sono le loro attivazioni

psicosomatiche di natura emotiva, tendenziale, spesso in collegamento con la

coscienza animale del proprio corpo e dell’ambiente. L’animale percepisce un

pericolo e si muove per esplorare l’ambiente o fugge. Al contempo, le emozioni

animali muovono il corpo nel senso di produrre effetti somatici di natura

neurovegetativa. Le emozioni animali, quindi, muovono in un duplice senso:

a) Producono alterazioni neurofisiologiche (variazioni nella pressione arteriosa,

234 Ibid., pp. 1150-1151.

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nella temperatura del corpo, nel sistema ormonale, ecc.); b) attivano i muscoli

affinché si produca il comportamento intenzionale tipico dell’animale (correre,

saltare, volare, gridare).

In noi accade qualcosa di simile. Solo che il dominio sui muscoli (striati) è

controllato direttamente dalla volontà e per questo motivo i nostri movimenti somatici

intenzionali sono propriamente volontari. Questa possibilità di muovere

volontariamente il corpo “muscolare” è l’ambito di libertà sul nostro organismo -e

quindi sul mondo- che la natura ci ha concesso. Le alterazioni neurofisiologiche,

considerate dai classici come concomitanti alle passioni, “ci accadono”, cioè non

dipendono da noi, benché possiamo agire sulle loro cause. Esse sono attivazioni di

certi settori del corpo “neurovegetativo” conseguenti in modo naturale alle emozioni e

ai sentimenti (ira, paura, desideri). I movimenti fisiologici organici sentiti (fame, sete,

sessualità), invece, non sono alterazioni “conseguenti”. Sono semplicemente il

risvolto fisico proprio della sensazione organica, come abbiamo già detto. Tali

sensazioni, in quanto sono affettive (la fame è un desiderio organico), sono motorie

(la fame muove alla ricerca dell’alimento).

Perché queste differenze? Qual è il loro senso?

1. La funzione motrice dell’emotività animale, considerata nel n. 2 di questo

capitolo, è ben conosciuta sul versante neurologico. Le alterazioni neurovegetative

susseguenti a tali emozioni tendono a predisporre il corpo in funzione della condotta

prevista dalla parte tendenziale. Se la condotta intenzionale è ostacolata (ad esempio,

se l’animale subisce un attacco), le alterazioni organiche corrispondenti preparano il

corpo per la difesa. Potranno essere anomale o squilibrate (tensione, sudorazione,

affanno), se il programma di condotta non raggiunge i suoi obiettivi.

2. La condotta intenzionale umana, invece, è libera nei confronti delle emozioni.

I sentimenti non la scatenano spontaneamente. In condizioni di normalità, l’uomo è

capace di fermare la sua condotta, per quanto forti siano i suoi sentimenti, e di

considerarla freddamente con la ragione, per poi decidere cosa fare liberamente.

La volontà/ragione, quindi, ha due dimensioni leggermente separate, una

affettiva e l’altra motrice. La dimensione affettiva scende al livello delle emozioni

sensitivo-volontarie, potendo provocare delle reazioni neurofisiologiche. Queste

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reazioni sono autonome e non sempre hanno a che vedere direttamente con le

motivazioni volontarie (una brutta notizia di per sé non ha niente a che vedere con

l’organismo, ma può provocare un’indigestione).

Si potrebbe pensare in questo senso ad una sorta di mancato equilibrio tra

l’anima e il corpo. Comunque, in linea di massima esiste una congruenza tra le

situazioni volontarie o spirituali e il dinamismo somatico. I sentimenti positivi (gioia,

ottimismo, slancio interiore) fanno bene all’organismo, stimolano e danno energia,

mentre quelli negativi (tristezza, disperazione, odio, paura) possono creare disturbi o

squilibri corporei. Alcuni sentimenti hanno pure una forma espressiva corporea

caratteristica (come le lacrime, il sorriso, il volto disteso). Questi fatti sono una

manifestazione dell’unità dinamica tra l’anima e il corpo.

Consideriamo per un attimo l’eventuale causalità del pensiero sul cervello,

indipendentemente dalla mozione volontaria. Si può parlare di una causalità movente

dell’intelligenza sulla sua base neurale? Non è vero che i nostri pensieri provocano in

noi attivazioni cerebrali? Questa domanda potrebbe condurci a un’impostazione

dualistica cartesiana. La cognizione sensitiva esercita un dominio formale sulla base

neurale nell’unità integrata degli atti psicosomatici, come abbiamo visto nel capitolo

2. Questo dominio -formalizzazione attiva- diventa più ampio man mano la funzione

cognitiva è più alta, suscitando processi top-down compatibili con gli aspetti materiali

attivi da cui emergono processi bottom-up.

Ora, il pensiero unito alla sensibilità superiore esercita pure questo ruolo

formalizzante, da non confondere con una causalità efficiente o movente. Comincio a

ricordare, ad esempio, ciò che ho fatto ieri, senza muovere un muscolo. Questo mio

atto è libero (“voglio ricordare, dirigo la mia attenzione verso questi ricordi”) perché

la mia volontà domina l’atto intellettivo, il quale a sua volta è unito alla sensibilità

superiore, facendola partecipe alla sua comprensione. La sensibilità, cerebralmente

localizzata (centri dell’attenzione, della memoria, dell’immaginazione), comporta una

disponibilità materiale tale da consentire il comparire “suscitato” dei pensieri (ma la

causa propria di quest’ultimo è la luce intellettiva stessa). A loro volta i pensieri, in

quanto sono un certo atto (illuminante) delle operazioni sensitive superiori, fanno sì

che queste operazioni si orientino in un certo senso. Però la nostra attività sensitiva, in

quanto è cerebrale, lascia una traccia o una formalizzazione stabile nell’operatività

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cerebrale. Tale traccia è la base fisica degli abiti intelligenti -per partecipazione-

dell’immaginazione e della memoria, una base che a sua volta consente al pensiero di

proseguire in un certo senso.

L’unico elemento causale movente di questi processi (causa spirituale) è

l’influsso della volontà sul pensiero e perciò, in modo simultaneo, sulla sensibilità.

Nella misura in cui l’io domina i suoi pensieri, è una certa causa (non assoluta) di

quanto seguirà secondo i processi intellettuali, talvolta imprevedibili, o secondo altre

vie causali naturali. Così, chi decide di studiare, è una causa (parziale) dei buoni

risultati intellettuali del suo studio, nonché delle formalizzazioni cerebrali

conseguenti. Chi decide di attivare i suoi sensi secondo un certo indirizzo, sarà una

causa, sia pure parziale, delle conseguenze psicosomatiche naturali di tali attivazioni.

La causalità volontaria comporta una responsabilità solo quando le conseguenze

sono previste e volute. Chi fa una ricerca e compie una scoperta, è responsabile dei

suoi sforzi intellettuali, ma non della scoperta stessa, la quale dipende da luci

intellettive di cui lui non è il padrone (nessuno capisce semplicemente perché vuole

capire). Chi studia sempre di notte e dorme poco sarà responsabile dei danni fisici che

tale condotta potrà recare alla sua salute.

b) La volontà e i comandi motori

I movimenti intenzionali umani sono sottoposti al dominio della volontà

razionale. Così avviene, ad esempio, nei moti dei nostri occhi quando guardiamo, o

nelle nostre labbra quando parliamo, o nell’impiego delle nostre membra per

muoverci e agire nel mondo. Da questi movimenti volontari seguono in modo naturale

altre modifiche fisiche, sia nel nostro corpo che nel mondo esterno. La volontarietà

arriva ad ogni atto, conseguenza ed opera esterna dove arriva la nostra intenzionalità e

consapevolezza.

Nel n. 3 di questo capitolo avevamo citato la frase dell’Aquinate secondo cui

“l’appetito razionale, denominato volontà, non muove se non attraverso l’appetito

sensitivo”235. Prima vorrei verificare fenomenologicamente la verità di questa tesi. In

235 S. Th., I, q. 20, a. 1, ad 1.

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195

secondo termine farò qualche considerazione sul modo in cui la volontà domina i

nostri comandi cerebrali motori. Dal punto di vista neurologico, la motilità volontaria

nasce da associazioni tra aree corticali e sottocorticali che collegano funzioni

cognitive, emozionali e motorie, sia nell’uomo che nei mammiferi superiori.

b. 1) La volontà muove tramite i sentimenti

Decido di muovere le mie mani e le muovo, pur ignorando i processi

neurofisiologici che mi consentono di dominare il mio corpo. Se l’atto è intenzionale,

dietro la scelta c’è una motivazione, quindi un desiderio volontario. Posso muovere le

mani per salutare un amico: l’affetto fa nascere in me il desiderio di salutarlo, insieme

alla convinzione che un certo movimento gestuale è un’espressione adeguata di

amicizia.

Dove sta, in questo caso, il sentimento come diverso dalla decisione volontaria

motivata dall’amore? Nella sezione precedente abbiamo spiegato come gli affetti

partecipano alla volontà. Vogliamo bene ai nostri amici sia con la volontà che con

sentimenti di amore, dove la volontà e i sentimenti sono integrati in un unico atto.

Tale integrazione è conseguente alla previa unione partecipativa tra

l’intelligenza e la percezione concreta nella comprensione individuale di questo

amico. L’oggetto percepito e amato può essere una persona, una comunità, un valore,

un’istituzione. La percezione umana solitamente è intellettivo/sensitiva. La percezione

può cadere pure su un simbolo, un aspetto, un oggetto immaginato o ricordato (poiché

possiamo arrivare a una persona immaginandola, ascoltando la sua voce, vedendone

una fotografia o semplicemente sentendone pronunciare il nome). A tale percezione

intelligente può seguire l’amore, il quale s’incarna nei sentimenti.

Così, l’integrazione tra la ragione/volontà e le potenze sensitive superiori

comprende l’integrazione della parte spirituale dell’uomo con il nostro corpo elevato.

Ora, un aspetto di tale integrazione è la motricità volontaria. Quando comprendo,

quando amo, quando desidero qualcosa, nel cervello avvengono in modo naturale

alterazioni collegate all’integrazione tra intelletto e percezione, tra volontà e

sentimento, tra sentimento e azione. Quindi, quando i sentimenti includono un’attività

pratica -e tanti sentimenti muovono di per sé all’azione-, allora da essi nascono i

comandi motori volontari (“desidero leggere questo libro →muovo le mie mani per

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196

prenderlo”), ovviamente in connessione con la percezione e con l’autosensibilità. In

un certo senso, muove la percezione emotiva, o muove l’emozione legata alla

percezione.

Il seguente schema sintetizza questi punti:

Alcune scelte scontate possono sembrare prive di un contenuto emotivo, ma non

è così. Se quelle scelte sono impedite, il desiderio implicito si avverte, forse nella

forma di un dispiacere. Se desideriamo prendere un libro dallo scaffale di un armadio

e non ci riusciamo, proviamo ansietà o inquietudine. Perciò, le alterazioni

neurofisiologiche che accompagnano i nostri desideri (ad esempio, quando

desideriamo di arrivare ad un appuntamento e prendiamo un mezzo di trasporto) si

notano più facilmente quando l’affettività conseguente alla scelta aumenta d’intensità

o quando la decisione trova un ostacolo (prendiamo un autobus che rimane bloccato

dal traffico, quindi proviamo paura di arrivare tardi all’appuntamento e cominciamo a

Volontà

Scelta

Sentimenti sensitivi-volontari

Ragione universale

Esperienze concrete

Bene concreto amato Comandi motori

Comportamento Alterazioni neurofisiologiche

Espressività somatica

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197

sentirci fisicamente a disagio).

In quanto abbiamo visto scorgiamo due dimensioni della volontà, una passiva e

un’altra attiva236. La dimensione passiva tradizionalmente è chiamata eros,

manifestandosi come sentimento di attrazione verso un bene che “cattura” la volontà

di amore. La volontà umana è creata e quindi è ricettiva nei confronti di beni che non

possiede per se stessa e che trova fuori di sé, negli altri e massimamente in Dio.

Questa ricettività volontaria, incarnandosi nel “cervello emotivo”, si traduce in una

serie di risonanze sentimentali forti ma “passive”. Il momento attivo della volontà,

invece, è quello in cui l’amore, se è reale e coerente, si orienta al fare, ad un’azione

che avvicina o conferma l’unione dell’amante a ciò che è amato, dove entrano in

gioco sentimenti attivi indirizzati all’azione. L’agape, infatti, comporta un “dare”, o

piuttosto sta nel fatto che la volontà dona se stessa in favore dell’amato (una persona

umana oppure Dio). La donazione dell’amore comporta il passaggio all’operatività

del comportamento, poiché solo nella condotta si dimostra come sta effettivamente la

volontà che ama.

Tra questi due aspetti della volontà e dell’amore, sia sul piano degli affetti che

sul versante comportamentale, ci dev’essere un’armonia. Talvolta possono sorgere

delle tensioni (ad esempio, tra sentimenti spontanei e scelte volontarie) e anche

incoerenze e mancanze di unità nella vita di una persona, per cui l’esigenza di

integrazione rimane e se non è soddisfatta provocherà squilibri.

Ad esempio, una persona può provare rancore o tristezza per qualche motivo.

Mossa però da un amore più alto (l’amore di Dio, il desiderio di rispettare il bene

morale), sottoposto alla riflessione razionale, quella persona potrebbe prendere la

decisione di non portare al piano delle azioni ciò verso cui, invece, tende il suo

orgoglio ferito o il suo rancore persistente. Pur avendo preso tale decisione, non

sempre riuscirà ad eliminare automaticamente i suoi sentimenti contrastanti. Tuttavia,

la persona si esprime sempre meglio in ciò che fa, dopo una scelta, anziché in ciò che

semplicemente sente. Più avanti, i sentimenti potranno riflettere con più forza la verità

del suo amore, poiché la condotta effettiva, se è veramente voluta, riesce a

236 Cfr., su questo punto, l’enciclica Deus caritas est, di Benedetto XVI.

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198

riconfermare la scelta e così a poco a poco si potrà imprimere più intensamente

sull’emotività, promuovendo una maggiore congruenza tra la prassi e l’affettività.

b. 2) Come influisce l’intenzione volontaria sul corpo in moto

La persona muove volontariamente il corpo, come abbiamo visto, tramite i

sentimenti, la percezione e l’immaginazione. In questo modo la persona passa alla

prassi, all’atto umano. Ora, così come l’atto intellettuale è presente in tutta la

percezione intelligente della persona, in modo analogo la scelta volontaria è

immanente a tutto il corpo personale in movimento. Come avviene questa

immanenza?

Compio la scelta di recarmi domani al luogo di un appuntamento. Prima del mio

movimento, la mia scelta rimane nella mia memoria come intenzione. Al momento

opportuno, l’intenzione viene attualizzata, riportata alla coscienza e procede al

compimento operativo. Il movimento deciso inizia in un momento temporale. Al di

sopra di tale inizio, come principio operativo supremo, c’è l’intenzione, la scelta della

volontà comunicata al desiderio di muovermi. La decisione, anche se avviene nel

tempo, non è propriamente un evento di natura temporale. È sopratemporale, come

ogni atto intellettivo/volontario.

Di conseguenza, la scelta non è un antecedente temporale degli atti motori del

corpo. Come abito operativo immanente al desiderio motore cerebralizzato, da cui

nascono i comandi motori, la decisione volontaria presiede tutto lo svolgimento del

processo fisico inerente all’azione. Questo processo può avere molte articolazioni, ma

l’azione umana resta una sola. Tale unità procede dall’intenzione e dal compimento

effettivo dell’intenzione nell’azione.

Mentre cammino verso il luogo dell’appuntamento, non ho bisogno di rinnovare

di continuo la mia scelta, né devo aggiungere nuovi desideri per muovere ogni parte

del sistema motorio del corpo. L’attivazione motoria pone in atto meccanismi

“automatici”, coscienti o meno (non ho bisogno di decidere né di desiderare di

muovere il piede in questa forma precisa, di attraversare questa parte della strada e

non l’altra, ecc.). La decisione e il desiderio conseguente muovono o guidano in un

modo soave, dal di sopra, il sistema motorio (muovere le gambe, salire le scale,

evitare urti, prendere la metropolitana, ecc.), sempre grazie alla mediazione dei

Page 199: Sanguineti - Filosofia Da Mente

199

controlli percettivi. Così si svolgono i nostri movimenti routinari, con le solite

interazioni tra le percezioni (vedere la strada per attraversarla, aspettare il semaforo,

ecc.) e gli automatismi motori abituali, imparati e incorporati nella memoria

procedurale. Eppure non agiamo come dei robot programmati, dal momento che

l’esecuzione fisica è personale, quindi è “formalizzata” attivamente dall’intenzione

volontaria virtuale presente e non revocata nel corpo.

D’altra parte, benché abbiamo insistito sul ruolo motorio dell’emotività

volontaria, non va dimenticato l’intervento continuo della cognizione sensitiva nella

guida dello svolgimento motorio, sin dalla pianificazione dei movimenti a diversi

livelli fino alla loro esecuzione. Gli studi neurofisiologici su questo punto sono noti

(attivazioni corticali e sotto-corticali, ruolo del cervelletto e dei gangli della base). Dal

punto di vista fenomenologico, non solo le sensazioni esterne guidano il moto, ma

anche l’immaginazione e la percezione significativa dell’obiettivo o fine del moto, in

funzione del quale esso viene pianificato. Gli obiettivi dei moti animali sono presenti

a livello di sensibilità, mentre quelli dei moti umani sono anche contemplati dalla

ragione. Ad esempio, se vogliamo arrivare al cancello d’ingresso di un palazzo,

prefissiamo l’obiettivo e, anche inconsciamente, facciamo un piano spaziale e

sequenziale, colto dall’immaginazione anticipatrice. La presenza di questo piano, nel

quale il cancello è percepito come “punto di arrivo desiderato”, presiede lo

svolgimento dei movimenti237. Quando l’atto è volontario, come stavamo dicendo,

l’intenzione sta al primo posto del dinamismo psicosomatico indirizzato al

compimento dell’azione.

L’atto volontario motorio, mentre perdura fino al suo compimento, è un unico

atto integrato, sebbene alcuni dei sui elementi siano separabili. Un saluto, un pranzo,

una conversazione, riuniscono nell’unità di un unico atto personale molteplici

elementi: l’intenzione e la scelta, la comprensione e la percezione, l’amore e altri

sentimenti, i correlati neurali opportuni e il comportamento esterno. Tutto ciò

costituisce un intreccio dinamico unitario, guidato in modo naturale dalla persona in

237 La sola immaginazione di un movimento corporeo comincia già ad attivare le aree neurali motrici, anche senza il proposito di arrivare all’azione. Questo fenomeno dimostra fino a che punto sono associati la cognizione sensitiva concreta e il comportamento motorio.

Page 200: Sanguineti - Filosofia Da Mente

200

azione238.

In definitiva, il comportamento fisico intenzionale e volontario dell’uomo è ciò

che tradizionalmente chiamiamo prassi (prassi umana), la cui unità di base è l’azione

umana o l’atto personale239. In queste ultime pagine abbiamo visto fino a che punto il

cervello e tutto l’organismo sono coinvolti nella prassi. Ci siamo soffermati in

particolare sul modo in cui la volontà, in collegamento con la conoscenza e i

sentimenti, è in grado di muovere il corpo personale. La natura stessa ci offre la

possibilità di agire al di sopra delle sue leggi, non contro di esse. Naturalmente, il

nostro dominio razionale sul corpo non è totale e cambia a seconda dell’età e dello

stato fisiologico e psicologico di ogni persona. Il compito umano è di integrare le

molteplici istanze preoperative della nostra personalità, affinché il nostro

comportamento sia un’espressione della libertà nei suoi atti di cognizione della verità

e di amore trascendente.

9. Condivisione di vita e interazioni intersoggettive

Come conclusione di questo capitolo, vorrei considerare in seguito alcuni aspetti

sul modo in cui la nostra condotta è guidata, e in un certo senso attivata, dalla “mente

degli altri” e non solo dalla nostra “mente” (e viceversa). Questo punto è

fondamentale, ma la sua importanza si può capire soltanto dopo l’esposizione

analitica precedente sulla causalità volontaria motrice. L’argomento ha a che vedere

con la partecipazione empatica e con l’intersoggettività, anzi richiede una previa

considerazione delle modalità in cui le unità viventi possono “vivere insieme” e così

interagire tra loro in maniera vitale. La tematica della condivisione di vita e

dell’interazione intersoggettiva si sta rivelando sempre più importante negli ultimi

tempi. Cominciamo con qualche cenno sul fenomeno della simbiosi.

Tutti i viventi sono fisicamente collegati tra loro in molteplici sensi. Gli

individui della stessa specie condividono la medesima struttura genetica e la

238 Un atto personale, comunque, può essere uno e al contempo composto da altri atti. Così, un pranzo possiede un’unità come prassi umana, ma insieme è costituito da molteplici atti personali (giudizi, scelte, momenti di conversazione, ecc.). Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la molteplicità di composizione degli atti personali. 239 Per una visione analitica dell’azione umana nella prospettiva dell’Aquinate, cfr. S. Brock, Azione e condotta: Tommaso d’Aquino e la teoria dell’azione, Edusc, Roma 2002.

Page 201: Sanguineti - Filosofia Da Mente

201

trasmettono a nuove unità. La loro prassi è unificata dai loro comuni compiti e

inclinazioni. Talvolta mantengono tra loro forme simbiotiche di vita a livello

vegetativo, come si vede ad esempio nei rapporti intrauterini tra madre e figlio non

ancora nato, o nella convivenza di batteri all’interno del nostro intestino. La simbiosi

tra specie diverse è un fenomeno ampiamente conosciuto. Nella simbiosi, due

organismi, pur essendo diversi, sono associati per un periodo di tempo oppure in

modo stabile nella realizzazione di certe funzioni biologiche, spesso con vantaggi

reciproci (“mutualismo”), o almeno di uno di essi (“inquilinismo”), o forse con un

risultato nocivo per uno (“parassitismo”). Nella simbiosi più stretta, un organismo

vive in dipendenza da un altro, come il feto vive dalla madre240.

I viventi intenzionali condividono la propria vita, a loro volta, in parecchi modi.

L’autonomia e individualità propria dei viventi procede di pari passo con la

partecipazione reciproca alla vita altrui. In nessun caso la vita è un fenomeno

puramente individuale. Vivere è convivere. I rapporti intersoggettivi, ovviamente,

possono essere positivi o negativi, cioè possono rappresentare una forma di

condivisione e di collaborazione costruttiva, oppure risultare nocivi per alcuni (come

succede nel caso, peraltro normale negli animali, dell’aggressione e della predazione).

La condivisione della vita sensitiva o intellettiva si manifesta nella capacità di

riconoscere un altro individuo come un certo soggetto interiorizzato e in azione, cioè

comprende le dimensioni cognitive, affettive e comportamentali. Le persone umane,

ma anche alcuni animali a un certo livello, possono riconoscere la sofferenza degli

altri, l’intenzione implicita dei loro movimenti appena iniziati, oppure possono

interpretare bene i loro segni gestuali, facciali o linguistici (sguardi amichevoli,

irritazione, nervosismo, preoccupazione).

La capacità di partecipare in qualche modo all’emotività o ai sentimenti degli

240 Queste forme simbiotiche possono evolvere col tempo in modi molto diversi, anche a seconda delle circostanze ambientali. Se un organismo piccolo vive di un altro più grande, abitando nel suo organismo, si parla di rapporto simbionte/ospite. La simbiosi può avvenire anche in modo separato, come succede, ad esempio, nell’allattamento materno della prole, o quando l’uccello “piviere egiziano” pulisce i denti della bocca spalancata dei coccodrilli, mangiandone gli avanzi. La biologa Lynn Margulis ha ridimensionato i processi evolutivi, rilevando il ruolo della cooperazione e non solo della competizione tra gli organismi: cfr. L. Margulis, D. Sagan, Microcosmo, Mondadori, Milano 1989.

Page 202: Sanguineti - Filosofia Da Mente

202

altri è l’empatia. L’abilità per farsi un’idea delle rappresentazioni, opinioni,

sentimenti e intenzioni degli altri, in unità con la loro condotta, insomma la capacità

di comprendere i loro stati interiori a partire dalla loro condotta, spesso viene indicata

nelle scienze cognitive con l’espressione “avere una teoria della mente”241. Senza

ricorrere alla telepatia, abbiamo spazi di esperienza condivisi con gli altri, grazie ai

quali possiamo comprendere i loro stati psicologici, anzi i loro vissuti. Alcuni soggetti

possono essere specialmente esperti nella “lettura della mente altrui” (mindreading),

mentre altri sono scarsamente empatici (come succede, in modo patologico, negli

autisti). La “lettura della mente” di solito è un fenomeno percettivo di esperienza

acquistata, ma può anche allargarsi ad aspetti inferenziali, nei quali interviene la

mediazione razionale. Gli incontri interpersonali come il dialogo, il lavoro o i giochi

in gruppo, l’apprendimento, ecc., riescono bene quando le capacità empatiche delle

persone sono buone. Tali incontri, peraltro, sono forme di esperienza che favoriscono,

a loro volta, lo sviluppo delle capacità comunicative.

Negli anni ‘80 e ‘90 del Novecento alcuni ricercatori dell’università di Parma

(G. Rizzolatti, L. Fogassi, V. Gallese) scoprirono in certe aree corticali dei macachi

l’attivazione di neuroni legati alla motricità non solo quando gli animali compivano

certe azioni, ma anche quando vedevano un altro fare la stessa azione, e ugualmente

quando sentivano rumori associabili a tale azione (ad esempio, l’azione di strappare

un foglio di carta). Questi neuroni furono chiamati neuroni specchio (mirror). Il

fenomeno si estende anche all’uomo. Lo “specchiarsi”, si è visto ulteriormente, si

produce anche con la visione di sensazioni tattili di altre persone. Nel vedere una

persona colpita da un dolore per un colpo, il soggetto attiva i neuroni del dolore del

proprio cervello corrispondenti alla parte somatica colpita242.

