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Avv. Luigi Maria Sanguineti Critica ai “valori” della Costituzione fatta da un reazionario in base agli insegnamenti di Pensatori Tradizionalisti

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Avv. Luigi Maria Sanguineti

Critica ai “valori” della Costituzionefatta da un reazionario

in base agli insegnamenti di Pensatori Tradizionalisti

Prefazione

Il libro si presenta distinto in due parti. La prima – dal titolo Critica ai valori della Costituzione - contiene un esame critico di alcuni, fondamentali articoli della “ Parte prima” e dei “Prinicpi” della nostra Carta Costituzionale. La seconda – dal titolo “Dizionario per l'uomo in rivolta” vorrebbe dare al lettore un orientamente sulla soluzione da dare ad alcune questioni che direttamente o indirettamente interessano l'agire politico. Non tutte, ma quasi tutte le voci contenute nel dizionario, sono tratte da una mia Opera, Dizionario morale – a sua volta ricavata da un mio omonimo libro ormai introvabile che ebbe molti anni fa a pubblicarmi l'editore Giuffrè . Tale Opera può essere letta integralmente in un sito dal nome ( temporaneo, presto verrà cambiato ) di “Ars vivendi in luce et in veritate . Questo sito é visitabile all'indirizzo http//: saper vivere.net – attenzione, digitare tutto l'indiirzzo, anche http ecc, dato che il sito, ancora all'inizio, in Google é difficile trovarlo .Sarò grato a chi mi farà avere osservazioni o aperte critiche scrivendo a [email protected] m . Però chi mi scrive sappia che corre il rischio di essere pubblicato in internet con una mia nota di commento. Questo perché mi pare utile e mi piacerebbe accogliere nel sito sopraindicato una rubrica che apra un dialogo con i lettori sugli argomenti trattati nel libro .

IndiceParte prima- Critica ai “valori” della Costituzione1- Il lavoro come fondamento della Repubblica 2 – Democrazia3- Egalité et liberté4- Pacifismo5 – Rifiuto della apolitia – Dovere di difendere la patria6 – Famiglia – Matrimonio – Figli nati fuori del matirmonio

Parte seconda – Un dizionario per l'uomo in rivolta1 Abbandono a Dio2- Amore3 - Ateismo4- Atti osceni5- Droga6- Eutanasia7- Fatalismo8- Immortalità9- Individualismo10- Laicismo11- Leggi morali12 – Male13 – Omosessualità14 – Patriottismo15 – Pazienza16 – Progresso17 -Servire18- Suicidio19 – Unità del tutto20 – Veridicità21- Virtù e pseudo virtù

Sezione prima

Critica alla Costituzione

( 1 )Il lavoro come fondamento della Repubblica

Il Giovane – Il primo articolo della Costituzione solennemente dichiara : “L'Italia é una Repubblica fondata sul lavoro”.Inteso il “lavoro” in senso ampio , cioé come riferito non solo a un'attività manuale, ma anche intellettuale, (come risulta del resto dal secondo comma dell'articolo 4 che pretende dal cittadino un'attività che “ concorra al progresso materiale o spirituale della società”) questo principio mi pare assolutamente giusto. E' giusto voglio dire che lo Stato conti per la sua salvezza e prosperità sopratutto sulle persone dedite a un lavoro socialmente utile ; é giusto che se Esso debba affidare un incarico, un compito si rivolga soprattutto a chi fa un lavoro utile socialmente e non a chi vive senza lavorare, traendo il necessario per la sua vita solo da eredità, donativi e addirittura elemosine.Tu invece ritieni che lavorare sia un demerito, così come lo ritenevano i nobili nell'ancien regime ?

Il Vecchio . Non dico che chi lavora , cioé compie un'attività sperandone un compenso o almeno un plauso ( per la differenza tra chi lavora e chi liberamente agisce, vedi , nel “Dizionario” la voce Lavoro ) meriti condanna, dico però che neanche merita....la medaglia, non merita cioé, di essere considerato da una Costituzione come un pilastro della società. Se mai potrei accettare che si ritenga un pilastro della società chi compie una “attività libera”, libera cioé da ogni preoccupazione di riceverne un compenso o anche semplicemente una gratificazione sociale : come il pittore che vive in miseria per fare i quadri che a lui piacciono anche se non piacciono alla società, come chi si arruola volontario per fare trionfare un'idea anche se sa che, così facendo, nessun compenso riceverà e nessun onore . Però vero e reale fondamento di uno Stato é il “servo di Dio” , l'uomo di religione : il monaco, l'eremita che , chiusi in una stanza o in una caverna, si elevano alle piu alte vette dallella spiritualità, ecco, loro, sì, sono i pilastri di uno Stato.

Il Giovane – Ma che bene ne riceverà la società da questo loro elevarsi, come dici tu, alle più alte vette della spiritualità ?

Il Vecchio – Ne riceverà il più grande bene; anche se non uno dei falsi “beni” che essa ( idest, la società ) desidera. Ma qui é opportuno che lasci posto alle parole di Swami Vivekananda ( come da me lette a pagina 266 di Jnani Yoga, edito da “Fratelli Bocca”) : “Ad un bambino piacciono i canditi. Facciamo conto che voi stiate facendo delle indagini sull'elettricità. Allora il bambino verrà fuori a chiedervi : “ Ciò che state facendo vi darà la possibilità di comprarmi dei canditi ?”. “No” - risponderete voi. “Allora quale bene farà?” domanderà il bambino. Così, gli uomini chiedono : “Che bene farà questo al mondo ? Ci procurerà del denaro ?”. “No”. “Allora qual'é il bene che apporterà'”. Ecco dunque ciò che gli uomini intendono col “fare del bene” al mondo. Tuttavia la realizzazione religiosa apporta al mondo tutto il

bene possibile”. Sì, perché i grandi e buoni pensieri sono delle realtà e delle realtà capaci di diffondersi nella società viaggiando anche attraverso i muri. Completa infatti il precedente, il seguente pensiero del grande Swami ( che traduco da pag. 317 di “Swami Vivekananda – Entretiens et causeries” editore, Albin Michel ) : “Poche persone comprendono la potenza del pensiero. Se un uomo si ritira in una caverna, vi si chiude, poi vi concepisce un veramente grande pensiero e muore, questo pensiero traverserà le pareti della caverna, vibrerà attraverso lo spazio e finalmente impregnerà tutta la razza umana”. Quindi, anche la società che ha dato i natali al Saggio; che diventerà pertanto più virtuosa e quindi anche più opulenta ( sul rapporto tra virtù e benessere sociale vedi nel “Dizionario” , La legge del Signore ).

Il Giovane- Ma se tutta l'umanità rinunciasse al lavoro per dedicarsi a pensieri divini, non perirebbe ?

Il Vecchio- Se tutti gli uomini, scoprendosi “semidei dormienti” ( come si legge nel Vangelo di San Giovanni ) si risvegliassero e si comportassero da “uomini divini”, gli esseri che sono ora animali diventerebbero, com'erano prima loro, dei semplici uomini e farebbero loro omaggio dei frutti del loro lavoro. Dato che é una legge di natura che l'inferiore dia il nutrimento al superiore ( sul punto rimandiamo sempre alla voce “Lavoro” del “Dizionario” ).

Il Giovane.- Va bene, é sbagliato trovare il fondamento di uno Stato nel lavoro ; ma allora, in che lo si deve trovare ?

Il Vecchio- Lo si deve trovare nella sottomissione a Dio : “Lo Stato italiano si fonda sul più assoluto e totale abbandono al volere di Dio” : ecco come dovrebbe suonare il primo articolo della nostra Costituzione.

Il Giovane – Così come é detto nella bella perghiera insegnataci da Gesù, il Cristo : “Padre nostro che sei nel cielo sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra”.Sì, ma l'uomo occidentale, non vuole sottomettersi, vuole vincere, vuole affermare la “sua” volontà.

Il Vecchio : Ma questo é il punto : qual'é la “sua volontà”. Ognuno di noi ospita in sé, non una, ma decine e forse centinaia di “persone”. E' stato detto che in ogni individuo , c'é , non un solista, ma un'orchestra. E purtroppo un'orchetra i cui componenti suonano ognuno per conto suo : una persona dentro di Te, vorrebbe, metti fare lo scrittore, e un'altra dice “No, preferisco un buon impiego statale, che mi permetterà di condurre una vita serena e tranuqilla” e così via. Ora dimmi, in tale situazione, qual'é la “tua” volontà ? In realtà, illudendoti di affermare la tua volontà, tu non fai altro che attuare la volontà di una delle tante personalità che vivono in te ; la quale non é detto che voglia il tuo vero bene. Solo sottomettendoti alla volontà di Dio Tu attui la volontà di chi vuole e sa volere il tuo vero bene ( sul punto Ti rinvio alla voce “Abbandono a Dio” del “Dizionario” ).

Il Giovane.- Ma l'insegnamento di sottomettersi a Dio, non finirà per rendere vile e rammollita una popolazione ?

Il Vecchio – E forse che erano rammolliti e vili i Romani ? Eppure essi ponevano a fondamento del loro agire la sottomissione al volere della Divinità.Plutarco ( Marc. IV; confr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Fratelli Bocca Editori, 1951,p.195 ) riferisce che i Romani “ non permettevano di tralasciare gli auspici neanche al prezzo di grandi vantaggi, perché per la salvezza della città ritenevano cosa più importante che i consoli venerassero le cose sacre che non essi vincessero il nemico”. Dopo la battaglia del Trasimeno, Fabio dice ai soldati : “La colpa vostra é più di aver negletto i sacrifici e di aver disconosciuto gli avvertimenti degli Auguri, che non di aver mancato di coraggio o di abilità” ( cfr. sempre Evola, ibidem ). Ed Evola ci ricorda ( Op. cit., p.195 ) che per i Romani “era poi un punto di fede, che una città non potesse venir presa, se non si facesse sì che il suo dio tutelare l'abbandonasse. Nessuna guerra si iniziava senza sacrifici e un collegio speciale di sacerdoti – i fetiales – era incaricato dei riti relativi alla guerra. Il fondo dell'arte militare dei Romani era di non essere costretti a combattere quando gli dei fossero stati contrari”.Eguale a quella dei Romani era il pensiero dei Greci : é di Temistocle l'affermazione : “Non noi, ma gli dei e gli eroi hanno compiute queste imprese”.La verità é che la sottomissione a Dio, non solo non rende vili e rassegnati, ma é fonte di ogni virtù e in principale luogo delle virtù del coraggio e della veridicità, senza le quali uno Stato non può reggersi ( vedi le voci “Coraggio” e “Veridicità” del “Dizionario” ).

2L'Italia é una Repubblica democratica

Il Giovane – Il primo comma dell'articolo uno della Costituzione, non dice solo che lo Stato italiano é fondato sul lavoro, ma anche che é una “repubblica democratica”. Trovi nulla da criticare in ciò ? Per cominciare, trovi preferibile un regime ispirato alla democrazia o alla aristocrazia ?

Il Vecchio – Prima di risponderti occorre chiarire la vera differenza tra regime democratico e regime aristocratico.Questa differenza non va vista nel fatto che nel primo tipo di regime governano i “molti” ( il popolo) e nel secondo tipo i “pochi”, i “migliori”. Questo per la semplicissima ragione che non si può pensare che i “molti” possano prendere decisioni che presuppongono conoscenze che rientrano solo nel sapere di pochi ( per riferirci ad una decisione che lo Stato italiano deve prendere in questi giorni in cui scrivo : per decidere se mandare dei soldati in Libia , occorre sapere : chi governa in Libia; se chi governa in Libia avrebbe la possibilità di bloccare il flusso di emigranti in Italia; qual'é l'efficienza dell'esercito libico; qual'é l'efficienza dell'esercito italiano - tutte cognizione che appartengo al sapere di pochi specialisti in politica estera e no a quisque de populo ). Cosa per cui é giocoforza che i “molti” deleghino i poteri di decisione a “pochi”, naturalmente scegliendo questi “pochi” tra le persone che danno garanzia di prendere le decisioni migliori, in definitiva scegliendoli tra i “migliori”.

Il Giovane.- Allora che cosa é che fa la differenza tre democrazia e aristocrazia.

Il vecchio - La diversa scala di valori accettata nell'uno e nell'altro regime.

Il Giovane – Chiarisci

Il Vecchio – In un regime aristocratico – e ben s'intenda io mi riferisco qui a un regime aristocratico ideale, non contaminato ancora per nulla dalla mentalità democratica - il popolo ha l'umiltà di riconoscere di non essere in grado di scegliere i suoi governanti e accetta come tali quelli che ritiene investiti dal Cielo del potere di governarlo. Il Cielo investe del potere di governare il re ( investitura che viene simbolicamente raffigurata dal fatto che la corona viene posta in capo al re da chi rappresenta il poetre spirituale, il sacerdote ) e il re investe a sua volta del potere di governare le persone da lui ritenute più adatte a ciò. Il popolo proprio perché ritiene il re investito dal Cielo, lo vede ornato delle virtù che il Cielo ama e verso di lui ha un rapporto da figlio a padre.

Il giovane - In altre parole in un regime aristocratico i rapporti tra governanti e governati sono caratterizzati da paternalismo.

Il vecchio – Esatto

Il Giovane- E quali sono i valori privilegiati in una società aristocratica.

Il vecchio - Siccome la società si specchia e cerca di imitare i suoi governanti , i valori al top in un regime aristocratico sono quelli della veridicità, della lealtà, del coraggio e dell'obbedienza ( come il re deve essere sottomesso a Dio, così il popolo deve essere sottomesso al re ).

Il Giovane- E invece in una società democratica ?

Il Vecchio – In una società democratica il popolo ha la persunzione di essere capace di scegliere i suoi governanti. E li sceglie infatti, ma inadatto com'é a ciò, li sceglie tra quelli che, mossi dall'ambizione, cercano con intrighi vari di vincere la corsa al potere.Naturalmente il popolo sa di non potersi aspettare dalle persone da lui prescelte né una particolare onestà né una particolare lealtà né un particolare coraggio .

Il Giovane – E quali sono le qualità più stimate in un regime democratico ?

Il vecchio -Al top della scala dei valori in un regime democratico stanno la furberia ( che é il contrario della lealtà) e l'amore dell'indipendenza ( che é il contrario dell'obbedienza ).

Il Giovane.- Ma l'obbedienza, che caratterizza i rapporti tra governati e governanti in un regime aristocratico, a me poi non pare una grande virtù.

Il Vecchio . Certamente non lo é l'obbedienza che nasce dalla paura; ma lo é invece l'obbedienza che é adottata come una autodisciplina, per abituarsi a mettere a tacere i propri personali desideri, i propri personali impulsi, in buona sostanza il proprio egocentrismo. Un'obbedienza che parte dalla considerazione che un successo interiore ( quello del dominio sulla propria personalità ) merita di essere conseguito anche a prezzo di non conseguire un successo esteriore : il generale mi ordina di fare la manova A, so che facendola la battaglia sarà perduta, ma obbedisco lo stesso nella convinzione che, la perdita della battaglia esteriore, poco importa di fronte alla vittoria della battaglia interiore.

Il Giovane – A questo punto é inutile che ti domandi se tu ritieni preferibile un regime democratico o un regime aristocratico : é chiaro che le tue simpatie vanno a questo. Senonché ora pressoché tutto il mondo accetta un regime democratico e un ritorno a un regime aristocratico é chiaramente un'utopia.

Il Vecchio – Io ritengo invece che un ritorno a un regime aristocratico avverrà ( forse tra secoli, forse tra millenni ). Però avverrà solo previo un risanamento morale della

popolazione ; dato che é pur vero che un popolo ha i governanti che si merita. E qui mi piace riportare l'insegnamento di un grande filosofo contemporaneo, Michael Aivanhov ( insegnamento espresso in Le verseau et l'avenemant de l'age d'or, edizioni Prosveta, p. 39 ) : “Se un popolo si migliora, il Cielo gli invierà dei dirigenti illuminati che non gli porteranno che del bene. Ma quando un popolo si lascia andare al disordine, gli invia un tiranno. Ecco le leggi. Perché bisogna sapere che vi sono delle leggi”.

Il Giovane – E aspettando che venga questa età dell'oro, quale sarà il comportamento di chi ha sentimenti aristocratici ? Sarà il comportamento di un ribelle , di un contestatore ?

Il Vecchio – Assolutamente, no. Egli si mostrerà rispettoso e obbediente verso i suoi governanti , dato che é pur sempre vero che Omnis potestas a deo, così come insegnava San Paolo. E si farà forte del seguente pensiero di Aivahnov ( che io traduco da Le verseau et l'avenement de l'age d'or, già citato, p. 219 ) : “I dirigenti politici s'immaginano troppo spesso che il destino di un paese sia nelle loro mani. Può essere, durante qualche tempo, possano avere questa illusione, ma essa non dura molto.Tutti quelli che hanno creduto che tutto dipendesse da essi sono finiti male. I tiranni finiscono sempre male, tagliano qualche testa, e poi é la loro che finisce per cadere in una maniera o nell'altra. Perché in realtà non sono gli uomini – per quanto potenti che possano essere - che dirigono il destino dell'umanità, ma delle altissime Entità che osservano e controllano lo svolgersi degli avvenimenti”

Note(1) Il popolo che pensa di essere in grado di scegliere i migliori, cade , come fa osservare Evola ( in L'errore democratico, a cura del centro studi Kyffause, Torino, p. 22 ) - “nello stesso errore di chi, dopo aver concesso che i ciechi debbono essere guidati da coloro che vedono esigesse che siano i ciechi a decidere chi veda o meno”.

3Egalité et liberté

Il Giovane – L'articolo tre della Costituzione recita : “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.E l'articolo 51 ribadisce : “Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.Quindi per la Costituzione tutti gli uomini sono eguali ; ciò che mi pare assurdo : chi, andando per la strada, subito non distinguerebbe , appunto perché diversi, un uomo da una donna, un cinese da un tedesco ?

Il Vecchio – Tu muovi alla Costituzione un'accusa che questa volta non merita. L'articolo tre, non vuole dire che tutti i cittadini ( bada, tutti i cittadini, non tutte le persone ) sono eguali, ma vuole solo dire che sesso, razza, lingua ecc. non possono essere considerati da una norma presupposti validi per negare o attribuire un obbligo o un diritto : tu, legislatore, puoi imporre obblighi o riconoscere diritti a chi ha una certa qualità ( per fare un esempio banale, puoi riconoscere il diritto a fare il corrazziere solo a chi ha l'altezza di due metri ) ma non puoi riconoscere un diritto o imporre un obbligo a una persona solo perché é maschio o femina : non puoi ad esempio stabilire : “ A questo ufficio le donne non possono accedere in quanto donne”.

Il Giovane – Permittimi una replica : se il legislatore costituzionale riconosce che vi é una diversità tra uomo e donna , dovrebbe anche riconoscere che vi sono casi in cui, riservare lo stesso trattamento giuridico a un uomo e a una donna nonostante questa diversità, significa dare a uno di loro quel che si nega all'altro : se tu alla volpe e alla cicogna metti il cibo su uno stesso recipiente dal collo lungo , tu, come insegna Esopo, dai da mangiare alla cicogna ma lo neghi alla volpe : giustizia é suum cuique tribuere.

Il Vecchio – Ma il fatto é che il legislatore costituzionale parte dal presupposto che non vi sia tra uomo e donna altra diversità di quella palesata dai loro organi riproduttivi ; e questa diversità non sarebbe in effetti tale da giustificare, ad esempio, l'ammissione all'ufficio di giudice di un uomo e la sua interdizione a una donna.

Il Giovane – Quale rozzezza, quale barbarie ! Forse che la donna non é come tale modellata da quella forza misteriosa che i taoisti chiamano Ying e l'uomo non è modellato da quella forza altrettanto misteriosa che é lo Yang?! E queste forze, che plasmano e rendono diversa ogni cosa dell'universo, penetrando in un essere umano

si limiterebbero a modellarlo solo nei suoi aspetti fisici più esteriori senza infuenzare la sua psiche , donandogli, se ying, la feminiltà, e se yang, la virilità ?E soprattutto che avvilimento per la donna: la donna per cui i poeti hanno scritti i loro migliori versi, i cavalieri hanno dedicato le loro più coraggiose gesta, la donna – almeno la donna di razza – che ha sempre posto il suo pregio nella capacità di elevare, col suo abbraccio, l'uomo dalle bassure e dalla monotonia della vita quotidiana, per fargli gustare con l'estasi erotica un po' di nettare e di ambrosia divina, considerata dai nostri Padri Costituenti un essere neutro, solo adatto a macinare scartoffie in sale squallide e buie insieme a un “compagno” ( particolare insignificante, di sesso diverso)!

Il Vecchio – Cero barbarie lo é – una barbarie che la dice lunga sul livello dei nostri padri costituente e in genere dei “costituzionalisti”. Ma passiamo ad altro.

Il Giovane – Sì, parliamo della “libertà”. La Costituzione la considera “inviolabile” : l'articolo 13 precisamente recita : “La libertà personale é inviolabile”. E ciò fa capire come i nostri Padri costituenti considerassero il diritto alla libertà uno dei diritti più importanti dell'uomo se non il più importante. Ma é davvero così importante la libertà per l'uomo ?

Il Vecchio – Ecco la risposta che ti dà Swami Vivekananda ( in Jani Yoga, già citato, p. 88 ) : “Quest'idea della libertà voi non la potete in alcun modo scartare : le vostre azioni e la vostra stessa vita sarebbero perdute senza di essa . Ad ogni momento la natura ci fa vedere che siamo schiavi e non liberi. Ciò nondimeno sorge simultaneamente l'altra idea che noi siamo liberi. Ad ogni passo siamo, per così dire, battuti a terra da Maya, la quale ci mette sott'occhio i nostri vincoli; e tuttavia di pari passo con questa caduta, insieme col sentimento che noi siamo vincolati, si presenta a noi l'altro senso della nostra libertà. Una voce interiore ci dice che siamo liberi. Ma se tentiamo di realizzare tale libertà, di renderla manifesta, ci accorgiamo che le difficoltà sono quasi insuperabili. Malgrado ciò, insistiamo nella nostra asserzione interna : “sono libro, sono libero”.”

Il Giovane – Ma siamo liberi o schiavi ?

Il Vecchio – La risposta che ti deve dare chi crede nell'onnipotenza di Dio ( si ricordi l'evangelico “anche un passero non cade se Dio non lo vuole” ) indubitabilmente é : siamo completamente sottomessi alla volontà divina, tutto ciò che facciamo, tutto ciò che pensiamo, lo facciamo, lo pensiamo perché Dio lo vuole.Sri Ramakrihna insegnava : “Tutto dipende dalla volontà del Signore, tutto é giuoco Suo. Egli ci fa fare in diversi modi cose diverse. Il bene e il male, la grandezza e la piccolezza, la forza e la debolezza, tutto insomma viene da Lui; gli uomini buoni e quelli cattivi non sono altro che la Sua Maya , il Suo gioco, così come gli alberi in un giardino sono diversi per altezza e bellezza. Fintanto che non avrete realizzato Dio, potrete pensare che la vostra volontà sia libera. Ma é lui che mantiene in voi tale

illusione. Senza di che un terribile sviluppo del peccato avrebbe luogo nell'uomo ; non avendo più da temere la punizione dei loro peccati e dei loro delitti, gli uomini spofonderebbero nel male” tratto da “Alla ricerca di Dio”, Ubaldini editore”.

Il Giovane – E' un'affermazione terribile quella che hai letta.

Il Vecchio – No, se rifletti.Infatti riflettendo , in primo luogo ti accorgi che la libertà non é un bene in sé, ma é un bene strumentale, un bene ambito in quanto ci permette di acquisire altri beni. Io voglio essere libero, per andare al cinema, se voglio, per andare in biblioteca se voglio, e così via. Quindi se qualcuno ti garantisse che tu “potrai fare tutto quanto desideri”, anche se ti fosse precluso di fare “le cose che non desideri”, Tu ti riterresti perfettamente libero : il detenuto, che trova chiuse tutte le porte, salvo quella che lo conduce fuori dal carcere, ritiene di avere acquistata la libertà.

Il Giovane – Sì, ma io voglio essere indipendente, libero di scegliere io le porte che debbono restarmi aperte e quelle che possono restar chiuse. Altrimenti sarò in ansia per timore che, colui da cui dipende l'apertura e la chiusura delle porte , non tenga conto dei miei desideri oppure volendo tenerne conto si sbagli sulle porte da tenere chiuse e su quelle da tenere invece aperte : chi del resto non é un po' nervoso quando si trova in una macchina condotta da altri ( e se il conducente non vedesse quell'ostacolo, e se non si accorgesse di quel divieto ?...).

Il vecchio – Quel che tu dici é vero quando tu dipendi dalla volontà di un essere limitato, il quale anche potrebbe non volerti bene, il quale anche potrebbe sbagliare. Ma se tu dipendessi da un Essere che vuole il tuo bene più di quanto tu stesso te ne voglia, che non é soggetto ad errori nel realizzare il tuo bene ? In tal caso le tue precedenti paure non avrebbero ragione di essere e tu ti sentiresti – se mi permesso di copiare una imagine fatta da Ramakrishna per descrivere il samadhi - come un uomo che, dopo aver trascorso una giornata piena di pericoli, tornato a casa sua, prende la pipa, l'accende e finalmente si rilassa . pensando: “Finalmente sono al sicuro”. (1)

Il Giovane – Quindi secondo te solo con una totale sottomissione a Dio, a sua volta originata da una totale fiducia nella sua infinita bontà, trova il giusto appagamento quello che sentiamo come un insopprimibile desiderio di libertà.

Il Vecchio – E' così . Altrimenti , quel che ti procurerà l'uso della tua (illusoria ) libertà sarà solo delusione o peggio ancora ti troverai con un libertà di cui non saprai che fartene ( ti ricordi le parole che Nietzsche pone in bocca a Zarathustra : libero,sì ma “libero per fare che cosa?” ) (2) ( vedi anche la voce “Servire” del Dizionario ).

Il Giovane – Tu hai data la risposta al problema della libertà da un punto di vista filosofico. Scendi più a terra, dammi una risposta, non più filosofica ma politica :ci può essere uno Stato in grado di assicurare ai suoi sudditi una totale libertà ?

Il Vecchio – Certamente, no. E questo perché ogni Stato, se non altro per garantire la sicurezza e la pacifica convivenza dei suoi sudditi, deve porre delle regole di condotta e pertanto dei limiti alla loro libertà. Oppenheim ( in voce Eguaglianza del Dizionario di politica, diretto da Norberto Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, UTET, 1990,p. 1191) : “Molti credono che la democrazia sia “una società libera”. Tuttavia ogni società organizzata é costituita d un'intricata rete di relazioni particolari di libertà e di non libertà ( non esiste nulla di simile alla libertà in generale)”.Unico criterio, per giudicare del grado di libertà che concede uno Stato, in definitiva é : “In questo Stato si può condurre una vita conforme ai comandamenti del Cielo ?” E se la risposta é positiva, anche se le “libertà democratiche” sono negate , si può ritenere quello un buon Stato, uno Stato in cui vi é libertà.

Il giovane : Parliamo ora della libertà di manifestazione del pensiero . Essa viene riconosciuta nell'articolo 21, il quale nel suo primo comma solennemente dichiara : “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.Penso che tu non sarai contrario a questa libertà , che é un irrinunciabile valore della civiltà moderna.

Il Vecchio – In realtà la libertà di manifestazione del pensiero non é un “valore” - anzi un valore può essere combattere in certe circostanze la manifestazione di certi pensieri nocivi alla società. Essa é semplicemente una tecnica, forse la migliore, per combattere il radicarsi nella popolazione di idee errate: un po' come il lasciare crescere l'oglio accanto al grano per poterlo più facilmente sradicare.

Il Giovane – Tu quindi non ammetteresti leggi che ostacolino e puniscano la manifestazione di pensieri.

Il Vecchio – No, non non le ammetterei, le idee é più produttivo combatterle opponendo ad esse altre idee; cercando di soffocarle con la forza si rischia di incrementarle : non fate mai dei martiri , “pas de martyres”, ammoniva il furbo Talleyrand. Ammetterei però la punizione di chi manifesta un pensiero quando tale punizione mira non già a tutelare un'idea ma un altro bene ( ad esempio, il sereno e regolare svolgimento delle loro funzioni da parte dei pubblici ufficiali, com'é nel reato di oltraggio ).Per considerazioni più approfondire rimandiamo alla voce Pensiero ( libertà di ) del “Dizionario”.

(1) Altra imagine usata da Ramakrihna per descrivere lo stato di libertà conseguente al samadhi é quella del pesciolino che liberato dall'amo viene rigettato in acqua : “Che cosa si prova durante il samadhi ? La stessa gioia che prova il pesce ancor vivo gettato di nuovo nell'acqua, dopo esserne stato tratto per qualche tempo”. ( Alla ricerca di Dio, Ubaldini editore , p. 340 ).

2) Merita di essere riportato nella sua integralità il seguente passo tratto da Cavalcare la tigre, del grande Julius Evola ( Editore, Scheiwille,p. 52) : “ In “Zarathustra” si trova, in un noto passo, la formulazione più pregnante dello sfondo della crisi : “ Tu dici libero ? Voglio conoscere i pensieri che in te predominano. Non mi importa sapere se tu sei sfuggito ad un giogo. Sei tu uno di quelli che avevano diritto di sottrarsi al giogo ? Molti sono coloro che gettarono via l'ultimo loro valore nel punto in cui cessarono di servire. Libero da che cosa ? Che importa a Zarathustra questo ? Il tuo occhio deve annunciare, sereno : libero per fare che cosa? E Zarathustra avverte che sarà terribile l'esser soli, senza legge alcuna al di sopra di sé, con la propria libertà in uno spazio deserto e in un'aria ghiaccia, giudice e vindice della propria norma. Per chi solo servendo poteva acquistare un valore, per chi nei vincoli aveva, non qualcosa che lo paralizzava, ma qualcosa che lo sosteneva, la solitudine apparirà come una maledizione, il coraggio verrà meno, l'orgoglio iniziale si piegherà. Vi sono dei sentimenti – continua Zarathustra – che allora assalgono l'uomo libero e che non mancheranno di ucciderlo qualora non sia lui ad ucciderli. In termini precisi, da un punto di vista superiore, qui é dato il fondo essenziale della miseria dell'uomo moderno”.

(4)Pacifismo

Il giovane : L'articolo 11 della Costituzione , nella sua prima parte, dichiara : “ L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (….)”.Ma quand'é che la guerra va considerata “ strumento di offesa alla libertà” di un altro popolo ? Quando é rivolta contro un popolo che vive sotto governanti da lui liberamente eletti, in altre parole quando é rivolta contro un popolo che vive sotto un regime democratico ?

Il vecchio – Questo é da escludere, almeno per due ragioni : perché la Costituzione - come risulta dal primo comma dell'articolo 52 che dichiara “sacro dovere” del cittadino la difesa della Patria – ammette la guerra difensiva, quindi anche la guerra contro uno stato democratico aggressore; perché se l'articolo fosse interpretato nel senso che é esclusa la guerra ( solo ) contro gli stati democratici, si dovrebbe concludere per la legittimità di quasi tutte le guerre coloniali, in primis di quella condotta dall'Italia contro l'Etiopia nel 36 , in quanto quasi tutti i popoli invasi dalle potenze coloniali erano retti da regimi che erano ben lungi da poter essere considerati democratici – il che mi pare non corrisponderebbe assolutamente al pensiero di nessuno dei Padri costituenti.

Il giovane – E allora ?

Il vecchio – Allora tu devi interpretare l'art. 11 nel senso che la Costituzione voglia proibire tutte quelle guerre dirette a costringere con la forza un altro popolo ad un comportamento conforme a quello voluto dal popolo italiano.

Il giovane – Ma, bella questa : tutte le guerre sono tali in quanto implicano un uso della forza per costringere un altro popolo ad un dato comportamento ; e ciò vale anche per le guerre difensive : tu, popolo rosso, invadi me, popolo bianco, e io, popolo bianco, resisto con le armi ( cioé ti faccio guerra ) per costringerti a ritirarti dal mio territorio . Non mi pare molto dotato di logica il nostro legislatore costituzionale. Ma veniamo a un'altra affermazione dell'art. 11 che mi é difficile capire : il “ripudio” della guerra “ come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” : metti che il popolo rosso compia un sopruso contro il popolo italiano : noi , popolo italiano, proponiamo un arbitrato internazionale, e il popolo rosso non l'accetta : noi dobbiamo subire il sopruso ? In tale ordine di idee allora si dovrebbe ritenere illegittima anche la guerra difensiva. Il che non é. A me pare che limitare la liceità della guerra solo a quella difensiva sia o un'assurdità o una illogicità.

Tl vecchio – Certamente é una illogicità. Dato che, una volta ammessa la guerra difensiva, logica vorrebbe che fossero ammesse la guerra di un popolo per procurarsi uno spazio vitale, cioé quelle materie che potrebbero permettergli di sfamarsi e di sopravvivere, sia la guerra preventiva. Se non la logica un senso di dignità dovrebbe poi portare ad ammettere la guerra umanitaria.

Il giovane – Per quel che riguarda la guerra preventiva sono d'accordo con te : il popolo italiano sa che il popolo rosso aspetta solo una buona occasione per aggredirlo e nel frattempo sta mettendo sotto pressione le sue fabbriche per produrre armi micidiali : é evidente che l'unica possibilità per il popolo italiano di sfuggire a tale prossima aggressione é di prevenirla invadendo il territorio del popolo rosso e distruggendo le sue fabbriche : chiaro che sarebbe illogico ritenere illecito che il popolo italiano usi di tale possibilità e ritenere invece lecito che resista con le armi ( ma, ahimè, con poche speranze ormai di vittoria ) quando il popolo rosso invaderà il suo territorio.Dunque, sì, alla guerra preventiva. Ma perché la logica vorrebbe che si dicesse “sì” anche alla guerra per procurarsi uno spazio vitale ?

Il vecchio .- Ma é evidente : se tu dici, “Sì, lo Stato italiano, fa cosa giusta a resistere all'invasione del popolo rosso che vuole impadronirsi delle sue materie prime ( del suo petrolio, del suo grano....), dato che senza tali materie prime il povero popolo italiano non sopravviverebbe ( o non potrebbe condurre quella vita serena e dignitosa che ogni governante ha il dovere di assicurare al suo popolo )” ; non puoi, poi, non dire “sì” allo Stato italiano che invade il territorio rosso che ha una sovrabbondanza di materie prime ( che non sa utilizzare convenientemente ) per prenderne una parte e darla al popolo italiano che senza tali materie prime non sopravviverebbe ( o non potrebbe condurre quella vita serena e dignitosa ecc. ecc. ).

Il giovane - Bene, allora diciamo sì oltre alla guerra preventiva anche a quella fatta per assicurarsi uno “spazio vitale” ( ma ahimé la lista delle guerre si allunga sempre più e quindi si offrono sempre più possibilità ai popoli mentitori e prepotenti di fare, sotto false giustificazioni, guerre predatrici !). Ma tu sembri giustificare non solo le guerre che uno Stato fa per tutelare direttamente o indirettamente il suo popolo : Tu ammetti anche le guerre umanitarie, le guerre fatte per la tutela di un altro popolo.

Il vecchio . Dimmi un po' : se tu vedi nella strada un bruto che maltratta sua moglie , non ritieni tuo elementare dovere intervenire a difesa della donna ; oppure dici “Non sono fatti miei” e lasci che l'uomo la uccida ?!Nell'ovvia risposta positiva sta la giustificazione delle guerre difensive. Del resto la nostra Costituzione viene a dare , se non direttamente, indirettamente, legittimità a questo tipo di guerra.

Il giovane- Da che risulta ciò ?

Il vecchio – Risulta dal suo articolo 10, che recita : “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge “.Ora, siccome tale asilo può esporre la Repubblica al pericolo di una guerra ; ciò

significa che per la Costituzione é lecita una guerra fatta per assicurare la libertà a uno straniero rifugiatosi in Italia. Ma, se é lecita la guerra per assicurare la libertà a uno straniero rifugiatosi in Italia, non si comprenderebbe perché non dovrebbe essere lecita una guerra fatta tout court per assicurare a uno straniero la libertà ( si sia questi rifugiato in italia o gema sotto l'oppressione nel suo paese ).

Il giovane - Ma allora la Costituzione viene a giustificare si può dire ogni guerra, dato che nel mondo civilizzato uno Stato si guarda bene di dire che fa la guerra a scopi predatori, ma sempre la giustifica con nobili motivi : o con la necessità di difendersi , preventivamente o no, da un'aggressione o con la necessità di assicurarare al proprio popolo la sopravvivenza o, dulcis in fundo, con il dovere di difendere da un sopruso il debole contro il forte. Ma allora la guerra é davvero un male ineliminabile ?

Il vecchio – La guerra sarà ineliminabile fino a che l'uomo guardandosi attorno vedrà qualcosa che, a ragione o no, considera “storta” e quindi va “raddrizzata” . Questo perché é insita nell'uomo l'esigenza di modificare il mondo e naturalmente di modificarlo in un senso, che egli ritiene migliore. Solo il saggio per cui “tutto é bene” é realmente in pace e portatore di pace.

