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Il Pensare – Rivista di Filosofia ISSN 2280-8566 www.ilpensare.it Anno II, n. 2, 2013 1 Mente e persona Indice Presentazione Furia Valori p. 3 Teoria nomiosica della mente e monismo duale non riduzionista Mariano L. Bianca Università di Siena p. 11 Traccia di sé. La persona tra fenomenologia e neurobiologia Vinicio Busacchi Università di Cagliari p. 38 Note su ascesi e potenziamento della coscienza: la dottrina schopen- haueriana del genio e lo Übermensch nietzscheano Marco Casucci Università di Perugia p. 51 Ascesi della mente e recupero del mondo nell’ontocoscienzialismo Marco Moschini Università di Perugia p. 77 Ontologia del virtuale, intelligenza collettiva e repubblica delle menti in Pierre Lévy Furia Valori Università di Perugia p. 97

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Mente e persona

Indice Presentazione Furia Valori p. 3

Teoria nomiosica della mente e monismo duale non riduzionista Mariano L. Bianca Università di Siena p. 11 Traccia di sé. La persona tra fenomenologia e neurobiologia Vinicio Busacchi Università di Cagliari p. 38 Note su ascesi e potenziamento della coscienza: la dottrina schopen-haueriana del genio e lo Übermensch nietzscheano Marco Casucci Università di Perugia p. 51 Ascesi della mente e recupero del mondo nell’ontocoscienzialismo Marco Moschini Università di Perugia p. 77 Ontologia del virtuale, intelligenza collettiva e repubblica delle menti in Pierre Lévy Furia Valori Università di Perugia p. 97

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Osservatorio su “Ontologia, persona, linguaggi. Per una nuova antropologia” Associazione Centro Culturale “Leone XIII” www.LeoneXIII.org Sede: Piazza 4 novembre, 6 – 06121 Perugia

Direttore

Furia Valori

Comitato scientifico

Daniel Arasa, Mariano Bianca, Marco Casucci, Luigi Cimmino, Gianfranco Dalmasso, Markus Krienke, Massimiliano Marianelli, Letterio Mauro, Edoardo Mirri, Marco Moschini, Giuseppe Nicolaci, Paolo Piccari, Silvano Zucal.

Redazione

Marco Casucci, Giulio Lizzi.

Periodicità

Annuale Edizione corrente: 2013. Prima uscita: 2012.

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Il pensiero filosofico contemporaneo presenta molteplici elaborazioni teoretiche

sia sul concetto di mente, sia sul concetto di persona e anche, ma non sempre, sulla loro relazione; elaborazioni provenienti da diversi orientamenti filosofici, caratterizzati sovente da un dialogo con molteplici discipline scientifiche. Ma la riflessione su questi concetti in realtà ha un percorso plurisecolare, anzi più che millenario, qualora se ne ricerchino le origini e le radici. Nell'ambito di questo vasto panorama le diverse riflessioni presenti in Mente e persona focalizzano l'attenzione in particolare sulla filosofia della mente, sottolineando i limiti del riduzionismo, e sulla concezione della mente e della persona nell'ottica dell'ascesi di coscienza.

A questo proposito merita certamente richiamare la fecondità teoretica della concezione agostiniana e bonaventuriana della mens. Anche se oggi parlare della mente evoca subito la filosofia della mente, tuttavia la riflessione su tale problematica costituisce uno dei nuclei centrali di Agostino e poi dell'agostinismo medioevale e della sua rilettura alla luce del francescanesimo, basti richiamare San Bonaventura e il suo Itinerarium mentis in Deum, in cui la mens ascende a Dio, ossia si eleva al proprio supra, in quanto Dio discende, o meglio la illumina già da sempre. Mens che, nella triformità delle sue vires – esse, nosse e velle –, è un sentire, intendere e volere tutto, ossia sé, le altre persone e il mondo, alla luce del principio fondante, mens che non soffre della limitazione contemporanea di una sua lettura in chiave prevalentemente neurologica e psicobiologica. Tale concezione della mens mostra la sua fecondità teoretica nell'ambito delle declinazioni

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dell'ontologismo, in particolare nell'orizzonte contemporaneo dell'Essere di coscienza e dell'ascesi di coscienza dell'“ontologismo critico”, tale perché ha ripensato kantianamente le condizioni e i limiti del conoscere e del pensare, quindi del “problema interno” e “del problema oggettivo” della filosofia. Infatti l'ontologismo, che si richiama ad una metafisica teologicamente ispirata - un titolo, Il problema teologico come filosofia del Carabellese - presenta importanti argomentazioni che si muovono su un piano che vede nell'esercizio della filosofia come elevarsi al vero, al bene e al bello, il proprio perfezionamento. Quindi non una considerazione logico-razionalistica, né naturalistica, né gnoseologica: ciascuna concepisce la persona come un soggetto eminentemente conoscente, fondamentalmente neutrale, quindi identico agli altri, perciò solo pur se molteplice; tale soggetto si pone di contro al mondo ridotto a oggetto da conoscere e manipolare. In consonanza ideale Heidegger, ancora più radicalmente, intende tale conoscere volto alla ricerca delle ragioni e delle cause lineari, orizzontali, come non pensare, come umanismo che oblia la differenza ontologica. Ma l'ontologismo critico si scopre ancorato ad un pensare che è pensare dell'essere, in senso soggettivo e oggettivo, pensare in cui tuttavia il fuggire non è “degli dei”, secondo la nota metafora di Hölderlin, ripresa da Heidegger, ma dell'uomo attratto dalla propria humus. L'ontologismo nell'elevarsi all'essere-Dio, elevarsi che è di tutta la mente nelle sue potenzialità ossia sentire, volere e conoscere, recupera il mondo e la persona nella sua relazionalità secondo la perfezione della “terrenità edenica” (Moretti-Costanzi). La persona è concepita come lontana da un lato dall'individuo generico, quale individuo massa, e, dall'altro, dal soggetto che assolutizza se stesso e per questo vede l'altro come il nemico (le diable di Sartre). L'articolata storia dell'ontologismo che affonda le sue radici nel platonismo essenziale, affronta la questione della mens e della persona o anche del soggetto, alla luce dell'essere come principio e della coscienzialità dell'essere, costituisce un'autonoma, robusta e articolata elaborazione concettuale distinta dai diversi personalismi e dal “ritorno” della persona di ricoeuriana memoria. L’ontologismo ha la “pretesa” di porsi su un livello altro da quello indagato dalla filosofia della mente, che certamente prescinde dal riferimento al principio.

Oggi la filosofia della mente nei suoi molti orientamenti ha tagliato i ponti con la trascendenza e intesse sempre più stretti rapporti con una serie di discipline che vanno dalla psicologia, alle neuroscienze, alle scienze cognitive, fino alla teoria dell'informazione e dell'intelligenza artificiale, dell'azione e dell'identità della

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persona. In questo intrecciarsi e interrogarsi interdisciplinare e multidisciplinare la filosofia della mente si distingue per affrontare a livello teorico tematiche quali la natura della mente e il suo rapporto con il corpo e segnatamente con il cervello; a ciò si aggiunga sia la riflessione su funzioni come l'esser-coscienti, il pensare, il percepire, il sentire, sia l'indagine sulla specificità della sfera mentale rispetto a quella dell'io, dell'agire e del rapporto con gli altri e con il mondo esterno. A livello epistemologico-metodologico è fondamentale l'interrogazione sulle modalità specifiche per indagare i processi e gli eventi mentali e se, a tal fine, siano adeguate le stesse modalità di indagine del mondo fisico; a questo proposito, è importante l'interrogazione sull'oggettivabilità dei fenomeni mentali, totalmente o parzialmente; ciò comporta anche l'interrogarsi sul permanere della dimensione soggettiva e sulla validità dell'indagine introspettiva, sulla riflessione interiore e sulla possibilità di tradurla in termini oggettivi. Una problematica essenziale è costituita dalla natura e dalla portata dei concetti mentali, ossia se esprimano o si riferiscano a dati, funzioni, processi esistenti, oggettivi, oppure manifestino delle costruzioni semantiche e linguistico-teoriche attestanti un'autonomia della mente relativamente al suo articolarsi e strutturarsi interno. Perciò nell'ambito dei diversi orientamenti della filosofia della mente è centrale la riflessione sulla relazione fra la componente naturale, biofisica e quella dell'elaborazione simbolico-culturale e della relazione intersoggettiva. E ancora il dibattito insiste sulla problematica se l'insieme dei fatti ed eventi mentali sia da concepire come un insieme sistematico, fondamentalmente unitario e quindi omogeneo, oppure si debba ipotizzare una precisa differenziazione in classi degli eventi mentali. Le risposte alle problematiche sottolineate si muovono secondo tre fondamentali orientamenti, diversificati al loro interno: i processi mentali o procedono secondo leggi autonome, o seguono quelle del mondo esterno, oppure non hanno propriamente un andamento costante e quindi prevedibile.

Un ulteriore e interessante sviluppo teorico e quindi tecnologico, connesso all'ammissione della omogeneità e regolarità dei processi mentali, insieme alla loro oggettivabilità, riguarda gli studi sull'intelligenza artificiale al fine della produzione di macchine intelligenti capaci di funzioni e processi mentali, quali ad esempio: decisioni, memoria, induzioni, deduzioni; in questo contesto teorico-problematico emergono tre grandi direttrici di fondo. Una materialistica in cui prevale una concezione per cui non vi è una differenza qualitativa fra fenomeni mentali e fenomeni fisici (D. M. Armstrong, H. Feigl): non si danno fenomeni psichici

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autonomi, ma sono riconducibili e identificabili con corrispondenti e ben precisi fenomeni neurocerebrali e biochimici, indagati appunto dalle neuroscienze e dalla biochimica; questa prospettiva, a nostro avviso, sminuisce la riflessione teorica su tali scienze e sul loro metodo, che tuttavia non sembra propriamente dare ragione della complessità della mente, dei suoi processi e produzioni simbolico-culturali, della stessa dimensione intersoggettiva dei fenomeni mentali; ma soprattutto non spiega i diversi livelli qualitativi secondo cui gli stessi processi mentali intendono e qualificano se stessi.

A questo riduzionismo hanno risposto molteplici prospettive, diverse fra di loro, ma basate sulla rivendicazione di un’autonomia, una specificità e una propria articolazione all'universo mentale. Di contro alla semplificazione materialistica si sono levate concezioni che recuperano autonomia al mentale o a livello ontologico, oppure a livello funzionalistico. Per Putnam, proprio l'esistenza dei computer dimostra che i processi e le funzioni intelligenti non sono legati ad un supporto materiale specifico come il cervello; il fatto che determinate funzioni siano realizzate da un apparato, non vuol dire che esse si identifichino specificamente con il modo di funzionare di quell'apparato. Putnam formula l'“analogia computazionale” base del funzionalismo, per la quale la mente sta al cervello come il software sta all'hardware e, come un software può essere realizzato da hardware diversi, così l'identità e le funzioni dei processi cognitivi sono indipendenti dal cervello; e quindi, da un lato possono essere studiati anche indipendentemente dalla loro realizzazione cerebrale e, dall'altro, possono essere realizzati da sistemi artificiali e ivi anche studiati: ciò è alla base della scienza cognitiva, dalla quale successivamente Putnam si è allontanato (Rappresentazione e realtà). Perciò l'autonomia della mente consente uno studio di essa con metodologie diverse dal metodo della scienza neurofisiologica e/o biochimica. Una specifica accezione della concezione funzionalista della mente è quella adottata nell'ambito degli studi dell'intelligenza artificiale e delle scienze cognitive: in essi, pur riconoscendo l'autonomia del mentale, tuttavia se ne riconosce una processualità basata sulla causalità e su leggi intrinseche, per cui è possibile pervenire ad una conoscenza rigorosa della mente concepita sempre più come un sistema di informazioni apprese, elaborate, sistemate sulla base di costanti leggi formali (D. A. Norman) che privilegiano, come è stato osservato, la dimensione sintattica delle funzioni mentali, più vicina all'aspetto computazionale qualificante l'intelligenza artificiale. A questo proposito Searle ha posto in discussione la concezione “forte” dell'intelligenza

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artificiale che, se fosse programmata correttamente, sarebbe da considerarsi come una mente vera e propria, capace di decodificare il linguaggio. Searle supporta le sue argomentazioni critiche anche con il celebre esperimento della “camera cinese”, per il quale le macchine possono manipolare a livello sintattico i simboli, ma non hanno la capacità ermeneutica della mente umana che è in grado di intendere, interpretare, conferire significato; Searle recupera l'aspetto semantico e intenzionale della mente (Menti, cervelli e programmi) e sottolinea l'irriducibilità dei fenomeni mentali, il loro essere “primitivi”, non riconducibili ad altri; e la stessa intenzionalità è propria solo di alcuni, non di tutti i fenomeni mentali (Dell'intenzionalità). Negli scritti successivi Searle porta avanti la polemica contro il cognitivismo nella filosofia della mente (La riscoperta della mente). nell'ambito dell'orientamento funzionalistico si è proposto di studiare il funzionamento dello stesso cervello, visto come sistema di connessioni neurali, come modello per intendere l'architettura della mente.

Tuttavia le concezioni di tipo materialistico e funzionalistico, trascurano l'aspetto esperienziale e il vissuto soggettivo nella sua particolarità: perciò altri esponenti della filosofia della mente hanno recuperato la dimensione ermeneutica e personale, non riconducibile a fenomeni mentali oggettivi e standardizzati rispondenti a connessioni causali e nomologiche. Vengono quindi recuperati alla riflessione gli aspetti socio-culturali, semantici, soggettivi e intersoggettivi del fenomeno mentale, aspetti che vanno studiati con specifiche indagini fenomenologiche, ermeneutiche ed idiografiche.

A questo proposito, Vinicio Busacchi nel suo contributo rivendica la ricchezza dell'indagine fenomenologica ed ermeneutica relativa all'identità personale, focalizzando le sue riflessioni sull'apporto di Paul Ricoeur riguardo alla problematica identità/memoria. Proprio il filosofo francese, con la curvaturra complessa delle sue riflessioni, riguardo alla questione del sé si muove non soltanto nell'ambito fenomenologico-ermeneutico, ma apre anche alla psicoanalisi e alla neurobiologia; infatti, sviluppando un'architettura del “sé come un altro”, Ricoeur si muove fra l'epistemologia, l'ontologia e l'antropologia filosofica, aprendosi produttivamente alla filosofia analitica. Affrontando l'homme capable, pur sviluppando il discorso secondo un'impronta ermeneutico-fenomenologica, tuttavia ingloba significative istanze scientifiche e analitiche. La differenza fra l'identità biologico/sostanziale e l'identità storico/narrativa è sviluppata poi come differenza fra identità idem e identità ipse. Sulla base di un ampio quadro sugli sviluppi e orientamenti nell'ambito delle neuroscienze l'Autore fa riferimento in particolare al

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dialogo fra Changeux e Ricoeur sull'identità, dialogo in cui quest'ultimo sembra recuperare il concetto di persona in senso concreto e olistico, pressoché senza aggancio alla trascendenza. Con la teoria dell'identità personale Ricoeur va oltre l'ambito classico della fenomenologia e dell'ermeneutica aprendosi un percorso verso la filosofia della mente e le neuroscienze, apertura la cui produttività non è ancora stata colta da tali orientamenti di ricerca.

Il lavoro di Mariano Bianca delinea alcuni aspetti di quella che definisce “teoria nomiosica della mente” basata su un monismo duale, ossia non riduzionistico. La sua teoria si basa sulla concezione per cui non si danno due ambiti materiali, uno per il cervello e uno per la mente, ma uno solamente, per il cervello, nel quale vi sono solo processi neurofisiologici. Sulla base di questo assunto Bianca focalizza le differenze fra mente e cervello e la specificità dei processi mentali, secondo un'ottica non riduzionistica. In particolare i processi cerebrali/mentali elaborano informazioni che veicolano significati che possono essere espressi e comunicati mediante segni, anzi sistemi di segni, che hanno la massima elaborazione nei sistemi linguistico/culturali dell'uomo. Bianca concepisce la mente come risultato della conformazione neuroevolutiva del cervello; è collocata al suo interno, ma il cervello non svolge solo attività mentali, bensì entra anche nelle funzioni vitali più ampie. Da ciò deriva che ogni attività mentale è cerebrale, ma non ogni attività cerebrale è mentale. La mente non è riducibile al cervello e ai suoi processi secondo un rigido monismo, in quanto essa non elabora solo informazioni prodotte dal cervello, ma produce nomiosi o significazioni in base a relazioni con il mondo naturale e socio-culturale. A questo proposito i processi mentali non possono essere descritti e spiegati da leggi neurofisiologiche, anzi, Bianca giunge ad evidenziare il “primato” delle relazioni nomiosiche sui processi neurofisiologici. Perciò la mente può essere considerata sia come incorporata al cervello, sia fuori, ciò in virtù della espressione e della comunicazione mediante la codificazione segnica dei significati socio- culturali elaborati nelle comunità umane.

Marco Casucci dirige l'attenzione verso il rapporto Nietzsche-Schopenhauer, sottolineando che lo schopenhauerismo di Nietzsche non fu soltanto un'adesione giovanile; il concetto di genio costituisce una delle eredità schopenhaueriane sempre vive nel pensiero nietzscheano, in particolare nello Übermensch. L'Autore ripercorre le diverse formulazioni della dottrina del genio in Schopenhauer a partire dagli scritti giovanili: qui il genio rappresenta la prima idea di potenziamento della coscienza, tesa fra “coscienza empirica” e “migliore coscienza”, e la volontà non è

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ancora concepita quale principio metafisico; infatti di essa si libera il genio, figura del potenziamento e dell'ascesi della mens al pari del santo e del virtuoso, senza alcuna gerarchizzazione. La coscienza empirica – la coscienza del filisteo o anche dell'ultimo uomo direbbe Nietzsche – rappresenta la coscienza decaduta della “migliore coscienza”, che costituisce la possibilità di accesso alla sapienza dell'eterno, suo correlato essenziale. Invece nel Mondo come volontà e rappresentazione il genio è il momento intermedio di un percorso soteriologico in cui soltanto l'asceta giunge al perfetto superamento della volontà, ora principio metafisico, in un processo negativo che solo alla fine sembra alludere ad “una possibile palinodia epifilosofica”. Il giovane Nietzsche, profondandosi nella lettura del Mondo, recupera e ripensa una concezione del genio più vicina a quella del giovane Schopenhauer. Il tempo del genio è la relazione con l'eterno, l'inattuale, di contro al conformismo e al filisteismo, come emerge fortemente nelle Considerazioni inattuali. In particolare, in Schopenhauer come educatore, lo stesso Schopenhauer viene visto da Nietzsche come esempio di genialità filosofica, non per la dottrina della volontà infinita, ma per il suo pensare gli essenti sub specie aeternitatis.

Il contributo di Marco Moschini focalizza l'attenzione sull'ascesi della mente nell'ambito dell'ontologismo critico sottolineandone l'attualità e la validità teoretica, mostrandone le radici nell'ontologismo giobertiano e rosminiano, sulla base della matrice platonico-agostiniana. Nella proposta dell'“Essere di coscienza” del Carabellese e ancor più nell'“ascesi di coscienza” del Moretti-Costanzi emerge la matrice rosminiana dell'Essere ideale, dove si rintracciano gli elementi per superare una concezione metodologica e strumentale della mens propria di un approccio logico-razionalistico o anche empiristico che la intende come ragione. In questo contesto argomentativo i problemi per la filosofia non concernono tanto la metodica del pensare, quanto la possibilità di conseguire la consapevolezza del suo contenuto, come ciò che fonda il pensare stesso. Tale consapevolezza si caratterizza come processo di elevazione e ascesi della mente, ascesi che si compone di tutti gli elementi di un'esperienza della verità che si articola nella coscienza in ordine al sentire, all'intendere e al volere. Nell'ontologismo critico del Moretti-Costanzi l'adesione al bonaventurismo si delinea come ripensamento del concetto di ascesi, basata sul potenziamento della mente che rende possibile un'esperienza vera e significativa della realtà, esperienza che si dà riconducendo mondo e persone al principio, che li fa cogliere secondo verità, valore e bellezza, sub specie aeternitatis.

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Moschini ripensa l'ascesi non come estraneamento, né solo del sapere, ma anche del sentire e del volere. Emergono due modi di rapportarsi all'altro e al mondo, uno more scientiae e uno more sapientiae: le due esperienze convivono e l'elevarsi della mens non richiede un'attività esplicativa, ma chiede di essere compreso nella sua “idea”, nel suo fondamento.

Furia Valori pone in evidenza come il discorso filosofico di Pierre Lévy sul virtuale contenga importanti riflessioni non solo in sede ontologica ed ermeneutica, ma anche sul rapporto fra “intelligenza collettiva” e individuale, prospettando un manifesto della “repubblica delle menti” in cui viene declinata un'originale etica della conoscenza. Infatti la determinazione ontologica del virtuale costituisce il momento della problematizzazione, dell'inventio, della domanda, come interpretazione che schiude verso un novum in cui si esprime la creatività della “vita” in generale e, in particolare, del soggetto. L'autrice sottolinea che in Lévy la motivazione profonda delle produzioni dell'arte, della religione e della filosofia è costituita dalla paura del dolore e della morte: da qui la fuga verso “centri ontologici stabili” destinata, tuttavia, “alla scacco”. A questo proposito Valori osserva che se l’uomo fosse costitutivamente finito, senza ulteriori prospettive, non dovrebbe porre in essere costitutivamente attività per evitare la morte; invece, proprio il movimento della virtualizzazione attesta, al di là delle intenzioni di Lévy, che l’uomo non è solo limite ma anche tensione-méta, avvertenza dell'infinito. Il contributo sottolinea come Lévy cerchi di conciliare l'elemento di creatività e di libertà, rappresentato dal virtuale, con la dimensione razionale che si esprime nel divenire orientato verso la deterritorializzazione, la dematerializzazione, il potenziamento. Ne emerge un esodo neo-illuminista e neo-evoluzionista verso una Terra promessa laica, che Lévy vede nella “repubblica delle menti”, in cui il “cyberspazio” potrà favorire un rapporto creativo e circolare fra soggetto e l'“intelligenza collettiva”.

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Teoria nomiosica della mente e monismo duale non riduzionista Mariano L. Bianca

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Teoria nomiosica della mente e monismo duale non riduzionista Mariano L. Bianca

Nomiosic Theory of Mind and Non-Reductionist Dual Monism Abstract This paper presents some aspects of the nomiosic theory of mind, which adopts a dual anti-reductionist monism. According to this theory the mind is considered as a specific part of the brain’s processes that is formed by mental configurations, which are different from cerebral configurations. Mental configurations cannot be explained by neurophysiological processes alone. The main charac-teristic of the mind is to generate meaning, and so the mind is at the same time inside the brain that formulated it and in any other mind that receives these meanings. Keywords: Mind; Dual Monism; Mental Configurations; Meanings. ***

In questo articolo presento alcuni aspetti di quella che chiamo teoria nomiosica della mente che si fonda su un monismo duale non riduzionista. Secondo questa teoria la mente fa parte del cervello ma, allo stesso tempo, non è riducibile ai suoi processi cerebrali; la sua specificità di generare significati fa sì che ogni mente si trovi al contempo entro il cervello che l’ha generata e in ogni altra mente che ha ri-cevuto tali significati.

Il monismo duale non riduzionista si fonda sui seguenti asserti: a) non esistono due tipi di entità materiali (mente/cervello) ma una sola entità

materiale: il cervello (in modo completo il SNC) b) nel SNC vi sono solo enti materiali, come neuroni, assoni, glia, reti neurali ecc.,

e in esso avvengono processi di diverso tipo e modalità che sono tutti neurofisiolo-gici

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c) il tessuto, le strutture e i processi cerebrali si organizzano nel corso della dina-mica cerebrale in modi diversi che generano risultati differenti

d) il coinvolgimento di aree diverse dell’encefalo, e in particolare della neocortec-cia, genera processi e risultati differenti tra loro

e) i processi cerebrali permettono la formulazione di quelle attività cerebrali che si denominano mentali

f) i processi cerebrali/mentali (o mentali) sono processi che elaborano informa-zione nomiosica/semiosica, informazione che veicola significati e che può essere espressa con un sistema di segni

g) la struttura e i processi cerebrali sono determinati da: 1) il codice genetico in-dividuale e specie specifico che genera il SNC e che influenza in modi diversi le mo-dalità in cui si svolgono i processi mentali, 2) la costituzione, la dinamica e la storia interna di ogni encefalo e della relativa mente, 3) le molteplici connessioni tra le di-verse parti dell’encefalo, 4) le relazioni tra il SNC, la corporeità, il mondo fenome-nico e l’ambiente socio-culturale attraverso i processi intermentali (tra due o più menti).

Sulla base di questi asserti si possono esaminare le differenze tra mente e cervello e la specificità dei processi mentali e quindi della mente.

Mente e cervello: configurazioni cerebrali e configurazioni mentali Ogni uomo ritiene di possedere una mente che è distinta da qualsiasi altra parte

del suo corpo e del suo Sé e gli permette di svolgere numerose attività mentali come pensare, usare il linguaggio, immaginare, ragionare, provare emozioni, possedere affetti, ecc.

La mente è il risultato della conformazione neuroevolutiva del SNC ed è collocata al suo interno, ma il SNC non svolge solo le attività mentali, bensì molte altre che ri-guardano il corpo e le funzioni vitali permettendo a ogni uomo di restare in vita.

Le attività mentali, che sono il risultato dei processi della neocorteccia e di altre strutture neuronali, possono essere distinte in due tipi: cognitive e non cognitive.

Le attività mentali di tipo cognitivo si riferiscono a: percezione, linguaggio, at-tenzione, intelligenza, formazione dei concetti, memoria, risoluzione di problemi, formulazione di decisioni; quelle non cognitive, invece, riguardano stati d’animo, umori, gusti, affetti, sentimenti, passioni ed emozioni; una dimensione mentale che indichiamo con le espressioni dimensione patica (il termine patico deriva dal verbo

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greco πάσχω) o dimensione emoaffettiva. Questa distinzione tra cognitivo e non co-gnitivo, sebbene accettabile perché la mente elabora anche separatamente informa-zioni differenti (cognitive e non cognitive), spesso nel lavoro della mente queste di-verse informazioni s’intrecciano e sono coinvolte contemporaneamente con gradi diversi a seconda dei processi mentali e delle condizioni psicologiche ed esistenziali in cui si attivano.

Sebbene sia possibile distinguere tra loro le diverse attività mentali con i loro correlati neurofisiologici e differenziare quelle cognitive da quelle patiche, la mente non opera, o non opera sempre, in modo compartimentale (solo diverse aree e pro-cessi), ma in ogni processo sono coinvolte diverse aree corticali oltre quelle specifi-che a trattare un determinato compito. Dimensione cognitiva e dimensione patica sono spesso interrelate e ciò può avvenire con diverse gradazioni, per cui l’una e l’altra possono avere un peso diverso in specifici processi mentali; per esempio, nel-la risoluzione di un compito logico possono avere un peso minore i fattori patici, mentre questi possono averne uno rilevante quando si attiva un processo decisio-nale: non di rado, le decisioni sono determinate da fattori patici e non cognitivi, spe-cie se riguardano aspetti della propria esistenza.

Le attività mentali, come quelle cerebrali che regolano la funzionalità organica, sono il risultato di diversi processi neurofisiologici che coinvolgono differenti parti del SNC e in particolare dell’encefalo, per cui in esso vi sono attività mentali e atti-vità non mentali: ogni attività mentale è un’attività cerebrale, ma non tutte le atti-vità cerebrali sono mentali. Perciò, è necessario precisare quali siano quei processi cerebrali che generano la mente ponendo una distinzione tra diversi processi e aree cerebrali coinvolte: una distinzione tra configurazioni/processi cerebrali e configu-razioni/processi mentali; da qui, la distinzione tra cervello e mente, o meglio, tra quella parte del cervello che non genera la mente e quella invece che processa un ti-po di informazione che caratterizza le attività mentali.

Le configurazioni cerebrali sono strutture neurofisiologiche che contengono in-formazione, neurochimicamente codificata, e sono il risultato di articolati processi neurofisiologici che operano all’interno del SNC e, più ampiamente, entro il corpo (incluso il Sistema Nervoso Periferico, SNP) in cui esso è collocato; esse, si formano in un dato istante, possono essere preservate in memoria, sono connesse tra loro e s’influenzano reciprocamente.

Ogni processo cerebrale genera una configurazione che può essere considerata come uno stato, semplice o molto complesso, del SNC che in teoria può essere ‘os-

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servato’ da un soggetto esterno, così come si osservano gli enti del mondo: per esempio, attraverso specifiche strumentazioni scientifiche come la fMRI o la PET o altre più complesse che potranno essere progettate nel futuro.

In quest’ampio insieme di configurazioni cerebrali, che sono il risultato di tutti i processi che si svolgono entro il SNC, vi sono quelle configurazioni denominate mentali che derivano da processi che si attivano coinvolgendo diverse aree della neocorteccia ed elaborando informazione (significativa) la quale genera la mente e i suoi diversi contenuti; la mente, è parte del SNC ed è formata da processi cere-brali che coinvolgono la neocorteccia: per questo, la mente si forma solo e perché nel SNC di Homo è presente la neocorteccia.

I processi cerebrali non-mentali e le configurazioni generate riguardano la fun-zionalità dell’intero organismo e dei suoi organi incluso il controllo delle emozioni primarie e coinvolgono diverse strutture cerebrali quali il tronco encefalo (dience-falo, mesencefalo, ponte e bulbo), il paleoencefalo nonché diverse connessioni tra SNC e SNP; questi processi non attivano, o non attivano direttamente, le aree della corteccia, anche se possono influenzare i processi corticali (mentali) (influenza del cervello sulla mente).

I processi/configurazioni cerebrali-mentali, invece, generano tutte le attività ce-rebrali che si denominano mentali, cognitive e non cognitive (o emoaffettive): pen-siero, linguaggio, attenzione, intelligenza, formazione dei concetti, memoria, risolu-zione di problemi, formulazione di decisioni, stati d’animo, umori, affetti, senti-menti ed emozioni (escluse quelle primarie).

Le configurazioni e i processi mentali, che insieme costituiscono la mente, pos-siedono i seguenti caratteri:

1) contengono e trasferiscono informazione neurochimica coinvolgendo diverse zone cerebrali e in particolare le aree della neocorteccia

2) possiedono ampie ramificazioni neurali, incluse quelle attivate dalle cellule piramidali (neuroni corticali con ampie ramificazioni) e della glia, in diverse parti dell’encefalo e in particolare della neocorteccia

3) attivano contemporaneamente diverse aree della neocorteccia e della subcor-teccia

4) si diramano (per via efferente) in diverse aree cerebrali non corticali 5) ricevono informazione retroattiva dalle aree corticali e non corticali cui è sta-

ta inviata informazione durante il processo di formazione delle configurazioni

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6) i processi terminano con l’attivazione di diversi tipi di cellule della glia e di specifiche aree corticali, in particolare, ma non solo, quelle frontali e temporali

7) l’elaborazione delle aree corticali può generare l’attivazione di processi che coinvolgono direttamente il corpo e anche le sue funzioni (influenza della mente sul corpo).

La mente, quindi, è soprattutto, ma non solo, il risultato delle attività della neo-

corteccia che è stata generata dalla neuroevoluzione di Homo; questa corteccia, di-versamente da quella di altri esseri viventi incluse le scimmie antropomorfe, ha una struttura neuroanatomica e neurofisiologica che permette di compiere quei processi encefalici che sono tipici dell’uomo, come le attività cognitive quali quelle intellet-tive, logiche, razionali e quelle denominate patiche.

I processi mentali si caratterizzano soprattutto perché elaborano informazione significativa, chiamata nomiosica, e generano quella che denominiamo nomiosi (mentale). La mente è formata da processi che elaborano e preservano informazioni nomiosiche e da correlazioni nomiosiche tra le configurazioni che risultano da que-sti processi (configurazioni nosemiche): le configurazioni mentali considerate dal punto di vista della natura delle loro informazioni e della modalità di formularle.

All’interno del sistema mente/cervello il processo informazionale elabora due tipi di informazione: a) a-nomiosica e b) nomiosica; la prima è quella che è elaborata in tutti i processi che riguardano il corpo e la vita organica; essa è elaborata in diverse parti del SNC (nonché di quello periferico) e non attiva direttamente le aree corti-cali, in particolare quelle frontali e temporali; si pensi, per esempio, ai processi dell’ippocampo che regolano il controllo di alcune funzioni vitali.

La seconda, invece, quella nomiosica è elaborata dalle aree della neocorteccia ed è un’informazione che genera e veicola significati; essa è intrinseca a quei processi e configurazioni che sono denominati nomiosici.

Al fine di superare una concezione fondata su una incommensurabilità tra pro-cessi a-nomiosici e nomiosici (non mentali e mentali), una forte dicotomia tra mente e corpo, e in particolare anche tra mente e cervello, si deve rilevare che non di rado i processi a-nomiosici (non mentali) possono influire in diverso modo su quelli no-miosici; tuttavia, ciò non significa che tali processi generano nomiosi, bensì che le loro informazioni possono far sì che si generino specifiche nomiosi differenti da quelle in cui non è presente ed elaborata informazione a-nomiosica; i processi a-nomiosici possono modulare il processo di formazione delle nomiosi (questa condi-

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zione è riferibile anche alle relazioni tra paleo e neo encefalo). L’incommensurabilità tra i due tipi di processi è spesso presente in specifiche dinamiche mentali ma, al contempo, la commensurabilità non è solo teoricamente possibile, bensì spesso si realizza ed è così che processi neurali relativi a funzioni organiche possono influen-zare l’andamento di quelli nomiosici (o mentali).

La mente non è riducile al cervello e ai suoi processi perché sebbene sia sempre il cervello a elaborare informazione, la mente genera nomiosi o significati che si formano non solo su informazioni presenti in essa, ma anche in base a relazioni con l’ambiente socio-culturale (nonché anche con quello naturale) per cui le informa-zioni che elabora e preserva sono il risultato anche di queste relazioni; la mente è il risultato di un intreccio tra come è costituita e dai suoi contenuti e dalle influenze delle relazioni con il mondo (naturale e socio-culturale) e in particolare quelle in-termentali e quindi interpersonali.

Ogni nomiosi può essere generata in due modi: mentale e intermentale; nel pri-mo caso, si tratta di processi autonomi rispetto a relazioni intermentali; nel se-condo, invece, la nomiosi è il risultato di dirette e attuali relazioni con il mondo, e in particolare con gli altri uomini, e quindi di processi intermentali: un processo in-termentale è quello che coinvolge due o più menti e ciò accade solo nel caso in cui le configurazioni mentali sono trasposte in un qualsiasi sistema di segni come quelli del linguaggio alfabetico e proposizionale o ancora quelli corporei e figurativi; in tal caso, le nomiosi sono formulate in modalità semiosica (nella forma di segni espli-citi) che può essere trasmessa da una mente a un’altra; perciò, la nomiosi è incorpo-rata nelle configurazioni mentali delle menti che sono coinvolte.

Il termine nomiosico è usato per caratterizzare i contenuti-informativi mentali portatori di nomiosi (significato) e così differenziarli da tutte le altre informazioni e processi presenti nell’encefalo. Si usa il termine nomiosi per riferirsi, come accade nelle teorie e filosofie del linguaggio, all’ambito della significazione, in altri termini, ai significati che sono assegnati non solo ai segni linguistici, bensì anche agli enti del mondo.

Il termine nomiosico si applica alle configurazioni mentali considerate dal punto di vista della loro significazione: la nomiosi è il processo di significazione intrinseco alla formazione di ogni configurazione mentale: ogni configurazione mentale è il risultato di processi nomiosici ed è denominata nosema. Il termine nomiosi, come i suoi correlati nosema e nosemico (riferito ai nosemi), ha una duplice radice: quella del termine greco nous (nous) e del verbo greco semaino (sηmaino); tale deriva-

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zione sottolinea che la significazione non è riferita al linguaggio in cui si esprime la mente, ma ai processi mentali prescindendo anche dalla loro modalità semiosica, cioè dall’uso di un sistema di segni, incluso il linguaggio alfabetico.

Il termine nomiosico, riferito a particolari tipi di informazione presente nel SNC, sta a indicare che le configurazioni cerebrali che denominiamo mentali, che coinvol-gono la neocorteccia, non solo contengono e veicolano informazioni ma informa-zioni di natura nomiosica, in altri termini, informazioni significative che le diffe-renziano dalle altre informazioni che sono elaborate da differenti processi cerebrali (per esempio, quelli che controllano le emozioni primarie o quelli che regolano il funzionamento del corpo e dei suoi organi). Anche le informazioni nomiosiche sono codificate neurochimicamente, se si osservano da un punto di vista biologico, ma non sono riducibili all’informazione neurochimica. Si pensi, per esempio, da un lato, all’informazione neurochimica che è elaborata al fine di controllare i muscoli delle gambe durante una corsa e i relativi processi neurochimici; e, dall’altro, all’informazione neurochimica che è elaborata per risolvere un’equazione differen-ziale, per immaginare che cosa si farà domani, per prendere una decisione relativa alla propria vita o ancora per formulare un’ipotesi sullo stato ontico della mente.