La scoperta dei neuroni-specchio, considerata una delle più importanti degli

241 L’espressione, un po’ debitrice del “mentalismo cartesiano”, viene usata correntemente in contesti cognitivisti. È stata resa famosa dall’articolo di D. Premack, G. Woodruff, Does the Chimpanzee have a “Theory of Mind”?, in “Behavioral and Brain Sciences”, 1 (1978), pp. 515-526. 242 Cfr. G. Rizzolatti, The Mirror Neuron System and Its Function in Humans, in “Anat. Embryol.”, 210 (5-6), (2005), pp. 419-21; V. Gallese, La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività, in A. Ballerini et al., Autismo: L’umanità nascosta, S. Mistura (curatore), Einaudi, Torino 2006; G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, Cortina, Milano 2006.

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203

ultimi anni nel campo neurobiologico, d’una parte rileva la prossimità tra visione,

immaginazione e motricità, ma soprattutto getta un’ampia luce sui processi imitativi e

partecipativi degli animali e dell’uomo. I neuroni mirror costituiscono sicuramente la

base neurale degli eventi empatici e di condivisione della vita psichica. Essi

dimostrano come il proprio corpo sensibilizzato può entrare in risonanza, in un modo

isomorfo, quando osserva fenomeni significativi negli altri, fenomeni cioè non

puramente fisici, né puramente psichici, bensì psicosomatici. Si apre così un orizzonte

alla comprensione di certi rapporti intersoggettivi di condivisione che stanno alla base

di tante altre interazioni profonde tra individui e di partecipazione cognitiva, emotiva

e comportamentale nelle attività dei gruppi. Questi fenomeni appartengono

all’esperienza intersoggettiva e sociale e danno ragione della “teoria della mente” di

cui parlavamo sopra, senza obbligarci a pensare in modo antropomorfico che il

partecipante alla vita psichica altrui abbia necessità di costruirsi “una teoria” sullo

stato della coscienza dell’altro. Il fenomeno è piuttosto vissuto, anche a livello

preconscio.

La partecipazione al vissuto degli altri -l’empatia dei fenomenologi- è diversa in

ogni specie animale. Nell’uomo appartiene al livello spirituale della persona, dove il

punto nucleare è la capacità di riconoscere negli altri un io, un soggetto personale

indipendente da noi stessi, col quale possiamo identificarci intellettualmente e

affettivamente, con la possibilità di condividere tanti aspetti della propria vita:

amicizia, famiglia, lavoro. Se “vivere è convivere”, come dicevamo sopra, adesso si

può aggiungere: sul piano intenzionale, vivere è condividere.

Questa capacità è collegata alla de-centralizzazione dell’io, vale a dire, alla

facilità con cui una persona è in grado di stabilire il suo centro all’infuori di se stessa

o delle sue utilità, ad esempio, in un bene comune condiviso da molti, o in rapporto

agli interessi degli altri in quanto oggetto del suo amore, della sua solidarietà o della

sua collaborazione. La persona trascende se stessa quando sa percepire le cose dal

punto di vista degli interessi di un altro, o quando sa condividere l’attenzione con altri

soggetti in relazione a un certo oggetto intenzionale: un argomento di studio, un

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204

valore condiviso, un compito comune243.

La condivisione di spazi intenzionali ha il suo risvolto nello sviluppo prenatale e

nei primi anni dell’infanzia, specialmente quando si segue il rapporto tra la madre e il

bambino, un rapporto prima simbiotico-vegetativo (ma anche sensitivo), più tardi

quasi simbiotico in un senso affettivo e intellettuale244. Solo così si può comprendere,

ad esempio, l’apprendimento linguistico, e in questo modo si compie, in definitiva,

l’emergenza dell’io autocosciente nella persona in sviluppo. Nei primi mesi di vita il

bambino, in risposta al sorriso della madre, è in grado di produrre i primi sorrisi.

“A cinque-otto settimane il bambino imita l’apertura della bocca e la

protrusione della lingua soltanto se compiute da un essere umano e non da

un oggetto che assomiglia un essere umano (...) A cinque mesi i bambini

sono capaci di distinguere differenti espressioni di emozioni da parte dei

suoi partner comunicativi”245.

L’accesso cognitivo/emotivo e comportamentale alla realtà è mediatizzato in

questo periodo della vita dal modello dato dagli adulti, tra i quali il ruolo materno è

preferenziale nei momenti molto iniziali dello sviluppo. Il modello viene incorporato

nell’imitazione, in quanto è significativo, stimolante e personalizzato. Ancora il testo

citato:

“Nella prima metà del primo anno di vita si sviluppa anche il fenomeno

chiamato joint visual attention: il bambino segue la direzione dello sguardo

della mamma per guardare la stessa cosa cui sta guardando la mamma;

inoltre il bambino guarda dove la mamma indica e indica la cosa che vuole

sia guardata dalla mamma. In breve, a questa età bambino e mamma

condividono lo stesso fuoco di attenzione”246.

Questo punto coincide con quanto dicevamo sui neuroni mirror come base

243 Tradizionalmente questi fenomeni furono considerati quasi esclusivamente dal punto di vista morale o spirituale, ad esempio parlando della carità o della comunione di vita. Risulta significativo vederli adesso al centro della ricerca cognitiva e neurologica. 244 Cfr. A. Antonietti, Come i bambini colgono la mente, in L. Lenzi (curatore), Neurofisiologia e teorie della mente, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 83-116. 245 Ibid., p. 88. 246 Ibid., p. 89.

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205

dell’imitazione e della co-attività tra soggetti diversi unificati in compiti intenzionali.

Bambino e madre condividono in questo caso lo stesso campo attenzionale e

intenzionale. Una manifestazione più evoluta di questa capacità di sintonizzare con gli

altri si verifica quando i bambini capiscono esplicitamente il fenomeno

dell’imitazione. Questo punto si vede nei giochi di finzione, nei quali i bambini

imparano ad assumere i ruoli degli altri e sono capaci di attribuire un valore

intenzionale fittizio a bambole e ad altri giocattoli, con discernimento tra la finzione e

la realtà247. Ovviamente la finzione introduce il rischio della separazione dalla realtà e

della sua manipolazione (come avviene in certi video-giochi), potendo in questo senso

ledere il senso della realtà, se il gioco non viene impiegato con moderazione.

A livello adulto, la comprensione empatica degli altri interagisce con la capacità

di analisi e di razionalizzazione delle situazioni altrui. Così entra in gioco

l’oggettivazione dell’altro, impiegata normalmente nelle mediazioni sociali e nel

campo scientifico. Ma il pensiero astratto esiste, in definitiva, in funzione della

conoscenza vissuta o di esperienza. La vita umana è destinata ad essere co-vissuta nei

rapporti interpersonali, soprattutto nella relazione con Dio, verso il quale tende la

persona nel suo nucleo più profondo.

Comprendere la “mente” degli altri per condividere la loro vita dovrebbe dirsi

piuttosto giungere al loro cuore, radice delle loro intenzioni, scelte e motivazioni più

profonde. Non ci si arriva tramite i metodi oggettivanti delle scienze, ma soltanto

nella partecipazione di vita, quando l’io può diventare un noi. Da qui seguono una

serie di conseguenze relative all’interazione tra gli uomini, un tema molto ampio,

impossibile da affrontare in queste pagine. Il fondamento dell’interazione personale

sta tuttavia nelle premesse indicate in quest’ultimo paragrafo. L’uomo non agisce

quasi mai da solo, ma insieme o in rapporto agli altri.

247 Cfr. ibid., pp. 92-95.

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206

Capitolo 5

L’intelligenza animale

1. Approssimazione epistemologica e storica

Dedicheremo adesso alcune pagine alla questione dell’intelligenza animale248.

Nel quadro delle ricerche delle scienze cognitive, lo studio della “mente animale”

occupa un luogo particolare, con molti legami con la psicologia cognitiva. Una

tematica tipica della filosofia della mente è il rapporto tra l’intelligenza umana,

l’intelligenza artificiale e l’intelligenza animale. Ciascuno di questi ambiti può dar

luce agli altri seguendo un metodo comparativo. Gli animali hanno una sorprendente

dimensione psichica, trascurata dall’approccio puramente fisiologico della zoologia

tradizionale. Dal nostro studio precedente facilmente si evince la prospettiva in cui si

colloca questo campo di ricerca della filosofia e della scienza della mente. Le capacità

cognitive superiori degli animali dimostrano un dinamismo dell’esperienza non

sempre facile da distinguere da forme elementari dell’intelligenza umana, con risposte

teleologiche e comunicative e notevoli abilità nella ricerca di mezzi opportuni per la

difesa o per l’acquisizione di un bene, perfino con una certa “creatività”. Esiste inoltre

una capacità linguistica animale. Esaminiamo dunque questi aspetti e cerchiamo di

arrivare ad alcune conclusioni, anche per poter così valutare meglio la potenza della

mente umana.

Nelle culture tradizionali l’uomo era in contatto diretto con gli animali. Alcuni

convivevano con lui e spesso erano utili nel lavoro o nella guerra. Alcuni venivano

allevati per l’alimentazione o erano oggetto da caccia, mentre gli animali selvatici

costituivano con frequenza un pericolo da cui l’uomo cercava di difendersi. Nelle

antiche religioni certi animali venivano talvolta sacralizzati, oppure erano destinati ai

sacrifici come manifestazione di culto a Dio.

248 Cfr., sul tema, D. R. Griffin, Menti animali, cit.; J. L. Gould, C. G. Gould, The Animal Mind, cit.; J. Vauclair, L’intelligence de l’animal, cit.; M. Manzanedo, La cogitativa del hombre y la inteligencia de los animales, “Angelicum”, 67 (1990), pp. 329-363.

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207

Nella Sacra Scrittura gli animali appaiono in alcune di queste prospettive, senza

essere mai oggetto d’idolatria. Nella Genesi l’uomo si trova in una speciale situazione

di solidarietà con essi (Adamo deve imporli un nome249; le specie animali sono salvate

dal diluvio nell’arca di Noè). Nel libro di Giobbe e nei libri sapienziali molti animali

destano meraviglia all’uomo e sono motivo di contemplazione della potenza creatrice

di Dio250. Talvolta le abilità animali sono occasione per trovare dei paragoni e

insegnamenti morali (la figura delle pecore del buon pastore nel Vangelo, la colomba

come simbolo dello Spirito Santo). In una linea analoga, seppure molto diversa nel

suo contesto di fondo, si trovano le antiche favole in cui gli animali sono protagonisti

e vengono visti in un modo antropomorfico, un po’ come oggi si fa nei cartoni

animati.

In Aristotele emerge un atteggiamento scientifico (fisiologico e psicologico) nei

confronti degli animali251. Aristotele e la sua tradizione riconobbero in essi una vera

vita cognitiva e tendenziale, con svariate emozioni e con un’intelligenza pratica

istintiva. L’uomo è anche un animale, ma dotato di ragione, per cui supera

completamente il regno zoologico.

Con l’impostazione di Cartesio e della fisiologia moderna, gli animali verranno

analizzati secondo principi fisiologici, in certi casi come se fossero “macchine

deterministiche” senza sensibilità, la quale apparterrebbe alla coscienza e quindi solo

all’anima, ritenuta esclusiva dell’uomo. Nel razionalismo, il controllo scientifico della

natura dovrebbe anche implicare un dominio assoluto dell’uomo sugli animali.

D’altra parte, nei secoli XIX e XX l’industrializzazione e l’urbanizzazione

allontanano l’uomo dalla convivenza con gli animali e molte specie rischiano

l’estinzione o si estinguono. Il lavoro animale come fonte di energia (cavalli, buoi)

diventa ormai superfluo. Resta importante, comunque, l’allevamento per la

produzione alimentare e la presenza di animali domestici come oggetto di ricreazione

e di compagnia o per la sicurezza. Cresce invece la curiosità scientifica e popolare

verso gli animali (si pensi alla creazione degli zoo), mentre nel Novecento

249 Cfr. Gn 2, 19 ss. 250 Cfr. Gb capp. 39-41. 251 Cfr. De Generatione Animalium, De Partibus Animalium, De Motu Animalium.

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208

cominciano a moltiplicarsi i movimenti animalisti in un contesto ecologico, con

risvolti anche ideologici, nei quali si perde talvolta la nozione di persona umana.

L’approccio scientifico verso gli animali segnò un salto con Darwin. Oltre la

visione puramente tipologica statica, gli animali furono considerati nel darwinismo

sotto il profilo dell’evoluzione delle specie, seguendo pure un metodo naturalista

psicologico comparato, nel quale si delineava una visione continuista tra le facoltà

“mentali” degli animali, perfino in paragone con la specie umana.

Contro l’eccessivo antropomorfismo di tale approccio reagì la linea

comportamentista. Nel comportamentismo iniziale (Pavlov, Watson), l’attività

animale non veniva spiegata secondo facoltà psichiche superiori, ma solo tramite la

meccanica dei riflessi condizionati. La ricerca si concentrò sull’apprendimento in base

a questi riflessi. Tale fenomeno si riduce a un apprendimento associativo, sia positivo

(stimolante) che negativo (inibitorio), come abbiamo detto nel capitolo 4. Secondo la

visione etologica posteriore, la percezione dello stimolo condizionato è uno

scatenante o pista iniziale (cue, in inglese), contingente e imparata per esperienza (un

odore, un colore, un segnale). La spinta suscita una risposta istintiva verso la quale

l’animale è predisposto, con l’attuazione di determinati riflessi (nutritivi, sessuali,

aggressivi, ecc.).

Dinanzi a questa forma elementare di superamento della pura presentazione

degli stimoli naturali già si avverte la povertà del nostro linguaggio psicologico

applicato agli animali. Infatti, quando vediamo un cane agitarsi e prepararsi per

mangiare non appena egli vede certi cenni del padrone a una certa ora, o quando sente

un campanello (se è stato dovutamente condizionato), siamo tentati di dire che

“l’animale sa che il cibo sta per arrivare”, o che “comprende certi segni”. Veramente

egli non sa nulla, ma la sua capacità percettiva è associativa, includendo una memoria,

per cui il cane è in grado di recepire la mediazione di certi segni concreti che possono

guidare la sua condotta al di là delle presentazioni sensoriali immediate e naturali.

Grazie a questa potenza cognitiva egli può imparare, sia pure con molti limiti, ciò che

è utile o nocivo alla sua vita. È questa la prima forma di ciò che potremmo chiamare

“intelligenza animale”.

Page 209: Sanguineti - Filosofia Da Mente

209

Il condizionamento strumentale252, studiato dal comportamentismo più maturo

(Skinner), suppone un’estensione dell’intelligenza pratica. Adesso si vede come gli

animali possono imparare, spontaneamente o guidati, a compiere certe azioni da cui

segue un beneficio per loro (ad esempio, premere una leva per ottenere alimento, o

eseguire una serie articolata di atti). Questo modo di imparare è collegato

all’esperienza in cui si opera secondo prove e correzioni di errori, dove alla fine si

stabiliscono sequenze consolidate di azioni destinate a un fine utile, nel quadro della

condotta intenzionale istintiva.

Il comportamentismo aprì l’orizzonte dell’apprendimento animale. Tuttavia,

come abbiamo già detto, gli animali possono imparare in base a condizionamenti

soltanto ciò che può entrare nei canali degli istinti propri di ogni specie. Ad esempio,

si può insegnare a un topo a premere una leva per ottenere cibo, ma non per evitare

una scossa elettrica, perché il suo modo innato di ottenere cibo è l’uso dei suoi arti

anteriori, mentre per fuggire egli eseguirà movimenti motori come saltare. Questo

fatto costituisce un limite ai condizionamenti. In definitiva, gli animali possono

imparare a compiere atti che concretizzano la loro condotta orientata istintivamente

verso certi fini e già avviata in un certo modo da schemi innati.

Gli etologi (Lorenz, Tinbergen, von Frisch) affrontarono il comportamento

animale in una prospettiva più ampia del comportamentismo. Studiarono numerose

specie osservando la condotta dell’animale non solo in laboratorio, ma nel suo habitat

naturale. Uno dei punti centrali di questi studi fu l’unità tra istinto e apprendimento,

due elementi da non contrapporre. Il comportamento istintivo innato, a base genetica,

include una serie di capacità cognitive, di reazioni emotive e di manifestazioni di una

condotta esterna stereotipata. Possiede, inoltre, una flessibilità e una capacità di

adattamento a certe variabili ambientali, tali da promuovere un vero apprendimento,

spesso guidato dai progenitori nei primi momenti della vita.

Il carattere istintivo della condotta animale non esclude la dimensione cognitiva,

poiché una condotta istintiva non è necessariamente automatica e inconscia. Gli istinti

di aver cura della prole, di difendersi da attacchi, di cercare la preda, di

252 Cfr. il nostro capitolo 4, n. 2.

Page 210: Sanguineti - Filosofia Da Mente

210

accoppiamento sessuale, includono elementi cognitivi ed emotivi che entrano in

rapporto con l’ambiente in un modo flessibile. Questo fenomeno ha un versante

neurologico, dal momento che l’apprendimento suppone la creazione di una

configurazione di circuiti nervosi che poi rimangono come memoria procedurale.

Il fatto che, come conseguenza di quanto detto, l’animale sia portato a compiere

azioni teleologiche dove egli è capace di riconoscere elementi utili (oppure nocivi), fa

pensare a un comportamento “intelligente”. Ciò che sembra intelligente nell’animale

non è tanto quanto realizza sempre nello stesso modo, per quanto sia meraviglioso (ad

esempio, l’organizzazione sociale e il lavoro delle api), bensì piuttosto quanto fa

perché lo ha imparato “per proprio conto”, oppure come reazione utile e talvolta

sorprendente in una situazione inattesa, come la gorilla femmina (Binti Jua) che, nello

zoo di Chicago nel 1996, condusse alla porta un bambino umano caduto nella gabbia

affinché il guardiano potesse ricuperarlo.

La psicologia cognitiva riconobbe ancor più chiaramente la presenza di

elementi cognitivi dinamici negli animali (rappresentazioni, “mappe” per orientarsi),

utili per la risoluzione di problemi nuovi. Gli animali avrebbero delle

“rappresentazioni” di un ambiente o di un territorio, grazie ai quali possono progettare

strategie, valutare distanze, muoversi seguendo i percorsi più brevi, scoprire oggetti

occulti e comunicare ad altri queste informazioni a effetti pratici.

A questo punto alcuni autori non hanno avuto difficoltà nell’attribuire agli

animali intelligenza, consapevolezza, una certa capacità di generalizzazione, perfino

riflessione e forme di ragionamento pratico. Di conseguenza, la distinzione essenziale

tra l’uomo e gli animali s’indebolisce. Di fronte a questo panorama scientifico,

sembra importante cercare di chiarificare il senso in cui usiamo il linguaggio

cognitivo e affettivo quando lo applichiamo agli animali. Bisogna insomma superare

la crisi antropologica che viene a crearsi quando non si sa più distinguere tra

l’intelligenza umana e l’intelligenza animale se non per motivi accidentali ricondotti a

un semplice sviluppo graduale cerebrale o sociale.

2. In che senso parliamo di intelligenza animale

Gli studiosi della vita degli animali spesso oscillano tra l’antropomorfismo,

quando assegnano ad essi troppo facilmente la facoltà di pensiero, e il riduzionismo,

Page 211: Sanguineti - Filosofia Da Mente

211

quando concepiscono la loro mente come una sorta di computer programmato.

Normalmente, come abbiamo accennato, siamo portati a riconoscere negli animali una

certa intelligenza quando essi manifestano una capacità di risposta creativa, ad

esempio per risolvere nuovi problemi. Nel cognitivismo l’intelligenza è stata vista

spesso come la capacità di risolvere problemi (problem solving).

Bisogna però stare attenti all’interpretazione che diamo di una presunta condotta

intelligente. È facile oscurare i contesti, omettere dettagli, proponendo così

descrizioni devianti, come sarebbe pensare che, per il fatto che una scimmia o un cane

manifestino con gesti il loro desiderio di uscire di casa, ci starebbero “dicendo” che

“vogliono” uscire a fare una passeggiata. Analogamente, potremmo credere che gli

animali compiano dei ragionamenti che in realtà sono nostri, o che abbiano dei

concetti solo perché riconoscono categorie di oggetti, come la capacità di distinguere

tra gatti, uccelli, uomini o altre specie.

La questione dell’intelligenza degli animali va incorniciata nel loro tipo di vita

sensitiva, nell’insieme delle loro facoltà di immaginare, ricordare, associare,

comunicare, nonché nelle loro inclinazioni specifiche. Queste capacità si realizzano

diversamente nelle specie e nei singoli gruppi o individui, spesso in funzione

dell’ambiente circostante.

Per capire il fenomeno dell’intelligenza animale occorre non dimenticare

l’importanza della finalità nel mondo della vita. Una determinata finalità presente in

una specie zoologica è collegata a forme di struttura anatomica e funzionale. Queste

forme vanno capite in interazione con l’ambiente, con altri specie, oppure in rapporto

a individui della stessa specie. Le attività degli animali sono spesso coordinate spazio-

temporalmente o causalmente secondo rapporti di strumentalità, di utilità e di finalità.

La vita organica, anche prima della vita animale, esibisce una forma di “intelligenza

immanente” che già stupiva gli antichi e che non di rado forniva loro la base di teorie

vitalistiche, oppure costituiva, più giustamente, il nucleo dell’argomentazione che a

partire dall’ordine “intelligente” della natura risaliva all’esistenza di una Intelligenza

superiore creatrice. Parlare di intelligenza animale vuol dire, quindi, riproporre la

tematica della finalità nella natura. Il comportamento intelligente è appunto quello in

cui si dimostra che si agisce in funzione di fini e chi si gestiscono mezzi, con una

certa variabilità, puntando ad essi.

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212

La prassi dei viventi è teleologica. La prassi animale si confronta con le finalità

della vita istintiva (caccia, difesa, costruzione di tane, di nidi) in una maniera

cognitiva ed emotiva, senza l’automaticità di una macchina. Il finalismo delle

macchine è estrinseco. Il finalismo animale è immanente e non è completamente

automatico, poiché è controllato, entro certi margini, dalla coscienza dell’animale e

dalle sue capacità associative.

Ciò che ci sorprende come intelligente negli animali è duplice253:

1. Livello di specie. Gli animali possiedono meccanismi innati di origine

genetica in base ai quali realizzano operazioni molto complesse, come vedremo più

avanti. Talvolta esibiscono un’incredibile organizzazione sociale, come accade nelle

api, nelle quali alcune categorie sono dotate di proprietà anatomiche deputate a

determinate funzioni (nell’uomo un fenomeno analogo si osserva nelle differenze di

sesso). Queste caratteristiche hanno fatto pensare talvolta all’esistenza di una sorta di

intelligenza della specie come un tutto, responsabile della distribuzione di proprietà e

relazioni più particolari nelle “membra” della società animale.

Il relativo antifinalismo del principio di selezione naturale di Darwin smorzò

alquanto la tesi dell’intelligenza immanente della vita, introducendo un meccanismo

“cieco” che comporterebbe vantaggi per certe specie e sarebbe la causa dei loro

“progressi” nei confronti di altre specie. La meraviglia della costruzione degli alveari,

nelle api, sarebbe il frutto della selezione naturale a livello genetico. Non bisogna

pensare, tuttavia, che la selezione naturale sia incompatibile con l’intenzionalità della

vita animale, anche se molti aspetti al riguardo ci sono ignoti. I comportamenti

“programmati” delle api o dei castori che costruiscono dighe a protezione delle loro

tane sono incorporati nella loro memoria innata grazie a circuiti cerebrali prefissi.

Siamo di fronte a una spontaneità intelligente offerta dalla natura, a base genetica,

presumibilmente acquisita tramite la selezione naturale e gli altri fattori che portarono

all’origine della specie.

2. Livello individuale. Il comportamento istintivo più alto offre sempre più spazi

253 Uso qui il termine intelligente in un senso analogico. Nel corso di questo capitolo verrà precisato il modo in cui andrebbe interpretata l’intelligenza animale.

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213

indeterminati e meno rigidi, spazi aperti alla relativa creatività dell’individuo e forse

anche del gruppo, costretto ad imparare e ad usare le facoltà superiori in un modo

utile, anzi obbligato a risolvere i problemi che possono nascere in un ambiente

avverso.

Una variazione ambientale, in questo senso, può provocare la nascita di una

nuova associazione cognitiva utile, sulla base di abilità acquisite o di potenzialità

istintive latenti. Negli anni ‘30 del secolo scorso alcuni uccelli in Inghilterra

impararono ad aprire le bottiglie di latte distribuite a domicilio. Essi sapevano già

rompere col becco alcune cose. Un nuovo contesto, una nuova opportunità, portò

questi animali a imparare qualcosa di nuovo, ma ovviamente non per il fatto di aver

pensato in modo astratto che “queste bottiglie si possono aprire e così riusciremo a

ottenere del latte”254.

Lo scimpanzé di Köhler degli inizi del Novecento costituì un caso famoso di

intelligenza animale. La scimmia, vedendo del cibo dalla finestra, sapeva uscire di

casa e andare a prenderlo, cioè sapeva muoversi in uno spazio alla ricerca di un

obiettivo. È molto citata la scoperta di Köhler del modo in cui uno scimpanzé trovò il

modo di raggiungere il cibo lontano unendo due bastoni o sovrapponendo scatole per

arrampicarvisi e così poter prendere l’oggetto desiderato. Lo studioso tedesco parlò di

una certa intuizione intelligente (Einsicht) dell’animale nel momento in cui scoprì la

nuova possibilità. Questa esperienza va meglio contestualizzata. L’animale era stato

allenato per lungo tempo nel compito di ricerca di alimenti difficili da raggiungere in

base a certe sue qualità innate, come l’abilità di manipolare bastoni anche senza

scopo, o di salire su banchi e saltare per giocare. In tale contesto, risultava più facile

trovare per caso una certa soluzione di un problema concreto. Tuttavia, la scimmia

non sa trarre profitto della sua scoperta per proseguire nella stessa linea in modo

sistematico.

L’esempio riportato è un caso di associazione intelligente, vale a dire

254 Nelle pagine seguenti proporrò alcuni esempi significativi di comportamento animale intenzionale, ben conosciuti dagli etologi. Benché la menzione di questi casi possa sembrare estranea allo stile filosofico di questo libro, la ritengo indispensabile per rendere più concreta l’esposizione. Essi sono la base empirica per l’interpretazione filosofica dell’intelligenza animale.