Il giovane – Ma non tutte le lotte si fanno per modificare in meglio il mondo : forse che il borseggiatore, che sottrrae all'anziano la sua pensione, o lo Stato, che aggredisce un altro Stato per impadronirsi delle sue ricchezze, agiscono per migliorare il mondo ?

Il vecchio – Ebbene, se tu guardi oltre la prima apparenza, vedrai che é così. Ad esempio, il borseggiatore, derubando il pensionato, può pensare “ Ma perché i soldi debbono andare a lui, che é vecchio e utilizzerà i soldi per un inutile e breve prolungamento del sua vita, e non a me che sono giovane e me li posso veramente godere?!”; e, mutatis mutandis, con simili ragionamenti uno Stato può giustificare il depredamento di un'altro Stato .

Il giovane- Quindi tu vieni a sostenere che, scavando ben bene nelle più profonde motivazioni di un'azione aggressiva, vi si trova un'esigenza, sia pure deformata, di giustizia.

Il vecchio- A voler approfondire molto, non un'esigenza di giustizia vi si trova, ma un'esigenza di imporre la vittoria della vita contro la morte o, per esprimerci con termini più filosofici , la vittoria dell'essere contro il non essere.

Il giovane.- Te lo posso concedere. Ma perché questa esigenza dovrebbe portare il cittadino di New York a far la guerra all'Iran per permettere alla donna iraniana di andare senza il velo per la strada ? In che cosa può disturbarlo ciò che avviene in un paese da lui così lontano?!

Il vecchio - Il cittadino di New York si sente urtato da quel che avviene in Iran perché egli, prima che essre un cittadino di Niw York, é un “uomo”. E l'umanità é un tutt'uno. E' per questo che il Poeta può dire , “Ogni morte di uomo mi diminuisce”. Il torto ( o il preteso torto ) fatto a un uomo, mi ferisce per lontano dalla mia vista sia quest'altro uomo.

Il giovane – Quindi, secondo te, ogni lotta é dettata in definitiva da un'idea.

Il vecchio- Non tanto da un'idea, quanto da un ideale o, meglio ancora, dalla forza, dalla “potenza” che ispira negli uomini un tale ideale. Ti ricordi l'Iliade di Omero ? Con certi Dei che proteggevano i troiani ( alias, davano forza all'agire dei troiani ) e certi Dei che proteggevano gli achei ( alias, davano forza all'agire degli achei )? Io credo che, tolto il velo mitologico, la cosa sia vera : ogni lotta é lotta, non tra uomini, ma tra “potenze” che ispirano gli uomini. Se vuoi, ogni lotta é veramente lotta tra il Bene e il Male.Se ho ben capito é questo che voleva dire il Filosofo bulgaro, Michael Aivahnov , quando insegnava - riferendosi all'ultima battaglia, che, com'é detto nell'Apocalisse, assicurerà la vittoria del Bene sul Male ( Le verseau et l'avenement de l'age d'or, ed. Prosveta, p. 268 ) : “ In realtà, com'é detto nelle Sacre Scritture, questa non sarà una guerra tra gli uomini, ma una guerra tra gli spiriti : i buoni contro i cattivi. Non sono degli uomini che é necessario combattere, ma delle influenze, delle entità che si sono in essi installate e che lavorano contro la luce. Quando si arriva a liberarlo da questi spiriti, l'uomo cambia immediatamente. Dunque. Non saranno degli uomini che si affronteranno, ma delle forze, delle correnti, delle entità.”.

Il giovane. Ma questa lotta comporterà la distruzione dell'idea, che dà forza ai “nemici” ?

Il vecchio . No , non comporterà la distruzione dell'idea “nemica”, ma il suo assorbimento. Ogni idea, ogni “forza”, ha un fondo di verità ; ed é solo quando tale fondo di verità viene riconosciuto, che la vittoria si ottiene. Questo ben sapevano gli antichi Romani, i quali, quando conquistavano una città nemica, si guardavano bene dal distruggere le statue della Divinità che la proteggeva. Ma le portavano a Roma e le facevano oggetto di culto, perché ritenevano che una città poteva essere veramente vinta solo facendosi amiche e favorevoli le Divinità che le proteggevano ( cfr Evola , Rivolta contro ilo mondo moderno, cit., passim ).Così un uomo o uno Stato può essere veramente vinto quando si riesce a “comprendere” la verità che ne giustifica l'esistenza.

Il giovane - E allora si tratterà di una vittoria veramente senza vinti e vincitori!

Il vecchio. Ma questa per ora é un'utopia : che spetterà all'Umanità futura realizzare.

(5)

Rifiuto dell'apolitia - Dovere di difendere la patria.

Il giovane – L'articolo 49 nel suo secondo comma definisce “dovere civico” l'esercizio del voto. L'articolo 52 nel suo primo comma afferma sollenemente che “La difesa della Patria é sacro dovere del cittadino”.Entambi gli obblighi mi sembrano giustamente imposti ; più genericamente mi pare giusto che il cittadino , non si disinteressi delle sorti della società in cui vive, ma operi attivamente nel suo interesse, se del caso fino al sacrificio della propria vita.La comunità ci permette di procurarci il cibo, ci protegge contro le aggressioni, ci dà la possibilità di curarci se cadiamo malati, insomma ci dà numerosi vantaggi e noi siamo obbligati a controcambiare.Come diceva Cicerone, dal fatto che noi siamo membri della società, consegue “ut communem utilitatem nostrae anteponamus”.

Il vecchio. Sì, Cicerone diceva così ; anche se si riferiva non alla società ristretta in cui viviamo, la società nazionale, ma alla “grande comunità universale”. Ma nessun dubbio che ciò, che si deve alla grande Comunità universale, si deve anche , e forse a maggior ragione, alla piccola società nazionale. Giusti dunque gli obblighi di cui tu parli. Però è una nota stonata che vengano affermati da una Costituzione “laica”, che cioé non pone a suo fondamento l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Infatti, dal punto di vista laico, l'atteggiamento giusto dovrebbe essere invece quello che fu degli Epicurei: é opportuno contribuire, sì, alla difesa e al buon funzionamento dello Stato, perché questo ci é utile, ma solo nei limiti in cui c'é utile . Ciò che significa che sarebbe assurdo sacrificare la vita per la sopravvivenza dello Stato, perché, una volta morti, nulla ci può venire ad importare che gli ospedali esistano, esista la sicurezza pubblica, le strade siano pulite eccetera eccetera.Ecco come il Pohlenz ( Op. citata p. 281 ) ci descrive l'atteggiamento di Epicuro verso l'attività politica : “ Questi, nel uso quietismo, aveva bisogno dei vantaggi dello Stato (….) per vedere garantita la sicurezza della propria esistenza ma (…...) consigliava ai suoi seguaci di tenersi lontani dalla politica finché si trovano degli sciocchi disposti, per ambizione o per idealismo, a prendere su di sé le fatiche e i crucci della vita pubblica”.

Il giovane- Ma, se non sbaglio, questo atteggiamento meritò a Epicuro l'accusa degli Stoici di “nutrirsi alla tavola altrui come un parassita” .

Il vecchio . Ciò é vero, lo dice anche il Pohlenz, che é uno dei maggiori studiosi dello Stoicismo ( v. Opera cit. p.281 ). Ma gli Stoici credevano in Dio, nell'immortalità dell'anima e quindi in quell'unità di tutti gli esseri viventi, che é il presupposto di ogni morale che predichi la rinuncia al utile proprio a favore dell'utile

altrui ( vedi nel dizionario “Unità della vita” ).Però vorrei che ti fosse chiaro, che il dovere di contribuire al bene della Comunità, non significa necessariamente, dovere di partecipare alle lotte polititiche. Chi é portato all'azione (direbbe meglio uno studioso di filosofia indiana : chi ha nel suo temperamento una forte predominanza di rajas su sattua ) lo può anche fare ( badando di non lasciarsi coinvolgere emotivamente in questa lotta ). Ma, secondo me, di questi tempi, dato il degrado della lotta politica, l'uomo saggio farà bene a tenersene lontano. Ben sapendo che chi, tranquillo sta nella sua stanza, coltiva buoni pensieri, fa più per il suo Paese di chi si affacenda nei palazzi della politica: la rosa facendo bella se stessa fa bello il roseto. E non é poi vero che i pensieri dell'uomo sono come nuvole di fumo che si disperdono al vento : i pensieri hanno una loro realtà e una volta emessi influenzano nel bene o nel male le altre persone : un pensiero divino concepito da un eremita nella sua grotta o da un monaco nella sua cella, vive per millenni beneficando il mondo.Del resto é insegnamento del taoismo “l'agire senza agire”. Ecco quel che sul punto ci dice il Guenon R. ( in Scritti sull'esoterismo islamico e il taoismo” , p. 105, Adelphi): “Il “non agire” non é affatto l'inerzia, al contrario, é la purezza dell'attività, ma un'attività trascendente e tutto interiore , non manifestata, in unione con il Principio, dunque al di là di tutte le distruzioni e di tutte le apparenze che il volgo prende a torto per la realtà stessa, mentre non ne sono che un riflesso più o meno lontano. Posto al centro della ruota cosmica, il saggio la muove invisibilmente, con la sua sola presenza, senza partecipare al movimento e senza doversi preoccupare di esercitare una qualunque azione; il suo distacco assoluto lo rende superiore di tutte le cose, poiché non vi é nulla che possa condizionarlo (….) Egli ha raggiunto la per perfetta impassibilità; la verità e la morte essendogli parimenti indifferenti, la rovina dell'universo non produrrebbe in lui alcuna emoizone (….) Egli lascia che gli esseri evolvano secondo il loro destino e si tiene al centro immobile di tutti i destini (….) Il segno esteriore di questo stato interiore é l'imperturbabilità; non quella del valoroso che per amore della gloria si getta da solo contro un esercito schierato in battaglia, ma quella dello spirito che, superiore al cielo, alla terra, a tutti gli esseri, abita in un corpo al quale non tiene, non fa alcun caso alle immagini che i suoi sensi gli forniscono, conosce tutto, per conoscenza globale nella sua unità immobile”.Mi piace chiudere su questo punto con un “pensiero” tratto dal bel libro “La luce nel sentiero”,scritto da Mabel Collins, col commento di Yogi Ramacharaka (Fratelli Bocca Editori, p. 110 ): “ 1. Sta in disparte nella veniente battaglia e benché tu combatta non essere tu il guerriero. 2. Cerca il Guerriero e lascia che egli combatta per te. 3. Prendi i suoi ordini nella battaglia e obbediscigli. 4. Obbediscilo, non come s'ei fosse un generale, ma come s'egli fosse te stesso, e le sue parole fossero l'espressione dei tuoi segreti desideri, poiché egli é te stesso, eppure infinitamente più saggio e più forte di te”.

(6) Famiglia – Matrimonio – Figli nati fuori del matrimonio

Il giovane – L'articolo 29 della Costituzione recita : “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. - Il matrimonio é ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”.Dire che lo Stato “ riconosce i diritti della famiglia come società naturale”, dire in altre parole che lo Stato riconosce all'istituzione-famiglia dei diritti che, derivando dalla legge naturale, non possono - secondo le teorie del giunaturalismo a cui evidentemente il legislatore costituente si richiama – essere misconosciuti e conculcati da una legge umana, implica chiaramente che il legislatore costituente vuole tutelare la famiglia in maniera preminente e speciale rispetto alle altre istituzioni, che possono nascere nella società. E questo evidentemente perché ha un speciale interesse all'esistenza della istituzione famiglia ; interesse maggiore di quello che potrebbe avere per l'esistenza di una associazione bociofila, di una associazione per combattere i tumori, di una società per azioni avente ad oggetto una ferrovia e così via. Tanto premesso, ti domando : in che consiste tale speciale interesse dello Stato alla tutela della famiglia ?

Il vecchio – Per dare una risposta sensata alla tua domanda, tu prima dovresti dirmi cosa, secondo te, la Costituzione intende per “famiglia”. Infatti con queto termine si possono intendere varie cose ; si può intendere : la convivenza di un uomo e di una donna al fine di procreare dei figli ; si può intendere la convivenza di un uomo e di una donna solo per il mutuo piacere; si può intendere la convivenza di due omosessuali; si può intendere la convivenza di più persone per risparmiare sulle spese del vitto e dell'affitto.

Il giovane - Io non vedo che speciale interesse potrebbe avere la Repubblica italiana alla esistenza di una convivenza tra due omosessuali, o di un uomo e una donna che convivono solo per trarre dal loro amplesso uno sterile piacere . Con ciò non voglio dire che lo Stato , se sorge un conflitto di interessi, tra due omosessuali conviventi non abbia interesse e non debba intervenire per tutelare , riconoscendogli la dignità di un “diritto”, uno dei contrapposti interessi. Certamente lo deve, ma così come deve intervenire se sorge un conflitto di interessi tra uno che ha venduto e uno che ha comprato un appartamento ( “tu, compratore, non vuoi pagare il prezzo al venditore, a ciò ti costringo io, Stato italiano” ). Né di più né di meno.

Il vecchio - Da questo tuo discorso deduco che tu ritieni che la Costituzione abbia voluto tutelare in modo preminente e speciale la convivenza creata da un uomo e da una donna per procreare dei figli. E a questo punto la mia risposta alla tua domanda é ovvia : la costituzione vuole tutelare in modo preminente la convivenza di un uomo e una donna diretta alla procreazione dei figli perché la società ha interesse che le culle

non rimangano vuote; che braccie forti di giovani si sostituiscano a quelle ormai deboli di vecchi nel lavorare nei campi e nelle officine; perché insomma la società ha interesse ad acquisire nuovi elementi che la tonifichino e la rinnovino.

Il giovane – Ma cosa singifica tutelare la istituzione-famiglia intesa nel senso or ora chiarito ? Significa invogliare i giovani uomini e le giovani donne a convivere ( ai fini della procreazione di una figliolanza ) promettendo loro assistenza economica ?

Il vecchio – Anche quello. Ma soprattutto significa impedire che entrino nella famiglia, immagini, discorsi, esempi perturbatori di quella serena armonia che dovrebbe regnare tra un pater familias e una mater familias ; significa abituare i giovani all'idea che la forza sessuale ( quella forza a cui Gandhi si riferiva come a una “Sacra forza” dataci da Dio ) deve essere usata solo a fini procreativi.

Il giovane - Tutto questo, penso, sanzionando la pornografia.

Il vecchio - Perché no? Anche con questo; ma soprattutto con l'esempio dato da una classe dirigente degna di questo nome ( hai presente la Ara pacis, con Augusto e tutta la sua famiglia, che danno un esempio di religiosità recandosi all'altare per onorare gli Dei ? ).

Il giovane- Mi sembra che tu ritenga che l'uso appropriato del sesso sia quello diretto alla procreazione.

Il vecchio – Se tu intendi per uso appropriato di una cosa, nel caso del sesso, quello da cui non conseguono danni, ma solo vantaggi all'utilizzatore, io debbo dirti che no, che io non ritengo affatto che l'uso appropriato del sesso sia quello che porta alla procreazione. L'uso appropriato del sesso é quello, che apre all'uomo stati di coscienza superiori agli usuali e tendenzialmente eguali a quelli che attingono i grandi mistici ( e qui val la pena di ricordare che uno spirito irriverente, guardando la celebre statua di Santa Teresa d'Avila in estasi, disse “ ma questa donna sta godendo” ). Ma questo uso, che non comporta perdita di “seme” e ci fa godere un anticipo di paradiso, non é alla portata di noi volgo profano, ed é riservato alla melior spes della razza umana , se pronta a sottoporsi alle prove severe, che impongono certe scuole come quelle del Tantrismo. L'uso del sesso ai fini della procreazione é solo quello meno inappropriato, cioé meno pericoloso e dannoso per la razza umana.Ecco perché un popolo che vuole sopravvivere deve educare i giovani alla castità e all'uso del sesso, non per il piacere ( quel lampo intorbidado e fuggevole di paradiso, che si paga con danni vari alla mente e al corpo ), ma per la procreazione : la procreazione di una razza umana più bella e più buona., che sappia quindi rendere il mondo più bello e più buono.Del resto ciò, sia pure confusamente, é sempre stato riconosciuto dalla migliore umanità : nelle famiglie patrizie la sposa era scelta con il criterio che fosse la più adatta a trasmettere alle future generazioni la weltanschaung, la visione del mondo,

della famiglia stessa ( evidentemente partendo dal presupposto che la “visione del mondo” della famiglia fosse la migliore, quella la cui affermazione nella società avrebbe resa questa migliore ).

Il giovane - Quindi l'uomo dovrà scegliersi per la procreazione una partner adatta.

Il vecchio – E questa sarà considerata e onorata da lui come la sua legittima consorte.

Il giovane- Ma la carne é debole : se quest'uomo verserà il suo seme nel grembo di una donna verso cui l'ha portato solo la ricerca del piacere ?

Il vecchio - Egli allora darà ai figli, nati da tale amplesso, quel che occorra loro per vivere dignitosamente, ma riserverà solo ai figli, nati dalla donna da lui scelta come sposa, le sue ricchezze .

Il giovane – Ma come si può ritenere giusto questo diverso trattamento riservato ai figli nati dentro o fuori del matrimonio ? che cosa ne può Beppino se é nato da un amore ancillare ? perché trattarlo peggio di Luigino che é nato dall'amplesso con la legittima consorte ?

Il vecchio- E allora perché non dare lo stesso trattamento a Luigino nato dal padrone della fabbrica e a Beppino nato dall'autista del padrone della fabbrica ?Come si ritiene giusto che il padrone della fabbrica riservi le sue ricchezze solo a suo figlio, nella presunzione che questi abbia le capacità di conservare e ingrandire il frutto del suo lavoro; così deve ritenersi giusto che il padre trasmetta le sue ricchezze e con esse il potere di affermarsi nella società, solo al suo figlio legittimo cioé a chi presumibilmente affermandosi nella società ad essa trasmetterebbe la sua “visione del mondo”.

Il giovane . Non così l'hanno pensata coloro che con varie leggi hanno progressivamente parificato i figli legittimi e illegittimi e coloro che di tale legge hanno ritenuta la costituzionalità.....

Il vecchio- …..nonostante il terzo comma dell'art. 30 della Costituzione, che recita : “La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogii tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”. In tale parificazione é da vedersi, non opera mossa da senso di giustizia, ma dal fine inconfessabile di soffocare nell'uomo ogni idea, ogni tensione verso il cielo, verso il sovrasensibile : una società composta di formichine laboriose e tutte eguali, ecco qual'é lo csopo recondito di chi ha fatte quelle leggi ( e di chi ne ha ritenuta la costituzionalità! ).

Il giovane- Voltiamo pagina. Dice il secondo comma dell'articolo 29 : “Il matrimonio é ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”.

Il vecchio- E in effetti l'amore – quell'amore che dovrebbe regnare tra un uomo e una donna che progettano di generare ed educare insieme nuove vite – non sembrerebbe ammettere la subordinazione o peggio l'asservimento di un coniuge all'altro. Senonché, come diceva Hobbes, il basone del comando non può essere dato a due persone ( o a due organismi ) diversi : due volontà, che hanno eguale potere, se tendono a realizzare cose diverse, si paralizzano.

Il giovane - Ma se a comandare non possono essere contemporaneamente l'uomo e la donna, chi comanderà : l'uomo o la donna ?

Il vecchio – La risposta che verrebbe naturale sarebbe : che comandi il più saggio : il marito se é lui il più saggio, la moglie se la più saggia é lei.Però questa soluzione é legislativamente impraticabile : perché , tradotta in legge, implicherebbe che, al formarsi di ogni nuova coppia, un organo dello Stato esaminasse i coniugi per decidere chi di loro é più adatto a dirigere la famiglia. Il che chiaramente non é praticabile.

Il giovane – E allora ?

Il vecchio - E allora il legislatore deve decidere in base ai principi. Deve decidere se dare la prevalenza al principio della virilità ( allo “yang” della concezione taoista ) o al principio della feminilità ( allo ying della concezione taoista ).

Il giovane- E a chi darà la prevalenza un buon legislatore ?

Il vecchio – Secondo la tradizione dovrebbe dare la prevalenza allo yang e non allo ying : perché il primo é superiore al secondo.

Il giovane – Vuoi dire che l'uomo é superiore alla donna ?

Il vecchio - No, non dico questo. E non lo dico, perché il dirlo costituirebbe un'inammissibile semplificazione delle cose. Infatti, si può dire, un po' sintetizzando, che secondo la concezione tradizionale lo “io”, lo spirito , che di per sé é asessuato, si riveste di due guaine invece sessuate : l'anima e il corpo fisico. Ora non é detto che la sessuazione del corpo corrisponda a quella dell'anima. Di solito ( da quel che ho capito ) é così, ma non sempre é così : si può ben avere una anima muliebris in corpore virili e viceversa. Inoltre ( e qui ancora dico quel che ho capito, sperando di aver capito bene, dato che la mia scienza in argomento é limitata ) sia lo yang che lo ying possono essere, diciamo così, di diversa qualità perché diversamente inquinati da altri elementi : quale differenza tra lo yang di un Gandhi e un yang di Mussolini, sia il primo che il secondo sono caratterizzati dallo yang , ma nel secondo il principio virile si manifesta per così dire inquinato dalla lussuria e dalla volontà di prevalere e comandare, mentre nel primo splende nella sua purezza.

Il giovane. Conclusione ?

Il vecchio.- La conclusione é che, non potendosi imporre al legislatore tanti distinguo , egli può e deve limitarsi a una scelta di principio e di conseguenza stabilire nella famiglia l'autorità maritale; dato che é lo yang che deve prevalere e di norma lo yang prevale in chi ha un corpo maschile.

Il giovane - Ma perché si ritiene che lo yang debba prevalere ?

Il vecchio – Qui si va nel difficile e, come ti ho detto, io ho i miei limiti nella comprensione dell'argomento. Comunque io penso che lo yang sia ritenuto superiore allo ying perché é considerato la forza che porta l'uomo ad ascendere, ad ottenere la liberazione da Maya, la potenza di illusione che ci rende schiavi; mentre lo ying è la forza che tende a frenare tale ascesa, a impedire tale liberazione da Maya.

Il giovane. Allora sarebbe meglio che lo Ying non esistesse.

Il vecchio – Sarebbe come dire che sarebbe bene che i pneumatici di un'auto non incontrassero nessun attrito : se non incontrassero nessun attrito, le ruote girerebbero a vuoto e l'auto non avanzerebbe. E così l'uomo se non avesse a incontrare le tentazioni, che lo ying gli pone, non evolverebbe, perché l'evoluzione umana si realizza con le forze che si acquisiscono con la vittoria sugli ostacoli.Almeno così io l'ho capita. ; e come l'ho capita te la dò.

Sezione seconda

Il dizionariodell'uomo in rivolta

Abbandono a Dio

Il giovane – Ma perché mai dovrei decidere di abbandonarmi a Dio ? A quell'Essere da me infinitamente lontano come infinita é la sua potenza, che potrebbe giocare con me come noi uomini giochiamo con un insetto ?

Il vecchio- L'abbandono a Dio non é frutto di una decisione ma é una semplice constatazione. Noi siamo già nelle mani di Dio. Forse che sei tu che fai funzionare il tuo fegato, il tuo cuore, il tuo cervello? Tu vivi perchè Dio ti fa vivere.

Il giovane . Ma io non amo Dio, non lo voglio, di lui non mi fido.

Il vecchio - Quando tu pronunci queste parole, le pronunci per volontà di Dio. Credimi a Dio non é possibile sfuggire. Diceva Ramakrishna per spiegare l'assoluta immanenza di Dio: “ Dio sospinge il ladro a rubare e, nel medesimo tempo, mette il capo di famiglia in guardia contro il ladro. Egli fa tutte le cose” ( Alla ricerca di Dio , Ubaldini editore, Roma , p. 331 ). Ma tieni presente che qundo ti ribelli a Dio tu ti ribelli a quella caricatura mostruosa di Dio che ti sei costruita ; e tale giusta ribellione ti é ispirata da Dio ( il vero, inconcepibile da noi mortali, Dio ). E questo fatto deve renderTi sicuro, ti deve convincere a lasciarti andare a un dolce abbandono. Dio é quello che ispira i tuoi più segreti pensieri, Dio é il tuo amico più intimo, Dio é il tuo “IO”: come può farti del male ?!Diceva Ramakrishna ( Opera cit. p.197 ) : Abbandonatevi interamente nelle mani di Dio e sottomettetevi a lui ; sarà la fine delle vostre pene e delle vostre angoscie. Allora solamente vi renderete conto del fatto che tutto ciò che accade si compie unicamente per volontà del Signore”.Ancora Ramakrisha, rispondendo alla domanda “ qual'é la natura della fede assoluta in Dio”, diceva . “ E' simile allo stato di completo riposo nel quale si trova un lavoratore stanco quando, dopo una giornata di lavoro, s'appoggia su un cuscino fumando spensieratamente. E' la fine delle angosce e delle preoccupazioni. Tutto ciò che deve farsi sarà fatto da Lui”. ( da Alla ricerca di Dio , Ubaldini Editore – Roma , p.200 ).

Ateismo

“Dovunque vi sia il due, esiste paura, pericolo, conflitto, lotta” così insegna la più alta filosofia. (1)Se di fronte al mio “io” si erge un “non-io”, io non sono più libero; e, bloccato nel raggiungimento delle mie più profonde aspirazioni, non posso più sperare di essere felice.Poco importa che le dinamiche del non-io siano governate da un essere dotato dell'onniscienza e dell'onnipotenza ( tesi teista ); anzi, il fatto che tale essere sia infinitamente più intelligente e potente di me, anche me lo fa sentire infinitamente diverso : mi rende impossibile misurarlo con il metro di noi poveri, piccolissimi mortali e così lo priva di ogni “umanità” : egli diventa, secondo i dettati della teologia negativa, quello di cui “solum potui dicere, quid non sit” (2), quegli a cui non ha senso neanche applicare gli “umani” concetti di bontà , giustizia, bellezza, compassione. Sarebbe, quindi, come io mi trovassi in un aereo pilotato da un pazzo ( dato che non ci può essere differenza tra un uomo pazzo e un Dio, sì, onnisciente e onnipotente, ma ispirato da logiche totalmente diverse da quelle della comune umanità).Non diversamente, e forse peggio, starebbero le cose, se il non-io, l'universo che mi circonda, non fosse da nessun essere governato, per cui i suoi dinamismi fossero rimessi al caso ( tesi atea ) : la situazione di chi si trova in un aereo senza pilota, non é più sicura e migliore di chi si trova in un aereo pilotato da un pazzo.Sia nella concezione teista sia in quella ateista, dunque, l'uomo , essere infinitamente piccolo, si trova alla mercé di una Forza incomparabilmente maggiore della sua; e in definitiva, se per ateo si intende l'uomo che non riconosce niente e nessuno sopra di sé, possono dirsi atei solo quelli che ( con audacia intellettuale ) negano il “non-io”.Se non ché questa negazione non soddisfa il nostro cuore: l'uomo , così come non é nato per essere schiavo, così non é nato per essere solo : egli ha bisogno di intessere delle relazioni, di fare scambi affettivi con altri esseri.Ciò spiega l'adesione di molti ad una concezione che ammette l'esistenza del non-io, ritiene questo “non-io” governato da un Essere con le qualità dell'onniscienza e dell'onnipotenza, ma a tali qualità aggiunge quella della “somma bontà” : Dio esiste ed é sommo amore ( Gesù cristo) o, anche, infinitamente affascinante ( Krishna ) : e infatti, come si può avere paura, come ci si può sentire minacciati e vincolati da un Dio che ci ama infinitamente, più di quanto noi stessi ci amiamo ? come ci si può sentire bloccati nella propria libertà e nelle proprie aspirazioni da un Dio capace di affascinarci ( cioé di appagare i nostri desideri al massimo grado ) ?Può darsi che il lettore sia a questo punto curioso di sapere se noi siamo atei o crediamo in Dio.Non volendo sottrarci a tale curiosità, diremo che noi riteniamo conforme a ragione e a buon senso che la gerarchia ascendente degli esseri non si fermi all'uomo : crediamo che oltre e sopra a questi si elevi e si sviluppi ad infinitum una gerarchia di Esseri di sempre maggiore intelligenza, bellezza e potenza, (3) Esseri che riteniamo

interesse stesso dell'Uomo conoscere ed onorare ( ma come, noi uomini siamo pronti

a fare i salti mortali per conoscere una bella attrice e siamo pronti a sprofondarci di fronte a lei in inchini e baciamano, e poi non facciamo nulla per conoscere ed onorare Esseri mille volte più belli, più intelligenti, più “affascinanti” e “interessanti” del nostro simile più dotato ?! non é assurdo?!!! ). Ben inteso, purché tutto questo non implichi una rinuncia alla nostra libertà interiore ( ma questo é da escludere se tali Esseri sono veramente più evoluti di noi : forse che la stessa esperienza delle relaizoni umane non ci insegna che, quanto più é evoluta la persona con cui entriamo in relaizone, e tanto più essa ci lascia liberi e per così dire ci mette “a nostro agio” ?).Per il resto noi crediamo che la (perenne) diatriba sull'esistenza, o no, di Dio si riduca ad una (sterile ) logomachia, se prima non si definisce con esattezza il concetto di Dio (4). Dicendo che “Dio esiste” si vuol dire che le nostre più profonde aspirazioni alla giustizia, alla bellezza, alla libertà troveranno realizzazione ? Se si intende questo, noi ci diciamo credenti in Dio, se no, no. Et de hoc satis

Note1- Le parole sono di Swami Vivekananda ( Jnana Yoga. cit. , p.214 ).

2 – Più precisamente SantAgostino dice che di Dio “Hoc solum potui dicere, quid non sit: quaeris quid sit ? Quod oculos non vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis acsendit”.

3- Concordiamo con Schopenhauer nel rilevare l'assurdità di affermarsi “credenti in un Dio impersonale”: “Un Dio impersonale – sostiene giustamente Schopenhauer – non é affatto Dio, ma semplicemente una parola mal adoperata, un non-concetto, una contradictio in adjecto, uno scibolet per i professori di filosofia”. Giuseppe Rensi ( Apologia dell'ateismo, p.90 ) ritiene, a sua volta, che l'assenza di personalità “ ci pone in presenza, non di un Dio, ma di “forza”, natura, leggi naturali. Chiamare Dio ciò é tanto inammissibile come chiamare Dio l'istinto delle formiche, o le leggi di eredità, di sopravvivenza del più adatto, di selezione naturale e simili”.

4 -Va ascritta a merito del neo-positivismo la dimostrazione dell'improponibilità ( a causa dell'indeterminatezza e imprecisione dei termini usati ) di molte questioni di carattere metafisico; una di queste essendo, appunto, quella sull'esistenza di Dio.Non diversa, del resto, é la posizione di una grande “religione” come quella Buddhista. Come risulterà al lettore dal seguente passo da noi tratto da Emilia Rensi, (Atei all'alba, La Fiaccola, 1973,p.43 ) : “Ovviamente non mancavano discepoli del Buddha che cercavano di investigare presso il Maestro il problema metafisico: se il mondo é eterno o no, se é limitato o infinito, se l'anima é una cosa sola col corpo o no, se un Buddha sopravvive dopo la morte. Ma il Buddha si rifiutò sempre di dare una risposta a queste domande paragonando l'uomo che si perde in simili questioni a colui che, ferito da una freccia, si rifiuta di lasciarsela estrarre prima di sapere il nome di chi lo ha ferito, a quale famiglia appartiene, se era alto o basso di statura e simili”.

Amore

In questa voce prenderemo in esame le cinque fondamentali note in cui può essere modulata la parola “amore”, e cioè : l'amor concupiscentiae, l'amor benevolentiae, la compassione, l'amicizia, l'amor intellectualis; e in più la nota che con esse maggiormente stride: l'odio

Amor concupiscentiae E' una particolare attrazione, che proviamo per un altro essere, che a lui ci lega e fa sì che un suo comportamento abbia il potere di renderci felici o infelici. Caio é incantato (1) dalle grazie di Caia: questa gli sorride ed egli é al settimo cielo; questa gli fa il broncio, e per lui la vita diventa un inferno.

Amor benevolentiaeE' il sentimento che ci porta a beneficare un altro essere, in quanto il bene che a lui così arrechiamo ci soddisfa – per il particolare legame simpatetico che tra noi e lui si é creato ( 2 ) - come e ancor più del bene che a noi fosse toccato.Caio vuol bene a Caia: quindi le dona una collana, perché il sentimento di gioia che vede nell'amata mentre si adorna del gioiello, più lo soddisfa di tutti i beni che egli si sarebbe potuto comprare con i soldi ( che del regalo hanno costituito il prezzo ).

CompassioneE' il sentimento che ci porta a beneficare un altro essere eliminando in lui una sofferenza che – per il particolare legame simpatetico tra noi e lui creatosi – ci colpisce come una nostra stessa sofferenza (3).Trimalcione dà al mendico, che da lui ha bussato, del cibo, perché il pensiero, che una persona alla porta di casa sua soffra la fame, gli impedirebbe di gustare i raffinati cibi che il suo cuoco in sala da pranzo gli ha preparato (4)Insomma il bene che facciamo amando, ci dà la felicità; il bene che facciamo compatendo ci elimina una sofferenza psicologica ( indotta in noi, per simpatia, dalla sofferenza della persona “compatita”).

AmiciziaE' il sentimento che ci porta a beneficare un altro essere in quanto la concezione della vita – che a questo ci accomuna (5) – ci fa sentire il suo successo, la sua fortuna, il suo progresso come il nostro stesso progresso ( o, meglio ancora, ci fa sentire il suo successo, la sua fortuna, il suo progresso, come il successo, la fortuna, il progresso della concezione di vita che ci accomuna ).Il camerata Adolfo aiuta il camerata Benito rinchiuso nella prigione del Gran Sasso, perché sente che la sfortuna di questo é la sua stessa sfortuna .Aprendo a questo punto una parentesi, si può dire che l'amore sessuale é un composto delle quattro forme di amore finora esaminate ed é tanto più umano e tanto meno animalesco quanto più le ultime tre prevalgono ( cioé quanto più tra gli “amanti” prevalgono, sulla concupiscenza, la benevolenza, la compassione, l'amicizia).

Amor intellectualisE' la naturale tendenza a beneficare ( non un particolare essere, ma ) tutti gli esseri, che proviene ( non da un particolare legame simpatetico instauratosi con un dato essere, ma ) da un sentimento particolarmente intenso di forza, di gioia e di “pienezza” (6): chi prova un tale amore benefica gli altri così come il sole di evangelica memoria dona la sua luce e il suo calore a tutti gli esseri, buoni o cattivi che siano, senza distinzioni e senza particolarismi.Tutti i grandi Santi sono stati capaci di “amare tutti gli esseri in Dio”, cioé in assoluta purezza, senza essere toccati da passioni o sentimentalismi umani .

OdioE' il sentimento che ci porta a far male a un altro essere in quanto – il particolare legame simpatetico tra noi e lui creatosi – ci fa sentire come bene il male che lo affligga e come male il bene che lo rallegri.Gli esempi ( purtroppo ) sono inutili.Rientra nelle usuali prediche dei moralisti il dire che si debba amare e non odiare. Senonchè più perspicaci Pensatori fanno notare che non si può amare ( e, a dir il vero, neanche odiare ) per senso del dovere (7 )-La fonte dell'amore, sta nel pensiero. Caio pensa alle belle forme di Caia e per lei subito é preso dal più tormentoso amor (concupiscentiae). Caio ritiene che Sulpicio, come il buon Samaritano, lo abbia raccolto mentre ferito giaceva sulla strada, e subito lo ispira verso Sulpicio il più intenso amor ( benevolentiae ).Dunque é il pensiero che comanda all'amore ( e all'odio ). E il moralista che ci predica il dovere di amare, potrebbe più utilmente insegnarci una concezione della vita, aderendo alla quale, l'amore in noi nasca naturalmente.Lazzaro sia guarda intorno e non vede che ingiustizia ( “Lui bello e io brutto – lui ricco e io povero....” ); ed é pieno d'odio. Lo convinca, il moralista, che l'ingiustizia é solo apparente ( “ Sì, Epulone é ricco e tu, Lazzaro, sei povero, ma questo é perché nella precedente vita Epulone fu generoso delle sue ricchezze mentre tu ne fosti avaro: se in questa vita a tua volta generoso tu ti dimostrerai, nella prossima incarnazione ecc,ecc.”) e trasformerà Lazzaro in un perfetto altruista, forse in un santo animato da un bruciante amore per Dio e per il prossimo.Noi non diciamo qui che tale concezione ( capace di portare la pace nel cuore di un uomo ) esista; perché questo non é il compito della presente opera. Diciamo solo: chi si riempie la bocca con la parola “pace” e non é in grado di offrire ai suoi simili una tale concezione, stia zitto: non si illuda e non illuda.