Perciò, l’informazione neurochimica mentale è diversa da quella di altri processi cerebrali perché essa genera risultati nomiosici che sono stati denominati nosemi.

I processi nomiosici (nomiosi)o significativi I processi che sono chiamati mentali, com’è già stato rilevato, sono il risultato

della conformazione della struttura e della funzionalità cerebrale e in particolare corticale: esse permettono che l’informazione, formata ed elaborata da diversi pro-cessi in alcune zone corticali (o l’informazione che raggiunge la neocorteccia, come nel caso della percezione), possa diffondersi in molte aree, anche subcorticali o non corticali; i risultati di questa diffusione informativa contengono informazione pre-levata o elaborata, in modo parallelo e correlato, in diverse aree corticali; il caso più evidente è quello dei processi percettivi in cui una configurazione percettiva (la per-cezione di un singolo oggetto fenomenico) risulta dall’elaborazione contemporanea o appena differita di informazioni presenti in diverse aree corticali; la semplice per-cezione visiva di una mela contiene l’informazione elaborata dalle vie visive precor-ticali, dalle aree corticali della visione, nonché quella attivata e presente in altre aree come quelle associative-cognitive: la percezione non è di un oggetto fenomenico,

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bensì di una mela e questo ‘significato-mela’ è null’altro che informazione presente e attivata nelle aree cognitive una volta che l’informazione sensoriale, dopo aver rag-giunto le aree visive, è diffusa tramite connessioni sinaptiche in quelle cognitive (aree frontali e fronto-temporali), in cui si trova l’informazione relativa al concetto di mela (una generalizzazione induttiva); l’oggetto fenomenico non è riconosciuto solo nei suoi caratteri figurali-visivi, bensì anche in quelli cognitivi (‘è una mela’) as-segnati a esso non da informazioni derivate dall’attività sensoriale e delle aree vi-sive, ma da informazione presente in altre aree corticali; a questa informazione se ne possono aggiungere altre come quelle relative alla mela come ‘simbolo’, quelle patiche (emoaffettive) e in generale quelle emotiche o proprie di un soggetto percet-tivo, riferite, per esempio, a significati esperienziali di mela in diverse condizioni (‘una mela mangiata sul mare in compagnia del proprio partner’) a giudizi (‘fa bene mangiare mele’) o ancora ad aspetti di preferenza (‘mi piacciono le mele’) o emozio-nali. Ogni percezione è una configurazione mentale e la sua significatività consiste in questo assemblamento informativo derivato da processi di diffusione corticale dell’informazione e dall’elaborazione compositiva: nel caso presentato, si tratta di un modello visivo di ‘mela’ e del concetto di mela con altri connotati emotici e patici; l’intera configurazione percettiva (o percezione) contiene tali informazioni che la rendono una configurazione nomiosica o, se si vuole, significativa che, trattandosi di percezione, possiede anche una significatività semantica in quanto il suo riferi-mento è un ente nel mondo (il significato estensivo o denotativo).

Questo complesso processo relativo alla percezione indica il modo in cui si strut-tura una configurazione mentale e permette anche di chiarire come si può intendere la significatività delle configurazioni mentali (chiamate nosemi), cioè il fatto di es-sere nomiosi o risultati di processi nomiosici, come quello indicato della percezione visiva di una mela; quanto affermato sulla nomiosi percettiva si applica, seppur in modo diverso, anche alla nomiosi non percettiva, cioè, a tutti i processi mentali che non elaborano informazione percettiva; in essi la loro significazione è il risultato della composizione di informazione presente in diverse zone cerebrali incluse le aree neocorticali.

In quale modo è possibile definire la nomiosi? In analogia con il processo di se-miosi la nomiosi è quel processo cerebrale composizionale che coinvolgendo di-verse aree corticali e non corticali genera configurazioni con significatività, che sono denominate nosemi. Questo processo può essere indicato nel modo seguente.

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L’elaborazione dell’informazione, percettiva o non percettiva, si svolge in una data ‘zona’ della corteccia e, al contempo, è diffusa in diverse zone della stessa area corticale, in altre corticali e non corticali acquisendo o attivando ulteriore infor-mazione che si ‘compone’ con quella iniziale generando una configurazione compo-sizionale significativa.

Le configurazioni mentali sono configurazioni nomiosiche o significative e anche i processi che le formano e le elaborano sono di questa natura e sono regolati non da legami neurochimici, bensì da correlazioni nomiosiche come quella, per esempio, che correla la nozione di ontologia relativa agli enti dell’esperienza ordinaria con ta-le nozione riferita alla mente; o ancora, la correlazione tra l’idea di fare un viaggio e le motivazioni che spingono a farlo e ogni altra configurazione che deriva da questa correlazione significativa.

Se i processi mentali si svolgono sulla base di correlazioni significative, allora non possono essere descritti e spiegati da leggi neurofisiologiche, ma da correlazioni nomiosiche o significative che connettono i diversi contenuti mentali sulla base di determinate relazioni; sono queste correlazioni che determinano i processi neurofi-siologici mentali e non viceversa: è la mente che in questo caso controlla e guida i processi neurofisiologici e determina la loro dinamica. Da qui il primato delle rela-zioni nomiosiche sui processi neurofisiologici; sebbene sia vero che in molti casi è il cervello che dice alla mente cosa fare, è altrettanto vero che in molti altri è la mente che dice al cervello come deve operare; la mente considerata come insieme di pro-cessi, configurazioni e correlazioni nomiosiche che, è utile rilevarlo per evitare frain-tendimenti, sono neurofisiologici e coinvolgono la neocorteccia.

La mente è formata da configurazioni nomiosiche (significative) e da correla-zioni tra di esse; correlazioni che in molti casi si presentano come correlazioni se-miosiche in quanto sono coinvolte le aree del linguaggio; le nomiosi si presentano nella forma di semiosi, o meglio, si tratta di nomiosi in modalità semiosica; per cui i nosemi si presentano nella forma di sememi/lessemi; in altri termini, le nomiosi si esprimono in forma segnico/simbolica come accade quando si esprime il proprio pensiero con determinate proposizioni o con altri segni quali quelli figurativi (dise-gni, schizzi, ecc.).

I processi nomiosici sono quelli che guidano tutti i processi neurofisiologici mentali; i legami nomiosici fanno sì che si generino alcuni processi neurofisiologici e non altri, per questo la mente guida il cervello: in altri termini, quella parte del cervello che denominiamo mente opera sui processi neurofisiologici per ottenere de-

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terminati risultati. Ci si può riferire a una qualsiasi attività noetica come un ra-gionamento in cui la generazione di una nuova configurazione da una precedente è determinata dai legami tra la seconda e la prima e i processi neurofisiologici che se-guono, o che portano dall’una all’altra, sono il risultato di tali legami. Se, per esem-pio, la dinamica mentale riguarda una riflessione sul comportamento di una data persona, si attiveranno informazioni, considerazioni e giudizi relativi a essa e non altre. La mente guiderà il processo e ciò è determinato anche dai fini che si inten-dono raggiugere con tale riflessione e anch’essi sono specifiche informazioni mentali che co-operano per generare alcune configurazioni e innescare legami con altre.

A questo punto è fondamentale chiarire la nozione di significatività mentale. La significatività mentale L’informazione nomiosica è il risultato di processi nomiosici (o nomiosi) che con-

sistono nella co-elaborazione di diversa informazione presente in differenti aree corticali o subcorticali; tale co-elaborazione può essere diversificata a seconda dei processi che si attuano.

L’informazione nomiosica in quale modo si diversifica da altra informazione che circola nell’encefalo? Da un punto di vista strettamente informazionale, non si rileva alcuna diversità, mentre essa risiede nella quantità dell’informazione elaborata, nella composizionalità elaborativa e nelle aree cerebrali coinvolte: informazione proveniente da diverse zone encefaliche e aree corticali; in termini diversi, è la com-posizionalità informazionale che fa sì che l’informazione si presenti come nomio-sica. Una mancata co-elaborazione non genera processi nomiosici; si pensi, per esempio, ai casi in cui danni cerebrali non permettono che le informazioni percet-tive siano co-elaborate con differenti informazioni: quelle delle aree corticali specia-lizzate e quelle delle aree associative e cognitive; in questa condizione, come accade in alcuni soggetti affetti dall’Alzheimer, i dati dello stimolo sono elaborati, ma la lo-ro mancata trasmissione in aree cognitive (o la loro non funzionalità) non permette il riconoscimento cognitivo dello stimolo: il soggetto può anche essere in grado di af-ferrare un oggetto in quanto le informazioni hanno raggiunto le aree senso motorie, ma può non riconoscere cognitivamente che cosa stia afferrando.

La significatività dei processi mentali, o nomiosi, è il risultato di queste molte-plici co-elaborazioni ed è la loro convergenza generativa che costituisce il signifi-cato delle configurazioni nomiosiche o mentali. Il significato di un nosema è il ri-

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sultato dell’attivazione di differente informazione che è co-elaborata. Il significato non è un’informazione specifica o in più che si aggiunge a un processo o a una confi-gurazione mentale, ma è il risultato di una o più co-elaborazioni composite; il signi-ficato è questa co-elaborazione corticale composita. La significatività, quindi, è ine-rente alle configurazioni; in altri termini, è la modalità in cui esse si sono formate in modo co-elaborato e non è qualcosa che si aggiunge a esse una volta che si sono formate, anche se, come si è rilevato, può apparire così a un’analisi della mente. In questa prospettiva la nomiosi è diversa dalla semiosi così come lo è l’analisi nomio-sica rispetto a quella semiosica.

La semiosi è l’assegnazione di un significato a un segno: quindi segno e signifi-cato sono tra loro separati, come accade per un segno del linguaggio naturale cui possono essere assegnati significati differenti. La nomiosi, invece, non è costituita da un segno o informazione cui è aggiunta un’altra che denominiamo il suo signifi-cato, bensì è una struttura complessa di co-elaborazione di differente informazione per cui il significato di un nosema non è qualcosa di separato da esso, ma è esso stesso, o meglio la sua struttura informativa. Tuttavia, è possibile, ma solo in alcuni casi, analizzare le diverse informazioni co-elaborate e solo in tal modo si può scin-dere il significato nelle sue diverse informazioni composite; ci si può riferire alla percezione e separare le diverse informazioni co-elaborate in una percezione: quelle derivate dalle informazioni provenienti da uno stimolo e quelle attivate in diverse aree corticali, ma in questo caso il significato scompare perché non è relativo alle in-formazioni dell’uno o dell’altro tipo, ma alla loro composizione congiunta ed è la lo-ro co-elaborazione che genera il significato di una percezione: come indicato poco sopra, nei casi di Alzheimer non si attua un processo compositivo e quindi non si formulano percezioni vere e proprie che sono tali nel caso in cui le informazioni provenienti dagli organi sensoriali sono elaborate dalle aree specializzate e in se-guito sono elaborate congiuntamente con informazione di altre aree corticali.

La nomiosi, quindi, è quel processo che fa sì che si co-elaborino diverse informa-zioni e il significato è il risultato di questa co-elaborazione, o se si vuole, è questa co-elaborazione: il significato delle configurazioni mentali è la co-elaborazione di informazione composita. Per questo, si può rilevare, per esempio, che anche in pre-senza di uno stesso stimolo o di una stessa configurazione non percettiva il loro si-gnificato può essere diverso sulla base della co-elaborazione composita di differente informazione: si pensi, per esempio, alle diverse percezioni di uno stesso oggetto in

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condizioni mentali differenti in cui sono attivate diverse informazioni relative a que-ste condizioni.

Le configurazioni mentali o nosemi, quindi, sono strutture significative e come tali possono essere soggette a continue modificazioni per cui il cambiamento dei contenuti informativi porta a una loro modificazione e quindi anche a una diversa significazione.

L’analisi della significatività mentale si applica sia alle attività mentali di deriva-zione percettiva sia a quelle che non si fondano sull’elaborazione di dati percettivi; la formazione delle nomiosi è analoga, anche se genera diversi significati specifici che derivano dalle diverse informazioni composite che sono co-elaborate, da qui anche la diversità, che non si indaga in questa sede, tra le diverse nomiosi non percettive, quali concetti e concettualizzazioni, visioni, del mondo, prospettive etiche ed esteti-che, ecc.

Sulla base di quanto indicato, il significato di un nosema è l’insieme articolato delle informazioni che sono state co-elaborate in modo composito; per esempio, il significato di un nosema percettivo è formato dalle informazioni che lo costituiscono ed esso è determinato dal modo in cui una singola mente lo ha formulato; in esso sono presenti le elaborazioni dello stimolo, le informazioni relative attivate in aree corticali e non corticali come quelle che indicano il tipo di stimolo o quelle relative ad altri attributi assegnati a esso quale la sua rilevanza, il suo gradimento o ancora altri affettivi o emozionali. Anche nel caso di un nosema non percettivo il suo signi-ficato risulta nella composizionalità co-elaborativa delle diverse informazioni coin-volte, per cui, per esempio, vi sono quelle che lo definiscono in modo cognitivo, quelle che lo correlano ad altri nosemi o ancora quelle che specificano la sua rile-vanza all’interno di un processo mentale, con riferimento ad altri o ancora all’intera mente.

Per questo, il significato di un nosema non si riduce, come accade nell’analisi dei sememi, alle informazioni definitorie, connotative o denotative, bensì a ogni altra informazione che è contemporaneamente elaborata e svolge un ruolo composizio-nale nella sua determinazione; ciò vuol dire, in particolare, che un nosema non ha un significato solo in se stesso, ma in correlazione con molti altri contenuti propri di ogni mente: all’interno dell’ambiente noetico-nomiosico di ogni mente; in tale dire-zione, sono molti i fattori che intervengono nella sua formazione che può variare a seconda di ampie, o addirittura globali, condizioni mentali in cui è formato o riatti-vato.

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Questa struttura composizionale informativa fa sì che i nosemi siano sostanzial-mente diversi dai sememi il cui significato non comprende i fattori extracognitivi che lo formano, così com’è stato indicato negli esempi presentati; per questo, il se-mema che esprime un nosema, o il semema con cui è espresso un nosema, non completa la significatività dei nosemi; essi, infatti, coinvolgono diverse configura-zioni attivate in diverse aree e zone encefaliche, corticali e non corticali la cui infor-mazione co-elaborata fa sì che un nosema sia il risultato della loro composizione che genera quegli attributi o contenuti di diversa natura che sono propri di ogni nosema.

Da qui, è utile sottolineare che la significatività, e quindi le nomiosi, sono pro-cessi che precedono le espressioni semiosiche, anche se, al contempo, non di rado i processi nomiosici si attivano contemporaneamente in modalità semiosica; in altri termini, sono processi nomiosici-semiosici che si fondano al contempo su legami nomiosici e semiosici, ma la loro semiosicità non completa il loro significato. Per questo, non di rado, la mente si adopera per scegliere uno o più sememi, e quindi uno o più lessemi, in modo da esprimere semiosicamente le informazioni composite di un nosema; come accade quando si formula una catena di lessemi per esprimere un solo nosema.

Località e non località, mente espressa ed estesa La mente, come insieme delle configurazioni significative o nomiosiche e dei pro-

cessi che le hanno generate, può essere considerata sia come incorporata in un cer-vello sia al di fuori di esso nei seguenti modi: a) la codificazione in un sistema di se-gni, in particolare il linguaggio naturale, una volta espressa in forme concrete (gli specifici segni, per esempio parole proferite o scritte o segni figurativi) si pone come ente del mondo fenomenico; b) la codificazione segnico-linguistica espressa con se-gni concreti si pone nell’ambito noetico-segnico di una comunità umana e di menti; c) nel caso in cui la codificazione segnica, e in particolare linguistica, espressa coin-volge altri soggetti, allora ogni mente diventa parte di altre menti; diventa una men-te estesa.

Ogni mente è al contempo locale e non locale; locale perché è il risultato di pro-cessi neuromentali che si attuano all’interno di un SNC nei diversi modi indicati, in particolare le relazioni con il mondo fenomenico e socio-culturale e le altre menti. Non locale perché le informazioni elaborate possono essere espresse in forme segni-che (modalità segnico-linguistica), perciò possono non solo essere trasmesse con

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Teoria nomiosica della mente e monismo duale non riduzionista Mariano L. Bianca

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processi intermentali ad altre menti, ma quest’ultime possono fare proprie le infor-mazioni ricevute; per cui, informazioni di una mente M0 possono diventare parte di una o più menti M1,…, Mn.

In base a tali processi, ogni mente M è anche una mente estesa. Una mente este-sa, fondata sull’espressione dei suoi stati e contenuti, in modalità linguistica o, in senso più ampio, in modalità segnica (i nosemi si formulano in strutture semiosiche segniche o linguistiche), si allontana dal suo luogo di origine e quindi palesa la sua non-località, ma al contempo si mantiene in esso, con il suo stato ontico correlato con la sua significatività. Una mente, o i suoi contenuti, diventa parte di un’altra, pur mantenendo la sua posizione originaria: quella di essere entro un cervello (la sua località).

La non-località della mente conduce all’indicazione della n-località della mente, cioè il fatto che essa si colloca oltre che in un encefalo che la ha generata, anche en-tro ogni altro che recepisce i suoi contenuti e stati nella forma in cui essi si sono espressi.

Il monismo duale non riduzionista di tipo naturalista e la valenza nomio-sico/semiosica delle configurazioni e dei processi mentali fanno sì, com’è stato rile-vato, che la mente si diversifichi dal cervello non mentale, anche se da un punto di vista naturalista i suoi processi sono processi naturali, in particolare neurochimici così come lo sono quelli non mentali, quindi, la mente è parte anche del cervello. Per questo, nonostante le profonde diversità con la tesi presentata, si può affermare che Descartes non errava nel differenziare la mente dal cervello, la res cogitans dalla res extensa; tuttavia, il dualismo che è stato proposto in quest’analisi si fonda su un monismo duale non riduzionista e si caratterizza per la diversità nomio-sico/semiosica tra diversi tipi di processi e configurazioni cerebrali: quelli mentali e quelli non mentali.

Nell’esame della non-località e della n-località di ogni mente ci si occupa di due aspetti mentali correlati tra loro: l’espressione della mente e la sua estensione. L’espressività dell’encefalo non è un carattere solo di Homo, bensì di ogni essere vi-vente e, in particolare, ma non solo, di quelli che possiedono un encefalo sufficien-temente complesso da permettere forme diverse di espressione dei contenuti cere-brali; in questo caso, per contenuti cerebrali ci si riferisce a tutti i processi propri di ogni encefalo, anche se esso non possiede quelli che caratterizzano la mente umana. In quest’ampia prospettiva, si può affermare che una delle funzioni del SNC è quella di esprimere alcuni risultati dei suoi processi in modalità tali da poter essere recepiti

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da altri esseri viventi: quelli del proprio gruppo, della propria specie nonché di altre specie (e forse anche delle specie viventi vegetali).

Il SNC, prima di tutto, deve assolvere funzioni relative al mantenimento dell’equilibrio termodinamico dell’organismo che non di rado sono assolte anche at-traverso l’espressione manifesta dei suoi processi, come accade nel caso in cui si de-ve difendere il proprio territorio di caccia da membri della propria specie di ap-partenenza o da altri che competono nello stesso territorio per l’approvvigionamento energetico; in questo caso, il cervello esprime la difesa del ter-ritorio con appropriate espressioni leggibili da altri esseri viventi: si pensi, per esempio, ai comportamenti e alle vocalità dei leoni e delle iene nella loro ‘tradizio-nale’ competizione nella savana africana.

Il SNC non solo regola le funzioni vitali, ma esprime i suoi stati (o meglio alcuni di essi) con uno specifico sistema di segni: si pensi ancora, per esempio, a quelli re-lativi alla difesa del gruppo o della propria prole come accade per i maschi Alfa degli scimpanzé. Lo stesso avviene in numerose occasioni e condizioni in altre specie vi-venti, ma nell’uomo l’espressione dei propri stati cerebrali/mentali è molto più svi-luppata correlando gli stati mentali con espressioni di un linguaggio interiore e di un linguaggio esteriore. La presenza del linguaggio, o almeno un insieme di segni, in tutte le specie è lo strumento con cui gli stati cerebrali possono essere espressi all’esterno dell’organismo. In questa sede non ci si occupa delle relazioni tra cer-vello/mente e linguaggio, in particolare in Homo, bensì della espressibilità degli sta-ti cerebrali e mentali.

L’espressione dei propri stati cerebrali in tutte le specie assolve una funzione comunicativa, correlata a sé, al gruppo di appartenenza e alle specie con cui ci si correla, perché permette ad altri di conoscere o ri-conoscere la condizione in cui ci si trova: si è affamati, si sta innescando un comportamento aggressivo o predatorio, si è in uno stato di quiete, di difesa, o di cura della propria prole; si pensi, per esempio, alla comunicazione feromonica di molte femmine di mammiferi quando sono di-sponibili all’accoppiamento o all’espressione comportamentale dei maschi di ele-fante nel periodo del ciclo must.

Si potrebbe aggiungere che si tratta anche di un’espressione del proprio stato ce-rebrale e vitale rivolta a se stessi, ma sembra che questo aspetto sia rilevante solo in Homo, seppur non è assente in altre specie viventi.

Esprimere i propri stati cerebrali in modo manifesto è quindi un’attività biologi-camente fondata che si realizza secondo diverse modalità e sistemi di segni geneti-

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camente determinati; questo carattere è presente nell’uomo, sebbene l’espressione encefalica e mentale in Homo, com’è ben noto, sia molto più ampia e articolata ri-spetto a quella di altre specie viventi e, in particolare, il linguaggio verbale o segnico non è costituito da segni biologicamente determinati, anche se sono presenti alcuni di questo tipo.

In tutte le specie viventi con un SNC sufficientemente complesso, i processi di espressione dei propri stati cerebrali (che sono anche vitali), non solo si fondano su segni/segnali geneticamente determinati, bensì si realizzano in base al programma genetico che permette di correlare neuralmente diverse aree dell’encefalo: per esempio, l’area che ha innescato uno stato aggressivo si esprime attivando quella che lo esprime con un determinato comportamento o con specifici segnali anche vo-cali.

I teorici del linguaggio riconoscono che il linguaggio umano, pur con le sue speci-ficità, in molte occasioni non è dissimile da quello di altre specie viventi e in Homo, così come nelle altre specie viventi, esso è un espediente dell’evoluzione biologica per permettere la comunicazione interspecifica e intraspecifica che avviene, come si è affermato, esprimendo i propri stati cerebrali e, nelle forme meno evolute, seppur molto complesse, delle proprie condizioni vitali; si pensi per esempio, al linguaggio dei crotali o degli Artropodi che, nella grande varietà di specie, dispongono di un ampio numero di segnali corporei.

Esprimere con un linguaggio o con segni di varia natura, inclusi quelli corporei o feromonici, la propria condizione vitale o i propri stati cerebrali e mentali in Homo non solo è una forma di comunicazione, ma una comunicazione fondamentale per la sopravvivenza.

Anche per Homo, a eccezione di condizioni patologiche, non solo sono disponi-bili segni biologici, ben noti agli etologi, agli antropologi e ai primatologi, che sono messi in atto in specifiche condizioni, bensì sono geneticamente costituite le corre-lazioni neuronali tra diverse parti dell’encefalo per cui lo stato di una può innescare l’attivazione di un’altra che guida l’espressione linguistica o più ampiamente segnica di quello stato: da questa condizione deriva la correlazione diffusa e intensa tra di-verse aree cerebrali e le aree del linguaggio; in altri termini, ogni area non solo del neoencefalo, bensì anche del paleoencefalo, può connettersi con le aree del linguag-gio (e in concomitanza con quella senso-motoria), anche se in alcuni casi ciò avviene attraverso l’attivazione di aree corticali che a loro volta attivano le aree linguistiche.

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Tenendo presenti queste osservazioni che si riferiscono a caratteri derivati dall’evoluzione biologica e quindi dai diversi genomi specie specifici, si può conside-rare l’esprimibilità degli stati cerebrali e mentali in Homo.

Nell’uomo l’esprimibilità che si sta trattando è riferibile soprattutto agli stati mentali, anche se solo in alcune condizioni si può ritenere che vi sia l’espressione di stati cerebrali senza e con un minimo coinvolgimento della mente; a questo propo-sito, si può ricordare l’attivazione delle emozioni primarie e la loro espressione cor-porea.

Prima di proseguire è utile soffermarsi sulla quantità dell’esprimibilità di stati e contenuti mentali e sulle relative condizioni di esprimibilità. Com’è ben noto, non solo con riferimento al gradiente di consapevolezza, non tutti gli stati e i contenuti mentali sono esprimibili e, ancora di più, sono effettivamente espressi. Sebbene, siano molti quelli che possono essere espressi e molti altri ancora che sono effetti-vamente espressi, v’è una quantità altrettanto ampia di quelli che non sono esprimi-bili e non sono effettivamente espressi. La quantità degli uni e degli altri dipende soprattutto dal modo in cui si è costruita una determinata mente, in base ai fattori che sono già stati indicati: il patrimonio genetico, l’ambiente fenomenico e socio-culturale e la storia della mente; questi fattori che generano i modi di operare di ogni mente, sono anche quelli che determinano le condizioni e la quantità in cui al-cuni contenuti e stati possono essere espressi mentre altri non lo sono mai o lo pos-sono essere solo in specifiche situazioni. Per ogni mente, quindi, varia sia l’esprimibilità sia la quantità di contenuti e stati esprimibili ed effettivamente espressi; quelli esprimibili possono essere espressi sempre o solo in specifiche con-dizioni; non tutti i contenuti e stati esprimibili da una mente sono effettivamente espressi.

Si può, quindi, rilevare che per ogni mente esiste un coefficiente di esprimibilità: esso indica: a) la quantità e le modalità in cui alcuni contenuti e stati mentali sono esprimibili e altri inesprimibili; b) la relazione tra esprimibilità ed effettiva espressi-vità; c) le condizioni di espressività di contenuti e stati esprimibili. Questo coeffi-ciente di esprimibilità è quindi quello che determina i modi, i tempi e le condizioni, in cui la mente può innescare un processo di espressività che porta a determinate espressioni di alcuni suoi stati e contenuti: l’espressività è una disposizione mentale derivata dal coefficiente di esprimibilità che può portare, anche se non sempre ac-cade, a una effettiva espressione; in altri termini, all’innesco di processi neuro-

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mentali che portano a esprimere contenuti e stati mentali in una data forma, come il linguaggio naturale, quello corporeo o un altro sistema segnico.

Nel seguito si esaminano le modalità in cui una data mente si esprime e ciò è possibile in base al coefficiente di esprimibilità che può innescare processi di effet-tiva espressività.

Sulla base di queste osservazioni e precisazioni, si può affermare che in Homo l’espressione di stati (o configurazioni) e contenuti mentali, con diversi tipi di lin-guaggio o segni è un carattere fondamentale della sua mente e, innanzi tutto, assolve funzioni analoghe a quelle dell’espressione degli stati cerebrali in altre specie viventi e perciò è rivolta a comunicare ad altri, ed anche a se stessi, la propria condizione biologica, psichica ed esistenziale. Tuttavia, oltre a queste funzioni, com’è ben noto, l’espressione dei propri stati mentali ne assolve molte altre che sono relative alla cultura, in senso lato, alla conoscenza di se stessi e a ogni forma di organizzazione sociale. Per questo, il linguaggio umano è una parte molto ampia delle attività men-tali e le aree del linguaggio in Homo sono molto più sviluppate di quelle di tutte le altre specie viventi. Come si è accennato, però, l’espressione degli stati mentali non si attua solo con il linguaggio naturale tipicamente umano, bensì, come in altre spe-cie viventi, con diversi sistemi di segni in cui primeggiano quelli corporei.

L’esprimibilità degli stati mentali con l’uso del linguaggio naturale è la più com-plessa perché deve ‘far corrispondere’ contenuti mentali molto articolati con espres-sioni segnico-linguistiche altrettanto articolate. In questi casi, si tratta di processi di trascrizione linguistica di contenuti e stati mentali nella forma di descrizioni più o meno ampie.

Contrariamente all’uso di segni biologici o naturali, che solitamente sono com-prensibili da tutti gli uomini (per esempio, il pianto o il sorriso), i segni del linguag-gio umano sono artificiali (in altri termini convenzionali) e spesso non hanno un’univocità semantica, per questo l’espressione può non risultare univoca per lo stesso soggetto che l’ha formulata e ancor più per colui che la riceve e la interpreta; si tratta di un’espressione indiretta, attraverso l’uso dei segni convenzionali del lin-guaggio naturale, mentre è diretta con l’uso di segni naturali, come quelli corporei.

L’esprimibilità è formulata in specifiche espressioni linguistiche per raggiungere i due obiettivi che sono stati indicati: quello comunicazionale verso la propria mente e quello verso le altre menti.

Il primo obiettivo, esclusivo dell’uomo almeno per quanto riguarda la sua com-plessità e la sua articolazione segnica, rientra nei processi di consapevolezza e di au-

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toconoscenza per cui il soggetto è consapevole di sé e si autoconosce anche attra-verso l’espressione dei suoi stati mentali e non solo attestando la loro presenza nella mente. Il secondo obiettivo, che è quello maggiormente indagato, è relativo alla co-municazione intersoggettiva analoga a quella di altri esseri viventi, cui ci si è riferiti poco sopra.

Nell’ambito del primo obiettivo, l’espressione della propria mente è correlata con la formulazione dei concetti di sé e della propria mente, che sono costituiti non solo dai risultati introspettivi, bensì anche dall’evidenza derivata sia dai propri compor-tamenti sia dai testi linguistici che hanno come riferimento semantico il proprio sé e o la propria mente. Quindi, l’espressione della mente in qualsiasi forma di segni, eseguita in modo intentivo o non intentivo, permette non solo di autoconoscersi, ma di innescare processi approfonditi per entrare entro la propria mente anche per via introspettiva. Per questo, un obiettivo dell’espressione dei propri stati mentali è quello di comunicare con se stessi ed esso, anche se non in modo esplicitamente in-tentivo e consapevole (almeno non sempre), è spesso primario in molte condizioni di espressività mentale. Manifestare qualcosa di sé a se stessi, è molto rilevante per l’uomo, perciò sarebbe riduttivo ritenere che in Homo l’espressione dei propri stati mentali sia meramente riferita alla comunicazione con l’altro; sebbene, questo se-condo obiettivo, sia anch’esso molto importante per le relazioni interpersonali, nell’uomo, il dialogo con se stessi, che può derivare anche da una riflessione sull’espressione dei propri stati mentali, è il più rilevante da cui spesso si determi-nano le modalità di dialogo con l’altro anche attraverso l’espressione dei contenuti della propria mente.

Questo aspetto della comunicazione, relativo all’esprimibilità di contenuti e stati della mente, in modo intentivo o non intentivo, mette in risalto che la mente umana opera per esprimere i suoi stati mentali a se stessi, prima ancora che agli altri, ed è ciò che permette la sua autoconoscenza e da qui tutti i processi psichici di modifica-zione della mente e del sé.

Inoltre, è fondamentale rilevare che l’espressione dei propri stati e contenuti mentali, entro il primo e il secondo obiettivo, non corrisponde sempre in modo at-tendibile all’informazione che essi contengono e ciò è particolarmente evidente nelle descrizioni proposizionali di contenuti e stati mentali; l’espressione dei propri stati mentali non può essere considerata come espressione fortemente attendibile del sé e della mente, almeno in tutte le condizioni; tuttavia, questa tesi non inficia quella se-

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condo cui sia possibile esprimere i propri stati/contenuti mentali e tale espressione è fondamentale anche per l’autoconoscenza.

L’espressione degli stati mentali, nelle modalità che sono state indicate, è un fat-tore fondamentale per l’estensione della mente al mondo e in particolare alle altre menti. Infatti, tale espressione fa sì che i contenuti della mente si presentino nella forma di ‘enti del mondo’ come nel caso di testi scritti od orali o in quello della mes-sa in atto di comportamenti. I contenuti della mente appartengono solo ad essa, ma una volta che si esprimono in forme concrete, pur restando patrimonio della mente e ancora presenti in essa (e quindi nell’encefalo), assumono anche uno stato ‘ester-no’ o ‘mondano’: diventano enti del mondo su cui possono agire non solo la mente che le li ha generati, ma anche le altre menti.

La mente si estende al mondo o, se si vuole, la mente diventa estesa perché i suoi risultati nella modalità espressiva si collocano nel mondo; la mente non è più rac-chiusa in se stessa, ma diventa parte del mondo, o meglio, i suoi risultati sono parte del mondo. Non appartengono più solo al soggetto, bensì al mondo fenomenico e in particolare diventano intersoggettivi e intermentali; l’espressione dei contenuti mentali fa sì che essi ‘escano’ dalla mente e si presentino come enti oggettivi del mondo, quali i segni o le parole proferite o i comportamenti messi in atto, al pari quindi di tutti gli enti del mondo; la mente, o meglio i suoi contenuti e i suoi stati espressi, sono parte del mondo fenomenico e in ciò consiste l’estensione della men-te. Uno degli aspetti più rilevanti di questa espressione/estensione della mente è quello per cui una mente diventa parte di altre menti che attestano l’espressione dei contenuti mentali di una specifica mente. L’espressione/estensione degli sta-ti/contenuti mentali di una mente M’ diventano parte di ogni altra mente o, meglio, di tutte le altre menti M1,…Mn che in modo comunicazionale recepiscono in modi diversi l’espressione/estensione di M’ e quindi i relativi contenuti: la n-località di M’.

Questa espressione/estensione non è propria solo degli stati/contenuti mentali di Homo, bensì anche degli stati cerebrali di un qualsiasi essere vivente rispetto agli altri; il processo è analogo anche se con profonde differenze e prima di tutto quella tra espressione/estensione di stati cerebrali ed espressione/estensione di stati men-tali, cui si è già fatto riferimento; questi processi, in entrambi i casi (Homo e altri es-seri viventi), sono, com’è noto, tipici di ogni forma di comunicazione. Tuttavia, nella specificità di Homo, la mente estesa assume aspetti molto complessi e articolati per-ché fanno parte del dialogo intermentale, il dialogo tra le diverse menti. La mente

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estesa, allora, è quella mente, o quella parte della mente, che è espressa in un si-stema di segni e che può essere recepita da un’altra mente; la propria mente diven-ta, perciò, parte di un’altra mente come accade nel caso in cui si comunicano espressivamente contenuti e stati della propria mente e un’altra mente li riceve e di-ventano parte di essa.

La mente estesa è ancora la stessa mente? A questa domanda cruciale si può ri-spondere, allo stesso tempo, in modo affermativo e negativo; rispondere in modo af-fermativo significa affermare che l’estensione della mente è sempre parte della men-te perché le sue espressioni sono espressioni mentali: si possono considerare tali an-che nel caso siano messi in atto comportamenti che sono sempre attivati dalla men-te; tranne nei casi in cui siano risposte stereotipate paleoencefaliche specie spe-cifiche. La mente estesa è la mente che si esprime e come tale la sua espressione (e in generale l’esprimibilità) fa parte di essa.

La risposta negativa, invece, sottolinea che, sebbene la mente estesa sia parte della mente nel processo di esprimibilità, una volta che sia espressa e quindi i suoi contenuti siano recepiti da altri e diventano parte del mondo fenomenico (per esempio, le parole pronunciate), allora, essa non appartiene solo a se stessa ma an-che a quelle menti che hanno attestato e recepito i suoi contenuti in una forma esplicita.

Perciò, la mente estesa non appartiene solo alla mente che la ha generata, ma a tutte quelle menti che hanno recepito la sua espressione. Questa tesi vale non solo per le altre menti, bensì per il mondo fenomenico; escludendo da esso le altre menti, la mente estesa è parte della mente, ma è anche parte del mondo, nel senso che è stato indicato poco sopra.

Se non si considera l’appartenenza dell’espressione di stati e contenuti mentali di una mente M’ che l’ha generata, in quanto è evidente, allora, ciò che è più rilevante è il fatto che una mente estesa è un ente del mondo che consiste nell’incontro tra due menti da cui deriva che essa fa parte dell’una e dell’altra; uno stato ontico partico-lare in cui un ente del mondo (l’espressione segnica di una mente) si colloca in due luoghi differenti, ammettendo che questo ente abbia analoghi attributi nell’una e nell’altra mente; si pensi, per esempio, a questa teoria della mente estesa che in quanto espressa dalla mia mente fa parte di essa ma, al contempo, può essere di-ventata parte delle menti di coloro che leggono questo testo; non considerando dif-ferenze interpretative relative a stati e contenuti, questa teoria non è più propria della mia mente, ma lo è anche di altre menti; la mia mente, allora, essendo un ente

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del mondo perché le sue espressioni segniche (in questo caso linguistiche) sono enti del mondo, si trova in due luoghi differenti, nella mia e nelle menti del lettore; essa si trova in due luoghi differenti allo stesso tempo e non in tempi diversi, il che non sarebbe possibile per ogni altro ente del mondo; l’espressione della mente M1 una volta che è stata recepita da un’altra mente M2, si trova al contempo in M1 e in M2.