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214

un’associazione che serve a uno scopo, anche se è scoperta per caso o nel quadro di

un ambiente che offre delle opportunità a coloro che possiedono già certe abilità

innate o acquisite. Così gli animali possono scoprire o imparare delle strategie utili in

base alla loro esperienza e non tramite ragionamenti astratti. Talvolta gli “scopritori”

possono essere imitati da altri individui. Nel 1953, in un’isola del Giappone fu

osservato un macaco che aveva imparato a lavare con l’acqua le patate piene di sabbia

che doveva mangiare, abitudine che lentamente passò per imitazione ad altri macachi

della regione.

In modo simile, gli scimpanzé, considerate le scimmie antropomorfe più

intelligenti, sanno preparare ramoscelli appositi e usarli per prelevare termiti dai loro

nidi, non raggiungibili con le loro mani. L’intelligenza associativa è riuscita in questo

caso a fabbricare un utensile destinato alla caccia. Il contesto favorevole a questa

scoperta è collegato all’abitudine di queste scimmie di manipolare cose per gioco (ad

esempio, in laboratorio, esse cercano di infilare delle matite nelle prese di elettricità).

In termini generali, la prassi intelligente animale si manifesta nei seguenti

campi:

1. Quando si presentano delle difficoltà, l’animale talvolta riesce a risolvere un

problema in un modo non previsto nei dettagli a livello di specie, per esempio nella

predazione o nella difesa contro predatori. Così, alcuni animali “sanno” uccidere le

loro prede immergendo in acqua per un tempo la testa delle vittime.

2. Nell’elaborazione di utensili tecnici o nella costruzione di nidi o tane. I

castori non soltanto costruiscono dighe, ma sanno anche ripararle, come se fossero

“piccoli ingegneri”.

3. Nella comunicazione attraverso segnali (linguaggio animale) in funzione di

rapporti animali “sociali”: cooperazione di gruppo, rapporti con compagni sessuali o

con aggressori, concorrenza con rivali. Talvolta gli animali intendono ingannare a

scopo di difesa o di attacco: creano false piste, sanno dissimulare le loro intenzioni, si

fingono morti per evitare di essere divorati. Alcuni canti animali hanno precisi scopi

comunicativi. Alcuni passeri decorano i loro nidi per attrarre le femmine.

4. Nei rapporti sociali alcuni animali usano una forma di “intelligenza

Page 215: Sanguineti - Filosofia Da Mente

215

emozionale”. Ad esempio, un cane o un gatto possono cercare l’amicizia con un uomo

perché “intuiscono” così la possibilità di trovare alimento e protezione. Quando ci

sono gerarchie sociali (individui dominanti, subordinati), gli animali ne tengono conto

e reagiscono diversamente nei confronti di ciascuno, anche con astuzia. Alcuni

animali soffrono molto con la morte di padroni o compagni. Verso la fine del 2005 in

Francia un cane sfigurò la faccia della sua padrona che aveva preso barbiturici per

suicidarsi, con la finalità -riuscita- di svegliarla255.

La creazione di luoghi di riparo o di custodia della prole, la fabbricazione di

utensili elementari, l’elaborazione di un certo linguaggio, anche con canti e “danze”, e

in alcuni casi la formazione di una sorta di “struttura sociale”, oppure la creazione di

strategie di predazione, di attacco o di viaggi migratori, indicano che negli animali,

specialmente in quelli che consideriamo superiori (mammiferi, tra cui specialmente i

primati, ma d’altra parte pure gli insetti), si viene a creare come un cenno di cultura

che preannuncia in qualche modo le creazioni culturali umane. Si trovano pure

variazioni di questi cenni culturali a seconda della regione geografica dove vengono

sviluppati. In alcuni casi, come accade negli animali domestici, le specie e gli

individui imparano ad adattarsi agli ambienti umani -ad esempio ambienti urbani- e

sono in grado di acquisire, se addomesticati, modi di comportamento imparati dagli

uomini256.

La variabilità funzionale e adattativa delle risposte animali intelligenti dimostra

una particolare plasticità nervosa e, naturalmente, va di pari passo con un’adeguata

base neurale, visto che le facoltà animali superiori, come abbiamo detto nei capitoli

precedenti, trovano nel cervello il loro organo come causa materiale. Pur vedendo che

gli animali dimostrano in generale una crescita delle loro capacità cognitive sin dalle

specie elementari fino a quelle più complesse, la linea di questa crescita non va presa

in un senso troppo univoco. Piuttosto ci sono linee di intelligenza, nelle quali le

255 Il cane venne ucciso, mentre la donna si è resa famosa per aver ricomposto la sua faccia con un trapianto facciale. 256 Agli inizi del Novecento, il famoso cavallo chiamato “l’intelligente Hans”, in Germania, sembrava rispondere bene, con numeri precisi di colpi delle zampe, a domande su operazioni aritmetiche come la somma o la moltiplicazione. Poi si scoprì che questo cavallo avvertiva i movimenti involontari del padrone che denotavano il momento critico in cui doveva smettere di dare i colpi. Questo caso dimostra la straordinaria capacità comunicativa che può sviluppare un animale in rapporto all’uomo o ad altri animali.

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216

singole specie sviluppano alcune caratteristiche che in altre specie mancano. Gli

insetti, i cani, i primati, non si dispongono in una linea univoca di progresso cognitivo

(gli insetti sociali possiedono un grado elevatissimo di “intelligenza collettiva”,

inesistente nei mammiferi).

D’altronde, gli animali acquistano potenza cognitiva nella misura in cui ciò è

consentito dal loro corpo. Si può crescere in intelligenza pratica in rapporto alla vista,

o all’olfatto, o all’agilità nei movimenti del corpo. Le scimmie, avendo gli arti più

liberi, possono sviluppare abilità intelligenti in rapporto alla presa manuale di oggetti

e alla loro manipolazione. Lo scimpanzé può imparare ad andare in bicicletta o ad

usare la tastiera di un computer. Il cane non può acquisire queste abilità perché non

glielo consente il corpo.

In definitiva, nella vita animale superiore troviamo dei cenni dello stile di vita

intelligente umana, in campi come la cultura, la famiglia, la cura della prole, il lavoro,

il linguaggio, l’edificazione, le associazioni cognitive, la socialità, le gerarchie (tutti

termini che dovremmo mettere tra virgolette). Ciononostante, gli animali non si

separano mai dalle situazioni concrete, non riescono mai ad universalizzare in senso

forte, per giungere all’autentica astrazione. Possono contare fino a un certo punto, ma

non elaborano la nozione astratta di numero, da dove nasce la matematica. Possono

articolare dei simboli, con “pseudo-grammatiche” (specialmente se sono educati

dall’uomo), ma non danno mai il salto ad una vera grammatica universale e astratta,

con l’uso di variabili e regole universali di costruzione di sequenze simboliche.

Gli animali non si ammirano, non conoscono lo stupore, né la conoscenza

speculativa, né il piacere di conoscere per conoscere, al di là di ogni utilità. Non sono

in grado di ridere probabilmente perché la percezione del ridicolo contiene una

dimensione disinteressata di sorpresa gradevole di fronte a qualcosa di assurdo senza

danno257. Riescono, sì, a giocare, ma non lo fanno come un esercizio consapevole e

guidato da regole astratte. Il loro gioco è piuttosto un esercizio istintivo piacevole e

divertito di capacità animali di vario tipo (ad esempio, alcuni cuccioli “giocano” a

257 Il ridere comporta l’aver intravisto un elemento assurdo e inatteso -non razionale- in ciò che dovrebbe o si aspetterebbe che fosse razionale, senza però un serio danno, o almeno restandogli importanza, e perciò in un modo gradevole. Il ridere comporta quindi una razionalità in senso stretto.

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217

mordersi, senza farlo seriamente).

Da quanto abbiamo visto segue una conseguenza interessante riguardo

all’intelligenza degli ominidi, nel quadro -ancora attraversato da oscurità e da ipotesi-

dell’evoluzione delle scimmie che sbocca nell’homo sapiens. Le osservazioni fatte in

questo capitolo ci hanno portato, infatti, ad ampliare la nostra abituale comprensione

delle capacità cognitive degli animali. Adesso siamo meglio preparati per vedere in

certe abilità tecniche o quasi culturali di alcune specie di ominidi eventuali forme

superiori d’intelligenza animale non necessariamente caratterizzate dall’universalità e

dall’astrazione (quindi gli ominidi non sarebbero veri uomini, ma solo animali).

Negli ominidi osserviamo il dominio del fuoco, la scoperta dell’alimentazione

con cibi cotti, lo sviluppo di una certa industria litica, determinate forme di socialità,

l’uso della sepoltura (ma sappiamo che alcuni animali “piangono” i loro morti e

possono anche seppellirli). Di fronte a queste manifestazioni di una vita intenzionale

elevata, ci si domanda spesso dove starebbe la differenza essenziale con l’uomo, o

quale sarebbe il segno di trovare una specie di ominidi cui possa attribuirsi con

certezza la razionalità spirituale propria della persona umana. Ovviamente questo

problema non esiste per chi si rifiuta di vedere una distinzione essenziale tra uomo e

animale (materialismo).

In risposta a tale quesito, non esiste a mio parere un’operazione singola e

visibile che possa considerarsi come sicuramente razionale, nel senso umano del

termine. Tutto ciò che è visibile, anche se è razionale, può essere sempre frutto di

operazioni legate alla materialità. Questo punto vale per tutto quanto fanno gli

animali, gli ominidi e le macchine informatiche. Per giudicare se siamo di fronte alla

razionalità astratta e spirituale dobbiamo andare al di là (o “all’indietro”) delle singole

operazioni, per dare uno sguardo d’insieme al dinamismo dell’operare razionale.

Questo sguardo si può dirigere verso certe opere della ragione che dimostrano

complessivamente la presenza attiva di un’attività razionale veramente universale.

Concretamente:

* Lo sviluppo delle scienze e delle arti presuppone la realizzazione di

operazioni intellettuali universali. Le scienze sono veramente astratte, si sviluppano

senza posa e in ogni direzione, senza chiudersi in una specialità o in una forma

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218

concreta culturale o storica. Lo stesso vale per le diverse forme di arti e di tecnologie.

* Qualcosa di simile si può dire riguardo alla nascita nella cultura del

linguaggio articolato, regolato da un’autentica grammatica, con norme astratte e

universali. Anzi il linguaggio umano è sicuramente la prima forma di tecnica

razionale astratta ed è la premessa indispensabile che consente la nascita delle

scienze.

* L’apparizione di credenze e attività speculative, non legate a problemi animali

concreti, è un segno di intelligenza universale e di spiritualità. Le religioni, le

cosmovisioni, le narrazioni mitiche, il culto dei morti, lo sviluppo dell’arte destinato

esclusivamente alla contemplazione, sono manifestazioni culturali collegate

certamente a uomini (homo sapiens). Invece le opere tecniche degli ominidi e la loro

socialità non ci permettono di affermare con assoluta chiarezza che essi oltrepassino il

livello degli animali superiori.

* Il progresso in ogni direzione, senza chiusure specialistiche, forse all’inizio

occasionato da eventi casuali ma poi pianificato ed ampliato, è pure un segno di una

potenza intellettuale non incatenata alla materialità. È questo il motivo per cui l’uomo

è capace di inventare ogni tipo di tecniche e di migliorarle all’infinito258. Ed è pure la

causa per cui noi uomini siamo gli unici animali che ci interessiamo a tutte le

intelligenze animali, le quali in un certo senso appaiono come forme frammentarie o

specialistiche di un’intelligenza che nella nostra specie si dimostra invece universale.

L’uomo non è strutturalmente specializzato per compiere nessuna particolare attività o

funzione. Egli acquista molte specialità ma non si esaurisce in esse, poiché le sorpassa

tutte quante.

3. Opere “intelligenti” degli animali

Nel tentativo di offrire un breve quadro d’insieme delle capacità intelligenti

degli animali, mi riferirò in primo luogo al loro ambito comportamentale “razionale”,

per considerare poi alcune delle loro capacità cognitive e, infine, la questione del

linguaggio animale.

258 Cfr. il nostro capitolo 3, n. 1.

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219

1. Ricerca dell’alimento. Gli animali impiegano diverse strategie per la

localizzazione, la selezione, l’approvvigionamento e l’utilizzazione del cibo. Talvolta

devono prendere “decisioni non programmate” in ambienti variabili, o quando

sorgono delle difficoltà. Gli animali hanno in questo senso una sorta di “schema di

ricerca” innato, comunque flessibile riguardo alla varietà di circostanze.

2. Predazione. La ricerca del cibo richiede spesso la caccia di animali che

possono difendersi e che cercano di evitare di essere le vittime di attacchi predatori. Il

comportamento predatorio comporta lo sviluppo dell’intelligenza pratica, sia per il

predatore, che deve localizzare, inseguire e catturare la preda, sia per le vittime, che a

loro volta devono imparare a individuare le minacce dei predatori, sviluppando delle

strategie di difesa, fuga, nascondimento e perfino inganno. In molte specie la

predazione e la difesa contro i predatori si compie in gruppo. Si introduce così una

sorta di “mentalità collettiva” e una forma di “intelligenza sociale”: nascono i ruoli di

guida e di sorveglianza, una divisione dei compiti, la difesa “altruista” della prole. Il

comportamento di ricerca alimentare o di caccia/difesa sviluppa la capacità di

orientamento spaziale o territoriale (ad esempio, con ampie migrazioni), e lo stesso

vale per il nascondimento o l’immagazzinaggio del materiale raccolto (con la

necessità di usare “mappe cognitive”)259.

3. Utensili, strumenti. Molti animali -non solo primati, ma anche uccelli, insetti-

utilizzano elementi trovati nell’ambiente come strumenti per raggiungere qualche

oggetto nella caccia o altro. Si manifesta così una modesta ma significativa

intelligenza tecnica. Talvolta gli utensili vengono preparati in qualche modo. Lo

scimpanzé è in grado di rompere dei rami, togliendo via i rametti secondari e le foglie,

per così infilare l’utensile in un termitaio e poi estrarlo, allo scopo di mangiare le

termiti che vi si sono attaccate. Anche gli uccelli usano tecniche analoghe per ottenere

cibo non direttamente raggiungibile. Alcune ghiandaie verdi del Texas impararono a

usare pezzi di fogli di giornale, collocati nelle loro gabbie, per trascinare del cibo

altrimenti non raggiungibile. Alcuni aironi catturano pesci utilizzando come esca, per

259 Gli uccelli del miele, ad esempio, guidano altri mammiferi, persino l’uomo, fino al posto dove ci sono degli alveari di api, cioè ricorrono a loro per un compito che non sono in grado di fare da soli, e questo soltanto per accontentarsi di mangiare la cera e le larve dopo che l’uomo ha aperto l’alveare e preso il miele.

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220

attrarli, ramoscelli, foglie, piume, insetti, lombrichi, oggetti che lasciano galleggiare

sulla superficie dell’acqua. Ad alcune scimmie piace invece manipolare oggetti per

gioco. Scimmie antropomorfe sono state addestrate per saper utilizzare (in modo

ovviamente limitato) certi oggetti artificiali costruiti dall’uomo, come una chiave, una

bicicletta o i tasti di un computer. Alcuni animali fabbricano trappole per la caccia

(come le ragnatele dei ragni).

4. Architettura. Numerose specie animali sanno costruire rifugi, nidi, tane,

manifestando, come al solito, una certa invarianza nello schema fisso di azione,

insieme ad una variabilità nei dettagli a seconda delle circostanze o dei luoghi

geografici. Spesso sanno riparare ciò che viene distrutto o rovinato. Nel lavoro in

gruppo di costruzione e nell’ impiego delle opere fatte, molti animali esibiscono una

certa intelligenza sociale, con cooperazione, divisione dei compiti, dominanza e

subordinazione.

I casi più sbalorditivi di costruzioni “architettoniche” provengono dagli insetti

sociali. Risulta interessante osservare il modo in cui lavorano, ad esempio, le

formiche operaie. Sono dotate di un’anatomia differenziata, adattata al compimento di

alcune funzioni (cura di uova, raccolta di cibo, difesa della colonia). Le formiche

tessitrici, tra altre abilità, per costruire i nidi piegano delle foglie unendo i bordi, e a

questo scopo si uniscono in gruppi cooperativi per operare sulle foglie, le quali sono

più grandi dei loro corpi. Certe volte eseguono questo lavoro formando catene di

operaie.

Sono notevoli certi formicai di termiti, con camere per la regina, per i “neonati”,

per immagazzinare il cibo e per “coltivarlo” in qualche modo. Gli ambienti interni dei

formicai sono dotati di attrezzi per la ventilazione, la refrigerazione, la difesa, il

rinforzo delle pareti e dei soffitti. L’intelligenza collettiva di questi animali è

sorprendente: ogni individuo esegue il suo compito nel tempo e nello spazio giusto, in

funzione di un “progetto comune” in favore del gruppo. Le abilità individuali sono

usate a beneficio della comunità260.

260 Risultano singolari, per fare un altro esempio, i pergolati costruiti dagli uccelli giardinieri dell’Australia e della Nuova Guinea, che servono ai maschi per attirare le femmine. I

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221

Citerò, per finire questa sezione, il noto esempio dell’ingegneria dei castori

nella costruzione di tane, rifugi sotterranei, cunicoli, canali, laghetti e dighe. Uno

degli obiettivi di questi lavori è la regolazione del livello delle acque dei luoghi dove

abitano, per cui vengono usati materiali come legno, rami o fango (ad esempio, se c’è

un allagamento, il castoro sa praticare uno o più buchi per far scendere il livello

dell’acqua). I castori preparano con cura le loro costruzioni (tagliano la legna,

abbattono un albero, trasportano materiali lungo i canali), le sorvegliano e le riparano,

e sanno reagire alle difficoltà ambientali in un modo flessibile261. Il “ragionamento”

per cui viene collocata una scatola per arrampicarvisi e così raggiungere un oggetto

troppo alto non è esclusivo di alcune scimmie. Anche i castori si comportano in

questo modo:

“Quando qualcosa di edibile veniva collocato fuori portata su una piccola

piattaforma in cima a un palo di un metro, i castori vi ammucchiavano dei

rami su cui poi si arrampicavano per raggiungere il cibo”262.

Questi comportamenti intenzionali non sono semplici o isolati. Sono articolati

intorno a grandi obiettivi da cui derivano un insieme di piccoli compiti svariati,

ciascuno dei quali richiede la messa in pratica di una catena di azioni finalizzate, in

coordinamento con le attività di altri individui e con una proiezione di lunga durata

nel tempo, modificabile o adattabile secondo il cambio di circostanze o di luogo

geografico. Naturalmente, l’animale che agisce seguendo queste strategie non ha “un

piano di azione” nella sua mente, così come l’animale che si accoppia, seguendo vere

inclinazioni e percezioni significative, non “ha in mente” i benefici della riproduzione

pergolati vengono decorati con fiori o altri oggetti, con l’utilizzazione “estetica” di varietà di colori (i maschi dominanti distruggono i pergolati di altri rivali più deboli). 261 D. Griffin, in Menti animali, cit., menziona, ad esempio, il caso di una “ingegnosa risposta a una nuova situazione da parte di due castori confinati in un’area dotata di una piscina di 3,5 × 2,5 metri, in cui il livello dell’acqua, profonda 160 cm, era regolato da un tubo di scarico provvisto di un tappo con tre fori di 8 mm di diametro. Dopo circa due settimane i due castori cominciarono a chiudere questi fori con ‘ramoscelli spellati che erano stati rosicchiati obliquamente alle due estremità e appuntiti in modo da adattarsi perfettamente ai buchi (...) La prestazione venne ripetuta ogni volta che noi, al mattino, rimuovevamo i bastoncini e riportavamo l’acqua della piscina al suo normale livello. Ogni notte, i castori preparavano dei nuovi bastoncini ben calibrati e bloccavano i buchi (...) [Infine] modificarono la loro tecnica: oltre ai bastoncini aggiunsero erba e mucchi di foglie mischiate a fango’ (citazione di un articolo di G. Pilleri, 1983)” (p. 123). 262 Ibid., pp. 122-123.

Page 222: Sanguineti - Filosofia Da Mente

222

per la specie. C’è un livello naturale proprio della specie, geneticamente determinato,

per cui l’animale possiede una dotazione anatomica e fisiologica e certe capacità in

funzione del bene di una comunità, e un livello intenzionale secondo il quale

l’individuo agisce in base a conoscenze ed emozioni, senza però “sapere” di seguire il

piano più alto “previsto” dalla specie. Non bisogna postulare una “mente della specie”

per questo livello naturale. Basta riconoscere la realtà della specie, dove s’include un

ordine intelligibile finalizzato263.

Si potrà dire che quest’ordine è sorto grazie ai meccanismi selettivi della natura.

Possiamo accettarlo. Il risultato comunque non è meno degno di ammirazione. Ciò

significa che la selezione naturale, unita ad altri fattori, è stata in grado di produrre

queste incredibili società di formiche e di api che hanno incorporato un finalismo

immanente alla specie, e così negli altri casi che abbiamo considerato. La metodologia

della selezione naturale dunque dovrebbe essere vista come una modalità causale, di

tipo materiale e non formale, capace di creare in una maniera contingente dinamismi

auto-finalizzati contingenti. Non bisogna postulare una sorta di programma vitale

inerente alla natura evolutiva, né una “mente immanente”. Nella natura presa

complessivamente, insomma, esiste un ordine contingente, non un caos. All’interno di

quest’ordine dinamico, le specie e gli organismi individuali sono autofinalizzati,

servendosi dell’armonia non organica del cosmo e dell’insieme -neppure esso

autofinalizzato- di tutte le specie viventi.

4. Antropologie naturalistiche

Prima di considerare altri aspetti dell’intelligenza animale, vorrei soffermarmi

brevemente sul senso di questi studi etologici, specialmente nei confronti dell’uomo.

Nella misura in cui la vita degli animali si rivela densa dal punto di vista cognitivo,

emozionale e sociale, i paragoni con l’uomo sono sempre più alla portata di mano.

Tuttavia, così come dobbiamo evitare l’antropomorfismo di proiettare sui

comportamenti animali le nostre categorie umane (nei castori potremmo vedere dei

laboriosi ingegneri, idraulici, architetti, fedeli capifamiglia; nelle api e nelle formiche,

263 Neppure l’uomo, quando nasce come maschio o femmina e scopre le sue inclinazioni sessuali, “ha in mente” la divisione sessuale come elemento strutturale al servizio della sua specie. Soltanto con la ragione riflettiamo su questi ordini della natura, naturalmente inconsci per gli individui e che trascendono ampiamente i loro desideri sensitivi.

Page 223: Sanguineti - Filosofia Da Mente

223

modelli politici collettivisti), c’è da evitare altrettanto di concepire l’uomo sul

modello della vita animale istintiva. Il paradigma evoluzionista e genetista porta non

raramente alcuni autori a vedere la vita umana come se non fosse altro che

un’ulteriore forma complessa nel gioco tra istinti e apprendimento selettivo. Già

Darwin iniziò la consuetudine di parlare dell’uomo nella prospettiva di

un’antropologia animale che ignora l’elevazione introdotta dallo spirito nella

dimensione sensitiva umana.

In questa linea si sono collocati J. Monod, B. Skinner, K. Lorenz, E. Wilson, R.

Dawkins e tanti altri. Loren R. Graham264 chiama ampliativisti questi autori, in

contrapposizione agli scienziati restrittivisti. Questi ultimi mantengono la scienza

lontana dai valori o dai significati filosofici (un caso estremo è il positivismo). Gli

ampliativisti, invece, vedono nella scienza -normalmente la biologia- implicazioni

sociali, politiche, antropologiche o etiche, senza la preoccupazione di invadere il

campo della filosofia. Ma questo è il punto problematico. Far passare idee filosofiche

come se fossero scientifiche è ideologia anziché filosofia.

Un caso emblematico in questo senso è rappresentato dalla sociobiologia di E.

O. Wilson265. I suoi studi delle società animali prospettano l’applicazione della teoria

della selezione naturale ai comportamenti sociali animali, determinati da basi

genetiche in interazione con l’ambiente in lunghissimi periodi di tempo. In questa

chiave interpretativa si potrebbero spiegare i comportamenti degli insetti sociali,

presso i quali alcuni individui “si sacrificano” in modo altruistico in favore della

sopravvivenza della specie. La sociobiologia -vincolata alla genetica, all’etologia,

all’ecologia e alla neurobiologia- fornirebbe quindi gli elementi per spiegare

comportamenti collettivi animali come la scelta dei compagni sessuali, l’aggressione,

la territorialità o la divisione del lavoro. Lo stesso schema sarebbe applicabile alla

condotta dell’uomo, offrendo così un fondamento biologico -in definitiva

riduzionistico- dei comportamenti sociali e morali, ad esempio, in rapporto alla

criminalità, alle guerre, al fenomeno del razzismo o alla condotta sessuale.

264 Cfr. L. Graham, Scienza e valori, Armando, Roma 1988. 265 Cfr. le sue opere Sociobiology, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1980; The Insect Societies, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1971; Sociobiology: The New Synthesis, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1975.

Page 224: Sanguineti - Filosofia Da Mente

224

I dibattiti suscitati da questa concezione biologista dell’uomo sono stati

numerosi. I termini delle polemiche di solito sono il ruolo del determinismo genetico

e dell’influsso ambientale o l’estensione delle teorie sugli animali all’uomo.

Fenomeni umani e sociali come il nazionalismo, il celibato, il matrimonio, la carità o

il volontariato vengono così affrontati non nella prospettiva della libertà umana e delle

motivazioni personali o sociali, bensì in un orizzonte animale dove sono determinanti

il ruolo dei geni, i processi selettivi e le pressioni ambientali. Tutto ciò, nella visione

evoluzionistica darwiniana, in definitiva è indirizzato alla preservazione della specie e

al successo riproduttivo. Conta come valore primario ciò che ha più efficacia

adattativa in un ambiente difficile e concorrenziale.

Oggi questa impostazione antropologica naturalistica è di moda. Si impiegano

canoni naturalisti omogenei nello studio delle comunità animali o umane, con

applicazioni alle società primitive, alle etnie o ai fenomeni sociali contemporanei. Il

naturalismo materialista della fine dell’Ottocento sembra aver preso ancora una volta

il sopravvento. I best-seller di questo genere di letteratura scientifica si moltiplicano,

come ai tempi di Darwin.