Note(1) Sul carattere per così dire “magico” dell'innamoramento – a cui alludono alcune espressioni del linguaggio ( come appunto: essere incantato , essere affascinato da...), vedi Evola , Metafisica del sesso, Roma, 1958, passim.

(2) In numerose opere della letteratura esoterica viene affermato che sentimenti come l'amore, l'odio (….) finiscono per creare un legame invisibile tra le persone.

Possono interessare le seguenti osservazioni che ho letto in Introduzione alla magia – come scienza dell'io ( a cura del Gruppo di UR, vol. III, Roma.,p. 135 ): “Ogni volta che fra due persone o più persone si stabilisce un legame simpatico il quale giunga davvero nel profondo; ovvero ogni volta che la loro vita si orienta secondo un'unica e distinta tendenza fondamentale, si produce una comunanza di vibrazioni e si stabilisce un rapporto occulto di “forze vitali”, automaticamente e senza riguardo alla distanza spaziale. Le singole persone si trovano allora nella condizione di “vasi comunicanti” (….). Il pensare insieme la stessa cosa, il presentarsi ad entrambi di uno stesso ricordo, una stessa sensazione o associazione, sono casi non rari. Ma quando l'unità é profonda, si può dire che un “destino” si congiunge all'altro. Ciò che, sia in bene, sia in male, si attira una persona del gruppo, tende da sé ad estendersi agli altri che le sono uniti nella vita e a realizzarsi in modi che possono essere anche diversi, tanto che di solito sfugge l'intimo nesso (---Anche ) l'amore inteso come l'atto di simpatia profonda per cui quasi ci si identifica con un'altra persona, crea un “rapporto”; nel senso obiettivo spiegato più su. Crea dunque una via per ogni forza in azione o in reazione (….). Comprendete ( ora ) perché ai maghi assoluti é proibito l'amore – l'amore nel senso pieno e vero- Per amore essi non debbono amare. La leggenda in Oriente, specie in Cina, li raffigura chiusi in un terribile isolamento”.

(3) Gli Stoici, proprio per la sua natura di sofferenza, sia pure simpatetica, non ritenevano la compassione conforme alla propria dignità. Ciò non significa naturalmente che essi approvassero l'egoismo; Seneca ( De clementia, II, 5 ) infatti chiarisce: “Egli ( il saggio ) farà volentieri, a beneficio degli infelici, tutte le cose che ad altri vengono ispirate solo dalla c. ( Commiseratio ) , ma le farà mosse da un sentimento diverso”. Anche molti Pensatori moderni ( Cartesio, Kant, Spinoza ) ebbero a sostenere il carattere negativo – di debolezza cioè e non di virtù – della compassione. In particolare Spinoza, dopo averla definita ( in Ethica ) “tristitia orta ex alterius damno” , giunge a dire che “ nell'uomo il quale vive secondo ragione é per sé cattiva e inutile” sia per la sua natura ( di tristitia, appunto ) sia perché tende a sottrarre al dominio della ragione l'attività benefica ( Op. cit. , IV ).

(4) Ma Hobbes ( in Human nature ,c.9 ) forse accentuò eccessivamente il carattere egoistico della compassione ( pity ) definendola “immaginazione ovverosia finzione di una calamità futura per noi ritenuta possibile, in base al senso di una calamità riguardante altri”

(5) Spetta ad Aristotile il merito di aver evidenziato ( nel suo Ethica ad Nicom., 8,2-3) che l'amicizia presuppone una certa comunione di idee e di sentimenti e l'adesione agli stessi valori.Naturalmente l'amicizia tra due persone può porsi a diversi livelli di nobiltà ( come di diverso livello sono le concezioni di vita da cui noi uomini ci lasciamo ispirare: dal “bevi, mangia e del resto non ti occupare” del salumaio Bacciccia, alla concezione della ahimsa di Gandhi. E' un insistito insegnamento di Maharishi

Mahesh Yogi, un filosofo indiano contemporaneo, che “l'agire male germina dalla debolezza e che l'azione giusta nasce spontaneamente solo da un più alto livello di coscienza” - così trovo riferito il pensiero del Filosofo da Jack Forem, in Meditazione trascendentale, Roma, Ubaldini Editore, p. 167.Quindi secondo tale filosofo “ l'unico modo per aiutare ( gli altri ) é di acquistare la tecnica per essere felici noi stessi. Se un povero vuole aiutare un altro povero – stiamo continuando ad usare nell'esposizione del pensiero di Mahesh le parole di Forem – la prima cosa che deve fare é guadagnare qualche cosa. Divenire ricco (…). L'uomo felice é più in grado dell'uomo infelice di avvertire l'infelicità degli altri. La compassione non é desta in una mente infelice, afflitta. Ma compassione e gentilezza sono ben sveglie nell'uomo che é felice, che é in “pace” (Forem, Op. cit. ,p 173 ).Si può anche dire che scopo unico, su cui puntare e concentrare tutte le nostre forze, dev'essere quello di scoprire il gran “segreto” che ci permetta di liberarci dalla paura. Perché una volta liberatosi da questa, l'uomo naturalmente ama, naturalmente fa del bene. Ecco cosa insegnava il grande filosofo Mencio ( in Dialoghi, VI,1, 2 – tr. Magrini-Spriafico, Milano, 1945 ): “ La natura dell'uomo é portata al bene, come l'acqua scorre verso il basso. Non vi é uomo che non sia naturalmente retto. Come non vi é acqua che non scorra naturalmente verso il basso. Tuttavia se comprimi l'acqua per farla zampillare, potrai farla salire al di sopra della testa; se arresti il suo corso, potrai fare in modo che si fermi sulla montagna: ma é questa la sua natura? É un effetto della violenza. Ora, che l'uomo possa arrivare a fare del male, é una cosa analoga”.

(6) Ecco come Evola ( in La doctrine de l'eveil, Paris, 1956, p. 308 ) spiega meglio questo tipo d'amore: “Si fa dunque qui una distinzione tra l'amore naturale e l'amore sopranaturale, tra l'amore sensibile e l'amore avente a base la volontà e la libertà. Il primo di questi amori é appunto condizionato dal sentimento e non é libero, perché egli non si risveglia che al momento in cui si presenta l'oggetto corrispondente a una tendenza; é per questo che quando l'oggetto cambia o quando lo spirito si orienta altrimenti, l'amore diminuisce o dà luogo ad un altro sentimento. In un tale amore, l'individuo non ama, in fondo, che lui medesimo – più esattamente: é l'entità samsarica che ama in lui, anche quando non si tratta più di un semplice amore concupiscente, ma di forme sublimate d'amore e d'affezione. Tutto questo rientra nel mondo di dukkha , tutto questo é un'alterazione, é un legame, una perturbazione dello spirito. In un tal senso, la via aria del risveglio non conosce per nulla l'amore, essa considera tutte le specie d'amore come un limite e una scoria”. “Le cose – continua l'Evola – vanno diversamente per l'amor intellectualis che, pur conservando i caratteri d'uno stato affettivo sui generis, ha per base, non la sensibilità, ma, come abbiamo già detto, la volontà e la libertà. Nella teologia cristiana questo é il fatto di “amare ogni essere in Dio”, in altri termini, avendo di vista la radice trascendentale di ciascuno, vedendo in ciascuno ciò che egli é da un punto di vista non-individuale e metafisico, di conseguenza elevandosi con decisione al di là di tutte le inclinazioni e ripugnanze dell'essere naturale. In un tal caso la libertà dello spirito s'afferma di contro al condizionamento dei sensi, e l'amore diventa tanto più puro, il segno di una

libertà tanto più grande, quanto meno si lega a una soddisfazione ed é distaccato dall'essere particolare che si ama”.

( 7 ) “E' un fatto curioso e penoso, fa notare Aldous Huxley, specialmente nella nostra civiltà, che siamo pronti a proporre alti ideali e ad emettere ingiunzioni di profondo livello morale senza mai offrire i mezzi per adempiere o ubbidire a tali esortazioni” ( cfr. J. Forem, Op. cit. ,p. 179 ).Ed ecco come, con la sua solita vivacità di stile, Rajneesh esclude che si possa “amare su comando”: “ Se l'amore accade, ti puoi anche sposare, ma non porlo come condizione: prima ti devi innamorare e poi seguirà il matrimonio. A quel punto chiederai: “Come posso amare?” “Se accade, accade; se non accade, non accade (…). Come puoi cercare di amare qualcuno? Potresti? Se ci provi l'intero gioco sarà falso: accade” ( in Yoga, vol.I, Genova, 1990, p. 52 ).

Droga

Alcuni uomini ( i mistici, i poeti...) sono in grado, per la loro particolare sensibilità, di aprirsi a “stati d'animo” capaci di rendere loro la vita del tutto degna di essere vissuta. Ma la maggior parte degli altri uomini – dopo essersi procurati ( con astuzie e compromessi vari ) il cibo e un tetto e in più quanto possa rendere loro confortevole la vita – si trovano di fronte un terribile spettro: l'aridità di sentimenti; un'aridità che finirebbe per rendere loro un peso e una maledizione quella vita che tanto si sono preoccupati di salvaguardare e prolungare. Essi allora cercano di supplire al difetto di sensibilità ( che hanno rispetto ai loro simili più fortunati: il mistico, il poeta....) ricorrendo al sesso ( e ciò qui non interessa ), ricorrendo ad attività rischiose ( al gioco d'azzardo, all'alpinismo, alla guerra... - e ciò ancora qui non interessa) o ricorrendo all'uso di particolari sostanze, le droghe (1) ( e ciò costituisce l'argomento della presente voce ).Essi sanno, ricorrendo alle droghe, di dover pagare l'alimento che così riescono a dare alla loro sensibilità, con poco ( o con tanto ) della loro vita: sanno di sacrificare la loro salute, sanno che morranno qualche giorno ( o qualche anno ) prima. Però é un prezzo che in un certo senso non possono rifiutare: quel che importa ( essi lo intuiscono più o meno confusamente ) é la quantità di vita che si riesce a carpire all'avaro Fato; e non la sua durata.La religione e la morale non condannano ciò: si preoccupano solo di interdire alcune droghe ( e ben può essere che per una religione o una morale venga ad essere tabù ciò che per un'altra religione o un'altra morale é perfettamente lecito) (2) e di vietare l'abuso di quelle tollerate (3).Non sono poi mancati ambienti religiosi ( si pensi all'ambiente dei “misteri” dell'antico Occidente, si pensi all'ambiente di alcune sette shivaiste ancora oggi presenti in India....) in cui addirittura si raccomanda l'uso di certe droghe come mezzo – sia pur pericoloso – per aprirsi un contatto col Divino (4).Nostra opinioneA una persona che – per combattere il deserto interiore – accetta di menomare ( poco o tanto ) la salute e l'efficienza del suo fisico, lo Stato può obiettare qualche cosa?Certo che sì: può obiettare ch'esso é tanto più forte quanto più sono forti moralmente e fisicamente i cittadini; che, pertanto, chi di questi diminuisce in sé salute ed efficienza, lo impoverisce. Può obiettare ancora che se, poi, col drogarsi, uno si rende malato o inabile, ancor più evidente é il vulnus che a lui ( idest, allo Stato ) arreca: Tizio a 40 anni a forza di sniffare cocaina é già un vecchierello: ha bisogno di chi vada a far la spesa per lui, di chi lo accudisca nelle faccende domestiche....non é evidente ch'egli ha recato, così riducendosi, un grave danno alla Società, allo Stato ?!Dunque la Società ha tutto il diritto di proibire ai suoi membri di drogarsi ( nei limiti dettati dal buon senso, che sa come l'assoluto ascetismo sia una via d'eccezione, a pochi eletti adatta, e come sia necessario tollerare qualche vizio in tutti gli altri); e, senza dubbio, dal punto di vista di una morale minore, che si occupi di sanzionare i comportamenti che danneggiano la Società, si può affermare che drogarsi é male, é peccato.

Ma si dirà: poniamoci dal punto di vista di una morale superiore, che solo si preoccupi di indicare quei comportamenti che ostacolano il progresso spirituale dell'uomo; ebbene, da questo punto di vista, perchè dovrebbe dirsi che drogarsi é male?!Perché – rispondiamo – far dipendere la propria evoluzione spirituale da qualche cosa di esterno é una vera e propria contraddizione in termini (5); dato che lo scopo di tale evoluzione é proprio l'indipendenza e la libertà dell'uomo.

Note(1)Ecco come vengono definite le droghe dalla Enciclopedia Cattolica ( vol. IX, 1953, voce Stupefacenti ,c. 1443 ) : “ Sostanze tossiche ad azione elettiva sulla corteccia cerebrale che, inibendo i centri nervosi superiori, sono atte a modificare le capacità  percettive , immaginative  ed  intellettive  in  modo da indurre ( secondo le dosi ) stati di semplice euforia, di sonnolenza, di ebrezza stuporosa, di allucinazioni e di sensazioni cinestetiche generalmente gradevoli”.

(2)Ad esempio l'alcool é probito all'arabo che, invece, può fumare l'hashish ( interdetto agli europei ).Insomma ogni Paese ha la sua droga, ed é portato a giudicare quelle degli altri Paesi come particolarmente nocive e degradanti. Mentre così necessariamente non é. Ce lo fa comprendere il seguente passo ( tratto da un articolo pubblicato nel The New York Times Magazine dell'11-02-1973 a firma di Henry Kassim ) che descrive l'uso dell'oppio in Iran prima del '50 ( data in cui fu proibito) : esso non appare per nulla più degradante dell'uso che dell'alcool si fa da noi, in Europa: “Molte delle case dei ceti superiori di Teheran avevano una stanza ben arredata in cui gli ospiti di sesso maschile si ritiravano dopo cena e dalla quale ben presto si spandeva verso le signore che erano rimaste in salotto l'odore di un oppio di prima qualità. Coloro a cui piaceva l'oppio entravano nella stanza per dare qualche tiro di pipa con gli amici; coloro a cui non piaceva restavano con le signore, proprio come alcuni prendono un liquore dopo cena quando il carrello fa il giro del tavolo, e altri no. Tale usanza non veniva in alcun modo stigmatizzata”.“E' difficile non concludere – sostiene Thomas Szasz in un suo interessante e provocatorio libro ( Il mito della droga, Feltrinelli, 1977,p.55 ) - che l'uso dell'alcool e quello del tabacco siano ormai abitudini profondamente radicate nei paesi di religione cristiana e di lingua inglese, e che di conseguenza consideriamo queste sostanze come buone; mentre siccome l'uso della marijuana ( hashish ) e quello dell'oppio sono abitudini pagane e straniere, consideriamo queste sostanze come cattive”.

(3) Ma che cosa deve intendersi per “abuso” di una droga ? Ecco la risposta che si trova in un testo famoso di psichiatria ( Jerome H. Jaffe, Drug AddictionDrug Abuse,  in Louis Goodinan e Alfred Gilman ( a cura di ), The Pharmacologual basis of Therapeutics, 4° ed. , p. 276 ): é abuso “l'uso, solitamente attraverso autosomministrazione, di una qualsiasi droga secondo modalità deviante rispetto agli schemi medici o sociali approvati in una data cultura”.Proprio commentando questa definizione, il Szasi ( Op. cit. , p.24 ) prende lo spunto per contestare ( giustamente!)...l'abuso di etichettare come malattia ogni comportamento deviante. Lasciamogli la parola: “ Ma limitiamoci ad osservare attentamente cos'é l'abuso di una droga. Jaffe stesso lo definisce come una qualunque altra devianza “rispetto agli schemi medici o sociali approvati” dell'uso di droga. Ci ritroviamo così immediatamente nel cuore della mitologia della malattia mentale: infatti come un comportamento farmacologico socialmente disapprovato costituisce “abuso di droga”, ed é ufficialmente riconosciuto come malattia da una professione medica che é un'agenzia autorizzata dello stato, così un comportamento sessuale socialmente disapprovato costituisce “perversione” ed é altrettanto ufficialmente riconosciuto come malattia; e così, più generalmente, un comportamento personale , socialmente disapprovato, di qualsiasi genere esso sia, costituisce “malattia mentale” che é altrettanto ufficialmente riconosciuta come una malattia “come tutte le altre”. Ciò che é particolarmente interessante ed importante a proposito di tutte queste “malattie” - cioé l'abuso di droga, l'abuso di sesso e la malattia mentale in genere – é che pochi o forse nessuno dei “pazienti” che ne sarebbero affetti riconoscono di essere malati; e che forse per questa ragione, questi “pazienti” possono essere, e spesso lo sono, “curati” contro la loro volontà”.Come un “malato” , appunto, la Morale cattolica considera il tossicomane e pertanto ritiene non gli si possa imputare a peccato l'uso degli stupefacenti salvo “l'obbligo, se e quando gli sarà possibile, di far ricorso al medico per le necessarie cure di disintossicazione” ( L.Rossi, Droga ,in  Dizionario enciclopedico di teologia morale, ed. Paoline, 1976,p.286 ).“L'assenza di volontarietà nel momento in cui agisce – fa però notare il Moralista cattolico ( L. Rossi, ibidem ) - non depone a favore di un'assenza di volontarietà anche in causa. La responsabilità si ha tutta e solo nel momento in cui, con piena capacità intellettiva, un individuo decide di darsi alla droga, pur prevedendo le conseguenze psicofisiche di quanto avverrà nello stato di alterazione”.Va anche fatto presente che l'insegnamento della Chiesa Cattolica ammette l'uso della droga per lenire le sofferenze di malati gravi: “E' lecito somministrare dosi di narcotici o stupefacenti ad un infermo grave o moribondo per alleviare i suoi dolori fisici e per sollevarlo moralmente, a condizione che ne abbia dato il consenso e che abbia già provveduto ai suoi doveri religiosi e sociali; la ragione é il sollievo della sofferenza e la possibilità di maggiore serenità, anche per prevenire una sua ribellione alla Divinità” (L.Rossi, Op, cit. , p. 287 ).

(4) Può dare un'idea dei principi che sottendono all'uso delle droghe in tali ambienti il seguente passo tratto da Introduzione alla magia come scienza dell'io ( vol.II, p. 1413, a cura del Gruppo di UR, Roma, 1971 ):” Potete aiutarvi ( per comprendere cosa succede nell'uso magico delle droghe ) con questa immagine: tu stai qui, su questa rupe, là, di fronte, un'altra rupe; in mezzo , il vuoto. Se  di colpo ti si dà un urto, tu, preso di sorpresa, nel novantanove per cento dei casi finisci giù.Ma se tu hai la prontezza di cogliere la spinta, di essere attivo prima quasi di essere sorpreso; se,  esattamente, sai prendere, in un tuo slancio la spinta impreveduta ed esterna – tu salti – e ti ritrovi sulla rupe di faccia. Questa rupe al di là é la riconquista di una coscienza liberata. La prima rupe era la coscienza gravata dalla condizione individuale, quindi soggetta a tutto ciò a cui per via di un corpo si può essere soggetti. E nell'immagine potete trovare altre analogie. L'urto, si capisce, che ti manda fuori, é l'azione dei “corrosivi” subitanei. Questa azione sarà sempre di sorpresa, per la sua natura  e perché, nell'uomo, fra corpo e anima c'é discontinuità. Come se potesse vedere dinanzi, l'anima, ma non dietro a sé voltandosi. In questo “dietro” comincia il corpo, vi sboccano le vie che vengono dal profondo, dall'occulto del corpo. Ora, l'azione esplicata dalle “acque corrosive” viene dall'esterno, giunge attraverso il corpo, da dietro, dunque. Ecco la situazione é proprio come quella di chi sta sul margine della roccia e non può prevedere né il momento, né la qualità della spinta che viene da dietro. Perciò senza la prontezza di spirito di un lampo, con questo genere di “acque corrosive”, di “veleni”, l'esperienza conduce a rovina”.(5) Così J Evola ( in La doctrine de l'eveil , Paris, ed. Adyar, 1956, p. 239 ) spiega la prescrizione del Buddhismo “ di astenersi dalle sostanze tossiche o “forti”, ciò che si deve essenzialmente intendere con riferimento agli alcoolici”: “Questo principio ha egualmente una base tecnica. Queste sostanze producono uno stato d'ebrezza, che, nella forma in cui poteva sovente manifestarsi, non nell'uomo moderno, ma nell'uomo dell'antichità, potrebbe anche rappresentare una condizione favorevole, là ove la “esaltazione” corrispondente – piti – fosse guidata in maniera da agire nel senso giusto. Ma si tratta, in pratica, di una esaltazione “condizionata” che, in quanto tale, lede quasi sempre l'”Io”; nel momento in cui avrebbe dovuto agire una forza propria, é intervenuta, al contrario, una forza estranea, di modo che lo stato corrispondente é, in fondo, pregiudicato da una rinuncia e da una passività originaria. In un modo o nell'altro, si é dunque creato un “debito”, si é stabilito un “patto” oscuro – così come capita, in maggior misura, in tutte le forme della così detta magia cerimoniale. In India – con il tantrismo – e in Occidente – con il dionisismo pre-orfico – si é intravista la possibilità di combinare attività e passività in uno stato di ebrezza – a sua volta, non privo di relazioni con le stesse forze del sesso – stato che é necessario condurre fino al punto dove, con l'estasi, gli antecedenti finiscono per perdere d'importanza. Dei metodi simili non potrebbero tuttavia convenire a una via d'ascesi chiara

e, oseremmo dire, “olimpica” come é quella dell'insegnamento buddhista originario. Si tratta di un'altra via”.

Eutanasia

Dei significati che il termine eutanasia può assumere, noi qui prenderemo in esame solo i due seguenti: I) morte pietosa (eutanasia terapeutica ); II) morte economa ( eutanasia economa ). Morte pietosa ( eutanasia terapeutica ). E' la morte che viene data ad una persona ( o essa stessa si dà ) per liberarla ( per liberarsi ) dalla sofferenza ( fisica o psicologica ) (1). Il problema della sua liceità si pone in maniera parialmente diversa nel caso in cui sia lo stesso sofferente a dare ( darsi ) la morte ( eutanasia per suicidio ) e nel caso sia un terzo ( eutanasia per omicidio ) (2).Eutanasia per suicidioNell' antichità classica fu ammessa anche da alcuni di quei pensatori che pur negavano in via di principio l'ammissibilità del suicidio: Platone non ammette che uno possa deliberatamente por fine alla sua vita, ma fa a ciò eccezione nel caso di sua malattia incurabile.Per il Cristianesimo, invece, il fine di sottrarsi ad una sofferenza sia pur grave, non giustifica il suicidio : la vita non appartiene a noi ma a Chi ce l'ha data; la sofferenza va vista nel suo carattere positivo di mezzo per espiare eventuali peccati e comunque per propiziarsi meriti per l'al di là (3).Nostra opinioneIl problema dell'eutanasia si colloca nel più generale problema di quando e se l'uomo abbia il diritto di sfuggire al dolore, che il Destino gli ha riservato. E' assurdo vietare a chi ha un cancro di prendere la fialetta di cianuro e permettere a chi ha mal di denti di prendere l'analgesico : entrambi i farmaci hanno il risultato di liberare dal dolore accorciando la vita : il malato di cancro, il 15 luglio 1993 , dovrebbe rinunciare al farmaco liberatore ed aspettare la scadenza naturale della sua morte ( che, per Dio che vede tutto, è il 15 agosto 1993 ) ? bene, ma allora perché gli é stato permesso di prendere il 15 luglio 1960 quell'analgesico che gli ha accorciata la vita di un mese ( avrebbe dovuto morire il 15 settembre 1993 e invece la data della sua morte fu, dall'assunzione dell'analgesioc, anticipata al 15 agosto 1993 ) (4) ? Veramente non si comprende !Volendo, dunque, tentare una risposta al problema più ampio di cui ora si é detto, si deve, così noi pensiamo, partire da due presupposti, che forse alcuni dei nostri lettori troveranno difficile accettare ma che ciò non pertanto hanno trovato l'adesione di grandi pensatori in tutti i tempi ( Pitagora, Plotino, Emerson, Gandhi....).Primo presupposto: l'uomo, così come continuerà a vivere dopo aver lasciato il suo corpo, così é anche vissuto prima di prendere di questo possesso ( nel grembo materno ).Secondo presupposto: le vicende che allietano o rattristano l'uomo in questa vita hanno la loro causa ( il loro seme ) in ciò che egli ha fatto di bene o di male nella esistenza precedente e si verificano in base ad una legge necessaria, che non tollera eccezioni : una volta posta una “causa” non si può non verificare , prima o poi, l'evento, piacevole o doloroso, che ne é l'effetto.Ora noi riteniamo che, partendo da tali presupposti, si sia costretti a concludere che l'uomo non ha il diritto di sfuggire al dolore ( che la vita gli presenta come un conto

da pagare ): come Gesù nell'orto di Getsemani deve bere l'amaro calice (5). Certo, nell'oggi egli può seminare in modo da raccogliere, il domani, frutti dolci e saporiti, ma se nel passato ha contratto un debito, che lo paghi appena il creditore bussa alla sua porta : abbia il coraggio di mangiare subito l'amaro frutto: procrastinare significa solo pagare con esosi interessi (6).Detto ciò distinguiamo il caso di chi é tanto forte da sopportare il dolore mantenendo la mente lucida e inalterato il suo equilibrio, da quello di chi, più debole, dal dolore viene “sopraffatto”, “vinto”. In questo secondo caso, il sofferente ha già perduta la sua battaglia: se il suo equilibrio é rotto, se egli é “in preda al dolore”, egli é come un generale il cui fronte abbia ceduto: una ritirata può essere il modo di salvare il salvabile, di impedire la rotta completa, la completa degenerazione ( il diventare semplicemente una carne urlante dolore e le cui urla soffocano e sottomettono le esigenze dello spirito ): in tal caso il suicidio può costituire veramente un' extrema ratio che anche l'uomo saggio può prendere in considerazione ( 7 ).E passiamo ora a parlare dell'eutanasia per omicidio.Eutanasia per omicidio.Lo stesso principio che porta la Chiesa Cattolica a condannare il suicidio ( “solo Dio , che ha dato la vita, può toglierla”), la porta anche alla condanna di chi dia la morte ad altri per sottrarlo ai dolori di una incurabile malattia.Anche la Medicina ( ufficiale) é stata sempre ed é ancor oggi contraria all'eutanasia. Il giuramento ad Ippocrate, che ogni medico era tenuto a prestare, tra l'altro diceva: “Giammai, mosso dalle preghiere insistenti di qualcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere”.E la validità di tale giuramento per l'oggi é stata ribadita dagli organismi responsabili dei medici; e questo soprattutto sotto l'incubo di due timori: quello che, una volta ammessa la “dolce morte” per gli ammalati incurabili, poi la si venga ad ammettere per chi é oppresso solo da dolori psichici, e poi ancora la si ammetta per i vecchi e così via in un sempre più ampio spregio del “dono della vita” (8); quello che, una volta concesso al medico di dar la morte, si rompa la fiducia che deve esistere tra lui e il paziente, non potendosi non insinuare nel secondo il dubbio che il primo possa agire per un'intenzione ( sia pur pietosamente ) assassina (9).Con tutto ciò non sono mancati, nell'ambito sia del pensiero religioso che di quello laico, degli escamotages ( più o meno sfacciati e riusciti ) per aggirare la severità di quel divieto, che in via di principio si voleva continuare ad affermare.Così si é voluto distinguere tra il medico, che agisce per alleviare il dolore pur sapendo di abbreviare così la vita, e il medico che abbrevia la vita per abbreviare il dolore: il primo farebbe cosa lecita e il secondo, no (10).Così ancora si é voluto distinguere tra chi con un'azione positiva abbrevia la vita e chi semplicemente omette di prestare quelle cure che la prolungherebbero : anche qui ovviamente per riconoscere la liceità della seconda condotta (11).Si tratta, si ripete, di escamotages di persone a cui é troppo gravoso il peso dei principi, che non osano formalmente rinnegare!Nostra opinione.E' chiaro che in tutti i casi in cui riteniamo lecito il suicidio, noi anche riteniamo

lecita l'attività di un terzo volta all'attuazione della volontà suicida: Tizio vuole morire ed é uno di quei pochi casi in cui effettivamente il suicidio si presenta come una extrema ratio per evitare un male morale maggiore: lecitamente io compio per lui l'azione omicida.Ma che dire se una volontà suicida non risulta espressa o addirittura non esiste ? Il rigore dei principi ci porta a rispondere che pure in tal caso l'eutanasia é lecita: purché ne sussistano effettivamente i presupposti: il mio amico, ormai in preda al dolore, “non ragiona più”: vuole non soffrire più, ma un bruto istinto di sopravvivenza gli impedisce anche di voler morire: perché io “ che ragiono” non mi dovrei sostituire a lui nel pietoso incombente?!Questo vuole il rigore della logica! Ma, venendo all'applicazione pratica: chi mai sarà così presuntuoso da ritenersi in grado di stabilire quando il togliere la vita ad una persona serva ad evitarne la degradazione morale?! Io penso nessuno ( di noi miseri mortali)!

Morte economa ( eutanasia economa ).E' la morte ( indolore ) che viene data alle persone che si reputano “un peso inutile” per la società: vecchi, malati cronici, pazzi inguaribili (….).Molti popoli dell'antico Occidente la ritenevano lecita: l'Eurota degli Spartani, la Rupe Tarpea dei Romani sono noti a tutti, ed é anche noto l'uso tra i Germani e gli Eruli di uccidere vecchi e invalidi.“Lo Stato – sosteneva il massimo Filosofo ateniese, Platone – ha bisogno di uomini e di donne robusti, di soldati validi, di madri feconde; é inutile sperperarne le risorse per gli infermi, gli invalidi, gli inetti o dannosi alla propagazione della specie” (12).Queste teorie furono fieramente combattute dal Cristianesimo. Però, passato il medioevo, cessato il fervore religioso, voci autorevoli le ripresero: sia Francesco Bacone che Tommaso Moro professarono tesi eutanatiste (13).Moro (14) in particolare nella sua Utopia (1516) raccomandava ai magistrati e ai sacerdoti di ricordare, con le migliori maniere, agli invalidi e sofferenti “l'obbligo di andarsene da questo mondo quando siano diventati di troppo peso o d'insoffribile spettacolo ai sani e robusti”. “Gli infelici – assicurava il grande Filosofo e Statista – si lasceranno persuadere a morir di fame o ad essere eliminati durante il sonno” (15). Le voci reclamanti l'eutanasia delle “bocche inutili” si fecero più numerose e più pressanti nel secolo XIX e agli inizi del secolo XX sulla scia del darwinismo sociale (16 ).In seguito alla caduta del regime nazionalsocialista si determinò, però, una reazione dell'opinione pubblica che le mise in sordina ( per sempre? ).Nostra opinione.Certo, se a un governante si ponesse veramente la scelta tra il sacrificio di un membro inutile e quello di un membro utile della società, solo uno sciocco sentimentalismo potrebbe farlo esitare: nessun dubbio ch'egli dovrebbe sacrificare il malato al sano, lo stupido all'intelligente, l'anziano ( se veramente inutile ) al giovane ( se veramente utile ).Ma questi sono casi eccezionali, specie nella nostra civiltà. In questa, la scelta che si

può presentare é tra la vita di un certo numero di “ persone non produttive” e il sacrificio di una certa quantità di beni “di consumo”: meno televisioni, meno auto, meno “dolci”, da una parte, e, dall'altra, la vita di esseri umani: chi, se non un bruto, può dubitare della scelta ( una volta che la si ponga chiaramente ) ?La scelta eutanatista si palesa ancor più inammissibile quando ad operarla non é un terzo ( il governante ), ma il diretto interessato : io, membro utile della società, debbo decidere se sacrificare la vita del “membro inutile” per salvarmi. Chi é che non vede che, proprio il fatto di porre la mia vita davanti e sopra a quella dell'altro ( più debole, più bisognoso ), smentirebbe la mia pretesa utilità, mi farebbe insomma cadere in una lampante ed irrefutabile contraddizione ? forse che l'utilità di una persona non trova il suo metro nella sua capacità di sacrificarsi, di “lasciarsi usare” dagli altri ?!Solo in un caso, dovendo scegliere “tra la mia e la vita di Vattalapesca” potrei optare per la prima senza svilirmi: quando la scelta fosse dettata dalla necessità di salvare la vita di un terzo ( la vita di Fulano più importante di quella di Vattalapesca ). Se Gandhi avesse visto un mentecatto annegare, certamente si sarebbe gettato in acqua per salvarlo a costo di sacrificare la sua vita ( per questo noi stimiamo Gandhi utile al massimo grado alla società, perché era al massimo grado disposto a sacrificarsi per essa!) . Non avrebbe fatto ciò solo se, gettarsi in acqua per salvare il mentecatto, avrebbe significato rinunciare a recarsi, metti, in ospedale per salvare altre due vite umane.