Si può affermare con idonea provabilità questa tesi della non-località della men-te? Della non-località della mente nella sua esprimibilità e nella sua effettiva espres-sione? Non si può affermare che la mente sia sempre non-locale perché ciò potrebbe costringere ad affermare che la mente non stia nel cervello che la genera, ma in qualche altro luogo anche non fisico. La mente è locale perché generata e contenuta nel cervello in quanto costituita da configurazioni neuromentali: il loro luogo ontico è il luogo ontico della mente che, a sua volta, si trova nel cervello. Tuttavia, si deve anche rilevare che la mente è non-locale prima di tutto perché non è riducibile agli stati cerebrali; al contempo, la sua espressione, che è ciò che interessa in questa se-de, essendo costituita da segni che sono fenomenici, non appartiene solo alla mente ma al mondo; e, in particolare ad altre menti.

La mente ha il carattere della non-località, perciò è al contempo in una e in più menti; questo processo è tipico non solo del dialogo intermentale, bensì della for-mazione di quella che si può chiamare mente collettiva o mente non locale e sovra-mentale: quella mente “memetica” cui si sono riferiti diversi autori.

In questa sede, non si esamina questo tema, anche se quanto sarà sostenuto è ri-levante per esso, bensì si restringe l’attenzione alla costituzione e all’onticità della mente estesa che presuppone l’espressione di stati e contenuti mentali in un sistema di segni; quindi, si presuppone anche che queste espressioni siano enti del mondo fenomenico, quali parole, segni figurativi o comportamenti, al pari di altri enti di questo mondo.

La mente estesa si allontana dal suo luogo di origine (il cervello in cui è stata ge-nerata) e quindi manifesta la sua non-località ma, al contempo, si mantiene in esso, con il suo stato ontico, nel senso che è stato indicato e riferito alla nomiosi-cità/semiosicità caratteristica dei contenuti mentali.

Il mondo intermentale è quel mondo in cui una mente è diventata parte di un’altra, pur mantenendo la sua posizione ontica originaria: quella di essere entro un cervello. L’analisi che si sta conducendo deriva direttamente anche dall’esame delle relazioni tra le menti o, in più in generale tra i diversi soggetti umani nelle loro relazioni intermentali (che sono al contempo intramentali); quest’ultime, sono rela-

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zioni mentali basate su espressioni/estensioni delle menti coinvolte; in questo pro-cesso ogni mente, o meglio le sue espressioni, diventano estese per la mente di A che diventa parte della mente di B, come quella di B può diventare parte di quella di A (in una relazione circolare), pur mantenendosi entrambe nel loro stato ontico pri-mario, cioè quello di appartenere a un encefalo che le genera, non dimenticando che in tale generazione sono coinvolte le relazioni con il corpo, il mondo e le altre menti.

La non-località, inoltre, può permettere di chiedersi se la mente estesa che sta nell’una e nell’altra mente al contempo, sta solo in esse o può essere considerata come appartenente a un (non-)luogo intermentale che si differenzia da quello dell’una e dell’altra. La non-località, così com’è stata considerata, permette di rile-vare la presenza di un luogo intermentale che è anch’esso espressione di non-loca-lità mentale: un carattere fondamentale della mente rispetto al cervello. Questo luo-go intermentale, in realtà, è il luogo di tutte le menti che recepiscono i contenuti di altre menti, perciò, si può sostenere che la mente non solo possiede il carattere della non-località ma quello della n-località; in altri termini, ogni mente si colloca non solo entro un encefalo, ma entro ogni encefalo che ha recepito l’espressione/estensione degli stati e contenuti di un’altra mente; contenuti e stati della mente sono quindi n-locali e perciò possono essere onticamente presenti in più d’una mente: la loro n-località; una n-località che si fonda sulla non-località di ogni mente coinvolta. La n-località è la modalità in cui la mente si estende e può estendersi in modi diversi ed è utile esaminarla brevemente.

Diversi autori, tra cui A. Noe, hanno sostenuto una tesi analoga, anche se di-versa, da quella che si sta presentando e hanno affermato che la mente non è rac-chiusa interamente entro il proprio cervello, ma si estende al proprio corpo e alle al-tre menti con le quali ha una relazione intermentale ricevendo e inviando infor-mazioni. Nella parte precedente è stato indicato che l’estensione della mente è pos-sibile solo attraverso la sua espressione in linguaggi o sistemi di segni costituiti da enti fenomenici, quali suoni, parole, simboli, odori o comportamenti; sono solo que-sti che fanno sì che la mente possa estendersi al di fuori del cervello che la genera. Solo così si può estrapolare che la mente si estenda nel mondo, pur mantenendo an-che lo stato ontico primario proprio di essa; in altri termini, la sua appartenenza on-tica al cervello.

Un primo modo di estensione, che è già stato indicato, è quello intermentale per cui ogni mente nelle sue espressioni può diventare parte di una o più menti, gene-rando così una mente intermentale che si colloca non solo all’interno delle menti

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Teoria nomiosica della mente e monismo duale non riduzionista Mariano L. Bianca

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coinvolte, ma in un universo memetico (l’aggettivo deriva dal termine meme usato nella letteratura per indicare unità significative proprie di una cultura) o, in termini diversi noetico, che è un ente del mondo se si prescinde dalle menti che condividono i suoi contenuti. Come accade per ogni teoria formulata che non solo appartiene alle menti che la condividono (la n-località), bensì può essere analizzata al pari di qual-siasi altro ente del mondo, anche se, ovviamente, con metodi epistemologici diffe-renti; si pensi, per esempio, alle analisi della teoria della relatività, o al suo diverso uso in ambito fisico e cosmologico: tale teoria non solo è onticamente entro la mente di Einstein (almeno lo era) e in quella di coloro che la hanno recepita mentalmente, accettandola o rifiutandola, bensì è un ente noetico, o un meme, che può essere ana-lizzato prescindendo dal fatto che sia in una o in più menti. I contenuti mentali di-ventano (o sono) noetici e per questo possiedono lo stato ontico dell’universo noe-tico (che non è ovviamente il mondo delle idee platoniche). Ciò è possibile per la na-tura nomiosica/semiosica delle configurazioni (o stati) mentali, cioè per il fatto che esse veicolano nosemi o nosemi/sememi e sono questi che fanno sì che esse possano essere trasferite da una mente all’altra, anche nel caso in cui non esiste più la mente che le ha generate; questa condizione permette di rilevare anche che la mente, e in particolare i suoi stati e contenuti, non solo sono n-locali, ma sono anche n-temporali; la mente è n-temporale perché può collocarsi non solo nel tempo in cui è presente nell’encefalo che la ha generata, ma anche nel tempo di quelli in cui è stata trasferita in senso n-locale, e ancora in un istante del tempo t’ che è quello di un possibile trasferimento o riferimento ad essa. Per tali motivi, la mente è a-tem-porale o meglio è n-temporale, dove n è riferibile a tutti gli istanti possibili di tempo in cui una mente può essere in un’altra. Essa è in ogni istante di tempo in cui ciò av-viene, ma è tale solo se vi sono menti che possono recepirla (incluse menti di possi-bili E.T.). Il fatto che la mente sia sostanzialmente costituita da nomiosi/semiosi è ciò che permette sia la n-località sia la sua n-temporalità nei sensi indicati.

Il secondo modo di intendere l’estensione mentale è quello che è indicato come embodiment o incorporamento; in questa sede l’incorporamento non è inteso come relazione tra mente e corpo, ma come quel processo per cui una parte della mente è anche entro il corpo. In quale modo si può affermare una tesi di incorporamento della mente?

Prima di tutto è utile ribadire che la mente non solo si colloca nel corpo, bensì è anche una parte rilevante di esso; infatti, sebbene, la mente, com’è stato affermato, possa estendersi oltre il corpo, al contempo è dentro di esso in quanto è costituita da

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processi neurofisiologici: solo i suoi risultati, nel senso indicato, possono trasferirsi in altre menti e nel mondo via la loro espressione e quindi possedere la proprietà di essere n-locali e n-temporali. Uno degli stati ontici della mente è quello di tutti i processi cerebrali che sono processi fenomenici, perciò anche la mente è un ente fe-nomenico. La mente non la si considera riduttivamente come corpo o cervello, però, essa è anche tale: una sua parte. Com’è stato indicato in precedenza, il corpo, o me-glio in questo caso, le configurazioni cerebrali non mentali, influenzano quelle men-tali e viceversa: perciò la mente non solo è anche corpo, ma lo influenza in modo an-che rilevante.

Oltre a questi aspetti, che sono stati già esaminati, l’incorporamento della mente si amplia all’intero corpo e non solo all’encefalo, da cui è stata generata e del quale fa parte.

La mente, di per sé, non si trova in alcuna altra parte del corpo se non nell’encefalo, e allora si dovrebbe escludere un suo incorporamento nella corporeità extra encefalica, mentre è possibile quella encefalica cui ci si è riferiti poco sopra. V’è un modo in cui la mente è nel corpo (extraencefalico)? Se per incorporamento della mente s’intende l’ampiezza delle relazioni tra mente e corpo, non si può che af-fermare (ma è un’affermazione di senso comune) che la mente agisce direttamente sul corpo in così diversi modi tali da rilevare che, in moltissime condizioni (ma non in tutte), il corpo agisce sulla base delle indicazioni della mente (e, com’è noto, dell’encefalo in senso lato); si potrebbe affermare che con la presenza della mente, la corporeità è una corporeità-mentale: in altri termini, una corporeità guidata, anche se non costituita dalla mente.

L’attività della mente non è in alcun modo e in nessuna condizione sostituita o surrogata da qualche parte del corpo extraencefalico, ma quest’ultima può influire sulle attività della mente, come accade spesso; le informazioni che alcune parti del corpo ricevono dalla mente generano processi fisiologici che a loro volta inviano in-formazioni retroattive alla mente inibendo o rafforzando, per esempio, alcuni pro-cessi neurofisiologici e quindi anche mentali. Una condizione che è molto frequente di cui si possono elencare un gran numero di casi che fanno parte dell’usuale fun-zionamento degli organismi; si pensi, solo per fare un esempio, alla condizione in cui la mente è impegnata in un’azione come partecipare a una gara podistica in cui ci si prefigge di riuscire a essere vincitori; lo stress generato dalla corsa, per esem-pio, sulla muscolatura delle gambe, può inviare informazioni alla mente tali da mo-dificare o inibire l’intento di riuscire a vincere.

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Anche questi casi appartengono alla normalità delle relazioni tra mente e corpo e non evidenziano la presenza della mente entro la corporeità non encefalica: rappre-sentano un suo incorporamento, ma solo nel senso che la mente genera modifica-zione degli stati corporei.

Le osservazioni che sono state indicate, permettono di rilevare che la mente si estende al corpo, anche se questa condizione non è tale da poter affermare che an-che il corpo fa parte di processi mentali, a meno che, com’è stato indicato, ci si rife-risca al fatto che non di rado, ma non sempre, le attività mentali coinvolgono diverse parti del corpo (ovviamente, si escludono quelle ordinarie riferite al mantenimento dell’equilibrio termodinamico dell’organismo e quelle che sono utili per svolgere un’attività mentale: per esempio, il movimento delle mani per scrivere su una ta-stiera).

Si può ritenere che questo coinvolgimento della corporeità-extramentale assuma livelli diversi in differenti condizioni; esso può anche essere tale da ridursi a tal pun-to per cui l’attività della mente coinvolge solo in parte la corporeità: per esempio, quando si sogna, o ancora in molte condizioni in cui si è impegnati in un ragiona-mento o ci si concentra sull’analisi di un tema teorico. In molti altri casi, l’attività mentale si estende alla corporeità extraencefalica, nel senso che non solo può influi-re in vario modo sui processi corporei, bensì determinare, come indicato, specifiche condizioni corporee. La mente si estende alla corporeità perché la coinvolge per cui ciò che accade nella mente, in generale, accade nel corpo, ma ciò non significa che la mente, in senso stretto, sia collocata entro la corporeità extraencefalica.

Infine, il terzo modo di estensione della mente è quello riferito al mondo, esclu-dendo il caso delle altre menti cui ci si è già riferiti.

Senza considerare il fatto che la mente faccia parte del mondo perché è conte-nuta nell’encefalo che a sua volta è parte del mondo, si può affermare che la mente si estende al mondo fenomenico, innanzitutto, in quel modo che è stato indicato, se-condo cui l’espressione dei suoi stati e contenuti con segni e comportamenti, è co-stituita da enti del mondo.

Oltre questa modalità mondana della mente, si deve considerarne una più rile-vante cui ci si è già riferiti: quella secondo cui la mente, qui intesa come insieme di tutte le menti, si estende nel mondo fenomenico in quella particolare dimensione che è stata chiamata noetica o memetica. Ciò che è generato da ogni mente e da tut-te le menti, e si esprime in una forma segnica, diventa parte del mondo, quello stes-so mondo cui appartengono gli enti che sono o non sono oggetto della percezione.

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Questa dimensione conduce direttamente al tema dell’influenza sul mondo dell’espressione/estensione della mente nel mondo; in questa sede si rileva solo che la mente, o meglio le sue espressioni, si devono considerare come alcunché del mondo che, come molti altri, generano modificazioni che sono quelle proprie della cultura dell’uomo.

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Traccia di sé. La persona tra fenomenologia e neurobiologia Vinicio Busacchi

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Traccia di sé. La persona tra fenomenologia e neurobiologia Vinicio Busacchi

Trace of the Self. Person between Phenomenology and Neurobiology

Abstract The idea that a phenomenological hermeneutics of the self is limited in terms of knowledge and understanding of problems such as subjectivity, consciousness and the mind constitutes an idea that still persists today. With regards to the last thirty years of active research in cognitive sci-ence, neurobiology and analytic philosophy, the author intends to demonstrate the richness and importance of the relationship between these different disciplines and traditions. The work of Ricoeur is particularly concerned with the interdisciplinary study of self: it demonstrates how essential the contribution of hermeneutics to understanding self and identity could be. Keywords: Consciousness; Mental; Identitary Trace; Phenomenology of the Self; Neurobiology. ***

[…] α̉ρµονίη α̉φανὴς φανερη̃ς κρείττων. ΗΡΑΚΛΕΙΤΟΥ [22, fr. B 54 DK].

Messa a tema con preliminare psicoanalitico Ancora oggi persistente è l’idea che una fenomenologia ermeneutica del sé

produca contenuti di gittata interdisciplinare modesta a paragone del vasto e ricco campo di ricerca sulla soggettività, la coscienza, il mentale e via discorren-do prodottosi principalmente in filosofia analitica, tra scienza cognitiva, filosofia della mente e neurobiologia. In questo lavoro, riferendoci al quadro degli svi-luppi e delle tendenze più caratteristiche degli ultimi trent’anni si mostrerà la varietà e produttività dell’apporto ermeneutico-fenomenologico – affatto estra-neo a quell’orizzonte – attraverso l’esempio dell’intervento di Paul Ricœur sulla problematica identità/memoria. Rispetto ad essa questo filosofo sviluppa un ricco raffronto tra fenomenologia, neurobiologia e psicoanalisi tentando di lega-

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re e governare problematiche epistemologiche, ontologiche e di antropologia fi-losofica che interessano trasversalmente il dibattito tanto epistemologico quan-to di filosofia analitica e di neuroscienza, tanto su problematiche generali e ‘di principio’ quanto su nodi tematici specifici. A questi ultimi qui presterò partico-lare attenzione, laddove ai primi farò solo cenno. La prova, infatti, consiste nel mostrare con quali contenuti e secondo quali modalità l’apporto ermeneutico-fenomenologico entri (o pretenda di entrare) nel vivo del dibattito contempora-neo tra filosofia e scienze psicologiche e neurobiologiche. Ora, se, come si ac-cennava – e meglio si dirà –, la scuola fenomenologica non risulta estranea al dibattito, ed in parte neanche l’ermeneutica, un’ombra diversa si stende sulla psicoanalisi – secondo diversi, teoricamente e disciplinarmente troppo instabile ed “ibridata”, arretrata sotto molti punti di vista: de facto non utilizzata, se non anche disconosciuta, nei settori filosofici e scientifici surriferiti. È necessario af-frontare subito, preliminarmente, questa impasse. Non va semplicemen-te/banalmente evidenziato quanto essa sia al contempo segno di un tramonto della psicoanalisi e prova dell’ascesa per moda o tendenza delle discipline col “bollino” «cognitiva» (secondo quella ciclicità che ha visto sempre l’alternanza di correnti, scuole e ideologie per “oscillazioni” tra elementi razionali e compo-nenti non razionali…). Piuttosto, della psicoanalisi si deve rilevare l’ampio “ser-vigio” reso a tanta filosofia per oltre un secolo, e non solo alla filosofia: nessuno quanto Freud ha marcato così profondamente e diffusamente il dibattito cultu-rale e scientifico in tutto l’arco del Novecento, e nessuna disciplina come la psi-coanalisi è stata in grado di influenzare, su vari livelli, una così lunga e varia se-rie di scienze, saperi e persino arti. Nello specifico della filosofia, accanto alle provocazioni critiche e morali suscitate attivamente dal freudismo, è stata pro-prio l’alta mobilità e vulnerabilità teorica ed epistemologica a tradurre la psi-coanalisi in vasto laboratorio filosofico di ricerca speculativa e critica1. Accanto a ciò, va rilevato un secondo punto, importantissimo qui, sugli sviluppi più recenti della psicoanalisi: al di là delle sue differenze e diversificazioni di scuola, conce-

                                                                                                                         1 Come ha osservato, tra gli altri, Silvana Borutti: «ciò che è in discussione oggi a proposito dello statuto di scientificità del modello freudiano coincide in gran parte con ciò che è in discussione a proposito del modello epistemologico delle scienze umane» (S. Borutti, Figure della verità e mi-to analitico. Alcune riflessioni epistemologiche sul modello freudiano, in «Epistemologia» XII, 1989, n. 2, luglio-dicembre, p. 213). Tra le più robuste operazioni filosofico-epistemologiche esercitate negli ultimi trent’anni intorno alla psicoanalisi spicca senza dubbio quella di A. Grünbaum, nella cui opera maggiore, The Foundations of Psychoanalysis: A Philosophical Cri-tique (the Regents of the University of California, Berkeley 1984; tr. it., I fondamenti della psi-coanalisi, Il Saggiatore, Milano 1988), l’autore sviluppa un attacco all’epistemologia popperiana attraverso la «critica filosofica» della psicoanalisi (a difesa del modello epistemologico dell’induttivismo eliminativo).

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zione ed approccio prassico questa scienza va correndo verso la ricerca del con-fronto interdisciplinare, verso la ricerca di nuovi approcci (più collegiali ed in-ter-specialistici) alla ricerca teorica e clinica e verso nuovi modelli introiettanti le acquisizioni d altre scienze: la neurobiologia (si pensi, ad esempio, al lavoro svolto da un Mark Solms sulla Neuropsychoanalysis), la fenomenologia appli-cata (tradizione che rimonta a Binswanger), la scienza cognitiva, si pensi qui all’eccellente lavoro che sta svolgendo negli Stati Uniti una Wilma Bucci. A titolo dimostrativo possiamo rimandare agli interventi di quest’ultima raccolti nel vo-lume curato da Giuseppe Moccia e Luigi Solano, Psicoanalisi e neuroscienze. Risonanze interdisciplinari – volume nato da due giornate di studio che hanno visto il coinvolgimento del mondo della medicina, della psichiatria, della neuro-biologia, oltre che della psicoanalisi e della psicoterapia2. Tra i contributi, anche l’intervento del neuroscienziato Vittorio Gallese da particolare prova della reci-procità di interesse/attrazione tra psicoanalisi e neuroscienza; nella sezione fi-nale del suo saggio sulla Simulazione incarnata, sezione dove tenta di inquadra-re e “far lavorare” la sua idea della «simulazione incarnata» nel quadro della teoria psicoanalitica, egli scrive quanto segue:

«Credo che i risultati empirici quali quelli qui riassunti possano contribuire ad am-

pliare il dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze. La psicoanalisi ha da sempre identifica-to il corpo come la sorgente principale per alimentare le rappresentazioni psichiche. Al-cuni recenti sviluppi della ricerca in neuroscienze cognitive hanno (…) messo in luce l’importanza del corpo n azione e dei sistemi sensori-motori nella costituzione della rappresentazione della realtà»3.

Se, da un lato, Gallese può godere di una certa “favorevolezza” di circostan-

za/colleganza chiamando in causa il modello psicoanalitico classico, ovvero la psicoanalisi del neurofisiologo Sigmund Freud, da un altro lato il suo lavoro sul-la simulazione incarnata si sviluppa intrecciandosi in modo vincolante a due tematiche al confine tra scienze biologiche e scienze umane [e filosofia]: la te-matica dell’intersoggettività e la tematica del linguaggio. Il suo atteggiamento aperto ed esplorativo è del tutto evidente (per altro, in diverse occasioni Gallese ha sottolineato il rilievo produttivo della filosofia ermeneutica e fenomenologica per le ricerche neuroscientifica: un’ammissione indiretta dell’apporto possibile di modelli psicoanalitici alternativi come l’ermeneutica del profondo o la psico-

                                                                                                                         2 G. Moccia e L. Solano (a cura di), Psicoanalisi e neuroscienze. Risonanze interdisciplinari FrancoAgneli, Milano 2009. 3 Ibidem, p. 198.

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logia analitica). Quanto alla psicoanalista W. Bucci, il suo itinerario teorico e di ricerca rivela un’analoga apertura e valorizzazione del lavoro interdisciplinare, forse con una più marcata tendenza alla sistematizzazione. I curatori del libro parlano con cautela di «risonanze interdisciplinari», ben consapevoli dell’ampiezza e profondità, quando non radicalità, delle difficoltà connesse agli incontri interdisciplinari, ai tentativi di sintesi e reciproca contaminazioni – sempre [ri-]discutibili per via della forte differenziazione e specializzazione dei saperi ed in ragione di resistenze culturali interne e tra ordini disciplinari. Ma se proprio non possiamo parlare oggi di tendenza alla convergenza dei saperi e di redivivo “hegelismo”, almeno possiamo registrare una crescente spinta nella ri-cerca di occasioni di confronto e scambio su questioni e tematiche riconosciute di pertinenza interdisciplinare. Ma Bucci si spinge ben oltre ciò, il suo è un ten-tativo di profilare una nuova metapsicologia capace di ridisegnare il quadro del-le principali istanze teoriche della psicoanalisi attraverso apporti di scienza co-gnitiva e neurobiologia; per essere più precisi, quest’autrice sviluppa un modello integrato sulla base di una concezione del funzionamento psichico centrata sul-la categoria della molteplicità, con riferimento ad un nuovo ‘ordine psicobiologi-co’ a cui afferisce la sfera del cosiddetto sub-simbolico. La descrizione che segue lascia cogliere la valenza e funzionalità conoscitivo-esplicativa esercitata su tale sfera dalla psicologia cognitiva e dalla neurobiologia:

«Esistono due principali sottosistemi di funzionamento psichico: il sub-simbolico e

il simbolico. Il simbolico è ulteriormente diviso in una forma verbale, le parole e il lin-guaggio e una forma non-verbale nota come attività immaginativa e che può essere rappresentata in qualunque modalità sensoriale (…) per quanto nella maggior parte delle persone vedenti predomini quella visiva. Abbiamo familiarità con immagini e pa-role, ci sono accessibili, siamo in grado di manipolarle. (…). Il sistema sub-simbolico è meno noto concettualmente e tecnicamente difficile da descrivere, ma ci è assai familia-re nella vita quotidiana. L’elaborazione sub-simbolica può essere descritta come conti-nua o analogica, in contrasto con le unità rappresentazioni discrete della modalità sim-bolica. Processi che la implicano si svolgono a livello motorio, viscerale e sensoriale e in tutte le modalità sensoriali. (…) // Di grande interesse per la psicoanalisi è la centralità dell’elaborazione sub-simbolica nell’elaborazione dell’informazione di tipo emozionale e nella comunicazione emotiva»4.

Con ciò, indicata la titolarità attuale e pertinenza del riferimento psicoanaliti-

co, possiamo passare a tratteggiare uno schizzo degli sviluppi filosofici contem-

                                                                                                                         4 Ibidem, pp. 29-30.

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poranei intorno alla questione della coscienza e della corporalità collocandovici il contributo filosofico di Paul Ricœur e della fenomenologia ermeneutica.

L’identità tra coscienza e corporalità. Dalla scienza cognitiva alla fenome-

nologia dell’homme capable Nel trattare degli aspetti interdisciplinari della ricerca ricœuriana sviluppata-

si intorno alle questioni della memoria, del soggetto e del sé preferisco parlare – diversamente da altri autori5 – di relazione con le scienze della mente e le neu-roscienze piuttosto che con le scienze cognitive (declinazione plurale generalista della specifica denominazione di ‘cognitive science’ – come è noto, l’interdisciplina che opera tra filosofia, linguistica, psicologia, antropologia, neuroscienza ed intelligenza artificiale, nata a Boston nel 1956). Respingo que-sto accostamento in virtù di un duplice rilievo. Anzitutto, Ricœur non si è espli-citamente occupato di scienza cognitiva, né l’ha chiamata in gioco nel contesto teoretico stretto del trattamento critico di problematiche determinate. In secon-do luogo, la scienza cognitiva si ritaglia una posizione nel campo della Philoso-phy of Mind molto distante, direi antitetica, dalla posizione del Nostro: quella si dispone in un settore unilateralmente analitico, con un ferreo programma de-terministico-cognitivista, questi opera in linea di base nel settore fenomenologi-co, articolando la sua ricerca in declinazione ermeneutica e, come abbiamo det-to, in dialettica con la tradizione analitica, la psicoanalisi e le neuroscienze. D’altra parte, vero è che, oltre alla concordanza nel comune interesse interdisci-plinare, tra la fenomenologia ermeneutica e la scienza cognitiva vi è un ulterio-re, e più concreto, elemento di prossimità e raccordo nell’apertura della seconda alla fenomenologia a partire dagli anni Novanta del secolo appena trascorso. Duplice il percorso di questa apertura. Anzitutto a partire dal dibattito sulla co-scienza sviluppato da David Chalmers – secondo una linea ricollegabile anche alla vecchia questione “continentale” dell’irriducibilità della soggettività –, ri-prendendo Thomas Nagel [nel suo scenario teso tra il funzionalismo di W. Sel-lars e H. Putnam e la questione delle qualità soggettive degli stati di coscienza (qualia)], in dialettica stretta con Daniel Dennett, John Searle ed Owen Flana-

                                                                                                                         5 Cfr., ad es., L. Boltanski, F. Dosse, M. Fœssel, F. Hartog, P. Pharo, L. Quéré e L. Thévenot, L’effet Ricœur dans les sciences humaines (Table ronde), in «Esprit», 2006, n. 323, mars-avril, pp. 40-64; L. Quéré, Sciences cognitives et herméneutique, in Ch. Delacroix, F. Dosse e P. Gar-cia (a cura di), Paul Ricœur et les sciences humaines, La Découverte, Paris 2007, pp. 145-165; D. Jervolino, Ricœur: la fenomenologia della memoria e il confronto con le scienze cognitive, in M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Mondadori, Milano 2006.

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gan6. A tutt’oggi, nonostante i fortissimi sviluppi [anche editoriali] delle ricerche più recenti il lavoro di questi autori continua ad esprimere forte rappresentativi-tà delle linee di tendenza principali degli studi filosofici sulla coscienza. Tra le operazioni compiute da Chalmers, di alto rilievo risulta la teorizzazione del «dualismo delle proprietà», una via collocabole tra l’antiriduzionismo di Searle ed il riduzionismo di Dennett, espressiva di una concezione di funzionalismo non riduzionistico ad “aggancio” metafisico, elaborata nel tentativo di tenere ferma l’interpretazione funzionalistica dell’intenzionalità degli stati di coscienza senza abbandonare il carattere propriamente fenomenico dell’esperienza co-sciente qualitativa. Ciò che resta inspiegato – nonostante la forte esplicatività di questo modello funzionalistico –, sul punto della coscienza fenomenica, è il no-do della ragion di necessità circa il carattere qualitativo delle esperienze cogni-tive di un “sistema” cosciente fornito di proprietà psicologiche, dato che il si-stema ritiene la sua logicità/funzionalità a prescindere dal riferimento all’elemento di qualità fenomenica degli stati di coscienza (come agiscono gli zombies…); ergo, la coscienza fenomenica deve di necessità spiegarsi come un che di sopravveniente [anche non naturalmente]. Se, per un verso, l’antica pro-blematica dualistica è così, qui, oltrepassata, per un altro ancora su di essa si ri-cade, dato che tale modello, al di là dell’armonizzazione funzionale tra sistemi, tende a scindere le produzioni della coscienza dalle componenti neurobiologiche e chimiche in gioco a livello di vita corticale: il carattere qualitativo dell’esperienziale-coscienziale non emerge dal fisico, né ad esso può essere ri-condotto/ridotto…

In parte prossimo a Chalmers, è Searle che – sulla scia delle ricerche condotte in campo neurobiologico da specialisti come G. Edelman – parla di costituzione ontologica degli stati di coscienza soggettivi; ineliminabili ed irriducibili, sì, ma non ‘sopravvenienti’: la coscienza, in quanto proprietà mentale, è proprietà fisi-ca del cervello. Searle tenta di scongiurare e la deriva [monistico-]materialistica e la deriva del dualismo ontologico [sostanza mentale / sostanza cerebrale] di-stinguendo tra riduzione causale e riduzione ontologica: un sintomo doloroso è riconducibile alla sua ‘causa’ organica, ma non vi è unità o ‘riconducibilità onto-

                                                                                                                         6 Di seguito si ricordano i riferimenti essenziali: Th. Nagel, What Is It Like to be a Bat?, in «Philosophical Review», 1974, n. 83, pp. 434-450 (tr. it., in Th. Nagel, Questioni mortali, Il Sag-giatore, Milano 1979, pp. 162-175); D. Dennett, Consciousness Explained, Little Brown, New York 1991 (tr. it., Coscienza: che cosa è, Laterza, Roma-Bari 2009); O. Flanagan, Consciousness Reconsidered, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1992; J. Searle, The Rediscovery of The Mind, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1992 (tr. it., La riscoperta della mente, Boringhieri, Torino 1994); D. Chalmers, The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford 1996 (tr. it., La mente cosci-ente, McGraw-Hill Companies, Milano 1999).

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logica’ tra lo stato di quel dolore in-quanto-tale e quel dato stato fisico in-quanto-tale. In fin dei conti, «il senso di mistero [tra coscienza e cervello] deriva (…) dal fatto che, attualmente, non soltanto non sappiamo come esso [il cervel-lo] funzione, ma non abbiamo nemmeno una idea chiara di come il cervello po-trebbe funzionare per causare la coscienza»7.

Ebbene, proprio tra le variazioni metodologiche interne a questa “forbice me-tafisica” si è andata inserendo l’esplorazione fenomenologica in filosofia della mente8. Ad essere più precisi – come ricostruiscono Shaun Gallagher e Dan Za-havi, nel libro The Phenomenological Mind –, fu «quando sorsero questioni me-todologiche sul modo in cui studiare la dimensione esperienziale in termini scientifici, cioè senza ricorrere all’introspezione vecchia maniera, [che] si co-minciò a ridiscutere intorno alla fenomenologia»9. Un’esplorazione che ha, in qualche modo, rafforzato la ripresentazione del problema del dualismo; soprat-tutto dal lato di quel “secondo ingresso” della fenomenologia nella Philosophy of Mind, costituito dalla Neurophenomenology di Francisco Varela, Evan Thomp-son, Eleonor Rosch: un progetto di interdisciplina “sintetica” triangolata tra scienza, filosofia ed esperienza [anche religiosa], esplicitamente ricondotta al modello della fenomenologia applicata di Merleau-Ponty. Di cosa si occupa que-sta disciplina? Dell’esperienza umana viva in-quanto complesso sorto dalla co-stitutiva ed indistricabile interconnessione di ‘mente’ e ‘mondo’. Tra gli sviluppi neurofenomenologici più vicini a noi, un certo interesse ricopre il lavoro di Alva Noë, con il suo recente attacco al paradigma teorico [ancora classico, cartesiano] della scienza cognitiva attraverso la concezione dell’enattivismo10.

Ritornando a Ricœur, lo sviluppo neurofenomenologico nell’enattivismo sembra favorevole ad una presa in esame delle ricerche del filosofo francese in Philosophy of Mind principalmente da questo lato dell’innesto fenomenologico, ed almeno su due fronti tematici: emozione/esperienza emotiva ed intersogget-tività/corporeità. Diversi rimandi soprattutto al fronte intersoggettivi-tà/corporeità emergeranno qui, dal seguito di un itinerario che abbiamo deciso

                                                                                                                         7 J. Searle, Il mistero della coscienza, RaffaelloCortina, Milano 1998, p. 166. 8 Già nel 1993 B. Mangan curava un forum presso la rivista Consciousness and Cognition in cui si andava criticando il fatto che nonostante la riattualizzazione del problema della coscienza in filosofia analitica e scienza cognitiva, tale riattualizzazione non stava producendo alcuna svolta sulla fondamentale questione della soggettività cosciente. Se nel forum si richiamava il lavoro di W. James piuttosto che quello di Husserl, già prossimi, comunque, si era al passo del salto alla fenomenologia, e proprio per questo nodo della soggettività cosciente. 9 S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, RaffaelloCortina, Milano 2009, p. 7. 10 A. Noë, Out of Our Heads, Hill and Wang, New York 2009 (tr. it., Perché non siamo il nostro cervello: una teoria radicale della coscienza, RaffaelloCortina, Milano 2010).

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di tracciare tematicamente tra identità e memoria per non portarci troppo oltre il terreno [ancora centralissimo] della questione della coscienza – fedeli all’idea di mettere in luce il più significativo ed articolato complesso di apporti teorico-interdisciplinari della fenomenologia ermeneutica di Ricœur. Si tratta di un complesso che, baricentrato sul fulcro dell’identità/coscienza, presenta un ri-svolto metodologico-epistemologico che interessa da vicino quel “primo gruppo” di esploratori analitici della fenomenologia che – ripetiamo ancora con Galla-gher e Zahavi – «nel momento in cui il problema della coscienza fu sollevato come problema scientifico» pensarono «che la fenomenologia come approccio filosofico potesse avere una sua importanza»11.

Ora, la concezione ricœuriana dell’uomo matura in Soi-même comme un au-tre (Seuil, Paris 1990), ove si trova la teoria filosofica dell’homme capable. Negli studi sul sé sviluppati in quest’opera si ritrovano, rimodulati, elementi portanti di elaborazioni antropologiche precedenti, quali quella sviluppata in chiave ei-detico-esistenziale ne Le volontaire et l’involontaire (Aubier, Paris 1950) intor-no al Cogito, la cui riconquista nella conoscenza e nell’esperienza – leggiamo – «deve essere totale, perciò è all’interno dello stesso Cogito che dobbiamo ritro-vare il corpo e l’involontario che esso nutre». «Una comune soggettività fonda l’omogeneità delle strutture volontarie ed involontarie»12. Epperò, proprio l’approccio fenomenologico, che rivela il limite della mancanza dell’aggancio lo-gico-gnoseologico all’empirico in quanto tale, porta alla luce quella scissione della corporalità propria dell’uomo, tra dimensione oggettiva ed esperienza soggettiva del corpo proprio. Per una sorta di movimento contrario all’apertura fenomenologica dei filosofi della mente, il Ricœur fenomenologo è qui spinto a chiamare in gioco un psicologia empirica (in funzione diagnostica, nel quadro dell’operazione ricompositiva in cui, ‘per indicazione’, si ristabilisce la rete di corrispondenze/connessioni tra le misure e rilievi del corpo-oggetto ed i mo-menti esperienziali del corpo vissuto). Al contempo, il parcours fenomenologi-co-empirico di questa antropologa non esaurisce conoscitivamente la dialettica di Cogito e sum. Si manifesta, quasi come Chalmers (ma per vie argomentative ben differenti), il nodo di avvenienza del fenomeno della soggettività umana. Tra la dimensione del Cogito e la dimensione del sum si interpone il «mistero», un foro interiore non scandagliabile con i soli mezzi dell’ermeneutica dei simbo-li e dei miti e con lo scavo della psicoanalisi [pure messi in campo ed utilizzati da Ricœur]. Se nell’opera del ’50 il rimando alla Trascendenza è esplicito, in Sé come un altro il motivo poetico e/o di fede risulta del tutto stemperato, e dal                                                                                                                          11 S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica, cit., p. 7. 12 P. Ricœur. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, p. 13.