Gli studi interdisciplinari sulla vita intenzionale degli animali contengono

elementi attendibili, ma molti punti rimangono ancora oscuri e la realtà è troppo

complessa per poterla ridurre a schemi rigidi e unilaterali. Tuttavia, la semplice

trasposizione all’uomo della prospettiva in cui viene inquadrata la vita animale è

fuorviante. Ne consegue un impoverimento dell’antropologia, soprattutto del senso

della libertà e della responsabilità umana. La genetica, anche includendo gli elementi

epigenetici dello sviluppo fisico e sensitivo dell’organismo, non è in grado di spiegare

le complesse motivazioni del comportamento umano nel campo dell’amicizia,

dell’amore umano nelle sue espressioni più alte, della scienza e dell’arte e di tanti altri

aspetti della vita culturale e sociale dell’uomo. Pensare che l’uomo agisca

primordialmente per preservare la specie, per sopravvivere e per avere successo

riproduttivo è una visione molto piatta (e falsa) della vita umana.

Lo sviluppo della razionalità, accanto alla cultura, trasforma la base sensitiva

della nostra personalità in una dimensione elevata al livello della persona umana. Ciò

che è dominante nell’uomo è la razionalità e la volontà, perfino negli individui che

vivono in funzione delle loro inclinazioni sensibili (benessere fisico, piaceri,

Page 225: Sanguineti - Filosofia Da Mente

225

aggressioni). Queste persone non rassomigliano, in rigor dei termini, agli animali.

Tranne eccezioni patologiche, si direbbe piuttosto che la loro razionalità si è messa al

servizio degli strati sensitivi della personalità. Il problema di queste persone non è di

adattamento, come se fossero animali. Il loro problema piuttosto è educativo e morale.

5. Aspetti cognitivi animali

a) Percezione di configurazioni invarianti e tipiche. Razionalità pratica

Gli animali non recepiscono dei semplici sense-data. Essi accolgono autentiche

strutture percettive in continuità spazio-temporale, nella misura in cui diventano

familiarizzati con esse e in rapporto ai loro bisogni sensibili. In base a processi di

condizionamento, l’uomo può insegnarli a percepire cose nuove. Queste percezioni

includono associazioni anche di lungo raggio, in cui si riconoscono rapporti tra segno

e significato, o di tipo causale e strumentale. Ne segue una forma di razionalità

pratica, con l’apparenza di poter compiere perfino dei ragionamenti pratici.

Questi rapporti cognitivi non si realizzano in modo astratto e universale.

Potremmo parlare di “astrazione”, in questi casi, solo in quanto il riconoscimento

percettivo di un pattern associativo viene separato da altre configurazioni o dallo

sfondo percettivo. Così un gatto riconosce la figura di un cane o il “tipo cane” come

diverso da altri tipi di cose. Gli animali possiedono schemi percettivi di parecchie

cose, diversi però dai veri concetti. Non è adeguato chiamare concettuale questo

modo naturale di percepire. La gnoseologia empirista, ovviamente, identifica gli

schemi percettivi con i concetti.

Il riconoscimento animale di tipi (cose, rapporti, azioni), negli individui concreti

e mai in modo separato, è legato a reazioni emotive e a risposte comportamentali. La

percezione selettiva dell’ambiente, insieme ai ricordi di esperienze passate

(apprendimento, condizionamenti acquisiti), può invitare l’animale a ricercare

attivamente un tipo di oggetto, con la possibilità di stabilire paragoni in base alle

“offerte” dell’ambiente. Dopo una fase esplorativa più o meno complessa, la risposta

comportamentale potrà essere una scelta266. Quando la percezione include una serie di

266 Cfr. il nostro capitolo 4, n. 6.

Page 226: Sanguineti - Filosofia Da Mente

226

associazioni già imparate, la risposta pratica dell’animale sembra quasi “sillogistica”.

Detto in modo simbolico: l’animale può imparare che per ottenere A deve avere B, e

che per avere B deve compiere l’atto C.

Alcuni piccioni, ad esempio, sono stati addestrati a riconoscere figure di persone

umane proiettate su uno schermo, diverse tra loro e mescolate tra molte altre. Il

piccione, condizionato in base a premi di cibo, impara a beccare proprio le figure

umane. In altri esperimenti essi riescono a imparare a beccare gruppi di figure uguali

con indipendenza dal loro variabile contenuto. Non è che abbiano acquistato i concetti

astratti di “uguale” o “diverso”, e neppure fanno il ragionamento astratto “se riesco a

beccare le figure uguali, otterrò del cibo”.

La capacità di riconoscere in modo concreto -ma con molti limiti- delle strutture

o rapporti geometrici semplici ci consente di capire in che senso gli animali possono

imparare a contare, vale a dire, a riconoscere numerazioni concrete molto modeste,

secondo i meccanismi sopra indicati. Ad esempio, l’animale può imparare a dare una

risposta selettiva a diversi numeri di oggetti: scegliere una scatola se ha un certo

numero di macchie sul coperchio; beccare tre volte quando vede due punti illuminati.

Analogamente, essi possono riconoscere qualche struttura temporale, ad esempio

possono imparare a compiere un’azione a una determinata ora.

L’associazione imparata può diventare una regola seguita dall’animale in mezzo

a molte variazioni, spesso per ottenere un premio. Non sarebbe giusto dire che così

esso “capirebbe” i principi di identità, di non contraddizione o di inferenza logica, per

quanto riconosca in modo concreto cose simili e diverse anche con indipendenza dal

loro contenuto, sempre però in contesti legati alla sua esperienza e apprendimento.

L’animale non ha un pensiero né logico né “prelogico”, ma agisce semplicemente in

base ad associazioni significative imparate. Solo in questo senso alcuni animali sono

in grado di competere con i bambini in certe fasi degli stadi di Piaget sullo sviluppo

dell’intelligenza nei primi anni di vita.

Negli esperimenti degli etologi, il premio ottenuto come risultato

dell’associazione solitamente è cibo. Ma non in modo esclusivo. Gli animali possono

imparare anche per gioco, o per obbedire ad una figura dominante, come fanno i cani

domestici con l’uomo. Alcuni animali imparano per gioco a imitare certe strutture

Page 227: Sanguineti - Filosofia Da Mente

227

percepite. I delfini possono imitare i movimenti di tartarughe, di pinguini o di uomini.

Ad esempio un delfino, vedendo come una persona pulisce una finestra, può mettersi

a copiare il gesto utilizzando qualsiasi oggetto.

b) Riconoscimenti sociali

Gli animali vivono in un ambiente non meramente fisico, ma sociale e

intersoggettivo, dove sono in gioco la comunicazione e l’interazione con altri soggetti

intraspecifici o extraspecifici. Essi percepiscono facce, espressioni e simboli,

atteggiamenti emotivi e comportamentali, con reazioni emotive e adeguate risposte:

accompagnamento, inseguimento, collaborazione, intrusione, difesa, inganno,

simulazione, obbedienza.

I riconoscimenti individuali più tipici di alcuni animali si riferiscono a rapporti

di parentela e alle gerarchie di dominanza e subordinazione. In molte specie le madri

riconoscono ciascuno dei loro cuccioli e hanno con loro una comunicazione concreta

basata su gesti e grida. Molte riconoscono i cuccioli di altri animali o i loro genitori.

Nei gruppi socializzati -ad esempio, tra le scimmie-, alcuni individui sono dominanti

o perfino capi e altri sono subordinati, con rapporti conseguenti tipici che ci

sorprendono e ci fanno ridere. Gli animali subordinati possono chiedere clemenza,

pace o pietà ai dominanti, i quali invece si possono permettere di dare loro fastidio (ad

esempio, rubarli qualcosa). Tra gli scimpanzé, se viene data una banana a una giovane

scimmia con poca autorità, col tempo essa impara e tenersela nascosta per evitare di

essere derubata, anche con operazioni di depistaggio. Questi “furti” si producono

anche a livello di rapporti sessuali, con casi di “adulterio” e punizioni inflitte dai

dominanti alle scimmie “discole”. Simili atteggiamenti “furbeschi” possono anche

avvenire nel rapporto tra uomo e animale (le scimmie sono più discole dei cani e

normalmente non riescono ad essere completamente addomesticate). Legati a questi

comportamenti, nella vita affettiva animale troviamo, di conseguenza, gelosie, invidie,

vendetta, rancore, amore, concorrenza, umiliazione, furia, protezione, carezze,

sfiducia, tristezza, isolamento, depressione, giovialità.

L’osservazione di questa dimensione sociale, cognitiva e affettiva ci colpisce, in

quanto prefigura comportamenti umani. Vengono così a configurarsi tra i soggetti

atteggiamenti che possono sembrare quasi pre-etici: essi possono ingannare,

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228

disobbedire, piangere, “rubare”, “assassinare” per vendetta. Queste reazioni

corrispondono all’ambito che i classici chiamavano passionale. Si parla, ad esempio,

di altruismo animale. Senz’altro esiste un tipo di altruismo negli animali, diverso

secondo le specie. Il suo valore non è morale, ma piuttosto passionale. Le madri si

sacrificano per i cuccioli; gli animali si manifestano affetto a vicenda e soffrono se

uno di loro è malato o muore; tra essi è frequente il comportamento del grooming,

cioè pulire affettuosamente l’altro. I delfini soccorrono i feriti della loro specie e di

solito aiutano i nuotatori umani in pericolo di affogare, trasportandoli delicatamente

verso la riva.

Per indicare queste dimensioni cognitivo-emotive della vita animale dobbiamo

impiegare una terminologia antropomorfica. D’altronde, come in tutto quanto stiamo

dicendo sulla cognizione, sull’emotività e sul comportamento, questi aspetti

psicologici hanno un versante neurologico vicino a quanto avviene nell’uomo (ad

esempio, la lateralizzazione del linguaggio). L’etologia ci ha fatto scoprire che gli

animali “sono più umani di quanto pensavamo” e che anche noi “abbiamo più

animalità di quanto credevamo”. Ma non dimentichiamo la profonda tesi dei classici:

l’uomo è un animale, sì, ma dotato di una ragione universale. La nostra vita

passionale può essere simile a quella degli animali, ma al contempo è immensamente

più ricca. Inoltre, con la ragione e la libertà siamo in grado di dominare e di orientare

convenientemente le nostre inclinazioni, appetiti ed emozioni. La nostra relativa

vicinanza agli animali, quindi, non dev’essere per noi causa di sconcerto. Piuttosto è

un motivo di stupore che ci porta a conoscere meglio la nostra appartenenza alla

natura e ad essere consapevoli della nostra superiorità per il fatto di essere persone,

capaci di capire la realtà ontologica e di decidere con piena libertà.

c) Coscienza animale

Gli animali hanno coscienza sensibile per il fatto che sentono, godono e

soffrono, quindi sentono se stessi come soggetti sensitivi corporei, così come

riconoscono altri soggetti, al punto di provare affetti per loro o di sentire compassione

nei loro confronti. Alcuni riescono perfino a riconoscere la propria figura riflessa.

Dopo un po’ di esperienza, alcune scimmie antropomorfe (scimpanzé, orangutan,

gorilla) possono riconoscere se stesse nel vedersi in uno specchio. Se ricevono

all’insaputa una macchia sulla fronte, alcune tendono a togliersela via quando la

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229

vedono sullo specchio, e possono usare pure lo specchio per esplorarsi la faccia (la

lingua, la gola, il naso). Tutto questo non significa autocoscienza in senso forte.

L’animale percepisce il proprio corpo, ma non riflette su se stesso come soggetto

esistente. Egli non ha coscienza della sua vita, dei suoi istinti, della sua natura. Non

può “oggettivizzare” se stesso, prendendosi come un tutto per chiamarsi “io”.

6. Comunicazione e linguaggio animale

a) Aspetti generali

Una delle proprietà cognitive più importanti degli animali è la capacità di

comunicazione intenzionale attraverso forme simboliche naturali, le quali in qualche

modo prefigurano il linguaggio umano. Gli animali comunicano tra loro attraverso

grida, gesti, segnali sensitivi (acustici, visivi, odoriferi, tattili), in contesti sociali e in

funzione dei loro fini intenzionali (avvertenze di pericolo, corteggiamento, minacce,

lamenti, richiami, segnali di partenza in gruppo). Tale comunicazione non raggiunge

mai il livello del dialogo, nel senso in cui gli uomini conversano tra loro come un fine

a se stesso. Ma neanche si limita ad essere una semplice espressione emotiva, come le

grida di dolore.

La comunicazione animale è un vero scambio emozionale di messaggi che

contengono un’informazione e hanno fini pratici. Ciò comporta la capacità

dell’animale di “intuire” psicologicamente cosa succede negli altri (la “teoria della

mente” di cui parlavamo prima), ad esempio, di conoscere il loro stato emozionale, o

di prevedere che cosa stiano per fare o come potrebbero reagire. Gli animali possono

scorgere in altri soggetti segni di minaccia, o voler manifestare sottomissione, o fare

richieste, così come un gatto o un cane possono chiedere qualcosa al loro padrone

umano. Come abbiamo detto, in questi messaggi alcuni animali talvolta possono

anche simulare o “voler” ingannare.

Il linguaggio animale è un sistema di segni con valore associativo, attraverso il

quale l’individuo trasmette informazioni ed esprime emozioni, provocando negli

ascoltatori che “capiscono” una reazione emotiva e inducendo in essi delle risposte

comportamentali. Non è un linguaggio umano perché non è un sistema di segni che si

possano combinare liberamente secondo regole universali (grammatica), con

autonomia astratta rispetto a situazioni concrete. Per questo motivo, il linguaggio

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230

animale, sebbene ammetta una notevole flessibilità collegata alle circostanze, non è

creativo all’infinito, cioè non porta il parlante a produrre indefinite combinazioni con

totale arbitrarietà rispetto ai contesti e alle finalità, come succede invece nell’uomo.

Questo fatto non significa che i linguaggi animali siano poveri o costruiti

sempre da pochi segni molto elementari, come si pensava un tempo. Al contrario, la

ricerca dimostra sempre più che i linguaggi animali possono essere molto ricchi e

versatili. I condizionamenti associativi contengono enorme possibilità. Oggi possiamo

spiegarci meglio questo punto grazie allo sviluppo del connessionismo.

I linguaggi animali per lo più sono innati, ma hanno bisogno dell’esperienza e di

una forma di “educazione” (ad esempio, ascolto dei genitori e imitazione) per essere

sviluppati. Gli animali possono anche imparare a comunicare tramite

condizionamenti, come dimostra il fatto che l’uomo può insegnare loro nuove

associazioni significative. Del resto, il linguaggio animale ovviamente ha una base

cerebrale, manifestando pure i fenomeni della lateralizzazione e delle localizzazioni.

In base a quanto abbiamo detto, l’uomo può comunicare con gli animali -cosa

più che ovvia- e in certi casi può insegnare loro un linguaggio “artificiale” adattato

alla loro logica associativa. I risultati più o meno felici di questo insegnamento, come

succede con altre capacità cognitive, sono variabili nei soggetti, nei tempi e nelle

situazioni, per cui di solito vengono misurati dall’uomo con metodi statistici. Ad

esempio, attraverso domande e risposte, si verifica la misura in cui un animale ha

imparato un linguaggio. Risposte corrette in termini di un 70, 80 % sono considerate

un buon risultato. Questo fatto è in sintonia con la natura connessionistica della logica

associativa degli animali.

b) Tipi di comunicazione

Il linguaggio animale è fatto da segni naturali ma anche “arbitrari”, nel senso

che possono crearsi legami significativi lontani dalla loro fonte naturale di origine, sia

nello spazio che nel tempo (quindi separati dall’impressione del momento). La

comunicazione più naturale, cioè più immediata o “prelinguistica”, si stabilisce nei

rapporti gestuali che diventano spontanei nella convivenza. Così la madre, essendo in

un rapporto immediato con i cuccioli, riesce ad “educarli” attraverso semplici

manipolazioni, richiami o gesti che provocano reazioni o inducono comportamenti

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231

imitativi. Può insegnar loro, in questa maniera, a stare attenti, a saper usare bene gli

utensili o a camminare. Molti gesti del corteggiamento sessuale sono pure una forma

immediata di comunicazione.

Il tipo di linguaggio adoperato dalle specie animali dipende dalla loro

costituzione anatomica e neurofisiologica. Insetti, uccelli o mammiferi usano mezzi di

comunicazione molto diversi in questo senso. Il linguaggio animale più simile al

nostro è basato sull’emissione intenzionale di suoni significativi: grida, grugniti, canti

degli uccelli. Le grida di alcune scimmie possono essere degli avvertimenti alle altre,

ad esempio allarmi dinanzi a un pericolo267, o richiami a una certa condotta, come gli

strilli dell’uccello del miele intendono guidare l’uomo verso un alveare. Questi

segnali possono variare a seconda del ruolo sociale (come la madre emette un grido

tipico rivolto ai cuccioli). Certi canti dei galli emessi alla vista di alimenti preferiti

sono in funzione della presenza di femmine (galline). Ciò vuol dire che il tipo di

“pubblico in ascolto” influisce sul linguaggio animale. I pappagalli, come sappiamo,

riescono a imitare in modo sorprendente i suoni umani. Non possono farlo invece le

scimmie, prive di corde vocali, per cui l’uomo insegna ad esse linguaggi artificiali

non acustici.

Nelle api e nelle formiche troviamo una comunicazione simbolica

particolarmente sofisticata. Le danzi delle api, a seconda del loro senso orario o anti-

orario o del loro ritmo, intensità e altri dettagli, provvedono informazione

sull’alimento -distanza, orientamento, qualità-, oppure sul luogo dove si può costruire

un nuovo alveare, e al contempo invitano altre api ad adoperarsi nella ricerca del cibo

o inducono altre risposte. Le informazioni in arrivo sono spesso molteplici. Quindi i

segnali non provocano risposte automatiche, ma danno luogo a processi “decisionali”

del gruppo che impiegano un certo tempo. Le reti di comunicazione degli insetti

sociali mettono in gioco tutte le loro capacità cognitive ed emotive, in un modo così

sorprendente che nemmeno oggi riusciamo a spiegarcelo del tutto.

267 Nei cercopitechi verdi (Africa) sono stati scoperti tre tipi di allarme di fronte ai predatori: uno, alla vista di mammiferi carnivori, induce la risposta di arrampicarsi sugli alberi; un altro, in presenza di aquile pericolose, conduce a trovar rifugio nella vegetazione fitta; un terzo allarme, infine, nei confronti dei serpenti, induce la risposta di rimanere ritti sulle zampe posteriori e di guardare intorno.

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232

c) Linguaggi insegnati agli animali

L’uomo è riuscito ad insegnare ad alcuni animali certi sistemi di simboli per

poter interagire con loro in modo intenzionale, come peraltro si è fatto da sempre in

una maniera più semplice con gli animali domestici. Delfini e leoni marini

impararono così un linguaggio basato su gesti -simili a quelli usati dai sordomuti-

corrispondenti a oggetti, luoghi, posizioni e azioni. Con questo mezzo comunicativo

l’uomo può comandare ed essere obbedito da questi animali. Non sembra giusto

sostenere che così i delfini imparino una sintassi, a meno di non fare un uso ampio del

termine. Essi sono semplicemente in grado di capire il significato di una breve serie

concatenata di segnali che, “tradotta” nella lingua umana, sarebbe come dire ad

esempio “adesso tocca con la coda il tubo che sta alla tua destra”. Sempre in questa

linea, possiamo insegnare a questi animali un vocabolario costituito da “nomi” di

oggetti, da “aggettivi” (ad esempio, nomi di colori) e da “verbi” di azioni. Queste

denominazioni sono antropomorfiche. L’animale non impara una vera grammatica.

Egli impara -benché il fatto sia meraviglioso- una “proto-grammatica” limitata, senza

regole universali e astratte.

Tramite esperimenti durati parecchi anni, si è riusciti a condizionare pappagalli

affinché rispondessero a domande del tipo: “di che colore è questo?”, “quanti oggetti

sono qui?” (fino a un certo numero). Oppure per rispondere a domande su oggetti

simili e diversi: “che cosa c’è in comune in questi oggetti?” (risposta: “il colore”;

oppure: “niente”). O anche per dire “no” in situazioni di rifiuto. Sono note in questo

campo le ricerche di Irene Pepperberg.

Situazioni esperimentali simili sono state preparate con scimmie antropomorfe.

I coniugi Gardner, negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, allenarono durante molti

anni la scimpanzé femmina Washoe a comunicare tramite elementi del linguaggio dei

sordomuti. L’animale poteva riferirsi a certi oggetti o azioni familiari. Poteva, quindi,

chiedere alcune cose. Imparò il segno corrispondente ad aprire per chiedere che si

aprisse una porta, ma posteriormente anche il rubinetto dell’acqua, un libro, una

scatola. In modo simile, Premack insegnò un certo linguaggio a un gruppo di

scimpanzé, utilizzando gettoni di plastica a colori (“lessicogrammi”) con diverse

forme, capaci di costituire un “lessico”. I gettoni potevano essere disposti in modo

sequenziale. Su questa base si poteva stabilire un breve “dialogo” con la scimmia, ad

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233

esempio, dicendole: “se Sara (nome della scimmia) prende una mela, Mary (la

sperimentatrice) le darà un cioccolatino”, ottenendo un risultato positivo. Alla

discriminazione di configurazioni si unisce, così, la comprensione di un rudimento di

linguaggio (con l’apparenza di una sintassi e perfino dell’uso di un nesso logico

condizionale).

In un altro progetto, Sue Savage-Rumbaugh e Duane Rumbaugh utilizzarono

una tastiera in cui i tasti erano collegati a parole, in modo che gli scimpanzé potessero

premere i tasti giusti per ottenere cibo o esprimere desideri. In una fase più complessa,

alcune scimmie impararono a premere tasti per chiedere certi strumenti -con la

possibilità di scelta tra vari strumenti in mostra già conosciuti dagli animali- coi quali

potevano ottenere del cibo (ad esempio, aprendo una scatola con lo strumento scelto).

Ad un livello ancora più difficile, impararono a chiedere tale attrezzo a un’altra

scimmia (comunicazione collaborativa), condividendo poi con essa il cibo ottenuto.

Uno scimpanzé pigmeo -bonobo- chiamato Kanzi, a partire dai sei mesi stava in

compagnia della madre, l’unica ad essere allenata nella ricerca riferita. Dopo un certo

tempo si è visto che Kanzi, senza un addestramento specifico, aveva imparato da solo,

per osservazione, a usare bene la tastiera della madre in sua assenza, anche con una

modesta produttività “originale”. Poi si è visto che l’apprendimento in tempi critici

(iniziali) favoriva la velocità e la portata di quanto l’animale poteva imparare. In altri

esperimenti eseguiti da Woodruff e Premack, le scimmie ricorrevano all’uomo come

intermediario per ottenere un alimento non accessibile, riuscendo a scoprire per via di

esperienza l’individuo che le ingannava, distinguendolo da colui che diceva loro la

verità (con quest’ultimo avevano fiducia).

d) I limiti del linguaggio animale

La tematica del linguaggio forse è quella che più suggerisce l’alto livello cui

può arrivare l’intelligenza animale. Dobbiamo essere cauti, tuttavia,

nell’interpretazione del significato dei linguaggi animali, poiché una certa proiezione

antropomorfica è inevitabile in mancanza di categorie proprie per capire il mondo

della vita intenzionale pre-razionale. Ci sono inoltre, in modo particolare in questo

campo, pregiudizi talvolta ideologici (l’animalismo, il materialismo), nei quali si

affaccia l’idea che in fondo la differenza tra gli animali superiori e l’uomo sarebbe

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234

solo graduale o culturale. D’altra parte, come abbiamo detto sopra, se si presuppone

una gnoseologia empirista, non ci sarà modo di rilevare una differenza essenziale tra

la conoscenza animale e quella umana.

I linguaggi animali dimostrano la straordinaria ricchezza della vita intenzionale,

cognitiva, emotiva e comunicativa pre-razionale. Troviamo in essi elementi che

prefigurano il nostro linguaggio, con “una certa semantica”, “un cenno di sintassi”,

“qualche creatività”, ma sempre a livello rudimentale. Possiamo fare paragoni, anche

sperimentali e statistici, con il comportamento linguistico immaturo dei bambini.

Possiamo pensare, senza dimostrarlo affatto, che il linguaggio umano sarebbe sorto

come una forma di evoluzione a partire dai linguaggi degli ominidi. Ma le differenze

abissali tra i linguaggi degli animali e dell’uomo sussistono. Il nostro linguaggio non è

un semplice perfezionamento dei mezzi comunicativi animali (più ampio, più veloce),

ma costituisce un altro genere di comunicazione, sebbene usi come materia o

piattaforma di base la capacità sensitiva di associare segni in modo intenzionale grazie

alla memoria e all’immaginazione. Il linguaggio umano è di un altro genere perché

esprime un pensiero universale.

I ricercatori tendono spesso a suggerire che le differenze tra il linguaggio

dell’uomo e dell’animale sarebbero solo di grado. Vengono più sottolineate le

somiglianze anziché le differenze profonde. Naturalmente, molti studiosi sono

consapevoli della facilità con si può attribuire all’animale la capacità di comprendere,

come accadde con l’inganno di clever Hans, e cercano accuratamente di evitare questi

errori. Senz’altro sorprende la complessità dei linguaggi e azioni che certi animali

riescono a imparare guidati dall’uomo. Tuttavia, la convivenza umana con animali

particolarmente sensibili ha sempre “elevato” questi ultimi a livelli in cui sono riusciti

a imparare molte cose che non avrebbero raggiunto se fossero stati lasciati nella

foresta. Le imparano però in un modo piuttosto passivo. Una scimmia potrà usare una

tastiera per comunicare qualcosa, ma non avrà mai l’iniziativa di creare un linguaggio

scritto.

Il punto essenziale è il seguente. I linguaggi animali, anche imparati dall’uomo,

sono sempre legati a situazioni concrete, rivolte a fini interessanti per gli animali.

Tali linguaggi progrediscono talvolta con una certa spontaneità, ma in un modo molto

modesto, di tipo adattativo. Gli animali usano il linguaggio con una certa flessibilità,

Page 235: Sanguineti - Filosofia Da Mente

235

ma non oltrepassano la “logica associativa”, la stessa logica che siamo riusciti a

riprodurre tramite i metodi connessionisti di computazione. Il raggio delle

associazioni può essere enorme -pensiamo alle reti sinaptiche-, e ciò aiuta l’animale a

non restare legato alla pura immediatezza del qui ed ora. Ma siamo sempre a livello di

reti sensitive, materiali e concrete268.