Note(1) Ma diciamo subito che, non tutti coloro che ammettono la liceità dell'eutanasia, l'ammettono per sopprimere sofferenze che siano puramente psicologiche.(2) La legge distingue i casi dell' “aiuto al suicidio” ( l'infermo chiede al medico il veleno liberatore e il medico glielo dà ), dall'omicidio del consenziente ( l'infermo chiede all'amico che gli spari una rivoltellata e questi la spara ), dall'omicidio ( il marito vede la moglie in preda alle terribili sofferenze di un'incurabile malattia e, senza dirle niente, senza chiedere previamente il suo consenso ), le versa nel cibo la stricnina ). Però, tali distinzioni sono giustificate dall'opportunità di graduare la pena in base alla “capacità a delinquere” e nulla tolgono al fatto che, in tutte le tre figure di reato, si abbia sostanzialmente un omicidio.(3) Osserva l'Arrighini – oltre che scrittore, Pastore di anime - :”Forse più ancora che da tutti i balsami della medicina e risorse della chirurgia, un buon cristiano, potrà sempre trar sollievo alle sue sofferenze dalla religione la quale gl'insegna star in esse la sua espiazione e perfezione, e mandargliele Iddio appunto pel suo bene, per la sua eterna salute, affinché cioé la sua anima, da quel fuoco di febbre e di dolore, abbia ad uscire purificata e bella come l'angelica farfalla dantesca” (Quinto: non uccidere, p. 154 ). L'Arrighini fa anche osservare che gli “strazi fisici e morali” dell'agonizzante spesso sono “più apparenti che reali”. “Infatti non si può avere sensazione del morire, poiché morire non vuol dire altro che perdere la forza vitale, la quale é il medium di comunicazione fra l'anima e il corpo. Via via che diminuisce la forza vitale, ci vien meno la forza della sensazione e della coscienza, e noi non

possiamo perder la vita senza perdere, nello stesso tempo o piuttosto assai prima, la nostra sensazione vitale, la quale richiede l'avvertenza degli organi più delicati. Anche l'esperienza lo prova poiché quelli che entrano nel primo stadio della morte e tornano poi indietro, affermano concordemente di non aver sentito altro che una sensazione di torpore o languore. Non lasciamoci pertanto trarre in errore dai singulti convulsivi, dai rantoli, dall'espressione spasmodica che scorgonsi in molti agonizzanti: questi sintomi sono soltanto penosi per lo spettatore, non per i moribondi insensibili e incoscienti. Essi sono ormai in stato di non sentire più quello che i loro nervi e la loro fisionomia automaticamente seguitano ad esprimere”.(4) E' interessante che alcuni medici del primo Ottocento negassero “la morte come catastrofe finale” e la concepissero invece “come serie di tante piccole morti che si susseguono durante il corso della vita, dalla nascita in poi”. Sul punto cfr. S. Spinsanti ( La morte umana, ed. Paoline, p. 125 ).(5) I pitagorici stigmatizzavano il suicidio come viltà e diserzione: “Lasciare il posto che ci é assegnato nella vita non é lecito senza l'ordine del capo, cioé di Dio”. In una simile visione combattentistica della vita si colloca anche il pensiero dell'Evola: “Quel che si é come persona nella condizione umana procede – Egli insegna ( in, Cavalcare la tigre, Milano, 1961, p. 323 ) - da una scelta originaria prenatale e pretemporale, con la quale si é voluto, nei termini di un “progetto originario” ( Sartre ), tutto ciò che definiva il contenuto di una data esistenza”; e ancora ( ibidem ): “Il corso dell'esistenza, pur non potendo essere attribuito alla volontà più esteriore e già umana del singolo ( della persona ) , segue, in via di principio, una linea che per l'Io ha un significato, sia pure riposto e coperto: come un insieme di esperienze importanti non in sé stesse ma per le reazioni che propiziano in noi, reazioni attraverso le quali può realizzarsi quell'essere che si é voluti essere”. Da tali presupposti ( che anche noi condividiamo ) il grande Filosofo contemporaneo deduce il dovere di non suicidarsi dato che “come in una avventura, in una missione, in una prova, in una elezione o in un esperimento, la vita terrena appare essere qualcosa per cui, prima di trovarsi nella condizione umana, ci si é decisi, accettandone in anticipo gli stessi eventuali lati problematici, squallidi o drammatici” ( Cavalcare la tigre, p. 323 ). Ma é lo stesso Evola ( Ivi, p. 324 ) a riconoscere che, una volta ammesso “ quel progetto che predetermina il corso essenziale dell'esistente individuale”, “perfino il suicidio potrebbe essere pensato come uno dei particolari atti già in esso contemplati, tanto da avere solo apparentemente il carattere di una iniziativa arbitraria della persona”.(6)Non é già che esista un vero e proprio “dovere” di non evitare il dolore: é semplicemente che ( purtroppo!) l'appuntamento col dolore che il Fato ci ha riservato non é evitabile: la scelta é solo tra il ritardarlo o l'affrontarlo ( subito ).Vogliamo con questo dire che l'uomo deve rassegnarsi a subire il dolore? Per nulla! Non solo l'uomo deve impegnarsi per seminare saggiamente ( nell'oggi ) una felice esistenza ( nel domani ), ma anche di fronte al dolore che deriva dai suoi errori passati, non deve essere né rassegnato né passivo. Non può evitarlo?Bene, che lo affronti allora; ma non rassegnato ad essere vinto, ma fermamente deliberato a

vincerlo. Insomma di fronte al dolore ( che il Fato ci riserva ) si possono assumere quattro atteggiamenti: si può sfuggirlo ( ed é da vili ), si può esserne travolti ( ed è da imbelli ), si può subirlo mantenendo la mente lucida e il nostro equilibrio ( ed é da forti ), si può vincerlo ( ed è da Eroi ).Ma si può vincere davvero il dolore ? Certo che sì! Si tratta solo di saper assumere di fronte ad esso il giusto atteggiamento. Per i dolori psicologici, questo é abbastanza evidente: certi pensieri ( certe riflessioni, più o meno...filosofiche ) hanno effettivamente il potere di farci vincere il dolore che ci deriverebbe da certe situazioni esistenziali. Per i dolori fisici, la cosa é meno evidente. Ma a farcene intuire la verità sta il fatto che certe ferite che si provocano gli amanti nell'amplesso ( o si provocano gli officianti in particolari riti di carattere orgiastico ) perdono il carattere della dolorosità proprio per come sono “vissute” le sensazioni che determinano.(7) L'Evola, dopo aver affermato la regola dell'inammissibilità del suicidio, ad essa fa eccezione per “ quel tipo di suicidio che appare essere imposto da un proprio fallimento” ( Cavalcare la tigre, p. 322 ).(8)“Il fantasma più frequentemente evocato dall'eutanasia – dice S Spinsanti ( Etica bio-medica, ed. Paoline, 1987, p. 181 ) - é quello della diga che si rompe. La diga é un'immagine che sta a rappresentare la barriera costituita dalla legge e dalla morale contro lo scatenamento degli istinti e la disgregazione sociale. Dopo l'accettazione dell'aborto – temono molti – la prossima falla nella diga sarà la legislazione sull'eutanasia! Una società centrata sui valori efficientisti e produttivi trova sempre maggiore difficoltà a giustificare investimenti che non siano compensati da benefici. L'assistenza fornita alle legioni crescenti di vecchi, in una popolazione in rapida senescenza, fa parte delle perdite secche. E se, dopo una certa età, la medicina si limitasse alle cure palliative, rinunciando a impiegare il suo vasto – e costoso! - armamentario per prolungare delle vite diventate infruttuose? La questione comincia ad essere sollevata, per ora come un semplice ballon d'essai. Sullo sfondo si delinea con il profilo dei forni crematori, il programma eugenico nazista di eliminare le “vite non degne di essere vissute”. Per rafforzare la diga contro i tempi di ferro incombenti, alcuni ritengono che sia urgente ribadire, in nome dell'etica, il “no” all'eutanasia, un “no” energico e assoluto, su tutta la lunghezza del fronte della vita giunta al termine”.(9) “Dal momento che il gesto medico può essere mortale, se é giustificato da buoni sentimenti, la fiducia é intaccata. Il malato si domanda ormai se l'iniezione che gli viene praticata é per curarlo o per ucciderlo. Si può immaginare l'angoscia che regnerà in certi reparti”. Così la Commissione per la famiglia dell'episcopato francese in un documento recente ( novembre 1984 ) sull'eutanasia : Vita e morte su ordinazione.“I motivi addotti a difesa del comportamento tradizionale dei medici sono plausibili – commenta S. Spinsanti ( Etica biomedica, p. 178 ) - ma colpisce il fatto che allo stesso argomento della fiducia del paziente nei confronti del medico facciano ricorso anche coloro che sollecitano una modifica delle norme della deontologia medica. La fiducia del malato – sostengono – é accresciuta, se questi sa che può contare sul

medico, non solo per guarire, ma anche per morire. L'angoscia più profonda del morente dei nostri giorni é quella di essere abbandonato, nel momento in cui, secondo la scienza medica, “non c'é più niente da fare”. In nome di un contratto morale implicito nell'alleanza terapeutica, il malato vuol poter contare sul medico fino all'ultimo, anche per poter finire i suoi giorni”.(10) S. Spinsanti ( Etica biomedica, p. 186 ): “La distinzione tra azione diretta e indiretta, é anch'essa tradizionale nella filosofia morale. Nel caso dell'eutanasia indiretta, l'azione produce la morte, ma l'intenzione di colui che agisce non é la soppressione. L'esempio più chiaro é quello derll'overdose di sedativi, data per alleviare i dolori del paziente, non per ucciderlo. Pio XII ha applicato esplicitamente la distinzione, che si basa sul principio del duplice effetto, alla terapia del dolore:“ Se la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l'alleviamento dei dolori, dall'altro l'abbreviamento della vita, é lecita”. Aggiungeva però, che bisogna ancora considerare se tra i due effetti vi sia una proporzione ragionevole, e se i vantaggi dell'uno compensino gli inconvenienti dell'altro”.(11) Però la Sacra Congregazione per la dottrina della fede , in una sua Dichiarazione sull'eutanasia ( del maggio 1980 ) affermava che tale va considerata “tanto un'azione quanto un'omissione che di natura sua procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”.(12) La (dolce) morte data agli individui fisicamente o psichicamente degenerati al fine di migliorare la razza, viene propriamente chiamata eutanasia eugenica. Di essa qui non ci occupiamo perché ci porterebbe alla troppa lunga disgressione necessaria per approfondire le teorie razziste.(13) S. Spinsanti ( La morte umana, ediz. Paoline ) fa notare che sia Moro che Bacone furono degli statisti e spiega la loro adesione alle teorie eutanatiste con l'influsso del mercantilismo, nelle cui teorie, com'é noto, si affermava che le risorse del mondo sono limitate.(14)Moro, peraltro, ritrattò in seguito le sue tesi eutanatiste.(15)“I mezzi proposti ( per uccidere pietosamente gli inutili ) - spiega Arrighini ( in Quinto non uccidere, p.145 ) - sono molteplici: avvelenamento, asfissia, elettrocuzione, cloroformizzazione, ecc.; ma il meno penoso, inavvertito, e quindi più raccomandato, é il gas ottenuto da Binet-Sanglè col far agire sull'azotato di ammoniaca una temperatura di 200° C. ed é già largamente usato dai chirurghi, massime negli Stati Uniti d'America, per produrre in breve tempo l'anestesia ed analgesia necessarie per gli atti operativi. Avrebbe anzi questo gas sul cloroformio e sull'etere notevoli vantaggi: in soli 20 secondi esso conduce obnubilazione della coscienza, e, dopo altri 40-50 secondi, quando siano penetrati nel sangue appena 50 milligrammi di protossido, la coscienza si spegne del tutto. Se si spinge la dose del gas circolante nel sangue a 60 milligrammi, l'individuo passa da vita a morte insensibilmente. Nessuno dei fatti disgustosi che si avverano nella cloroformizzazione: non agitazione, non senso di angoscia, non delirio, non

allucinazioni, quali colpiscono molti soggetti prima di cadere nello stato di incoscienza. Il gas potrebbe essere somministrato facendo entrare il soggetto in un locale disposto all'uopo, “sala dell'eutanasia”, dapprima gli si farebbe un'iniezione di due centigrammi di cloridrato di morfina, chè anzi, per rendere tale piccola operazione pur essa indolore, si anestetizzerebbe la parte con vaporizzazione di cloruro di etile. Posto così il soggetto in una fase preliminare di benessere cenestesico e di calma dello spirito, gli si farebbe respirare il protossido di azoto, finché attraverso uno spiraglio, non fosse accertato il suo trapasso definitivo”.

(16) Ecco come si esprime un eutanatista, Carlo Richet: “ Noi uomini inciviliti, siamo diventati troppo umanitari e di una sensibilità morbosa: sensiblerie ;la nostra organizzazione sociale é incompatibile con la selezione naturale, anzi, é una vera antiselezione perché lasciamo vivere e moltiplicarsi, con cento svariate istituzioni filantropiche, gli elementi più nocivi al benessere, alla sanità, al vigore fisico e morale della razza”.E un celebre alienista, Hoche – riferendosi ai pazzi irrimediabilmente indementiti per cui “la medicina é impotente” e neanche può “ far loro giungere neppure uno spiraglio di conforto traverso la fitta nebbia della loro incoscienza” - domanda “Quale vantaggio per essi, per le desolate o indifferenti famiglie, per l'oberata società civile, il conservarli ancora in vita? Non sarebbe più pietoso, anzi, meno crudele, abbreviare quella misera esistenza, troncare quelle orribili e troppo lunghe agonie corporee e psichiche?”.Sul punto cfr. Arrighini ( Quinto: non uccidere , p. 141 ss )da cui abbiamo tratte le citazioni.

Immortalità

“Quale domanda é mai stata rivolta un maggior numero di volte, quale idea é stata più abile conduttrice per gli uomini nell'indagine del problema dell'universo, quale quesito é più inseparabilmente connesso con la nostra esistenza, dell'immortalità dell'anima umana? E' stato il tema di poeti e di saggi, di sacerdoti e di profeti; i re sul trono ne hanno discusso, mentre i mendicanti per le strade hanno sognato di essa. La parte migliore dell'umanità vi si é avvicinata, mentre quella più reietta ne ha fatto oggetto delle sue speranze. L'interesse per tale argomento non é scomparso né scomparirà finché esisterà la natura umana. Varie risposte sono state date da menti diverse. Migliaia e migliaia di persone, in ogni periodo della storia, hanno rinunziato a discuterne, e ciò nonostante il problema rimane più vivo che mai. Spesso nel tumulto e nelle lotte della nostra vita sembra che lo dimentichiamo, ma improvvisamente, quando ci viene strappato qualcuno da noi amato, qualcuno ch'é vicino e caro ai nostri cuori, e cessa per un momento la lotta e il trambusto del mondo che ci circonda, l'anima si chiede: “ Che cosa vi é dopo ?” “Che cosa diviene dell'anima?” (1)Noi cercheremo nelle righe che seguono di dare una risposta alle domande ( con tanto afflato poetico), dal grande Swami, formulate; usando, certo, parole, delle sue, più modeste, ma cercando di sopperire alla loro inadeguatezza, rispetto al difficile argomento, col fare frequenti richiami ai Maestri, i cui libri ci sono stati d'aiuto e, se del caso, riportandone integralmente il pensiero ( per evitare di fraintenderlo ).Cominceremo col chiarire il quesito: non é, infatti, importante solo sapere “ se noi sopravviveremo alla morte” , ma anche “come vi sopravviveremo”: come quelle fatiscenti larve umane di cui gli antichi popolavano l'Ade ? Se ciò fosse o anche se fosse che noi sopravviveremo ( per un'eternità!) coi limiti e al livello di coscienza a noi ora abituale, ebbene allora ben poco ci sarebbe per noi motivo di rallegrarsi (2).Solo molto impropriamente, infatti, i più di noi possono dire di essere vivi durante la c.d. loro vita: i più di noi , non vivo“Quale domanda é mai stata rivolta un maggior numero di volte, quale idea é stata più abile conduttrice per gli uomini nell'indagine del problema dell'universo, quale quesito é più inseparabilmente connesso con la nostra esistenza, dell'immortalità dell'anima umana? E' stato il tema di poeti e di saggi, di sacerdoti e di profeti; i re sul trono ne hanno discusso, mentre i mendicanti per le strade hanno sognato di essa. La parte migliore dell'umanità vi si é avvicinata, mentre quella più reietta ne ha fatto oggetto delle sue speranze. L'interesse per tale argomento non é scomparso né scomparirà finché esisterà la natura umana. Varie risposte sono state date da menti diverse. Migliaia e migliaia di persone, in ogni periodo della storia, hanno rinunziato a discuterne, e ciò nonostante il problema rimane più vivo che mai. Spesso nel tumulto e nelle lotte della nostra vita sembra che lo dimentichiamo, ma improvvisamente, quando ci viene strappato qualcuno da noi amato, qualcuno ch'é vicino e caro ai nostri cuori, e cessa per un momento la lotta e il trambusto del mondo che ci circonda, l'anima si chiede: “ Che cosa vi é dopo ?” “Che cosa diviene dell'anima?” (1)Noi cercheremo nelle righe che seguono di dare una risposta alle domande ( con tanto

afflato poetico), dal grande Swami, formulate; usando, certo, parole, delle sue, più modeste, ma cercando di sopperire alla loro inadeguatezza, rispetto al difficile argomento, col fare frequenti richiami ai Maestri, i cui libri ci sono stati d'aiuto e, se del caso, riportandone integralmente il pensiero ( per evitare di fraintenderlo ).Cominceremo col chiarire il quesito: non é, infatti, importante solo sapere “ se noi sopravviveremo alla morte” , ma anche “come vi sopravviveremo”: come quelle fatiscenti larve umane di cui gli antichi popolavano l'Ade ? Se ciò fosse o anche se fosse che noi sopravviveremo ( per un'eternità!) coi limiti e al livello di coscienza a noi ora abituale, ebbene allora ben poco ci sarebbe per noi motivo di rallegrasi (2). Solo molto impropriamente,infatti, i più di noi possono dire di essere vivi durante la c.d. loro vita: i più di noi, non vivono, ma sono vissuti dai pensieri e dalle passioni, che vengono, via via nel tempo, ad occupare la loro mente :” Sono aspirato dai miei pensieri, dai miei ricordi, dai miei desideri, dalle mie sensazioni, dalla bistecca che mangio, dalle sigarette che fumo, dall'amore che faccio, dal bel tempo, dalla pioggia, da quest'albero, da questa vettura che passa, da questo libro” - scrive G.I Gurdjeff descrivendo la vita inautentica e “sonnambolica” dell'uomo comune (3). I più di noi ( ahimè, va riconosciuto ) non vivono, ma sono morti durante la loro stessa vita ( e forse é per questo che non pensano alla morte e quasi sembra che non la temano: morendo essi non fanno che andare dal nulla al nulla)Ma non é certo una tale sopravvivenza quella che accende le speranze della migliore umanità: quella che a questa può interessare, non é la sopravvivenza di un “io” larvale, ma la sopravvivenza di un “io” nello splendore e nella pienezza di una gloriosa consapevolezza della sua divinità: in altre parole, quel che può interessare all'uomo superiore, non é la mera sopravvivenza, ma l'immortalità.Diventeremo mai immortali? Noi abbiamo fede (4) di sì: abbiamo fede che a tale glorioso traguardo finiremo per giungere ( anche se forse solo dopo aver viaggiato nell'esistenza per molti giorni bui seguiti da ancor più buie notti) (5); e tutti noi e non soltanto pochi di noi (6): sia chi di noi, già sveglio, ha mosso i primi passi verso l'ambiziosa meta e sia chi, ancor preda del sonno, della meta da raggiungere, neanche ha un'idea vaga.Certo, se, del buon fondamento di tale nostra fiduciosa convinzione, ci viene chiesto di portare prove di matematica evidenza, di ciò noi non siamo in grado: tale convinzione essendo alimentata solo da intuizioni e sensazioni della nostra mente ( e non da precisi ragionamenti del nostro cervello ) (7). Però, siccome il sorgere in noi di tali sensazioni e intuizioni é stato favorito dalla lettura di certi pensieri, noi qui vogliamo, nella speranza di essere di aiuto a qualcuno, indicare, di tali pensieri, almeno i tre, che più ci hanno colpito.Primo: noi abbiamo la ferma convinzione di essere sempre lo stesso “io” nonostante che il nostro corpo ( e i nostri pensieri! ), passando dall'infanzia alla giovinezza, e da questa alla vecchiaia, sia ( siano) indubbiamente diverso ( diversi ). Non fa pensare ciò che il nostro “io” sia cosa distinta dal nostro corpo?Questo pensiero noi lo abbiamo tratto dalla Bhagavad Gita ( Il canto del beato ), il grande monumento di spiritualità lasciatoci dall'antica India vedica. Com'é noto nella Bhagavad Gita si narra di un principe-guerriero, Arjuna, che disperato all'idea di dover combattere contro un esercito nelle cui file militano tante persone da lui

stimate, viene rincuorato dal suo auriga, che é Krishna, la Persona Suprema, con le seguenti parole : “ Sebbene tu dica sagge parole, ti affliggi senza ragione. Il saggio non si lamenta né per i vivi né per i morti. Mai ci fu un tempo in cui non esistevamo, Io, tu e tutti questi re, e mai nessuno di noi cesserà di esistere. Come l'anima incarnata (il corsivo é naturalmente nostro) passa , in questo corpo, dall'infanzia alla giovinezza e poi alla vecchiaia , così l'anima passa in un'altro corpo all'istante della morte. L'anima realizzata non é turbata da questo cambiamento”.(8)Secondo pensiero ( che convince dell'immortalità dell'anima): il nostro “io” non si può identificare con nessuna parte od organo del nostro corpo ( e rimane integro, anche se una parte od un organo del corpo viene da esso asportato: anche se mi tagliassero un braccio, il mio “io” si sentirebbe sempre lo stesso, se pur handicappato nella sua attività). Non fa questo intuire che l' “io” é cosa diversa dal corpo?Questo pensiero noi lo abbiamo tratto da un “detto” di Sri Ramakrishna ( letto nel più volte citato Alla ricerca di Dio ,p. 271 ). Dice Sri Ramakrishna:” Conosci te stesso, e allora conoscerai Dio. Che cos'é il mio “io” ? é forse la mia mano? o il mio piede? o la mia carne, o il mio sangue, o qualche altra parte del mio corpo? Se riflettete bene, dovete riconoscere che non vi é nulla che possiate chiamare “io”.Terzo pensiero ( che convince dell'immortalità dell'anima): la conoscenza e la percezione del mondo esterno non può essere spiegata solo dal corpo ( e dai suoi centri nervosi ), dato che se manca un quid aliud non si realizza: questo quid é il nostro “io”, che, pertanto, ancora una volta si rivela diverso dal corpo.Questo pensiero lo abbiamo visto così elaborato da Swami Vivekananda ( in Jnana Yoga , p. 209 ): “Noi vediamo, che il corpo non può essere l'anima. Come mai?Perché non é intelligente. Un cadavere non é intelligente, e così pure un pezzo di carne nella bottega di un macellaio. Ora, che cosa intendiamo dire per intelligenza? Una potenza reattiva. Approfondiamo un po' più la cosa. Ecco un bicchiere: lo vedo. Come? Dei raggi di luce partenti dal bicchiere entrano nei miei occhi e creano un quadro nella mia retina, quadro che viene trasportato al cervello. Finora, però, non c'é visione. Quelli che i fisiologi chiamano nervi sensorii trasmettono questa visione verso l'interno. Ma fino a questo momento non c'é reazione. Il centro nervoso situato nel cervello trasmette l'impressione alla mente, e quest'ultima reagisce. Appena avviene una tale reazione, ecco che il bicchiere invia a me il suo raggio e diviene visibile. Prendiamo un altro esempio più comune. Supponete di starmi ad ascoltare attentamente – é sempre Swami Vivekananda che parla - e che una zanzara si ponga sulla punta del vostro naso, dando a voi quella piacevole sensazione che possono dare le zanzare. Voi, però, siete così attenti ad ascoltarmi che non sentite affatto la morsicatura della zanzara. Che cosa é avvenuto? La zanzara ha morsicato una certa parte della vostra pelle in cui vi erano certi nervi, i quali hanno trasmesso al cervello una certa sensazione. La impressione ha luogo, ma la mente, essendo altrimenti occupata, non reagisce, e così voi non siete consapevoli della presenza della zanzara. Allorchè si ha una nuova impressione – conclude Vivekananda – se la mente non reagisce, non l'avvertiamo, ma quando avviene la reazione mentale, allora sentiamo, vediamo e udiamo. A questa reazione si accompagna l'illuminazione, come la chiamano i filosofi seguaci della Samkhya. Vediamo che il corpo non può illuminare, poiché l'assenza di attenzione rende impossibile la sensazione”.

Lo studioso a questo punto dirà che i “pensieri” da noi riportati possono anche suggerire che l' “io” é distinto dal corpo e che quindi a questo sopravvive (9); ma non che l' “io”, nella sua sopravvivenza, riuscirà a raggiungere quella gloriosa consapevolezza della sua divinità e, quindi, quell'immortalità, di cui all'inizio parlavamo.E questo é vero: in effetti a far intuire la verità dell'immortalità dell'anima, i Filosofi e i Sapienti, le cui Opere abbiamo letto, giungono in base ad ulteriori riflessioni. Che però noi qui, costretti a contenere l'ampiezza della “voce” che stiamo scrivendo per rispettare la complessiva armonia dell'opera, non possiamo purtroppo riportare.Ci limitiamo, pertanto, a far riflettere lo studioso su questo: se l' “io” non é il nostro corpo e non é neanche i nostri pensieri e le nostre passioni e i nostri sentimenti ( dato che questi cambiano ed egli rimane sempre identico a se stesso ); questo “io” - che non può essere detto né grasso né magro, né forte né debole, né coraggioso né vile, né intelligente né stupido ( appunto perché distinto e diverso da ogni qualità, corporea, intellettuale o caratteriale ) - non viene spontaneo pensarlo dotato di ogni virtù e di ogni potenza? Se questo “io” può percepire senza necessità di organi ( che lo condizionano e lo limitano) (10), non viene spontaneo pensarlo dotato della qualità divina dell'onniscienza ?

Note

(1) Così Swami Viveknanda in Jnana Yoga, p. 203 .

(2) Scrive Varia ( uno pseudonimo che occulta l'autore di “Ancora sulla sopravvivenza, sui patti, la paura e altro ancora” in “Introduzione alla magia come scienza dell'io”, vol.III, p.209 ), polemizzando con la corrente concezione dell'immortalità come mera sopravvivenza alla morte: “ Se volessimo metterci ad ironizzare, potremmo chiedere se, a ben pensarvi, sia proprio allettante l'idea che ogni persona sopravviva, per l'eternità, con tutto ciò che é, che corrisponde positivamente al suo Io, alla sua personalità reale individuale, magari con quei commerci fra “spiriti” riprendenti nell'aldilà le routines sociali terrene, di cui Swedenborg ha parlato in un tale grottesco visionarismo da rendere scettici di fronte anche ad altri aspetti di questa personalità, spesso ancora valorizzata in ambienti di spiritisti”.

(3) Confr. J Evola , Cavalcare la tigre, p. 87.

(4) Ahimè, non una fede costante e assoluta! Perché per noi vale più che mai, quel che Emerson diceva per la generalità degli uomini: “La nostra fede viene a momenti, il nostro vizio é abituale” ( “La superanima” , in “Saggi”, Torino, 1962, ed. Boringhieri, p. 196 ):Ma Emerson anche aggiungeva : “Eppure in quei brevi momenti c'é una profondità che obbliga ad attribuire loro una realtà maggiore che a tutte le altre esperienze. Per questa ragione, l'argomento sempre pronto a far tacere coloro che concepiscono straordinarie speranze per l'uomo, vale a dire il richiamo all'esperienza, é in ogni

caso invalido e vano. Una speranza più forte abolisce la disperazione. Noi abbandoniamo il passato a chi ci obietta una cosa del genere, e continuiamo a sperare. Costui ci deve spiegare questa speranza. Noi siamo d'accordo che la vita umana é meschina, ma come possiamo scoprire che essa é meschina, che cos'é il fondamento di questa inquietudine, di questo vecchio scontento? Che cos'é il senso universale del bisogno e dell'ignoranza, se non la delicata insinuazione con cui l'anima eleva la sua enorme pretesa?” ( ibidem ).

(5) Si ricordi il detto sapienziale “ La vita é come un viaggio durante la notte”.

(6) Al quesito “ se tutti gli uomini vedranno Dio” ( quesito che, come subito vedremo, é strettamente collegato, anzi é interdipendente, con quello “se tutti gli uomini raggiungeranno l'immortalità” ) , Sri Ramakrishna rispondeva in maniera chiaramente positiva: “Nessuno – diceva Egli – é obbligato a digiunare per tutta la giornata. Alcuni mangiano alle nove del mattino, altri a mezzo giorno, altri ancora alle quattordici; vi sono poi coloro che prendono il loro cibo soltanto al tramonto del sole. Del pari, tutti gli uomini potranno e dovranno vedere Dio, un giorno o l'altro, sia in questa vita sia dopo numerose esistenze” ( “Alla ricerca di Dio”, p. 15 ).Così come non tutti possono vedere Dio in questa vita, non tutti possono diventare in questa vita immortali; però tutti, prima o dopo, diventeremo immortali.Detto ciò va riconosciuta la giustezza di quanto sostiene Ea ( chiaramente uno pseudonimo) in “Il problema dell'immortalità” ( “Introduzione alla magia quale scienza dell'io”, vol I, p. 156 ss). Per Ea occorre distinguere tra immortalità e sopravvivenza. Immortalità si ha - se abbiamo ben compreso il pensiero dell'Ea – quando l' “io”inferiore si identifica con l' “io” superiore ( un'altra maniera questa per dire quel che esprimeva nella citazione precedente Sri Ramakrishna parlando dell'uomo che “vede Dio” ) e di conseguenza si libera da ogni condizionamento dei sensi fisici, tanto da poter dire “Tutto ciò che mi viene dal mondo dei sensi ora é soppresso, eppure sento la mia coscienza chiara, trasparente, intangibile” ( “Il problema dell'immortalità”, cit., p. 163 ). Sopravvivenza si ha quando l'uomo conserva o solo in parte ha obnubilata la “coscienza” che aveva durante la vita.E giustamente Ea sostiene che la immortalità é un'eccezione, la sopravvivenza é di pochi e la non-sopravvivenza é dei più.Infatti l'unica cosa, che sopravvive alla morte dei più, é un “cadavere psichico”: “Come l'organismo fisico – spiega Ea - con la morte non si dissolve nel nulla, ma dà luogo, dapprima, ad un cadavere, poi, ai prodotti di dissociazione di esso che vanno a seguire varie leggi chimico-fisiche, lo stesso devesi pensare approssimativamente per la parte “psichica” dell'uomo: alla morte sopravvive, per un certo tempo, qualcosa come un “cadavere psichico”, una specie di fac-simile della personalità del defunto, che, in certi casi, può dar luogo a manifestazioni varie. Sono proprio queste manifestazioni o del cadavere psichico ovvero di parti di esso ( nel caso che la sua successiva dissociazione sia avvenuta ) che dagli spiritisti vengono ingenuamente assunte come prove “sperimentali” per il sopravvivere dell'anima, laddove, per uno sguardo più acuto, esse varrebbero piuttosto come una dimostrazione del contrario”.A questo punto può essere di conforto per quei nostri lettori, spaventati dalle severe

affermazioni di Ea, dire che , a nostro ( modestissimo! ) avviso, la capacità stessa di distaccarsi dai contingenti problemi della vita materiale, per interessarsi a problemi filosofici, indica un “io” già sufficientemente strutturato per sopravvivere alla morte.

(7) E replichiamo agli scettici con le parole di Emerson ( scritte in La Superanima, p. 205): “L'anima percepisce e rivela la verità. Noi conosciamo la verità quando la vediamo, gli scettici e gli spiritosi dicano pure quello che vogliono. La gente sciocca vi domanda quando avete detto qualcosa che essi non vogliono udire: “Come sapete che questa é la verità e non un vostro errore?”. Noi conosciamo la verità quando la vediamo, con l'opinione, come sappiamo di essere svegli quando siamo svegli”.

(8) Bhagavad Gita, cap. 2, versi 11-13.

(9) Ma la diversità e la superiorità dell' “io” sul corpo si possono anche sperimentare. E' questo l'insegnamento di Swami Ramacharaka (uno pseudonimo dietro cui ebbe a celarsi l'Atkinson, un avvocato di Boston diventato discepolo di Swami Vivekananda) : “ Mentre la maggioranza accetta, per fede, il credo dell'immortalità dell'anima, pochi sono consci che ciò può essere dimostrato dall'anima stessa. I maestri Yoghi insegnano al candidato la seguente lezione: Lo studioso deve mettersi nello stato di meditazione o almeno di grande riflessione e sforzarsi di immaginare se stesso come morto, ossia deve farsi un concetto mentale di se stesso morto. Ciò dapprima pare una cosa molto facile da immaginarsi, ma in realtà é una cosa impossibile da farsi, perché l'Ego si rifiuta di concepire questo fatto e gli é impossibile immaginarlo. Provatelo voi stessi. Troverete che potete immaginare il vostro corpo giacente immobile e privo di vita, ma lo stesso pensiero prova che per tal modo siete “Voi” che guardate il corpo. Così é chiaro che “Voi” non siete morto per nulla, neppure nella immaginazione, sebbene il corpo possa esserlo. Oppure se rifiutate di staccarvi colla fantasia dal vostro corpo, potete pensare il vostro corpo, ma il Voi , che rifiuta di lasciarlo, é sempre vivo e riconosce il corpo morto come una materia distinta dal vostro vero io . In qualunque caso voi tentiate di di considerare la cosa non potete mai immaginare voi stesso come morto. L'Ego insiste nel rimaner vivo in ognuno di questi pensieri e così trova in se stesso il senso e la sicurezza dell'immortalità. In caso di sonno o stupore risultante da un colpo o da narcotici o anestetici, la mente é apparentemente assente, ma l'Io é conscio di una continuità d'esistenza . E così uno può immaginarsi in uno stato di incoscienza o di sonno nel modo più facile e vedere la possibilità di tale stato, ma quando vuole immaginare l'Io come morto la mente si rifiuta assolutamente di farlo. Questo fatto, che l'anima porta in se stessa la prova dell'immortalità, é magnifico, ma bisogna aver raggiunto un certo grado di sviluppo prima di poterne concepire il pieno significato” ( Ramakrishna, Raja Yoga, F.lli Bocca Editori, p. 22 ss.).

( 10) E ci sia permesso ancora una volta di citare il grandissimo Emerson ( La Superanima, cit. , p. 199 ): “....l'anima non é un organo, ma qualcosa che anima e che esercita tutti gli organi; non é una funzione come il potere della memoria, del calcolo, del confronto, ma usa tutti questi poteri come mani e piedi; non é una facoltà, ma una luce; é lo sfondo del nostro essere, in cui essi giacciono, un'immensità non posseduta e che non può essere posseduta”.

Individualismo

Nulla ha più pregio ed é più lodato presso di noi occidentali che l'individualismo. E' bene? É male? É segno di un progresso o di un regresso della nostra civiltà?Per dirlo bisogna cominciare col chiarire che il termine “individualismo” rimanda a due significati, non solo diversi, ma antitetici.Il primo é quello reso palese dall'espressione “ avere una forte individualità”; il che é come dire: avere tanta “forza di carattere” da sfuggire ai condizionamenti sociali, l'esser capace di “ragionare con la propria testa”.Il secondo ( significato) si manifesta nell'espressione “Essere individualisti”; il che é come dire: essere portati a preoccuparsi più delle cose private che di quelle pubbliche, nel presupposto che la propria vita sia separata da quella degli altri: ciò che tocca costoro, non tocca noi e viceversa, quindi: “Ognuno per sé, Dio per tutti”.Ora a chi ci domanda se é bene l'individualismo, noi rispondiamo che é bene nel primo significato, com'é bene tutto ciò che é forza, che é potere (1); ma é male nel secondo (2), com'è male tutto ciò che é falso, che non corrisponde alla effettiva realtà delle cose.Perché le cose nella loro realtà effettiva stanno così: che ognuno di noi, non solo non é separato, ma é legato da infiniti, anche se invisibili, fili a tutti gli altri: ogni nostra azione, diremo di più, ogni nostro pensiero influisce sugli altri e nulla accade in Sirio o in Venere o in Marte o in qualsiasi altro luogo dell'infinito Universo, la cui onda lunga, prima o poi, non ci lambisca. E la prova del nove della ( sacrosanta ) verità di tale nostro giudizio, la ricaviamo dal fatto che se uno volesse fino in fondo “essere individualista” ( nel secondo significato ) si precluderebbe inesorabilmente la possibilità di “avere una (forte ) personalità” ( nel primo significato ). “Un uomo cresce con i suoi ideali” era solito dire uno Statista che aveva saputo elevarsi dagli umili natali al vertice della propria Nazione (3). E mai osservazione fu più giusta: chi si rinchiude nel proprio “particulare” taglia le radici da cui ogni grande anima seppe trar linfa e forza per il proprio agire: Gandhi, San Paolo, Aurobindo, San Francesco – che con la grandezza della loro personalità seppero soggiogare milioni di loro simili e lasciare un'impronta indelebile nella storia – sono stati tutti uomini in cui anche rifulse in massimo grado la capacità di sacrificarsi per gli altri (4): non dice nulla questo ? non dice che “essere individualisti” e “avere una personalità”, non solo sono cose diverse, ma antitetiche: la prima essendo male e la seconda la negazione della prima, cioé bene?!

Note(1) Il progresso dell'Umanità non é frutto di un lavoro di équipe, ma é dovuto a poche grandi Personalità che hanno avuto la forza di elevarsi sulle masse. Emerson insegnava: “ Tutte le rivelazioni, sia d'ordine meccanico, che intellettuale o morale, ( che ) vengono fatte ( sono dovute ) non a comunità, ma a singoli individui; tutti gli eventi notevoli dell'età nostra, tutte le città, tutte le colonie, possono essere ricondotti alla loro origine al cervello di una determinata persona; e tutti gli elementi che costituiscono la nostra civiltà, furono prima pensieri di pochi e nobili intelletti”

( “Riflessioni sulla vita” in “Energia morale”, Milano, p. 302 ).E sempre Emerson ( Ivi, p. 299 ):”Le masse sono rozze, difettose, non evolute, perniciose nelle loro richieste e nella loro influenza e non hanno bisogno di essere adulate, ma educate. Io non desidero fare alcuna concessione ad esse, ma solo domarle, disciplinarle, dividerle, spezzettarle per trarne degli individui” ( dove evidentemente il termine “individui” é inteso nel primo dei significati da noi chiarito).E' un sublime paradosso della Natura che, quanto più uno aumenti il proprio senso di solidarietà ( in termini filosofici: il senso dell'unità di tutti gli esseri ) e più egli si diversifichi dalla massa, divenga una “grande personalità

(2) Anche se l'individualismo ( in tale secondo significato ) trova nella nostra epoca una più che ottima giustificazione in un soffocante e ottuso “socialismo”, sotto la cui bandiera si vorrebbe che, entusiasti e felici, tutti marciassero.Perché é giusto che io mi preoccupi e mi sacrifichi per il bene dell'Umanità; ma non é detto che questo “bene dell'umanità” sia quello dettato dai “piccoli uomini” che ( purtroppo! ) stanno al governo degli Stati. Essi ti dicono: “Che perdi tempo tu, monaco, a pregare, tu, filosofo, a meditare, tu, poeta, a scrivere ? non sai che ci sono dei poveri “pensionati” che non hanno i soldi per comprare la televisione ( che li inebetisce!), le medicine ( che li avvelenano!), la carne ( che li intossica!)-?”. E vorrebbero che tutti con ogni loro energia e dedizione si dedicassero all'unica cosa che la loro ( cortissima!) vista sa vedere come “bene dell'umanità”: l'aumento sempre maggiore dei beni di consumo.Vivekananda , il grande Filosofo dell'India moderna, alla domanda “Che bene ne avrà il mondo dalla conoscenza?” rispondeva ( in “Jnana Yoga”,F.lli Bocca Editori, p.266 ): “Che cosa si vuole significare con questo? Ad un bambino piacciono i canditi. Facciamo conto che Voi stiate facendo delle indagini sull'elettricità. Allora il bambino verrà fuori a chiedervi: “ Ciò che state facendo vi darà la possibilità di comprarmi dei canditi?” “No” – rispondete voi. “Allora quale bene farà” – domanda il bambino. Così gli uomini – continua il grande Filosofo – chiedono: “Che bene farà a questo mondo? Ci procurerà del denaro'” “No”. “Allora qual'é il bene che apporterà?”. Ecco dunque ciò che gli uomini intendono col “fare del bene” al mondo”.

(3) Adolfo Hitler, che nato in una famiglia della piccola borghesia, diventò poi, come tutti sanno, Cancellier del Terzo Reich.