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cielo del Trascendente si passa alla terra [ma, attenzione, solo ‘terra’ non è!] del-la capacità/creatività umana entro cui quello si trova in qualche modo ridotto. È vero che la filosofia dell’homme capable è una teorizzazione che si sviluppa en-tro un impianto ermeneutico-fenomenologico, ma ciò che emerge è un disegno inglobante significative istanze scientifiche, analitiche, naturalistiche, come ri-sulta ancora dal punto della dimensione corporale e fisica o, meglio, nella diffe-renza tra identità biologico/sostanziale ed identità storico/narrativa del sogget-to. È attraverso questa differenziazione che Ricœur tenta di contrastare le idee scettiche dell’io come costrutto senza nucleo, fiction socialmente utile e via di-scorrendo. Scrive il Nostro: «Senza il soccorso della narrazione, il problema dell’identità personale è in effetti votato ad una antinomia senza soluzione: o si pone un soggetto identico a se stesso nella diversità dei suoi stati, oppure si ri-tiene, seguendo Hume e Nietzsche, che questo soggetto identico non è altro che una illusione sostanzialista, la cui eliminazione lascia apparire solo un puro di-verso di cognizioni, di emozioni, di volizioni. Il dilemma scompare se, all’identità compresa nel senso di un medesimo (idem) si sostituisce l’identità compresa nel senso di un se stesso (ipse); la differenza tra idem e ipse non è al-tro che la differenza tra una identità sostanziale o formale e l’identità narrati-va»13. Questo passaggio, in cui massima importanza ha l’elemento [ermeneuti-co-]narrativo, rimanda anche al piano del fisico-biologico, assorbito/espresso dalla nozione di identità idem. Ad essa è ricondotto il funzionamento corporale e l’inconscio, le istanze necessitanti (passività, nolontà e pulsionalità incluse) ed il carattere, il funzionamento neurobiologico e le tracce corticali della memoria, le proprie impronte digitali ed il proprio codice genetico.

Tenendo fermo ciò, si coglie che quel nucleo del ‘misterioso’ umano richiama-to più in alto non spiega la capacità e creatività umana. Di fatto, esso si ritira – per dir così – tra le maglie ontologiche della dialettica [di sostanza] poten-za/atto nel cui dinamismo si danno le possibilità o ‘poteri’ espressivi dell’uomo capace (capace di parlare ed agire, di raccontare e raccontarsi, capace di re-sponsabilità, capace di imputabilità). Il libro-dialogo con il neurobiologo Jean-Pierre Changeux risulta utilissimo ad illustrare il nesso che corre tra questa concezione di monismo dialettico o dualismo improprio e la difficoltà epistemo-logica specifica, ad esso collegata, dell’oggettivismo scientifico e della fenomeno-logia (parlo appunto di ‘dualismo improprio’ perché dualismo prodotto, secondo Ricœur, per difetto gnoseologico). In questo libro-dialogo, dal titolo La Nature et la Règle. Ce qui nous fait penser (Odile Jacob, Paris 1998, 2008), la posizione

                                                                                                                         13 P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, pp. 375-376.

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del Nostro emerge in tutta chiarezza anche in forza del contrasto con il punto di vista di Changeux, il quale tra filosofia della mente e scienza cognitiva va a col-locarsi nel settore dell’ontologia del mentale, accanto ai fisicalisti riduzionisti (D. C. Dennett, O. Flanagan…), nel gruppo eliminativista dei Churchland e di S. Stich. (Più prossimo referente per Ricœur sarebbe stato certamente un Antonio Damasio…).

La traccia identitaria tra memoria e storia Con Changeux Ricœur reimposta la questione dell’identità personale su

quell’asse tematico che si ritroverà, poi, ne La mémoire, l’histoire, l’oubli (Seuil, Paris 2000), ovvero del rapporto mente-cervello e mente-memoria, secondo una serie problematica disposta sui diversi livelli ontologico, antropologico, epi-stemologico-metodologico e [persino] etico-pratico. «(...) Per quanto mi riguar-da – scrive Ricœur –, sosterrò che un dualismo semantico ancor più sottile s’insinua tra i vissuti organizzati a un livello prelinguistico e le forme oggettive formalizzate (…) di questo mentale dal debole contenuto “carnale”. Non è esage-rato dire che il divario semantico è tanto grande tra le scienze cognitive e la filo-sofia quanto tra le scienze neuronali e la filosofia. Il divario tra vissuto fenome-nologico e conosciuto oggettivo corre lungo tutta la linea divisoria tra i due ap-procci del fenomeno umano. Ma (...) questo dualismo semantico, nel quale si esprime un vero ascetismo del pensiero riflessivo, può essere solo un punto di partenza. L’esperienza molteplice, ampia e completa, è fatta in modo che i due discorsi non smettano di essere correlati da molteplici punti d’intersezione. In un certo modo – che non conosco – è il corpo stesso a essere vissuto e conosciu-to. È la stessa mente a essere vissuta e conosciuta; è lo stesso uomo a essere “mentale” e “corporeo”. Da quest’identità ontologica può dipendere un terzo di-scorso che va al di là tanto della filosofia fenomenologica quanto della scien-za»14. Ricœur dunque distingue tre diversi regimi discorsivi, per estensione: (a) il discorso oggettivo dei saperi conoscitivo-esplicativi, (b) il discorso critico-intuitivo-esperienziale ed etico-pratico-normativo delle conoscenze comprensi-ve, (c) il discorso oltre-filosofico della conoscenza sintetica non razionale o «poetica». Su tale base, egli critica la relazione identitaria postulata da Chan-geux tra significato psichico e realtà corticale, e l’unilateralità epistemologico-procedurale palesata in quel suo programma di «naturalizzazione dell’intenzionale» – già subito criticabile considerando un certo impiego epi-                                                                                                                          14 J.-P. Changeux, P. Ricœur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 27.

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stemicamente fragile di categorie come la causalità nella descrizione del pas-saggio dallo psichico al neuronale e viceversa15, o considerando la strategia dell’uso di amalgami ibridi quali il concetto di oggetto mentale. Ricœur non esclude «affatto la possibilità di progredire nella conoscenza scientifica del cer-vello, ma» si interroga «sulla comprensione della relazione tra questa conoscen-za e il vissuto»: è vero che «capiamo sia un discorso psichico sia un discorso neuronale, ma la loro relazione crea dei problemi perché non riusciamo a in-quadrare il loro legame all’interno dell’uno o dell’altro»16. Così, non risulta per nulla facile «comprendere la frase “la coscienza si sviluppa nel cervello”; la co-scienza si sa, si conosce (o s’ignora, ed è qui il problema dell’inconscio), ma il cervello rimarrà in maniera definitiva un oggetto della conoscenza, non appar-terrà mai alla sfera del corpo proprio. Il cervello non “pensa” nel senso di un pensiero che si pensa»17.

In questa configurazione del limite conoscitivo e dell’oscillazione – spesso impropria – tra piani e registri discorsi, una posizione determinata [diversa ri-spetto a quei concetti che abbiamo detto «amalgami ibridi»] rivestono quelle nozioni “di confine”, metaforiche, dall’uso plurimo. Tra di esse, la nozione di traccia. Ampiamente approfondita nella parte prima (sulla memoria) de La mémoire, l’histoire et l’oubli, rispetto al libro-dialogo questa nozione sembra po-ter funzionare come elemento di raccordo nel passaggio dalla problematica epi-stemologica testé richiamata alla questione del nesso memoria-identità. Di fatto, è su tale nesso che Ricœur rilegge in questi suoi ultimi lavori la teoria dell’homme capable. Se vero è che traccia è sia traccia mnestica che traccia sto-rica, marca biochimica e marca esperienziale [= segno di un vissuto, ricordo], altrettanto vero è che la mia identità è costituita [naturalmente] e costruita [storicamente] sia sulla base della mia identità sostanziale – cioè a livello di ri-tenzione organica e corticale, ed a livello formale – sia sulla base della mia iden-tità esperita, conosciuta, raccontata, ossia di ciò che sono.

Dal mio codice genetico, dalle impronte digitali si può risalire alla mia identi-tà, ma solo in parte e solo da un certo punto di vista. Se mi si domanda chi sono rispondo raccontando la mia storia di vita…

L’identità della persona. Passaggio conclusivo Cosa è, dunque, identità? Dialogando ancora con Changeux Ricœur sottolinea

la complessa carica [semantica, gnoseologica, filosofica] della nozione di identi-                                                                                                                          15 Cfr., Ibidem, p. 46. 16 Ibidem, p. 70. 17 Ibidem, p. 52.

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tà personale che è risultante di una «interconnessione dell’esperienza ordinaria nella storia millenaria della cultura»18, e che non si risolve solo sciogliendo il nodo dell’entità della coscienza. «Ciò che chiamiamo ‘coscienza’», certo, «impli-ca la nozione d’identità»; ma è proprio «qui che le piste si confondono: il pro-blema dell’identità è in realtà di difficoltà considerevole. Tocchiamo il punto in cui la psicologia popolare si rivela piena di “pregiudizi”, come se il problema dell’unità o della pluralità fosse un problema semplice. Qui, l’esperienza ordina-ria fiancheggia e a volte veicola una storia culturale generata dalla letteratura, dalla filosofia e dalle religioni»19. E tale dimensione culturale non è estranea alla nostra identità, ovvero al fenomeno della formazione dell’identità in quanto in-sieme sostanziale e proprio. Non solo, perciò, io comprendo ed esprimo me stes-so nel racconto, ma mi racconto e comprendo per mezzo delle storie di vita tra-smesse attraverso le opere scritte e rappresentate ed il racconto e la testimo-nianza storica dei popoli. Così, si dà l’identità, anzi la persona, in un senso con-creto e olistico. Il riferimento alla nozione di persona, piuttosto che solo a quello di identità, entra in gioco qui in forza delle istanze sociali, politiche, economiche e giuridiche immesse nel discorso antropologico attraverso le implicazioni inter-relazionali connesse alla nozione di identità narrativa (oltre che di capacità co-me responsabilità ed imputabilità). Al di là di questo discorso, comunque, rile-viamo come il rimando ad una qualche dimensione del trascendente paia del tutto estinto (non troviamo riferimento al religioso neppure sulla nozione di persona20). In realtà però se in questa concezione dell’uomo si può del tutto pre-scindere dal piano metafisico-religioso e da un’ontologia spiritualistica, un qual-che residuale permane, come abbiamo visto, sul nesso capacità-creatività uma-na, ovvero sulla sua possibilità/potere di portare il nuovo nel mondo e [dunque] di darsi immancabilmente come individualità unica, nuova appunto. «Un’ontologia spiritualistica non mi interessa», spiega il nostro – che gioca sul-                                                                                                                          18 Ibidem, p. 168. 19 Ibidem, p. 167. 20 Nel suo celebre saggio Meurt le personnalisme, revient la personne… [in «Esprit», 1983, n. 1, janvier, pp. 113-119], troviamo quanto segue: «Se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali evocate da altri; voglio dire: un cadidato migliore rispetto a tutte le altre entità ereditate dalle bufere cultu-rali (..). Rispetto a “coscienza”, “soggetto”, “io”, la persona appare un concetto sopravvissuto e ritornato a nuova vita. // Coscienza? Come si potrebbe credere ancora all’illusione di trasparen-za legata a questo termine, dopo Freud e la psicoanalisi? Soggetto? Come si potrebbe nutrire an-cora un’illusione di una fondazione ultima n qualche soggetto trascendentale, dopo la critica del-le ideologie della Scuola di Francoforte? L’io? Chi non prova l’impotenza del pensiero a fuoriu-scire dal solipsismo teorico, posto che esso non prenda le mosse, come Emmanuel Levinas, dal volto dell’altro, eventualmente in un’etica senza ontologia?» (P. Ricœur, Muore il personalismo, ritorna la persona…in P. R., La persona, Morcelliana, Brescia 1997, p. 27).

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la triplice uso del vocabolo esprit [mente e mentale, trascendentale, ispirazione] –, «non ne ho bisogno per definire la terza modalità di ciò che chiamo “spirito”, cioè la funzione che ispira. Non domino questa funzione, ne sono il beneficiario. Non per questo esco dall’esperienza, poiché non identifico l’esperienza con la sperimentazione e non la riduco nemmeno a una funzione oggettivante. Ora, l’esperienza, anche la più teorica, comporta una dimensione ispirata. Non penso soltanto alle diverse espressioni del sentimento religioso; penso anche all’elogio platonico della mania, della “follia”, dell’“entusiasmo”, a quello del “genio” da parte dello stesso Kant nella sua teoria del giudizio estetico, poi da parte dei Romantici tedeschi»21.

Insomma, con la teoria dell’identità personale, di molto Ricœur fuoriesce dal campo classico della fenomenologia e dell’ermeneutica aprendosi una breccia nel campo degli studi della filosofia della mente e della neuroscienza (senza por-tarvi dentro tematiche altre, ermeneutiche, religiose, poetiche). Desta meravi-glia, che in tali settori, ancora oggi la sua opera passi sotto silenzio. Indifferen-za/ignoranza? Fraintendimento? Disconoscimento?

                                                                                                                         21 Ibidem, p. 173.

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Note su ascesi e potenziamento della coscienza Marco Casucci

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Note su ascesi e potenziamento della coscienza: la dottrina schopenhaueriana del genio e lo Übermensch nietzscheano. Marco Casucci Remarks on Ascesis and Enhancement of Consciousness: the Schopenhauerian Theory of Genius and Nietzschean Übermensch. Abstract This paper intends to investigate the following critical remarks: beginning with an analysis of the theory of genius in Schopenhauerian texts, it will deal with the question of the Nietzschean reception of that theory in his early works, with particular attention paid to the Unzeitgemässe Betrachtungen. The third part of the paper will, from a theoretical standpoint, compare the idea of genius in the unpublished early writings of the young Schopenhauer with the Nietzschean Übermensch, as it is presented in his masterpiece Also sprach Zarathustra, in order to demon-strate the deep affinity between the two philosophers, beyond the historical quarrel Nietzsche had with his master of thought. Keywords: Consciousness, Ascesis, Genius, Übermensch, Time, History, Ontology ***

Scrivere su Schopenhauer e Nietzsche in un “volume” dedicato a “mente e

persona” può apparire forse fuori luogo, soprattutto per il carattere sempre più analitico e fenomenologico che i termini in questione hanno assunto nel corso di questi ultimi decenni. In effetti i termini “mente” e “persona” non ricorrono praticamente quasi mai nei testi di Schopenhauer e di Nietzsche, se non indiret-tamente, mai comunque in posizioni chiave della loro opera filosofica.

Tuttavia la questione della coscienzialità nel suo rapporto fondamentale con l’essere si caratterizza come la questione fondamentale su cui ancora oggi i “per-sonalismi”, in particolare quelli di ispirazione fenomenologica giocano la loro partita alla ricerca di quel rapporto autenticante che fa di un sé non un mero

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Note su ascesi e potenziamento della coscienza Marco Casucci

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meccanismo logico, quanto piuttosto un quid irripetibile e unico, radicato nell’essere che gli è proprio a partire da cui orientarsi nel mondo della vita.

Il presupposto ermeneutico su cui si fonda il presente intervento è quindi quello di tentare di individuare in questi due pensatori un primo movimento ra-dicale di intercettazione della questione del sé come orizzonte all’interno del quale si gioca la possibilità di un potenziamento qualitativo come senso ultimo dell’esperienza singolare e personale. Questi due pensatori, infatti, si ritrovano, nonostante le distanze intercorse nella lettura nietzscheana di Schopenhauer, nel senso ultimo di una ricerca volta alla conquista di una ipseità che si ritrovi infine nel suo fondamento ultimo: ovvero in quella “eternità” che fu la tentazio-ne animante le intenzioni di entrambi i pensatori, seppur nella differente decli-nazione che ne diedero. Il presente studio intende pertanto mettere in evidenza i seguenti punti critici fondamentali: muovendo dalla dottrina schopenhaueriana del genio nel Mondo come dimensione dell’autenticità della coscienza, si analiz-zerà la ricezione nietzscheana della dottrina del genio nelle Inattuali, per poi esaminare, infine, la figura del genio negli scritti giovanili schopenhaueriani come radice ermeneutica dell’ascesi di coscienza nietzscheana.

La dottrina schopenhaueriana del genio nel Mondo. Come ben si sa la dottrina del genio viene presentata dallo Schopenhauer nel

terzo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione. Qui, dopo aver illu-strato nei primi due libri la dimensione della rappresentazione secondo il prin-cipio di ragione e quella della volontà come l’“in sé” che emerge al confine dei limiti del conoscere, l’eremita di Francoforte procede ad indagare la dimensione del conoscere “puro”, in quanto svincolato dalle forme del principio di ragione e dal dominio della volontà che gli è correlato. Oggetto di questo conoscere puro è per Schopenhauer l’“idea” platonica, il vero e proprio correlato noematico della visione liberata dal dominio del tempo e della volontà. Se infatti il mondo della rappresentazione, fondato sul principio di ragione, si rivolge alla molteplicità caleidoscopica degli oggetti, la volontà, concepita da Schopenhauer come l’in sé kantiano che si dischiude oltre il “velo di Maya” ne costituisce il negativo relati-vo. La conoscenza dell’idea, pertanto, si caratterizza per un duplice distacco che il “puro” soggetto del conoscere mette in atto tanto rispetto alla rappresentazio-ne fondata sul principio di ragione (spazio, tempo, causalità), quanto rispetto al-la volontà che ne costituisce la condizione negativa e lo sfondo su cui il mondo oggettivo si staglia nella molteplicità delle sue forme.

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In questo senso l’idea può essere colta nella sua qualità di oggetto puro solo nella misura in cui esso si offra al di fuori degli elementi condizionanti che fan-no sì che gli oggetti siano oggetti “per noi” piuttosto che “in sé”, in quanto libe-rati nella loro essenza da tutti quegli elementi determinanti che rinchiudono l’oggetto in una determinata rappresentazione. “Rappresentare”, secondo Scho-penhauer, non vuol dire infatti altro che nullificare l’oggetto, riducendolo ad un “per sé” imprigionato in schemi che mutano radicalmente la sua forma origina-ria per renderlo mera apparenza soggettiva. Il tempo, in particolare, è la forma fondamentale attraverso cui la coscienza riduce l’oggetto al cambiamento dei suoi stati, scambiando la sua durata per una permanenza astratta nel concetto. Il soggetto della rappresentazione, infatti, è dominato dalla temporalità come suo elemento costitutivo e ad essa non può sottrarsi, neanche quando, compien-do le operazioni intellettuali superiori, si illude di poter accedere ad una dimen-sione di sapere ulteriore, che tuttavia altro non è che il proiettarsi astratto di quella medesima temporalità che ne costituisce il “basso fondamentale”. In ef-fetti, tutta l’analisi compiuta da Schopenhauer nei primi due libri del Mondo, non è altro che una riduzione della dimensione gnoseologica della coscienza alla dimensione basilare del tempo in virtù di cui esso diviene la condizione fonda-mentale del conoscere, col risultato di una implosione su se stesso in virtù di cui il mondo vacilla nella sua solida presenza per manifestarsi come un “sogno sen-za sognatore”:

«Come nel tempo nessun istante esiste se non a condizione di annientare il precedente che lo

ha generato, per essere a sua volta annientato con la stessa rapidità; come il passato e il futuro, facendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto, sono illusori al pari del più vano dei sogni […], proprio così allora riconosceremo lo stesso carattere illusorio in tutte le altre forme del principio di ragion sufficiente»1.

“Traum ohne Träumer”, questa è dunque la condizione del soggetto trascen-

dentale immerso nella temporalità, in virtù di cui tutto il mondo non è altro che un caleidoscopico confondersi dei riferimenti, che scambiano la durata nel tem-po per una stabilità certa e inconcussa nell’astrattezza del concetto. Questa indi-viduazione del tempo come elemento basilare della coscienza costituisce il pun-to di partenza da cui scaturisce tutta la dottrina schopenhaueriana circa la nulli-tà e inconsistenza del mondo, che si condensa da ultimo nella negatività costitu-

                                                                                                                         1 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, I Bd., hrsg. von A. Hübscher, Brockhaus, Wiesbaden 1972, p. 8, tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di N. Palanga e A. Vigliani, Mondandori, Milano, 1997, p. 37, d’ora in poi abbreviato con la sigla W1.

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tiva del concetto di volontà, paradossalmente “noumeno” inconsistente che si dischiude al di là della rappresentazione2. I primi due libri del Mondo sono de-dicati ad aprire lo spazio essenziale affinché si possa procedere al vero scopo dell’opera, che non è tanto quello di una descrizione del mondo secondo le mo-dalità opposte della rappresentazione e della volontà, quanto piuttosto di intro-durre ad una dottrina soteriologica destinata a compiersi negativamente nella noluntas3.

Pertanto, laddove il tempo recede rispetto alla sua pervasiva relativizzazione, si crea lo spazio per l’avvento di un senso ulteriore, in grado di ricomporre il mosaico infranto della rappresentazione: «Il tempo – sostiene infatti Schopen-hauer a tale proposito – non è altro che la visione divisa e spezzata che un indi-viduo ha delle idee, le quali sono fuori dal tempo, e quindi eterne: perciò Platone dice che il tempo è l’immagine mobile dell’eternità: αἰόνος εἰκὼν κινετὴ ὀ χρόνος»4. La citazione platonica non lascia dubbi rispetto all’ispirazione scho-penhaueriana. La visione della realtà al di là delle forme del principio di ragione, e quindi della volontà di vivere, lascia spazio alla manifestazione dell’idea come il vero e proprio in sé delle cose. Rispetto, quindi, alla molteplice varietà degli oggetti che trovano una parziale unità nel concetto astratto – pallido riflesso di un’apparenza – l’idea porta a presenza una unità esperienzialmente concreta in

                                                                                                                         2 È questo senza dubbio uno dei paradossi più significativi lasciatici dal pensiero schopenhaue-riano e cioè l’idea di un noumeno che è in sé pura negatività che inghiotte in se stessa ogni de-terminazione. In questo senso volontà e tempo fano unum et idem, sebbene su versanti differen-ti dell’analisi. Come infatti ha modo di affermare lo stesso Schopenhauer in proposito «Noi non possiamo rappresentarci compiutamente quanto è stato detto [il noumeno, la volontà], se pre-scindiamo completamente dai concetti di tempo: eppure dove si tratta della cosa in sé, tali con-cetti dovrebbero restare esclusi. Ma i limiti insuperabili del nostro intelletto fanno sì che esso non possa mai spogliarsi completamente di questa forma della rappresentazione, che è la prima e la più immediata fra tutte, per operare senza di essa» (A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, II Bd., hrsg. von A. Hübscher, Brockhaus, Wiesbaden 1972, p. 575, tr. it. Sup-plementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. cit., cap. 41, p. 1394; d’ora in poi abbreviato con W2). 3 La lettura in chiave soteriologica della filosofia di Schopenhauer vanta ovviamente un’ampia bibliografia. Si vogliono ricordare, in particolare in ambito italiano: P. Martinetti, Schopen-hauer, Garzanti, Milano, 1941 (nuova edizione a cura di M. Fontemaggi, Il melangolo, Genova, 2005); T. Moretti-Costanzi, Schopenhauer, Editoriale Arte e Storia, Roma, 1942 (adesso anche in Id., Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano, 2009, pp.); G. Faggin, Scho-penhauer, il mistico senza Dio, La Nuova Italia, Firenze, 1951; L. Casini, Schopenhauer. Il silen-zio del sacro, Padova, Edizioni Messaggero, 2004. 4 W1, §32, p. 207, tr. it. 260.

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grado di raccogliere i raggi dispersi del conoscere verso un unico centro focale5. L’idea è quindi visione delle cose da un punto di vista non-temporale. Il senso, piuttosto che disperdersi ed illanguidirsi in vaghe forme astratte, si fa sapiente-mente concreto in una unità in grado di saldare verità e vita su di un livello di realtà in grado di fugare le ombre confuse generate dal divenire temporale e di lasciar manifestare la vera essenza delle cose. Come infatti lo stesso Schopen-hauer affermerà anche più tardi nei Parerga prendendo in considerazione la pittura:

«L’apprensione di una simile idea richiede, però, che io, mentre contemplo un oggetto, faccia

realmente astrazione dalla sua posizione nel tempo e nello spazio e con ciò dalla sua individuali-tà. Infatti, quella posizione, determinata ogni volta dalla legge di causalità, è proprio ciò che mette quell’oggetto in una qualche relazione con me, in quanto individuo: per ciò soltanto eli-minando quella posizione, l’oggetto diventa idea ed io, proprio per ciò, divento soggetto puro del conoscere. Per questa ragione, ogni opera di pittura, se non altro perché fissa per sempre l’attimo fuggente e con ciò lo stacca dal tempo, ci dà non già l’elemento individuale, bensì l’idea, ciò che persiste in ogni mutamento delle cose»6.

È compito dell’arte, e quindi del genio che la pro-duce, di lasciar manifestare

l’idea come l’in sé delle cose, al di fuori dei rapporti relativizzanti che la rappre-sentazione mette in atto, trasformando l’ὅντως ὄν in un “oggetto” per un “sog-getto”. Proprio per questo nella menzione schopenhaueriana del “puro soggetto” e “puro oggetto” del conoscere, l’accento deve cadere proprio sull’aggettivo “pu-ro”, a significare un livello ulteriore di coscienzialità in grado di qualificare tanto il “soggetto” che l’ “l’oggetto” in un senso eminentemente differente rispetto alla dimensione rappresentativa. L’arte, in questo senso, è in grado di rendere quell’esperienza radicalmente differente che pone le cose stesse in una luce dif-ferente, non offuscate dalle ombre del divenire in cui esse sono destinate sempre a cedere il posto ad altro in uno scorrere sempre uniforme e indifferente. L’arte e il genio sono in grado di elevare il mondo e la coscienzialità ad esso correlativa

                                                                                                                         5 «La sola cosa che si possa chiamare veramente esistente (ὅντως ὄν), in quanto sempre è né mai diviene o trapassa, sono i modelli reali riflessi di quelle ombre; sono le idee eterne, i proto-tipi di tutte le cose. Le idee non conoscono pluralità, poiché ciascuna è unica per sua natura, ov-vero è l’idea tipo o il modello di cui tutte le cose singole e passeggere dello stesso nome e della stessa specie sono copie ed ombre. Esse poi non nascono e non muoiono: sono infatti ciò che ve-ramente è, né mai divengono o periscono al pari delle loro effimere copie» (W1, §31, p. 202, tr. it. p. 254). 6 A. Schopenhauer, Parerga und Paralipomena, II Bd., hrsg. von A. Hübscher, Brockhaus, Wiesbaden 1966, p. 444; tr. it. Parerga e paralipomena, vol. II, a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano, §206, p. 551.

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ad un livello di verità in cui la vera essenza delle cose si manifesta nella sua eternità. In questo senso il genio è colui che ha lo sguardo sempre appassiona-tamente fisso sull’eterno, “al centro della ruota del tempo”, e proprio per questo è in grado di eternarsi nell’arte come oggettualità atemporale.

Il genio è colui che, elevandosi al di sopra del tempo si colloca in una dimen-sione ulteriore in cui tutte le cose risplendono in una luce differente. Proprio per questo il genio ha una visione talmente differente delle cose da non condividere il punto di vista della massa, dei più, di quella “merce all’ingrosso della natura” che riempie le piazze soddisfatta nel proprio crasso filisteismo: «Il genio vive es-senzialmente isolato. Egli è troppo raro per trovare facilmente i suoi simili, troppo diverso da tutti gli altri per esserne compagno. In loro l’elemento pre-dominante è il volere, in lui il conoscere: perciò le loro gioie non sono le sue e le sue non sono le loro»7. Il terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazio-ne è interamente attraversato da un’esaltazione di questa “differenza” tipica del genio. Risalta, una su tutte, la citazione del vangelo di Giovanni con cui l’eremita di Francoforte sottolinea l’inadeguatezza del genio all’“attualità” del suo tempo: «Ὁ καιρὸς ὁ ἐµὸς οὔπω πάρεστιν, ὁ δὲ καιρὸς ὁ ὑµέτερος πάντοτέ ἐστιν ἕτοιµος»8.

Il tempo del genio è il tempo dell’“inattuale” che non si lascia commisurare dal divenire quotidiano degli attimi che scorrono tutti uguali per gli uomini nati a morire. Sarà questo, come vedremo, uno dei punti cardine che dalla seconda inattuale di Nietzsche porterà dritto alla dottrina dell’eterno ritorno e dell’oltreuomo. Questo orizzonte di partenza si radica in una esperienza essen-ziale dell’eternarsi della coscienza in un potenziamento ascetico che è abbando-no all’eternità stessa: esperienza di liberazione in un vincolo autenticante che, elevando, rivela squarci inediti di realtà. Questo è il senso fondamentale dell’arte che già in Schopenhauer riveste un significato essenziale:

«Quando, elevandosi con la forza dell’intelligenza, l’uomo abbandona la maniera consueta di

considerare le cose: quando cessa di cercare, alla luce del principio di ragion sufficiente, le sole relazioni degli oggetti fra loro, relazioni che, in ultima analisi, non si risolvono che nella relazio-ne di tali oggetti con la nostra volontà; quando dunque non si preoccupa più del dove, del quan-do, del come e del perché e della finalità delle cose, ma unicamente e semplicemente di ciò che le cose sono; quando non permette più che la sua coscienza sia invasa da pensieri astratti e da con-cetti di ragione, ma consacra tutta la forza del suo spirito all’intuizione, vi si sprofonda tutto; [...], allora ciò che viene conosciuto non è più la cosa particolare come tale, ma è invece l’idea, la forma eterna, [...]; e colui che è rapito in tale contemplazione non è più individuo (l’individuo è                                                                                                                          7 W2, p. 446, tr. it. p. 1248. 8 Jo., 7:6; W2, p. 447, tr. it. p. 1250.

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annientato dalla contemplazione), ma assurge a soggetto conoscente puro, a soggetto che è al di là del dolore, di là dalla volontà, di là dal tempo»9.

Il genio in quanto “puro soggetto del conoscere”, è allo stesso tempo al di là

del tempo e della volontà. Egli manifesta quella modalità dell’abbandono sa-piente proprio della coscienza che si volge al di là del tempo come condizione preliminare per un accesso al tema dell’eternità. La coscienza abbandona la “vana curiositas” di agostiniana memoria, per proiettarsi in una dimensione ul-teriore in cui l’essenza della verità è data in una libera ostensione per cui la “vo-lontà di sapere”, propria dell’atteggiamento rappresentativo, è messa a tacere. In questo modo è indicata in una ascesi trasumanante la destinazione di un pen-sare autenticamente votato all’eternità, in quanto ispirato da esso.

In questo senso il genio è colui che attraverso lo sguardo dell’arte mette in li-bertà sé e il mondo che lo circonda, vedendo ogni cosa sub specie aeternitatis10. In questa liberazione nel vincolo essenziale dell’eternità, il genio contempla il mondo elevandosi ad un grado di coscienza a partire da cui tutte le cose mutano di significato ed acquisiscono la loro più propria verità. Alla luce di questa tra-sfigurazione, tutto appare in una luce più autentica, al punto che lo stesso Scho-penhauer, contravvenendo al suo pessimismo di fondo riguardo alla “natura matrigna”11, si trova ad esclamare nei Supplementi al Mondo: «ma che senso estetico ha la natura!»12. La citazione risulta quanto mai stupefacente, quasi lo cogliesse di sorpresa, distogliendo l’occhio dal dolore del mondo per illuminarlo con la sua bellezza.

Questa è, in effetti, una contraddizione destinata a rimanere irrisolta per lo stesso Schopenhauer. Se da un lato infatti il mondo rimane legato ad una sorta di finitezza costitutiva espressa egregiamente nel concetto di volontà di vivere, che altro non è se non la finitezza del mondo portata al livello della sua idealità negativa; dall’altro, al contrario, non si può certo negare la centralità che la bel-

                                                                                                                         9 W1 §34, p. 210, tr. it. p. 264. 10 A questo proposito Schopenhauer cita esplicitamente l’Ethica di Spinoza: «mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specie concipit» (B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstra-ta, V, prop. 31, schol.; W1, §34, p. 211, tr. it. p. 264). 11 La citazione leopardiana è a tale proposito quanto mai esplicativa del modo usuale in cui il fi-losofo di Danzica si rivolgesse al mondo della natura vista come la scena su cui avveniva il tragi-co auto-dilaniarsi della volontà di vivere col relativo dolore di tutta la creatura. D’altronde la vi-cinanza tra i due pensatori fu subito notata in ambito italiano da F. De Sanctis nel suo saggio in forma dialogica su Schopenhauer e Leopardi (in «Rivista contemporanea», 1858; oggi in Id., Schopenhauer e Leopardi e altri saggi leopardiani, Ibis, Pavia, 1998). 12 W2, Cap. 33, p. 462, tr. it. p. 1266.

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lezza dell’arte, e quindi la sua capacità trasfiguratrice rispetto alla negatività del finito, assume nella struttura teoretica del Mondo.

È come se Schopenhauer combattesse una lotta destinata a sfociare nell’affermazione aporetica che chiude il §71 del Mondo13, in cui viene affermata l’esigenza di una negazione totale del mondo medesimo a partire dalla noluntas, annunciatrice di una “epifilosofia”14 destinata tuttavia a rimanere incompiuta. Nell’ultimo capitolo dei Supplementi al Mondo Schopenhauer critica la dottrina spinoziana da cui in precedenza aveva ripreso la definizione di mens per indica-re l’attitudine all’eternità del “puro soggetto del conoscere”. Tale critica si rivol-ge apertamente contro l’idea di un mondo divinizzato, ovvero di un mondo in cui sia possibile ritrovare la perfezione dell’unità divina altrimenti relegata dallo Schopenhauer nella sfera negativa della noluntas. Come se l’atto teoretico estremo dell’eremita di Francoforte volesse tenere lontana la tentazione di una collisione tra la perfezione trascendente il mondo e il mondo medesimo, finendo per trascinare la bellezza che si manifesta al “puro soggetto del conoscere” in una contraddittorietà irrisolvibile che vede il genio dilaniato in una polarità in-conciliabile.

Il genio è infatti in una condizione “tragica”15, nella misura in cui in lui si combatte la tensione stessa del mondo tra dolore e bellezza, tra volontà e intel-letto “puro”:

«Quanto più chiaro è l’intelletto dal quale la volontà di vivere si trova ad essere illuminata,

tanto più distintamente tale volontà avverte la miseria della propria condizione. L’umore cupo, che si osserva così spesso negli spiriti elevati, ha il suo simbolo nel Monte Bianco, la cui cima è quasi sempre immersa nelle nuvole: ma quando talvolta, soprattutto di primo mattino, il velo di nuvole si solleva e il monte, rosso per la luce del sole, guarda giù verso Chamonix dalla sua                                                                                                                          13 «Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, è proprio questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, ad essere il nulla» (W1, §71, p. 487, tr. it. p. 576) 14 Ricordiamo a tale proposito come il termine “epifilosofia” faccia la sua comparsa nella titola-zione dell’ultimo capitolo dei Supplementi (W2, p. 736, tr. it. p. 1574), ad indicare l’apertura del-la filosofia negativa di Schopenhauer verso una ulteriorità destinata tuttavia a rimanere ineffabi-le. Come si afferma significativamente in queste pagine: «In me il mondo non esaurisce l’intera possibilità dell’essere, ma in esso resta ancora molto spazio per ciò che noi caratterizziamo nega-tivamente come negazione della volontà di vivere» (W2, p. 740, tr. it. p. 1579). 15 Come già aveva avuto modo di specificare Schopenhauer nei suoi appunti giovanili «la vita di tutti gli uomini geniali è affatto tragica, per quanto tranquilla possa apparire dal di fuori» (A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlass, I Bd., Frühe Manuskripte (1804-1818), hrsg. von A. Hübscher, W. Kramer & Co., Frankfurt am Main 1966, fr. 160, p. 92; tr. it.Scritti postumi, vol. I, I frammenti giovanili (1804-1818), a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi., 1998, p. 121; d’ora in poi abbreviato in HN1).

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sommità oltre le nuvole; si ha allora uno spettacolo, alla vista del quale ognuno sentirà dischiu-dersi l’animo fin nel profondo. Allo stesso modo il genio, solitamente malinconico, mostra an-che, di quando in quando, quella serenità particolare, di cui ho già parlato e che, derivando dalla perfetta oggettività dello spirito, a lui solo è possibile; serenità che si diffonde sulla sua fronte spaziosa come un riflesso luminoso: in tristitia hilaris, in hilaritate tristis»16

L’immagine del Monte Bianco che si apre alla luce del sole solo in “attimi ra-

ri” dopo giorni di cupa pioggia, sicuramente colta dallo Schopenhauer durante i suoi viaggi europei e in particolare nei suoi soggiorni alpini, ci conduce in ma-niera rapida e potente nella prossimità di quella dimensione propria del genio, di cui lo stesso filosofo dovette fare esperienza nel corso della sua vita. La carat-teristica del genio è infatti propriamente quella della “rarità” che spicca lumino-samente sul dolore dell’esistenza da lui stesso portato come fardello verso un di-schiudimento, un’apertura verso leggerezze aeree che costituiscono il termine di una inversione radicale in cui l’incombenza dell’altezza si illumina di una luce unica e irripetibile. La luce rosea che promana dalla vetta del monte innevato, all’alba, è il sigillo che dona bellezza a tutta la valle, mostrando che l’altezza stessa non è qualcosa di terribilmente irraggiungibile, quanto piuttosto legge-rezza rischiarante.