Il linguaggio umano rimanda invece a un’oggettivazione razionale che consente

la separazione completa della lingua da ogni situazione materiale concreta. Da qui

nascono l’arbitrarietà assoluta dei significati semantici, l’universalità delle regole

sintattiche e l’apertura senza fine degli usi pragmatici. Queste caratteristiche

costituiscono il senso profondo del linguaggio dell’uomo.

Il fenomeno del nostro linguaggio va visto complessivamente, non in singole

frasi, quando cioè consideriamo in modo globale le strutture delle lingue create

dall’uomo, i loro usi e la nostra capacità di creare grammatiche all’infinito. Si

comprende così perché l’uomo è in grado di imparare qualsiasi linguaggio sensitivo

animale, e anche perché è capace di insegnare lingue non in modo spontaneo e

inconsapevole, ma creando grammatiche. È questo uno degli aspetti della nostra

autocoscienza linguistica.

La potenza simbolica dell’uomo è universale, infinita e autocosciente. L’uomo

può usare il simbolismo grammaticale senza restrizioni. Egli è in grado di inventare

linguaggi formali a scopo solo deduttivo, come fa nella matematica e nella logica, e

può ulteriormente creare strumenti simbolici, come i libri e i computer. Eppure egli

rimane libero da queste oggettivazioni, poiché può farne sempre altre. L’uomo si

diletta nel linguaggio con una finalità estetica e contemplativa, non legata alle

funzioni di adattamento all’ambiente. In definitiva, nel linguaggio l’uomo esprime la

sua persona, mentre i linguaggi degli animali sono una manifestazione della loro vita

sensitiva.

268 Per capire questo punto bisogna considerare il linguaggio nella prospettiva del pensiero metafisico. Se limitiamo l’esame alle sole realizzazioni empiriche, non potremo distinguerlo da una struttura associativa. Per questo motivo il comportamentismo non è stato in grado di elaborare una teoria linguistica cognitiva.

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236

Capitolo 6

Tecnologia dell’intelligenza

1. Ontologia degli oggetti artificiali

Ho incominciato questo volume con il problema degli atti umani, incorniciati

nella complessità dei livelli della vita umana (atti neurovegetativi, psicosomatici e

spirituali). Nel capitolo 3, n. 9 ho presentato una panoramica degli elementi in gioco

nella crescita dell’intelligenza (ambiente, eredità, abiti). Alcuni di questi elementi

sono creazioni culturali, non viventi né persone umane (la prima creazione artistica è

il linguaggio). Si viene a costituire in questo modo un ambito “postnaturale” (una

città, una biblioteca, un parco) nel quale viviamo o col quale interagiamo: la cultura.

Essa ci serve da mediatrice per comunicare con le altre persone e come mezzo per

agire nella natura al di là delle nostre capacità puramente somatiche. Il nostro corpo

elevato ha bisogno di un “ambiente elevato”. Il mondo degli oggetti artificiali e

culturale è come un prolungamento “oggettivato” del nostro cervello e delle nostre

capacità motorie.

In quest’ultimo capitolo vorrei soffermarmi sulla tematica dell’intelligenza

artificiale in una prospettiva filosofica (non tecnica). Insieme agli argomenti della

mente umana e animale finora esaminati, i filosofi della mente di solito studiano la

questione della mente artificiale. Una certa interpretazione di quest’ultima, come

abbiamo visto nella sezione storica, diede origine alla corrente funzionalista, mentre

la scienza cognitiva considerò le operazioni mentali umane alla stregua dei modelli

computazionali.

Per situare ontologicamente la portata delle operazioni computazionali è

opportuno rapportarle alla filosofia della tecnica. È proprio quanto ho cominciato a

fare nelle considerazioni iniziali di questo capitolo, quando mi sono riferito al

superamento umano del mondo della natura selvaggia tramite le creazioni culturali,

come fece l’uomo quando cominciò a parlare, a vestirsi, a prepararsi il cibo, a

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237

lavorare con strumenti e ad abitare in case e non all’aperto o nelle caverne.

Negli animali esiste un “cenno” di cultura, come abbiamo visto, sia per le loro

creazioni prototecniche, sia per il ruolo che nella loro vita acquistano i segni, sin dai

riflessi condizionati fino all’uso dei linguaggi sensitivi. Ma le nostre creazioni

culturali, opera della razionalità pratica, sono in collegamento con l’intelligenza e la

libertà. Da qui nasce l’incredibile estensione della cultura e della tecnica a tutti i

campi. Non c’è nessun ambito della nostra vita, né materiale né spirituale, dove non si

faccia avanti la dimensione pratica (tecnica e artistica), quindi il fare che produce

oggetti o che prende cose naturali per trasformarle in oggetti, almeno in simboli

(chiameremo qui oggetto ciò che è fatto o creato dall’uomo).

In uno sguardo d’insieme, vediamo adesso alcuni principi di base delle

creazioni artificiali o tecniche:

1) L’oggetto (cosa o processo artificiale) è fatto dall’uomo come mezzo per una

finalità. L’oggetto quindi è strumentale, vale a dire si colloca nella categoria del

rapporto mezzo/fine. Lo “strumento” è qualcosa che tramite la sua materialità

consente di compiere un’azione, come un coltello serve per tagliare e quest’ultima

operazione a sua volta può incorporarsi all’atto di mangiare. L’atto umano che pone in

rapporto effettivo lo strumento col fine è l’uso. L’oggetto strumentale quindi viene

usato in funzione dell’azione (“uso il coltello per mangiare”), la quale o è un fine in se

stesso (azione immanente) oppure è al servizio di un altro fine. Le parti del corpo

umano più specialmente destinate all’uso degli oggetti fisici sono le mani.

2) Alcuni oggetti incorporano il simbolismo nella loro funzionalità, in un modo

essenziale (come avviene nell’oggetto “libro”) oppure derivativo. L’uso di un coltello

prezioso, ad esempio, potrebbe anche simboleggiare, derivativamente, una posizione

sociale o un evento familiare. Il vestito ha una funzione fisica di protezione, ma

possiede inoltre un valore simbolico collegato all’operare della persona nella cultura e

in rapporto agli altri.

3) Certi oggetti fisici sono collegati a oggetti interiori, i quali sono il termine

intenzionale di operazioni intellettive. Una poesia scritta su un pezzo di carta è un

oggetto esterno da leggere: l’uso in questo caso è la lettura. La poesia sulla carta

quindi è collegata all’oggetto interiore, cioè alla poesia come contenuto intenzionale

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238

della mente. In un senso rigoroso il poema non esiste nel mondo fisico, bensì nella

mente umana. I simboli esterni sensibili servono da mezzi fisici che consentono il

compimento di operazioni interiori dotate di un contenuto intenzionale. Il linguaggio

appartiene a questa categoria.

Gli oggetti creati dall’uomo, quindi, non sono solo fisici, ma possono essere

pure oggetti intenzionali come le scienze, la letteratura o le lingue. Questo mondo

interno “oggettivo” fa parte della cultura e serve da mediatore tra le persone. Gli

uomini possono unirsi -non in un modo esclusivo, naturalmente- nel far convergere le

loro operazioni mentali sugli oggetti intenzionali. In questo modo, ad esempio, due

persone si uniscono nella lettura di un romanzo o nello studio di una scienza.

4) Gli oggetti fisici sono separati dal corpo umano. Le parti specializzate del

corpo (“organi”), svolgendo certe operazioni, servono al mantenimento della vita

fisica. L’organo non è un oggetto, bensì una parte vitale del corpo. Etimologicamente

organico significa strumentale: l’organo è uno “strumento interno del corpo”. In un

modo più preciso, organico indica il carattere immanente e ben coordinato del

servizio reso dalle membra dell’organismo. L’atto strumentale dell’organo di un

vivente di solito si dice funzione. Così, il funzionamento del cuore fa parte della vita

corporea.

Gli oggetti artificiali, invece, sono separati dal corpo umano, benché talvolta

stiano al suo servizio (farmaci, pasti), o lo completino anche a scopo sociale

(indumenti), e in gradi estremi vi si incorporino (protesi). Quando questi strumenti

sono macchine, parliamo di funzioni in un senso derivato. Le macchine sono oggetti

che, usate dall’uomo, producono lavoro fisico, quindi trasformano energia,

impiegando forze e processi della natura inanimata (energia meccanica, chimica,

elettrica, ecc.). A differenza degli organi, la macchina appartiene alla dinamica del

mondo senza vita.

5) Le persone sono aiutate nella loro prassi da oggetti e da altri soggetti in

maniera vicendevole, specialmente tramite la comunicazione. Gli esseri umani

collaborano a vicenda nel compimento e perfezionamento del loro operare sia fisico

che spirituale. Un aiuto è un servizio strumentale (come un autista mi può portare in

un certo posto). Ma le persone servono gli altri mantenendo il proprio livello

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239

ontologico, non come se fossero oggetti inanimati o macchine. In caso contrario si

produce una forma inferiore di servizio o perfino una degradazione. La modalità più

elevata di servizio all’uomo è la comunicazione personale, nella quale s’include la

cognizione e l’amore reciproco.

Vediamo alcuni esempi di oggetti artificiali, senza la pretesa di esaurire la

tematica né di fare classificazioni complete:

* pane: oggetto organico al servizio dei bisogni del corpo umano;

* edificio: oggetto destinato a luogo di abitazione o di lavoro. Può contenere elementi estetici e simbolici;

* martello: strumento di lavoro, in quanto usa energia per ottenere cambiamenti fisici;

* motore: esegue lavoro in maniera automatica, senza dover essere manovrato continuamente dall’uomo;

* anello: indumento del corpo con una finalità simbolica;

* chiodo: strumento in funzione di un altro oggetto (sostegno);

* orologio: strumento con elementi simbolici destinato alla misurazione

dell’ora;

* pacemaker: stimolatore cardiaco elettronico interno all’organismo;

* telescopio: strumento di osservazione che migliora la potenza visiva;

* televisore: strumento elettronico di telecomunicazione;

* pittura: oggetto di natura visiva destinato alla contemplazione estetica;

* libro: strumento a contenuto simbolico destinato alla trasmissione del linguaggio scritto;

* moneta: misura di valore di scambio. Il suo valore dipende da regole sociali accettate, quindi contiene un elemento istituzionale collegato al simbolismo;

* club: gruppo di persone trasformato in un oggetto istituzionale;

* congresso: attività di un’entità istituzionale;

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240

* computer: strumento fisico che elabora informazione tramite il simbolismo.

Da questi esempi si scorgono alcune categorie fondamentali di oggetti artificiali,

risultati dell’attività poietica o creativa dell’uomo:

1. Oggetti fisici di uso per il benessere del corpo umano: alimento, vestito,

farmaco, edificio, mobile, trasporto, difesa (armi). Possono aggiungere valori

simbolici, ad esempio relativi a ruoli istituzionali o sociali, diventando così

oggetti estetici.

2. Strumenti di lavoro fisico, spesso automatici, chiamati macchine: turbina,

forno, reattore.

3. Oggetti estetici in funzione di atti contemplativi: opere artistiche. Possono

incorporare il simbolismo.

4. Strumenti cognitivi utili per l’allargamento della potenza dei sensi o per la

misurazione: microscopio, orologio.

5. Strumenti di produzione e trasmissione di contenuti sensibili e, in

particolare, del linguaggio orale o scritto: libri, fotografie, dischi, cineprese,

radio, TV, Internet.

* Questi oggetti hanno diversi livelli: una cosa è un libro come artefatto

materiale, un’altra il suo contenuto cognitivo, espresso in simboli sensibili,

benché esistente in senso proprio come “oggetto mentale”.

* Alcuni di questi oggetti possono entrare nella categoria delle opere

artistiche o essere strumenti per produrle (ad esempio, strumenti musicali).

Ma possono pure contenere altre opere immanenti della ragione (scienza,

comunicazione, contenuti religiosi, ecc.).

6. Elaborazione dell’informazione: computer, reti connessionistiche. I nn. 4-6

possono considerarsi, in generale, oggetti cognitivi.

7. Istituzioni: creazioni umane immateriali che facilitano la vita sociale

(università). Dalle istituzioni nascono gli oggetti fisici istituzionali (denaro,

documenti), con valore simbolico, e gli atti istituzionali (vendere, comprare).

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241

Le categorie di oggetti s’intrecciano a vicenda. Gli strumenti cognitivi, ad

esempio, possono essere anche macchine automatiche (un computer) e ostentare

dimensioni estetiche. Vi sono pure oggetti derivati o parti di altri oggetti, come le

pagine di un libro o la scala di un edificio. Tutti gli oggetti sono suscettibili di essere

analizzati a diversi livelli. Un libro può essere considerato dal punto di vista fisico,

estetico, giuridico, scientifico, linguistico, tipografico o altro.

Questa classificazione, con le distinzioni introdotte, ci aiuta a elaborare una certa

ontologia degli oggetti artificiali, importante per evitare confusioni ontologiche. Una

macchina, ad esempio, non è un vivente, e bisogna sapere perché. Alcuni oggetti

artificiali contengono elementi immateriali, ma non sono menti né persone virtuali.

Ogni tipo di oggetto fa emergere alcune nuove proprietà. Ad esempio, l’evento

“accordo tra due paesi” è l’atto di un oggetto istituzionale, non attribuibile ai cittadini

dei rispettivi paesi. Le nuove strutture, proprietà, relazioni, attività e funzioni che

possono emergere con la costruzione degli oggetti culturali sono peculiari, vanno

studiate accuratamente e non si confondono con le categorie ontologiche

corrispondenti alle sostanze naturali o ai loro raggruppamenti, come i vegetali, gli

animali, le persone o le società naturali.

L’emergentismo non sempre fa queste distinzioni e così non aiuta a distinguere,

ad esempio, la “totalità cervello” (una totalità biologica) da altre unità ontologiche

(come le persone o i software dei computer). Un filosofo cui facessero vedere

l’università di Oxford mostrandogli il campus, gli edifici, le biblioteche, ecc., forse

alla fine potrebbe dire di non aver visto ancora “l’università”269. Naturalmente

l’università non si può vedere come se fosse un oggetto fisico. È una realtà

istituzionale, anche se esige di essere materializzata in edifici, aule, ecc. (non può

esistere soltanto “sulla carta”, se non potenzialmente).

Consideriamo, ad esempio, la macchina. Costituite dall’assemblaggio di molti

pezzi, le macchine sono unità funzionali, ma non sono organismi né vere sostanze,

poiché la loro unità teleologica, derivata dal fine principale (per una lavatrice, ad

269 L’esempio è proposto da G. Ryle in The Concept of Mind, cit., pp. 17-18. La confusione nasce, secondo Ryle, dall’errore “categoriale” di credere che ogni realtà debba essere sempre più o meno simile agli oggetti fisici.

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242

esempio, è lavare), è estrinseca, sta cioè solo nella mente dell’artefice, anche quando

sono automatiche o “funzionano da sole”270. Una macchina compie, infatti, azioni

transitive, orientate alla produzione di modifiche fisiche esterne, e non atti immanenti,

come invece avviene nell’organismo, fine a se stesso e fine della sua auto-

organizzazione. Il meccanicismo dell’epoca razionalista aveva ridotto a macchine

tutte le sostanze naturali, facendo così del finalismo della natura una realtà estrinseca,

precipitosamente attribuita a Dio Creatore271.

La macchina realizza ciò che l’uomo poteva fare prima solo con le sue mani e

con l’aiuto di pochi strumenti, e inoltre migliora la qualità ed estende immensamente

il tipo e il numero degli oggetti artificiali. Con l’avvento della “civiltà delle

macchine” nacque la moderna società tecnologica, caratterizzata dall’impiego

massiccio dell’automazione industrializzata e commercializzata. A differenza del

ruolo più modesto dell’antico artigianato, il “macchinismo” ovvero la dimensione

tecnologica del lavoro acquista così una preponderanza inedita nella cultura. Oggi

attraversiamo una delle molteplici e complesse fasi della civiltà tecnologica.

A causa del suo automatismo, la macchina sembra competere con l’uomo.

All’inizio, essa fa quello che poteva fare l’artigiano, in qualche modo sostituendolo e

superandolo, e sembra pure imitare la parte umana dei servizi materiali prima svolti

dalle persone. Il cameriere “mi serve” il caffè, ma adesso questo servizio può

svolgerlo una macchina, la quale così imita l’azione umana, sebbene essa in realtà ne

riproduca solo il contenuto materiale, ormai separato dall’atto personale di servizio.

In particolare le macchine cibernetiche, grazie al meccanismo di

autoregolazione in funzione delle variabili ambientali, sembrano riprodurre i

270 Secondo Aristotele l’artefatto, a differenza dell’entità naturale, non possiede al suo interno “il principio del suo movimento”: Fisica, II, 192 b. Il punto mi sembra vero se viene riferito alla finalità, e in questo senso si può estendere alle macchine automatiche: la loro unità funzionale (il “progetto della macchina”) non è intrinseca alla macchina stessa, ma sta direttamente nella mente del suo creatore. Questo principio vale anche per le opere d’arte. Il loro senso, come direbbe Searle, è observer-related: si rapporta cioè ad un interprete intelligente. 271 La perdita del finalismo intrinseco della natura è la premessa del tecnologismo esasperato, che vede nella natura solo una materia da dominare tramite la tecnologia. Cfr. il mio articolo Tecnologia e mondo naturale, in AA. VV, Seconda Navigazione, volume su La tecnica, la vita, Mondadori, Milano 1998, pp. 91-115.

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comportamenti vitali, in quanto sembrano agire secondo una finalità, “auto-

adattandosi” all’ambiente (così un termostato o un pilota automatico). Tale finalità

invece è completamente estrinseca. La macchina cibernetica potrà essere un automa

vitale, ma non è un vero vivente. Costruire un automa capace di simulare il

comportamento vivente non è generare un vivente. È, semplicemente, costruire una

macchina (se invece diciamo che il vivente è uguale all’automa vitale, allora abbiamo

perso la vera natura della vita).

Prendiamo adesso il caso dei libri. Questi oggetti rimandano alla mente in un

senso diverso dalle macchine, in quanto sono un insieme di simboli linguistici in

rapporto a qualche contenuto intelligibile. Possiamo chiamarli, in questo senso,

“artefatti simbolici”. Non sono impiegati per svolgere un lavoro fisico, ma per essere

letti. In virtù del loro valore simbolico, i testi suscitano operazioni intellettuali in chi li

legge. Come pura realtà materiale, non hanno alcuna consistenza all’infuori delle loro

proprietà fisico-chimiche. Sarebbe assurdo proiettare su di essi una mente o dei

contenuti mentali. I libri esistono invece in funzione delle menti dei loro autori ed

interpreti. Non possiamo dire che nei libri ci siano delle “idee” se non in un modo

metaforico. Semmai, vi sono in essi dei contenuti intelligibili in potenza (i simboli)

che diverranno intelligibili in atto al momento della lettura. Se nessuno li leggerà,

quella intelligibilità non passerà all’atto.

2. Oggetti istituzionali e “mente collettiva”

Un tipo interessante di entità creata dalla ragione umana è le istituzione. Questi

oggetti nascono da regole istituite da accordi tra gli uomini ed esistono come realtà

intenzionali collegate al mondo fisico e umano, spesso con una base o fondamento

naturale272.

La prima realtà istituzionale è il linguaggio e anche certe forme prelinguistiche

gestuali, purché siano riconosciute come forme sociali significative e non come un

comportamento basato su condizionamenti biologici o su istinti. Il linguaggio animale

è un fatto psicosomatico naturale, mentre quello umano è un’istituzione a base

272 Le chiamo intenzionali per distinguerle dalle realtà naturali. Tale intenzionalità, come giustamente ha visto Searle, è derivata e non originaria, in quanto quest’ultimo tipo si attribuisce solo alle operazioni del soggetto conoscente.

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naturale. Un semplice movimento della testa per dire “sì” può avere un valore

istituzionale se gli uomini vi riconoscono degli effetti non naturali, ad esempio,

l’espressione di un impegno, di una scelta, di un permesso, di una negazione273. Lo

strumento per la creazione di istituzioni di solito è il linguaggio orale o scritto, come è

il caso dei documenti utilizzati nei contratti o testamenti. Pure le norme giuridiche -le

leggi o il Diritto-, fondamentali accanto al linguaggio per la creazione della civiltà,

sono oggetti istituzionali.

a) Statuto ontologico dell’istituzione

Consideriamo in seguito il tipo di realtà ontologica dell’oggetto istituzionale,

evitando gli estremi del platonismo e del nominalismo274.

Le istituzioni sono entità reali, non fittizie. Non possiamo considerare reali solo

le cose materiali. Una norma che regola il comportamento di una società è qualcosa di

reale, pur non essendo un oggetto visibile. Spesso l’oggetto istituzionale trova

un’espressione fisica, ad esempio nei simboli, ma con conseguenze effettive: un

testamento scritto è un simbolo con parecchie conseguenze pratiche nella vita. Oppure

l’istituzione può includere in se stessa una dimensione fisica non simbolica: una

scuola deve avere studenti, cioè persone fisiche. La famiglia come istituzione

giuridica ha come fondamento la realtà naturale della famiglia.

La creazione di una realtà istituzionale presuppone la capacità di astrazione,

poiché nell’oggetto istituzionale normalmente esiste un fondamento fisico al quale si

aggiunge un significato istituzionale che va capito solo in modo astratto, con

indipendenza dalla materialità visibile. Un club non è “questo gruppo di persone”: un

determinato club può mantenere la sua identità istituzionale lungo i secoli. Gli animali

possono agire in gruppo e abituarsi a regole, ma non possono capire la realtà

istituzionale. L’oggetto istituzionale comunque non è un’idea platonica, ma neanche è

una semplice convenzione umana irreale (nominalismo).

L’istituzione è una realtà intelligibile del mondo umano, creata dalla ragione

273 Cfr., su questo tema, J. Searle, Atti linguistici, Bollati-Boringhieri, Torino 2000. 274 Per una visione emergentista della realtà culturale, cfr. J. Margolis, Culture and Cultural Entities, Reidel, Dordrecht 1983.

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pratica. Può scomparire se gli uomini si mettono d’accordo per annullarla, ma è reale

quando la riconoscono. Una lingua come l’italiano o l’inglese è reale, ma in teoria gli

uomini potrebbero decidere di non accettare le sue regole, cancellandola. L’astrazione

spiega perché l’istituzione di per sé non deperisce e quindi mantiene intatta la sua

identità nel tempo. Dove esiste l’istituzione? Esiste come oggetto intenzionale della

mente umana in riferimento alla realtà fisica ad essa collegata. Ad esempio una poesia

esiste “nella” mente del lettore, normalmente con un riferimento all’oggetto fisico

dove sta scritta (un libro, un pezzo di carta).

Poiché è reale, l’istituzione possiede una consistenza intelligibile e amabile che

trascende gli individui. I cittadini, ad esempio, debbono conoscere le leggi e le

istituzioni sociali e sono tenuti ad amarle, in quanto sono un bene per la vita sociale.

L’amore della nazione o dell’impresa dove si lavora, e non solo dei loro individui, è

una manifestazione dell’amore al bene comune. Quindi in un certo senso le istituzioni

trascendono gli individui, pur essendo creazioni della ragione umana in conformità

con certe esigenze metafisiche e morali della persona (ad esempio, le leggi devono

essere giuste; un giuramento deve dire la verità).

b) Tipologia degli oggetti istituzionali

Alcune realtà istituzionali sono oggetti che rappresentano intrecci di relazioni,

ad esempio, il linguaggio, il Codice civile, la moneta, il sistema bancario. Altre

istituzioni rappresentano gruppi sociali, come un club, una scuola, una nazione: le

società istituzionali talvolta sono chiamate semplicemente istituzioni o istituti.

Un altro tipo sono gli atti riconosciuti come tali dalla volontà istituzionale della

società, oppure da istituzioni che hanno la funzione di farlo (come un Parlamento in

quanto emana norme giuridiche). Gli atti istituzionali possono essere compiuti da

persone fisiche (comprare, votare, vincere un premio, giurare) o da istituzioni, le quali

talvolta vengono configurate dal Diritto come “persone giuridiche”. Così una società

può comprare cose, una nazione può aprire rapporti diplomatici con un’altra, o

un’università può inaugurare una facoltà.

In sintesi, possiamo parlare di oggetti istituzionali (la moneta), di atti

istituzionali (comprare) e di istituzioni (una scuola), benché nell’insieme questi

oggetti potrebbero essere denominati genericamente “istituzioni”.

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c) Istituzione e agire collettivo

Vediamo, infine, il rapporto tra gruppo, istituzione e agire collettivo. I membri

di un gruppo sociale agiscono intenzionalmente in modo personale (mangiare,

lavorare, pensare), ma anche in interazione con gli altri, promuovendo così azioni

collettive (ad esempio, la costruzione di un’autostrada). L’agire di una collettività non

si può spiegare come la semplice somma del comportamento degli individui, né solo

in base ai loro rapporti vicendevoli, e neanche col ricorso ad un’inesistente “mente del

gruppo” 275.

In una comunità sociale si possono considerare: 1) le azioni personali dei loro

membri; 2) l’attività del gruppo in quanto tale; 3) se è il caso, la prassi del gruppo

come istituzione, e correlativamente le azioni dei singoli membri a nome

dell’istituzione.

L’azione personale dei membri di un gruppo vero e proprio -in quanto membri-

è intenzionalmente collettiva. Vale a dire, l’azione personale “fa parte” dell’azione del

gruppo, come ha spiegato Searle, quando ogni singolo membro agisce con una

“intenzionalità collettiva”, in quanto intende razionalmente collaborare con i fini del

gruppo, quindi unito all’intenzione collettiva degli altri soci276. Basta che questa

consapevolezza sia minimamente razionale. Se non arriva alla soglia razionale, il

comportamento collettivo di una persona forse è puramente sensibile, come può

accadere nei bambini molto piccoli, oppure scompare, o rimane solo come una

materialità inerte. Quindi, quando una persona lavora in un gruppo, può dire “io

agisco”, ma anche “noi agiamo”277.