(4) Che l' altruismo comporti il sacrificio dell'individualismo ( nel secondo significato da noi attribuitogli ) é ben chiarito da Vivekananda ( “Jnana-Yoga”, cit.) : “Anche colui – osserva il grande Filosofo indiano – che si spaventa se gli si dice che quell'individualità é illusoria, ed é cosa ignobile l'attaccarsi ad essa, pure egli vi dirà che l'estrema abnegazione é il centro di ogni moralità. Ora, che cos'é la perfetta abnegazione? Essa significa la negazione di questo “io” apparente, la negazione di ogni egoismo” . “Perché ciascuno dice “fate bene agli altri” ? Per quale ragione tutti i grandi uomini hanno predicato la fratellanza umana e degli uomini ancor più

spiritualmente elevati la fratellanza di tutto ciò che ha vita?” - si domanda ancora il Vivekananda ( in Op. citata, p. 231 ) e risponde : “Perché, ne siano essi consci o meno, al di là di tutto ciò che é superstizione irrazionale e personale, brilla l'eterna luce dell'Io che nega ogni molteplicità ed afferma che tutto quanto l'universo non é che Unità”. E dove c'é l'unità, dove manca un “tu” che ci possa nuocere, viene meno anche la paura; e venuta meno l'oppressione della paura, l'uomo trova naturale essere “altruista”, amare.Legga ancora lo studioso il seguente passo tratto da un discorso dell'Aivanhov ( tenendo presente che la “personalità” , di cui parla l'Aivanhov , é la individualità nel suo secondo significato, di cui finora noi abbiamo parlato) : “La paura e il timore debbono essere vinti. E' per questo che é detto che il regno di Dio appartiene agli audaci. E' la personalità che ha paura, mai l'individualità. La personalità ha paura perché si sente isolata, si sente povera, é per questo che tenta sempre di prendere, per garantire la sua sicurezza. Quando si ha paura non si può amare. L'amore é incompatibile con la paura; perché dove esiste l'amore, la paura sparisce” ( il discorso, da cui abbiamo tratto il passo, é pubblicato in “La chiave essenziale”, ed. Prosveta, 1986,p. 55 ).

Laicismo

Un saggio mi dice, “credi in Dio, Dio esiste”. Egli mi appare del tutto degno di rispetto, ha la fronte spaziosa, l'occhio sereno e buono; e tuttavia sento che, se io fondassi la mia vita ( le scelte morali ch'essa mi impone ) solo sulle sue parole, la fonderei ( le fonderei ) sulla infida e malfida arena: sempre il dubbio che tali parole fossero il frutto di un errore ( sia pure in buona fede ) mi tormenterebbe e il timore di avere impostato la mia vita su una falsa premessa mi assalirebbe (1). Se Dio esiste, ci crederò, ma quando lo vedrò ( o almeno vedrò un Suo riflesso ) (2); perché , solo così facendo, so che mi sarà possibile quella pace mentale e del cuore “che supera ogni intendimento” (3).Vero che bisogna vivere; e anche senza certezze, ma fidando sulla semplice probabilità, che quel che ci viene detto sia vero: raramente, ai bivi frequenti della vita, nella scelta della strada che ci dovrebbe condurre alla meta, possiamo giovarci della nostra esperienza: il più delle volte dobbiamo fidarci delle altrui parole. La qual cosa é ritenuta ed é ragionevole; e quel che é ragionevole nella ricerca dei beni terreni, deve anche esserlo nella ricerca del Sommo Bene e della Verità. Se una persona, di cui già abbiamo sperimentata la saggezza, ci dice “ Fai questo e questo e vedrai quest'altro” , e la meta che ci addita é adeguata al sacrificio, che i pesi di cui ci carica comportano ( e lo sarà senz'altro, qualunque siano tali sacrifici, se tale meta é il Sommo Bene ), perché non seguire il consiglio? E' ragionevole rispondere a tale domanda di sì ( sì, tale consiglio va seguito) (4) ed assurdo sarebbe rispondervi di no (5).Ma questo non contraddice la premessa da cui siamo partiti.A questo punto, tu, studioso, concluderai che la nostra filosofia ( ammesso che quel che diciamo meriti tale nome ) é una filosofia laica: non é forse da “laici” rifiutare e smascherare ogni idea fondata sul principio di autorità ( e non sull'esperienza) (6)? non siamo venuti noi a dire tutto questo? Non precisamente; e certamente nulla noi abbiamo a che fare col laicismo. A cui siamo pronti a riconoscere alcuni meriti ( in particolare, quello di favorire la tolleranza tra le opposte fedi ) (7), ma a cui siamo anche costretti a contestare ( almeno ) tre errori.Primo, di essere assai poco....laico. La cultura laica ha coscienziosamente eliminati gli Dei dall'Olimpo e i Santi dagli altari, ma si é creata una mitologia con parole fatte di niente, parole a cui nessun preciso concetto corrisponde. Domandate a un laico perché dal petto di una madre sgorga il latte necessario per il suo bimbo e vi risponderà “E' Madre Natura che provvede”; domandategli perché una mela dall'albero cade a terra e vi risponderà “E' per la forza di gravità” : ma chi l'ha mai vista “Madre Natura”, chi l'ha mai vista la “Forza di gravità” (8)?Secondo errore ( del laicismo ): una sopravvalutazione della ragione e ( almeno tendenzialmente ) un rifiuto della trascendenza.

Invece alla ragione può , al più, affidarsi il ( limitato ) compito di evitarci l'errore: se io, dopo aver premesso “tutti gli uomini sono mortali”, concludo “Mario, che pure é un uomo, vivrà in eterno”, un qualche cosa stride nel mio cervello ad indicarmi che sono caduto in errore. Ma questo c'é ( l'errore c'é ) se il “dato”, fornito dall'esperienza alla ragione, é esatto, se effettivamente tutti gli uomini sono mortali. In definitiva é sull'esperienza che si fonda la conoscenza; e l'esperienza non é di per sé né razionale né irrazionale: é, e basta. La vera risposta a tale domanda é allora: quale é l'esperienza da noi utilizzabile? E nella risposta a tale domanda si rivela la limitatezza del laicismo : per il laicismo, infatti, l'unica esperienza utilizzabile è quella che deriva dai sensi ( fisici ben s'intende !): “Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”.Mentre, invece, all'esperienza derivante dai sensi, ben poco é dovuto di quello, che si considera il patrimonio morale irrinunciabile dell'umanità: che non sia giusto che il vinto sia fatto schiavo, o il bimbo gracile sia gettato dalla rupe Tarpea, rientra nel credo dell'umanità, non in seguito all'esperienza, ma in seguito all'ispirazione (9): all'ispirazione giusta e santa di uomini che seppero rendersi degni di riceverla ( comandando ai sensi e salendo come Mosè sul monte Sinai a parlare col Cielo) (10).E, a ben guardare, anche quel che si deve ai sensi, spesso acquista per noi importanza per un valore aggiuntivo, che ai sensi non é dovuto: io sento la “Nona” di Beethoven e vado al settimo cielo, io vedo lo spettacolo del sole che sorge e la mia anima sembra fondersi con tutto il Creato: certo ciò é dovuto ai sensi, ma anche il mio cane aveva le orecchie per sentire e gli occhi per vedere eppure a lui, né la musica di Beethoven né lo spettacolo del sole sorgente, hanno dato una particolare commozione: da che deriva, se non dall'ispirazione ( e non dall'esperienza ), quel valore aggiuntivo di cui io, uomo, ho goduto?!Terzo errore ( del laicismo ): la mentalità critica e dissacrante.Criticare é bene, se la parola é presa nel senso letterale: cioé nel senso di un separare il buono dal cattivo, il grano dal loglio. E' male, invece, quando lo sguardo quasi automaticamente corre e si appunta sugli aspetti negativi delle cose e delle persone. Tale é invece l'atteggiamento dei laici: sembra sia loro naturale vantarsi del loro spirito “mordace” o, addirittura, della loro “rabbia” e disprezzare tutto ciò che é venerazione e rispetto. Senonché il Cielo non scende con i suoi doni a visitare il cuore degli ( intellettualmente ) orgogliosi, ma quello dei “poveri di spirito” (11). E chi vuol cogliere il vero, non deve, superbo, muovere come un novello Teseo alla sua ricerca (12), ma calmo e sereno preparare le condizioni a che il Cielo glielo riveli ( un po' come quando vuole ricordarsi di qualcosa: che fa allora? si affanna ad aprire a casaccio i cassetti della sua memoria o, saggio, assume un atteggiamento fermo e calmo di attesa, che favorisca l'emergere del ricordo?!(13).Proprio in questo diverso atteggiamento ( morale più che intellettuale ) Vi é il vero discrimen tra laicismo e tradizionalismo ( e, se vogliamo riferirci alla politica, tra Repubblica e Monarchia ) (14).

Il tradizionalista, al contrario del laico, sa che, per l'esatto conoscere, un cuore puro e generoso é importante quanto, anzi più importante, di un buon cervello ; che il cannocchiale più potente, ma le cui lenti sono offuscate, vede meno lontano di quello con meno potenza, ma con più pulizia: e pertanto egli soprattutto si preoccupa di rendere pulito il suo cannocchiale, di far puro il suo cuore ( e considera il massimo del ridicolo che un mariolo, tra un sorso di whiski e una sniffata di cocaina voglia predicare su quel che é vero o falso ). Il resto lo rimette alla ispirazione e alla pietà celeste.

Note

(1) Vivekananda, parlando del Raja-Yoga, poteva dire: “ Nessuna fede o credenza é dunque necessaria per studiare il Raja-Yoga: esso c'insegna, fra l'altro, a non credere a nulla finché non ce ne rendiamo convinti da noi stessi” ( Yoga pratici , p. 177 ).Ma non debbo io dubitare di ciò che mi trasmettono i miei sensi ( mi fanno udire le mie orecchie, vedere i miei occhi...)? Sì, se si tratta della percezione di una realtà fisica; ma la visione della Verità porta in sé la sua certezza. Sul punto noi possiamo richiamare il passo già citato di Emerson ( Saggi, p. 205) : “L'anima percepisce e rivela la verità. Noi conosciamo la verità quando la vediamo, gli scettici e gli spiritosi dicano pure quel che vogliono. La gente sciocca vi domanda quando avete detto qualcosa che essi non vogliono udire: “Come sapete che questa é la verità e non un vostro errore?”. Noi conosciamo la verità quando la vediamo, con l'opinione, come sappiamo di essere svegli quando siamo svegli”.Alla citazione di Emerson possiamo aggiungere qui quella di Vivekananda. Anche il grande Swami ritiene che “ la verità non ha bisogno di puntelli per sostenersi, così come le nostre esperienze allo stato di veglia non abbisognano di sogni o di immaginazioni per essere provate” ( Yoga Pratici , p. 177 ). E in tale ordine di idee può ancora dire ( in Jnana Yoga, p. 265 ) - riferendosi alla indifferenza di chi ha raggiunta la verità di fronte alle varie contestazioni degli uomini mondani -:”Supponete di aver visitato un paese, e che un'altra persona venga da voi e cerchi di convincervi che tale paese non é mai esistito. Essa potrà continuare ad argomentare indefinitamente, ma il vostro atteggiamento mentale rispetto a costei non potrà non essere tale da ritenere la stessa ricoverabile in un manicomio”.Sul punto ritorneremo in una nota seguente.

(2) Ramakrishna insegnava che “Dio formato” - ( cioé Dio quando assume una forma, in contrapposto all'aspetto “impersonale” di Dio, pur esso per Ramakrishna vero: Egli insegnava,”Dio é con forma e senza forma”) - “é visibile: possiamo persino parlarGli, toccarlo come tocchiamo il nostro più caro amico” - confr. Alla ricerca di Dio , p. 326.

Ed essendo stato richiesto a Rasmakrishna perché credeva in Dio, Egli rispose al suo interlocutore molto semplicemente così: “Perché io vedo Dio come vedo voi, ma molto più intensamente”

 (3) Probabilmente é nell'ordine di idee espresso nel testo, che Evola J. dà, come condotta da tenere, quella di essere “centrali”, rifiutando di aderire ad uno specifico “credo” ( Cavalcare la tigre, passim ).Senza dubbio ambiva a raggiungere una tale “centralità” Cartesio, quando elaborò il suo famoso “Cogito ergo sum”, cioé un'affermazione la cui verità si basava su se stessa.Con tutto ciò un “dubbio sistematico” quale adottato da alcune scuole di filosofia occidentali, sa di artificiosità e di “gioco intellettuale”: nessun uomo sano si pone il problema dell'esistenza del mondo o problemi simili ( e non se li posero , né il Buddha, né Gesù il Cristo, né Confucio....).

(4) La “ragionevolezza” di una tale risposta risulta ben chiarita dal seguente passo di Rudolf Steiner ( L'iniziazione, Laterza, 1926, p. 91 ): “ Come un uomo non può diventare pittore, se si rifiuta di prendere in mano il pennello, così pure nessuno può ricevere l'educazione ( necessaria per giungere alla verità ), se non vuole adempiere alle richieste che il suo maestro ritiene necessarie. In ultima analisi il maestro (…..) non può dare che dei consigli, ed é in questo senso appunto che si deve accogliere tutto ciò che egli dice. Egli ha già percorso le vie preparatorie che conducono alla conoscenza ( ….) e sa per esperienza ciò che é necessario; dipende completamente dalla libera volontà di ogni singola persona di decidere, se le convenga o meno di seguire quelle medesime vie. Chi volesse chiedere a un maestro d'insegnargli la disciplina ( necessaria per giungere alla verità ), senza volerne però accettare le condizioni, somiglierebbe proprio a una persona che dicesse: insegnatemi a dipingere, ma non mi chiedete di toccar un pennello”.

(5) Certo, nell'adesione al consiglio datoci, influirà anche, anzi molto, la fiducia riposta in chi ce lo dà. E qui si innesta la problematica di come riconoscere il Maestro saggio e giusto, il Maestro che non ci può ingannare. Ecco sul punto l'insegnamento di Vivekananda: “ Allora, come potremo riconoscere il vero maestro? Il sole non ha bisogno di torcia per rendersi visibile; noi non abbiamo bisogno di accendere una candela per vederlo. Quando il sole sorge, istintivamente noi ce ne accorgiamo; e così, quando un maestro di uomini verrà ad aiutarci, la nostra anima saprà istintivamente che la verità ha già cominciato a splendere su lei. La verità si regge sulla stessa evidenza, non ha bisogno di testimonianze, che la comprovino; splende di luce propria, penetra negli angoli più riposti della nostra natura e, in sua presenza, tutto l'universo si leva e dice “Questa é la verità” - da Yoga pratici, p. 114.

(6) Valerio Zanone ( nella voce , Laicismo, del Dizionario di politica , p. 547 ) definisce il laicismo “come un metodo inteso allo smascheramento di tutte le ideologie”.In realtà il laicismo – così come il razionalismo e l'umanesimo ( a cui esso é strettamente connesso, riesce, infatti, più che difficile, impossibile immaginare uno “spirito laico”, che non sia anche un umanista e un razionalista ) - é espressione di una tendenza a negare nell'uomo “il possesso e l'uso d'ogni facoltà di carattere trascendente” ( confr. Guenon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Adelphi, 1982, p. 189 ). Guenon, pertanto, vede in tali movimenti culturali altrettante “tappe dell'azione antitradizionale” ( confr. Op.u.c. p. 187 ss.).

(7) Secondo Guido Calogero il principio laico consiste nella regola “Non pretendere di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla” - confr. Valerio Zanone ( Op. cit., p. 549 ). Ciò porta all'equazione laicismo = agnosticismo. Il che può rendere accettabile il laicismo per un miscredente, ma non certo per un credente. Se si aggiunge che la tolleranza del miscredente verso le varie “fedi” ha, al postutto, il suo fondamento nel disprezzo sul loro intrinseco valore ( dato che, se é conseguente, egli non può non considerarle al massimo che come pregevoli “oggetti da museo”), il quadro é completo; e non si può dar torto a Giovanni Gentile quando ( in Genesi e struttura della società ) sosteneva che “lo spirito laico e lo Stato laico sono una favola” - confr. V. Zanone, Op. cit. p. 549.

(8) J. Evola ( in L'arco e clava, p. 64 ) fa notare “questo singolare capovolgimento: l'antica umanità é stata accusata di essere “mitica”, ossia di aver vissuto e di aver agito soggiacendo a semplici complessi fantastici e irrazionali. La verità é , invece, che se é mai esistita una umanità “mitica” in questo senso negativo, essa é di certo proprio l'umanità contemporanea: esattamente quelle grandi parole scritte con la maiuscola – cominciando con Popolo, Progresso, Umanità, Società, Libertà e tante altre che hanno suscitato incredibili movimenti di massa e che, presso ad una fondamentale paralisi di ogni capacità di giudizio lucido e di critica, sul singolo hanno avuto le conseguenze più disastrose – tutte queste parole presentano oggi il carattere di miti, anzi, meglio sarebbe caratterizzarli come “favole”, perché etimologicamente “favola” da fari , significa quel che corrisponde ad un semplice parlare, cioé vuote parole. Questo é il livello sul quale si trova la cosiddetta umanità evoluta e illuminata dei nostri giorni”.

 (9) Ramakrishna drastico: “ Non é certamente con le nostre deboli facoltà di raziocinio e di discriminazione ( vichara) che possiamo raggiungere l'Assoluto. Dunque rivelazione e non ragionamento! Ispirazione e non ragione! ( da Alla ricerca di Dio, p. 318 ).

 (10) Illustra piacevolmente i limiti della ragione umana, il seguente racconto, narrato da Prabhupada ( in La vita viene dalla vita, 1987, ediz. Bhaktivedanta, p.2 ) per ironizzare sulla presunzione dei moderni scienziati: “C'era una volta una rana che viveva in fondo a un pozzo. Un giorno un amico la informò dell'esistenza dell'Oceano Atlantico. La nostra rana domandò allora al suo amico:“Che cos'é quest'Oceano Atlantico? - “ E' un'immensa distesa d'acqua” - le rispose l'amico. - “Quant'é grande? Dieci volte questo pozzo?” - “ Oh no! Molto più grande” - replicò l'amico. - “ Ma quanto più grande? Cento volte?” In questo modo la rana cominciò a fare i suoi calcoli. Ma come avrebbe potuto comprendere la grandezza dell'Oceano procedendo in questo modo ?”. “Similmente – chiosava Prabhupada – le nostre facoltà, la nostra esperienza e la nostra capacità di speculazione sono sempre limitate. Perciò le ipotesi degli scienziati non fanno altro che incoraggiare questa mentalità da rana”.

(11) Rudolf Steiner ( L'iniziazione, p.16 ) vede, nella capacità alla “venerazione, devozione, di fronte alla verità e alla conoscenza”, una condicio sine qua non per inoltrarsi proficuamente sul sentiero della ricerca spirituale. Egli nota ( ivi , p.18 ) come “ La nostra civiltà sia piuttosto proclive a criticare, a giudicare, a sentenziare, e tende poco alla devozione, alla completa venerazione”. “Ma ogni critica, ogni censura – sostiene Egli ( ibidem ) - danneggia le forze dell'anima per la sua conoscenza superiore altrettanto quanto invece le sviluppa la devota venerazione”. Pertanto, prosegue lo Steiner ( ivi, p.19 ) “ chi vuole diventare ( cercatore della verità) deve educarsi energicamente all'atteggiamento devozionale. Nell'ambiente che lo circonda, nelle proprie esperienze, egli deve cercare ovunque ciò che può strappargli ammirazione, rispetto. Se incontro un uomo e biasimò le sue debolezze, mi tolgo forza per acquistare conoscenze superiori; se cerco invece amorevolmente di penetrare fino alle sue qualità, accumulo tale forza. Il discepolo deve sempre ricordarsi di seguire questo consiglio (….) Questa però non deve rimanere una semplice norma esteriore della vita ma deve impossessarsi dell'interiorità più profonda dell'anima nostra ( Non basta che esteriormente, col mio contegno , io dimostri rispetto verso una persona, devo avere questo rispetto nel pensiero)”.

(12) Per il che può valere anche il detto Zen: Chi cerca la Via, si mette fuori della Via”.

(13) Ecco i consigli che Sri Aurobindo dava a un suo discepolo ( da, Guida allo Yoga, ed. Mediterranee, 1975, p.51 ): “Il principio stesso del nostro Yoga consiste nell'aprirsi all'Influsso divino che é sempre là, al di sopra di voi, e, se ne divenite coscienti anche una volta, vi rimane solo da attirarlo a voi. Scende nella mente e nel corpo come un fiotto di Pace, di Luce, di Forza operante, come Presenza divina con forma o senza, come Ananda. Bisogna, prima di ottenere questa coscienza ,aver fede ed aprirsi. L'ispirazione, l'invocazione, la preghiera sono forme diverse di una sola e stessa cosa, e tutte efficaci”.

(14) E in realtà Monarchia e Repubblica si differenziano, non già per la diversa organizzazione del potere nell'ambito strettamente politico – dato che non possono essere prese a caratteristiche della Repubblica né la elettività della suprema carica ( e infatti vi sono state Monarchie in cui il re era elettivo ) né la sua durata ( e infatti vi sono state Repubbliche il cui presidente era eletto a vita ) - ma per la loro diversa scala di valori vigente nell'ambito sociale: la Repubblica, ponendo all'apice di tale scala, l'amore della libertà e dell'indipendenza, e, la Monarchia, la lealtà e la fedeltà ( e in effetti noi vediamo ancora adesso che nei regimi monarchici la popolazione segue con simpatia ed affetto le vicissitudini della famiglia regnante, nonostante i difetti che possano segnare i suoi componenti ).

Leggi moraliTutti noi sappiamo che il mondo fisico é governato da certe leggi: bevo della stricnina e...muoio, tocco la stufa incandescente e...mi brucio. Ciò tutti lo sappiamo; ma non tutti siamo pronti a riconoscere che leggi altrettanto rigorose governano il mondo morale ( o, se vogliamo esprimerci diversamente, la nostra mente, la nostra psiche). Eppure é così: ci sono leggi nel mondo morale che, a colui che le infrange, apportano un sicuro danno e, a colui che le osserva, arrecano un altrettanto sicuro beneficio.Antonio ha rubato dalla cassa della ditta: nessuno l'ha visto, nessun poliziotto l'arresta e nessun giudice lo condanna: l'ha fatta franca? Eh no, gli altri non sanno, ma la sua coscienza sa e gli deforma il carattere: dov'é l'uomo che a tavola scherzava con moglie e figli portando loro allegria e buonumore ? Ora a capotavola c'é un uomo reso, da un inconfessabile ricordo, sgarbato nel gesto e rude nella parola (1): tu, Antonio, credevi di portare a casa, con i soldi rubati, il benessere e, invece, vi hai portato un veleno, che, contagioso, intossica la mente tua e quella dei tuoi cari: vi hai portato la droga, l'adulterio e le liti fraterne: non hai fatto un buon guadagno a rubare, tutt'altro.Liberandia é un paese molto forte e potente, può fare, se trova un pretesto, un sol boccone del piccolo paese di Iranolandia. Il pretesto é ben presto trovato ( ed é naturale che così sia: il lupo trova sempre una buona ragione per mangiare l'agnellino) e Liberandia occupa e sottomette Iranolandia ( portando ad essa, questo va da sé, la libertà di voto, la democrazia, la parità dei sessi ecc.ecc. ). Tutto bene per Liberandia? delitto perfetto ? Si direbbe di sì: il petrolio é assicurato, le borse galloppano, le fabbriche aumentano la loro produzione e le loro vendite. Ma c'é un piccolo particolare: i governanti di Liberandia, per ottenere tutto questo, hanno dovuto scrivere, nella loro mente e in quella dei loro governati, una postilla al quinto e al sesto comandamento: “Tu non ucciderai, tu non ruberai, salvo che tu lo possa fare a danno del più debole e impunemente”. Certo tale postilla é sfuggita al novanta per cento della popolazione ( la propaganda ha funzionato a dovere!); ma il dieci per cento di essa, quel dieci per cento fatto dalla gente più sveglia ed evoluta, quel dieci per cento che in definitiva é l'unico che conta in ogni Nazione, tale postilla l'ha ben avvertita e vi si é perfettamente adeguato...applicandola anche nei riguardi dei compatrioti. Ed un oscuro malessere si é diffuso così nel Paese: la gente, che era abituata a dormire con la porta aperta, ora si barrica in casa ( i furti e gli omicidi sono aumentati!), gli uomini d'affari, che erano abituati a stringere i loro accordi con una semplice stretta di mano, ora non stipulano un contratto, se non hanno l'assistenza di un legale e non ricevono certe garanzie ( ma il legale e tali garanzie costano, e il loro costo é un peso morto che grava su ogni transazione: di conseguenza la moneta vale meno!) (2). Eh no, a pensarci bene il popolo di Liberandia non ha fatto un buon affare a invadere contro ogni buon diritto il povero popolo di Iranolandia!E come l'infrazione delle leggi morali porta danno e disgrazia, così la loro osservanza porta fortuna, felicità e benessere. E non perché il Cielo voglia premiare certe azioni e castigarne altre: il vento di Dio soffia eguale per tutti, ma per giovarsene e far navigare veloce la nostra navicella dobbiamo issare le vele ( é una legge di fisica e di

morale! ): alcuni lo fanno ( sono i buoni ), altri se ne astengono ( e sono i cattivi).Ecco là, Bruto, così intelligente, così profondo, ma con l'aria tanto triste ( con tutta evidenza, il vil volgo profano che lo circonda, lo urta e gli dà fastidio ): ha il fisico malaticcio, la gente lo rispetta ma...lo evita, e le donne lo snobbano. Ecco invece Antonio, egli non é certo di profondo pensiero come Bruto, ma ama la gente, é indulgente verso i suoi peccati ( anche perché riconosce di averne anch'egli commesso un bel po') e sa guardarla con simpatia: inutile dire che il suo fisico é eccellente, la gente fa crocchio intorno a lui e le donne lo adorano. Che ingiustizia, dici, tu, Bruto? Ma perché mai?! Il vento soffiava, sia per te che per Antonio, con eguale forza, ma la sua navicella aveva le vele dispiegate e la tua, no: che la sua procedesse veloce e la tua ristagnasse neghittosa é una legge di fisica, é una legge morale (3)!

Note

(1) Da Emerson ( Saggi, p. 129 ): “ Un uomo passa per quel che vale. Egli porta stampato in lettere di fuoco, ciò che é, sul proprio volto, sulla propria forma. Né la dissimulazione né la millanteria gli servono a nulla. C'é una confessione negli sguardi dei nostri occhi, nei nostri sorrisi, nei nostri saluti e nello stringere la mano. Il suo peccato sporca e sfigura ogni buona impressione. Gli uomini non sanno perché non hanno fiducia in lui, ma non ne hanno fiducia. Il suo vizio si riflette nei suoi occhi, taglia linee di espressione volgare nel suo viso, assotiglia il suo naso, pone il marchio della bestia dietro la sua testa, e scrive “o folle, o folle” sulla testa dei re.Se non volete essere conosciuti nel fare qualcosa, non fatela. Un uomo – é sempre Emerson che parla – può giocare a fare il pazzo nei turbini del deserto, ma ogni granello di sabbia sembra che lo veda. Può essere un mangiatore solitario, ma non può mantenere a lungo la sua sciocca decisione. Una complessione debole,uno sguardo brutale, degli atti ingenerosi e il bisogno di un vero sapere, tutto parla. Può un cuoco, un Chiffinch, un Iachimo essere scambiato per Zenone e per Paolo ? Confucio esclamò: “Come può un uomo restare nascosto? Come può un uomo restare nascosto?”.D'altro canto – continua Emerson – l'eroe non ha paura del fatto che, se egli tiene nascosta un'azione giusta e coraggiosa, essa resterà senza testimoni e che perciò egli non sarà amato. Uno solo la conosce, egli stesso,ed egli é vincolato da essa alla dolcezza della pace, alla nobiltà dello scopo, le quali costituiranno alla fine una proclamazione di essa più efficace e più bella del racconto dell'incidente.La virtù é aderenza nell'azione alla natura delle cose, e la natura delle cose la rende vincitrice. Essa consiste in una perpetua sostituzione dell'essere al sembrare, e con sottile proprietà Dio é descritto come colui che dice: Io sono.

La lezione a cui queste considerazioni conducono é questa: “Siate e non sembrate”. Accettiamola” . Grande Emerson, vero?!

(2) Emerson ( nel saggio La ricchezza, in Energia Morale, Sandron editore, p. 228 ): “Se togliamo dal mondo degli affari di una città, dieci onesti commercianti e li sostituiamo con altrettanti farabutti che dispongano degli stessi capitali, la tariffa delle assicurazioni mostrerà subito il cambiamento; ne verrà scossa la saldezza delle banche: le strade saranno meno sicure, le scuole ne risentiranno e i bambini porteranno a casa la loro piccola dose di veleno; il giudice si sentirà meno sicuro sulla sua scranna e le sue sentenze saranno meno giuste, perché egli non avrà più quell'appoggio e quel freno di cui tutti hanno bisogno; e perfino il pulpito ne subirà gli effetti, favorendo una regola più rilassata di vita. Un melo, se ogni giorno togliamo dalle sue radici una manata di sabbia, finirà nell'accorgersene; un melo é una creatura assai stupida, pure se si prosegue per qualche tempo in questa sostituzione, comincerà a sospettare qualcosa. E se noi togliessimo dalla potente classe dei commercianti un centinaio di uomini onesti e li sostituissimo con cento cattivi o, il che é lo stesso, se introducessimo nel ceto commerciale un elemento demoralizzatore, il dollaro, che non é molto più stupido del melo, non finirebbe coll'accorgersene ?”.

(3) Vivekananda ( Jnana Yoga, p. 201): “ Dov'é e che cos'é il destino? Mietiamo ciò che abbiamo seminato. Noi siamo i fattori del nostro fato. Nessun altro può averne il biasimo o la lode. Il vento soffia: i bastimenti che hanno le vele spiegate lo prendono e vanno avanti per il loro cammino; ma quelli che non hanno le vele spiegate non riescono a prenderlo. Ne ha colpa il vento ?Ne ha colpa il Padre misericordioso, il cui vento di pietà soffia incessantemente giorno e notte, la cui misericordia non viene mai meno ? Che colpa ne ha lui se alcuni di noi sono felici ed altri infelici ? Siamo noi che ci creiamo il nostro destino: il sole divino splende tanto per i deboli quanto per i forti tanto per i santi quanto per i peccatori. Egli é il Signore di tutto, il Padre di tutto, misericordioso e imparziale. Volete dire ch' Egli, il Signore della creazione, riguardi le piccole cose della nostra vita alla stessa luce sotto cui noi le riguardiamo ? Che idea degenere di Dio é mai questa! Noi siamo dei pupazzi intenti qui alle nostre misere lotte, e crediamo scioccamente che Dio voglia pure prendervi parte seriamente come noi ve la prendiamo. Egli sa quale valore abbia il gioco dei pupazzi. I nostri tentativi di scaricare il biasimo su di Lui, e di fare di Lui un punitore od un premiatore sono semplicemente assurdi. Egli non punisce né ricompensa. La Sua infinita misericordia é aperta a chiunque, in ogni tempo, in ogni luogo ed in qualsiasi circostanza. Da noi dipende il modo di usarla”.

MaleCi avverte il Filosofo che le cose, in sé e per sé, non sono né buone né cattive: il fuoco che ci riscalda, ci può anche bruciare; l'acqua che ci disseta, ci può anche annegare (1). E quel che si può dire per le cose e gli eventi della Natura, può essere ripetuto per le azioni dell'uomo: Enrico VIII fa rotolare la testa di Anna Bolena? Male per questa, ma forse la terra ringrazia per il concime ( umano) che le vien dato. Insomma le azioni non sono né buone né cattive: sono e basta. Ciò non toglie che noi, buone o cattive, le possiamo sentire; e che il compimento di un'azione, che sentiamo “cattiva” possa determinare nella nostra psiche un nodo ( chiamiamolo, rimorso ) che ci costerà fatica e dolore sciogliere.Come può avvenire ciò? Come può accadere che noi si venga a sentire come cattiva e riprovevole un'azione e se ne senta rimorso? Può accadere, accade, perché l'uomo é un essere in evoluzione: egli é in cammino, un cammino talvolta lento talvolta faticoso, per realizzare nella sua anima la grande Idea: l'Idea che tutti : uomini, animali, piante, insomma tutti gli esseri dell'universo sono “Uno” ( Uno con Lui, con il suo “Io”) (2); e man mano che a tale Idea si avvicina, sempre più chiaramente ne percepisce il disegno (3) e ad esso adegua i suoi ideali: di conseguenza la sua anima traccia intorno a sé circoli sempre più ampi (4) e l'ideale nuovo offusca e fa sentire ripugnante l'ideale antico (5), come un nuovo vestito ci fa indossare mal volentieri quello antico e logoro.All'inizio del cammino, appena uscito dalla notte dei tempi, egli sa rinunciare alla sua vita per far salva quella dei figli neonati, ma trova giusto con la clava assalire il fratello della caverna accanto; fatto un passo avanti, egli é pronto sacrificarsi per il suo clan, e si sente maledetto da Dio come un Caino se leva il braccio armato verso l'occupante della capanna accanto alla sua, ma non esita ad assalire la tribù vicina; ancora un passo avanti, ed é pronto a morire per chi parla la sua lingua e veste il suo costume, e con orrore guarda chi uccide il concittadino ma loda ed emula chi al barbaro fa guerra....fino a che, circolo dopo circolo, passo dopo passo, egli, come il saggio indù davanti al soldato europeo che lo trafigge, estatico può dire al suo nemico Tat tuam asi,Tu sei Lui, Tu sei Dio, Tu sei Io che sono Dio. Giustamente dunque i saggi cultori della Cabala potevano definire il male come l'ombra del bene (6): invero il male esiste perché ( e questa é la benedizione! ) esiste il bene, perché l'uomo nella sua costante evoluzione sviluppa idee e concetti che gli fanno sentire male le azioni compiute in base alle vecchie idee e ai vecchi concetti: sono le nuove vette scalate, i nuovi traguardi raggiunti che ci fanno sentire bassi e vili le cime dianzi raggiunte, i traguardi dianzi tagliati.Quale la conclusione da trarre da ciò? Quella di agire verso i nostri simili con comprensione e senza fanatismo. Tu non ti devi scandalizzare se il tuo vicino non ha la tua stessa sensibilità morale, se egli agisce in una maniera che tu giudichi immorale: ciò che é male allo stadio evolutivo in cui tu ti trovi, non é detto che sia male e può essere addirittura bene allo stadio evolutivo in cui lui si trova ( e viceversa!): i doveri dell'uno non sono i doveri dell'altro: per dirla con le parole dell'antica sapienza vedica , ognuno ha il suo dharma (7).Tu giovane “progressista” (8), se così ti aggrada, lotta pure per il “progresso morale”

della società, ma...senza fanatismo: sapendo che mai esisterà una società senza “male” e senza “malvagi” ( perché? il perché l'ho spiegato: perché il male non é che l'altra faccia del bene).

Note

(1) Vivekananda ( Jnana Yoga , p. 57 ): “ Non esiste in questo mondo nessuna cosa su cui sia lecito apporre l'etichetta di buona, solamente di buona, oppure di cattiva, solamente di cattiva. Il fenomeno che oggi ci appare buono può apparirci domani cattivo. La stessa cosa che produce miseria nell'uno può produrre felicità nell'altro. Il fuoco che brucia il bambino può cuocere un buon pasto per un affamato. I medesimi nervi che producono le sensazioni di miseria producono altresì quelle di felicità”.

(2) Ramacharaka ( Corso superiore di filosofia yoga e di occultismo orientale, Milano, 1950, p. 89 ): “ Gli yogi ritengono che gli odierni ideali di morale, di condotta e di etica indichino che gli uomini stanno per abbandonare l'idea e l'illusione della separatività, e che la conoscenza dell'Unità sta sorgendo nelle loro menti. Questa albeggiante coscienza é la causa per cui molte cose che erano in passato considerate un “bene” vengono ora ritenute un “male”.

(3) Un'altra bella immagine tratta da Vivekananda ( Jnana Yoga, p.39 ):”Supponete che tra me e voi vi sia una parete nella quale sia stato praticato un piccolo foro, dal quale io possa scorgere alcune facce che stanno dinanzi a me. Ora supponete che il foro diventi progressivamente più grande e, stando così le cose, la scena davanti a me si riveli sempre maggiormente, finché, quando la parete sia scomparsa, io mi trovi al cospetto del tutto”.

(4) Traiamo l'immagine del “circolo” da Emerson ( Saggi, p. 218 ): “ La nostra vita é un apprendistato di quella verità secondo la quale intorno ad ogni circolo é possibile disegnarne un'altro; per cui nella natura non c'é fine, ma ogni fine é un principio; c'é un'altra aurora che sorge sempre dopo il tramonto, e sotto ogni profondità un'altra profondità più profonda si apre”.Ancora Emerson ( Op. u.c., p. 229 ): “ Non c'é virtù che sia definitiva, tutte sono iniziali. Le virtù della società sono i vizi dei santi”.