Il gesto del genio, tuttavia, la “facilità” in cui si esplica la sua “arte” come do-no per il mondo, sorge da quello stesso dolore che secondo lo Schopenhauer at-traversa tutto il mondo come un errore da cancellare. Schopenhauer non può tollerare il “peso” dell’esistenza dinanzi a quella “leggerezza”, all’altezza candida e “pura” della cima innevata. Da essa non discende grazia sul mondo, ma solo la tragica sottolineatura del suo errore costitutivo. Proprio per questo, alla fine, il “gioco” dell’arte si rivela come un inganno beffardo con cui bisogna fare i conti in maniera definitiva17, spezzando i legami che ci avvincono al mondo come vo-

                                                                                                                         16 W2, pp. 438-439, tr. it. 1239-1240. Si vogliono anche ricordare, a tale proposito i versi di By-ron citati da Schopenhauer nel III libro ad indicare la profonda partecipazione del genio alla ve-rità del mondo: «I live not in myself, but I become /Portion of that around me; and to me /High mountains are a feeling» (W1, §51, p. 296, tr. it. p. 364). 17 Si leggano a tale proposito le righe finali del III libro del Mondo: «Questa pura, profonda e ve-ra conoscenza del mondo costituisce appunto lo scopo supremo dell’artista, che non va più oltre. Perciò, quella conoscenza non diviene per l’artista un quietivo della volontà come invece diviene per il santo, che – lo si vedrà nel quarto libro – è arrivato alla rassegnazione; non lo redime per sempre dalla vita, ma soltanto per un breve momento; non è ancora la via che conduce fuori dal-la vita, ma soltanto una consolazione provvisoria nella vita, finché, sentendosi cresciute le sue forze, non si rivolga, stanco del giuoco, alle cose serie» (W1, §52, p. 316, tr. it. p. 386). È questo il motivo di fondo per cui si crea anche quel particolare corto-circuito ontologico, in virtù di cui l’idea, oggetto dell’arte e della conoscenza “pura” in quanto svincolata dal principio di ragione e dalla volontà, viene considerata dallo Schopenhauer come “oggettivazione della volontà”, rein-

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lontà e come rappresentazione di cui l’arte e il genio non sono che l’espressione più alta, ma non per questo meno terribile. L’ascesi del Mondo si conclude infat-ti con una rinuncia totale, negatrice di ogni tensione, in quanto portatrice di do-lore, unico vero errore che deve essere combattuto fino alla negazione irrecusa-bile di ogni determinazione: «pues el delito mayor per l’hombre es haber naci-do»18.

La presenza del genio schopenhaueriano nei primi scritti di Nietzsche Fu senza dubbio questa dimensione tragica della genialità schopenhaueriana

a suggerire al giovane Nietzsche i contenuti per i suoi primi scritti. La tensione insoluta della genialità tra essere ed esistenza costituisce il cardine attorno a cui ruota la riflessione nietzscheana dei primi anni, destinata poi ad evolversi in di-rezione della dottrina dell’oltreuomo e dell’eterno ritorno, rimanendo tuttavia immutata nella sua intenzione originaria.

Non è un caso che la prima riflessione nietzscheana si sia occupata di trage-dia, e questo, lo si vuole qui sottolineare, non solo per gli studi filologici del gio-vane di Röcken, quanto piuttosto per via dell’ispirazione schopenhaueriana ri-cevuta con la lettura del Mondo. La questione che si poneva in maniera impel-lente al Nietzsche de La nascita della tragedia, confermata tra l’altro anche da-gli altri scritti coevi che ne costituiscono la preparazione e il corollario, è quella della relazione tra la dimensione noumenica e allo stesso tempo fenomenica dell’arte, in virtù di cui il “gioco” artistico assume un significato metafisico costi-tutivo per la conciliazione di essere ed esistenza: «Apollo non poteva vivere sen-za Dioniso! Il titanico e il barbarico erano alla fine una necessità, così come lo era l’apollineo»19, e questo fondamentalmente perché «l’apollineo della masche-ra», ovvero l’eroe tragico, sono un qualcosa di necessario per sollevare «uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie lu-minose per sanare l’occhio offeso dall’orrenda notte»20.

                                                                                                                         troducendo un elemento su cui l’idea stessa spiccava, prendendone le distanze. Per un’analisi più approfondita della questione cfr. E. Mirri, Saggio introduttivo a A. Schopenhauer La dottri-na dell’idea. Dai frammenti giovanili a Il mondo come volontà e rappresentazione, Armando, Roma, 1999, pp. 26-30. 18 P. Calderòn de la Barca, La vida es sueño, atto I, scena I; W1, §51, p. 300, tr. it. p. 368. 19 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in Sämtliche Werke, hrsg. von G. Colli e M. Montinari, De Gruyter, Berlin-New York, 1980, (d’ora in poi SW) Bd. 1, p. 40; tr. it. La nascita della trage-dia, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano, 1995, p. 37, d’ora in poi abbreviata con GT. 20 GT, p. 65, tr. it. p. 64.

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Il genio greco che si rappresenta nella tragedia attica si nutre non tanto di un conflitto tra apollineo e dionisiaco, quanto piuttosto dell’idea fondamentale di una harmonia praestabilita in virtù di cui è possibile per Nietzsche affermare che «solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giu-stificati»21. Questa affermazione è capitale per la comprensione del testo, come Nietzsche stesso ricorda nel Tentativo di autocritica aggiunto come introduzio-ne al testo diversi anni più tardi22. In essa si condensa l’eredità schopenhaueria-na ricevuta da Nietzsche e da lui stesso problematizzata nel senso di una metafi-sica estetica rivolta all’eternamento del tutto, “al di là del bene e del male”. Ciò da cui Schopenhauer aveva distolto lo sguardo, ritenendosi ingannato da un’arte capace di trasfigurare il mondo nella sua interezza con tutto il suo dolore e con tutta la sua determinatezza solo in “attimi rari” di eternità, diviene così, il centro dell’indagine nietzscheana. In questo l’asceta di Sils-Maria riuscì senza dubbio ad onorare la tensione problematica ricevuta dal suo maestro, cogliendo il vero nucleo speculativo del pensatore di Danzica, al di là delle discrepanze che la let-tera dei testi nietzscheani ci ha lasciato in eredità. La figura di Schopenhauer ha rappresentato per Nietzsche non tanto un “oggetto di studio”, quanto piuttosto un exemplum il cui tradimento, infine, non è stato altro che il supremo atto di fedeltà al proprio “educatore”.

La figura di Schopenhauer ha incarnato per Nietzsche, in particolare nei pri-mi anni della sua produzione, quella figura del genio che egli stesso desiderava diventare. Schopenhauer è stato per Nietzsche quella figura in grado di porsi con uno sguardo puro ed essenziale sulla questione fondamentale della dialetti-ca di essere ed esistenza, che si distendeva come dimensione fondamentale per l’autenticità della coscienza. È senza dubbio nella terza delle Considerazioni inattuali che il pensiero dello Schopenhauer si manifesta palesemente come punto di riferimento, non tanto per la dottrina del volontarismo – quasi per niente richiamata in quest’opera e da Nietzsche messa assolutamente in non ca-le – quanto piuttosto per il senso profondo del valore filosofico della figura schopenhaueriana nel suo anelito verso la verità23.

                                                                                                                         21 GT, p. 47, tr. it. p. 45. 22 «Nel libro poi ritorna più volte l’allusiva frase che solo come fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata. E in effetti tutto il libro, dietro a ogni accadere, vede soltanto un senso e un senso recondito d’artista […]. Il mondo è in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio» (GT, p. 17, tr. it. p. 9). 23 Che fosse questo uno dei temi fondamentali della prima riflessione nietzscheana lo testimo-niano scritti come Ueber das Pathos der Wahrheit (Sul pathos della verità) e Ueber Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (Su verità e menzogna in senso extramorale), entrambi in SW, Bd. 1, pp. 756-760 e pp. 875-890; tr. it. in La filosofia nell’epoca tragica dei greci, a cura

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Si coglie subito con estrema chiarezza quale sia il significato dello Schopen-hauer come educatore: non tanto quello di mettere in evidenza delle dottrine proposte nel “detto” del filosofo di Danzica, quanto piuttosto di evidenziare il carattere “vitale” della sua filosofia, di una vita votata genialmente verso il suo eternamento. Il debito nietzscheano nei confronti del suo maestro si colloca così in un dialogo rivolto verso l’eternità come elemento fondamentale del pensare in cui ritrovare la propria più autentica essenza, recuperata oltre i velami del tempo e della morte24.

Dice Nietzsche a questo proposito, interrogandosi proprio circa l’esigenza di una riscoperta di sé, oltre i limiti di quella dimensione umana deprimente ed opprimente: «come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l’uomo riconoscer-si? Egli è una cosa oscura e velata»25 e poco più avanti prosegue:

«la tua vera essenza non sta profondamente nascosta dentro di te, bensì immensamente so-

pra di te, o per lo meno di ciò che tu abitualmente prendi per il tuo io. I tuoi veri educatori e pla-smatori ti rivelano qual è il senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualche cosa di assolutamente ineducabile e implasmabile, ma in ogni caso difficilmente accessibile, im-pacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient’altro che i tuoi liberatori»26.

Schopenhauer è per Nietzsche l’emblema di tutto questo: egli è il liberatore, il

colpo di martello che sbozza la forma essenziale e irripetibile che alberga nelle sue altezze, l’ispiratore di quell’eternità che costituisce il nucleo indistruttibile del sé al di là di ogni tempo e di ogni volontà determinata. In questo senso, tra i due si viene a creare un rapporto che va ben oltre il “detto” esplicito, in direzio-ne di una esperienza sofica fondamentale che si radica in un elemento che tra-scende le espressioni storiograficamente caratterizzanti sia l’uno che l’altro pen-satore27.

                                                                                                                         di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1992, pp. 83-89 e pp. 227-244. Il senso ultimo di questo scritti, che anticipano anche gli sviluppi della posizione di Nietzsche sul tema del rappor-to illusione-verità, sono incentrati sull’esigenza di una rivalutazione dell’illusione nella funzione veritativa che essa viene ad assumere in quella bella menzogna vitale che è l’arte. 24 Su questo sentiero ci conduce lo stesso Nietzsche quando in Ecce homo ricorda, a proposito dell’inattuale su Schopenahuer, di non aver voluto produrre un ritratto storico del maestro, quanto piuttosto il suo ideale di uomo sovrastorico. Cfr. F. Nietzsche, Ecce homo, in SW, Bd. 6, pp. 320-321; tr. it. Ecce homo, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano, 1996, pp. 78-79, d’ora in poi abbreviato con EH. 25 F. Nietzsche, Schopenhauer als Erzieher, in SW, Bd. 1, p. 340; tr. it. Schopenhauer come edu-catore, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano, 2000, p. 6. D’ora in poi abbreviato in SE. 26 SE, pp. 340-341, tr. it. p. 7. 27 Cade così innanzitutto la distinzione intorno al tema della volontà su cui sembrerebbero insi-stere i maggiori elementi di discriminazione tra l’uno e l’altro. Se infatti per lo Schopenhauer la

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Ciò che pone la base sensata per un genuino accostamento tra questi due pensatori, quindi, è l’anelito all’eternità che li caratterizza nella maniera più ra-dicale: il fatto cioè di abitare alte vette su cui, mentre ancora le valli sono am-mantate da nebbie e tenebre, già risplende chiara la luce del sole. Ecco quello che di specifico e di irripetibile hanno vissuto e sulla cui base hanno filosofato i due pensatori qui in questione: la loro non è una filosofia della volontà né tan-tomeno della volontà di potenza – la loro filosofia è e rimane un anelito alla ve-rità come esperienza intima dell’eternamento di sé.

Si tratta dell’eternità che, in altre parole, dissolve le nebbie della storia uma-na, troppo umana, in cui l’uomo stesso si avvolge, involvendosi nella vana illu-sione di evolversi. La tentazione di un pensiero storico, di un pensiero che attra-verso la finitezza si illude di elevarsi e di rendersi “migliore” di quanto non fosse stato prima, costituisce per entrambi i pensatori la massima tentazione da cui rifuggire. È quello che ha tentato di fare, secondo l’eremita di Francoforte, il “Calibano intellettuale”28, e cioè Hegel: cercare l’eternità a partire dal tempo, commistione “mostruosa” secondo lo Schopenhauer, di cui l’epiteto di ispirazio-ne shakespeariana attribuito al filosofo di Stoccarda è la più lampante testimo-nianza.

Alla luce di queste considerazioni, siamo quindi condotti ad affrontare la dia-lettica di tempo ed eternità come elemento di fondamentale continuità tra i due pensatori e che trova particolare sviluppo nella seconda delle quattro Inattuali. Nietzsche stesso, esattamente come Schopenhauer, critica la formazione storica del suo tempo come incapace di produrre azione come movimento tensivo, cammino verso il senso, ovvero verso l’eternità: «chi non sa mettersi a sedere

                                                                                                                         volontà è un principio ontologico negativo da superare nella ascesi finale della noluntas, per Nietzsche al contrario la volontà sarebbe un principio “positivo” teso, nella forma della “volontà di potenza”, ad oltrepassare il “pessimismo” schopenhaueriano. Ma non è così in realtà. Quello che maggiormente attrae i due pensatori l’uno verso l’altro non è un pensiero della volontà che nell’uno quanto l’altro risulta essere carico di contraddizioni nel tentativo impossibile di creare un “sistema”, le cui condizioni “scientifiche” sono ormai state messe ampiamente in discussione. Su questa continuità tra le posizioni di Schopenhauer e di Nietzsche, al di là dei contrasto sto-riograficamente rilevabili hanno insistito particolarmente T. Moretti-Costanzi (Sul prologo di Zarathustra (Nietzsche-Schopenhauer), in Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano, 2009, pp. 2705-2716; Ancora sul prologo di Zarathustra: Nietzsche e Schopenhauer, in ivi, pp. 2717-2744) ed E. Mirri (La metafisica nel Nietzsche, Alfa, Bologna, 1961, Considerazioni sulla figura del superuomo, in P. Ciaravolo (a cura di), Nietzsche-Stirner, B. M. Italiana, Roma, 1985, pp. 15-34, adesso in Id., Pensare il Medesimo, cit., pp. 319-335; Storia ed eternità nel Nie-tzsche, in L. Rossetti-O. Bellini (a cura di), Tempo e storia, ESI, Napoli, 1984, adesso in Id., Pen-sare il Medesimo, cit., pp. 337-366) alle cui tesi ampiamente mi rifaccio ampiamente in questo saggio. 28 W1, p. XX, tr. it. p. 17.

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sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che ren-da felici gli altri»29 – con queste significative parole inizia la seconda inattuale sul senso della storia per la vita.

Tutto il movimento di quest’opera ruota attorno ad un concetto fondamenta-le, e cioè che al di là dei differenti modi che l’uomo ha di portare il “basto” della memoria storica (storia monumentale, critica e antiquaria) ciò che conta effetti-vamente è la capacità dell’uomo, nel numero di rarissimi esemplari, di elevarsi alla dimensione ulteriore del “sovrastorico”, unica prospettiva significativa che trascende la storia nella misura in cui la fonda e la fa essere: «ciò che non è sto-rico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà»30 e poco più avanti prosegue: «ciò che non è stori-co assomiglia ad una atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi per sparire di nuovo con la distruzione di questa atmosfera»31.

Per Nietzsche è necessario che il campo della memoria storica, del tempo in cui la finitezza si muove e si perpetua infinitamente come una ruota che sempre gira su se stessa, sia di per se stesso permeato e contenuto da una «atmosfera non storica, in cui ogni grande evento è sorto»32. In altre parole, non è possibile per Nietzsche pensare la storia se non a partire da ciò che non è storia, perché solo ciò che non è storia e non è tempo è la condizione affinché la storia “acca-da”, cioè sia efficace come “evento”. Non c’è vera azione storica, se non nella mi-sura in cui essa non sia rivolta alla mera prosecuzione della “storia” medesima, nella sua banale quotidianità, bensì sia aperta verso un senso che la oltrepassi in maniera radicale. Sempre per riprendere il tema del debito di Nietzsche nei con-fronti di Schopenhauer, senza il riferimento e l’anelito della storia all’eternità ci si troverebbe a rivivere sempre la medesima vicenda come “nei drammi del Goz-zi” in cui nulla cambia veramente e per cui le maschere rimangono sempre le stesse, per cui «Pantalone non è tuttavia più abile e più generoso di prima, Tar-taglia non ha uno iota in più di coscienza, Brighella non è divenuto più coraggio-so, e Colombina non ha acquistato più moralità»33.

                                                                                                                         29 F. Nietzsche, Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, in SW, Bd. 1, p. 250, tr. it. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano, 1996, p. 8, d’ora in poi abbreviato in NNH. 30 NNH, p. 252, tr. it. p. 10. 31 NNH, p. 252, tr. it. pp. 10-11. 32 NNH, p. 254, tr. it. p. 12. 33 W1, §35, pp. 215-216, tr. it. p. 270.

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Proprio per questo Nietzsche nella seconda Inattuale si sente in grado di pronunciare un “No!” forte e deciso che è il «‘no’ dell’uomo sovrastorico, il quale non vede la salvezza nel processo, e per il quale al contrario in ogni momento il mondo è completo e tocca il suo termine»34. L’uomo sovrastorico è colui che su-pera il divenire storico nella consapevolezza estrema che non esiste una forma di salvezza nel “processo”, in quanto essa è solo dispersione e vuota ripetizione di ciò che è sempre stato: «Il passato e il presente sono la stessa e identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono, come onnipresenza di tipi non transitori, una struttura immobile di valore immutato e di significato eternamente uguale»35.

La sostanza di cui è intessuta la storia è quindi sempre la medesima e con tut-ti i suoi Cesari e Napoleoni non fa altro che ripetere la stessa tragica farsa, uno spettacolo che sempre si rinnova alla stessa maniera36. Quindi anche quando si volesse perseguire l’idea di una educazione che avesse come sua base una forma di sapere storico non si dovrebbe dimenticare, secondo il pensatore di Röcken, che «la storia, in quanto sia al servizio della vita, è al servizio di una forza non storica, e perciò non potrà né dovrà diventare mai, in questa subordinazione, pura scienza. […] Perché con un certo eccesso di storia la vita si frantuma e si degenera, e alla fine a sua volta, a causa di questa degenerazione, va perduta a storia stessa»37.

Non è un caso, quindi, che proprio sul finale della seconda inattuale Nie-tzsche ritorni conclusivamente sull’elemento del “sovrastorico” come termine ultimo della sua trattazione. Il sovrastorico viene ripreso come un farmaco ri-spetto al pericolo della malattia a cui può condurre la considerazione della storia come mera scienza: «l’eccesso di storia ha intaccato la forza plastica della vita, essa non è più capace di servirsi del passato come di un robusto nutrimento»38. Proprio per questo sono necessari dei rimedi duri che Nietzsche individua nelle potenze dell’“antistorico” e del “sovrastorico” come elementi propulsori che pos-sano dare nuova linfa ad una cultura che torni a nutrirsi del suo autentico ali-

                                                                                                                         34 NNH, p. 255, tr. it. p. 14. 35 NNH, p. 256, tr. it. p. 14. 36 Anche quando Nietzsche discuterà nelle pagine successive della seconda inattuale dei tre ge-neri di storia “monumentale”, “critica” e “antiquaria”, ciò accadrà sempre sotto lo sguardo ironi-co di chi ha già avuto accesso alla possibilità più alta del sovrastorico come prospettiva ultima e radicale dal cui punto di vista poter guardare la vicenda storica. Si veda a questo proposito in particolare ciò che Nietzsche stesso scrive quando introduce la trattazione dei tre diversi generi storici in NNH, pp. 256-257, tr. it. p. 15. 37 NNH, p. 257, tr. it. p. 16. 38 NNH, p. 329, tr. it. p. 94.

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mento: l’eternità, appannaggio del genio e del santo (come voleva Schopen-hauer) – gli unici in grado di elevarsi a questa superiore sapienza per collocarsi in una prospettiva di autentico potenziamento della coscienza: «con il termine ‘l’antistorico’ designo la forza e l’arte di poter dimenticare e di richiudersi in un orizzonte limitato; ‘sovrastoriche’ chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione»39. L’elevazione al di sopra della storia, quindi, fa tutt’uno con la determinazione di una singolarità irripetibile e rara. Essere un genio, un santo, significa essere in lotta contro il proprio tempo, per gettare uno sguardo oltre i limiti del proprio orizzonte temporale in direzione dell’eternità. Ogni lotta ha bisogno di un grande scopo, di un “grande anelito” che ne costituisca il fine immanente, altrimenti essa si smarrirebbe in un violen-to ciarlare che non conduce a nulla.

È solo a partire da queste considerazioni che lo Über dello Übermensch trae senso e significato. È soltanto infatti dall’anelito all’eternità che è possibile l’oltrepassamento necessario affinché la circolarità del tempo che sempre ritor-na uguale su se stesso possa mostrare quell’eccesso che l’oltre-uomo sta a testi-moniare. In altre parole, questi scritti nietzscheani di chiara ispirazione schope-nhaueriana, stanno a testimoniare come la ricezione di Schopenhauer da parte di Nietzsche non fu affatto fondata sui temi dominanti e più evidenti del filosofo tedesco, andando piuttosto a cogliere il vero nucleo portante della dottrina del genio: ovvero la possibilità di un eternamento di sé e del mondo che fosse in grado di riscattare il finito da quello stato di deprimente determinatezza, per elevarlo ad uno statuto ontologico ulteriore. Elemento, questo, decisamente pre-sente nella dottrina nietzscheana dello Übermensch e dell’eterno ritorno che, sebbene negato nella lettera dallo Schopenhauer, è tuttavia presente occulta-mente anche nel filosofo di Danzica, e in particolare negli scritti che precedono la stesura del Mondo. Proprio in questo senso, quindi, si procederà ora ad un confronto “antistorico” tra la dottrina del genio negli scritti giovanili dello Scho-penhauer e quella dello Übermensch nietzscheano, al fine di cogliere ancora meglio la continuità di fondo che ha animato il percorso filosofico dei due auto-ri.

                                                                                                                         39 NNH, p. 330, tr. it. p. 95.

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La passione per l’eterno: la figura del genio negli scritti giovanili di Schope-nhauer e lo Übermensch nietzscheano

In un aforisma giovanile dal sapore decisamente tragico lo Schopenhauer scrive:

«Non posso che ridere quando vedo che questi cosiddetti uomini pretendono con fiducia e

ostinazione una continuazione per tutta l’eternità, della loro miserevole individualità: e manife-stamente non sono altro che pietre avvolte in fasce per farle passare da neonati; con piacere si vede Cronos divorarle mentre, messo al riparo da lui, solo il vero, immortale Zeus si fa uomo per conquistare l’eterna signoria»40.

Il passo, estremamente significativo, esplica la condizione di tragico privile-

gio in cui si trova il genio dinanzi all’eternità: egli è come lo Zeus del mito, che sopravvive al tempo divoratore per guadagnarsi l’“eterna signoria”. Se infatti l’uomo comune non cerca altro che la propria continuazione nel tempo che tutto divora e da cui finirà per essere egli stesso divorato secondo un destino tragica-mente inevitabile, al contrario il genio spezza le catene che lo vincolano al finito per elevarsi ad una condizione non temporale ed eterna.

Si tratta di quel “livello di coscienza” che negli scritti giovanili viene definito dallo Schopenhauer “migliore coscienza”, ovvero quello status raggiunto dal ge-nio e dal santo in cui si abbandona l’errore di un’esistenza dedicata esclusiva-mente alla propria sopravvivenza nel tempo, per volgersi all’eternità come grado positivo di realizzazione di sé al di là di ogni soggettivismo trascendentale41. Nel-la “migliore coscienza” si compie secondo lo Schopenhauer il superamento della “coscienza empirica”, intesa come tensione infinita della volontà alla prosecu-zione dell’esistenza temporale. Quello che è infatti possibile cogliere in questi aforismi giovanili raccolti dallo Hübscher è proprio questa definizione della plu-rilivellità della coscienza in cui ancora non si è creata quella ipostatizzazione della volontà che tanti problemi creerà allo Schopenhauer maturo. In questo                                                                                                                          40 HN1, fr. 602, p. 405, tr. it. p. 545. 41 Afferma significativamente lo Schopenhauer sempre nei suoi scritti giovanili: «Tutta la nostra peccaminosità non è altro che l’errore fondamentale di voler commisurare l’eternità al tempo, è soltanto, per così dire un continuo tentativo di quadratura del cerchio. Mira unicamente, infatti, a prolungare l’esistenza temporale, in parte nell’individuo (brama, cupidigia, inimicizia), in par-te nella specie (impulso sessuale). Vita è volere e volere incessantemente l’esistenza temporale. L’assurdità di ciò sta nel fatto che non notiamo che questa esistenza temporale una volta ottenu-ta dilegua di nuovo, che è di natura fuggevole, senza consistenza, un’ombra inafferrabile, un filo senza spessore, senza consistenza, una linea matematica che non acquista spessore neanche con una lunghezza infinita. Questo non lo notiamo e non siamo mai stanchi di riempire lo staccio delle Danaidi, di essere simili al cane nella ruota che fa girare lo spiedo» (HN1, fr. 143, pp. 84-85, tr. it. p. 112).

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senso la volontà è infatti relegata alla dimensione temporale e finita della “co-scienza empirica”, senza che essa abbia alcun carattere noumenico specifico. Tempo e volontà fanno quindi chiaramente un tutt’uno, liberando così in ma-niera più chiara l’esperienza d’eternità propria della “migliore coscienza” che si incarna in tutte quelle figure che hanno dato espressione a questo anelito di ol-trepassamento del finito in direzione di ciò che si eleva e spicca sulle macerie dell’umano mortale. È in questo senso che viene a costituirsi una vera e propria “differenza ontologica” tra questi due livelli di coscienza:

«Dimenticando se stesso nella contemplazione, sapendo solo che qui vi è qualcuno che con-

templa, ma non chi è, ossia sapendo di sé solo quanto sa degli oggetti, uno si innalza a puro sog-getto del conoscere e non è più un (sempre limitato, particolare) soggetto del volere. Nulla sa-pendo inoltre del punto del tempo in cui ora sia lui sia l’oggetto si trovano in comunanza, innal-za l’oggetto a idea platonica. Viene così liberato dall’ultima e più tenace configurazione del prin-cipio di ragion sufficiente (il tempo)»42.

Qui in particolare viene rimarcato con forza il punto essenziale nella differen-

za tra “migliore coscienza” e “coscienza empirica”, e cioè il fatto che lo scarto tra i due è dato propriamente da un abbandono della dimensione temporale e voli-tiva della soggettività finita, in direzione di un’eternità che costituisce il vertice più alto della contemplazione: «Il ricco d’ingegno, il geniale, è più l’eterno sog-getto del conoscere che il soggetto finito della volontà: il suo conoscere non vie-ne riempito e catturato del tutto dalla sua volontà, ma la supera; egli è “figlio della donna libera, l’altro della serva”»43.

È quindi nella propria capacità di eternamento che il genio scopre quella “pu-rezza” che costituisce lo stemma della “migliore coscienza”. Questa infatti non trae il senso della propria eccellenza da una sorta di comparazione rispetto alla dimensione dell’empirico, quanto piuttosto da un vero e proprio distacco dovuto all’oltrepassamento compiuto in direzione del suo contenuto essenziale. Non è un caso che l’espressione schopenhaueriana suoni come “migliore coscienza” e non come “coscienza migliore”, indicando così nel valore non comparativo ma superlativo del termine “migliore” la dimensione di una differenza qualitativa che non ammette relativizzazioni. La differenza in questo senso è data dall’esperienza stessa dell’eternità come punto di riferimento e polo di attrazio-ne dinanzi a cui l’insoddisfazione della temporalità che tutto trascina con sé non

                                                                                                                         42 HN1, fr. 221, p. 128, tr. it. pp. 168-169. 43 HN1, fr. 342, p. 212, tr. it. pp. 382-383.

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può non condurre l’individuo dotato della capacità di discernere44. Questa quali-tà che risuona nella dimensione dell’eternità cui accede la migliore coscienza trova il suo riscontro nel bello e nel sublime come testimonianze del livello ulte-riore cui la coscienza giunge, elevandosi: «Il bello è una specie del sublime, o meglio il sublime è una specie del bello, cioè l’estremo del bello in cui si esprime, nel modo più immediato, anzi, quasi palpabile la negazione teoretica del mondo temporale e l’affermazione di quello eterno, che è senz’altro l’essenza di ogni bellezza (così come la negazione e l’affermazione pratiche di quei due mondi so-no ascetismo e virtù)»45. Si mostra qui la possibilità di un recupero qualitativo del mondo oltre i limiti della finitezza nella luce della coscienza eternata oltre i limiti della propria determinatezza. Qui infatti si parla di una negazione del mondo temporale che mostra la via d’accesso al mondo eterno che si manifesta proprio nella bellezza dell’arte. Questa infatti, nel mostrare la dimensione eterna della cose, ne manifesta l’intrinseca bellezza, aprendo una prospettiva ulteriore in virtù di cui tanto il cosciente che il mondo stesso sono elevato sulla triste vi-cenda del finito.

L’elevazione di cui il genio, la migliore coscienza, si rende protagonista, in questi primi aforismi dello Schopenhauer, sta quindi a testimoniare della possi-bilità di una ascesi non meramente negativa, quanto piuttosto aperta alla possi-bilità di un recupero qualitativo del determinato nella luce dell’idea. Questo aspetto ascetico di elevazione di cui il genio, e più specificamente in questo caso il genio filosofico, si fa portatore emerge in particolare in un aforisma che allo stesso tempo ci mostra una via d’accesso al senso dell’oltre-umanità nietzschea-na:

«La filosofia – dice a tale proposito Schopenhauer – è un’alta strada alpina a essa conduce

solo un ripido sentiero su pietre appuntite e rovi pungenti; è un sentiero solitario e diventa sem-pre più deserto quanto più si sale, e chi lo percorre non deve conoscere spavento, ma deve la-sciarsi tutto alle spalle e aprirsi da sé la via nella fredda neve. Spesso costui si trova, all’improvviso, sopra l’abisso e vede di sotto la valle verdeggiante; laggiù lo attrae con forza la

                                                                                                                         44 «Gli uomini geniali – afferma a tale proposito Schopenhauer – li si è sempre trovati impetuosi e passionali. In origine questo dipende dal fatto che solo una volontà possente ha nello stesso tempo una misura inconsueta di forza cognitiva: ma ciò è condizione anche della creazione ge-niale: questo volere possente non può che soffrire, ben presto, di una carenza di appagamento, e allora la coscienza si distoglie dalla propria volontà per rivolgersi al mondo. L’uomo comune, quando fallisce in 100 desideri, formulerà il 101°, instancabile nello sperare e appagabile in mille modi. La volontà impetuosa, possente, che sempre accompagna il genio lo spinge a quella sepa-razione dal mondo che non può che precederne la contemplazione senza interesse» (HN1, fr. 636, p. 433, tr. it. p. 584). 45 HN1, fr. 86, pp. 45-46, tr. it. pp. 60-61.

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vertigine; ma deve star fermo e col proprio sangue attaccare le scarpe alla roccia. Ben presto ve-de il mondo sotto di sé, i suoi deserti e le sue paludi, scomparire sotto di sé; i dislivelli di altitu-dine si pareggiano, le dissonanze non arrivano fin lassù, la sua rotondità si fa manifesta. Lui è sempre nella pura, fresca aria alpina e vede già il sole quando sotto è ancora notte fonda»46.

In questo aforisma risuona tutta la freschezza di un pensiero che non è altro

che elevazione sulla finitezza del mondo. Tuttavia, non si tratta di procedere ad una negazione radicale. Se infatti nell’elevazione il mondo “scompare” con le sue paludi e le sue irregolarità, è possibile tuttavia coglierne, dall’alto del monte, la “rotondità”, ovvero la sua perfezione che è anche la sua benedizione, oltre le fe-rite della negatività che nell’oscurità delle valli ancora albergano. Non è forse questo un pensiero colto su quei «6000 piedi al di sopra del mare e molto oltre tutte le cose umane»47 di cui anche Nietzsche parlerà, ispirato dalle altezze del Pitz Bernina nella patria adottiva di Sils-Maria?

L’esperienza sofica basilare che accomuna i due pensatori si trova in una esi-genza di potente elevazione oltre i limiti della finitezza in uno sguardo nell’essere che sia in grado di perimetrare lo spazio necessario all’avvento dell’eternità. Questa è e rimane il chiodo fisso di entrambi i pensatori tedeschi: esperienza esaltata nel genio artistico nel terzo libro del Mondo e poi ripresa ri-petutamente da Nietzsche fino al canto del Sì e amen dello Zarathustra, in cui per ben sette volte si invoca l’amore per l’eternità, come la sposa attesa al di là del dolore del tempo, come sua più alta benedizione. In Nietzsche, non a caso, il tempo è “tondo” (come il mondo di Schopenhauer nell’aforisma succitato) per-ché si raccoglie nell’eterno che ne è la condizione di possibilità; perché ne costi-tuisce il luogo di contemplazione e benedizione, senza il quale non potrebbe es-serci alcunché di vero e di reale, ma tutto svanirebbe come una nebbia inconsi-stente e priva di senso. Zarathustra stesso comincia il suo percorso di predica-zione dopo di anni di ascesi montana per poi farvi ritorno in attesa che l’ “uomo superiore” accolga l’annuncio dell’oltre-uomo. Lo Übermensch nietzscheano na-sce di fatto proprio da questa esperienza di elevazione-liberazione dello spirito che perviene al suo apice, al punto da “traboccare” e da desiderare di “portare agli uomini un dono”.                                                                                                                          46 HN1, fr. 20, p. 14, tr. it. p. 19 (leggermente modificata). Questo aspetto, lo si è visto, ritornerà anche nei Supplementi al Mondo. Si ricordi a tale proposito il già citato paragone che Schopen-hauer fa tra il genio e la vetta del Monte Bianco, senza dubbio frutto delle sue esperienze alpine (non a caso il frammento, nell’edizione tedesca porta il seguente titolo: “Gedanken auf der Rei-se”). 47 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1880-1882, in SW, Bd. 9, 11 [141], Frühjahr-Herbst 1881, p. 494, tr. it. Frammenti postumi, 11 [141], primavera-autunno 1881, in Opere, vol. V, to-mo 2, a cura di F. Masini e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1991, p. 380.

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D’altronde non si possono dimenticare le parole che Nietzsche adopera per descrivere il “tipo di Zarathustra” nella sua autobiografia intellettuale: in esso si condensa tutto il potenziale della “grande salute”48 come punto di partenza e di arrivo per chiunque avesse intenzione di comprendere e di pareggiarsi intima-mente con lo spirito dei grandi fondatori, saggi, santi, poeti, profeti e legislatori che in ogni tempo hanno reso alla verità il suo orizzonte essenziale. Si tratta se-condo Nietzsche di essere pericolosamente sani, di praticare cioè quello stile di vita per cui non esiste negatività abbastanza potente da sopprimere la fonda-mentalità dello spirito che si slancia in sempre nuovi oltrepassamenti49.