Una comunità non può compiere in quanto tale azioni intenzionali (altrimenti

275 Cfr., su questo tema J. Searle, Consciousness and Language, cit., pp. 90-105. 276 Questa esigenza d’intenzionalità collettiva non è applicabile in quanto tale agli aggruppamenti animali. Gli animali si uniscono socialmente nella misura in cui compiono operazioni cognitive ed emotive in rapporto ad altri di un gruppo, unificato da alcune finalità comuni. Gli animali, in altre parole, possono agire come membri di una collettività, con una certa “intenzionalità collettiva”, non però in modo intellettuale né auto-cosciente. 277 Il noi si dice in riferimento alle azioni che incidono sul gruppo come totalità o in rapporto a quelle che fanno tutti insieme, non però rispetto a quelle notoriamente parziali in relazione al compito collettivo. Così in un progetto edilizio, gli operai possono dire insieme agli architetti, “stiamo costruendo un albergo”, “ci manca poco per finire”, ecc., mentre ciascuno riferisce a se stesso le azioni corrispondenti ai propri compiti parziali nel contesto dell’azione collettiva.

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247

avrebbe una “mente collettiva”). Le azioni immanenti (pensare, amare) sono solo

individuali. Però, si attribuisce giustamente all’associazione il risultato esterno che

definisce il suo compito: il film realizzato, l’edificio finito, il pranzo servito, ecc.

Ovviamente i membri possono pure dire: “questo compito lo abbiamo fatto noi”278.

Si può pure considerare l’azione di un raggruppamento elevato a entità

istituzionale. In questo caso, come abbiamo detto, l’istituzione può compiere atti

istituzionali (“la squadra sportiva ha vinto la partita di calcio”), anche con

indipendenza dai loro membri, i quali sono sostituibili. L’istituzione possiede

un’identità sussistente nel tempo, al di là delle persone che passano. Può essere vista

analogicamente come se fosse una persona che agisce, con diritti e doveri, o come un

organismo con funzioni (cariche, comitati) che diventano altrettanti oggetti

istituzionali (ad esempio, la presidenza di una nazione).

Un membro del gruppo, per tanto, a seconda della sua carica o funzione

istituzionalmente riconosciuta può compiere atti personali i quali, in base al

simbolismo istituzionalizzato, diventano strumenti dell’agire dell’istituzione (ad

esempio, firmare un accordo, una legge). L’atto amministrativo di un funzionario

possiede, in questo senso, una dimensione personale di cui è responsabile, ma gode

inoltre di una dimensione istituzionale che trascende la persona. In qualche modo

l’individuo in questo caso agisce come strumento dell’istituzione.

In conclusione, le macchine, i libri, le istituzioni, sono realtà molto diverse. In

queste pagine abbiamo analizzato il loro rapporto con la mente umana dal punto di

vista ontologico e non puramente tecnico o giuridico. Questo genere di analisi ci

preserva da certe interpretazioni deviate che nascono da posizioni platoniche,

materialistiche, funzionaliste o emergentiste. Qualcosa di simile bisogna dire degli

oggetti tecnici computazionali.

278 In questo punto mi sono ispirato ad alcuni testi di Tommaso d’Aquino sui gruppi (ad esempio, C. G., II, 57; In I Ethic., lect. 1), analizzati nel mio lavoro La filosofia del cosmo in Tommaso d’Aquino, Ares, Milano 1986, pp. 137-144.

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248

3. I computer come elaboratori dell’informazione279

Uno sguardo alla realtà tecnologica degli elaboratori elettronici

dell’informazione rappresenta una sfida per le tematiche della filosofia della mente. I

computer, come abbiamo detto, trasformano l’informazione e non l’energia. Sono un

nuovo tipo di macchine destinate al compimento di un lavoro intellettuale e non

fisico, con una spesa energetica minima solo collegata alla materialità del loro

funzionamento.

I computer abitualmente usati seguono l’architettura di Turing e von Neumann,

fondata su una struttura essenzialmente simbolica. Il software del computer simbolico

è costituito da una serie di segni “alfabetici” governati da una grammatica, cioè da

regole (“sintattiche”) di combinazione. I calcolatori, dunque, condividono con i libri il

fatto di recepire contenuti informativi in modo simbolico e separato dalla mente, in

rapporto ad atti interpretativi dell’uomo. Ma essi non soltanto contengono

informazione, bensì consentono di passare da alcune informazioni ad altre, coprendo

così il campo delle inferenze umane. È come se fossero libri o enciclopedie

“automatiche”, capaci di elaborare l’informazione ricevuta e di rispondere alle nostre

domande.

Le macchine informatiche non funzionano come il cervello, privo di programmi

e di meccanismi simbolici. Ciononostante, un paragone tra esse e il cervello è naturale

e ci risulta sorprendente. Analogamente al sistema nervoso, i calcolatori lavorano

seguendo il ciclo di:

1. Ricezione dell’informazione (input) attraverso canali specifici. 2. Elaborazione dell’informazione a diversi livelli.

279 Su quest’argomento, cfr. le opere di Charniak, Di Francesco, Johnson-Laird, Luger, Pessa/Penna, Putnam e Simon menzionate nella bibliografia finale. Si vedano anche E. Agazzi, Operazionalità e intenzionalità. L’anello mancante dell’intelligenza artificiale, Jaca Book, Milano 1989; G. Button, J. Coulter, J. R. Lee, W. Sharrock, Computers, Minds and Conduct, Polity Press, Cambridge 1995; J. Copeland, Artificial Intelligence, Blackwell, Oxford 1993; T. de Andrés, Homo Cybersapiens. La inteligencia artificial y la humana, Eunsa, Pamplona 2002; S. Jaki, Brain, Mind and Computers, Gateways Editions, New York 1989; P. Mello, voce Intelligenza artificiale, in G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, cit., vol. 1; S. J., Russell, P. Norvig, Intelligenza artificiale. Un approccio moderno, Utet, Torino 1998; J. Searle, The Rediscovery of the Mind, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992; T. Winograd, F. Flores, Understanding Computers and Cognition, Ablex Pub. Corporation, Norwood (N. Jersey) 1987.

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249

3. Conservazione dell’informazione nella memoria. 4. L’organizzazione dell’informazione elaborata consente di arrivare a risposte (output) di natura cognitiva e motoria.

Si può stabilire un’analogia più adeguata tra il computer e la mente umana,

anziché il cervello, dal momento che la nostra intelligenza agisce secondo regole

astratte e usa il simbolismo. Ma in realtà è alla rovescia. L’uomo inventò il computer

proprio ispirandosi alla mente intellettuale. L’analogia con il cervello, benché più

distante, comunque è coerente con la continuità tra le funzioni cognitive superiori e

inferiori.

Le prestazioni dei computer toccano la soglia delle capacità cognitive umane e

sembrano addirittura superarle. La macchina informatica è capace di svolgere

parecchi compiti: riconoscimento di patterns sensitivi, produzione di immagini, una

certa generalizzazione e induzione, traduzione di testi, soluzione di problemi,

dimostrazione di teoremi, pratica di giochi come gli scacchi, elaborazione di alcune

opere “artistiche” (racconti, musica, figure estetiche), guida in compiti professionali

scientifici e tecnici altamente sofisticati (ingegneria, astronautica, medicina),

simulazione virtuale di situazioni contro-fattuali a scopo di ricerca.

L’elenco potrebbe continuare ancora e alla fine abbraccia tutti gli ambiti

assegnati alla competenza dell’intelligenza artificiale o dei sistemi intelligenti. Siamo

davanti alla creazione di una vera tecnologia dell’intelligenza280. Abbiamo scoperto, in

altre parole, la possibilità di tecnificare molti aspetti dei processi intellettuali, con

risultati oggettivi sbalorditivi. Oggi vengono costruiti sistemi intelligenti multi-agenti,

sistemi cioè integrati da molteplici “agenti intelligenti” (con intelligenza artificiale)

capaci di interagire tra loro e con l’uomo in un determinato ambiente. Dotati di abilità

motorie, diventano dei robot intelligenti, destinati a collaborare con l’uomo in

numerosi compiti281.

280 Tra i primi promotori dell’intelligenza artificiale possiamo ricordare i nomi di J. McCarthy, A. Newell, H. Simon, M. Minsky. 281 Le prime tecniche d’intelligenza artificiale si concentrarono sulla risoluzione generale di problemi. Un’ulteriore fronte di ricerca furono i sistemi esperti, dotati di un’ampia informazione specialistica e di meccanismi inferenziali, secondo regole e strategie pensate per la risoluzione di problemi, in modo da poter svolgere compiti di consulenza nel lavoro professionale. Come abbiamo detto, in questi anni sono in sviluppo sistemi intelligenti pluri-

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250

I computer sono strumenti cognitivi (i robot sono inoltre strumenti di lavoro).

Anzi, in un certo senso i sistemi intelligenti (SI) sono capaci di incorporare tutti gli

strumenti cognitivi e di lavoro, almeno in teoria, per renderli più effettivi282. Quindi il

raggio di azione dei SI tecnologici non solo è ampio, ma acquista una forma di

universalità. Così come nei libri si può introdurre “tutto ciò che è scritto”,

analogamente sarebbe possibile in teoria computerizzare tutta la tecnologia umana,

per così guidarla nei loro aspetti informativi. L’universalità dei SI riesce a coprire, in

una certa misura, tutto l’ambito delle operazioni razionali dell’uomo. Proprio per

questo si parlava di “intelligenza artificiale” (cioè tecnologica), dal momento che essa

sembrava capace di svolgere tutti quei compiti tradizionalmente collegati al possesso

d’intelligenza: calcolare, vedere le implicazioni, organizzare, scegliere, interagire con

nuovi dati.

Gli elaboratori dell’informazione portano a risultati che l’uomo non può intuire

con le sue sole risorse intellettuali. Come ogni macchina (ma questa volta siamo

davanti a una macchina “intellettuale”), il SI crea il problema della concorrenza con

l’uomo, al quale può superare in tanti aspetti. Inoltre i SI, adeguatamente

programmati, possono migliorare da soli le loro prestazioni, cioè possono essere

dotati della capacità di apprendimento per così ottenere risultati ottimizzati. In questa

linea, i SI manifestano una certa creatività e flessibilità, rappresentando ancora una

volta una sfida per l’intelligenza naturale dell’uomo.

4. La razionalità calcolatrice separata

Da quanto abbiamo visto si pongono le seguenti domande:

1. Come fanno i computer ad arrivare a risultati così sorprendenti nell’area del pensiero razionale? 2. Dove sta la distinzione tra le operazioni dei viventi e le “operazioni cognitive” dei computer?

3. Esiste un ambito intelligente proprio della persona e non accessibile alle

agenti e la robotica, con la capacità di un certo adattamento all’ambiente e di dominio del “corpo” robotico. 282 Classicamente questi sistemi venivano chiamati intelligenza artificiale (IA). Oggi questa denominazione è meno di moda, per cui sembra preferibile parlare di sistemi intelligenti (personalmente aggiungerei il termine tecnologici). Userò per questi oggetti la sigla SI.

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“macchine intelligenti”?

La risposta alla prima domanda possono darla i tecnici dell’informatica. Se la

vita, la coscienza e l’intelligenza sono un mistero dinanzi al quale la filosofia continua

a meravigliarsi, ciò che fanno le macchine, inventate dagli uomini, non dovrebbe

risultarci così misterioso. Il disorientamento nasce quando si propone la riduzione del

pensiero alle operazioni informatiche.

I computer sono strumenti tramite i quali l’uomo è riuscito ad automatizzare le

trasformazioni dell’informazione impiegando un linguaggio, quindi secondo una

modalità astratta o separata dai contesti della vita dove tale informazione può essere

operante. Questa separazione è compiuta anche personalmente -in una maniera

modesta- nel nostro pensiero logico-formale tradotto nel linguaggio. Operiamo così

quando trasformiamo sequenze di simboli seguendo una regola, anche imparata a

memoria, ad esempio quando moltiplichiamo o dividiamo numeri seguendo

procedimenti prestabiliti o, più ampiamente, quando eseguiamo calcoli matematici o

compiamo deduzioni logiche formali (puramente sintattiche). Con gli elaboratori

elettronici abbiamo imparato a farlo meccanicamente “fuori della nostra testa”, come

avevano già intuito i primi sognatori delle macchine calcolatrici (Raimondo Lullo,

Pascal, Leibniz).

Il passaggio sintattico compiuto tra simboli o tra stringhe di simboli si chiama

computo o calcolo (di qui il nome di computer, cioè “calcolatore”). In questo modo

passiamo, ad esempio, dall’espressione a a quella b, secondo una regola o istruzione

c. La regola potrebbe essere: “se a, allora b”. Da qui nasce l’algoritmo, procedimento

che consente di risolvere un problema o di eseguire un compito tramite un numero

finito d’istruzioni chiare e univoche e compiendo un numero finito di passi283.

Tradizionalmente quest’operazione è stata realizzata in un ambito matematico o

logico-formale, ma si può estendere ad altri campi, pur essendo sempre un calcolo

(una forma di inferenza).

Il computer elettronico esprime gli elementi del calcolo in un codice adeguato

283 In ambiti più complessi si utilizzano algoritmi euristici, con istruzioni più generali che cercano la soluzione ottimale tra parecchie possibilità. Negli algoritmi genetici l’euristica lavora in base alle regole della selezione naturale della teoria evoluzionistica.

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alla macchina e costituito da un alfabeto i cui due elementi, 1 e 0, corrispondono alle

posizioni on e off di un commutatore. Da ciò risulta il bit -una cifra binaria- ovvero

l’unità minima d’informazione del computer. In questo modo il computo risulta

automatico, escludendosi la comprensione eidetica, come quando facciamo una

moltiplicazione senza “capire” perché viene fuori un certo risultato. Il risultato si

ottiene solo grazie a una regola eseguita in un modo meccanico. Tutte le operazioni

dei computer sono di questo genere, sono cioè semplici computazioni algoritmiche284.

Adesso si può capire meglio perché gli elaboratori elettronici non sono stati

ideati a partire da ciò che fa il cervello, bensì ispirandosi al modo tipico di lavorare

del nostro pensiero formale, specialmente nelle operazioni di calcolo. Dopo aver

scoperto che il sistema nervoso elabora l’informazione, naturalmente, si è pensato

all’analogia del computer col cervello. Però il sistema nervoso, come si è visto chiaro

più tardi, tratta l’informazione in un modo diverso dal calcolo astratto. Sarebbe un

antropomorfismo pensare il contrario. La realtà tecnologica dei computer nasce grazie

all’esistenza del linguaggio, quindi non ha niente a che vedere con i codici

(metaforici) del cervello, nei quali l’informazione è elaborata in un modo naturale e

biologico285.

La computazione è un ausilio della nostra ragione calcolatrice. Grazie

all’informatica possiamo ottenere risultati che oltrepassano le nostre abilità personali

di calcolo, in un modo analogo -se serve il paragone- a una biblioteca in quanto

rappresenta un ausilio della nostra memoria. Senza contenere un vero sapere, la

biblioteca oltrepassa ampiamente le nostre capacità personali di memorizzazione.

La razionalità calcolatrice è una parte della nostra razionalità. Quest’ultima, a

sua volta, è una funzione della nostra intelligenza. Quando compiamo personalmente

dei calcoli formali meccanici (somma, resta), in qualche modo ci comportiamo come

284 Detto in un modo più tecnico, le operazioni dei computer sono casi delle operazioni di computazione eseguibili da una macchina universale di Turing. Quest’ultima è una macchina ideale le cui operazioni definiscono l’area della computabilità. Ideata dal matematico inglese Turing, scopritore insieme a von Neumann dell’idea del computer moderno, la macchina universale di Turing è collegata a una serie di teoremi che indicano i limiti del pensiero formale ovvero delle operazioni computabili. Questi teoremi sono in collegamento con i classici teoremi di limitazione del pensiero formale, dimostrati da K. Gödel negli anni ‘30 del secolo XX. 285 Cfr. il nostro capitolo 3, n. 7.

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un computer. Precisamente quest’aspetto della ragione viene reso più potente dalle

macchine calcolatrici.

Dal punto di vista fisico, i computer non sono altro che congegni e circuiti

elettronici. Come nel caso dei libri, la loro “intelligibilità potenziale” si attualizza

soltanto quando l’uomo, utilizzandoli, interpreta intenzionalmente i loro risultati. Il

programma del computer, in quanto è immateriale, esiste nella mente dei

programmatori come un linguaggio formale, intenzionalmente riferito ai simboli fisici

informatici.

In definitiva, il computer è collegato alla mente umana e senza di essa è solo

una pura realtà materiale. Ma la nostra mente ha bisogno di questo strumento per

progredire nel campo della razionalità calcolatrice, così come la nostra memoria ha

bisogno del linguaggio e diventa molto più efficace quando tale linguaggio è scritto.

5. Operazioni di macchine

Con queste premesse, in risposta alla seconda domanda posta all’inizio della

sezione precedente, possiamo concludere che i processi computazionali compiuti dai

SI non sono operazioni cognitive, anche se possiamo nominarli con verbi cognitivi in

modo metaforico, anzi dobbiamo farlo per poter usare agevolmente tali sistemi. Così

come un libro “avverte”, “comanda”, “proibisce”, lo stesso si può dire

dell’elaboratore informatico quando “calcola”, “traduce”, “consiglia”, “suggerisce”.

Le funzioni computazionali, con le loro “rappresentazioni”, “memoria de lavoro”,

“memoria dichiarativa”, “scelte” (si avverta la terminologia psicologica), sono

“sintattiche” e “semantiche” in rapporto alla mente umana che sa interpretare i

contenuti cognitivi incorporati simbolicamente ai computer286.

Le operazioni informatiche, hanno osservato giustamente alcuni autori,

simulano atti o stati cognitivi. La simulazione è l’apparenza di una realtà. I sistemi

tecnologici intelligenti simulano, in effetti, gli atti di pensare, di riflettere, di

ragionare, cioè simulano di compiere atti cognitivi (anche emotivi) interni, oppure

producono la loro espressione esterna o “comportamentale” (come avviene nei robot).

286 Cfr. J. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit., cap. 9.

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La simulazione computazionale è particolarmente notoria nel caso

dell’apparenza di sensazioni ed emozioni. Un robot dotato di sensori ottici può

rispondere adeguatamente all’input visivo con un comportamento motorio corretto,

“come se vedesse”. Così egli realizza, in un modo “comportamentista”, molto di

quanto una persona fa mentre vede, senza però avere la reale sensazione della vista.

Potrebbe essere programmato eventualmente per reagire “emotivamente” di fronte a

situazioni esterne negative, con “espressioni” e “atti esterni” che simulano

l’indignazione, lo stupore o la tristezza. “Introdurre” emozioni in queste macchine

potrà risultare più o meno utile o divertente, a scopo di ricerca o per agevolare il

rapporto pratico dell’utente con i robot umanoidi, ma saranno sempre emozioni

simulate e non reali, come è simulato quanto fanno gli attori o quanto succede in uno

specchio, in un disegno, in un film o in una realtà virtuale287. Neanche una

simulazione esternamente perfetta, per quanto utopica, smetterebbe di essere una

finzione.

I risultati delle operazioni computazionali invece sono reali, non simulazioni.

L’elaboratore elettronico non pensa di fare una traduzione, ma ottiene una vera

traduzione. L’output dei computer (immagini, soluzioni dei problemi, comandi

motori, vittoria in una partita di scacchi) sono reali. In questi risultati la macchina può

emulare l’uomo. Questo fenomeno è normale ed è una caratteristica di ogni

tecnologia: quasi tutte le macchine fanno meglio ciò che noi possiamo fare con

difficoltà e tanti limiti, o che non possiamo fare in alcun modo.

I punti filosofici fondamentali relativi a questo problema sono:

1. Le imitazioni informatiche dei viventi (vita artificiale) non sono una vera

vita288. La bioinformatica studia i fenomeni biologici riproducendo in modo

computazionale processi vitali, come l’auto-organizzazione, la riproduzione,

l’evoluzione, la complessità vitale o l’adattamento. La produzione di vita artificiale è

287 L’antica obiezione secondo cui l’intelligenza artificiale non ha un corpo, non è situata e non ha emozioni, va ridimensionata. Un robot supera questi limiti dell’intelligenza artificiale di altri tempi. Ma il suo corpo e il suo adattamento non sono organici e le sue emozioni sono fittizie. 288 Cfr. il nostro capitolo 2, n. 2. Uno dei fondatori delle ricerche di vita artificiale in base a processi informatici è Christopher Langton, negli anni ‘80. Il concetto di automa cellulare era stato già proposto dal matematico von Neumann.

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la modellizzazione della vita tramite processi computazionali.

Come nel caso dell’intelligenza artificiale, visto che apparentemente “tutto si

può simulare”, si pone la domanda filosofica sulla distinzione tra vita reale e vita

artificiale. Riguardo alla vita cosciente, la risposta sembra più facile, poiché la

simulazione della coscienza e delle emozioni è palese. I computer, a differenza degli

animali, non hanno atti interni, come le sensazioni, che per noi sono evidenze

immediate. I filosofi materialisti tendono a relativizzare la realtà delle qualità sentite o

della coscienza perché capiscono l’incompatibilità di questo punto con le loro teorie.

Ora, nel caso della vita vegetativa, come discernere tra un vero vivente e un vivente

artificiale?

Non basta dire che la vita finora conosciuta è basata sulla chimica del carbonio

e non sul silicio. Il punto essenziale piuttosto è che l’uomo, quando realizza una

simulazione computazionale, sa perfettamente cosa sta facendo. Il risultato non è un

nuovo vivente, in questo caso, bensì una sua rappresentazione virtuale. Non

distinguerla dalla vita reale sarebbe come confondere una fotografia o un film con la

realtà. Tale rappresentazione raccoglie in modo parziale, secondo il modello usato,

certi elementi formali della vita (informazione separata dalla realtà vivente), come se

fosse un’astrazione, ovviamente molto utile e importante per la ricerca biologica.

Se fossimo in grado di creare piante informatiche in un ambiente reale,

analogamente ai robot, non per questo motivo sarebbero veri vegetali, ma solo

imitazioni. Queste “piante” avrebbero aspetti formali vegetativi non legati a un vero

corpo organico, ma ad un meccanismo elettronico destinato alla simulazione di questo

genere di processi.

2. I computer non sentono. I calcolatori possono soltanto simulare di avere

sensazioni ed emozioni. Sono privi di atti immanenti: non hanno alcuna interiorità,

alcuna forma di coscienza, nemmeno sensitiva. Questo punto così evidente è messo in

dubbio dagli autori materialisti solo perché si contrappone palesemente alla riduzione

di tutto alle proprietà fisiche esterne. Solo a questo caro prezzo cade la distinzione tra

uomo, animale e macchina.

3. I sistemi intelligenti o i robot non sono persone umane e non hanno un “io”.

In base a quanto detto nei punti precedenti, quest’affermazione è più che ovvia. Il

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256

riduzionismo computazionale dissolve le nozioni di persona, intelligenza personale,

autocoscienza ed io in insiemi di processi informatici, di programmi, di “agenzie”

computazionali con i loro “omuncoli”, “memi” o moduli cognitivi. L’io viene ridotto

spesso, in queste filosofie, a funzioni di auto-monitoraggio degli agenti virtuali. Gli

autori che non vedono una differenza di fondo tra “l’io robotico” e la persona si sono

fatti spesso un’antropologia alla misura del mondo computazionale. I presupposti

empiristici non consentono loro di avere una nozione di persona capace di reggere di

fronte alle simulazioni eseguite dalle realtà virtuali.

La distinzione tra la persona e il robot che simula di essere una persona (simula

di avere emozioni o ricordi) non si può spiegare con qualche operazione “speciale”

che il robot non potrebbe avere, visto che tutto può essere simulato, anche con

operazioni virtuali all’infinito. La persona, la libertà, il pensiero, l’autocoscienza,

sono compresi al livello metafisico, proprio di ogni persona nella sua contemplazione

ordinaria dell’essere trascendente. Invece comprendiamo i robot o gli agenti

tecnologici intelligenti, dal punto di vista tecnico, in quanto sappiamo come li

abbiamo fatti. Sappiamo che sono macchine capaci di manipolare informazione e di

eseguire un conseguente lavoro. Anche nel caso fantascientifico di robot che si

fossero resi autonomi dal controllo umano e capaci di auto-replicarsi, auto-

perfezionarsi e auto-sostentarsi trovando i mezzi energetici per alimentarsi, niente

cambierebbe. Una macchina sulla quale l’uomo ha perso il controllo è sempre una

macchina.

L’informazione offerta dagli agenti intelligenti, robotici o no, non è altro che

una serie di dati, implicazioni, risultati o comandi, e l’esecuzione pratica che ne può

derivare è solo una prassi tecnica. Le “scelte” robotiche, per quanto utili possano

risultarci, non sono che conseguenze algoritmiche, anche nei casi sofisticati di SI dove

esistano spazi per l’aleatorietà e quindi una certa indeterminazione. In definitiva, gli

agenti intelligenti informatici sono entità tecniche. I loro problemi meramente tecnici

riguardano l’efficienza delle loro prestazioni.

La persona umana, invece, ha la capacità di volere, non come risultato di una

serie di operazioni algoritmiche, bensì come potenza di amare derivata dal

riconoscimento del valore dell’esistenza nel mondo, del valore della propria dignità e

di quella delle altre persone. Un robot non può volere veramente, non può amare, non

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ha problemi esistenziali, morali, religiosi, e se fosse programmato per simulare di

averli, non sarebbe altro che una caricatura dell’uomo.

Veramente non ha molto senso paragonare le prestazioni intelligenti delle

persone con i SI, poiché non sono situati sullo stesso piano ontologico. Nel campo

computazionale, un sistema intelligente può superare ampiamente la persona più

dotata del mondo, mentre una persona con una modesta intelligenza e scarsa cultura

sorpassa infinitamente qualsiasi SI, in quanto ha libertà, coscienza, responsabilità

morale e capacità di contemplare la realtà.

6. Limiti e utilità dell’intelligenza informatica

a) Gli atteggiamenti critici

Sin da quando sono cominciati i primi lavori sull’intelligenza artificiale (verso

la metà del Novecento) fino ai nostri giorni, si sono succedute parecchie ondate

critiche su questa tecnologia, intese a controbilanciare gli eccessivi entusiasmi e

utopie dei seguaci dell’intelligenza artificiale denominata forte (sostenitori

dell’indiscernibilità tra intelligenza naturale e artificiale). Si è fatto notare, ad

esempio, che ai primi momenti euforici seguirono spesso tappe di assestamento, dove

la pratica concreta s’incaricava di dimostrare i limiti degli strumenti inventati, dai

quali non si poteva attendere la soluzione di tutti i nostri problemi. Altre critiche sono

state dure e talvolta negative, cercando quasi di scoraggiare la ricerca informatica

oppure sottolineando con soddisfazione la stagnazione, reale o presunta, di alcuni

progetti della tecnologia dell’intelligenza artificiale.