(5) Ramacharaka ( in Corso superiore di filosofia yoga e di occultismo orientale, Milano, 1950, p.98 ) spiega che “ la tentazione o l'impulso a fare il “male” proviene dalle regioni inferiori della mente, quella parte della Mente Istintiva che concerne le passioni animali, le tendenze “innate”, le emozioni, ecc. le quali sono nostra eredità del passato. Esse non sono “cattive” in se stesse, ma fanno parte della storia dell'anima che ci siamo lasciati alle spalle e dalla quale ci stiamo liberando. Possono essere state il più alto “bene” che la nostra mente poteva concepire in qualche epoca della nostra evoluzione (....) Ma ora che abbiamo oltrepassato lo stadio in cui quei sentimenti, quelle passioni, quelle attività costituivano il più alto

bene, e che il nostro attuale grado di sviluppo ci consente di trarre profitto da più elevate concezioni di verità, quelle vecchie esperienze ci appaiono decisamente “cattive” ed “errate”.

(6) Confr. R. Ambelain , La cabala operativa, passim

(7) Ramachraka ( nel suo Corso superiore di filosofia yoga e di occultismo orientale, p. 75 ) definisce il Dharma come “ la regola d'azione e di vita che meglio si adatta alla necessità dell'anima individuale e che meglio aiuta quella particolare anima nell'ulteriore passo del suo sviluppo”. Il Ramacharaka riconosce, però, con umiltà, che la definizione da lui data non giunge a cogliere completamente l'esatta e profonda essenza del Dharma.Forse a tale scopo più si avvicina il seguente passo tratto da Evola ( Yoga della potenza, p. 119 ):”Dharma (…) designa la natura propria di una cosa o di una persona: é ciò che, sul piano samsarico, la definisce e fa sì che sia quella e non un'altra (…) Così, ad esempio, il dharma del fuoco é bruciare, il dharma del pesce é nuotare, il dharma dell'essere di una data casta é la legge corrispondente ad essa, e via dicendo. Natura propria, dunque, e, simultaneamente, legge fondamentale di un dato essere condizionato”.Però “ una tale legge può essere più o meno riconosciuta e seguita, dal che – continua a spiegare Evola ( ibidem ) - procedono effetti corrispondenti, secondo ciò che nella terminologia indù si chiama il karma. Il karma fa sì che ogni essere riceva proprio quel che é conforme alla qualità delle sue azioni, in forma immediata o differita. Non si tratta, però, qui, di una sanzione comunque estrinseca o legata a valori morali, bensì di una legge immanente: l'azione stessa partorisce un dato effetto. Epperò é karma che, ingerendo una sostanza contraria alla natura di un dato organismo, questo si ammali; lo stesso – secondo rapporti di pura causalità – vale per ogni dominio, quello spirituale compreso. Dharma e Karma sono , per tal via, strettamente connessi: certi effetti procedono dal karma per il fatto di avere un dharma e non un altro. Essi non sono uguali ove il dharma sia diverso. Per cui per es. ciò che per l'uomo é velenoso, per alcuni animali può non esserlo”.E' noto che nell'India vedica i membri della società erano suddivisi in varie categorie ( brahmana, ksastriya, vaisya, sudra...); e che per gli appartenenti a ciascuna di tali categorie era dettato un dharma diverso: ad esempio, per un brahmana era male reagire con violenza ad un'aggressione, lo ksastriya invece aveva il dovere di farlo. Ciò era senza dubbio più intelligente che il rendere, come la nostra Costituzione fa, tutti i cittadini eguali di fronte alla legge.

(8) Il seguente episodio della vita di Ramakrishna dimostra bene il poco conto e spazio che aveva, in una visione tradizionalista, quel tipo del “riformatore sociale”, che é tenuto, invece, in tanta auge nella attuale civiltà occidentale.“Rivolgendosi ad un gruppo di riformatori sociali entusiasti, Shri Ramakrishna disse loro :” Voi parlate molto di far del bene al mondo! Praticate prima la religione e realizzate Dio! Allora soltanto vi saranno dati l'ispirazione e il potere e potrete parlare di far del bene; non prima”. “Signore , chiese un brahmo, volete dire

che dobbiamo rinunciare ad ogni lavoro fintanto che non abbiamo visto Dio?” - “Certamente no”, rispose il Maestro. “Perché rinunciare a lavorare? Occorre continuare a praticare la meditazione, il canto degli inni ed altri esercizi religiosi”. - “Intendo, precisò il brahmo, il lavoro che si riferisce al mondo. Occorre cessare completamente di occuparci di tutto ciò che é secolare?”“ Potete occuparvene, rispose Shri Ramakrishna , nella misura indispensabile per vivere. Ma occorre nel medesimo tempo che preghiate Dio con fervore perchè vi invii la Sua grazia e la forza di adempiere al vostro dovere senza sperare una ricompensa, né temere una punizione in questo mondo o nell'altro”( da Alla ricerca di Dio, p. 304 ).

Pazienza – Dolore ( vittoria sul )

Noi restiamo ammirati ( e giustamente ) quando vediamo un uomo che, pur patendo un gran dolore, non se ne lascia turbare, ma sa conservare il cervello lucido e l'animo sereno; noi restiamo ammirati di Epitteto, che, schiavo di un padrone crudele che si diverte a torcergli il piede, sa mantenersi nel dolore calmo, limitandosi a far osservare al sadico padrone che , così facendo , rischia di trovarsi uno schiavo storpio (1). Però la questione, la cui soluzione positiva preme allo spiritualista, non é se si possa diventare tanto forti ( nell'animo ) da sopportare il dolore, ma se si può riuscire a non soffrire pur in situazioni che in altri, dolore, provocherebbero: di più, se si può riuscire a trasformare in piacere ( in, ananda ), quel che in altri provoca dolore.Perché, é senza dubbio bella e buona cosa rendersi tanto forti da portare sulle spalle un quintale e camminare; ma ancor meglio é, poter andar liberi e sciolti per le strade del mondo. E ben s'intende di questo mondo ( di Malkhut, la più bassa Sephirot dell'Albero cabalistico, da cui il pellegrino mistico muove i suoi passi per risalire a Kether che, in cima all'Albero, a sua volta gli apre la contemplazione dello Ain Soph Aur, dell'Infinito Splendore di Dio); e non del mondo celeste , di un immaginario o reale Paradiso. Perché é in questo mondo che il Cielo ci ha mandato per provare la nostra virtù ( intesa come capacità di vincere il “non-io”, trasformandolo da fonte di dolore in fonte di gioia e di ananda); é questo mondo il banco di prova in cui va dimostrato che lo Spirito ( lo “Io”) é in grado di vincere la Natura ( il “Non-Io” ) (2).Fatta questa premessa, noi ci proponiamo di seguito di confortare – non già di chiare e irrefutabili prove ( questo supererebbe la nostra intelligenza e forse quella di ogni altro essere umano ) - ma di palpabili indizi la tesi che sono vincibili ( nel senso sopra chiarito ) sia il dolore psicologico sia quello fisico.Cominciamo dalla tesi più facile a sostenere: quella che il dolore psicologico può essere superato.E' una tesi facile, in quanto la vita stessa ci offre innumerevoli esempi di persone che, gettate nel dolore da un dato evento che le ha duramente colpite, hanno, una volta portate a riflettere su un concetto o ad adottare una nuova concezione di vita, ritrovato il sorriso.Una madre ha perduta la figlia; a lei, che é in lacrime e si dispera, viene a parlare il buon Prete che le dice: “Perché piangi, tua figlia é in Paradiso, ora vede i Santi e la Santissima Vergine: non dovresti tu essere felice, invece che triste, per ciò?!”. La madre ascolta, l'idea di sua figlia tra i beati la consola e ritrova addirittura il sorriso al pensiero che la figlia non é più con lei, in questa valle di lacrime, a soffrire.Altro esempio: c'é Epulone e c'é Lazzaro ( quelli della parabola evangelica ). L'animo di Lazzaro soffre le torture dell'invidia e i morsi della rabbia: perché Epulone a banchettare e lui a contentarsi delle briciole? Ma viene un teosofo e gli parla della reincarnazione e della Legge del Karma: “Epulone é ricco perché in una precedente vita fece del bene, tu, Lazzaro, sei povero perché in una precedente vita facesti del male. Ora Epulone si sta comportando male, per cui se tu, Lazzaro, ti comporti ora bene, nella prossima vita le parti si invertiranno: tu mangerai e sarà lui a digiunare.

Lazzaro ascolta, si convince e il dolore, per l'ingiustizia che credeva di subire, l'abbandona.Non importa qui stabilire se le parole del prete e del teosofo, alla verità, corrispondono: sia quel che sia, consideriamole pure false; quel che importa é che le immagini mentali, da tali parole, indotte, hanno fatto sparire il dolore; così dimostrando in via di principio, che non v'é dolore ( psicologico ), che un'adeguata immagine mentale non possa cancellare.Ma, quel che é vero per il dolore psicologico, é vero anche per quello fisico? Noi a tale domanda rispondiamo di sì; riteniamo, infatti, che anche il dolore fisico abbia alla sua radice una concezione erronea della vita, un pensiero deforme e difettoso: per cui, sradicato questo, anche il dolore fisico é destinato a scomparire. Cerchiamo di dimostrare l'assunto ( senza l'ambizione di convincere qualcuno, ma solo contando di insinuare in qualcuno il dubbio salutare, che é anche una speranza, della non ineluttabilità del dolore, anche in questa terra ). Nel muovere i primi nostri passsi, possiamo farci forti delle parole ( non di un esoterista, ma ) di uno scienziato: un medico che scrive per altri medici. Si tratta del dott. Silvio Valseschini, autore di un pregevole libro dal titolo Il malato e la sofferenza (3).In tale libro l'Autore – dopo aver spiegato a medici e a infermieri come ci si rapporta col malato sofferente – tratta ( in un'appendice ) delle “basi morfologiche e funzionali del dolore”. E che ci viene a dire ? Ci viene a dire: che noi siamo dotati di “ricettori periferici”, che raccolgono gli stimoli provenienti dall'ambiente e li convogliano verso il sistema nervoso centrale; che quando uno di tali ricettori viene stimolato, si determina quella che la scienza medica chiama una “afferenza sensoriale”; che tali “afferenze sensoriali” non sono delle vere sensazioni, ma delle cose neutre, se così ci é permesso di esprimerci, né dolorose né piacevoli: insomma delle semplici “attività elettriche”.E allora la sensazione di dolore o di piacere da che cosa deriva ? Deriva – ci spiega sempre la scienza medica per bocca del dott. Valseschini – dal sistema nervoso centrale: é questo che attribuisce alle “afferenze” il significato di dolore o di piacere. Però come ciò avvenga la scienza medica non lo sa; e il dott. Valseschini molto correttamente lo riconosce.Dovremmo anche noi, come la scienza medica, qui arrestare il passo? No, di certo, perché, pur nutrendo verso di essa gran rispetto, noi, non in essa vediamo la nostra vera guida, ma nella intuizione e nel buon senso.Che ci dicono questo e quella? Ci dicono che, se le sensazioni dipendono dal sistema nervoso centrale, diventa anche ben verosimile che esse dipendano dalle idee, dalle immagini mentali, dalle concezioni di vita che, in tale sistema nervoso, sono, per così dire, immagazzinate.E tale dettato dell'intuizione e del buon senso ci appare tanto più accettabile in quanto dà la spiegazione di fenomeni, che altrimenti resterebbero insolubili: perchè, ad esempio, uno stesso cibo sembra ghiotto o ripugnante a popoli di cultura diversa? La carne di cane arreca le stesse “afferenze” sia al palato di un europeo che a quello di un cinese, ma al primo provoca disgusto, al secondo, piacere: perché? Perché una diversa cultura ( una cultura sostanziata da diverse idee, immagini ecc. ) interpreta in

maniera differente la stessa sensazione ( melius, afferenza ) ). Perché, altro esempio, se dò da bere dell'acqua a una persona facendole credere con appropriate suggestioni che trattasi di stricnina, la vedo torcersi dal dolore e addirittura stramazzare a terra ? La bevanda che le diedi era acqua e arrecava al suo sistema nervoso quelle solite “afferenze” che appunto l'acqua apporta, ma esse venivano, dalle idee da me, nel suo sistema nervoso centrale, immesse, interpretate in modo che il risultato era un dolore e non un piacere.Ma, giunti alla conclusione che le sensazioni ( le sensazioni in genere, sia quelle di dolore che di piacere ) dipendono dalle idee, che popolano il cervello di chi ha subito lo stimolo della “afferenza sensoriale”, facciamo un passo avanti, poniamoci la domanda: da quale idea dipendono in particolare le sensazioni di dolore?Dipendono, in radice – ecco la risposta che dà lo spiritualista a tale domanda - – dalla idea che la distruzione dell'apparato corporeo implichi e determini la distruzione del nostro “io”: é perché ci identifichiamo col nostro corpo e sentiamo la sua distruzione come la nostra stessa distruzione, che diventano per noi dolorose le “afferenze sensoriali”, che ci segnalano il rischio di una lesione di questo.In altri termini, all'origine del dolore c'é un sentimento di paura (4). E se noi fossimo in grado di non dar corso a tale sentimento negativo ( di paura ), ma di sostituirlo con uno positivo di adesione e di consenso alla forza ( lesiva ) che agisce nel nostro corpo, noi proveremmo una sensazione, non di dolore, ma di piacere (5).E di questa possibile trasformazione del dolore in piacere la vita ci offre molteplici esempi. Si pensi alla deflorazione che può risultare, sì, dolorosa, se appunto la donna la sperimenta con apprensione, ma che é causa per essa di un potenziato piacere se essa é esaltata da una passione amorosa ( che non lascia spazio al timore )(6). Si pensi alle ferite che sogliono procurarsi i seguaci di certi culti ( come quelli che nell'antichità si celebravano in onore di Cibele ): ferite che non provocavano in essi dolore ma piacere (7).

Note(1) Ramakrishna , colpito da un cancro alla gola, una delle malattie più dolorose, seppe mantenere sereno ed equanime il suo animo fino alla fine. Di più, si dice che fino alla fine i suoi occhi esprimessero gioia: la gioia di chi vive nell'ananda , nel piacere. Soleva dire: “ Che il corpo e il dolore prendano cura di se stessi, ma che il mio spirito resti pieno di gioia” ( da Alla ricerca di Dio , p. 155 ).

(2) E' una caratteristica dell'insegnamento del grande filosofo e pedagogista Mikhael Aivanhov , l'invito a non rifugiarsi nel Cielo ma a prendere ispirazione dal Cielo per migliorare la terra: “L'epoca viene in cui non si dovrà più cercare la propria salvezza rifugiandosi nel Cielo. Questa attitudine ha potuto essere buona in un certo momento, essa ha permesso di scoprire aspetti importantissimi della vita interiore. Ma ora non si tratta più di volersi salvare, si tratta di impegnarsi in un lavoro glorioso per portare il Cielo in terra ( Le veritable enseignement du Christ, Prosveta. 1984, 117 – traduzione nostra ).Ma Aivhanov anche avverte: “ Ciò non vuol dire voltare le spalle al Cielo, ma, al

contrario occorre restare legati al Cielo per potere in seguito donare agli altri. Perché se voi non siete legati al Cielo, voi non siete ricchi, e allora che potreste voi distribuire?” ( Op.u. cit., p. 119 – traduzione nostra )

(3) Edito da Riza Libri-Endas nel 1982.

(4)E il Nietzsche, nella sua opera Volontà di potenza ( paragrafo 304 ), alla paura, appunto, riconnette il dolore, vedendovi “La ripercussione di uno shock provocato dalla paura nel focolare centrale del sistema nervoso, con una lunga sensazione che va poi a proiettarsi nella sede di un organo determinato” - ( confr., Ea, Sulla metafisica del dolore e della malattia, in Introduzione alla magia quale scienza dell'Io. Vol.II, p. 183 ed. Mediterranee, 1971.)

(5) Più precisamente la paura blocca, determinando così una sorta di ingorgo psichico, forze che, se lasciate scorrere liberamente, darebbero una sensazione di piacere. Questo, almeno, ci pare l'insegnamento, che dà Ea ( pseudonimo dietro cui si occulta l'Autore di Sulla metafisica del dolore e della malattia cit., p. 183 ). Ma riportiamo tale insegnamento diffusamente: “ Dal punto di vista esoterico, ecco di che si tratta. La fissità , che caratterizza gli esseri viventi come individui – e questa fissità é da interpretarsi sia in senso generale, come tendenza a mantenere il proprio stato, sia in senso speciale, come coscienza che ha una relazione fissa con una data struttura organica – detta fissità fa sì che tutte le volte che si verifica un contatto con una forza trascendente si produce qualcosa di paragonabile ad una lesione – ad una lesione interiore. In quell'istante la coscienza, sorpresa, é messa in uno stato di orgasmo, di paura per il proprio essere individuale di cui sente oscillante la base; e questa reazione o contraccolpo animico-emotivo – come un contrarsi, un ansioso stringersi in sé della coscienza di fronte alla forza intervenuta – reazione che, naturalmente, soppianta la percezione di questa forza stessa – é il senso più profondo dell'esperienza del dolore e della sofferenza”. “In una coscienza aperta, libera rispetto alla propria individualizzazione – continua Ea – il dolore non esisterebbe come tale. Esso produrrebbe piuttosto il passaggio ad un'altra forma di coscienza, a quella corrispondente alla forza intervenuta, e poggiante, nel corpo, sopra un organo diverso dall'organo su cui il senso di sé si appoggia abitualmente. Invece, l'Io, che ha paura, che si ritrae agitato e si aggrappa a sè reagendo, ed ostruendo così la comunicazione, sperimenta il dolore. Il quale, oggettivamente, può considerarsi come un'esperienza puramente negativa dell'azione della forza extraindividuale manifestatisi”.Noi troviamo una conferma alla giustezza dell'insegnamento di Ea ( e cioé che il dolore nasce dal bloccaggio di una forza in noi destatasi ) in una stessa banale esperienza, frequente nell'amore profano ( e oggetto di libri famosissimi, come “Orgoglio e pregiudizio”, e simili ) : in una donna si accende una passione amorosa verso un uomo, che pregiudizi vari ( di casta, di religione...) le impediscono di amare: essa soffoca il suo sentimento ( di amore ) e pertanto....soffre. Se invece fosse capace di “denudare” tale sentimento da ogni scoria profana, se fosse capace di dar

corso a tale suo sentimento, ma purificandolo, essa troverebbe la soluzione ottimale al suo problema esistenziale.

(6) Molti studiosi dell'esperienza sessuale hanno messo in luce “il piacere per la sofferenza” che anima molti amanti. E proprio sulla base di tali osservazioni si é creato il neologismo “algolagnia” ( da algo= dolore, e lagneia= essere eccitato sessualmente ). Sul punto cfr., Evola ( Metafisica del sesso, cit. , p. 113 ), il quale peraltro fa notare ( ivi, p. 114) che “ se il dolore viene vissuto come piacere, esso evidentemente non é più dolore”.Apprezzabili sono alcune osservazioni che, sulle potenzialità insite nella deflorazione, fa Evola ( Op. u. citata, p.115 ): “Nello stesso contesto ( id est, nel contesto di fenomeni di trascendenza del dolore, n.d.a ) potrebbe rientrare una considerazione speciale di quel che in determinate circostanze può offrire il momento della deflorazione. Sia per le angoscie inconscie e le inibizioni della donna, sia per la primitività carnale e impulsiva che prevale quasi sempre nell'uomo, alcune possibilità eccezionali e irripetibili che, soprattutto per la donna, sarebbero offerte dall'esperienza della deflorazione in rapporto a quanto si é detto sull'algolagnia vanno irrimediabilmente perdute nelle normali relazioni sessuali umane. Anzi, questo atto di iniziazione della donna alla vita sessuale completa, quando esso é brutalmente condotto, ha spesso ripercussioni negative che, esercitando anche successivamente la loro influenza, possono pregiudicare perfino quanto é da attendersi da una relazione normale. Vi é invece da pensare che se venisse anzitutto destato lo stato di ebbrezza in quella sua forma acuta, che ha già in sé un elemento distruttivo, il dolore della deflorazione, insieme a tutti i fattori sottili che vi si legano in termini di fisiologia iperfisica, potrebbe dar luogo ad un subitaneo, estremo innalzamento del potenziale estatico di quella stessa ebbrezza, secondo una congiuntura quasi irripetibile, potrebbe intervenire perfino un trauma, nel senso di una apertura della coscienza individuale sul sovrasensibile”.

(7) A proposito delle ferite, che si fanno in riti frenetici gli appartenenti ai Rufai, setta islamica legata al sufismo derviscio, uno sceicco dichiarò che esse sono fatte in uno stato, in virtù del quale non producono dolore ma “una specie di beatitudine che é esaltazione sia del corpo che dell'anima” e che tali pratiche in apparenza selvaggie non sono da considerarsi in sé, bensì solo come “mezzo per aprire una porta” - confr. W.B. Scabrook, Adventures in Arabia, New York, 1915, p.283; e Evola Metafisica del sesso ,cit., p. 111.Anche la “sofferenza” connessa ad una malattia può dar luogo in certe situazioni al “piacere”. Si legga quanto al proposito scriveva Aurobindo ad un suo discepolo: “ La vostra teoria sulla malattia é una convinzione piuttosto pericolosa, perché la malattia é una cosa da eliminare, non da accettare o da godere. C'é qualcosa nell'essere che gode della malattia; é anche possibile trasformare i dolori della malattia, come qualsiasi altro dolore, in una forma di piacere; perchè dolore e piacere sono entrambi degradazioni d'un ananda originale e possono essere ridotti l'uno nell'altro oppure sublimati nel loro principio originale di ananda. E' anche vero che bisogna essere capaci di sopportare la malattia con calma, equanimità resistenza

e anche, giacchè é venuta, di riconoscere che fa parte delle esperienze da attraversare. Ma accettandola e godendone la si aiuta a durare, e ciò non deve

succedere(...)- ( da Guida allo yoga , p. 118 ).

Omosessualità

Forse il Filosofo non sa dirci che cosa siano “virilità” e “femminilità”. Però il nostro sesto senso – più saggio di ogni filosofia – ci porta senza esitazione a riconoscere in alcuni nostri simili la “immagine stessa” della prima o della seconda ( chi dubita che il Gattamelata sia “maschio” e la Monroe “femmina”? ) e a notare che, invece, in altri, tale immagine sempre più, per così dire, si offusca e che, addirittura, certuni di essi si trovano confinati, da una Natura in vena di un cattivo scherzo, in una sorta di terra di nessuno: sono dotati nel fisico degli organi riproduttori propri di un determinato sesso, però la loro anima nutre le tendenze del sesso opposto: maschi nel corpo, si sentono prevalentemente attratti ( come le donne ) da un altro maschio, e viceversa.Come tutti sanno questi esseri – che la natura ha voluto forgiare fuori dalla sua norma consueta – sono detti “omosessuali” .E proprio a loro, meglio, alla loro condizione esistenziale, saranno dedicati i primi due paragrafi ( della presente “voce”). “La condizione omosessuale é male? É come essere storpi, diabetici, idropici ( cioé, male ) oppure é come essere, neri, gialli, rossi ( cioé, né bene né male) ? )” - ecco la domanda a cui cercheremo di dare una risposta in tali paragrafi.Poi – siccome vi sono, com'è noto, delle persone che, pur rientrando nella norma ( avendo dei normali appetiti sessuali che li portano a preferire il sesso opposto ), cercano il loro piacere anche nel commercio carnale con partner del loro stesso sesso – in altri due paragrafi ci porremo la questione ( ben diversa dalla precedente ) se sia accettabile ( moralmente ) il rapporto omosessuale ( il godimento del piacere con un partner del nostro stesso sesso ).

La condizione omosessuale: excursus storico.Essere omosessuali, é “male” ? Così si riteneva nell'antichità classica. E sul punto non deve ingannare il fatto ( notorio ) che sia i Greci che i Romani tollerassero ( e, per quel che riguarda i primi, addirittura idealizzassero ) il rapporto omosessuale.Infatti, come noi tolleriamo la prostituzione ma disprezziamo la prostituta, così i Greci e i Romani ammettevano il rapporto omosessuale, ma disprezzavano l'effeminato ( il mollis dei Romani, il katapygon dei Greci ) - l'unica differenza tra i due popoli era, che, tale, dai Romani era considerato chiunque, giovane o adulto, “si fosse fatto donna”, mentre dai Greci solo chi, giunto all'età adulta, avesse accettata la parte passiva ( nel gioco erotico) .Questo ( negativo ) giudizio sugli effeminati, noi lo ritroviamo ripetuto anche in quelle, che sono considerate le due classiche “religioni dell'amore e della compassione”. Infatti, sia il Cristianesimo che il Buddhismo ( alle loro origini ) ritenevano incapace, l'ermafrodita, di pervenire ai gradi qualificati di vita spirituale ( accumunandolo in questo agli eunuchi e alle donne ). Ancor recentemente la gerarchi cattolica , in un suo documento dedicato espressamente all'omosessualità, ne parla come di una “vitiata constitutio” ( una

condizione umana “patologica” ) .Oggi, però, non mancano voci – destinate probabilmente ad aumentare di numero e di intensità – che rifiutano la legittimità di ogni negativo giudizio sull'omosessualità : questa non é né un vizio né una menomazione, addirittura può essere una condizione privilegiata per sviluppare un più profondo sentire umano (1).

Nostra opinioneNoi riteniamo che la “condizione omosessuale” ( in sé e per sé – indipendentemente cioé da un suo manifestarsi in un comportamento esterno omosessuale ), sia “male”; così com'é “male” essere diabetici, idropici, sordi (….) o – se vogliamo usare un paragone , più appropriato al fatto che, in fondo, stiamo parlando di quella che, per noi, é una malformazione dell'anima, più che del corpo - ( l'omosessualità é male ) così com'é male essere, paurosi, iracondi, invidiosi ( con la differenza, però, che di tali malattie dell'anima é più facile curarsi che dell'omosessualità ).E se ci si domanda il perché di tale nostro ( apparentemente impietoso ) giudizio, il perchè noi consideriamo “male” l'omosessualità, rispondiamo : perché é male ogni ibridismo, ogni conflitto di impulsi che paralizza l'anima umana.Per Plotino, l'unificazione del proprio essere é compito primario dell'uomo : “Meno uno” - insegnava il grande Filosofo nel suo linguaggio profondo, ma difficile – sono quanti son meno “essere”: più, quelli che più sono. E' sé, ogni essere appartenendosi; e appartenersi, é concentrarsi. Uno, egli possiede se stesso, ed ha tutta la grandezza, ed ha la bellezza. Ecco : non scorre e non fugge ( più ) a sé indefinitamente. Tutto intero é ( ora ) adunato nella sua unità” (2).E banali esperienze confermano tale insegnamento : se in una barca un rematore voga a nord e l'altro a sud, la barca non va né a nord né a sud, ma senza costrutto gira su se stessa; se un fiume si divide in rigagnoli, si trasforma in ( malsana ) palude e perde la sua forza: perché divenga capace di travolgere ogni ostacolo e giungere al mare, bisogna che, le sue forze disperse, siano canalizzate in un unico alveo.Unità, dunque, é l'imperativo di ogni morale ( di tipo superiore ). L'omosessuale é, invece, di tale unità, la più patente antitesi: il suo corpo é fatto per fondersi e congiungersi con la femmina, e invece il suo animo tende ad unirsi con un altro maschio.Si dirà: ma che colpa ha lui di questa sua malformazione?!Qui si potrebbe discutere: si potrebbe anche dire ( con i reincarnazionisti ) che nessuno nasce, in un dato corpo e con una data anima, senza ragione, e che questa va ricercata nelle azioni di cui furono intessute le sue vite passate.Si potrebbe, ma non occorre dirlo; perché per tacitare l'obiezione ( del filisteo di turno ) si può semplicemente replicare: e allora che colpa ne hanno il vile, l'iracondo, il sadico, se sono tali? Nessuno é veramente colpevole delle sue malattie ( fisiche o psichiche, del suo corpo o della sua anima); e la tolleranza e la compassione sono un dovere! Ma questa e quella divengono virtù sospette quando gettano croci su alcuni vizi e rose su altri.Ma dire ad un malato che é malato, non é persecuzione, é pietà verso di lui e verso coloro che lo circondano (3).

Il rapporto omosessuale: excursus storicoE' lecito avere commercio carnale con persone del nostro stesso sesso?La religione ebraica a tale domanda rispondeva in maniera drasticamente negativa. Nella Bibbia si legge: “ Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: é abominio” (Lv. 18,22); “Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio, il loro sangue ricadrà su di loro” (Lv. 20 , 13 ) .Tale così severa condanna viene generalmente attribuita al particolare valore, che il popolo ebraico dava ad una numerosa figliolanza: insomma, chi si dava a rapporti omosessuali, era considerato dal popolo ebraico come dissipatore di una cosa ( il seme) estremamente preziosa. E giustificazione non diversa sembra avere la condanna, che, dell'omosessualità, dà il grande filosofo ateniese, Platone. Questi, infatti, dopo aver detto che “così come una legge ( non scritta ) proibisce i rapporti fra genitori e figli, allo stesso modo dovrebbe esistere una legge che vieta l'omosessualità”, giustifica ciò con lo scopo di evitare che “il seme sia gettato su pietre e macigni, dove esso non potrà trovare luogo adatto alle sue radici e mai potrà assumere la propria natura capace di generare”. E' evidente che per Platone l'amore omosessuale é male, sì, ma né più né meno che quello eterosessuale, che non miri alla procreazione.Quella di Platone era, peraltro, nella società greca e romana, la classica “vox clamantis in deserto”; infatti l'opinione pubblica, sia dei greci che dei romani, si dimostrava largamente tollerante verso l'amore omosessuale. Per i greci, poi, l'amore degli adulti per i giovinetti rappresentava addirittura l'ideale dell'eros.E' solo a cominciare dall'impero che si fa avanti l'idea che l'amore omosessuale sia riprovevole. E questo per l'affermarsi di quelle filosofie che, come lo stoicismo, impongono l'autodominio sulle passioni: in fondo limitare i rapporti sessuali a quelli procreativi significa limitarne il numero .E proprio all'influenza dello stoicismo, oltre che dell'ebraismo, si attribuisce la ( nota ) posizione di intransigente condanna del Cristianesimo contro ogni rapporto tra sessi che non abbia fini procreativi; quindi, in primis, contro ogni rapporto omosessuale. Tale intransigenza però va sempre più stemperandosi nel lassismo e permissivismo che oggi caratterizzano la società. Lassismo e permissivismo che in campo laico

danno luogo, com'é noto, a dei veri e propri “movimenti”, reclamanti per il rapporto omosessuale una legittimità non minore di quella riconosciuta a quello eterosessuale.

Rapporto omosessuale: nostra opinione.Noi riteniamo con Gandhi che le leggi della Natura siano severe: uomo e donna possono unirsi solo se animati da sincero desiderio di avere un figlio. Da tale severa regola con ovvia logica deduciamo l'immoralità del rapporto omosessuale (4).Riteniamo, però, ipocrita chi, uso a pratiche con l'altro sesso in cui con raffinati accorgimenti é impedito ogni risultato procreativo, leva il sasso per lapidare chi preferisce cogliere il proprio piacere con pratiche omosessuali.

Note(1) Un tentativo generoso di riabilitare la condizione omosessuale é fatto da Fernandez-Marcos-Vidal, in Omosessualità – Scienza e coscienza ( ed. Cittadella, 1983 ,p17 e segg.). Fernandez-Marcoz-Vidal si pongono la domanda se “l'omosessuale in quanto tale possa considerarsi anormale”. E distinguono tra “normalità statistica” che evidentemente non può rilevare sul piano morale e “normalità come perfezione” , riconoscendo che “in questo senso, normale é ogni essere che si avvicina di più a ciò che deve essere”. Ora l'omosessuale , si domandano i tre Autori – può dirsi anormale in relazione a tale secondo significato del termine “normalità”? I tre generosi difensori della condizione omosessuale, qui non possono negare che “un omosessuale devia dalla finalità insita, anche morfologicamente, nella sua natura”; però notano che “l'uomo é un essere multidimensionale e che avere un problema in un campo non significa rinunciare o abbassare il livello della propria maturazione umana. Anche le gambe sono fatte per camminare, eppure ci sono dei paralitici che, senza muoversi, hanno percorso spazi ben maggiori di quelli di un infaticabile turista!”.“E' certo – concludono i tre Studiosi – che l'omosessuale ha un “peso esistenziale” più grave da portare. Il suo corpo e il suo spirito sono il punto d'incontro, non sempre armonico, di desideri e di conflitti, che non é facile realizzare contemporaneamente(..Ma) riconoscere la gravità e le difficoltà di questo maggior peso esistenziale é ben diverso che dichiarare l'omosessuale “negato” in partenza nei confronti di una pienezza umana ed esistenziale. Sullo stesso piano bisognerebbe allora mettere molti artisti che, per la loro sensibilità più affinata di quella comune tra la gente, avvertono con forza ciò che sfugge agli altri. Forse bisogna strapparsi l'orecchio come Van Gogh perché appaiano i suoi girasoli e i suoi cipressi”.

(2) Dalle Enneadi, così come le abbiamo trovate tradotte in Introduzione alla magia – quale scienza dell'io, vol III, p.146-E' notevole il commento a tali massime ( ivi, p.147): “L'elemento essenziale per la condizione di “essere” é l'unità. Unificati! Sii uno! Quel fascio di energie, quel popolo di esseri, di sensazioni, di tendenze che tu sei, piegalo sotto una legge unica, sotto una volontà unica, sotto un pensiero unico. Organizzati! Piega la tua “anima”, usala in ogni senso, portala ad ogni bivio finché sia inerte, incapace di movimento proprio, morta ad ogni irrazionalità di istinto. Come un cavallo perfettamente domato, guidato a destra va a destra, guidato a sinistra va a sinistra, fermato si arresta, incitato si slancia – così pure la tua anima sia per te una cosa che tieni in pugno. Senza vincoli, sarai Uno: essendo uno Sei - e ti appartieni. Appartenendoti, la grandezza ti appartiene”.

(3) Meritano però di essere riportate le seguenti osservazioni dell'Evola ( fatte in “L'arco e la clava” , p.23 ).L'Evola parte dalla considerazione che l'embrione umano “ a tutta prima non é differenziato sessualmente, che esso in origine presenta le caratteristiche di entrambi i sessi”. “E' un processo successivo – fa notare l'Evola – a produrre la sessuazione”: allora le caratteristiche dell'un sesso vanno a prevalere e

a svilupparsi sempre di più, quelle dell'altro sesso si atrofizzano o passano allo stato latente”. Di conseguenza ( a sviluppo compiuto ) il sesso che ha l'individuo maschile o femminile va considerato come l'effetto di una forza predominante che imprime il proprio suggello, mentre essa neutralizza ed esclude le possibilità originariamente coesistenti dell'altro sesso, specie nel campo corporeo, fisiologico ( nel campo psichico, il margine di oscillazione può essere assai maggiore)” .“Orbene – continua l'Evola – si può pensare che per regressione questo potere dominante da cui dipende la sessuazione si indebolisca” determinando “ un'emergenza dei caratteri latenti dell'altro sesso e, quindi, una tendenziale bisessualità”. E questo indebolimento appunto é quello che é favorito nella società democratizzata che si é affermata ora nel nostro Occidente : “in una società in cui il pindarico “sii te stesso” é divenuto una frase vuota di senso; in una società in cui avere un carattere vale come un lusso, che solo lo stupido si può permettere, mentre la labilità interiore é la norma”, anche l'avere un preciso carattere sessuale non può non diventare un non-senso. “La democrazia – ribadisce l'Evola – non é un semplice fatto politico e sociale; é un clima generale il quale a lungo andare non può non avere conseguenze regerssive sullo stesso piano esistenziale. Nel dominio particolare dei sessi, ne può venire senz'altro propiziato quello sfaldamento interno, quell'indebolimento del potere interno sessuatore che sono la premessa pel determinarsi e pel diffondersi del “terzo sesso” e, con esso, di molti casi di omosessualità, secondo ciò che il costume attuale ci presenta in un modo che non può non colpire”.