Da questo punto di vista tutto lo Zarathustra è un inno alla sanità e alla gaiezza dello spirito in cui si condensano e da cui si sprigionano significati che trascendono l’umana misura. Basti pensare a tale proposito in che termini Nie-tzsche sottolinea l’ispirazione alla base della scrittura del suo capolavoro: «C’è qualcuno che, alla fine del secolo XIX, abbia un concetto chiaro di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Altrimenti lo spiegherò io»50. Nel fa-re questa affermazione il pensatore tedesco si pone sulla linea di continuità con una tradizione millenaria appartenente ai poeti, ma anche ai mistici e più in ge-nerale a tutta quanta la sfera del sacro a cui la coscienza, anche nella negazione estrema, pur sempre fa riferimento come apice esperienziale. È curioso notare a tale proposito come Nietzsche, dopo aver criticato aspramente la tradizione mi-stico-ascetica in quanto fonte di uno spirito di negazione che perviene solo al ni-chilismo, richiami in gioco quei termini tanto cari a quella stessa tradizione sa-pienziale in cui la verità che trascende si invia all’uomo, elevandolo:

«noi siamo soltanto incarnazione, soltanto strumento sonoro, soltanto medium di poteri che

ci sovrastano. Il concetto di rivelazione, nel senso di qualche cosa che, subitaneamente, con in-dicibile sicurezza e sottigliezza, si fa visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e ci sconvolge nel più profondo, è una semplice descrizione dell’evidenza di fatto. Si ode, non si ricerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni nella forma – io non ho mai avuto scelta»51 .                                                                                                                          48 EH, p. 337, tr. it. p. 96. 49 Si tratta per Nietzsche dell’«ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malgrado, e per esuberanza pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto a oggi fu detto sacro, buono, intangibi-le, divino; uno spirito per il quale il termine supremo, in cui il popolo ragionevolmente ripone la sua misura di valore, significherebbe già qualcosa come pericolo, decadenza, abiezione, o per lo meno diversivo, cecità, effimero oblio di sé; l’ideale di un umano-sovrumano benessere e benvo-lere» (EH, p. 338, tr. it. p. 98). 50 EH, p. 339, tr. it. p. 98. 51 EH, p. 339, tr. it. p. 99. Si può cogliere a tale proposito un ulteriore momento di continuità con Schopenhauer per quel che riguarda questa dimensione di “abbandono” sapiente che si rifà sen-za dubbio all’antica dimensione della Gelassenheit proposta nella mistica eckhartiana e poi suc-

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Il “tipo” di Zarathustra è venuto a Nietzsche come una “rivelazione” a «6000

piedi al di là dell’uomo e del tempo»52, come lui stesso afferma, sottolineando la distanza che tutto questo ambito d’esperienza ha con l’ordinario e il quotidiano. La dimensione rivelativa infatti comporta una sottrazione di sé che però è con-temporaneamente una posizione di sé su un livello più autentico. Qui è l’essenziale che parla come quel “novum” inaudito che già da sempre tuttavia è presente e si es-pone alla coscienza che vuole mettersi in ascolto e lasciarsi tra-sportare in regioni insolite ed aeree da cui tutto splende in una luce nuova. È questa l’esperienza fondamentale da cui scaturisce la scrittura dello Zarathustra e di cui esso è simbolo, una dimensione in cui il volere si sottomette ad una re-gola più alta che lo informa e lo eleva. Ripetutamente, nella stessa pagina, il pensatore della “volontà di potenza” utilizza il termine “involontario” per de-scrivere l’ispirazione che l’ha condotto presso Zarathustra: «Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità… La involontarietà dell’immagine, del simbolo è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagi-ne, o simbolo, tutto si offre come l’espressione più vicina, più giusta, più sempli-ce»53.

Nietzsche, critico radicale della tradizione e distruttore par excellance, non ha potuto fare a meno di collocarsi in quell’orizzonte di rivelazione che costitui-sce il presupposto di ogni grande opera, e questo perché non si può dare gran-dezza senza averla in qualche modo ricevuta. Queste pagine di Ecce Homo stan-no a significare come una filosofia della potenza e del potenziamento incondi-zionato della coscienza, come è quella del filosofo di Röcken, non può stare sen-za un termine di riferimento che in qualche modo sia donato e concesso da “al-tro” come apice costitutivo della coscienza volta al suo continuo oltrepassamen-to. Il “passare oltre”, lo Überwinden tipico del pensiero nietzscheano, non può compiersi se l’anelito di colui che intende compierlo non è in qualche modo su-scitato dal suo termine essenziale di riferimento che ne costituisce allo stesso

                                                                                                                         cessivamente ripresa da Heidegger. Schopenhauer cita esplicitamente Eckhart negli ultimi pas-saggi del Mondo (W1, §68, p. 534, 542; poi anche in W2, 1539-40, 1542, 1566, 1574), ed è certa-mente questa dimensione di abbandono che si manifesta nella contemplazione artistica propria del genio (come si può vedere chiaramente nel già citato passo di W1 §34 [p. 210, tr. it. p. 264] in cui il verbo lassen viene utilizzato ripetutamente). Il nome del mistico turingio ricorre anche nelle opere nietzscheane (SE, p. 372, tr. it. p. 41; Die fröliche Wissenschaft, SW, Bd. 3, p. 533, tr. it. La gaia scienza, a cura di F. Masini, Adelphi, Milano, 1999, p. 210; d’ora in poi FW). 52 EH, p. 335, tr. it. p. 94. 53 EH, p. 339, tr. it. p. 99.

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tempo il principio e il fine ultimo. Questo termine di riferimento, in grado di sciogliere i lacci che avvincono la finitezza umana, in direzione di una ulteriorità da sempre presente, ma allo stesso tempo sempre di là dal lasciarsi afferrare compiutamente, è l’eternità stessa, cardine di ogni ascesi che voglia dirsi auten-ticamente tale.

Collocandomi in una scuola di pensiero che ha fatto dell’“ascesi di coscienza” il perno delle sue considerazioni, posso dire che Nietzsche si inserisce in questa prospettiva avendo fatto dell’eternamento del sé il supremo grado di realizza-zione della coscienzialità medesima, così come si figura nell’oltre dell’oltreuomo. Come si è cercato di mettere in evidenza nel corso di tutte queste considerazioni, infatti, non si dà autentico pensare se esso non si mette in rela-zione con ciò che lo oltrepassa. Tale oltrepassamento è possibile solo nella misu-ra in cui la coscienza, appassionata dall’eterno, abbandona il tempo per abban-donarsi all’eternità medesima. Questo duplice abbandono è alla base dell’esperienza sofica in cui si liberano i termini della contrapposizione per con-giungersi nella suprema figura della “porta carraia” indicata da Nietzsche ne La visione e l’enigma. L’“attimo” che ha luogo sulla sua soglia è il perno intorno a cui ruota la coscienzialità medesima, in grado di potenziarla al massimo delle sue possibilità. È l’eterno che entra nel tempo e lo trasfigura riempiendolo di lu-ce fino ai suoi più oscuri recessi, salvando e redimendo ogni “così fu” in un “così volli che fosse”.

Che cos’è infatti che permette a Zarathustra di rigettare le insidie del nano che gli siede sulle spalle, se non la consapevolezza dell’eternità in grado di ri-schiarare e di alleggerire il profeta dell’oltre-uomo dalla pesantezza del circolo che ritorna sempre uguale su se stesso?

«O Zarathustra, sussurrava beffardamente sillabando le parole, tu pietra filosofale! Hai sca-

gliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve – cadere! / O Zarathustra, pietra filoso-fale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! / Condannato a te stesso, alla lapidazione di te stesso: o Zara-thustra, è vero: tu scagliasti la pietra lontano, – ma essa ricadrà su di te!»54.

Il nano esprime il pericolo a cui è esposto Zarathustra, ovvero il pericolo55 di

ricadere drammaticamente su se stesso dopo aver tentato uno slancio prometei-                                                                                                                          54 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in SW, Bd. 4, p. 198, tr. it. Così parlò Zarathustra, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1996, p. 182. D’ora in poi abbreviato con Z. 55 Il pericolo più grande per Nietzsche era quello di ricadere in quella forma di ascetismo incom-piuto rappresentato dall’“uomo superiore”. Come si afferma già chiaramente dal discorso Delle tre metamorfosi con cui si apre lo Zarathustra il “leone” che uccide il “drago” del “tu devi” non è

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co verso una altezza che non si può raggiungere in quanto vuota, priva di scopo e di quella necessità intrinseca che la caratterizza e che ne costituisce il termine di riferimento intrinseco. Tutto è vuoto per il nano, e privo di senso, come il tempo che sempre ritorna su se stesso, sempre mestamente uguale pesante e greve come gli istanti che si susseguono alternando la noia al dolore56: «Tutte le cose diritte mentono. Borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tem-po stesso è un circolo»57. Ma non è questa la visione del circolo che permette a Zarathustra di sottrarsi alla pesantezza del nano, “spirito di gravità”. Il fatto è che il profeta dell’oltreuomo concepisce la circolarità del tempo su di un livello ulteriore che niente ha che vedere con il vuoto ripetersi della miseria umana sempre uguale a se stessa sotto ogni sole – come già recitava il “vanitas vanita-tum” dell’Ecclesiaste. Ciò che cambia radicalmente la visione di Zarathustra è l’attimo che interrompe la catena dell’uguale con l’inserimento dell’eterno nel tempo, in virtù di cui nel ritornare dell’uguale ritorna anche la “differenza” es-senziale dell’attimo che tutto eleva a sé trasfigurandolo. È questa la sfida che Za-rathustra propone al nano, è questo ciò che permette al pastore di mordere al testa del serpente nero che gli striscia nelle fauci e di rigettarla lontano, inerte, permettendogli di superare lo schifo per la vita e di tornare a benedire la circola-rità del tutto. È l’eternità che, liberando l’attimo, eleva con esso tutto il tempo ad un’altezza che è quella medesima dell’aquila di Zarathustra che vola col serpente inanellato attorno al collo: la terra elevata e trasfigurata nell’altezza del cielo:

                                                                                                                         ancora in grado di “creare valori nuovi” e per questo deve diventare “fanciullo” (cfr Z, pp. 30-31, tr. it. pp. 24-25). Lo spirito-leone, avvero l’uomo superiore si attesta su un livello puramente ne-gativo dell’ascesi, arrestandosi ad un contemptus mundi di cui Nietzsche stesso accuserà la stes-sa filosofia schopenahueriana nella sua espressione letterale. Cfr. a questo proposito anche Dell’uomo superiore nella quarta parte dello Zarathustra interamente dedicata alle figure di questo “livello coscienziale” incompiuto (Z, pp. 356-368, tr. it. pp. 333-344). 56 È questa, senza dubbio, la visione del tempo schopenhaueriana così come si esplica nel §54 del Mondo e che Nietzsche riprende denunciandone il limite e portandola a perfezione: “Il tempo si può paragonare a un cerchio che gira incessantemente; la metà sempre discendente sarebbe il passato; la metà sempre ascendente, l’avvenire. In alto c'è un punto indivisibile, il punto di con-tatto con la tangente: questo è il presente senza estensione. Come la tangente non è trascinata nella rotazione, altrettanto immobile resta il presente, punto di contatto dell’oggetto, la cui for-ma è il tempo, con il soggetto, il quale non ha nessuna forma, in quanto non rientra nell’ambito del conoscibile, ma è bensì condizione di ogni conoscenza” (W1, §54, p. 329, tr. it. pp. 399-400). Il limite che Nietzsche intravide in Schopenhauer è strettamente legato a questa visione del tempo. Il problema è la modalità in cui ci si pone dinanzi al ritornare di tutte le cose così come lo stesso Nietzsche afferma nell’aforisma 341 de La gaia scienza (FW, p. 570, tr. it. p. 248) in cui per la prima volta compare la dottrina dell’eterno ritorno: si tratta cioè di vedere se il circolo, in cui il tempo ritorna uguale a se stesso, è una condanna o una benedizione. Il criterio è quello dell’eternità. 57 Z, p. 200, tr. it. p. 184.

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«Ecco! Un’aquila volteggiava in larghi circoli per l’aria, ad essa era appeso un serpente, non

come una preda, ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo. ‘Sono i mie animali!’ dis-se Zarathustra e gioì di cuore. ‘L’animale più orgoglioso sotto il sole e l’animale più intelligente sotto il sole’ – erano in volo per esplorare il terreno»58.

Tutto questo, ovviamente, acquista senso nella misura in cui l’eternità diviene

termine di riferimento per una esperienza pienamente viva e non vuoto oggetto trasferito in una trascendenza stratosfericamente lontana e irraggiungibile cui aspirare, disperando. L’eternità annunciata da Zarathustra è la condizione dell’oltre-uomo. Essa richiede che la coscienza del tutto si ponga in una dimen-sione partecipativa e non alienante che richiede l’eterno come ancoraggio essen-ziale del proprio transito mondano. La coscienza o è coscienza “dell’eterno”, nel duplice senso soggettivo e oggettivo del genitivo, o essa è perduta nella misura in cui destinata a ricadere su se stessa come la figura nietzscheana dell’“uomo superiore” sta a testimoniare – esemplare di un’ascesi incompiuta in quanto in-capace di pareggiarsi al termine coessenziale del suo anelito.

L’“oltre”, di cui si sostanzia il potenziamento della coscienza nello Übermen-sch, è permeato da questa eternità capace di trasfigurare il tempo fino a muover-lo verso di sé con un amore che nessun “uomo” è in grado di ricambiare se non trasfigurandosi in esso.

«Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno? Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti

amo, Eternità! Perché ti amo, Eternità!»59 Per ben sette volte risuona questa esclamazione nel canto del Sì e amen dello

Zarathustra. L’amore per l’eternità costituisce il nucleo indistruttibile dell’esperienza filosofica tanto nietzscheana che schopenhaueriana. Quello che in effetti Schopenhauer cercò, anche nella negazione estrema della noluntas fu la possibilità di una trasfigurazione così come la dipinsero nei loro ritratti Raf-faello e il Correggio60, esattamente come la richiede Nietzsche nella descrizione                                                                                                                          58 Z, p. 27, tr. it. p. 18. 59 Z, p. 287, tr. it. p. 269. 60 «Allora vedremo la pace più preziosa di tutti i tesori della ragione, l’oceano di quiete, la pro-fonda calma dell’animo, l’imperturbabile sicurezza e serenità, il cui semplice riflesso sul volto, quale l’hanno dipinto Raffaello e il Correggio, è per noi la più completa e la più veridica rivela-zione della buona novella» (W1, §71, p. 486, tr. it. p. 575). Si vuole sottolineare, in conclusione che la determinazione che il nulla assume nei passaggi finali del mondo è sempre da intendersi

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del pastore con cui si conclude La visione e l’enigma: «Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo come lui rise! / Oh, fratelli, udii un riso che non era di uo-mo, – e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa»61. Qui il singolo, recuperato oltre i limiti della sua finitezza “umana troppo uma-na”, si ritrova in una luce che promana dall’eterno stesso, per poter infine esclamare ancora una volta con lo Zarathustra nietzscheano che «solo dove so-no sepolcri, sono anche risurrezioni»62.

                                                                                                                         come nihil privativum e non come nihil negativum. Quindi, in questo senso, la negazione della noluntas diviene apertura sull’ulteriorità, di cui tuttavia Schopenhauer rifiuta di dare una espli-cazione filosofica. Su questo punto cfr. W1, §71, p. 484, tr. it. p. 571, e W2, p. 703, tr. it. p. 1538. 61 Z, p. 202, tr. it. p. 186. 62 Z, p. 145, tr. it. p. 128.

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Ascesi della mente e recupero del mondo Marco Moschini

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Ascesi della mente e recupero del mondo nell’ontocoscienzialismo Marco Moschini

Ascesis of Mind and Recovery of the World in the “Ontoconscientialism” Abstract The question concerning the ascesis of consciousness, as developed in the philosophy of critical ontologism, underlines its modernity and theoretical effectiveness. In the definition of the “Being of Consciousness”, as proposed by Pantaleo Carabellese, and developed in the idea of “Ascesis of Consciousness”, introduced by Moretti-Costanzi, the fundamental necessity of the Principle arises as a basis to overcome an instrumental understanding of the mens typical of a logical, rationalist and empiricist approach. Keywords: Critical Ontologism, Mind, Ascesis, Person. ***

La riflessione filosofica contemporanea sui concetti di mente e persona ha dato e continua a dare una serie considerevole di meditazioni da orizzonti e sguardi di diversa tradizione e sensibilità teoretica. A ben vedere le letture offerte dal per-corso filosofico contemporaneo, in effetti segnano, se si vuole, una buona parte del percorso del pensiero odierno e non sfugge che, malgrado la rilevanza delle argomentazioni, la ricchezza dell’espressioni e la fecondità di prospettive che si potrebbero vagliare e discutere, non sempre le due questioni sono state affrontate insieme e in relazione.

Da queste pagine ho cercato di affrontare la tematica leggendo il legame men-te-persona attraverso una prospettiva speculativa del tutto particolare offrendo così un argomento ulteriore al dibattito. Mi collocherò per le mie considerazioni da un punto di vista teoretico che voglio desumere dalle posizioni dell'ontologi-smo critico, cioè dalla prospettiva di quella scuola che va dal Rosmini al Gioberti,

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dal Varisco al Carabellese fino al Moretti-Costanzi, che ne diede ad esso la forma di ontologismo critico-ascetico. Tale orientamento ha segnato buona parte del pensiero italiano del XIX e XX secolo e le sue tesi fondamentali mi sembrano “inattualmente” feconde.

Di questa corrente filosofica, che ha segnato il mio percorso di studio e di pen-siero, esporrò le argomentazioni basilari perché sono convinto che la riflessione che da esse se ne può trarre potrebbe dare direttrici originali molto nel generale quadro di risveglio dello studio ontologico1. L’ontologismo è fortemente ancorato a radici speculative di una metafisica non logico-razionalistica, dando un contri-buto essenziale alla precisazione in senso autenticamente metafisico e teologico al tema della mente e in particolare dell'esercizio della filosofia come potenzia-mento della medesima facoltà mentale2.

Il temine “ontologismo” come si sa è di origine giobertiana; con esso si intende una visione particolare della filosofia e dell’attività del pensiero che, sorgendo in seno e contro la prospettiva razionalista della modernità, ha inteso rileggere la “critica” in senso ontologico. Le proposte speculative dell’ontologismo si snodano dal suo tema centrale e cioè che la sovrabbondanza, inesauribilità ed eccedenza del principio, ossia dell’essere, si impongono al pensare e non cancellano la cor-relazione stretta tra essere ed esistenza, tra essere ed enti, tra principio e princi-piato. E con il termine “ontologismo” siamo introdotti – si permetta questa sem-plificazione - entro una visione filosofica che sottolinea con decisione che la natu-ra e la forma del pensiero è quella di riconoscere nella dinamica di essere ed esi-stenza l’esplicazione dell’essere stesso che appare come totalità, pienezza ed ec-cedenza nella forma del tempo.

Non è poi ignoto come l'ontocoscienzialismo abbia da sempre anelato, in ogni sua singola voce sopra richiamata, ad un preciso programma di recupero del mondo e della persona secondo un programma di distanziamento dal modo del razionalismo metafisico, o di certa epistemologia che si è limitata a concepire il singolo come un mero soggetto neutrale ed anonimo; in questo percorso di di-stinzione ed allontanamento dalla metafisica tradizionale l'ontologismo ha finito per approdare ad un'immagine della filosofia profondamente opposta a quella che rappresenta l'attività del pensare come applicazione di meri meccanismi ra-zionalistici, di intellettualismi, svalutando spesso la volontà, il sentimento e i sen-si, per volgersi a volontarismi egotici, a sensismi, emozionalismi, tutte fondate su

                                                                                                                         1 G. Motta, Ontologismo critico-ascetico e pensiero tedesco, in Introduzione al all’ontologismo critico-ascetico, a cura di S. Buscaroli, Paideia, Brescia, 1979. pp. 209-315. 2 S. Buscaroli, L’ontologismo critico-ascetico nelle sue tesi principali, in Introduzione all'ontolo-gismo critico-ascetico, a cura di S. Buscaroli, Paideia, Brescia, 1979.

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visioni sbiadite del soggetto ridotto spesso a forma di una soggettività fredda-mente neutrale.

Una filosofia quella dell’ontologismo critico che si riappropria, oltre il sogget-to, dell'oggetto di verità; un riacquisto di senso che trova il suo culmine nella sco-perta attuatasi nel cuore della scuola carabellesiana, ed oltre essa, nella dottrina morettiana dei livelli triformi della coscienza3. Livelli mentali che dal grado della sensibilità si elevano progressivamente - cioè asceticamente - oltre di essa e oltre il logico sino al riconoscimento sapiente del fondamento ontologico e teologico di tutto il reale: dalla sensibilità, alla razionalità, all’intelligenza; a questa diversità di grado corrisponde la diversità dell’oggetto. Un percorso questo dell’ontologismo critico che ha la sua attualità nel consentire un confronto deciso e diretto con quella dimensione amplissima aperta dal dibattito sull’ontologia specie a livello "continentale"; un dibattito che appunto si confronta su un ritorno di interesse per il contenuto della mente, della coscienza, in riferimento all'esse-re.

L’affermazione centrale dell’“ontologismo” intende dirci che la dinamica del pensare si costituisce in maniera autentica e diretta con il riconoscimento, con l'esplicazione dell'essere come principio; è dall’essere che giunge la possibilità co-scienziale di esprimere con pienezza la verità insieme del reale e dell’essere stes-so; è una conseguenza dunque che venga ad affermarsi la centralità del tema dell'essere come ciò che determina in modo chiaro la natura e l'attività del pensa-re in quanto esercizio di una potenza della mente capace di uscire dai suoi pre-supposti meramente gnoseologici per aprirsi al contempo al riconoscimento, af-fermazione e comunicazione del suo caposaldo. In questo senso la coscienza della fondamentalità dell’essere nel pensiero ontologistico in qualche modo apriva ad una severa critica del sistema riduzionistico dello gnoseologismo. E quindi l'onto-logismo, proprio perché in tensione del vero e in funzione ulteriore a quella dello gnoseologismo si caratterizzava anche come un ontologia critica4.                                                                                                                          3 Dottrina schiettamente certamente elaborata dal Moretti-Costanzi ma su basi storiografiche molto significative. Non ultimo un confronto con lo spinozismo e lo schopenhauerismo. Per uno sviluppo della triformità della coscienza nei suoi aspetti storiografici e di approfondimento entro al scuola ontologica rimando al mio La coscienza. Note sul concetto di coscienzialità e sapienzia-lità, in Pensare il medesimo II, a cura di A. Pieretti, ESI, Napoli, 2007, pp. 43-63. 4 Secondo la magistrale lezione carabellesiana de La critica del concreto. Sarà proprio Carabellese che darà un significativo apporto nella definizione dell'ontocriticismo nel suo non dimenticabile cap. X titolato appunto l'ontologismo critico posto nel suo L'idealismo italiano. Saggio storico-critico, edito a Napoli nel 1938, riveduto in II edizione a Roma nel 1946. Non secondari gli accen-ni all'ontologismo critico in molte significative voci del pensiero italiano del primo e secondo do-poguerra che eredi del pensiero di Bonatelli, Varisco e Carabellese, come il Moretti-Costanzi o il Filiasi Carcano, si ritrovano anche in parte con neoscolastici non rimasti sordi ai richiami della ontologia critica come il Bontandini, Carlini e soprattutto lo Sciacca.

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Tale ritorno ad un’ontologia, che si potrebbe definire di stampo metafisico pla-tonico e critico allo stesso tempo, chiedeva l'impegno, in ognuna delle sua voci, di un ripensamento dell’attività filosofica e una ricognizione speculativa delle effet-tive possibilità razionali dell'uomo in ordine ad un aprirsi della mente all'essere. Non è ignoto lo sforzo - per altro molto significativo - di ridefinizione del concetto di mente che si è dato nell’ontologico critico. Anzi si potrebbe dire che proprio l'esigenza di tracciare un'ontologia fondamentale doveva passare da una seria ri-modulazione della riflessione intorno a natura e modi della coscienza. Solo da questa fondazione era possibile compiere un ritorno ad una forma originaria del-la filosofia in senso ontologico5: la filosofia come dinamica della coscienza, come accrescimento della consapevolezza mentale del prius fondativo del pensare e come riconoscimento dell’elemento ontologico e critico per comprendere il senso del reale6.

Già nella proposta dell’“Essere di coscienza” del Carabellese, come in quella dell’"ascesi della mente" o “ascesi della coscienza” di Moretti-Costanzi, si guarda-va alla comune radice rosminiana che nell’“Essere ideale” e di “coscienza” ove si rintracciavano tutti gli elementi per distanziarsi dalla visione strumentale e me-todologica di un uso logico razionalista del concetto di mente che aveva avuto co-sì largo e vasto successo nel pensiero moderno7. Evidentemente la mente non era assolutamente da intendersi come un sinonimo di ragione così come invece si era compiuto in tutte le varianti empiristiche e razionalistiche della modernità che oggi sono ereditate in molteplici filoni di riflessione neo-logica ed analitica8.                                                                                                                          5 Non è un caso che proprio tutti gli esponenti della scuola abbiano affrontato il confronto storio-grafico con Kant il cui studio li spingeva a compiere questo ripensamento del concetto di ragione e di mente. 6 In effetti in tutti gli esponenti diretti e nelle voci anche parallele e coerenti con la scuola ontolo-gico-critica si deve notare la ricorrente scrittura di una introduzione alla filosofia. È il caso di Gioberti, di Rosmini, del Gentile, del Carabellese che preferì mostrare direttamente la natura schiettamente metafisica e teologica della filosofia nel suo Che cos'è filosofia?. Ma come dimenti-care la heideggeriana Einführung in die Metaphysik? Non tanto un desiderio protreptico ma una necessaria precisazione del carattere specifico del filosofare. 7 D. Rimondi, I presupposti dell’ontocoscienzialismo nella filosofia italiana dell’Ottocento e del Novecento, in Introduzione al all’ontologismo critico-ascetico, op. cit. pp. 183-208. 8 Un’idea della mente che è articolata secondo la prospettiva già rosminana che, ben lungi dall’essere una riedizione del criticismo kantiano secondo l’interpretazione di Gentile, invece ve-niva a riproporre nel quadro della sua Teosofia una vera ed autentica Antropologia soprannatu-rale. Ma già negli scritti più decisamente legati all’indagine sui presupposti della modernità lo stesso Rosmini così scriveva nel Dialogo sulla vera natura del conoscere in appendice a Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna e del proprio sistema, oggi pubblicato nella edizione di C. Caviglione, Carabba, Lanciano, 2009 quando trattava il problema dello spazio: «M. Questo tocca da vicino quella terribile questione circa il ponte, che si richiedeva tra la nostra mente e le cose. A. Cosi è; era quello un materiale e al tutto falso il modo di favellare messo innanzi da’ sensiti; ed es-so confondeva la mente, e le impediva di vedere il vero. Fatto sta, che la stessa esteriorità (se così

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Un distanziamento da questa radice gnoseologica non vuol dire di certo affer-mare un’esclusione dell’aspetto razionale e logico dalla riflessione sulla mente anzi; di fatto se ne vuole marcare la differenza ma non l’esclusione9. In effetti, la tensione a ridefinire la natura e la funzione dell’esercizio della mente finisce per recuperare una visione complessa del concetto stesso di mente, non identificabile solo con il processo razionale ma implicando con esso anche le potenzialità emo-tive, immaginative, spirituali che costituiscono in unum la persona nella sua tota-lità. Non quindi si tratta di distanza o sudditanza o secondarietà di una forma della mente dall’altra ma di compresenza e sviluppo di un particolare modo di as-sumere la realtà sulla base del contenuto che si palesa nei diversi modi della co-scienza stessa. I livelli della coscienza di esse-nosse-velle – appunto – per usare la gradualità agostiniana della coscienza - richiamano allo sviluppo di tale poten-zialità della mente che nel suo esercizio tutti questi livelli contempla.

In particolare la concezione di mente elaborata nel complesso dell’articolazione speculativa dell’ontocriticismo avrà poi un significativo svilup-po in ordine a una ulteriore conseguenza derivante da questo modo unitario di concepire la mente come una totalità comune dell’espressioni umane e spirituali nel contesto del recupero delle potenzialità della persona, che sono appunto po-tenzialità non solo intellettive o espressive ma anche e soprattutto relazionali, so-ciali; in questa visione della mente che è espressione di funzionalità, di compren-sione e comunicazione di sentimento, di volontà, di intendimento, la mente stes-sa veniva a significare ed indicare l’unità cosciente della persona stessa in rappor-to alla comprensione del fondamento di ogni realtà. In particolare si è cercato di riproporre in esso la definizione di mens che era stata formulata dalle grandi cor-renti del pensiero medievale agostinianamente ispirata. Non un caso che proprio dal bonaventurismo uno dei massimi esponenti dell’ontologismo-critico – Moret-ti-Costanzi – avrà modo di riproporre la rosminiana ascesi della coscienza secon-do un più decisa sottolineatura del carattere mondano dell’esperienza della men-te. In essa si raccolgono tutte le forze dell’anima in una comprensione che è il frutto di un accrescimento del pensare nel suo modularsi in confronto alla pro-

                                                                                                                         si vuol chiamare il corpo, o lo spazio) non è che uno dei modi, onde quel genere di enti che si chiamano estesi sono diversi da noi: e questa esteriorità non è né esteriore, né interiore: è pura, semplice, spirituale, distinta dall’anima come tutte le altre idee. Or chi potrà negare alla mente la concezione delle cose esterne, cioè degli estesi. Come di tutte l’altre cose diverse da noi, se ella può concepire e veramente concepisce tutte queste cose?” ed cit. p. 125-6. 9 Così come molti interpreti dell’ontologismo hanno fatto non ultimo lo stesso Buscaroli su preci-so stimolo del Moretti-Costanzi che indulgeva in una forma di antignoseologismo radicale specie nella sua ultima produzione.

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gressiva rivelazione a sé del suo fondamento ontologico, come contenuto del pen-sare medesimo.

In questo senso i problemi per la filosofia non sono più quelli di determinare una metodica del pensare, ma di avere la possibilità di conseguire la consapevo-lezza del suo contenuto come ciò che fonda e determina il pensare stesso. Questo è un progressivo processo di elevazione della mente e cioè un’ascesi. Tale ascesi ci dice di un modo sempre più elevato di giungere a consapevolezza, che si compone di tutti gli elementi di un’esperienza della verità che si articola nella coscienza in ordine al sentire, all’intendere e al volere. L’ascesi è l’apice dell’esperienza della mente che procede, nel suo stesso costituirsi, facendo un’esperienza specifica del-la sua potenza in un’unità che appunto è mentale10.

Vero che nell’ontologico critico, e in quello cristianamente segnato del Moret-ti-Costanzi, l’adesione al bonaventurismo ha compiuto l’iter di una precisa deli-neazione del concetto di ascesi con la quale si intendeva rimandare a quel poten-ziamento della mente che appunto rende possibile ogni ascesa all’esperienza di un vero e significativo modo di parlare della realtà e della persona; e se questa è “esperienza” essa non può che darsi che nella sua storia, nella sua mondanità, nel suo ambiente; cioè secondo la riappropriazione del sé nel proprio mondo, ricon-quistato secondo la norma dell’essere, del fondamento, secondo il principio che rivela la realtà e i suoi oggetti, che sono così rivelati nel loro valore, nella loro ve-rità e nella loro bellezza; essi fanno parte quindi di un nuovo ambiente e di un mondo “salvato” dalla astrattezza. Infatti non c’è recupero della coscienza e non c’è recupero della dimensione personale se non si dà un recupero del mondo11.

Impossibile però cogliere il senso del recupero estetico del mondo e del pensa-re nell’ottica dell’ontologismo critico senza prima comprendere le premesse e le                                                                                                                          10 E. Mirri, Il significato nell’ascesi nella filosofia contemporanea, in “Rivista rosminiana”, n. 4, 1956, pp. 246-256 e n.1 pp. 1-12; E. Mirri, La filosofia come ascesi, in appendice a Il concetto di filosofia in Platone, ALFA, Bologna, 1966 e sempre di E. Mirri, Il significato dell’ascesi nella filo-sofia contemporanea, e Ontologismo critico e ascesi di coscienza, entrambi in Pensare il mede-simo I, a cura di F. Valori e M. Moschini, ESI, Napoli, 2006, pp. 41-70 e71-82; G. Morra, L’ascesi di coscienza, in Studio ed insegnamento della filosofia, vol. II, 1966, Roma, pp,210-224. 11 T. Moretti-Costanzi, L’estetica pia; L’attualità della filosofia mistica di san Bonaventura; L’attualità di san Bonaventura nel Cristianesimo-filosofia: l’intellectus fidelis; Il tono estetico del pensiero di san Bonaventura; El intellectus fidelis en el agustinismo de san Buenaventura; tutti questi saggi del filosofo umbro sono in Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano, 2009. Rimando poi a M. Falaschi, Introduzione a T. Moretti-Costanzi, Bonaventura, Armando, Roma, 2003 e sempre del Falaschi, Gli scritti bonaventuriani di T. Moretti-Costanzi, in «Doctor seraphicus», LI, 2004, pp. 103-115; E. Coviello, La “Filosofia pura” di Teodorico Mo-retti-Costanzi: essenza e significato del filosofare, in «Rivista di filosofia neoscolastica», vol. 99, n.4, 2007, pp. 681-718 e dello stesso autore San Bonaventura nel pensiero di Teodorico Moretti-Costanzi. Attualità della filosofia francescana del Dottore serafico: ascesi di coscienza e cristia-nesimo, in «Rivista di filosofia neoscolastica» vol. 105, n. 1-2, 2008, pp. 181-228.

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conseguenze di questo carattere rinnovato della definizione di ascesi inaugurata dal pensiero ontologico italiano di marca cristiana ed in particolare agostiniana e rosminiana12. Infatti l’ascesi non è ascesi da intendersi come estraniamento o perturbazione emotiva extrasensoriale o estatica; va evitato il fraintendimento spesso ricorrente di leggere con questo termine un atteggiamento filosoficamente errato; cioè quella di vedere l’ascesi, se non come elemento perturbativo senti-mentale, al contrario come un processo meramente teoretico quasi fosse una di-namica di solo pensiero. L’ascesi è altro dai possibili fraintendimenti; si è appun-to fatto riferimento all’espressione di “ascesi della coscienza” del Moretti-Costanzi con un significato del tutto noetico – questo detto in senso pienamente platonico - e cioè come un supremo esercizio della facoltà teoretica che consente di guardare al vero e di riconoscerlo e comprenderlo come fondamento d’essere e di pensare.

L’ascesi di coscienza oltre a questo carattere noetico di stampo platonico com-porta anche l’aggiunta, tutta agostiniana, che tale esercizio noetico, è esercizio di un me personale, con identità singolare e unica. Noeticamente appunto si impone l’ascesi che è sempre ascesi della mente, cioè di questa capacità cosciente che vie-ne assicurata da tutte le cooperanti vires animae che caratterizzano la persona stessa. Non certo ascesi di un me “incosciente”, estraniato, alienato, ma di un io cosciente, pienamente vivente e non estinto in una neutralità che sopravvive ad ogni singolo.

Ascesi dunque di me su di me; non come estraniazione dal mondo, fuga da es-so; ascesi non dal mondo ma ascesi nel mondo e con il mondo in un saperne di più e qualitativamente meglio. Sono io che mi elevo, io con la mia singolarità nel-la dimensione societaria e comunionale che questa comporta. Ascesi “di me” e di me “con gli altri pensanti” nella quale la coscienza si riappropria della sua am-

                                                                                                                         12 Sul deciso innesto dell’ontocriticismo nel cuore del pensiero agostiniano e bonaventuriano in-dubbiamente riconosco la peculiarità del pensiero di Moretti-Costanzi ed in questo risultato vedo il tratto più decisamente divergente del filosofo umbro dal pensiero carabellesiano. La questione meriterebbe più ampio dibattito e non posso che rimandare come orientamento ad alcuni studi: G. Di Napoli, T. Moretti-Costanzi o del filosofare cristiano, in «Antonianum», n.1, 1966, pp.123-134; G. Di Napoli, Cristianesimo e filosofia in Teodorico Moretti-Costanzi, in «Doctor commu-nis», XXXI, 1978, pp. 61-66; A. Livi, Il cristianesimo nella filosofia: il problema della filosofia cristiana nei suoi sviluppi storici e nelle prospettive attuali, Japadre, L’Aquila, 1969; A. Manno, Il cristianesimo-filosofia nella crisi del pensiero moderno di Teodorico Moretti-Costanzi, in «L’idea», luglio 1966; S. Buscaroli, Sul “Cristianesimo-filosofia”, in “Rivista rosminiana”, f. II, 1978, pp. 198-206; AA. VV., Teodorico Moretti-Costanzi: un mistico cristiano nella filosofia con-temporanea, Calosci, Cortona, 1995; E. Mirri, Cristo-sapienza fondamento del pensare, in Filo-sofare in Cristo, Ed. Arch. Perugia, Perugia, 2007, pp. 535-544; ed infine rimando ai miei Ascesi di coscienza e Cristianesimo-filosofia, Ed Sala francescana di Cultura, Assisi, 1990 e al saggio in-troduttivo Fede sapiente ed intellectus fidelis, in T. Moretti-Costanzi, Opere, op. cit.

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bientalità, dei suoi oggetti e della sua capacità, nella condivisione del sapere del fondamento del mondo; questo mondo si presenta in un sapere diverso, forse migliore di quello conoscitivo, perché si presenta come ambiente dove si staglia e l’io e i tu. Dove il senso e il significato del mondo si impone al di là della sua ap-parente crudezza e della sua materialità.

L’ascesi di coscienza, che è ascesi mentale del singolo, del me, di me persona, non comporta, secondo la lezione dell’ontologismo, la rottura con la ragione ma solamente un distanziamento con lo scio, con quella modalità conoscitiva che porta con sé la pretesa della sua autorganizzazione e autorelazione. Lo scio che da solo non riesce a consegnarci comprensione ma solo spiegazione di meccanismi interni alla natura. Il senso della natura invece lo possiamo afferrare solo elevan-doci ad un più alto livello e cioè quello del sàpere che rende diverso e meno insi-pido lo scire stesso.