Alcune linee di critica sono state più profonde289, come è il caso di Searle, il

quale cercò argomentazioni in favore della realtà della coscienza come situazione

soggettiva, in contrasto con le macchine intelligenti idealmente più perfette,

comunque prive di veri atti di coscienza. Abbiamo seguito questa strada nella sezione

precedente: i processi computazionali, abbiamo ribadito, non sono vere operazioni

cognitive.

289 Cfr., ad esempio, H. L. Dreyfus, S. E. Dreyfus, Mind over Machine, The Free Press, New York 1988; H. L. Dreyfus, Quel che i calcolatori non possono fare, Armando, Roma 1988; What Computers ‘still’ Cant’do, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992.

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Sullo stesso fronte della critica, certi autori si sono concentrati sui teoremi di

limitazione, dai quali si concludono i limiti invalicabili della computabilità dal punto

di vista logico e matematico. Quest’ultimo approccio, convergente con l’orientamento

attuale delle scienze naturali (dinamiche non lineari, scienze della complessità), può

essere utile per concludere che, se non tutto è computabile, come è stato

definitivamente dimostrato, allora la realtà naturale non sarà mai completamente

dominabile dalla tecnologia dell’intelligenza. Quindi non possiamo illuderci con

progetti utopici di auto-dominio completo della capacità razionale.

In queste nostre ultime osservazioni, tuttavia, intendiamo andare alla radice del

problema. Non basta il rifiuto dello scientismo, del tecnologismo, del razionalismo.

Questo rifiuto sarebbe compatibile con una visione disincantata o “postmoderna”,

senza certezze di verità. I nostri spunti saranno impostati su una prospettiva

antropologica e metafisica, al di là delle solite tematiche considerate dalla filosofia

della mente. Non intendiamo deprimere l’immenso valore dell’informatica, una vera

estensione della nostra razionalità la cui importanza forse è paragonabile a quella

della scrittura.

Vogliamo dunque rispondere alla terza domanda posta all’inizio della sezione n.

4 di questo capitolo: in quali aspetti l’intelligenza umana è più alta dell’intelligenza

artificiale? In realtà, il paragone non può essere concorrenziale. Non è che la nostra

intelligenza personale sia più potente della capacità di calcolo dei computer. Va detto

piuttosto che certi aspetti della nostra intelligenza, non accessibili alla computazione,

illuminano il senso di ogni computazione. Sono gli aspetti essenziali, relativi ai fini e

ai valori, al senso delle cose e alla situazione metafisica. Il campo proprio

dell’intelligenza informatica, invece, è strumentale, logico, quantitativo, organizzativo

e deduttivo. Solo in quest’ambito le macchine informatiche sono di aiuto

all’intelligenza personale (in alcuni casi un aiuto potentissimo e imprescindibile).

Dagli apparecchi informatici possiamo aspettarci istruzioni utili per viaggiare verso

altri pianeti o per sintetizzare farmaci, ma non riceveremo mai da essi risposte

metafisiche, morali o religiose.

b) Intelligenza personale e razionalità computazionale

Consideriamo adesso alcuni spunti sulla differenza fondamentale tra

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259

l’intelligenza personale e i risultati cui può arrivare l’intelligenza computazionale

(nella sezione precedente abbiamo già visto come quest’ultima giunge soltanto a

risultati, senza compiere operazioni vitali, sensitive o intelligenti).

1. Solo l’intelligenza personale conosce fini, valori e principi. I sistemi

intelligenti informatici non possono dirci alcunché sulle cose essenziali, sulle priorità

fondamentali collegate ad una visione d’insieme del mondo di tipo metafisico,

antropologico e morale. Semmai, i programmatori possono incorporarvi in qualche

modo certi principi pratici che rispettino i valori e i fini (“evitare soluzioni violente”,

“cercare il dialogo”), ma in teoria potrebbero anche creare programmi o robot con

finalità criminali o immorali. Ancora una volta si vede come l’intelligenza informatica

appartiene alla ragione strumentale, cioè alla ragione nei suoi aspetti tecnici e non

etici. Un computer non può avere saggezza, ma può essere tecnicamente efficace.

In termini aristotelici, si potrebbe dire che alla persona corrisponde l’intelletto

(noús, intuizione), mentre la macchina informatica sarebbe competente piuttosto nel

campo della ragione (lógos). Questo è vero purché per intuizione s’intenda la visione

essenziale delle cose e la ragione sia vista sul versante computazionale, non in altri

aspetti razionali dove l’intervento della comprensione intelligente è rilevante, come

avviene nella ragione etica, politica, educativa e anche in altre aree dove i problemi

non si risolvono con la sola computazione. Invece, se per intuizione s’intende una

sorta di visione vaga che consente di risolvere problemi tecnici meramente “per

fiuto”, in un modo alquanto incosciente, allora la razionalità computazionale,

nell’indicare con precisione i passi da seguire per risolvere un problema, supera

ampiamente tal genere di intuizione.

2. La persona è creatrice e padrona dei sistemi informatici. Questi ultimi sono

soltanto strumenti. L’uomo è il creatore dei computer, dei programmi, dei

miglioramenti tecnici dell’informatica, dei SI. Egli li ha creati impiegando con

impegno la sua intelligenza e le sue conoscenze specialistiche. Le proprietà tecniche

degli elaboratori informatici consentono che l’uomo possa talvolta beneficiarsi dai

loro “consigli tecnici”. I SI possono auto-programmarsi in un certo senso (con alcuni

limiti), ma questo relativo auto-dominio della macchina intelligente è sempre di

natura tecnica (nemmeno è un’autopoiesis vivente), e lo sarebbe ugualmente nel caso

fantascientifico di un’intera popolazione di SI che riuscisse a dominare l’universo. La

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260

macchina, per quanto autonoma, è sempre uno strumento, anche lasciata a se stessa: il

suo senso ontologico è solo questo. La persona invece è padrona naturale della

macchina: il suo compito è di crearla, di usarla e di guidarla, in definitiva in funzione

delle finalità metafisiche, antropologiche ed etiche della nostra esistenza. Se l’uomo si

lascia padroneggiare o condizionare troppo dalle macchine, è colpa sua (oppure è uno

dei nostri limiti).

3. La “visione del mondo” della macchina informatica è ristretta e dipende dai

programmatori. Le categorie, i principi, le preferenze, le regole, le strategie da

seguire incorporate nei computer, sono sempre una visione ristretta e astratta,

incapace di coprire tutta la realtà, e per di più tutti quegli elementi sono stati scelti dai

programmatori. Anche se la macchina potrà imparare e auto-migliorare, lo farà nella

cornice concettuale prestabilita.

L’uomo rimane libero di fronte alle oggettivazioni informatiche. Egli può

sempre compararle a vicenda dal di fuori, per così creare nuove cornici, nuovi sistemi,

nuovi programmi. Proprio per questo l’uomo non cessa mai di creare ulteriori sistemi

informatici e, man mano le scienze progrediscono, egli deve continuamente

aggiornare i programmi o crearne dei nuovi. Solo lui sa come modificare i programmi

in modo rilevante, dal momento che soltanto lui possiede la visione essenziale, situata

al di sopra di ogni settore e problema tecnologico.

4. La “potenza cognitiva” delle macchine intelligenti non arriva a tutti i

contesti. L’incompletezza della “cosmovisione informatica” non solo riguarda i

contenuti, ma anche gli infiniti contesti cui le conoscenze e il linguaggio sono

applicabili quando vengono riferiti al mondo reale. Certamente neanche l’uomo

conosce a priori i contesti. Ma solo lui, con la sua visione integrata e tenendo conto

della variabilità delle situazioni, è in grado di applicare con prudenza e sagacità le

conoscenze scientifiche e tecniche. L’elaboratore elettronico potrà superare l’uomo

dal punto di vista tecnico, ma non può apportare né saggezza né prudenza. Queste due

virtù appartengono alla persona e non nascono dal pensiero “meccanizzato”.

La saggezza e la prudenza si riferiscono soprattutto alla conoscenza

fondamentale e personalizzata che ciascuno può avere di se stesso, di altre persone o

di ambienti umani. Quelle virtù si applicano specialmente a questioni morali,

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261

educative, familiari, sociali, politiche, e anche al resto delle tematiche nella misura in

cui ci sia un rapporto con problemi umani. Peraltro una conoscenza logica,

matematica, fisica o tecnica non messa in collegamento con l’uomo rimane sempre

una visione astratta.

5. L’uomo deve interpretare il simbolismo delle macchine informatiche.

L’ambiguità e l’incompletezza del linguaggio non valgono soltanto per i testi, ma

anche per il simbolismo computazionale. L’informatica, in altre parole, non è esente

dal problema ermeneutico. La macchina o il robot potranno fornire indicazioni

tecniche, ma solo l’uomo, con la sua intelligenza personale, è in grado di interpretarle

correttamente, nell’ampio contesto della comprensione metafisica e antropologica.

Del resto, se il simbolismo dei computer non è letto dall’uomo, perde completamente

senso.

c) Utilità dei sistemi intelligenti e padronanza umana

Due punti sono da rilevare:

a) I sistemi intelligenti possono incrementare le nostre conoscenze e la nostra

prassi razionale nelle questioni dove la computazione è rilevante. Quest’ambito

comprende qualsiasi problematica scientifica dove conti molto la metodologia logica

e matematica (in scienze come la matematica, la fisica, la chimica, la biologia), da cui

potrebbero risultare scoperte importanti, in altri tempi lasciate in mano a forme più

modeste di computazione. Lo stesso si può dire riguardo a tanti problemi tecnici di

ingegneria, medicina, economia, scienze della terra, ricerca spaziale, ecc., dove

l’impiego della tecnologia dell’intelligenza oggi è assolutamente indispensabile. Nei

campi invece della filosofia, dell’educazione, della politica, dove le valutazioni

essenziali e la dialettica della libertà entrano in gioco in maniera fondamentale,

l’utilità dei sistemi informatici intelligenti è molto più strumentale e sicuramente

collaterale.

b) Nell’uso dei sistemi intelligenti, l’uomo incorpora in maniera insostituibile la

sua visione sapienziale, completa e prudenziale. Il rapporto uomo/macchina

informatica non va visto in maniera concorrenziale o di emulazione. Un motto di

Popper nella sua pagina web di anni fa diceva:

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262

“Armati da una matita, possiamo essere due volte più intelligenti di quanto

non lo siamo senza di essa. Armati da un computer, possiamo diventarlo

centinaia di volte in più”.

Il computer è un’estensione della nostra intelligenza calcolatrice. Grazie ad essa

possiamo esimerci dal lavoro quasi meccanico di dover calcolare, un lavoro per il

quale siamo troppo limitati. Invece, il nostro apporto insostituibile sta nelle

valutazioni personali sulla convenienza dell’impiego di questo o di quest’altro sistema

intelligente per affrontare problemi tecnici di ogni genere, nonché nell’interpretazione

dei risultati o delle proposte. In definitiva: i SI vanno usati in modo sapienziale

(altrimenti restano un puro fatto tecnologico), e in questo modo possono collegarsi

alla visione contemplativa della realtà e alla prassi morale della persona.

d) Il problema dell’etica robotica

Nell’orizzonte della tecnologia dell’intelligenza si profila l’attività di robot

umanoidi, dotati non solo di un’intelligenza computazionale, ma anche di

atteggiamenti emotivi (simulati), con una forma corporea e un comportamento esterno

vicini all’uomo. Sembra nascere così un particolare problema etico, visto che queste

macchine potrebbero avere reazioni emotive e progetti (elaborati dalla loro “mente”)

capaci di recare non solo benefici ma anche eventuali danni agli uomini.

Si è parlato talvolta della necessità di fornire una sorta di codice “etico” ai robot

umanoidi, e a questo proposito vengono ricordate le tre leggi dell’etica robotica ideate

da Isaac Asimov290: 1) un robot non deve recare danni a un essere umano o, almeno

per inazione, non deve consentire che un essere umano sia lesionato; 2) un robot deve

obbedire agli ordini ricevuti dagli esseri umani, tranne che siano in contraddizione

con la prima legge; 3) un robot deve proteggere la propria esistenza, nella misura in

cui questa protezione non sia in contrasto con la prima e la seconda legge.

Assumendo per ipotesi quest’idea fantascientifica, risulterebbe molto difficile

garantire che quei robot interpretassero bene quelle leggi in situazioni rischiose per

loro o per gli uomini, o che potessero risolvere i possibili conflitti tra le tre leggi. Che

290 Cfr. I. Asimov, Io, robot, Mondadori, Milano 2004.

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263

cosa succederebbe se i robot incontrassero dei robot nemici o uomini criminali?

Peraltro, non è facile definire “danno” per una programmazione che dovrebbe coprire

tanti possibili casi di danni (collaterali, indiretti, ecc.). Ancora una volta, ci troviamo

con il problema della saggezza e della prudenza umana.

Più che di una roboetica, si dovrebbe parlare di un’etica della robotecnica.

Innanzitutto bisognerebbe domandarsi se è sempre sensata l’idea di voler introdurre in

modo sistematico comportamenti pseudo-emotivi nei robot, soprattutto se si ha la

pretesa di creare umanoidi che sarebbero occasione di oscurare il valore dei veri

sentimenti nei rapporti umani e sociali. D’altra parte, se il comportamento di certi

robot dovrebbe produrre dei danni all’uomo o alla società, il problema etico starebbe

negli esseri umani che lo hanno costruito e destinato a certi usi. Nei robot stessi i

problemi sono esclusivamente tecnici. I provvedimenti adottati per difendere l’uomo

dai rischi della robotica saranno sempre tecnici, anche se possono essere ispirati a

criteri etici. È normale che la tecnologia possa essere pericolosa se non è

adeguatamente controllata dall’uomo. Ed è sempre scontato, ovviamente, che l’etica è

destinata a regolare la tecnica.

I sostenitori di una visione funzionalista o materialista non sono in grado di

discernere adeguatamente tra intelligenza personale e artificiale, tra persona e robot,

tra etica e tecnica. Non hanno un’antropologia capace di affrontare i problemi indicati.

La fantascienza può divertirci con mondi dove i robot possono diventare ribelli,

commettere ingiustizie, essere puniti, andare in carcere, come se fossero agenti

morali. Con una visione materialista della vita, però, queste fantasie non solo

soddisfano la curiosità, ma anche alimentano una confusione antropologica di fondo.

e) L’interfaccia uomo/computer nella bioingegneria

Tramite biochip impiantati o collegati a parti del sistema nervoso, oggi si

possono incorporare in un individuo disabile delle neuroprotesi (ad esempio, della

coclea, parte dell’orecchio interno dove gli stimoli sonori sono trasformati in impulsi

nervosi), collegati a computer esterni, allo scopo di rimediare disfunzioni visive,

acustiche, motorie. Questo nuovo fronte della biotecnologia, di per sé positivo e

promettente, crea specifici problemi etici, dal momento che l’impianto di biochip

costituisce un apporto informatico alle prestazioni psicosomatiche non già esterno,

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264

come quello dei computer normali, bensì interno al sistema nervoso e controllabile

dall’esterno (con la possibilità di utilizzare i comandi cerebrali anche per muovere

computer “distanti”, ad esempio di tipo robotico). La tecnologia computazionale viene

così incorporata in qualche modo all’organismo a scopo terapeutico, o per migliorare

in una certa misura la potenza delle nostre funzioni psicosomatiche.

La biotecnologia informatica è possibile, tenendo conto dei limiti etici di queste

pratiche, nella misura in cui l’attività nervosa è collegata a funzioni organiche, come

la motricità o la percezione. Il panorama diventa più problematico se l’intervento

biotecnologico incide sulla base neurale delle funzioni cognitive o affettive alte, di

tipo intenzionale transorganico, come il pensiero o i sentimenti umani.

Questo campo di ricerca è oggi agli inizi e non conosciamo ancora le sue

possibilità di sviluppo effettivo. In ogni caso, la tecnologia non è in grado di

controllare le attività spirituali della persona (l’esercizio della libertà e la

comprensione intellettuale), dal momento che esse non sono causate dal cervello, pur

avendo una base cerebrale. La neurotecnologia può agire soltanto nell’area dei

condizionamenti psicosomatici degli atti umani, ovviamente con rischi non

indifferenti (controlli abusivi, intrusioni con effetti di disintegrazione psichica),

benché al contempo essa potrebbe risolvere tanti problemi sensoriali e motori, quali la

cecità, la sordità, la tetraplegia, grazie al controllo della comunicazione dei segnali

nervosi.

I limiti antropologici ed etici della bioingegneria computazionale non potranno

essere avvertiti in profondità da autori o ricercatori materialisti. In questo senso, gli

entusiasmi talvolta euforici con cui alcuni attendono la creazione di un “nuovo tipo di

uomo” (l’uomo bionico o cyborg, fusione tra computazione e organismo), o di “nuovi

esseri intelligenti super-umani”, è sintomo di un’antropologia carente. La tecnologia

deve stare al servizio della persona.

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265

7. Creatività e apprendimento

a) Creatività291

Può essere creativa l’intelligenza informatica? La risposta dipende dal senso,

comunque analogico, del concetto di creatività. Gli animali, l’uomo e i SI possono

essere creativi, ciascuno in un senso particolare. La creatività cognitiva, in linea di

massima, è la capacità di scoprire o di inventare una nuova relazione, un nuovo

ordine, una novità formale non preesistente nei contenuti acquisiti, anche se

soggiacente come possibilità. Non basta definire la creatività in termini di

informazione. Ciò che è inventato o scoperto deve essere rilevante, interessante, o

deve soddisfare un certo scopo. Quindi non qualsiasi novità è ugualmente valida, il

che dipende da certi parametri di valutazione.

I sistemi intelligenti arrivano a risultati creativi, non previsti dall’uomo,

soprattutto perché possono esplorare “spazi concettuali” o “euristici”. Questi spazi

sono ambiti di un problema o di una questione cognitiva o pratica definiti con metodi

computazionali, ad esempio tramite regole generali e algoritmi euristici. Il fatto di

risolvere un problema nuovo entro uno spazio concettuale è la manifestazione di un

tipo di creatività tipico dei SI artificiali. I limiti di questa creatività sono i limiti del

quadro concettuale dato. Inoltre la cornice concettuale presuppone un background di

comprensione metafisica e antropologica non raggiunta dal SI.

L’uomo è capace di trascendere ogni spazio euristico problematico predefinito.

Egli può comparare infiniti tipi di problemi e infiniti quadri concettuali, diversi

oppure opposti, anche per integrarli o associarli tra loro, ed è capace di crearne

sempre dei nuovi. La radice di questa potenza è l’apertura della mente umana

all’infinito dell’essere. Da qui emerge la possibilità di fare senza posa delle creazioni

intelligenti inattese. Può darsi che i singoli individui, tranne il caso dei grandi talenti o

dei geni, non godano di un’enorme capacità creativa, o che sempre lavorino in cornici

più o meno “prestabilite”. Ma l’umanità intera manifesta complessivamente

un’infinita creatività nel pensiero, nella tecnica e nell’arte.

291 Cfr., sul tema, T. Dartnall (ed.), Artificial Intelligence and Creativity, Kluwer, Dordrecht 1994; O. A. Dentici, Intelligenza e creatività, Carocci, Roma 2001.

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266

I risultati effettivi della creatività dei SI appaiono piuttosto modesti, comunque

non disprezzabili. Nel campo scientifico, ad esempio, certi programmi sono riusciti

talvolta a “scoprire” alcune leggi fisiche (come le leggi di Keplero), o a compiere altre

scoperte più particolari. Sono arrivati a tali risultati, naturalmente, solo se

adeguatamente programmati. Non si conoscono invenzioni scientifiche sconvolgenti

compiute dalla sola intelligenza artificiale. Gli stessi progressi più importanti

nell’informatica sono stati ideati non da macchine, ma da persone umane che,

volendo, possono sempre programmare senza limiti nuove tecniche d’intelligenza

artificiale. Nel campo artistico, certi programmi possono produrre opere nuove

(pitture, disegni, canzoni) in base a certe regole. Spetta all’uomo valutare la qualità

artistica delle opere realizzate da artisti o da macchine. Più interessante e realistica ci

sembra la possibilità che l’uomo, servendosi di “creazioni” particolari dei SI in campo

scientifico o artistico, possa interagire con esse e così arrivare personalmente a valide

creazioni. L’uso interattivo della tecnologia dell’intelligenza potrebbe offrire

all’uomo nuove opportunità di manifestare la sua creatività personale nelle opere

scientifiche, tecnologiche e artistiche.

In questa tematica sono sempre valide la nostre osservazioni precedenti riguardo

ai limiti della tecnologia dell’intelligenza. Le opere dei SI, per quanto utili e valide,

comunque sono state ottenute tramite meccanismi non intenzionali, all’infuori delle

operazioni cognitive personali. Quindi sono opere dell’uomo stesso in quanto

raggiunge nuovi risultati tramite strumenti creati da lui.

b) Apprendimento

Una delle proprietà dei sistemi intelligenti è di poter imparare “da soli”, cioè di

poter migliorare in modo autonomo e stabile le proprie prestazioni. Pure in questo

caso bisogna tener conto dell’analogia del concetto di apprendimento. Gli animali,

l’uomo e alcuni sistemi informatici possono imparare, ma non nello stesso senso.

Il concetto di apprendimento è intenzionale. Gli organismi possono rispondere

meglio agli stimoli ambientali in base a processi di adattamento. Dire che “imparano”

ad adattarsi è una metafora. Gli animali invece imparano in un senso vero e proprio

quando incorporano, grazie all’esperienza, modi stabili di comportamento che prima

non avevano. In questo senso l’apprendimento si contrappone all’innatismo. La prima

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267

e più elementare forma dell’apprendimento animale è il condizionamento strumentale.

L’apprendimento comporta la conservazione nella memoria di ciò che si è imparato.

Le nuove abilità acquisite (nuotare, volare) s’incorporano nella memoria procedurale.

L’uomo impara quando aggiunge alla sua memoria contenuti cognitivi o abilità

nuove che prima non aveva (imparare scienze, lingue, tecniche, arti). Il confine tra ciò

che si impara come contenuto (know what) o come saper fare (know how) non sempre

è preciso, poiché i contenuti imparati debbono saper essere usati convenientemente.

Chi impara filosofia, deve imparare a saper fare filosofia. Imparare non è

semplicemente ricordare. Ciò che s’impara costituisce un sapere. In generale, ciò che

viene imparato nell’uomo è un abito, cioè una dotazione stabile, acquisita e non

innata, di tipo cognitivo teorico o pratico, specialmente a livello intellettivo.

Le modalità di apprendimento sono parecchie. La ripetizione, l’esperienza, certe

reazioni emotive, aiutano a imparare in un modo sensitivo, spontaneo e poco riflesso,

talvolta di tipo adattativo. Gli animali e anche l’uomo possono imparare a far bene

certe cose in base a minacce, premi, punizioni o altri stimoli affettivi. La dimensione

cerebrale dell’apprendimento è fondata sulla plasticità sinaptica.

Nel processo d’apprendimento vi è una parte passiva e un’altra attiva

intrinsecamente collegate, poiché chi impara deve recepire qualcosa ma deve

ugualmente “far diventare propri” determinati contenuti o atti. Nella vita animale si

comincia a imparare dagli altri grazie all’apertura cognitiva e affettiva. Questo

fenomeno consente di recepire dai progenitori le loro abilità congenite o acquisite. La

forma elementare dell’apprendimento a partire dagli altri è l’imitazione ripetitiva di

operazioni della sensibilità.

L’uomo impara razionalmente soprattutto quando acquista conoscenze o abilità

(abiti, virtù) tramite processi intenzionali specifici. In questo senso egli “impara a

imparare”, cioè impara in modo cosciente a esercitare le operazioni giuste che portano

all’apprendimento (saper studiare, saper allenarsi). L’educazione comprende

l’insieme armonioso di tutto quanto l’uomo e la donna debbono imparare per vivere

bene come persone in un determinato ambiente sociale.

L’apprendimento umano possiede una duplice dimensione, ricettiva e attiva,

poiché ci arricchiamo solo se recepiamo e sviluppiamo attivamente quanto i nostri

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268

simili hanno acquistato e conservato nella cultura. Questo processo avviene solo

attraverso il rapporto personale con gli altri. L’apprendimento guidato da altri (i

maestri) crea le relazioni reciproche di insegnare/imparare. Naturalmente la persona

può anche imparare per proprio conto, quando scopre da sola nuovi contenuti e

abilità. Però in questo caso essa si preoccupa di trasmettere ad altri quanto ha

imparato, per cui il processo educativo basato sulla menzionata duplice relazione non

si perde mai di vista.

I sistemi intelligenti informatici possono “imparare” nel senso che possono

migliorare le proprie prestazioni in base a certe finalità, valori o criteri predeterminati

nei programmi. Una macchina informatica può imparare “automaticamente” -per

questo è macchina- grazie a meccanismi di auto-valutazione delle operazioni con più

successo secondo un determinato criterio. Queste operazioni, una volta individuate,

possono essere incorporate nella memoria (come regole di produzione). I limiti di

questa forma meccanica di auto-apprendimento sono quelli già visti sopra in relazione

al valore cognitivo delle operazioni informatiche.

8. Connessionismo292

a) Un nuovo paradigma computazionale

Il connessionismo è una tecnica di elaborazione e di trasmissione

dell’informazione basata su associazioni a rete tra diverse “unità sinaptiche” o neuroni

artificiali, ciascuno dei quali può recepire e trasmettere un’informazione, oppure può

292 Sull’argomento del connessionismo si possono consultare, in generale, i manuali di psicologia cognitiva o di scienza cognitiva di Eysenck/Keane, Luger, Pessa/Penna e Viggiano, indicati nella bibliografia finale. Inoltre cfr. G. Basti, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, cit.; W. Bechtel, A. Abrahamsem, Connectionism and the Mind, Blackwell, Oxford 2002; A. Clark, Microcognizione. Filosofia, scienza cognitiva e reti neurali, il Mulino, Bologna 1994; P. L. Cobos Cano, Conexionismo y cognición, Pirámide, Madrid 2005; J. E. Corbí, J. L. Prades, El conexionismo y su impacto en la filosofía de la mente, in F. Broncano, La mente humana, Trotta, Madrid 1955, pp. 151-175; D. Floreano, C. Mattiussi, Manuale sulle reti neurali, il Mulino, Bologna 2002; St. Grossberg, Natural Networks and Natural Intelligence, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1988; S. López Palomo, El conexionismo como problema filosófico, tesi di Licenza della Facoltà di filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Roma 2006; P. Smolensky, Il connessionismo: tra simboli e neuroni, Marietti, Genova 1992.