(4) Data la severità di tale regola c'é da aspettarsi che più si scende nella scala evolutiva degli esseri e meno essa sia rispettata. Quindi che l'omosessualità si ritrovi anche nel comportamento di certi animali, per noi vuol dire ben poco ( mentre indubbiamente avrebbe il valore di un argomento inoppugnabile a favore della sua liceità, per chi aderisse all'opinione di molti Padri della Chiesa, e in particolare di Sant'Agostino, secondo cui negli animali vige il comportamento sessuale “naturale” conforme ai disegni di Dio, mentre la sessualità umana é ferita e adulterata dal peccato originale).Ma come poco significa che l'omosessualità esista tra gli animali( per dedurne la sua liceità), così poco significa ch'essa sia presso di loro meno frequente che presso gli uomini , per dedurne una maggiore “malvagità” o “corruzione” dell'uomo rispetto alla bestia.L'uomo non é più lussurioso ( o più goloso....) dell'animale perché più corrotto di questo, ma al contrario, perché di questo più evoluto. Lussuria ( golosità ed altri vizi ) sono naturali ad un certo grado di evoluzione; però pure “naturalmente” spariscono ad un grado ulteriore. E' quindi sostanzialmente da condividere il giudizio benevolo di Fernandez-Marcos-vidal su alcune pratiche erotiche, diciamo così, sofisticate: “ Se l'uomo, mangiando, si limitasse a ingerire le sostanze organiche necessarie al suo organismo e volesse limitarsi a questo crudo e rude funzionalismo dell'alimentazione, distruggerebbe la “cucina”, fenomeno tipicamente umano. Gli asini del duemila mangeranno come quelli del mille e cinquecento, se ne

resterà ancora qualcuno. L'uomo, allo strettamente necessario, aggiunge un “qualcosa di più”, che appartiene all'ordine dei rapporti e dello spirito (….) Se l'uomo si comporta così, con una funzione molto meno importante per il destino dell'uomo com'é il mangiare, cosa non farà con la sessualità, insita nel cuore stesso dell'uomo con le sue tre dimensioni : dell'amore, della vita e della morte” (Op. cit. , p. 22 ).

Osceni ( atti )Il Wladimir Solowjew, uno dei più sensibili interpreti della condizione umana, osserva che “L'uomo come essere morale sente che la disordinata liberazione dell'impulso sessuale é in contrasto con la sua più profonda natura e se ne vergogna” ( e con ciò l'illustre Autore, spiega la nascita del pudore).Anche senza elevarsi a tali altezze metafisiche, bisogna riconoscere che l'uomo si costruisce dei valori, si prefigge delle mete, il cui conseguimento implica la rinuncia, al totale soddisfacimento sessuale ( in alcuni casi: monaci, asceti...) o, almeno, ad un indiscriminato soddisfacimento sessuale ( nella maggior parte dei casi : chi ha il culto della patria deve – come i Franchi di cui canta Manzoni nell'Adelchi – essere pronto a rinunciare ai dolci colloqui amorosi per prendere le armi, chi ha l'ambizione di primeggiare negli studi, deve sacrificare Venere a Minerva, e così via ). Da qui il suo sentire come nemica e perturbatrice ogni sollecitazione sessuale ( che pervenga fuori dei tempi e degli spazi da lui deliberatamente riservati all'uso del sesso ).Ma non solo il singolo, anche la Società nel suo complesso, ha interesse a un controllo della sessualità: “ Vi é una cosa – scriveva Gandhi – che noi non comprendiamo : che l'incontinenza sia la causa profonda di tutte le vanità, le collere, i timori e le gelosie di tutti”; quindi, anche, la causa di tutte le guerre, le sopraffazioni, le ingiustizie, gli sfruttamenti che rendono così difficile abitare in questo nostro povero pianeta. Davvero: nessuna società può mai prosperare e svilupparsi armonicamente, se i suoi membri non hanno un pieno e fermo controllo della loro sessualità.Da qui l'interesse della società stessa ad aiutare il singolo in tale controllo imponendo dei tabù, dei divieti, a quei gesti, a quelle parole che possono risvegliare inconsultamente ( cioé fuori delle situazioni riservate deliberatamente al sesso) l'istinto. Da qui, in altre parole, la nascita del senso del pudore, che viene appunto definito da un grande giurista, il Marciano, come “ quella speciale sensibilità del genere umano che, secondo i popoli e le consuetudini dei tempi, spinge ad un naturale riserbo in rapporto ai pensieri e agli atteggiamenti che si richiamano, sia pure in forma allusiva, ai misteri della generazione e alla vita dei sensi”.C'é chi ( come il R. Latagliata, in Enciclopedia del diritto, voce, Atti osceni,p. 5 ) spiega “l'esistenza del pudore con la struttura biologica dell'uomo, che lo pone in una situazione particolare rispetto a tutte le altre creature viventi (…) Mentre l'animale vive tranquillo secondo la provvidenziale cieca fatalità dell'istinto che lo guida in corrispondenza alle necessità biologiche sue e della propria specie”, l'uomo – secondo tale concezione – sarebbe “caratterizzato da una prepotente eccedenza dell'istinto rispetto alle oggettive possibilità e ai bisogni della sua vita organica” : “la larghezza della vita impulsiva non trovando riscontro in una adeguata struttura biologica” renderebbe appunto “ necessaria una costante attività di controllo e di autodisciplina tendente ad evitare i pericoli della smoderatezza”.Noi però dubitiamo dell'esattezza di tale concezione ( perchè ci pare che non spieghi il perché della “inadeguatezza” del fisico umano a un uso frequente del sesso : infatti se rientrasse nel “destino” dell'uomo l'uso frequente del sesso, anche il corpo umano sarebbe diventato adeguato a questo uso frequente ). E preferiamo, pertanto ritenere

che il pudore, più che in una inadeguatezza biologica dell'uomo, trovi il suo fondamento nel fatto che gli uomini e le società umane ( a differenza degli animali e delle società in cui questi si raggruppano ) si costruiscono e si danno dei valori al di sopra di quelle che sono le semplici esigenze naturali ( mangiare, bere, usare del sesso...) e che, pertanto, con tali esigenze possono entrare ed entrano in conflitto ( e ciò non per una deplorevole artificiosità dell'uomo e delle società da lui costruite, ma perchè rientra nella più vera natura dell'uomo non vivere....secondo natura ).Se quanto premesso é vero, le regole di una sana condotta morale possono essere indicate in due righe: é dovere dell'uomo astenersi da quegli atti che possono scatenare in altri ( contro la loro volontà ) il desiderio sessuale.

Patriottismo – Eggregori

L' “io” ha paura del vuoto (1): per questo egli si costruisce una “personalità” in cui potersi identificare: io sono il ragionier Rossi, che ama la musica classica, detesta il calcio e la musica rock, eccetera eccetera. Questa personalità é solo un prodotto mentale (2); e l'unica sua funzione é quella di nascondere il vuoto ( il “vuoto” ecco il grande terrore dell'uomo: quanto sgomento, inquietudine crea la prospettiva di una semplice giornata “vuota”: bisogna subito riempirla, non importa se di falsi scopi !).Il fenomeno che abbiamo cercato ora di illustrare , riferito, non più al singolo uomo, ma a una pluralità di uomini, porta alla creazione degli “eggregori”: più uomini hanno bisogno gli uni degli altri e vogliono cementare la loro alleanza: che fanno? Costruiscono un'entità, in cui potere identificare il loro aggregato e che impedisca a questo di dissolversi nell'anonimato della generalità degli uomini, il che é come dire: gli impedisca di essere inghiottito dal nulla (4) ( noi , fans della squadra viola, siamo diversi dai fans della squadra gialla per tale e tal'altra caratteristica (5); chè, se così non fosse, se da essi non fossimo differenti, guai! quante cose che riempiono la nostra vita perderebbero di senso: non avrebbe più senso riunirci in club, andare alla partita dietro una stessa bandiera, eccetera,eccetera ).Non é il caso che il lettore assuma a questo punto un atteggiamento di superiorità: “Ah, il gregge umano! Ma io sono diverso”. Diverso perché? Perché sei socialista o liberale? ma che credi? Anche il socialismo e il liberalismo sono degli egregori. Eh, sì, non é facile per nessuno superare la paura del “vuoto”: chi lascia un egregore lo fa ( di solito ) per legarsi ad altro egregore (6): e non é detto che non cada ….dalla padella alla brace.Con tutto ciò, certo, un uomo deve il più possibile decondizionarsi dagli egregori: essere liberi significa anche, anzi soprattutto, essere liberi dalla schiavitù degli egregori. Ma questa lotta per la libertà va condotta intelligentemente.Intelligenza sarà per l'uomo politico – che ambisce ad essere, non un politicante, ma uno statista – creare egregori di “tipo superiore”.E quando mai – mi si domanderà – un egregore potrà dirsi di tipo superiore? Rispondo alla domanda con un'altra domanda: quando mai un uomo può dirsi di “tipo superiore”? Quando adotta come veste ( per coprire il vuoto ) una personalità, che più rinnega se stessa ( più al vuoto si avvicina ): una personalità caratterizzata dall'altruismo ( ma che é l'altruismo se non la capacità di sacrificare il proprio falso sé per gli altri? ), caratterizzata dal coraggio ( ma che é il coraggio se non la forza di rinunciare “alla vita”, quindi alla stessa personalità, per qualche cosa d'altro?) e così via. Similmente, un egregore é di tipo “superiore” quanto più é capace di rinnegare se stesso: quindi una nazione – per venire al tipo di egregore che qui più ci interessa – é tanto più grande, quanto più, lungi dal sopraffare, é disposta ad aiutare le altre.Attento, quindi, l'uomo politico quando procede a rifare la “immagine nazionale”: nessuno si scandalizza ( troppo ) se sceglie dei falsi miti, importante però che si tratti di miti “positivi” ( per quel che riguarda l'egregore “Italia”: via il mito negativo dell'italiano con il mandolino, dell'italiano “furbo”, dell'italiano che si arrangia – e per quel che riguarda l'egregore “Padania”: via il mito del padano libertario e ribelle) (7).

Tutto ciò per quel che riguarda la costruzione degli egregori ( questi debbono risultare il meno schiavizzanti possibile!). Per quel che riguarda più propriamente la liberazione dagli egregori, intelligenza sarà , non rinnegare e tanto meno “tradire” l'egregore a cui apparteniamo ( rischieremmo di liberarci da un padrone per diventare schiavi di molti altri padroni: al meglio rischieremmo di diventare degli “sradicati” come lo é il più dei “Cittadini del mondo”): al contrario dovremo intensificare il nostro amore per esso ( forse che un amore totale non porta l'amante oltre l'amato stesso? schiavo della sua passione può essere l'amante mediocre, che cerca solo il suo piacere, ma non l'amante assoluto, che vuole solo il bene della persona amata e sa essere felice se questa lo lascia per chi più felice la rende).

Note

 (1) Non per niente l'esperienza del “vuoto” ( o della “notte” ), viene ritenuta una delle prove più terribili, che attendono il mistico pellegrino prima della visione beatifica di Dio. Dà, di tale prova, un'idea il seguente passo tratto da Ambelain ( La cabala operativa, p.48): “Se ammettiamo (….) che al di là di ciò che é concepibile e traducibile, c'é un dominio da cui non possiamo riportare alcuna immagine, allora dobbiamo riconoscere che questa nozione di “Luce” - di cui l'Ambelain ha parlato, descrivendo l'esperienza dello Ain Soph Aur, il primo aspetto del Dio impersonale – nondimeno é un'immagine! Respingiamo anche questa, come uno degli ultimi veli che ci nasconde l'Eternità di Dio e chiediamo aiuto al Nulla! Il Nulla ci rivelerà ancora un segreto. Ci farà concepire una “regione” dell'ignoto da cui non si diffonde alcuna “Luce”. Dinanzi a noi protesi sull'orlo dell'Abisso, non c'é che una “Notte”, notte spaventosa, tenebre e silenzio. E queste Tenebre , le immaginiamo senza limiti, come lo era la stessa “Luce” precedente. Questo é , al di là di Ain Soph Aur, il “vuoto luminoso”, al di là di questa “Luce” che era ancora una realtà, “Ain Soph”, il “ vuoto oscuro e illimitato”.

 2) La riprova che la personalità, di cui l' “io” si riveste, poggia sul vuoto, si ha nel fatto che, se si eliminano ad una ad una, prima questa, poi quella caratteristica e qualità ( in cui la personalità sembra sostanziarsi), si finisce per trovare....il nulla.Diceva Sri Ramakrishna: “Mentre pelate una cipolla, trovate sempre nuovi strati, ma non giungete mai a un nocciolo. Del pari, quando volete analizzare l' “ego”, questo scompare del tutto. Ciò che rimane in ultimo, é l'Atman , il puro Chit ( la conoscenza assoluta). Dio non appare se non quando l'ego muore” ( da Alla ricerca di Dio, p. 271).

Insegnava ancora Sri Ramakrishna: “ Conosci te stesso, e allora conoscerai Dio. Che cos'é il mio “io”? é forse la mia mano? o il mio piede? o la mia carne, o il mio sangue, o qualche altra parte del mio corpo? Se riflettete bene, dovete riconoscere che non v'é nulla che possiate chiamare “io” (da Alla ricerca di Dio, p. 271 ).

3.L'Eggregoro possiamo definirlo come un'entità generata dal pensiero, potente e concentrato, di più uomini.

“Nell'invisibile – spiega Ambelain ( in La cabala operativa, p. 184) – fuori della percezione fisica dell'Uomo, esistono esseri artificiali, generati dalla devozione, dall'entusiasmo, dal fanatismo, che si chiamano eggregori. Sono le anime delle grandi correnti spirituali, buone o cattive. La Chiesa Mistica , laGerusalemme celeste, il Corpo di Cristo e tutti questi sinonimi costituiscono le qualificazioni, che comunemente si danno all'eggregoro del Cattolicesimo. La Massoneria, il Protestantesimo, l'Islam , il Buddismo, sono eggregori. E così le grandi ideologie politiche. Integrato psichicamente con l'iniziazione rituale o con l'adesione intellettuale ad una di queste correnti, l'affiliato ne diventerà una delle cellule costitutive. Aumenterà la potenza dell'Eggregoro con le qualità o i difetti che possiede ed in cambio l'eggregoro lo isolerà dalle forze esterne del mondo fisico, rinforzando con tutta la forza collettiva che ha accumulato prima, i deboli mezzi d'azione dell'uomo che ad esso ha aderito. Istintivamente, il linguaggio popolare dà ad un eggregoro il nome di “cerchio”, che esprime così intuitivamente l'idea di un circuito.Tra al cellula costitutiva e l'eggregoro, cioé tra l'affiliato ed il gruppo, si stabilisce una specie di circolazione psichica interiore”.

(4) Quello che viene, nel caso, ad agire, pertanto, é la stessa forza o “principio” che conduce alla formazione della personalità umana. E in effetti la filosofia indù insegna, che agisce nell'universo un principio generale in forza del quale “ tutto quanto esiste in natura tende a costituirsi in Persona”; questo principio vien chiamato ahankara che significa appunto “principio della Personificazione” - confr. sul punto , Kerneiz, Hatha Yoga, p. 461.

(5) Tale sforzo di differenziazione é frutto sostanzialmente dell'istinto xenofobo ( che anima ogni gregge umano, ogni eggregoro ). Infatti “l'espressione schematica dell'istinto xenofobo – insegna Kerneiz (Hatha-Yoga, p. 491 ) - é “ Non sono quella cosa”. Ma (tale affermazione) si deve spiegarla, giustificarla e perciò si deve aggiungervi: “perché sono questa cosa”. Anche quella particolare specie di eggregori che sono le nazioni, tende a differenziarsi adottando questo procedimento. “Ogni popolo – insegna Kerneiz ( Hatha Yoga, p. 491) – si é creato perciò di se stesso un'immagine simbolo che indica un dato numero di particolarità giudicate tipiche ( sia difetti che qualità ), immagine simbolica che rappresenta ad un tempo il modello al quale ognuno ha cercato di uniformarsi: il Francese tipico, l'Inglese tipico ecc.” Anche Jose Gil ( voce Nazione , vol.9 della Enciclopedia Einaudi ,p.844 ) rileva che “ogni volta che un popolo cerca di riunirsi politicamente in una nazione si assiste allo sforzo per costruire una storia nazionale mitica”.

(6) Del resto, dal punto di vista della sopravvivenza della società umana, non sarebbe neanche opportuna l'eliminazione degli Egregori: “ Senza questa formazione di Egregori, entità indipendenti al di fuori e al di sopra degli individui, nessuna società sarebbe possibile” - sostiene Kerneiz ( in Hatha Yoga , p. 473 ).Peraltro “nel nostro mondo del XX secolo, solamente gli eremiti indù e tibetani possono ancora adottare la soluzione radicale e ad un tempo logica, svincolandosi dagli Egregori per ritirarsi in solitudine” - così sempre Kerneiz, Hatha Yoga ,p. 474.

(7)Indubbiamente l'armonizzazione degli Egregori che popolano l'area politica della destra é difficile, ma tale difficoltà ( non impossibilità!) dovrebbe essere sentita come una sfida da un uomo politico di razza.Le ondate immigratorie provenienti dai paesi islamici creano, poi, il problema di un'armonizzazione tra gli egregori portati dalle popolazioni immigrate e quelli locali. Qui il pericolo per la destra é di lasciarsi trascinare da miopi calcoli elettoralistici ad una lotta contro i “nuovi” egregori; lotta che essa forzatamente sarebbe portata a condurre facendo propri miti ed ideologie della sinistra ( cioé snaturandosi e suicidandosi come destra) : gli islamici sono “credenti”? Viva l'Occidente del “libero pensiero”! Gli islamici affermano la superiorità dell'uomo sulla donna ? Viva la parità dei sessi! Gli islamici condannano l'adulterio? Viva il “libero amore”! E così via.La destra deve ambire ad essere guardiana della Tradizione e non ridursi ad essere custode delle tradizioni popolari, del folclore! Giusta la difesa della diversità; ma un popolo cerchi la Verità e vedrà che le diversità tra lui e gli altri popoli si appaleseranno; e saranno diversità significative, non cose da museo, da folclore.

Progresso ( del mondo) – Evoluzione ( dell'anima)

Noi, qui e ora, non siamo felici ( ahinoi, purtroppo ); e attribuendo questa nostra infelicità al modo di essere delle cose che ci circondano (all'universo a noi esterno,cioè ), desideriamo un suo mutamento; in meglio, naturalmente, tale cioé che ci doni un animo lieto e felice: in altre parole desideriamo il progresso ( del “non-io” ) (1).Ma questo é possibile? Certo é possibile che le cose mutino ( che là dove ci sono ora le sabbie del deserto, vengano ad esserci laghi e zolle di terra umide e verdi ); é anche possibile ( anche se un dubbio qui lo legittimano i recenti disastri ecologici ) ch'esse mutino in modo da meglio, anzi completamente soddisfare i sensi fisici dell'uomo ( in modo cioé da render questi satollo di cibo, fresco d'estate e caldo d'inverno ). Ma che un tale mutamento possa rendere l'anima umana soddisfatta e felice, il Saggio lo nega (2); e lo nega anche la comune esperienza della vita: forse che non vediamo noi i miliardari – uomini che hanno tutto per soddisfare i loro cinque sensi: case dotate d'ogni comfort, cibi raffinati, le più belle donne e naturalmente droga e vino in quantità – fuggire da una vita, che non ha per loro più senso, saltando nel vuoto o ingoiando mortifere pastiglie ?!Ma protesterà il giovane progressista : “ Io non mi limiterò a rendere più piacevole il mondo, lo renderò anche più giusto”. E noi saremmo tentati di trovare convincenti le sue parole e anche di accettare i metodi drastici, l'amara medicina ch'egli propone per giungere a tale scopo ( che sono mai qualche decina di milioni di morti davanti al progresso di tutta l'umanità?!), se già non sapessimo che “il male non é che l'ombra del bene” (3): per togliere il male e l'ingiustizia ( meglio, il “senso del male e dell'ingiustizia” ) dovremmo bloccare la crescita spirituale dell'umanità, perché ciò che sembrava ieri giusto, all'anima cresciuta, ora sembra male e ingiusto. Ma questo certo non vuole neanche il progressista; e comunque ( fortunatamente ) non lo può ottenere.Le conclusioni a cui siamo giunti, devono condurci alla rassegnazione, ad accettare, passivi ed inerti, il nostro attuale stato infelice ? No, di certo: se l'universo non può progredire (4), l'anima però può evolvere. Non é l'universo che va cambiato, é l'anima che va cambiata (3); nel senso che va divinizzata ( melius, va resa cosciente della sua divinità): e l'anima, diventata divina, vedrà divino il mondo, dato che questo, in fondo, non é che un suo riflesso (6) ( non avete notato – e perdonate l'esempio banale – che il corpo, quando é appesantito dal cibo o dalla lussuria, volgendo lo sguardo anche a quelli, che sono considerati i più bei spettacoli dell'arte o della natura, li trova opachi e insulsi, e, quando invece é purificato o anche, da un innamoramento, reso vibratile, sente tutta la natura intorno a sé, bella e santa e armoniosa?! Non ci addita ciò il senso giusto in cui procedere per diventare felici?!

Note

1.Progredire si può verso il meglio, ma anche verso il peggio: anche chi cammina dritto verso un precipizio, va avanti, “progredisce”. Però l'idea di progresso, in politica, solo “si può definire come l'idea che il corso delle cose, e in particolare della civiltà, ha avuto dall'inizio un graduale aumento di benessere o di felicità, un miglioramento del singolo e dell'umanità, un movimento verso un obiettivo desiderabile” - confr. Saffo Testoni Bissetti , voce Progresso, del Dizionario di politica, p. 869. L'idea di progresso é talmente rozza e , nonostante ciò, ha avuto talmente successo da far sorgere il sospetto ch'essa sia dovuta, non già ad un semplice errore umano, ma ad una consapevole intelligenza ( mirante a sovvertire l'ordine tradizionale ). E in realtà tale idea nasce solo con la Rinascenza e prima era totalmente sconosciuta ( confr. su quest'ultimo punto, Saffo Testoni B. , Op. cit. ,p. 870 ).  Sulla presenza nella Storia di “forze antitradizionali” , che agiscono strumentalizzando o addirittura creando partiti e movimenti culturali, v. Guenon R. , Il regno della quantità e i segni dei tempi, Milano, 1982, in particolare p. 186 ss.

(2) E questo perché – come ci avverte Swami Vivekananda (Jnana Yoga , p. 60 ) -“ il desiderio non é mai soddisfatto dall'appagamento dei desideri: non fa che aumentare questi ultimi, come il fuoco viene alimentato quando in esso si getti dell'olio”.

(3)Vedi la precedente voce “Male”.

 4) Ma se é così, perché agire ( perché agire sul “non-io”)? “Se é vero che non si può fare il bene senza fare il male, e che, quando si cerca di creare la felicità, si vede venirci incontro la miseria (…) a che cosa serve fare il bene?”. Ecco la domanda che pone Swami Vivekananda e la risposta che vi dà ( in Jnana Yoga, p. 58 ) : “La risposta é, in primo luogo, che noi dobbiamo lavorare per diminuire la miseria, perché quello é l'unico modo di conquistare la felicità (….) In secondo luogo, dobbiamo fare la nostra parte, perché é quella la sola maniera di liberarci da questa vita di contraddizione. Entrambe le forze del bene e del male conserveranno vivo l'universo per noi, finchè ci sveglieremo dai nostri sogni ed abbandoneremo questo edificio di fango”.Detto in parole più rozze, finché non abbiamo realizzato la verità e siamo schiavi di maya , anche non volendo, dobbiamo agire. E dovendo agire, dobbiamo agire per il “bene”, dato che é nel bene, in fondo, che si esprime il massimo della nostra libertà ( chi é più libero? l'altruista, capace di sacrificare, per aiutare il prossimo, un “sogno”, una “illusione di felicità” generatogli da Maya, o l'egoista che ruba agli altri cedendo all'illusione di poter così raggiungere la felicità?!

(5) E l'anima cambiando ( evolvendo ) si libera dalla schiavitù della Natura e la fa anzi sua schiava. Ma come può accadere ciò? Può accadere perché l'anima é infinita ma la “natura é finita”. Infatti questa altro non é – per usare le parole di Vivekananda ( in Jnana Yoga, p. 101 ) - che lo “infinito riguardato da un punto di

vista limitato”.Ma continuiamo sempre con le parole di Vivekananda ( loc.u. citato ): “Dovrà quindi venire un tempo in cui avremo la meglio su ogni e qualsiasi ambiente. E come sarà possibile questo? (…) Il pesciolino desidera sfuggire ai suoi nemici nell'acqua. Come può esso fare ciò? Evolvendo, in maniera di acquistare le ali e divenire uccello. Il pesce in parola non produsse alcun cambiamento nell'aria o nell'acqua: il cambiamento ebbe luogo soltanto in lui stesso. Quello che cambia é sempre il soggetto”.

(6) Vivekananda (Jnana Yoga, p. 89 ) ci dice che quando vedremo la Verità “non malediremo più la natura, né diremo che il mondo é orribile e che tutto é vano”. Capiremo anzi ( ci dice ancora Vivekananda , p. 91 ) che “ la natura non ebbe effettivamente mai potere su di noi”. “Come bambini spaventati – ci dice Vivekananda – sogniamo che essa ci soffoca”. Ma quando vedremo la Verità “ Maya, anziché essere un orribile sogno com'é ora, diverrà una cosa bella, e questa terra, anziché essere una prigione, sarà un luogo di gioia. Anche i pericoli, le difficoltà e perfino tutte le sofferenze saranno deificate e ci mostreranno la loro vera natura; ci faranno vedere che, al di là di qualsiasi cosa, come la sostanza di tutto, Egli é presente ed é l'unico “Io” reale”.

ProstituzioneViene definita come il “prestarsi abitualmente a rapporti sessuali con chiunque” e vengono ritenute sue caratteristiche: “La retribuzione e la mancanza di discriminazione di carattere sentimentale circa le persone ammesse ai rapporti sessuali” .Le questioni che nei suoi riguardi i Moralisti sono costretti a porsi sono due.La prima é: deve lo Stato tollerare la prostituzione o intervenire per vietarla?Grandi moralisti dell'antichità ( come Solone , Catone il Censore, Cicerone, Seneca) considerano la prostituzione un male minore, di fronte a quello maggiore che l'incontinenza maschile, non trovando più il suo sfogo con la donna prezzolata, andasse ad attentare alla pudicitia delle fanciulle e delle donne sposate .Anche i maggiori Padri della Chiesa furono per la tolleranza. S. Agostino metteva in guardia: “ Aufer meretrices de rebus humanis , turbaveris omnia libidinus” (“Togli le meretrici e ogni cosa verrà turbata dalla libidine”) . S. Tommaso ammoniva: “Sapiens legislatoris est minores transgressiones permittere, ut maiores caveantur” ( “Il saggio legislatore deve permettere le minori infrazioni per evitare le maggiori”) .Sono, però, tutt'altro che pochi ( e trovano in un santo – S. Alfonso – il loro antesignano) i moralisti che sostengono la necessità di un intervento repressivo dello Stato. I loro migliori argomenti sono : - che “numerose donne e ragazze prossime a cadere nella prostituzione saranno incoraggiate a farlo, dal momento che la legge non vieta tale occupazione”: che il pubblico può essere portato a concludere, dalla tolleranza della Legge, la liceità morale del meretricio .Veniamo alla seconda questione ( di carattere morale ) che la prostituzione presenta: é lecito, o no, per la donna ( e per l'uomo ) esercitarla?Chi ritiene illeciti i rapporti fuori del matrimonio, non solo dà – com'é ovvio – una risposta negativa, ma – cosa assai meno ovvia – tende a vedere nella prostituzione una forma, per così dire, aggravata di violazione del sesto comandamento .Ancor più stranamente, pur chi – come gli antichi Romani – sa guardare alle cose del sesso senza pregiudizi puritani, ricollega una nota di infamia alla donna “che si mette in vendita” : i giuristi romani non esitano a qualificare la sua vita come “turpissima” e a sentenziare che la “turpitudo”, che macchia la meretrice, rimane anche quando ha lasciata la sua abietta professione o può addurre come scusante la povertà .Per esprimerci in sintesi, possiamo dire che gli etnologi, solo in via di eccezione, possono indicare popoli presso cui la prostituzione non sia coperta da infamia (1)

Nostra opinioneSull'intervento repressivo dello Stato noi diamo senza titubanze una risposta negativa; che il fatale abortire di tutti i tentativi ( peraltro sporadici ) di reprimere la prostituzione, ci esime dal giustificare .Positiva, invece, é la nostra risposta alla domanda se sia illecito, o no, prostituirsi; dal momento che , ispirandoci agli insegnamenti del Mahatma Gnadhi, riteniamo esiziale alla società il c.d. “amore libero”.Resta però da spiegare – ed in fondo é proprio questa la questione più difficile e più interessante che ci presenta la problematica morale sull'amore mercenario – il perché

di tanto disprezzo e di tanta infamia tributati alla prostituta.Il corpo di Aspasia é come un vaso pieno di ( erotiche) delizie; essa, invece di fare come gli avari che negano agli altri anche la vista delle proprie ricchezze, si scopre generosamente in pubblico, e , in privato, distribuisce a chi lo desidera il suo tesoro. Certo si fa pagare, ma non é una legge dell'economia comunemente accettata che chi dà deve ricevere? Che male c'é in tutto questo? Si dirà: il male c'é e sta nel fatto che Aspasia, dandosi per mercede a chiunque, rinuncia a quelle più complete esperienze sessuali, a cui ogni donna intimamente aspira: é come il pittore che, per brama di lucro, si mette a disegnare cartelloni pubblicitari e così si toglie il tempo e l'ispirazione per fare quelle opere d'arte, a cui la sua natura più profonda lo vocherebbe. C'é del vero in questa obiezione. Però come spiegare che la donna, che ha rinunciato alla sua femminilità, ha accettato di mascolinizzarsi, per lucrare con una squallida professione ( di medico, di manager, di notaio...), non raccoglie altrettanto disprezzo che la “prostituta”?Al postutto la spiegazione più convincente, del perché la gente rifugga dal contatto con la prostituta, é quella che ci sembra di potere ricavare da un insegnamento, da noi trovato nella letteratura esoterica.Si tratta di questo: secondo i cultori dell'esoterismo, noi, oltre un corpo fisico, abbiamo un “corpo eterico”; ora quando veniamo in contatto con un'altra persona – specie se si tratta di un “contatto intimo” - questo corpo eterico tende ad assorbire, ad impregnarsi dei sentimenti di tale persona (2).Se questo é vero, la prostituta, accoppiandosi ripetutamente con uomini animati dai sentimenti più animaleschi, finisce per essere impregnata di pensieri e sentimenti impuri e negativi: pensieri e sentimenti che, a sua volta, può trasmettere ad altri che venga in contatto con lei (3).Questo spiegherebbe, anche, perché nell'antichità, tanto era disprezzata la prostituta profana, tanto era stimata la “prostituta sacra”: cioé la donna che, in un contesto di sacralità, di solito in un tempio, si concedeva. Infatti l'uomo che si avvicinava alla prostituta sacra, non era animato da bassa cupidigia sessuale, ma aspirava a vivere il sesso in una dimensione superiore: era un uomo che intendeva congiungersi con una dea, e infatti come rappresentante ( incarnazione ) della dea a lui la prostituta si presentava (4).

Note(1) Come popolazioni, presso cui non é ritenuta disonorante la prostituzione, vengono citate la giapponese e quella degli Onlad-Nail dell'Algeria ( presso questi vi sarebbe l'uso per le ragazze di farsi una dote esercitando la prostituzione in città). Dubitiamo che il riferimento al Giappone sia esatto: é vero che in quel Paese addirittura si fecero statue in onore di prostitute, ma si trattava di prostitute al livello delle etere dell'antica Grecia ( o delle Cortigiane del Rinascimento), cioé di prostitute di alto rango , che non si concedevano a tutti indiscriminatamente.

(2) Aivanhov, grande pedagogista e autorevole esoterista, in un suo discorso ( tenuto nel 1978 a Bonfin e riportato in L'amour et la sexualitè, ed. Prosveta, 1986, p.131 ) insegnava: “ Quando due esseri si amano e hanno delle effusioni, la loro aura si livella (...)Certuni hanno definito l'amore come uno sfregamento di epidermidi. Mio Dio, che definizione povera e limitata! In realtà l'amore non é nient'altro che un livellamento di potenzialità, un'osmosi. Se si mescolano dell'acqua calda e dell'acqua fredda, il calore dell'una si comunica all'altra, e viceversa, ciò che produce dell'acqua tiepida. Questa legge, che é valida per tutte le sostanze solide, liquide o gassose, s'applica anche nel dominio degli scambi eterici. Amare non é dunque nient'altro che realizzare un livellamento nell'aura”.E sempre l'Aivanhov ( in un altro discorso del 1978, riportato in La pedagogie initiatique , ed. Prosveta,1981, p.114 ) ammoniva: “Dovete stare attenti a tutto ciò che fate, a tutto ciò che toccate o che vi tocca, e per questo dovete sviluppare la consapevolezza e la sensibilità. Perché una giovane donna accetta di essere accarezzata e abbracciata da non importa qual bellimbusto senza nemmeno rendersi conto di tutte le tracce negative che questo ragazzo é in procinto di lasciarle? Queste tracce agiranno in seguito come un cattivo talismano attirando su di lei influenze nocive. E voi stessi quando vi sentite irritati, nervosi o mal disposti non date niente agli altri e non toccateli nemmeno, perché con la vostra collera e le vostre cattive disposizioni voi li trascinereste nel loro lato negativo”.Ci siamo permessi di tradurre noi stessi i passi ( scritti in francese) dell'Aivhanov: speriamo di non averne tradito il pensiero.

(3) Com'é noto, in non poche società si imponeva alle prostitute di rendersi facilmente riconoscibili con uno speciale abbigliamento ( ad esempio, in Venezia, dovevano portare un foulard giallo).Tutto questo per permettere alle persone di evitare un inconsapevole ( ma indesiderato) contatto?Vi é un altro personaggio il cui contatto – come quello con le prostitute – é stato ritenuto nefasto : il boia. Anche qui la spiegazione potrebbe essere nel fatto che il boia, entrando in contatto con le persone – in preda al terrore, alla disperazione, all'odio per la prossima morte – ne assorbiva le “negatività”.Interessante quel che Hans von Hanig (in La pena, cit.p.143 ) nota a proposito del boia: “Il contatto con il carnefice rende infame (….)una forza particolarmente perniciosa implica questo contatto nel tempo stesso dell'esecuzione. Perciò le cronache ricordano che un padre implorò la grazia di poter castigare egli stesso il proprio figlio, per evitargli ogni contatto col carnefice (...) Perciò, sino ai giorni nostri, il carnefice porta ancora dei guanti, ed il ministro della giustizia prussiano non ha compreso il senso di questa usanza, quando ha proibito, dopo aver assistito ad un'esecuzione, che il carnefice portasse i guanti bianchi. Sullo stesso fondamento le saghe riconoscono al carnefice il diritto di grazia alla delinquente che acconsentisse a sposarlo. Sempre la donna ha respinto il sinistro personaggio”.

(4) J. Evola ( in Metafisica del sesso, Roma, 1958, p.234 ) - parlando della “prostituzione sacra in uso nei templi di molte divinità femminili di tipo afroditico” -

scrive: “ Qui due aspetti vanno distinti. Vi era, da un lato, l'usanza, che ogni ragazza giunta alla pubertà non potesse passare a eventuali nozze prima di avere offerta la propria verginità in un contesto, non di amore profano, ma di sacralità: ella doveva darsi nel recinto sacro del tempio a uno straniero che facesse un'offerta simbolica e che invocasse, in lei, la dea. Dall'altro lato, in codesti templi vi era un corpo fisso di ierodule, cioé di addette alla dea, sacerdotesse il cui culto consisteva nell'atto, per il quale i moderni non sanno trovare altro termine che “prostituirsi”: celebravano il mistero dell'amore carnale nel senso, non di un rito formalistico e simbolico, ma già di un rito magico operativo: per alimentare la corrente di psichismo che faceva da corpo alla presenza della dea e, in pari tempo, per trasmettere a coloro, che con esse si congiungevano, come in un sacramento efficace, l'influenza o virtù di questa stessa dea (…) L'atto sessuale assolveva così per un lato la funzione generale propria ai sacrifici evocatori o ravvivatori di presenze divine, dall'altro aveva funzione strutturalmente identica a quella della partecipazione eucaristica: era lo strumento per la partecipazione dell'uomo al sacrum in questo caso portato e amministrato dalla donna”.

ServireQuella della libertà, quella di diventare e sentirsi liberi, é senza dubbio un'esigenza fondamentale per l'uomo (1). E addirittura si può dire, che il più importante imperativo etico, possa essere scritto così: “Sii forte, sempre più forte, tanto da potere oggi o domani rompere di Maya tutti i vincoli” (2).Bene fa quindi il nostro Occidente a mettere sugli altari la dea Libertà ( solo volesse il Cielo che essa fosse la vera libertà e non una sua caricatura!).Però il giusto tributo d'omaggio da riservare alla libertà non deve farci dimenticare che l'uomo ha un'altra esigenza, non meno fondamentale di questa: esigenza che ( paradossalmente!) é quella di servire.Una libertà vuota, senza scopo, non farebbe l'uomo felice; con giusta intuizione Nietzsche pone in bocca a Zarathustra la domanda: “Liberi, sì, ma per che cosa?”.Se non si sa dare una risposta a tale domanda, se non si trova uno scopo alla propria libertà, non si é liberi, ma, per usare la famosa espressione di Sartre: “Si é condannati ad essere liberi”(3).Noi siamo costretti a riconoscere che l'uomo ha bisogno ( paradossalmente!) di asservire la sua libertà a uno scopo, a qualcuno, a qualcosa (4); il che é anche un modo per riconoscere, ch'egli ha bisogno di sentirsi parte di un tutto ( ah, il senso di felicità che ci pervade di fronte al cielo stellato o a un maestoso ghiacciaio! Questo perché tali spettacoli della natura ci fanno sentire piccoli, quindi, in definitiva, impotenti e non liberi, però sicuri e protetti in quanto parte di un tutto più grande ).Libertà e servizio, ecco le esigenze tra cui l'uomo saggio deve riuscire ad operare una sintesi.