Pur riconosciuto vero il carattere antignoseologico dell’ontologismo, non va però dimenticata l’inequivocabile precisazione speculativa che si vuole consegna-re dei due ambiti di esercizio della coscienza. Da un lato il conoscere e dall’altro la sapienza che mai sono in gara l’uno con l’altra, ma sono in contiguità relativa-mente al sapere del mondo: uno che coglie il carattere meccanico del mondo e l’altro che coglie il carattere espressivo e significativo dello stesso. L’acquisizione dell’ascesi nel suo carattere sommamente sapienziale e di richiamo al potenzia-mento della mente stessa non esclude la vigenza del conoscere ma la prevede nel suo attuarla, trasformandola. In effetti se nel mondo del conoscere noi abbiamo da prendere atto e conoscere della mera materia e dei meccanismi di vita, nella prospettiva ascetica della coscienza noi abbiamo un mondo non più solamente intendibile come aggregazione di cose e oggetti ma come un luogo ove hanno si-gnificato tutte le cose, un ambiente nel quale io mi realizzo nel riconoscimento del comune senso che ci fonda. È rinuncia a vedere il mondo nel senso del pre-dominante “umanismo”: come spazio ove si esercita il dominino dell’umano. Siamo condotti a vedere il mondo stesso in senso ontologico, come luogo dell’appartenenza all’essere. Non più “terra” ma “mondo” secondo la felice espressione heideggeriana presente nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte in Hölzwege, impegnati a cogliere il proprium che dell’esistenza ci apparirà; a co-gliere il significato profondo della vita alla luce dello spirito.

Vi sono dunque due modi diversi di vedere il mondo e ad essi vanno relativi due modi diversi di darsi del mondo e della sua realtà, uno more scientiae ed uno more sapientiae secondo un rinverdito modo di interpretare la diversità di livello del reale e del suo coglimento che è proprio di una tradizione filosofica evocata dall’ontologismo critico. Una tradizione questa che ha trovato continuo richiamo

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nell’ambito di una persistente scuola teologica e filosofica che ha appunto tenuto distinti ma non opposti i due modi di intendere il mondo. Basti ricordare la cusa-niana distinzione tra scientia e sapida scientia, o la pascaliana distinzione tra “spirito di geometria e spirito di finezza” e potrei a lungo dire. Così, fuori da un ambito cristianamente orientato, come non riconoscere la dualità e diversità tra i due livelli sentiti vivi dallo Schopenhauer del Nachlass tra “coscienza empirica” e “migliore coscienza”? Ma come non vedere che tale distinzione, che parrebbe in-trodurre un dualismo nell’uso della capacità intellettiva e di ragione non nasce che da un’esigenza di comprensione del mondo alla luce di un più alto grado di consapevolezza ontologica? E come non accorgersi che questo più alto grado par-te necessariamente da origini ancora più antiche, e cioè nel platonismo, che po-neva non solo due ordini di livello del sapere tra la doxa e la episteme, ma nella episteme stessa poneva due gradi tra la dianoetica e la noetica? Ma al fondo, an-che qui, Platone dice questo a partire del ruolo unitario e unificante, critico e il-luminante, della dottrina delle idea.

Convivono due modi di leggere il mondo anche se va precisato il mondo che ci viene restituito nell’ambito della conoscenza scientifica per altro non è anteponi-bile a quello che ci viene offerto dalla coscienza a modo di gradino. Le due conce-zioni/esperienze del mondo convivono e il mondo recuperato non chiede, per es-sere colto, di un’attività esplicativa ma chiede di essere “compreso” attraverso un’attività capace di coglierlo nella sua “idea” cioè nel suo “fondamento”, a parti-re dalla eternità direbbe Spinoza. Il recupero del mondo della coscienza sarà ef-fettivamente leggibile solo in un cammino ermeneutico, un cammino di lettura e interpretazione dell’umano e dell’umano nel mondo visti sub specie aeternitatis.

Questo invito ad un passaggio all’ermeneusi del mondo mi pare un’acquisizione che accomuna il pensiero ontologico di Heidegger con quello dell’ontologismo critico: la mondità e il suo fondamento, la sua comprensibilità sono il primo compito e il primo risultato del pensiero; è la consapevolezza del darsi nel mondo del fondamento ontologico ciò che muove la riflessione filosofica che si riconosce nel riconoscere la realtà più profonda del reale; questa chiede di essere colta solo nella consapevolezza del suo senso che è sempre nascosto nella verità13; il mondo chiede che esso sia compreso e non solo spiegato, ed in partico-lare è l’uomo che deve essere compreso nella sua essenza personale piuttosto che nella sua genericità. Il mondo dell’ascesi quindi non è come il mondo del cono-

                                                                                                                         13 Questo è tema centrale di Cusano che nel nascondimento di Dio vede l’ascondersi del fonda-mento e del principio che si offre in modo decisivo nella ignoranza del suo tutto, nella notizia del-la sua presenza nel dato finito e congetturale. Questo tema percorre l’opera di Cusano in partico-lare rimando alla esposizione del filosofo intorno a concetto del “Deus Absconditus”.

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scere che si misura e si pesa secondo unità conoscitive, ma questo è il mondo che ci appare alla luce del suo stesso valore, alla luce della sua origine d’essere senza la quale non ha significato alcuno14.

L’ascesi di coscienza quindi, che indica questo percorso di riacquisto e consa-pevolezza del fondamento, comporta anche un riacquisto e un riconoscimento del mondo come luogo bello dell’apparire del vero; questa ascesi della coscienza è di-stanziamento dal modo, spesso troppo unilaterale, di intendere la realtà come un oggetto neutrale. L’ascesi della coscienza è infatti davvero un esercizio di salto di livello dell’intellezione; è ascesi mentale del mondo e di me pensante con esso; non pone, né si pone, come ricerca sul come si origini il conoscere, come si arti-coli questo (del che sono svianti le riflessioni che affrontano il tema ontologico in maniera troppo ristretta) ma la questione si pone sul “cosa” il conoscere medesi-mo possa cogliere, non tanto su “quanto” possa esso valere. L’ascesi ci fa guada-gnare dunque un mondo che non resta inchiodato al suo squadernamento oriz-zontale, ma anzi la sua orizzontalità si compone in una dimensione verticale che ne dà ampio senso e significato.

Mi trovo così davvero pienamente in linea con Moretti-Costanzi quando invo-cava una radicalizzazione dell’ascesi di coscienza15, anche se credo che tale radi-calizzazione non debba essere compiuta in senso critico contro l’idealismo. In fondo condivide con l’ontocriticismo la tensione all’idea come momento supremo di recezione e accoglimento della manifestazione del vero, esattamente come è esibito dallo stesso significato dell’ascesi di coscienza sia in Carabellese che in Moretti-Costanzi. Un restare lontano dall’idealismo dei due forse troppo deter-minato dall’esigenza di prendere le distanze dall’attualismo di Gentile. Ma tanto resta difficile non riconoscere in questi pensatori che ci ispirano altro da quell’idealismo di fondo con cui potrebbe riconoscersi anche il platonismo.

Sono d'accordo con l’uno e l’altro pensatore relativamente alla proposta di un’essenziale invito a compiere il pensiero in un’ascesi di coscienza ed ad un suo recupero in senso sapienziale e non estrovertente e emozionale; ma sono però al-tresì convinto che tale proposta debba essere intesa all’opposto di uno di quei momenti dinamici di relazione dell’essere e nell’essere che costituiscono la dialet-tica di cui diffidavano entrambi i filosofi. In particolare Moretti-Costanzi leggeva l’autocoscienza idealistica come un’inamovibile legame trascendentale ed empiri-

                                                                                                                         14 In questo ha un significato ampio e decisivo la dottrina della sostanza di Spinoza che richiama alla identità di pensiero ed essere ma soprattutto del carattere di fondamento che l’essere/sostanza ha rispetto al mondo, alle cose. Rimando per questo agli assiomi della prima parte della sua Ethica. 15 Specie ne la Filosofia pura, oggi in Opere, op. cit.

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co, come un momento dipendente da quell’io che invece che aprire, offuscava la primalità del vero. Non così a leggere questo pensiero alla luce della dottrina dell’idea che egli propugnava contro l’idealismo. Essa, ereditata da Platone e da Schopenhauer, comporta e significa che ogni movimento del pensare deve corri-spondere ad un recupero ontologico tra essere ed esistere in particolare, tra eter-no e tempo, tra uno e molti, il che la mostra così vicina al concetto di Idea formu-lato da Hegel16.

Ma di più: infatti questo recupero ontologico è un movimento dialettico che deve riguardare prima di tutto il rapporto dinamico tra io e tu; tra ciascuno e i tutti che mondanamente sono radicati ed impersonati in un mondo, in una realtà sostanziale, che comporta un mondo somatico e oggettivo fino al limite ove appa-re il senso di tutto l’esserci finito che è vero nel fondamento che rende giustizia dell’unicità di tutti e di tutte le cose; così come della loro transitorietà. È quel pensiero abissale di nietzscheana memoria che consente di cogliere quell’“eterno ritorno del medesimo”, cioè dell’inamovibile presenza dell’essere che è autentico fondamento del tutto esistente, e che viene colto a 6000 piedi sopra il mare at-traverso un rondò, un salto, un’“ascesi”17.

Il superamento dell’unilateralità dell’istanza conoscitiva è possibile dall’altro canto solo puntando sull’istanza di un sapere “critico”, capace di rendere possibi-le e sicura tale redenzione del mondo, che comporti un recupero ontologico a partire da un’esperienza del vero che è non solo intellettiva ma anche morale ed estetica. Qui l’esperienza mistica e sapiente del francescanesimo costituisce una forma di tale recupero. C’è una tradizione ontologica che viene assolutamente po-tenziata e chiarificata dal messaggio cristiano e che rende possibile ogni ascen-sionalità, ogni scoperta e riconquista della coscienza, basti ricordare relativa-mente a questo tema almeno una tra le sue molte acquisizioni speculativamente significative che appunto è quella che si muove dal francescanesimo bonaventu-riano18.

Non si può non osservare, per esempio, come il cristianesimo abbia istituito un nuovo modo di concepire il vero e quindi il mondo; lo si scorge in tanti modi con                                                                                                                          16 Resta eterno l’insegnamento al proposito del Parmenide di Platone. 17 Chiaramente faccio riferimento a tutto il tema centrale della III parte dello Zarathustra che smentisce una lettura nichilistica di Nietzsche. 18 L’aggettivo bonaventuriano unito al termine francescanesimo è utile per distanziare questo da altre letture che hanno teso razionalizzare l’esigenza “irregolare”, sapiente del francescanesimo stesso. Tendenza di regolamentare in forme tipiche della scolastica aristotelica quei tratti della sapienza critica e ascetico critica che erano e restano in senso assoluto vie importanti della meta-fisica; così via via nel tempo la scuola francescana ha richiesto di perdere quel tratto originale che le discendeva dalla sua proposta altamente speculativa dell’intellectus fidelis, della fides sapiens, di cui si era fatto propugnatore il Dottore serafico.

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cui alcuni pensatori vicini alla sua ispirazione - benché a volte non “cristiani” ma metafisicamente solidificatisi nella sua tradizione speculativa - hanno poi trattato di mondità anche nei tratti essenziali di questa19. Non vi è dubbio infatti che tra questi tratti essenziali del mondo vi sia la temporalità. Una visione ascetica del mondo, una esperienza metafisica della sua natura esonerano da un’acquisizione del tempo che valga solo come un prima e un poi, come successione unica della temporalità. Il dimensionarsi secolare e di durata non è l’unica dimensione del tempo che anzi ha un significato più esteso e diverso di quello cronologico. È quanto ci ha insegnato uno Spinoza o un Bergson. Nel cristianesimo - o meglio nella visione biblico-cristiana - si accetta di certo la successione e la cronologia ma nella memoria della compresenza eterna e “provvidenziale” del suo valore e così la storia viene elevata a storia sacra. Potente la riflessione sul tempo di Ago-stino che si legge spiritualmente e teologicamente oppure non si legge.

L’esperienza della verità implica un ritrovarsi da sempre e per sempre ad un livello che consacra e rende vero ogni momento dal passato, al presente e al futu-ro nell’essere presente di Dio a questa vita come ad ogni vita20. I molti tempi in successione e durata si spiegano sempre nell’ottica della storia cristiana dalla loro essenziale e sostanziale qualità, che è tutta riposta nell’esperienza della verità. L’esperienza della verità nel sentire cristiano si concretizza nella storia e nel rico-noscimento in proprio di sé medesimo con la concretezza del principio-Dio che è persona21.

L’ascesi di coscienza così come delineata poi nello sviluppo dei presupposti dell’ontologismo critico riportato da Moretti-Costanzi nell’alveo del cristianesimo (da dove era partito con il Rosmini) finiva per emendare definitivamente l’impossibilità carabellesiana di parlare di “persona”. Un’impossibilità che deri-vava dall’avversione del molfettese per ogni forma di qualsivoglia concezione dell’io, dell’individuo, della relazione intramondana, della soggettività stessa che si ponesse fuori da quella base per cui tutto si dà nell’Essere di coscienza. Così se Gioberti indicava negli “esistenti” la pluralità che si pone di fronte all’unità dell’Ente-Dio, Varisco aveva chiesto di chiarire e rivendicare con decisione la                                                                                                                          19 Tanto che sarà proprio il Moretti-Costanzi parlerà di “cristità” come una categoria critica asso-luta del pensiero che nella sua riflessione verrà a definirsi con grande radicalità come cristianesi-mo-filosofia specie nella ultima parte della sua riflessione che è culminata nella trilogia La fede sapiente e il Cristo storico, La rivelazione filosofica, Il cristianesimo-filosofia come tradizione di realtà; edita questa trilogia dalla Edizioni Sala francescana di Cultura, Assisi, 1981-1982-1986. 20 Potente la riflessione sul tempo di Agostino che si legge spiritualmente e teologicamente oppu-re non si legge. 21 Il senso sacro della storia come tratto del volto e della libertà è tema di M. Malaguti; rimando ai suo: Liberi per la verità, Cappelli, Bologna, 1980 , ed alla sua bella Introduzione a T. Moretti-Costanzi, Il senso della storia, Armando, Roma, 2002.

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pluralità dei “centri di coscienza” contro il soggettivismo monista dell’attualismo gentiliano e si spingeva ad affermare la necessità di comprendere il problema dell’uno e dei molti in maniera più radicale piuttosto che ripiegare nella soluzione di un unico centro-soggetto posto dal e nel pensiero e a partire da questa eredità il Carabellese sentirà vivo il bisogno di affermare insieme unità e molteplicità, che invece che opporsi o autoescludersi, o autoporsi, costituiscono invece le pri-me forme e istanze della consapevolezza coscienziale. Principio unitario e criterio fondante è l’oggetto puro, mentre i molti io plurimi, od entità attive, sono centra-lità di vari rapporti tutti consapevoli di tali essenziali relazioni coscienziali. “Quanti” che, come tali convengono, nell’unità del “Quale”22.

In effetti sono d’accordo – in primis con F. Valori - con quanti hanno notato a questo proposito che le articolate considerazioni sull’io da Varisco a Carabellese abbiano mostrato qualche limite. Le vicissitudini della dottrina dell’io in questi autori si raccoglievano tutte in quella necessità che i “protagonisti” non meno de “i centri di coscienza” dovevano necessariamente assumere tale centralità e con-sistenza nell’affermazione della loro singolarità personale. Tale singolarità perso-nale mancava e a mio giudizio però doveva essere sottolineata come tratto pecu-liare, proprio in un contesto ontologico; e questo aspetto, che puntava sulla sin-golarità nell’ambito dell’articolazione ontologica, poteva sorgere solo dopo l’innesto di tale esigenza nello spessore intensivo, di grado ed elevatezza della co-scienza che era stato aggiunto dal suggerimento bonaventuriano, e che mancava in Carabellese23.

                                                                                                                         22 Rimando alle considerazioni carabellesiane ovviamente esposte ne L’essere e la sua manifesta-zione. Parte seconda: IO, a cura di F. Valori, ESI, Napoli, 1998. Rimando contemporaneamente al saggio della stessa F. Valori dedicato alla problematicità del concetto di io in Carabellese, al suo Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese, ESI, Napoli, 1996. Vanno però anche ricordati gli im-portanti contributi del Varisco su questo tema e le implicazioni e sviluppi che di questi si sono da-ti nel pensiero dell’ontologismo critico successivo. Per questo merita ricordare del Moretti-Costanzi Il problema dell’uno e dei molti in B. Varisco del 1940 e L’importanza di B. Varisco nel pensiero contemporaneo del 1941. Entrambe oggi pubblicate in T. Moretti-Costanzi, Opere, già cit. 23 Questa intensa opera di riforma del pensiero va rischiano e carabellesiano sul tema uno-molti il Moretti-Costanzi lo condusse senza alcun dubbio a partire dagli studi copra citati sul Varisco. Ma non mancò di certo di partire da essi per aggiungere questo elemento critico anche all’interno del magistero del suo maestro Carabellese, soprattutto in ordine ad una ridefinizione del valore onto-logico della singolarità e della persona. Un ripensamento che nasceva tutto dalla rivalutazione del pensiero bonaventuriano come già si è detto. Ma sarà in uno scritto del 1948, Ontologismo critico e cattolicesimo sul problema Dio, che questa distanza del discepolo dal maestro si compirà per giungere appunto a quella riforma del carabellesismo che poco sopra ho detto destinata a riporta-re alla sua origine cristiana e rosminiana. Il saggio sopra citato anche esso si può trovare in Ope-re. Op.cit. Vorrei però rimandare anche a un saggio maturo molto significativo del Moretti-Costanzi presente nella raccolta citata La singolarità personale e societaria. Già il titolo di questo

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Il chiarisi, il darsi del principio con i molti protagonisti (secondo l’espressione varischiana) va senz’altro colto e sentito vivo come decisa affermazione della plu-ralità nell’Essere di Coscienza che richiede necessariamente una molteplicità di correlazioni, relazioni, operazioni. Così di fronte al pieno articolarsi di questa pluralità si fa necessaria anche l’unità che la sostanzia. I tutti sono singoli comu-nicanti nell’unità del principio fondante. Plurimo, multiforme, relazionato e lo stesso Uno-Principio, che è appunto triforme (vero, bello buono) e a cui vanno relativi plurimi livelli della consapevolezza ed espressione della coscienza. La ternarietà dei gradi dell’essere e dei paralleli livelli della coscienza, si trovano pienamente accordati in un recupero del senso, della conoscenza, nell’unità sa-piente del vero; questo bisogno di sostanziare la singolarità e la pluralità nell’uno non solo è un approdo sentito necessario a cui giungere ma è esigito in quanto esperienza della coscienza in relazione con gli altri nel principio. Appunto un mondo nel quale ci troviamo e ci riconosciamo con altri nel suo fondamento. Non è proprio un caso che su questa linea di riforma del carabellessismo si siano poi mossi da Moretti-Costanzi voci della stessa scuola a recuperare il tema della per-sona e della singolarità nel suo significato esistenziale e in quello sociale, nelle re-lazioni e nei contesti di riconoscimento dell’ontologia della persona. Così, già dal secondo dopoguerra ad oggi, si sono mossi alcuni esponenti dell’ontocriticismo a richiedere una ridefinizione di persona; prima in ambito giuridico, per ovviare al relativismo sociale delle norme a favore di un comune tessuto ontologico all’azione individuale e questo da Ivanoe Tebeldaschi a Francesco Dal Pozzo; ma non meno significativo è stato l’approfondimento in sede teoretica di queste te-matiche in ordine ad una ricomposizione del concetto di persona con chiavi in-terpretative desunte non solo dell’ontologismo critico ma dell’ermeneusi, in Furia Valori24.

L’ascesi di coscienza, proprio perché si attua nella dinamica di riconoscimento del vero che è restituzione di sensibilità, volontà e intelletto, è ascesi della mente;

                                                                                                                         scritto del 1975 ci dice molto di come si sia venuto articolando il complesso modo di recupero del tema della persona in questa linea dell’ontologismo critico. 24 I. Tebaldeschi, Filosofia e politica nell’attualismo e nell’ontologismo critico, sne, Roma, 1955: sempre di Tebaldeschi: Tempo e coscienza, Ed Arte e Storia, Roma, 1956; Società e persona nell’esperienza giuridica, Ed. Arte e Storia, Roma, 1957; L’essere e il valore: saggio sull’esperienza morale, Ed. Arte e Storia, Roma, 1962. F. Dal Pozzo d’Annone, L’identità personale aspetti aspet-ti ontologici e diceologici, in «Per la filosofia e l’insegnamento», VIII, n.19, 1990, pp.38-49. Di F. Valori oltre a rimandare ai saggi di studio sul Carabellese già citati invio a Il discorso parallelo, Armando, Roma, 2003; La persona nella memoria, nell’interiorità, nell’attesa e nell’ascesa, in «La nottola di minerva», a. III, 2005, n.5; La persona fra natura, cultura ed economia, in Eco-nomia e persona, a cura di P.M. Grasselli e M Moschini, Vita e pensiero, Milano, 2007; Itinerari della persona, Carabba, Lanciano, 2009.

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essa implica tutta l’esperienza dell’uomo: da quella basilare del suo vivere storico al riconoscimento degli altri che in essa si realizza attraverso gesti e attimi signi-ficativi di prossimità; dalla realtà nella quale siamo posti alla necessità delle rela-zioni che si impongono nel nostro cammino di esistenza; dalla consapevolezza del nostro pensare alla rettitudine del nostro agire che viene richiesto dal modo di sentire che ci è stato dato per aprirci agli altri ed al mondo. Ascesi è ascesi nella tota anima: è ascesi della fantasia, dell’immaginazione, della ragione, del senti-mento e dell’emozione. In poche parole è mens appunto. Nella dimensione dell’ascesi è coinvolto e convogliato l’io che è cosciente in essa e che nulla è senza di essa. L’essere appartiene alla coscienza. È l’essere ciò che si offre come conte-nuto alto della mente; l’essere appartiene alla coscienza esattamente come la co-scienza appartiene all’essere: questo trova il suo luogo visibile nell’esperienza vi-va e cosciente della persona. Questa l’autentica lezione carabellesiana che resterà intramontabile Per questo motivo l’ascesi di coscienza non può che comportare il mondo con la persona. L’ascesi deve comportare sempre una mondanità. Cioè una qualità del mondo e della sua natura e della sua comprensività nell’ambito della dinamica dell’essere e la mondanità è l’ambiente della persona.

Questa esigenza di un mondo fatto di singoli e persone quindi segna una diffe-renza sostanziale con l’ontologia tedesca. Non un caso che Heidegger e Moretti-Costanzi per esempio divergano nell’uso del termine: uno dice “mondità” l’altro “mondanità”. Nel primo filosofo si intende affermare il mondo come misura per-duta dell’essere ma nel secondo conta la realtà concreta del mondo che si esplica nell’essere, per l’essere. Un mondo che appunto cristianamente non può essere visto che alla luce del suo fondamento di grazia, quasi un superamento qualitati-vo, in una visione edenica del materiale come vorrebbe che sia chiamata il Moret-ti-Costanzi.

La mens è la consapevolezza cosciente nell’esplicarsi della forze dell’anima es-se-nosse-velle di questa realtà; queste stesse forze, nella loro cooperante compre-senza attiva, esercitano le loro qualità nel mondo, nel fare e nel dare un’esperienza del mondo che non è più “mondo esterno”, “mondo alieno”, “natu-ra estranea” come nel modo empiristico di intendere la mondità; e non è neppure il mondo visto come una sorta di proiezione mentale di qualche rappresentazione intellettuale come intendono forme di idealismo o di realismo. Il mondo qui è sentito e compreso nella sua dimensione ascetica in una sorta di sublimazione teoretica del in der Welt sein di Heidegger, pensato alla luce della dottrina dei gradi e dello status mentale di Bonaventura25.                                                                                                                          25 Per precisare l’articolarsi del confronto Heidegger e Moretti-Costanzi relativamente alla que-stione della natura dell’ontologia e del recupero estetico ed ascetico del mondo in essa rimando a:

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Il mondo dell’ascesi di coscienza è un mondo quindi non fantasioso ma realis-simo. Questa dottrina in fondo non fa che accrescere la necessità di corrisponde-re al recupero di un vero realismo, di un mondo vero e concreto che si caratteriz-za nella sua dimensione accrescibile e potenziabile ove non si è mai gettati a caso nel mondo o soli, ma si è coordinati e messi in comunione sostanziale con “i tut-ti”. Una dimensione di suprema coscienza che comprenda che nel fondamento sostanziale di verità rende me e tutti con i tutti più veri e accoglibili. Un supremo insegnamento raccoglibile anche in sostanza nella dottrina della monade e sulla natura che ritroviamo nel pensiero di Leibniz che tanta ilarità mosse in Voltaire che altro non vede che massa e carne e materia laddove invece la vita invita a ve-dere altro e altrove

Si sta sempre in un mondo con gli altri, ai quali siamo congiunti dal vincolo della verità di cui ciascuno è traccia. Si sta nel mondo congiunti alla sapienza e nell’esercizio della sapienza, che ci dice che siamo più autentici quanto più auten-ticamente sappiamo condividere atti di coscienza e di comprensione del mondo stesso. Siamo interagenti grazie all’esercizio di capacità lettura sul mondo e del mondo, che ci rendono capaci di essere autenticamente cum-scientes della verità medesima.

Il mondo non è mondo di fantasiose illusioni ma è ciò che è con-saputo con al-tri: esso appare come il nostro mondo. Solo con il nostro ascendere coscienziale possiamo scoprire che in questa ambientalità siamo nella piena fraternità con gli altri. La stessa ascesi di coscienza con cui la filosofia si attua non è e non può es-sere intesa come una espressione freddamente teoretica, ma deve anzi intendersi nel modo più ampio come una parola calda e piena in quanto della mens essa è la cooperante vigenza delle sue forze coscienziali che si esplicano nell’esperienza sapiente stessa. Essa è caritativamente uno status di pienezza della totalità dell’anima - come direbbe Agostino - che non conosce dimidiamenti ma che è espressione di quella dinamica dello spirito che si farebbe chiamare, con evidente richiamo rosminiano, come status di intelligenza sacrale.

Nel mondo che si schiude alla coscienza nell’ascesa della potenzialità della mente ritrovatasi nel suo fondamento, non ci troviamo da soli o con degli altri “io”; bensì siamo nel flusso del riconoscimento di sé medesimi nell’accoglienza amica e consapevole di altri che per me sono il prossimo. E quindi se chi incontro                                                                                                                          E. Forni, “Fudamentalontologie” e ontocoscienzialismo. Cronaca ed analisi di un rapporto, in “Giornale di metafisica”, nn. 4-5, pp. 416-451; A. Manno, Heidegger e la filosofia; a proposito del Was ist-das Philosophie?, Armando, Roma, 1962; G. Franchi, A proposito del rapporto Heideg-ger e Moretti-Costanzi, in «Ethica», 1963, n. 2, pp. 129-140; E. Mirri, La resurrezione estetica del pensare tra Heidegger e Moretti-Costanzi, Bulzoni, Roma, 1976.

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nel mio recupero del mondo in senso ascetico e mentale è il prossimo, allora an-che l’idea di Dio viene a presentarsi assolutamente diversa da quella di un su-premo ordinatore, o un supremo giustificatore della realtà, o un io assoluto che sottintende alle realtà del mondo. Un’idea impersonale di Dio non rientra in que-sto sentire. Anzi tale modalità di recupero del mondo si direbbe fondarsi solo sul presupposto di un’idea di Dio tutt’altro che astratta. Dio deve apparirci come la somma prossimità, l’assoluta vicinanza. Non si può non notare che questo tratto della vicinanza e prossimità di Dio che è Dio stesso fatto carne ed è Figlio di Dio e fratello di tutti è il senso ultimo a mio vedere di tutta la teologia del quarto Van-gelo.

Da tale orizzonte è quindi esclusa una visione dell’esperienza umana ridotta al-la sola dimensione del livello empirico. L’uomo invece è colto nelle sue due po-tenzialità: pneumatica da una parte e somatica dall’altra, così come descritto dall’antropologia paulina. Una dimensionalità duplice e compresente che in qual-che modo implica anche una caratterizzazione della filosofia e del sapere articola-ta e diversa. Al livello dello spirito corrisponderà infatti quello che la tradizione filosofica agostiniana, a cui si rifà spesso l’ontologismo, ha indicato nella filosofia purificata e vera (sàpere appunto) a cui corrisponde il pensare e l’implicazione di una natura altra e diversa da quella dell’empiria.

Dall’altro canto è fin troppo chiaro che è solo nell’esperienza sapienziale che possiamo trovare la radice e il fondamento di un mondo relazionalmente aperto agli altri, che non coesistono in un mondo di cose, ma un mondo dove si è in un ambiente autenticamente aperto, ove si riconoscono gli altri come prossimi che comunitariamente si incontrano, dialogano e sono riconosciuti in relazioni auten-tiche e rinnovatrici dell’esperienza vitale di ciascuno e di tutti; ove le singole cose hanno riconosciuta la loro fondamentale realtà nella relazione con il mon-do/ambiente. Nella dimensione meramente empirica non esiste il prossimo ma delle alterità non composte, meglio si direbbe degli individui, se non addirittura degli “io”26.

Ed è proprio nel compiersi di questa distinzione tra una dimensione della mondità della sapienza e quella mondana dell’empiria, secondo una distinzione

                                                                                                                         26 Questa dimensione della scomposizione della prossimità che è apertura comunitaria piuttosto che aggregazione di soggettività è una delle conseguenze a mio giudizio più critiche della eredità moderna. Non la singolarità della persona ma la trascendentalità del soggetto; alla socialità co-munitariamente intesa la prospettiva dell’aggregazione. Verso tale esito si è mosso per esempio con un significativo risultato il personalismo che in qualche modo non ha mancato di apportare un contributo rivoluzionario alla visione antropologica e politica. Inevitabile pensare a Mounier e Maritain e, più ancora inevitabile, pensare al più grande critico e estensore delle prospettive del personalismo Ricoeur.

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Ascesi della mente e recupero del mondo Marco Moschini

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appunto terminologica che heideggerianamente suonerebbe come quella, già ri-chiamata, tra mondo e terra, che si esplica l’uno e l’altro ambiente di riferimento; in questi due mondi diversi, ma compresenti, si staglia la dimensione della per-sona nel primo che è dimensione e realtà diversa da quella dell’individuo che ap-partiene al secondo.

La distinzione paulina tra somatico e pneumatico, sovente richiamata ogni vol-ta che si doveva mostrare la “livellità” della coscienza dal Moretti-Costanzi, decli-na in maniera pienamente consonante la stessa distinzione che vigeva nel sistema parmenideo; la distinzione cioè tra la suggestione dell’essere disteso e manifesta-to all’occhio del filosofo in maniera rivelativa e la cruda oggettività, meritevole sempre di opinione, che si attua nel mondo della ordinarietà. Nell’immagine parmenidea l’uomo, il filosofo, non ha abitazione nell’ordinario; in quel mondo scontato non si dà verità; lì vi è solo un luogo astratto dove ogni individuo ha la sua opinione. Il filosofo – immagine dell’uomo asceso e rapito dal vero – trova solo nella presenza e nella rivelazione della verità il suo luogo di elezione. Reso vero e autentico nella convocazione dell’essere che lo rivela proprio in quel mon-do nel quale è stato rapito dalla divinità, dall’uno.

Non meno nel pensiero paulino. Il mondo redento, giardino e non più luogo di esilio, restituisce la consapevolezza all’uomo del suo dimensionamento persona-le. Il mondo è sempre il mondo della persona. Non si dà mondo senza la persona. Ecco perché nell’ontologismo, alimentato da questo acquisto proprio della tradi-zione antica riletta paulinamente, non si può fare a meno di richiamare alla ne-cessaria edenicità del mondo per recuperare la persona. Questa edenicità e que-sto recupero sono possibili nella riemersione ascetica del pensare che sempre pensa l’essere e nel contempo la possibilità di riemersione della persona alla luce del suo fondamento27.

L’ascesi della mente, che è recupero del pensare nella dimensione rivelativa del vero, comporta quindi il contemporaneo recupero del mondo che fa notarsi in una sensibilità che va di pari passo allo stesso paritetico riconoscimento del vero. Una sensibilità che si istaura solo nell’elevatezza delle mente, della coscienza, che                                                                                                                          27 Sulla edenicità del pensare inutile ricordare che tanto è stato detto nel magistero di Moretti-Costanzi non meno che in quello del Mirri. Recupero del mondo e ascesi infatti sono le condizioni e i risultati al contempo di questo cammino di purificazione del pensare a cui il filosofo umbro rimandava. Una lezione che nel Mirri si applica decisamente alla dinamica del pensare dell’essere e della metafisica nella quale viene rintracciato il percorso di esplicazione storico del medesimo veritativo e ontologico. Rimando a T. Moretti-Costanzi, La terrenità edenica del Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica, intr. e cura di E. Ghini, Armando, Roma, 2000. Oggi in Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano, 2009. E. Mirri, La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma, 1979 e Pensare il Medesimo I, a cura di F. Valori e M. Moschini, ESI, Napoli, 2006.

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si muove all’esperienza di una bellezza che è ad un livello raro e mistico che non può darsi sul livello limitato della secolarità. Inutile ricordare che la bellezza, non meno della verità e della bontà sono gli agenti, e i risultati della sapienza che in quanto purificata dalla secolarizzazione che riduce il pensante a mero soggetto, invece invoca la persona singolare che sappia dire in proprio ciò che gli è essen-ziale e la costituisce28. La persona non si raggiunge quindi dal punto di vista della generalizzazione e dell’universalizzazione di una qualsiasi mera definizione di “individualità” ma la si ritrova nella connotazione personalistica della coscienza, nello sforzo del raggiungimento di consapevolezza del sé in confronto alla verità. La persona è esplicazione della unicità dei caratteri della singolarità che si evi-denziano appunto come unici nel riconoscimento sapienziale che ne dà la co-scienza. L’“io” lascia il posto al “me” che implica autentica affermazione di un singolo unico in relazione con altri riconosciuti in un mondo vero e bello e buono al contempo. Mondo ritrovato autentico e reale perché letto nel fondamento e nel senso che da esso discende.

La persona che si esplica come unica è quindi irriducibile alla massa, all’indistinzione; ma anzi egli viene affermando inevitabilmente una timbratura attestante la sua rara ed unica bellezza che non vuole semplici aggregazioni, ma affiliazioni, comunità, societarietà, coniugalità che sono cioè marche dell’incontro significativo. La persona si fa riconoscere quindi come indispensabile-eterna-unica solo nella sua elevatezza coscienziale che appunto è sapienza, che è dinami-smo della triformità della coscienza ove vero-bello-buono rimandano all’esperienza dell’unicum su cui riferisce e riflette lo stesso pensare. Una “mania divina”, rivelativa della verità, direbbe Platone è la sola che consente di accorgersi di una nuova terra oltre la terra della somaticità. Questa appare come la scoperta di un mondo assolutamente comunicabile, ma comunicabile solo nella forma del-la poesia che appunto del mondo e della persona ha fatto il suo contenuto espres-sivo.

L’eredità di questo patrimonio intimo che si fa socievole ed eloquente è indu-bitalmente affidato al pensare, alla filosofia che è tale in quanto attesta questa realtà. Non c’è filosofia senza verità, non c’è filosofia senza il pensante che è tale in quanto è attestazione dell’accorgimento del mondo e della persona nella verità. Un cammino ascetico e di immersione nel reale più reale del mondo. Una soterio-                                                                                                                          28 Non un caso che Anselmo parlando di Dio lo dica Summe Sensibilis, nel senso di un recupero estetico che sarà spesso richiamato nella tradizione cristiana. Basti pensare al pensiero del Quat-trocento italiano e di particolare al più grande teorico di quel tempo il Ficino che insieme a tutti le voci immense del pensiero umanistico hanno gettato le basi per la più grande riforma nel bello dell’umanità. Impensabile tale riforma fuori del recupero ascetico veritativo del bello proprio del platonismo cristiano.

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logia, una salvezza del pensare dalla umbratilità, dalla dimensione somatica, dall’opinione.

La filosofia ci parla di se stessa, ma parlandoci di se attesta anche di un nuovo autentico modo di esperienza. La filosofia ci parla dell’ulteriore nel quale siamo inevitabilmente fondati e spesso dimentichi. La filosofia è appunto platonica-mente memoria del ciò che sussiste per sempre e da sempre come quella mede-simezza espressiva del sé che noi siamo. E siamo in quanto la nostra stessa esi-stenza non sarebbe leggibile se non letta nella coscienza che si riconosce aperta sul vero. Ebbene la filosofia per questo è sempre un trascendere che in sé com-prende.