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269

inibirla o bloccarla293. In base ai pesi (o la loro somma algebrica) acquistati dai nodi in

funzione dei rapporti tra gli input e il loro valore di soglia294 (tenendo conto che il

peso di ogni nodo attiva oppure blocca la connessione), la rete acquista una certa

configurazione dinamica in virtù della quale produce delle risposte specifiche.

Le reti neurali artificiali costituiscono un modo non simbolico di computazione

(senza programmi), diverso dalla computazione simbolica seguita dai computer

tradizionali. Possiamo capire la possibilità di elaborare informazione senza

simbolismo se ricordiamo che questa è appunto la logica della vita, quindi del cervello

e delle sue connessioni sinaptiche. Una delle sue caratteristiche è il parallelismo,

contrapposto alla serialità del processing dei computer simbolici. L’informazione è

distribuita in tutta la rete e si propaga “in parallelo” (non sequenzialmente ovvero

attraverso canali speciali).

La tecnologia delle reti neurali si è ispirata al modo in cui il cervello elabora

l’informazione295. Talvolta il connessionismo e la computazione simbolica vengono

contrapposti, ma in realtà i due procedimenti possono combinarsi. I computer

tradizionali possono creare reti connessionistiche e possono lavorare tra loro anche in

modo parallelo.

Le reti neurali sono costruite a poco a poco attraverso l’accurata modificazione

dei pesi delle connessioni sinaptiche. In questo senso la rete viene allenata e

progressivamente impara a produrre una serie di risposte a seconda della

configurazione acquistata. La rete può essere costruita sotto la guida di un supervisore

che orienta il suo allenamento verso un certo risultato. Però una rete si può anche

formare spontaneamente, senza supervisione, e allora le uscite che ne derivano

seguono una dinamica propria e tendono ad auto-stabilizzarsi in una certa

configurazione, potendo risultare utili nel contesto funzionale in cui si sono istaurate,

293 Alcuni studiosi importanti nei primi sviluppi delle reti neurali, a partire dagli anni ‘40 del secolo scorso, sono stati W. McCulloch, W. Pitts, D. Hebb, F. Rosenblatt, O. Selfridge, E. Caianiello. Ricercatori più recenti sono D. Rumelhart e L. McClelland. 294 I pesi sono misure matematiche analoghe ai potenziali di eccitazione e d’inibizione dei neuroni. 295 Questo fatto non toglie che il sistema nervoso contenga anche delle specializzazioni o moduli localizzati. Il suo funzionamento non è puramente in parallelo. D’altra parte, normalmente le reti neurali non intendono essere un modello preciso del funzionamento cerebrale.

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270

così come -per fare un paragone- i rapporti spontanei tra molti amici alla fine possono

essere utili nell’ambito dell’amicizia.

b) Il connessionismo nella natura e nell’uomo

Il connessionismo, fenomeno tipico della vita, potenziare la sua funzionalità

adattativa e selettiva, sia nell’ambito della vita organica che nel campo intenzionale, a

livello inconscio e anche cosciente. L’uomo ha imparato a riprodurre questi processi

naturali in modo artificiale.

Il connessionismo dunque è un paradigma epistemologico con un fondamento

naturale: la formazione spontanea di ordine nella vita attraverso associazioni. Tramite

la logica associativa vengono costituiti ordini naturali, in ambito biologico, che poi

risultano selettivi o preferenziali. Seppure il paradigma connessionistico non spiega

tutta la natura vivente, apporta una luce importante sul modo in cui procedono le

opere della vita.

La logica connessionistica non si contrappone al finalismo. La sua teleologia

piuttosto è bottom-up: la finalità emerge dal basso e specifica una tendenza biologica

previa. Il nostro concetto di teleologia spesso è troppo “progettualistico”, in quanto

nasce da una logica astratta basata su regole generali separate che poi applichiamo

alla realtà. Ma il finalismo della natura non va concepito in questa maniera

antropomorfica. Questo punto potrebbe gettare luce sulla razionalità dei processi

evolutivi della natura e sul ruolo dei fenomeni aleatori nei dinamismi naturali.

Nella vita sensitiva i processi connessionistici sono naturali, visto che il cervello

è un organo altamente associativo, secondo la sua dinamica basata sui rapporti attivi

tra neuroni. Nella vita animale, anche sociale, l’associazionismo cognitivo/emotivo è

in funzione dei fini istintivi e presiede, in buona misura, l’apprendimento in base

all’esperienza. Nell’uomo l’associazionismo intenzionale è introdotto nell’orbita della

vita razionale.

Nella psicologia cognitiva si è svolta una polemica (della quale non possiamo

dare i dettagli) sull’interpretazione dei processi umani della conoscenza in termini o

prevalentemente simbolici e linguistici (linea della scuola di Fodor), oppure in termini

connessionistici (McClelland, Smolensky). Ma nella nostra cognizione i livelli sub-

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271

simbolici e simbolici piuttosto s’intrecciano a vicenda. Il paradigma connessionistico

interviene ugualmente a livello linguistico, intenzionale e cosciente. Il tipico

associazionismo mnemonico segue procedure connessionistiche. Un ricordo, a

seconda del suo “peso”, richiama con più o meno forza altri ricordi.

Il connessionismo spiega la duplice direzione della conoscenza, sia bottom-up,

oppure dalle parti al tutto, sia top-down, oppure dal tutto alle parti. Infatti nella

percezione, nella memorizzazione e in ogni tipo di apprendimento un singolo dato ci

può portare alla totalità, così come la voce di una persona ci rimanda alla persona

completa. All’inverso, l’apprensione di una totalità ci consente di superare rumori

(dati non integrabili nella percezione) e lacune così come, quando sentiamo una frase,

possiamo capirla anche se viene pronunciata male o con suoni incompleti.

Riconosciamo il volto delle persone e le loro somiglianze reciproche in base a criteri

connessionistici, non deduttivi296.

La ragione umana segue parimenti due vie complementari, una astratta e

deduttiva, basata su simboli e regole generali, l’altra legata all’esperienza, con

l’impiego di paragoni, analogie e processi induttivi. Possiamo conoscere una città

utilizzando una cartina (metodo deduttivo e a priori), oppure percorrendola in diverse

direzioni, affidandoci all’esperienza (metodo induttivo e associativo).

In modo simile, il connessionismo è applicabile al linguaggio e alla

comprensione dei significati, come si vede nelle reti semantiche che possono

configurare il significato analogico di un concetto non secondo una definizione a

priori, ma sulla base di generalizzazioni imperfette prese dai rapporti tra i casi

conosciuti.

Comunque non tutto è pura associazione empirica nel nostro pensiero. Alcuni

concetti, senz’altro, hanno ombre di imprecisione, quando ammettono dei margini più

o meno rilevanti di apertura significativa, una caratteristica studiata dalla logica

296 Precisamente in questi settori sono state elaborate alcune reti neurali capaci di riconoscere facce, di discriminare oggetti, di imparare alcuni aspetti della pronuncia dell’inglese o della coniugazione del tempo passato di verbi regolari e irregolari della lingua inglese. La tecnologia connessionistica, comunque, per il momento non ha avuto un grande sviluppo commerciale.

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272

sfumata (fuzzy). Altri concetti, però, sono precisi nel loro significato, nonostante

possano presentare piccole sfumature svariate nelle loro connotazioni297. La logica

dell’analogia è capace di introdurre chiarimenti opportuni in questi usi concettuali, al

servizio della conoscenza della verità e senza cadere nel relativismo empirista.

Il paradigma connessionistico rende intelligibile, in un certo senso, anche i

dinamismi sociali. Il progresso storico può essere guidato da progetti e piani

prestabiliti, ma spesso va avanti in un modo relativamente inconsapevole, secondo

tanti legami imprevisti o spontanei tra le persone, il mondo e la cultura, legami dovuti

alla comparsa di nuove circostanze. Di solito la razionalità concreta e induttiva,

apparentemente meno teleologica (in realtà, solo meno progettuale), precede l’uso

della razionalità astratta. Per questo motivo, i progressi culturali e scientifici non

sempre nascono da programmi chiari e consapevoli, ma spesso emergono da intrecci a

rete, con un relativo disordine. Posteriormente l’uomo, considerando i valori

conquistati grazie a questi dinamismi, stabilisce regole generali e si orienta in un

modo più consapevole e coerente verso i nuovi obiettivi, spinto dai fini verso i quali la

sua natura tende.

c) Aspetti ontologici

La portata ontologica delle operazioni informatiche delle reti neurali è analoga a

quella dell’informatica simbolica. Le reti possono essere costruite in un particolare

hardware, ma nella maggior parte dei casi vengono istallate a livello software in

programmi di computazione. Naturalmente, le reti non compiono operazioni

immanenti cognitive e non hanno vere rappresentazioni, benché possano elaborare

l’informazione corrispondente a tali operazioni. Sono strumenti tecnici i cui risultati,

quindi, vanno interpretati dall’uomo secondo la sua cognizione percettiva e

concettuale. Le reti talvolta possono aiutarci alla classificazione di oggetti o al

riconoscimento di configurazioni, oppure servono a prevedere risultati in base a

insiemi di dati da cui seguiranno conseguenze incerte (ad esempio, sul clima locale,

sugli esiti della borsa valori, sul rischio dei prestiti).

297 Cfr. il mio studio Introduzione alla gnoseologia, Le Monnier, Firenze 2003, pp. 102-115, 122-136.

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273

La scoperta della computazione connessionista non può essere usata in sostegno

del materialismo o dell’eliminativismo (come hanno fatto i coniugi Churchland),

tranne che sia ignorata la dimensione psichica della conoscenza, in un modo analogo

al riduzionismo della teoria dell’intelligenza artificiale forte. Di conseguenza, le

nostre valutazioni sull’utilità e sui limiti della tecnologia dell’intelligenza valgono

ugualmente per la computazione connessionistica298.

In sintesi, l’informatica connessionistica non solo è ispirata alla dinamica

associativa neurale, ma si rapporta più ampiamente a certi aspetti dell’elaborazione

biologica dell’informazione e, a livello umano, alla razionalità concreta e associativa

del pensiero. La computazione simbolica invece imita la nostra razionalità astratta e

deduttiva, basata soprattutto sul simbolismo.

298 Una lettura delle reti neurali associata alle dinamiche fisiche non lineari, in vicinanza alle intuizioni aristoteliche sulla forma e l’intenzionalità, si può vedere in G. Basti, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, cit., pp. 198-250.

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Epilogo

Le tematiche affrontate in questo volume coprono in maniera sintetica numerosi

punti normalmente contemplati nei libri e articoli di filosofia della mente. Ogni

argomento meriterebbe uno sviluppo assai più ampio, se teniamo conto dell’immensa

bibliografia esistente e dei molteplici rapporti delle questioni esaminate con le

ricerche scientifiche. In queste pagine ho preferito concentrarmi sugli aspetti

fondamentali dal punto di vista filosofico. La vastità dei punti considerati, così vicini

a settori quali le neuroscienze, la psicologia cognitiva e la scienza computazionale,

consigliava la prospettiva prescelta, diversa da una semplice presentazione neutrale

dei problemi o da un puro resoconto storico dei dibattiti.

L’approccio ontologico e antropologico mantenuto sin dall’inizio in questo libro

si è rivelato fecondo nello studio delle singole questioni -almeno, così spero-, aprendo

un orizzonte alla comprensione degli atti personali nella loro connessione con la base

neurale, sia a livello psicosomatico che neurovegetativo. Inoltre abbiamo tenuto

presente il prolungamento dell’attività della persona nella cultura, la sua interazione

con gli altri, l’importanza del linguaggio e l’imprescindibile ricorso alla

strumentazione tecnologica nei riguardi del progresso cognitivo dell’uomo, da cui

risultano tante conseguenze sul piano emotivo e comportamentale.

Un’ontologia dell’operare umano, nel rispetto dei livelli della persona e delle

loro reciproche relazioni, consente di approfondire un insieme di argomenti su cui

oggi la ricerca è più che mai aperta. Non mi resta che augurare ai lettori di questo

libro un proseguimento pieno di frutti nei loro studi sull’uomo nel campo filosofico e

scientifico.

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Bibliografia

AA. VV., Homo Loquens, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1989. AA. VV., “Anuario filosófico” (Universidad de Navarra), numero monografico su Identidad personal, XXVI/2, 1993. AA. VV., Il rapporto di Napoli sul problema mente-corpo, Istituto per ricerche ed attività educative, Napoli 1991. Artigas, M., The Mind of the Universe. Understanding Science and Religion, Templeton Foundation Press, Philadelphia e Londra 2002. Basti, G., Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1991; Filosofia dell’uomo, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1995; Voce Mente-Corpo, nel Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Città Nuova, Roma 2002, vol, 1, pp. 920-939. Bechtel, W., Filosofia della mente, il Mulino, Bologna 1992. Bechtel, W., Graham, G., A Companion to Cognitive Science, Blackwell, Oxford 1998. Bermúdez, J. L., Philosophy of Psychology, Routledge, New York e Londra 2005. Boncinelli, E., Il cervello, la mente e l’anima, Mondadori, Milano 1999. Braine, D., The Human Person: Animal and Spirit, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1992. Brock, S., Azione e condotta: Tommaso d’Aquino e la teoria dell’azione, Edusc, Roma 2002. Broncano, F. (ed.), La mente umana, Trotta, Madrid 1995. Burgos, J. M., Antropología: una guía para la existencia, Palabra, Madrid 2000. Carruthers, P., Smith, P. K. (eds.), Theories of Theories of Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1996. Chalmers, D. J., The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford 1996. Charniak, E., McDermott, D., Introduzione all’intelligenza artificiale, Masson, Milano 1988. Chiari, S. (curatore), Cervello e mente. Un dibattito interdisciplinare, Angeli, Milano 1988, 2a. ed. Crumley II, J. S. (ed.), Problems in Mind. Readings in Contemporary Philosophy of Mind, Mayfield Pub. Co., Mountain View (California) 2000. Damasio, A., Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000. Di Francesco, M., Introduzione alla filosofia della mente, Nis, Roma 1996. Echavarría, M. F., La praxis de la Psicología y sus niveles epistemológicos según Tomás de Aquino, Universitat Abat Oliba CEU, Documenta Universitaria, Gerona 2005.

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Indice generale PRESENTAZIONE

INTRODUZIONE. PERCHÉ MENTE E CORPO?

CAPITOLO 1. LE POSIZIONI FILOSOFICHE 1. Dualismo e parallelismo 2. Monismo spiritualista 3. Comportamentismo 4. Neurologismo ed emergentismo a) Teoria dell’identità b) Biologismo naturalista c) Emergentismo d) Sopravvenienza 5. I funzionalismi a) Computazionalismo b) Altri funzionalismi 6. Verso un ridimensionamento del dibattito “anima-corpo”

CAPITOLO 2. IL CORPO SENZIENTE 1. Ilemorfismo: aspetti ontologici ed epistemologici 2. La corporeità vivente 3. Informazione senza conoscenza a) Informazione e formalizzazione b) Segnali e processi causali 4. Sentire di vivere 5. Ontologia dell’atto sensitivo a) Le cinque dimensioni delle operazioni sensitive b) Carattere psicosomatico dell’atto sensitivo c) Rilievi linguistici d) Correlazioni e causalità: presentazione euristica del problema 6. Comportamento e interiorità a) Introduzione b) L’esterno e l’interno degli atti c) Tre nozioni di condotta d) Visione riassuntiva

CAPITOLO 3. L’INTELLIGENZA UMANA 1. La trascendenza dell’intelligenza umana sul corpo 2. Il ruolo del cervello nel pensiero a) Tommaso d’Aquino e il cervello b) La causalità del cervello in rapporto all’atto intellettuale 3. L’inconscio cognitivo 4. Anima, corpo e identità personale a) Persona b) Coscienza e io

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c) Anima come io e anima come atto del corpo d) Identità del corpo umano e cervello e) L’anima separata dal corpo 5. Lo sviluppo dell’intelligenza 6. Cervello e grado di intelligenza 7. Cervello, linguaggio, immagini e pensiero a) Necessità del linguaggio b) Il linguaggio, tra l’intelligenza e il cervello c) La codificazione cerebrale del linguaggio d) La questione dell’innatismo linguistico e) Esiste un linguaggio mentale previo ai linguaggi convenzionali? f) Linguaggio, immagini e significato universale 8. Correlazioni tra atti intellettivi ed eventi neurali 9. Quadro panoramico

CAPITOLO 4. LA CAUSALITÀ MENTE-CERVELLO 1. Introduzione al problema 2. Il dinamismo causale nella vita animale a) Riflessi b) Istinti c) Passioni organiche d) Passioni animali “alte” e) Fenomenologia della motricità animale 3. Volontà e motricità secondo San Tommaso 4. La razionalità della scelta: motivi e ragioni a) La decisione: amore e ragioni b) La dimensione etica c) Conflitti e dinamismo delle scelte 5. Le fonti delle motivazioni 6. La libertà nella genesi dell’atto di scelta a) La libertà della scelta b) Alcune difficoltà relative alla libertà di scelta c) Scelte animali 7. Dalla scelta alla motricità. La mediazione emotiva e dei sentimenti a) Impostazione del problema b) Gli esperimenti di Libet c) Violazione del principio di conservazione dell’energia? d) La mediazione dei sentimenti nella motricità volontaria d. 1. Emozioni e sentimenti d. 2. Il rapporto tra sentimenti e volontà d. 3. Alcuni spunti wojtyleani sulla questione dei sentimenti e la volontà 8. Muovere il corpo volontariamente a) Funzioni psichiche e mutamenti fisici b) La volontà e i comandi motori b. 1. La volontà muove tramite i sentimenti b. 2. Come influisce l’intenzione volontaria sul corpo in moto 9. Condivisione di vita e interazioni intersoggettive

CAPITOLO 5. L’INTELLIGENZA ANIMALE 1. Approssimazione epistemologica e storica 2. In che senso parliamo di intelligenza animale

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3. Opere “intelligenti” degli animali 4. Antropologie naturalistiche 5. Aspetti cognitivi animali a) Percezione di configurazioni invarianti e tipiche. Razionalità pratica b) Riconoscimenti sociali c) Coscienza animale 6. Comunicazione e linguaggio animale a) Aspetti generali b) Tipi di comunicazione c) Linguaggi insegnati agli animali d) I limiti del linguaggio animale

CAPITOLO 6. TECNOLOGIA DELL’INTELLIGENZA 1. Ontologia degli oggetti artificiali 2. Oggetti istituzionali e “mente collettiva” a) Statuto ontologico dell’istituzione b) Tipologia degli oggetti istituzionali c) Istituzione e agire collettivo 3. I computer come elaboratori dell’informazione 4. La razionalità calcolatrice separata 5. Operazioni di macchine 6. Limiti e utilità dell’intelligenza informatica a) Gli atteggiamenti critici b) Intelligenza personale e razionalità computazionale c) Utilità dei sistemi intelligenti e padronanza umana d) Il problema dell’etica robotica e) L’interfaccia uomo/computer nella bioingegneria 7. Creatività e apprendimento a) Creatività b) Apprendimento 8. Connessionismo a) Un nuovo paradigma computazionale b) Il connessionismo nella natura e nell’uomo c) Aspetti ontologici

BIBLIOGRAFIA GENERALE

EPILOGO

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COPERTINA

La filosofia della mente è un’area del pensiero contemporaneo tipicamente

interdisciplinare. Nasce, in parte, dalla filosofia analitica, ma soprattutto da problemi

epistemologici e antropologici suscitati dalle scienze cognitive, quali le neuroscienze,

la psicologia cognitiva, la filosofia computazionale e la psicolinguistica. Le questioni

affrontate in questo volume sono presenti nell’attuale dibattito tra li esperti di filosofia

della mente: distinzione e integrazione tra operazioni mentali e attività neurale, ruolo

del cervello nelle funzioni cognitive, pensiero e linguaggio, basi neurologiche

dell’intelligenza, causalità tra fenomeni intenzionali e mutamenti neurofisiologici,

concetto d’intelligenza animale, rapporti tra l’intelligenza personale e l’intelligenza

artificiale.

Il libro considera le diverse correnti della filosofia della mente (dualismo,

emergentismo, funzionalismo, comportamentismo, ecc.) e presenta una visione

antropologica di fondo ispirata a certe premesse aristoteliche e tomistiche, nelle quali

i livelli della persona (neurovegetativo, somatosensitivo, spirituale) sono fortemente

integrati.

In questo volume i lettori incontreranno una serie di argomenti di confine situati

nell’odierno dialogo tra la filosofia, le neuroscienze e le tecnologie computazionali.

Troveranno, soprattutto, una piattaforma filosofica solida, capace di approfondire gli

elementi dei dibattiti senza riduzionismi, con un approccio aperto alle dimensioni

trascendenti della persona umana.

Juan José Sanguineti, italo-argentino, è professore ordinario di filosofia della

conoscenza presso la Pontificia Università della Santa Croce. È autore di numerosi

articoli e libri su tematiche della filosofia della scienza, cosmologia, filosofia della

natura, gnoseologia, logica e filosofia del linguaggio, spesso nella prospettiva del

dialogo tra la filosofia e le scienze. Le sue ricerche più recenti si concentrano sulla

filosofia della scienze cognitive.

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INDICE DEI NOMI

Abrahamsem A., Acerbi A., Agazzi E., Andrés (de) T., Antonietti A., Aristotele Armstrong D., Artigas M., Asimov I., Auroux S., Austin J., Baars B.J., Ballerini A., Basti G., Battro A., Bechtel W., Benedetto XVI, Berkeley G. Bermúdez J.L., Biolo S., Boden M., Boncinelli E., Borghi L., Braine D., Brentano F., Brock S., Broncano F., Bunge M., Burgos J.M., Button G.,

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Caianello E., Carruthers P., Cartesio R., Casalegno P., Cassam Q., Chalmers D.J., Changeux J-P., Charniak E., Chiari S., Chomsky N., Churchland P.M., Churchland P.S., Clansey W.J., Clark A., Conesa F., Corbí J.E., Cornwell J., Copeland J., Coulter J., Cross R., Crumley II J.S., Damasio A., Dartnall T., Darwin Ch., Davidson D., Dawkins R., Deacon T., Dennett D.C., Dentici O.A., Di Francesco M., Dreyfus H.L., Dreyfus S.E., Eccles J.C., Echavarría M.F., Edelman G.,

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Etxeberria Agiriano A., Eysenck H.J., Eysenck M.W., Fabro C., Feigl H., Feinberg T.E., Frisch (von) K., Flanagan O., Floreano D., Flores F., Fodor J.A., Fogassi L., Formigari L., Gallese V., Garcia Azkonobieta T., Gardner (coinugi, A.G. e B.G.) [cercarli nel testo come “coiniugi Gardner”. Di solito sono conosciuti così] Gardner H., Gazzaniga S., Gehlen A., Giacomo (San) Gibson J., Gjerlow K., Gödel K., Goleman D., Gottenplan S., Gould C.G., Gould J.L., Graham G., Graham L.R., Gregory R.L., Griffin D.R., Grossberg St., Haldane J., Harnad S.R.,

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Hebb D., Heil J., Hookway C., Husserl E., Jaki S., Jerison H.J., Johnson M., Johnson-Laird Ph., Jonas H., Kant E., Keane M.T., Keenan J.P., Keller F., Kenny A., Kim J., Köhler W., Lakoff G., Landsberg M.I., Langton Ch., LeDoux J., Lee J.R., Leibniz G., Lenneberg E.H., Lenzi L., Lewis D.K., Libet N., Lombo J.A., López Palomo S., Lorenz K., Lowe E.J., Luger G.F., Lullo R., Lycan W.G., MacLean P., Maldamé J.M.,

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Malo A., Manzanedo M., Manzoni A., Marconi D., Margolis J., Margulis L., Marrafa M., Mattiussi C., McCarthy J., McClelland L., McCulloch W., McDermott D., McDowell J., Mele A., Mello P., Merleau-Ponty M., Miller J., Minsky M., Monod J., Mora F., Moravia S., Moss E., Moya C., [controllare se forse il testo dice: Moya Espí, C.] Muntané Sánchez A., Murphy N., Nagel Th., Nannini S., Nelkin N., Neumann (von), J., Newell A., Norvig P., Nubiola J., Obler L.K., Oliverio A., Paolo (San),

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Pascal B., Paternoster A., Pavlov I., Peppeberg I., Perna G., Perry J., Pessa E., Peterson C., Peterson D., Philippe J., Piaget J., Pietronilla Penna M., Pilleri G., Pinillos J.L., Pitts W., Place U., Platone Polanyi M., Polo, L., Popper K., Possenti V., Prades J.L., Premack D., Purves D., Putnam H., Quitterer J., Rabossi E., Rey G., Rhonheimer M., Ricoeur P., Rizzolati G., Rodríguez Luño A., Rolls E.T., Rosch E., Rossenblatt F.,

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Roth G., Rumbaugh D., Rumelhart D., Russell R.J., Russell S.J., Russo F., Ryle G., Sagan D., Sanguineti J.J., Sarti E., Savage-Rumbaugh S., Scheler M., Schins J.M., Schrödinger E., Searle J., Seifert J., Selfridge O., Seligman M., Sellés J.F., Shannon C. E., Sharrok W., Shoemaker S., Simon H., Simon M., Skinner B.F., Smart J.J., Smith P.K., Smolensky P., Sosa E., Spaemann R., Sprague E., Strumia A., Szubka T., Tanzella-Nitti G., Temple Ch.,

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Thompson E., Thorndike E.L., Tinbergen N., Tommaso d’Aquino Trevena J.A., Turing A., Vallega-Neu D., Varela F., Vauclair J., Viggiano M.P., Villanueva E., Warner R., Watson J.B., Wilson E.O., Wilson M., Winograd T., Wittgenstein L., Wojtyla K., Woodruff G., Nomi di animali

Binti Jua Hans Kanzi Sara Washoe

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DISEGNO CERVELLO MAC LEAN