Ma parlare del recupero del mondo nell’ascesi della mente non vuol dire solo riparlare del mondo ma vuol dire parlarne sacralmente ovvero parlarne nel fon-damento di verità, che è Dio. Questa è la grande lezione metafisica che discende dalla tradizione ontologica e che segnatamente è condivisa da quanti del tema Dio hanno fatto il loro tema e il loro orizzonte di pensiero. Non v’è da citare solo il quadro filosofico marcato teologicamente dal cristianesimo nel nostro Occiden-te, con tutte le correnti di pensiero filosofico animate dal recupero estetico del mondo che vanno dal pensiero medievale fino ai nostri giorni29; certamente più alta tra tutte la timbratura inconfondibile del Cantico biblico a cui fa eco la poesia vibrante di Francesco d’Assisi, ma si dovrebbe anche dire di quella metafisica ri-corrente che di Dio come fondamento del pensare proprio non può fare a meno. Basti pensare alla delineazione del filosofare come ciò che incipit a Deo in Spino-za per esempio. In questo pensatore la natura stessa è detta nel suo principio e quindi della natura se ne può dire solo teologicamente.

La sacralità di questo dire sul mondo - va detto subito - dipende però di certo dall’esperienza della bellezza che spira dal desiderio del mondo nuovo e dei cieli nuovi che ci sono promessi sempre nell’esperienza del nostro proprio se stesso. Ma a questo punto mondo e persona sono inscindibilmente legati a Dio come lo-ro principio che ne sostanzia la pensabilità. Ma possiamo pensare un principio che non entri in relazione con i singoli? E questo non implica una personalizza-zione di Dio perché si attui relazione?

                                                                                                                         29 Inutile ricordare le scuole monastiche cistercensi o francescane che del tema della ambientalità e mondanità avevano fatto il centro della loro riflessione. Ma che dire di von Bathasar oppure di R. Guardini? In questi giganteschi pensatori del Novecento non sono mancate riflessioni a fondo condotte sul tema del mondo.

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Ontologia del virtuale, intelligenza collettiva e repubblica delle menti Furia Valori

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Ontologia del virtuale, intelligenza collettiva e repubblica delle menti in Pierre Lévy Furia Valori Ontology of Virtual Reality, Collective Intelligence and Republic of Minds in Pierre Lévy The reflection on virtual reality proposed by Pierre Lévy presents important comments in terms of ontology and hermeneutics. The French thinker takes an original approach to the relationship between the single subject and the “collective intelligence”, proposing a manifesto of the “republic of minds”, offering important clues regarding the ethics of knowledge. Keywords: Ontology, Virtual Reality, Collective Intelligence, Republic of Minds. ***

Polisemia del virtuale L'utilizzo crescente della tecnologia digitale e in particolare dei social network

nella relazione personale e comunicativa, nella condivisione delle conoscenze e competenze, nella realizzazione di attività economiche, sociali, politiche e culturali, sta realizzando non solo un ampliamento dell'esperienza umana, ma anche una sua trasformazione. Questo sviluppo esponenziale e creativo dell'ambiente virtuale e la sua penetrazione negli altri ambienti rende urgente e giustifica anche una riflessione teoretica sul virtuale a livello ontologico e sulla sua incidenza riguardo alla elaborazione culturale e alla relazione interpersonale. Le meditazioni filosofiche fino ad ora prodotte sul virtuale o sottolineano le conseguenze negative, apocalittiche, dell'imporsi dei media e della tecnologia digitale, o danno una lettura ottimistica dell'imporsi del virtuale, non affrontandone adeguatamente le conseguenze in sede ontologica, ermeneutica ed etica, o cercano di intendere e regolare il novum ontologico del virtuale alla luce di categorie filosofiche tradizionali, con il rischio di perderlo.

Nell'ambito delle concezioni apocalittiche la questione ontologica viene

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espressa in chiave etico-giuridica; così, di “delitto perfetto” parla Baudrillard che sottolinea l’incidenza negativa dei media e del virtuale rispetto alla realtà naturale e personale, in quanto il loro dominio ha condotto alla dissoluzione del mondo reale nella presenza sullo schermo, che accentra, assolve e dissolve tutto in sé1. Il dominio dei media e poi del virtuale costituisce per Baudrillard una situazione di non ritorno, per cui il reale sprofonda in un immaginario da lui ritenuto fondamentalmente imperfetto: una “risoluzione anticipata” del mondo per clonazione della realtà, uno “sterminio del reale”, divenuto ormai un “simulacro”, come ogni discorso umano. In queste indagini ontologiche le problematiche della relazione interpersonale e comunicativa in rete risultano schiacciate dall’irreversibile “delitto perfetto”.

Con le sue analisi “dromologiche” Virilio evidenzia la squalifica dell’umano, dei suoi fini e valori a vantaggio della tecnica e di una ragione strumentale che riduce la persona ad un ibrido derivato dalla sintesi fra uomo e macchina. L’“occhio” unico del nuovo Ciclope restringe nella “scatola nera” la realtà terrestre e la memoria storica, e le dissolve nell’infinita moltiplicazione dei punti di vista2. La conseguenza principale dell’imporsi della tecnologia digitale è la smaterializzazione, la perdita del corpo, la sparizione di ciò che tradizionalmente viene considerato reale, sensibile e corporeo3. Su questa linea Virilio sottolinea il disorientamento causato dalla “velocità” del flusso delle informazioni, conoscenze e immagini: l’“arrivo” ha soppiantato la “partenza”, nel senso che non è più necessario muoversi; la “sedentarizzazione” terminale è la conseguenza dell’imporsi delle telecomunicazioni, del cyberspazio e di un orizzonte “trans-apparente” che sta conducendo ad una “civiltà dell’oblio”, ormai senza passato e senza futuro, in cui il mondo e la materia si dissolvono nella tele-presenza e nella “tele-realtà”. Virilio ha colto e assolutizzato le conseguenze negative di una realtà da lui ritenuta ormai dominata dalla “panoscopia”4; a livello ontologico e antropologico, il superamento della “sparizione” si presenta in lui fondamentalmente come richiesta di un utopistico tornare indietro, come un impossibile recupero di un mondo reale perduto, secondo un’ottica di involuzione.

Importanti riflessioni sono condotte da Pierre Lévy che ha invece evidenziato la dimensione ontologica ed ermeneutica del virtuale5, sottolineandone il ruolo                                                                                                                          1 Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello Cortina ed. Milano, 1998. 2 Cfr. P. Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina ed., Milano, 2000; Idem, La velocità di liberazione, tr. it, Mimesis-Eterotopia, Milano, 2000. 3 P. Virilio, Estetica della sparizione, Liguori, Napoli, 1992. 4 Cfr. P. Virilio, L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina, Milano, 2006. 5 Cfr. P. Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina ed., Milano, 1997.

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essenziale nel processo di “ominazione”; la sua indagine non tematizza soltanto il virtuale contemporaneo, prodotto dalla tecnologia digitale, ma lo concepisce come elemento propulsore del dinamismo della vita e della civilizzazione dell'uomo: ne emerge una polisemia del virtuale che pone in scacco sia una sua lettura rigidamente monocorde in chiave cibernetica sia una sua concezione addirittura illusoria.

Il “quadrivio ontologico”: il virtuale come “risalita inventiva” Ripensando in maniera originale Gilles Deleuze6 e Michel Serres7, e ricolle-

gandosi alla cultura filosofica medioevale, Lévy sottolinea che “virtuale” non è sinonimo di illusorio, immaginario, derealizzato, ma ne rivendica la valenza on-tologica, insieme al reale, al possibile e all'attuale. Infatti, il virtuale è concepito come una “modalità dell’essere”, della “vita”, in relazione dinamica con le altre determinazioni ontologiche8, il cui insieme definisce “quadrivio ontologico”9. Se da un lato afferma che il possibile si oppone al reale e il virtuale all'attuale, tutta-via, nell'approfondire la dinamica interna delle due relazioni a coppia (possibile-reale, virtuale-attuale) sostituisce all'opposizione altre modalità di relazione. In-fatti, Lévy sottolinea anche che il possibile è come il reale, «gli manca solo l’esistenza»; ma la realizzazione di un possibile non è una creazione, poiché non innova10. Invece, il virtuale “non si oppone” al reale ma all’attuale. Mentre il pos-sibile è già “costituito”, il virtuale è “il complesso problematico”, ossia l'intreccio di tendenze che accompagnano una situazione o un’entità qualsiasi, intreccio che richiede una trasformazione: “l’attualizzazione”: anche qui, nell'approfondire il rapporto virtuale-attuale, emerge una relazione non oppositiva. La coppia possi-bile-reale esprime uno stato di stabilità, prevedibilità, ripetizione, mentre la coppia virtuale attuale esprime il divenire, la situazione problematica, ermeneu-tica e creativa. Le determinazioni ontologiche virtuale-attuale fluidificano gli enti, le situazioni, gli eventi nella loro spazio-temporalità e nella loro “forma” o essen-za, quindi nella loro identità, che per Lévy è aperta, in divenire, non prevedibile nelle direttrici di sviluppo11.

Virtualizzare un ente e/o una situazione consiste per lui nell'individuare la problematica generale a cui essi si rapportano, nel farli evolvere nella direzione                                                                                                                          6 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina ed., Milano, 1997. 7 Cfr. M. Serres, Atlas, Flammarion, Paris, 1997. 8 P. Lévy, Il virtuale, cit., pp. 2 ss. 9 Ivi, p. 127. 10 Cfr. ivi, p. 6. 11 Cfr. F. Valori, Virtualizzazione e identità nell'ontologia di Pierre Lévy, in «La nottola di Miner-va», XI, nn. 1-3, pp. 49-52, in www.leonexiii.org.

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aperta dalla “domanda” e nell'orientare la “risposta”12. Possiamo dire che siamo di fronte ad una sorta di inventio, per rispondere alla quale viene sollecitata la creazione di un novum, ossia l’attuale13. Il processo avviato dalla domanda è inar-restabile e nello stesso tempo indeterminato secondo Lévy. Virtualizzare significa trasformare una necessità attuale in una variabile contingente, schiudendo il cammino ad una “risalita inventiva” e ad un processo ermeneutico, che condur-ranno ad una nuova “soluzione”. Il momento ermeneutico che caratterizza il vir-tuale rappresenta l'emergere della “domanda”, del problema che orientano inevi-tabilmente la risposta, la soluzione, l'attuale. Non essendo creazione dal nulla, anche l'attuale ha in sé una dimensione ermeneutica in quanto è anche rielabora-zione, confronto, mediazione con ciò che è messo in discussione. La virtualizza-zione riguarda “ogni forma di vita”, ma la “risalita inventiva” si esalta nell’uomo, nelle sue creazioni culturali e di civiltà, nella continua variazione e moltiplicazio-ne spazio-temporale e ambientale14. “L’irreversibilità” degli effetti sostenuta da Lévy sembra però scontrarsi con le caratteristiche dell’“indeterminazione”, della creatività e dell’interpretazione che dovrebbero potersi esercitare anche retroatti-vamente, quindi pure nell'ottica dell’involuzione, prospettiva che tuttavia è lon-tana dal suo orientamento neo-evoluzionista.

Nell'ultimo capitolo de Il virtuale Lévy riprende la riflessione sul quadrivio on-tologico, sviluppando un interessante confronto fra le quattro cause aristoteliche e il quadrivio, al fine di mostrare e «comprendere la dualità dell'evento e della sostanza emersa tra le righe lungo tutto il corso dell'opera»15. In effetti il filosofo francese è consapevole del fatto che le determinazioni ontologiche delineate fan-no riferimento a due concezioni diverse dell'esistente, una come sostanza, basata sul binomio possibile-reale e l'altra come evento basata sul binomio virtuale-attuale. Nell'ambito di questa ripresa tematica Lévy sottolinea maggiormente la circolarità fra le determinazioni ontologiche, il loro rapporto dialettico, perfino il loro coimplicarsi e la loro compresenza: «Reale, possibile, attuale e virtuale sono quattro differenti modi di essere, ma quasi sempre in atto insieme in ogni feno-meno concreto analizzabile. Ogni situazione vivente mette in atto una sorta di motore ontologico a quattro tempi e non deve mai essere ‘disposta’ in blocco in una delle quattro caselle»16. Proprio l'accostamento, stimolante ma forzato, delle determinazioni del quadrivio alle cause aristoteliche – possibile/causa formale, reale/causa materiale, virtuale/causa finale, attuale/causa efficiente - attesta il

                                                                                                                         12 Cfr. P. Lèvy. Il virtuale, cit., p. 8. 13 Cfr. ivi, p. 15. 14 Cfr. ivi, p. 13. 15 Ivi, p. 4. 16 Ivi, p. 133.

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tentativo di togliere le determinazioni ontologiche da una prima presentazione in cui sembrava prevalere un rapporto interno statico ed escludente, per accentuar-ne invece la valenza dinamica e di sviluppo. E riguardo alla virtualizzazione e alla temporalità connessa, afferma significativamente: «La virtualizzazione esce dal tempo per arricchire l'eternità. Essa è sorgente dei tempi, dei processi, delle sto-rie poiché, pur senza determinarle, essa comanda le attualizzazioni»17. Dal di-scorso levisiano emerge che il motore del divenire della “vita” è il virtuale; ma ciò non vuol dire che esso fagociti le altre determinazioni ontologiche; più che di on-nicomprensività del virtuale18 si potrebbe parlare di una sua valenza germinale, produttiva che non annulla le differenze fra le determinazioni ontologiche; non a caso Lévy si muove consapevolmente fra la sostanza e l'evento nell'intendere le entità, le situazioni e gli accadimenti della “vita”.

L’uscita dal “ci” e la fluidificazione delle opposizioni Sviluppando le argomentazioni critiche condotte da Michel Serres in Atlas, nei

confronti dell'“Esserci” heideggeriano e del suo radicamento nel “ci”19, Lévy in-tende la virtualizzazione come deterritorializzazione, dematerializzazione, poten-ziamento, quindi come una sorta di “esodo” laico verso una Terra Promessa in cui l'uomo sempre più si libera dai limiti materiali e si spiritualizza: una sorta di divinizzazione sempre più tecnologica. La deterritorializzazione, come uscita dal “ci”, per Lévy non costituisce un depotenziamento o un annullamento della di-mensione sensibile ed estetica dell'uomo, ma la progressiva scoperta di ulteriori-tà spazio-temporali, di nuovi ambienti e quindi di nuove possibilità di esperienza. In questo contesto teoretico il virtuale digitale contemporaneo rappresenta la ri-sposta attuale ad un nucleo problematico virtuale costituito dalla richiesta di re-lazioni contemporanee e compresenti a livello universale e di universalizzazione dei risultati della conoscenza. Il neo-evoluzionismo di Lévy sostituisce all'adat-tamento all'ambiente, l’uscir fuori, l’andar oltre la situazione data. Diversamente da Virilio, per Lévy l’esodo dal “ci” vuol dire invenzione e approdo a “velocità qualitativamente nuove”, a dimensioni spazio-temporali “mutanti”; dove Virilio parla di “atrofia dei sensi”, invece Lévy sottolinea positivamente la trasformazio-ne come potenziamento ed estensione; e, di fronte al rischio di sparizione della percezione dello spazio evidenziato da Virilio, Lèvy afferma che non c’è “perdita                                                                                                                          17 Ivi, p. 132. 18 Sottolinea l'onnicomprensività del virtuale rispetto alle altre determinazioni ontologiche A. Fa-bris, in Per un'etica del virtuale, in A. Fabris (a cura di), Etica del virtuale, Vita e Pensiero, Mila-no, 2007, pp. 3 ss. Sul dibattito riguardante l'ontologia lévisiana cfr. G. Lizzi, Ontologia del vir-tuale in Pierre Lévy, in «La nottola di Minerva», X, nn. 1-3, pp. 58-74, www.leonexiii.org. 19 M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.

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della realtà” o del corpo, ma creazione di nuovi spazi e nuove temporalità20. Il nuovo ambiente aperto dalla tecnologia digitale consente un’esperienza intersog-gettiva caratterizzata da modalità di contemporaneità e compresenza che consen-tono a tutti di relazionarsi con tutti gli altri, mettendo in comune potenzialmente tutto ciò che è in rete.

La concezione in fieri dell’identità dell’ente, della situazione, dell’evento, resa possibile in particolare dalle determinazioni ontologiche del virtuale e dell’attuale, comporta in Lévy anche la fluidificazione delle tradizionali antitesi quali quelle di interno-esterno (una sorta di “effetto Moebius”), necessario-contingente, materia-forma, identità-differenza, pubblico-privato, soggetto-oggetto, autore-lettore, centro-periferia, ecc.; tale fluidificazione non richiede l’eliminazione dei due termini, ma fa emergere nuovi rapporti, in cui essi non sono più nella relazione escludente. Con la concettualità hegeliana, che certamente è distante da quella del filosofo francese, e avendo presente la complessità dell’“Aufheben”21 del filosofo tedesco, possiamo dire che in Lévy gli opposti sono tolti, superati e inverati in una superiore unità/relazione. Nonostante l’orizzonte idealistico assoluto e la sistematicità che caratterizzano Hegel, l’accostamento di Lévy al filosofo tedesco non ci sembra fuori luogo per questo aspetto - lo sottolineiamo -, in quanto Hegel ha colto ed evidenziato, più di ogni altro prima di lui, la potenza del negativo, della crisi, del problema come elementi dinamici del divenire dello spirito/realtà; più di ogni altro il filosofo tedesco ha fluidificato gli opposti individuando, di volta in volta, superiori unità.

Il trivio antropologico La virtualizzazione assume in Lévy un carattere, abbiamo detto germinale,

ma non totalizzante, che va oltre il virtuale cibernetico e oltre il virtuale come determinazione ontologica. Infatti, a livello diacronico, vede nel linguaggio la virtualizzazione di ciò che è presente, nella tecnica la virtualizzazione del corpo umano e di ogni altro oggetto utile nell'agire, e nel contratto, con l'amministrazione della giustizia e le istituzioni politiche, la virtualizzazione delle relazioni violente. Nel linguaggio, nella tecnica e nel contratto la virtualizzazione dematerializza, detemporalizza, delocalizza, potenzia e “sostituisce” secondo un’ottica spiritualizzante e liberante. La stessa economia rappresenta un luogo fondamentale della virtualizzazione, basti rinviare alla dimensione sostitutiva e potenziante del denaro. A livello sincronico Lévy dà un’interessante e personale                                                                                                                          20 Cfr. P. Lévy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 148. 21 G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Roma-Bari, 1975, §§ 79-82.

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interpretazione del “trivio”, mostrando ancora una volta la sua costante attenzione alla cultura classica e medioevale; infatti non si rapporta negativamente nei confronti della tradizione, ma pone in atto una mediazione, un dialogo costruttivo con essa22. Individua nella grammatica, nella dialettica e nella retorica il “trivio antropologico”, ossia le tre operazioni invarianti della virtualizzazione nell’ambito dell’ominazione; grammatica, dialettica e retorica si succedono solo a livello espositivo, in realtà, esse operano simultaneamente e sono stimolate dalla retorica, della quale Lévy dà una personale rilettura. La grammatica individua elementi di base e li organizza in sequenze, mentre la dialettica opera sostituzioni e corrispondenze, ad esempio dei discorsi con la realtà; invece la retorica si esplica in maniera creativa aprendo, mediante la problematizzazione e la risalita inventiva, a nuovi valori, a nuovi centri ontologici. La retorica di cui parla Lévy è una sorta di “esplosione ontologica informe” come creazione che va “al di là” dell'ordine costituito, dell’utilità e della “verità”23. È importante sottolineare la reinterpretazione e il capovolgimento operati da Lévy del tradizionale rapporto fra dialettica e retorica, in cui la dialettica è ricerca della verità, mentre la retorica è arte della persuasione, anche indipendentemente dalla portata veritativa dei discorsi. Anche se in Lévy la dialettica è il momento della comunicazione e del confronto con l’altro sulla verità del mondo oggettivo espresso nel discorso, tuttavia la retorica rappresenta l’attività superiore che muove la situazione o l’“entità”, avvia la “risalita inventiva” che pone in discussione la concezione dominante della verità e dei valori, produce nuove elaborazioni culturali e quindi un avanzamento di civiltà. La superiorità della retorica sulla dialettica esprime in Lévy la messa in discussione di una concezione statica della verità, dei valori, del senso e dell'identità. Nel momento retorico la risalita inventiva, caratterizzata dalle dimensioni ermeneutica e creativa, dalla virtualizzazione e dall'attualizzazione, è concepita come un progresso caratterizzato da una intrinseca razionalità che si esprime come dematerializzazione, potenziamento, sostituzione, spiritualizzazione, tensione a relazioni intersoggettive sempre più volte al rapporto contemporaneo di tutti, con tutti, su tutto, in chiave democratica ed emancipativa. Queste sono caratteristiche costanti nel filosofo francese e la creatività che caratterizza la “vita” si esalta in maniera eminente nella                                                                                                                          22 È opportuno rimarcare la sottolineatura della dimensione ermeneutica del virtuale compiuta da Lévy, il suo evidenziare la dimensione dialettica di domanda e risposta, il suo valorizzare la tradi-zione secondo una relazione creativa, il non conclusivismo, il rifiuto di una concezione totalizzan-te dell'elaborazione culturale: tutto ciò lo avvicina all'ermeneutica gadameriana, nonostante la diversità dell'orientamento filosofico di fondo, cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1994. 23 P. Lévy, Il virtuale, cit., p. 86.

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realizzazione di esse. Ma questa direzione della retorica e, più in generale del processo di ominazione, non si concilia con l'“indeterminazione” della “risalita inventiva” o, forse, proprio l'espressione di “risalita inventiva” tradisce, in realtà, la presenza di una direzione e di un verso nella “vita”.

Soggetto, intelligenza collettiva e oggetto culturale Il rapporto circolare delineato da Lévy fra il soggetto nella sua singolarità,

l'“intelligenza collettiva” e l'oggetto culturale offre importanti elementi di riflessione su come e perché le determinazioni ontologiche del “quadrivio” e quelle antropologiche del “trivio” operino nel mondo umano.

L'intelligenza collettiva costituisce, secondo Lévy, una sorta di “macropsichismo” sociale, intersoggettivo, caratterizzato da quattro dimensioni complementari: uno “spazio” di associazioni, connessioni, reti, indirizzi, percorsi, in costante trasformazione e in rapporto con le altre dimensioni; una “semiotica” come sistema di segni, immagini, tecniche e forme che circolano nella connettività dello “spazio”; una dimensione assiologica, che qualifica positivamente o negativamente le rappresentazioni e il senso nello spazio psichico; e infine la dimensione “energetica” degli affetti, in connessione con l'aspetto valoriale, segnico e spaziale psichico24. Il megapsichismo si riproduce e vive secondo diverse scale di grandezza, dal singolo individuo, ai gruppi e alle società più o meno estese. In tale psichismo sociale Lévy sottolinea molteplici operazioni quali: agire sulle reti della connettività, nel senso di creare, aprire o chiudere, facilitare o rallentare la trasmissione di informazioni, comunicazioni ecc. nei più diversi settori; conservare, cambiare o creare sistemi di segni, immagini, tecniche, lingue (è questo l'ambito delle scienze, delle tecniche, dell'industria, delle arti/mestieri, ecc. ); e ancora creare, cambiare o conservare i valori, i “tropismi”, gli “affetti sociali” (è l'ambito dell'educazione, della religione, della filosofia, della morale, dell'arte, del diritto, ecc.); e infine l'importante gruppo di operazioni riguardanti l'intensità degli affetti, ossia modificare, aumentare, diminuire questi ultimi in relazione ai contenuti e alle attività delle altre dimensioni dell'intelligenza collettiva.

Il megapsichismo così articolato dell’intelligenza collettiva costituisce per Lévy un aspetto dello psichismo umano e, storicamente, ha assunto forme diverse, nelle quali però, più frequentemente, la determinazione universale, collettiva, ha dominato sul particolare, ossia sul soggetto singolo offuscandone o anche annullandone, la creatività, la fantasia, la capacità interpretativa, la libertà

                                                                                                                         24 Ivi, p. 60.

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di iniziativa e di ricerca. Lévy fa esplicitamente riferimento allo “spirito oggettivo” hegeliano, come esempio di intelligenza collettiva che orienta e sottomette i singoli; a questo proposito, dobbiamo sottolineare che il megapsichismo levisiano rappresenta una sfera molto più ampia di quella hegeliana dello spirito oggettivo, in quanto, con le dovute differenze di fondo, oltre allo spirito oggettivo, l'intelligenza collettiva ricomprende in sé anche le tematiche dell'arte, della religione e della filosofia e persino la dimensione affettiva comune e le connessioni. Invece, come esempio positivo di rapporto in cui è stimolata e potenziata la capacità critica, inventiva, interpretativa dei singoli, indica i gruppi di intellettuali borghesi e le comunità scientifiche, emendandoli dai limiti dell’elitarismo. L'intelligenza collettiva è un universale culturale aperto, non totalizzante, con il quale il singolo può instaurare una relazione circolare di mutuo potenziamento e accrescimento25; siamo perciò lontani dal tipo del rapporto fra i singoli e il soggetto assoluto hegeliano, per il quale essi costituiscono i “mezzi” per la sua realizzazione razionale.

La creatività dell’uomo si realizza in maniera eminente nella produzione di oggetti antropologici; infatti, diversamente dalle “prede” degli animali, gli oggetti antropologici sono fatti non per essere distrutti, ma per stimolare sempre nuove attualizzazioni, interpretazioni e invenzioni; tali sono, abbiamo già visto, le più diverse produzioni ed elaborazioni culturali e della civiltà. Sono molto stimolanti le riflessioni di Lévy su quei particolari oggetti antropologici rappresentati dalle opere d’arte e dalle elaborazioni filosofiche e religiose, ossia le espressioni più alte dell'attività retorica, perché forniscono importanti considerazioni sulla motivazione profonda delle virtualizzazioni della storia e del darsi delle determinazioni ontologiche del quadrivio. Infatti, alla base dei motivi per la creazione di tali oggetti antropologici c'è la motivazione profonda e articolata della “lotta” contro la “fragilità”, il “dolore” e la “morte” e della ricerca della “sicurezza”26. La causa prima e inquietante, dobbiamo sottolineare delle produzioni dell'arte, della religione e della filosofia, da lui viste come potenzializzazione della virtualizzazione, ossia virtualizzazione della virtualizzazione, è costituita dalla paura del dolore e della morte: da qui la fuga verso “centri ontologici stabili”. Tutto ciò illumina ulteriormente il senso della polemica nei confronti di Heidegger e del suo concepire l’uomo come “Esserci” (Dasein), radicato nel “ci”, la cui autenticità consiste nel riconoscimento della finitezza, nell’assunzione consapevole dell’“esser-per-la-morte”. La virtualizzazione e l’attualizzazione rappresentano in Lévy l’uscita dal “ci”, come andare al di là dell’“esser-per-la-morte”, verso nuovi centri di gravità ontologica                                                                                                                          25 P. Lévy, L'intelligenza collettiva, cit., pp. 214 ss. 26 P. Lévy, Il virtuale, cit., p. 71.

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“non minacciati”. Evasione destinata tuttavia “alla scacco”, in quanto la fragilità, il dolore e la morte caratterizzano la vita in generale e quindi la condizione umana. A questo proposito dobbiamo osservare che se la morte appartenesse costitutivamente all’uomo senza ulteriori prospettive, essa dovrebbe essere accettata, senza porre in essere costitutivamente attività per evitarla; se la finitezza facesse parte della vita, senza alcuna avvertenza dell’eterno, l’uomo non dovrebbe cercare e creare oggetti e teorie caratterizzati da centri di gravità non minacciati, stabili. Invece, proprio il movimento circolare di grammatica, dialettica e retorica – che ha il fondamento nella circolazione delle determinazioni del quadrivio ontologico – attesta, al di là delle intenzioni di Lévy, che l’uomo non è solo limite, finitezza, processualità, ma anche tensione-méta, avvertenza dell'infinito; non solo la fuga dalla morte, ma anche questi altri aspetti lo costituiscono e spiegano le sue creazioni più alte27. In realtà, il “detto” di Lévy – non il non “detto” –, manifesta la presenza di un nucleo concettuale che può essere elemento di messa in discussione dell'orizzonte di finitezza secondo cui è da lui concepita la “vita” e l'uomo. A questo proposito, ci sembra opportuno riprendere un passo importante sulla virtualizzazione e sulla temporalità connessa: «La virtualizzazione esce dal tempo per arricchire l'eternità. Essa è sorgente dei tempi, dei processi, delle storie poiché, pur senza determinarle, essa comanda le attualizzazioni»28.

La repubblica delle menti Nell'età contemporanea il “cyberspazio” rappresenta per Lévy l’oggetto

antropologico per eccellenza, che può connettere ogni soggetto con tutti gli altri, su tutto, in maniera creativa, quale oggetto-legame, induttore di intelligenza collettiva29. Proprio il “cyberspazio” potrà consentire la realizzazione di quella “repubblica delle menti” prospettata da Lévy quale ideale a cui tendere; in essa i soggetti esaltano la propria capacità interpretativa e creativa in un rapporto libero, stimolante e circolare con l'intelligenza collettiva. A questo proposito è intereressante il riferimento fatto da Lévy alla figura del mago e a quella dello stregone: il primo incarna colui che dialoga, propone, tesse relazioni, esprime e favorisce la creatività; il secondo vive per il potere, il dominio e il controllo con ogni mezzo degli altri, il suo scopo è di soffocare la creatività e la bellezza30. Le                                                                                                                          27 Sulla tematica della fuga dalla morte e dal dolore come motivazione profonda della virtualizza-zione cfr. F. Valori, Virtualizzazione e identità nell'ontologia di Pierre Lévy, in «La nottola di Minerva», XI, nn. 1-3, pp. 49-52, www.leonexiii.org 28 P. Lévy, Il virtuale, cit., p. 132. 29 Ivi, p. 122. 30 P. Lévy, Cyberdemocrazia, Mimesis, Milano, 2008, pp. 196 ss.

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parole che Lévy dedica alla repubblica delle menti costituiscono un vero e proprio manifesto del corretto rapporto fra soggetto singolo e intelligenza collettiva, un manifesto delle relazioni intersoggettive ideali nell'ambito dell'elaborazione culturale, della comunicazione e della libertà di ricerca:

«Formulo qui l'ipotesi che le tecniche di comunicazione contemporanea potrebbero rimettere

in gioco l'antica distribuzione antropologica che condannava le collettività allargate a forme di organizzazione politica assai distanti dai collettivi intelligenti. / Perché il 'mondo della cultura', nel senso borghese del termine, ovvero i gruppi umani che hanno prodotto e apprezzato la filosofia, la scienza, la letteratura e le arti, ha esercitato il suo fascino tanto a lungo? Forse perché nella sua forma elitaria e imperfetta, si avvicina a un ideale di intelligenza collettiva»31.

In questo contesto Lévy focalizza l’attenzione in maniera preminente verso i

valori, le norme sociali e le regole di comportamento che favoriscono la creatività culturale, l'elaborazione delle conoscenze e l'informazione ai fini di una loro gestione democratica:

«Ecco alcuni dei valori, norme sociali e regole di comportamento considerati per governare

(idealmente) il mondo della cultura: valutazione permanente delle opere da parte dei pari e del pubblico, reinterpretazione costante della tradizione, rifiuto della giustificazione d'autorità, spinta ad arricchire il patrimonio comune, cooperazione competitiva, educazione continua del gusto e del senso critico, valorizzazione del giudizio personale, ricerca della varietà, incoraggiamento della fantasia, dell'innovazione e della libera ricerca»32.

L'attenzione alla tradizione e alla cultura, il rivendicare la libertà di pensiero e

di ricerca, non solo per gli intellettuali e per gli scienziati, ma per tutti, l'indipendenza nei confronti dell'autorità, si coniugano in Lévy da un lato con la critica nei confronti di un sapere parcellizzato e compartimentato, dall'altro con la critica nei confronti dell'erudizione sterile, chiusa in se stessa: «Molti problemi cruciali del mondo contemporaneo cominceranno a trovare una soluzione quando ci si sarà impegnati a mettere in atto un funzionamento ‘erudito’ al di fuori dei settori specialistici e degli ambiti ristretti in cui generalmente viene relegato»33. È importante il richiamo ad una cultura capace, possiamo dire, forse azzardando, di coniugare l’ésprit de géométrie con l'ésprit de finesse, in chiave democratica, comunicativa e di libertà intellettuale:

«Uno dei segni più positivi - osserva Lévy - della prossimità tra questo mondo della cultura e i

collettivi intelligenti è il suo impegno (di principio) a prescindere dal potere. L'ideale

                                                                                                                         31 P. Lévy, Il virtuale, cit., p. 112. 32 Ibidem. 33 Ibidem.

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dell'intelligenza collettiva non è trasmettere le scienze e le arti all'insieme della società, squalificando in tal modo altri tipi di conoscenza e di sensibilità, ma piuttosto riconoscere che è la varietà delle attività umane, senza esclusioni, a poter e dover essere perseguita, trattata, vissuta come 'cultura' nel senso che abbiamo appena evocato. Di conseguenza, in una repubblica delle menti, ogni essere umano potrebbe e dovrebbe essere rispettato al pari di un artista o di uno studioso»34.

Anche se un tale programma può sembrare una “utopia”, tuttavia Lévy

sostiene che proprio oggi, in virtù dell'evoluzione tecnologica, in particolare del cyberspazio, esso può essere perseguito e realizzato: «Eppure oggi la chiave della potenza economica, politica e persino militare risiede proprio nella capacità di creare dei collettivi intelligenti. Non intendiamo negare l'esistenza delle relazioni di potere o di dominio, cerchiamo solo di definirle per quello che sono, e cioè ostacoli alla potenza. Infatti, una società interamente intelligente sarà sempre più efficiente di una società guidata intelligentemente»35. Il criterio dell'efficienza non ci convince, anche se Lévy sembra utilizzarlo per mettersi dal punto di vista del potere autoritario e non della potenza cooperativa, per far emergere come, in ogni caso, sia più efficiente il collettivo in cui ciascuno – non solo l'intellettuale – venga valorizzato per se stesso e per l'apporto alla dimensione comune secondo una logica circolare di continuo potenziamento reciproco, di cooperazione competitiva, indipendente dall'autorità. Nel manifesto della repubblica delle menti da un lato risulta forte la presenza della questione etica, ma dall'altro sembra circoscritta al mondo della cultura, della ricerca e dell'informazione. Con delle domande retoriche, in cui la risposta sembra evidente nell'ambito dell'alternativa proposta, Lévy cerca di rispondere alle perplessità sollevate in sede etica dal rapporto fra singoli e intelligenza collettiva:

«Il problema non è sapere se si è favorevoli o contrari all'intelligenza collettiva, ma scegliere

fra le sue diverse forme. Emergente o imposta dall'alto? Rispettosa delle particolarità o normalizzante? Che valorizzi mettendo in sinergia la diversità delle risorse e delle competenze o che le squalifichi in nome di una razionalità o di un modello dominante?»36.

Per questo la “repubblica delle menti”, con i suoi valori neo-illuministi, resta in

un alveo fondamentalmente conoscitivo; possiamo dire che siamo di fronte ad un'altra forma del soggetto moderno, fondamentalmente gnoseologico, che ha sostituito all'autotrasparenza cartesiana la consapevolezza della complessità di se stesso, della dimensione collettiva macropsichica e del loro rapporto, ma che

                                                                                                                         34 Ibidem. 35 Ivi, p. 113. 36 Ibidem.

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ritiene di poter pervenire a sempre più ampie conoscenze che può condividere e potenziare con tutti, sulla base di una cooperazione competitiva resa sempre più incisiva dalla despazializzazione e dalla detemporalizzazione del cyberspazio.

Riguardo al cyberspazio sottolinea che può esservi un utilizzo, per così dire meccanico, applicativo, che si muove ontologicamente secondo le determinazioni possibile/reale; ma anche una utilizzazione in cui le conoscenze, le competenze e le relazioni, stimolano la creatività e la capacità interpretativa del soggetto alla elaborazione di un novum che entrerà ad accrescere il patrimonio comune dell'intelligenza collettiva. In questo senso la repubblica delle menti non costituisce la fine dello Stato, come del resto non lo costituiscono la repubblica platonica e la repubblica universale kantiana, ma rappresenta un altro Stato, che nasce dalla società ed è al servizio di essa37, sulla base della fluidificazione in chiave democratica delle contrapposizioni fra centro e periferia, governanti e governati. La cyberdemocrazia è esemplata metaforicamente secondo Lévy dalla struttura architettonica di Cnosso, in quanto spazio aperto alla bellezza e alla relazione, e proprio il labirinto attesta l'attività di elaborazione culturale e di creatività; di contro, la fortezza di Micene rappresenta la chiusura, la sfiducia verso l'altro, il potere oppressivo, esclusivo ed escludente38.

Anche nel cyberspazio, pur se il singolo soggetto è solo davanti allo schermo, tuttavia partecipa ad un pensare, sentire e volere insieme, ad un cum-sapere in cui il momento ermeneutico-creativo, abbiamo visto, ha al fondo una tensione verso “centri ontologici stabili”: tensione i cui presupposti non sono stati indagati fino in fondo da Lévy.

                                                                                                                         37 P. Lévy, Cyberdemocrazia, cit., pp. 151 ss. 38 Ivi, pp. 183 ss.; in proposito si veda G. Lizzi, Per un'etica del virtuale, in «La nottola di Miner-va», XI, nn. 1-3, pp. 30 ss., in www.leonexiii.org.