Note (1) Vivekananda ( Jnana yoga, p. 90 ): “Tutta la vita umana e tutta la natura lottano per raggiungere la libertà. Il sole si muove verso la sua meta; la terra gira attorno al sole; la luna, attorno alla terra. Ogni cosa si sforza di realizzare un tal fine”.E ancora ( Jnana Yoga , p. 88 ): “ E' un fatto ancora che, attraverso tutte le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre difficoltà e le nostre lotte, noi siamo senza dubbio incamminati verso la libertà (….). Quest'idea della libertà non la potete in alcun modo scartare: le vostre azioni e la vostra stessa vita sarebbero perdute senza di essa. Ad ogni momento la natura ci fa vedere che siamo schiavi e non liberi. Ciò nondimento sorge simultaneamente l'altra idea che noi siamo liberi. Ad ogni passo siamo, per così dire, buttati a terra da Maya, la quale ci mette sott'occhio i nostri vincoli; e tuttavia, di pari passo con questa caduta, insieme col sentimento che noi siamo vincolati, si presenta a noi l'altro senso della nostra libertà. Una voce interiore ci dice che siamo liberi”.

(2) L'esaltazione del potere e della forza ( ben si comprenda, non di un potere e di una forza materialisticamente intesi ) costituisce il leit-motiv di tutto l'insegnamento di Swami Vivekananda. “E' la debolezza – egli afferma ( in Jnana Yoga , p. 171 ) - che é causa di tutta la nostra miseria. La debolezza é l'unica causa della sofferenza.

Siamo miserabili perché siamo deboli; soffriamo perché siamo deboli; moriamo perché siamo deboli. Se non esistesse nulla che c'indebolisce, non vi sarebbe né morte né dolore”.E ancora ammonisce (Jnana Yoga, p. 215 ): “ Sappiate che ogni pensiero ed ogni parola che affievolisca le vostre energie in questo mondo, é l'unico male che esiste. Ciò che rende deboli gli uomini ed incute loro timore nel mondo é l'unico male che esiste. Ciò che rende gli uomini deboli e paurosi é il solo male che dovrebbe essere evitato. Che cosa dunque vi spaventa? Se i soli, le lune, i sistemi planetari vanno in polvere, quale pregiudizio potrebbe derivarne per voi? State fermi come la roccia, giacchè voi siete indistruttibili. Siete l'Io, il Dio dell'universo. Dite “Io sono la Esistenza assoluta, la Beatitudine assoluta, la Conoscenza assoluta” , e come un leone che rompe la sua gabbia rompete le vostre catene e siate liberi per sempre”.

(3) “In realtà – ci fa osservare Prabhupada ( in La scienza della realizzazione spirituale , p. 61 ) - noi stiamo sempre rendendo servizio a qualcuno, famiglia, nazione o società, e colui che non ha nessuno da servire alleverà un cane o un gatto per diventarne servitore” . “ Tutto ciò – continua Prabhupada ( loc. cit.) - dimostra che la nostra posizione naturale e originale é quella del servitore; ma nonostante tutti i nostri sforzi, rimaniamo insoddisfatti, come insoddisfatta é la persona che serviamo. A livello materiale c'é solo frustrazione, perché il servizio offerto é mal orientato. Colui che vuole far crescere un albero, per esempio, deve annaffiare la radice e non le foglie o i rami, il che sarebbe fatica sprecata. Allo stesso modo, se si serve Dio, la persona Suprema, tutte le Sue parti integranti saranno contemporaneamente soddisfatte. Perciò, il servizio che si offre al Signore include tutte le forme di beneficenza, tutte le forme di aiuto alla società, alla famiglia e alla nazione”

(4) Confr. Evola, Cavalcare la tigre, p. 54.

SuicidioSi può definire come un omicidio in cui soggetto agente e paziente si identificano. Capovolgendo una famosa tesi del Durkheim (1) si può affermare, che ogni società in maggiore o minore misura viene ad ammetterne la liceità.Per convincersi di ciò, non occorre necessariamente pensare a quei comportamenti ( di carattere eccezionale ) che sono ritenuti leciti, ancorché finiscano per condurre immediatamente o in breve tempo il loro autore alla morte ( medico che va a curare i colpiti da malattie contagiose, soldato che va a sicura morte per contrastare il nemico...); basta por mente alla moltitudine di quelle scelte, della cui liceità morale nessuno dubita, quantunque abbiano il risultato di accorciare la vita di chi le compie: chi si scandalizza se uno prende un analgesico, fuma tabacco, beve un liquore? Eppure chi prende l'analgesico, fuma tabacco, beve liquori accorcia la propria vita. Si dirà: l'accorcia di poco. Non importa! Quel che importa é il principio; e il principio é che una persona ha scelto di rinunciare a qualche ora o a qualche giorno ( o a...qualche anno ) di vita, pur di cogliere un piacere o di evitare un dolore.E non basta: si pensi a tutti coloro che pongono a rischio la propria vita in sports pericolosi.Si dirà: chi pratica il paracadutismo ( l'alpinismo...) non si espone a morte certa. Ma questo non rileva: nessuno dubita che sia un omicida chi attenta alla vita altrui, anche se non é certo che dalla sua azione consegua la morte ( Tizio spara e vi sono 50 probabilità su cento che colpisca il suo bersaglio umano: poco importa, é lo stesso un omicida ), così non si può dubitare che sia un suicida, chi pone a semplice rischio la propria vita.Abbiamno sentito il bisogno di chiarire tutto questo prima di esporre le posizioni pro e contro il suicidio, per avvertire lo studioso che anche in chi é ”contro” vi é molta ipocrisia e molta ambiguità. In realtà solo uomini della levatura di Gandhi – che, non solo mai avrebbe profanato il suo corpo con tabacco e liquori ( e dolciumi e tutti i cibi-veleno che ogni giorno noi piccoli-uomini ingeriamo ), ma serenamente rifiutò l'analgesico quando dovette sottoporsi ad un intervento chirurgico – possono parlare contro il suicidio.Ciò premesso passiamo a dire che il suicidio é ammesso – ed é naturale – da quelle scuole che si ispirano all'edonismo e all'utilitarismo: cirenaici, epicurei, materialisti dell'ottocento, tutti ammisero il suicidio.Di contro le scuole di ispirazione religiosa ( Pitagorismo, Platonismo, Neo-platonismo....) ne contestarono la liceità. Ed é a tutti noto che il Cristianesimo ( dopo iniziali incertezze, messe a tacere dall'autorità di Sant'Agostino ) eresse una radicale e assoluta proibizione della morte volontaria.A quanto ora detto fanno eccezione due scuole - a cui si deve riconoscere ( sia pure con qualche “distinguo” ) una ispirazione religiosa - ma che ciò nonostante ammisero il suicidio; trattasi dello stoicismo (2) e del buddhismo. Ma tali scuole riconobbero all'uomo il diritto di togliersi la vita, non tanto come via per sfuggire al dolore, quanto come garanzia e usbergo per la propria libertà interiore (3).A questo punto può essere utile evidenziare le ragioni portate contro l'ammissibilità del suicidio, per saggiarne la consistenza.

I) Il suicidio é un atto contro la polis, in quanto la priva di un membro utile.Questo argomento contro il suicidio fu per primo avanzato da Aristotile (4). E non si può negare che abbia un certo fondamento: la polis mi istruisce, mi alleva, mi cura, e con ciò é come se investisse dei capitali su di me, ed io, giunto all'età in cui potrei “renderle” qualcosa, brucio tutto questo capitale uccidendomi. Ciò non pare giusto. E tuttavia il rimproverare al suicida l'antisocialità, il danno ( si ripete, indubbio ) che arreca alla collettività, appare, di fronte alla tragicità del suo gesto, troppo banale e meschino. E assurdo anche, se uno Stato ammette - come quasi tutti gli Stati oggigiorno ammettono – il diritto di espatrio: forse che chi emigra non priva la sua patria di un membro utile?II) Il suicidio reca offesa alla Divinità: questa ci ha data la vita, solo questa ce la può togliere.Quest'argomento fu messo, soprattutto, in rilievo da Platone. Nel Fedone, Socrate dice: “Noi uomini siamo in una specie di carcere e quindi non possiamo liberarcene da noi medesimi e tanto meno svignarcela”. E ancora: “Dei sono coloro che hanno cura di noi e (….) noi uomini siamo in possesso degli Dei”: per cui non possiamo toglierci la vita: infatti “se qualcuno di tua proprietà si uccidesse, senza che gli avessi dato mai alcun segno che eri tu a volere che si uccidesse, non ti adireresti con costui, e, se avessi modo di punirlo, non lo puniresti?”.A questa argomentazione, che cosa si può rispondere? Che é infantile e nulla più. Sarebbe troppo concedere a noi miseri mortali se ci si attribuisse la caapcità di “offendere” la Divinità ; e del resto e piuttosto non é vero che tutto ciò che avviene, quindi anche il gesto suicida, , avviene per volere di Dio ?

Nostra opinione.Noi , seguendo l'argomento di Sant'Agostino, riteniamo che il suicidio non sia che una sottospecie dell'omicidio. E pertanto riteniamo valide contro quello ( sostanzialmente ) le ragioni che portano a proibire questo. Rinviamo pertanto a quanto detto nella voce “Omicidio” della nostra precedente opera “Dizionario morale” (3).Noi riteniamo altresì che, così come sono ammessi dei casi in cui é lecito sacrificare la vita altrui ,così debbono ammettersi dei casi in cui é lecito sacrificare la vita propria (6).Quando questo sia il caso é difficile dire; però una sorta di cartina di tornasole rivelatrice della liceità del suicidio é lo stato d'animo in cui lo si affronta. Si é animati da pensieri positivi e nobili nell'accingersi all'ultimo passo? (7) Ebbene lo si compia. Si é preda ai cupi pensieri della disperazione? Non si muova il piede: si ricordi l'insegnamento tradizionale che, come é il nostro stato d'animo al momento del trapasso, così é il nostro destino nell'oltretomba e nella vita novella che a questo seguirà (8).

Note(1) Infatti il noto sociologo, in un libro diventato famoso ( Le suicide, Parigi, 1897), sosteneva che in ogni società esistono, sì, correnti suicidogene ma sempre minoritarie, e tanto più minoritarie quanto più la società é bene integrata e vitale.

Per il Durkheim dunque il diffondersi di filosofie suicidogene é un segno di decadenza. E tale tesi potrebbe essere anche accolta; però, se riferita, non alle correnti di pensiero che ammettono la liceità del suicidio, ma a quelle che spingono al suicidio.Sul punto va notato che in una società indubbiamente sana come quella giapponese, la liceità del suicidio non é mai stata in pratica contestata. Eppure, la percentuale dei suicidi in essa presente, non supera quella dell'Occidente. Sul che si può leggere, Maurice Pinguel ( La morte volontaria in Giappone, Garzanti, 1985 ); il quale può affermare: “Il Giappone, checchè se ne pensi – malgrado non sia mai stato sottoposto all'anatema cristiano o musulmano del suicidio – non é affatto “il paese del suicidio”. L'Ungheria, la Danimarca, l'Austria hanno tassi molto più alti”.

(2) Seneca, il grande stoico romano ( nel suo De Providentia, VII,7-9 ) presenta addirittura come il più grande dono, che all'uomo abbia fatta la Divinità, quello di permettergli di lasciare il mondo quando egli più non voglia starci: patet exitus: “Dovunque non vogliate combattere, vi é sempre possibile ritirarvi. Non vi é stato dato nulla di più facile del morire”.Nello stesso ordine di idee un Plinio ( Nat.hist., XXVIII,1 ) può proclamare: “Ex omnibus bonis quae homini tribuit natura, nullum melius esse tempestiva morte: idque in ea optimum, quod illam sibi, suisque praestare poterit”.

(3) Ciò risulta bene dal seguente passo dell'Evola. Il grande Pensatore, rilevato ( in Cavalcare la tigre, p. 319 ) il carattere virile e agonistico dello Soicismo e del pensiero di Seneca, continua: “Dati i presupposti dianzi indicati in fatto di visione generale della vita, non v'é dubbio che tale decisione ( idest, la decisione di togliersi la vita ) Seneca non la riferiva a casi in cui la morte sia cercata perché una data situazione appare insostenibile: proprio allora l'atto non sarebbe lecito, di fronte a se stessi. E qui non occorre aggiungere che ciò vale in egual misura per tutti coloro che fossero spinti a togliersi la vita da motivi affettivi e passionali, perché questo equivarrebbe a riconoscere la propria passività e impotenza di fronte alla parte irrazionale della propria anima. Infine lo stesso vale per casi in cui intervengono motivi sociali. Sia il tipo ideale stoico che l'uomo differenziato non permettono che tali motivi li tocchino intimamente, che la loro dignità sia comunque lesa da quanto si lega alla vita consociata. Non potranno dunque essere mai spinti a porre fine alla propria esistenza per via di motivi del genere, fatti rientrare dagli stoici nella categoria di “ciò che non dipende da me”. Come un'unica eccezione può considerarsi il caso di un'onta, non di fronte ad altri, di cui non si può sopportare il giudizio e il disprezzo, ma di fronte a se stessi, per un proprio crollo. Considerando tutto questo, la massima di Seneca può solo avere il senso di un risalto dato all' interna libertà di un essere superiore. Non si tratta di ritirarsi perché non ci si sente abbastanza forti dinanzi a date prove o circostanze, si tratta piuttosto del diritto sovrano – che sempre ci si dovrebbe riservare – di accettare, o meno, queste prove od anche di porvi un limite quando non se ne veda più il senso e dopo aver dimostrato sufficientemente a se stessi la capacità di affrontarle. L'impassibilità resta dunque il presupposto, e il diritto a “uscire” é giustificabile come una delle possibilità da

considerare, in pura via di principio, solo per statuire che la vicenda in cui si é impegnati ha il nostro assenso, che noi in essa si é realmente attivi, che non si fa solo di necessità virtù”.

(4) Maurice Pingueel (La morte volontaria in Giappone, p.18 ): “Aristotile ricorda che la sovranità della città prevale su quella particolare che l'individuo si arroga rendendosi padrone della propria vita: l'uomo che si uccide – egli dice – commette un atto ingiusto contro lo Stato”. Anche San Tommaso, tra le ragioni che militano contro la liceità del suicidio, elenca ( in Summa theol. II q 64 a 5 ) l'offesa alla comunità ( le altre ragioni di illiceità – merita di menzionarle data l'autorevolezza della fonte – sono : il costituire il suicidio una violazione della legge naturale di carità, che impone di amare se stessi; il rappresentare esso un'offesa a Dio, che ci ha data la vita e che solo ne può disporre).E' noto che il nostro diritto – mentre configura come reato l'istigazione o l'aiuto al suicidio ( art. 580 c.p. ) e l'omicidio del consenziente ( art. 579 c.p.) - considera non punibile il suicidio.Non fu sempre così: secondo il diritto attico, al suicida si tagliava la mano ( cfr. V.E. Paoli , voce Omicidio – diritto attico, in Noviss. Dig. it., vol. XI, p. 818); secondo il diritto romano, si privava, naturalmente con effetto retroattivo, il suicida del potere di disporre dei suoi beni ( cfr. V. Brasiello, voce Crimina in Noviss. Dig. It , vol V, p.1 ss.).Gli ordinamenti moderni di solito non puniscono il suicidio e autorevolmente ( Altavilla, Il suicidio nella psicologia, nell'indagine giudiziaria e nel diritto, Napoli, 1932 ) si spiega ciò con mere ragioni di politica criminale, prima fra le quali quella di evitare che, per timore di incorrere nei rigori della legge, il suicida, preordinando con più cura i mezzi da usare, giunga con più elevato grado di probabilità, allo scopo che si prefigge.

 (5) Possono essere tenute presenti anche alcune osservazioni fatte sotto la voce “Eutanasia”.

(6) Evola spiega la condanna ( peraltro da parte sua non assoluta ) del suicidio partendo dall'idea tradizionale, secondo cui non si nasce per caso in una data famiglia, in un dato ambiente, non si viene calati per caso in un dato corpo, in una data personalità, ma in seguito ad una libera scelta che la nostra anima compie al momento di scendere nel ventre materno: “A questa stregua la vita quaggiù non può essere considerata come una cosa che si possa gettar ad arbitrio e nemmeno come un brutto caso di fronte a cui vi sia il solo divario di una rassegnazione credente o fatalistica ( si é visto che, di massima, a tanto si riducono gli orizzonti dell'esistenzialismo moderno ), oppure di una continua prova di resistenza quasi a fondo perduto ( come accade secondo una linea di un esistenzialismo opaco, privo dello sfondo di una trascendenza ). Come in una avventura, in una missione, in una prova,in una elezione o in un esperimento, la vita terrena appare essere qualcosa per cui, prima di trovarsi nella condizione umana, ci si é decisi, accettandone in anticipo gli stessi eventuali lati problematici, squallidi o drammatici, lati che specie

in un'epoca sul tipo dell'attuale possono venire particolarmente in rilievo. In questi termini può definirsi e accettarsi un principio di responsabilità e di “fedeltà” senza riferimenti esterni, eteronimi” (Cavalcare la tigre, p. 323 ).Però é lo stesso Evola a notare, che “ ad ammettere quel progetto che predetermina il corso essenziale dell'esistenza individuale perfino il suicidio potrebbe essere pensato come uno dei particolari atti già in esso contemplati, tanto da avere solo apparentemente il carattere di una iniziativa arbitraria della persona” ( Ivi, p. 324 ).Il grande Filosofo deve concludere che “in definitiva per una decisione può venire una qualche luce solo dal grado che si é raggiunto in una effettiva integrazione di se stessi, nei termini in precedenza detti, come saldatura della persona con l'essere. E' certo che nel presupposto di una integrazione del genere, anche se non assoluta, l'uccidersi potrebbe conservare il significato di un'estrema istanza che sigilla la propria sovranità, in termini ben diversi da quelli di Kirillov: perché sarebbe sovranità non della persona, ma sulla persona. Resterebbe solo la responsabilità insita nel poter affermare che ad agire é appunto il principio che non é la persona ma che ha la persona. Però in ben pochi casi il ricorso a questa istanza può presentare un carattere positivo e intelligibile, per l'uomo che a noi interessa. Ognuno sa che prima o poi la fine verrà, per cui di fronte ad ogni contingenza vale meglio decifrarne il significato riposto, la parte che essa ha in un contesto il quale, secondo la veduta dianzi riferita, non ci é estraneo, ma procede da una specie di nostra volontà trascendente” (Ivi, p.325 ).

(7) Com'era il caso degli intrepidi Kamikaze, che, nell'ultima guerra, si levavano per un volo senza ritorno, o delle eroiche vedove indiane, che si immolavano sulla pira del defunto consorte ansiose di ricongiungersi a lui nell'aldilà. Com'é ancora il caso di chi muore combattendo per la propria patria in una guerra giusta. Dulce et decorum est pro patria mori: vi é una profonda verità in questo detto: chi muore per la Patria ha assicurata la via al Cielo! Non é da compiangere, ma da invidiare! Il più grande dono che uno Statista può fare al suo popolo é una guerra giusta !

(8) Se muori “in grazia di Dio”, per quanti peccati tu prima abbia commesso, andrai in Paradiso, assicura il Cattolico; e il Vaisnava gli fa eco promettendo a chi muore, con il nome di Krishna sulle labbra, una felicità eterna in Krishnaloca: sono queste tracce e riflessi dell'insegnamento tradizionale di cui si é detto.Val la pena di riportare sul punto il seguente passo di un discorso di Aivahvov ( riportato in Potenze del pensiero, Prosveta, 1986,p.210 ): “ La maggior parte della gente ignora perché la religione cerca sempre di convincere un criminale o un miscredente a pentirsi, a chiedere il perdono al Signore prima di morire, ed é proprio per l'importanza di quest'ultimo minuto. Quando un uomo ha vissuto bene, da credente tutta la vita, e all'ultimo momento si ribella o perde la fede, distrugge il bene che ha fatto durante la sua esistenza...perché é l'ultimo minuto che conta. Vedete quanto é importante conoscere le leggi e conformarvisi. Dunque, se non avete potuto cambiare nulla in questa esistenza, ciò non ha un'importanza assoluta; ma se avete vissuto bene l'ultimo momento della vostra vita, il vostro futuro destino sarà cambiato e la vostra prossima incarnazione sarà migliore. Non dimenticatelo mai”.

Unità del tutto

Il giovane . Questo insegnamento che “tutto é uno”, che quindi io e te, io e quella persona che vedo passare per la strada, io e mia sorella, io e mio padre io e tutti gli altri “io” con cui parlo, litigo, amo, siamo una stessa cosa , mi é veramente difficile a comprendere.

Il vecchio – E anch'io non é che lo abbia capito molto. Però è pur vero quel che dice Vivekananda, e cioè che tutti i codici morali si basano su questo presupposto, che tutto sia effettivamente uno. Ecco le parole del grande Filosofo indiano ( in Jana -Yoga, Fratelli Bocca Editori., p. 19 ) : “L'etica dice sempre: “Non io ma tu”. Il suo motto é il seguente : “Non il sé ma il non sè”. Le vane idee dell'individualismo a cui l'uomo si appiglia ( quando cerca cerca il piacere attraverso i sensi) debbono essere abbandonate – proclamano le leggi etiche. Dovete collocare voi stessi nell'ultima fila e farvi precedere dagli altri. I sensi dicono: “Prima io”, mentre l'etica insegna all'uomo che deve considerarsi come ultimo”.E ancora ( a pag 231 dell'Opera citata ) : “Perché ciascuno dice : “Fate bene agli altri?”. (….) Per quale ragione tutti i grandi uomini hanno predicato la fratellanza umana, e degli uomini ancor più spritualmente elevati la fratellanza di tutto ciò che ha vita ? Perché, ne siano consci o meno, al di là di uttto ciò che è superstizione irrazionale e personale, brilla l'eterna luce dell'Io che nega ogni molteplicità ed afferma che tutto quanto l'universo non é che Unità”.E d'altra parte, se mi é permesso di aggiungere qualche parola a quelle del grande Swami, perché mai dovremmo “amare il prossimo come noi stessi”, se non fosse che , facendo il male al prossimo, non danneggiassimo anche noi stessi e facendo bene al prossimo non beneficassimo anche noi stessi ? E bada questo insegnamento che si trova nel Vangelo, non si trova solo nel Vangelo. Ecco quel che ho letto nel bel libro di J.C. Cooper, Ying e Yiang, ( Ubaldini editore, p. 29 ): “ Un discepolo chiese una volta a Confucio di spiegare la virtù, ed egli così rispose : “ Si tratta. quando vai tra gente che non conosci, di comportarti con ciascuno come se questo fosse il tuo più onorato ospite (….) e di non fare agli altri quel che non vorresti fatto a te”.

Il giovane – Quindi la netta alternativa : o si accetta “l'unità del tutto” o, se si ha il coraggio di essere rigorosamente conseguenti, si deve accettare il più radicale nihilismo : no all'amore di patria, no alla solidarietà di classe ( almeno quando questa porta a sacrificare la propria vita o i propri beni ), no, ancor più, all'amore verso i figli, no all'amicizia, insomma , no a ogni forma di amore. Però un uomo che rinunciasse ad ogni forma di amore perderebbe tanto di vitalità e di voglia di vivere, tanto si inaridirebbe, che allora tanto varrebbe per lui morire.

Il vecchio- E' quel che nota J.C. Cooper ( in Yang e Ying, cit. p. 35 ): “Il misantropo, come la persona radicalmente pessimista, si rivolta contro se stesso.(...) Egli comincia con l'odiare e recar torto a se stesso e poi continua col recar danno al prossimo : ma recar danno a una sola persona significa recar danno a tutti, dal momento che il prossimo é se stessi”.

Il giovane - Quindi se uno si ama veramente, se veramente vuole il suo bene, deve amare il suo prossimo.

Il vecchio – E' quel che in buona sostanza insegnava anche Aristotile. Il grande Filosofo greco affermava che solo l'uomo saggio ( quindi dedito al bene ) é capace di amare sé stesso : “L'uomo tristo....sempre in conflitto con sé , non può mai essere amico di sè”. ( Magna moralia, 1211a ; cfr. J.C. Cooper, Op. cit., p. 35 ).E chi non ama il prossimo intristisce, fa male a se stesso, perché la vera natura dell'uomo - come insegnava Mencio (cfr. La saggezza della Cina, di Lin Yutang, Bompiani, p.212 ) - é di fare il bene. Ecco quel che diceva il grande filosofo cinese : “”La tendenza della natura umana verso la bontà é come la tendenza dell'acqua a scorrere verso il basso. Non esiste uomo che non possieda

questa tendenza alla bontà, così come l'acqua scorre verso il basso. Innalzando una diga e forzando l'acqua verso di essa, si può farla risalire verso monte ; ma sono forse questi moti in armonia con la natura dell'acqua ? E' la forza ad essa applicata che li determina. Nel caso di un uomo costretto a fare ciò che non é bene, la sua natura viene forzata nello stesso modo”. E il sano ottimismo di Mencio verso la natura umana era proprio anche degli Stoici. Ecco come il Pohlenz, il grande studioso dello stoicismo , ne riporta il pensiero ( In La Stoa, Storia di un movimento spirituale,La Nuova Italia editrice, p. 232 ) : “ Sbaglia ( per gli stoici ) Epicuro quando fonda la sua etica sul naturale egoismo dell'uomo. Certo l'amore di sé è un tratto fondamentale della natura umana, ma l'oikeiosis, da cui esso deriva, ha anche un altro aspetto. L'animale stesso ha innato l'amore per i propri piccoli, che sente simili a sé e di cui si prende cura al di fuori di ogni motivo egoistico, sacrificando il proprio vantaggio e perfino la vita, finché non siano in grado di provvedere a se stessi. Nell'uomo, data la sua natura razionale, l'oikeiosis si estende al di là della prole : essa si rivolge anche verso gli altri “parenti” , allarga sempre più il suo ambito e finisce per abbracciare tutta l'umanità, perché in ogni essere razionale noi riconosciamo un nostro “congiunto”, legato a noi, non solo dall'eguaglianza delle condizioni esterne di vita, ma anche da un naturale sentimento di stretta affinità . Ciò ha le sue ragioni nel profondo della natura umana”.

Il giovane – Ma se l'uomo é portato al bene, perché allora fa tanto spesso il male ?

Il vecchio – Perché ha paura, e ha paura perché si crede debole, e si crede debole, perché pone un muro divisorio tra il suo “io” e il grande “Io” che regge tutto l'universo. Ecco perché Vivekananda ( Jnani yoga, cit, passim ) ci dice che le grandi nemiche da combattere sono la paura e la debolezza : “Sappiate che ogni pensiero ed ogni parola che affievolisca le vostre energie in questo mondo, é l'unico male che esista. Ciò che rende deboli gli uomini ed incute loro timore nel mondo é l'unico male che esista. Ciò che rende gli uomini deboli e paurosi é il solo male che dovrebbe essere evitato”.

Il giovane – Ma come io non posso avere paura con tanto male che é nel mondo e con un Dio , un Essere infinitamente potente, che lo permette? Come posso avere fede in questo Dio ?.

Il vecchio- Ti rispondo con le parole di Ramakrishna (che io traduco dal francese prendendole da Les entretiens de Ramakrishna, editore Cerf) : “Qualcuno domandò perché Dio aveva creato un mondo in cui si soffre tanto. Ramakrishna disse: Biddèshagor disse una volta con passione : “ A che serve invocare Dio ? All'inizio delle spedizioni di Gengis-Khan, questi mise al sacco una città e fece molti prigionieri. Se ne raccolsero centomila. I suoi generali gli dissero. “Signore, chi penserà a nutrirli?. Condurli con noi é pericoloso, rilasciarli é pure pericoloso. Che dobbiamo fare ?”. Gengis-Khan disse “Voi avete ragione. Che fare ? Uccideteli.!”Tchak! Tchak! Furono tutti decapitati. Dio non ha visto questo macello ? Che ha fatto per impedirlo ? Allora ch'Egli esista o no, io non ho bisogno di lui. Egli non presenta interesse per me”. Non si possono – continua Ramakrishna - comprendere le azioni di Dio, per quale ragione egli fa le cose. Egli é responsabile della creazione, della conservazione e della distruzione. Possiamo noi comprendere perché Egli distrugge ? Quanto a me io dico : Madre, io non ho bisogno di comprendere. Dammi la devozione ai Tuoi piedi.”. Il fine della vita umana é di pervenire all'amore. La madre sa tutto. Io sono entrato nel giardino per mangiare i manghi. Contare gli alberi, i rami, le migliaia di foglie, ciò non mi riguarda; io mangio i manghi, io non ho bisogno di mettermi a fare i conti”.

Il giovane – Ma mi pare che Ramakrishna dimenticasse che l'uomo per mettersi serenamente a “mangiare i manghi” deve essere sicuro che Dio é infinitamente buono.

Il vecchio. No, Ramakrishna non lo dimenticava. Però é come se volesse dire : tu sai che questa tua ribellione verso Dio é ispirata da Dio, Tu sai che Dio si confonde col tuo “IO” : che senso ha allora dubitare del suo amore?! Una volta individuata la fonte dei tuoi dubbi, é assurdo continuare a

coltivarli : se viene una amica di tua moglie a dirti che é morta, ma sai anche ch'essa parla per suggerimento di tua moglie ( che dunque é ben viva ), é assurdo disperarsi come se fosse morta.

Il giovane - Ma se il mio “IO” si identifica completamente con Dio, ciò significa che io sono Dio.

Il vecchio – Effettivamente alcuni Filosofi , nell'intento di liberare l'uomo da ogni paura, insegnano questo. Ecco infatti quel che dice Vivekananda : “Finché vedrete i molti, sarete sotto il peso dell'illusione. In questo mondo di molteplicità, colui che evde l'Uno; in questo mondo mutevole, chi vede Colui che mai non cambia, come l'Anima della sua propria anima, come suo proprio Io, é libero e beato, ed ha raggiunto la meta. Sappi dunque che tu sei Lui; tu sei il Dio di quest'universo: Tat Tuam Asi “.Però per comprendere nella loro vera portata queste parole bisogna considerare che Vivekananda e gli altri filosofi, che come lui appartengono alla corrente advaita del vedantismo, quando si riferiscono al tuo “io” non si riferiscono alla tua personalità, cioé al tuo “io” che, ancora preda dell'illusione, si identica, con il suo corpo, i suoi pensieri, i suoi sentimenti, con le sue pulsioni egoistiche, ma all'io liberatosi dall'illusione.

Il giovane – Torniamo a parlare dell'Unità del tutto”. Sarà anche vero che io sono uno con te, però, se a me arriva uno schiaffo, il male lo senti io e non tu.

Il vecchio – Questo avviene perchè tu ti identifichi con il tuo corpo. Se così non fosse, lo schiaffo da te ricevuto non ti molesterebbe di più che uno schiaffo dato a me. E' per questo che in molte scuole di filosofia, occidentali e orientali, si insisteva e si insiste a che i discepoli si abituino a distinguere l'io dal non-io.Per quel che riguarda l'Occidente é illuminante il seguente brano tratto dal Manuale di Epitteto– Introduzione e commento di Pierre Hadot ( Piccola biblioteca Einaudi, p. 36 ) : “Distinguere ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi, la causalità interiore e la causalità esterna, significa alla fine distinguere l'io dal non-io . E'un esercizio di concentrazione e di delimitazione dell'io : io non sono gli oggetti che mi circondano e talvolta mi sono cari, questa pentola o questo cavallo o questa lampada, non sono, si potrebbe dire, gli attributi grammaticali che il Destino mi impone, ricco o povero, sano o malato, padrone o schiavo, potente o misero, io non sono le mie membra, non sono il mio corpo, né le involontarie emozioni che possono muoverlo; ecco perché non temo il tiranno che può torturare il mio corpo, ma non può raggiungermi, poiché nulla può costringere la mia libertà, tranne lei stessa. Io sono propriamente soltanto una scelta di vita, una libertà di scegliere il bene o il male morale : “Il mio io é là dove si trova la mia scelta di vita”.Per quel che riguarda l'Oriente, sono illuminanti i due seguenti “mantrams” ( cioé affermazioni da fare oggetto di meditazione), che chiudono rispettivamente il primo e il secondo capitolo di Raja Yoga di Yoghi Ramacharaka ( Fratelli Bocca Editore ). Primo mantrams : “ IO sono un Centro. Attorno a me si aggira il mio mondo. Io sono un centro di influenza e di potere. Io sono un centro di pensiero e di conoscenza. IO sono indipendente dal corpo. IO sono immortale e non posso essere distrutto. Io sono invincibile e non posso essere offeso”.

Secondo mantrams : “Io sono un'entità : la mia mente é strumento di espressione. IO esisto indipendentemente dalla mente e sono indipendente per entità ed esistenza. IO sono padrone della mia mente, non suo schiavo. IO posso distinguere sensazioni, emozioni, passioni, desideri, facoltà intellettuali e tutto il resto della collezione dei miei mezzi mentali, come appartenenti al “non Io” ed ancora resta qualche cosa, e questo é l'IO che non può essere separato da me, perché esso é il mio “vero ME”, il mio “solo ME”, l'IO, eterno, costante, immutabile”.

Usura

Durante l'anno delle vacche grasse Prudenzio, invece dei soliti 10 quintali di grano, ne ha raccolti 30; e 20 ne ha messi da parte. Nell'anno successivo, quello delle vacche magre, l'imprevidente vicino bussa alla sua porta per chiedergli i 10 sacchi di grano necessari a lui e alla sua famiglia per campare: “Dammeli e te ne restituirò altrettanti col prossimo raccolto”. Può, la formichina del nostro racconto, subordinare la consegna del grano richiestogli dalla ( già spensierata ) cicala, non solo alla consegna del tantundem ( ti do 10 sacchi e tu mi restituirai altri 10 sacchi ) ma di un quid pluris ( “ e in più mi darai un undicesimo sacco”) ? Può, in termini più tecnici, subordinare il mutuo alla corresponsione di un interesse ( poco o tanto che sia ), alla corresponsione di un'usura (1) ?Questo é il problema a cui tenteremo di dare una nostra risposta dopo un breve excursus storico-filosofico.Excursus storico-filosofico.Il cittadino greco o romano ( anche se di rinomata moralità, come Catone l'Uticense ) non aveva nessun scrupolo a chiedere, quando prestava denaro, interessi altissimi. E tuttavia l'usura era stata severamente condannata da entrambi i sommi Filosofi dell'antichità, Platone e Aristotile.Questi, in particolare, sosteneva che pretendere un quid pluris, oltre il tantundem ( dato a mutuo ), contrastava con la giustizia commutativa in quanto era come vendere due volte la stessa cosa (“bis vendere idem, vel vendere quod non est”): insomma, per rifarci all'esempio prima introdotto, é giusto che tu , Prudenzio, pretenda, al prossimo raccolto, dal vicino, 10 quintali ( é giusto, perché tu, prima, gli hai trasferita la proprietà appunto di 10 quintali ), ma l'undicesimo quintale, in cambio di che cosa ti dovrebbe essere dato? Di nulla! Tu prendi un prezzo ( l'undicesimo quintale ) per non dare in cambio nulla ( per “ vendere quod non est”) ! E veniamo a quel che su l'usura insegnavano e comandavano le due Religioni che più hanno influenzata la spiritualità del nostro Occidente: l'ebraica e la cristiana.La religione ebraica rendeva lecita l'usura, ma solo con lo straniero:” Non presterai ad usura denaro, grano o qualsiasi cosa al tuo fratello, ma allo straniero”, stava scritto nel Deuteronomio ( 23, 20-21 ).I Padri del Cristianesimo ( S. Ambrogio, S. Gerolamo, S. Agostino ) furono più severi: ritenendo che nel Vangelo dovesse vedersi un perfezionamento della Legge ( data dall'Antico Testamento), dichiararono illecita l'usura ( inequivocabilmente definita come “quodcumque sorti accedit”) (2) sia verso il “fratello” che verso il nemico.Tale dottrina, ribadita da San Tommaso, rimase fermissima fino al XVI secolo, in cui ad attaccarla si levò la possente voce di Calvino ( 1509-1564 ): nessuno trova immorale – questi osservava – che chi ha un campo o una casa li dia in affitto e ne ricavi un compenso: perché allora dovremmo ritenere immorale che, chi presta denaro, ne ricavi un interesse? Forse che il denaro non é, come il campo e la casa, una cosa fruttifera? Il peccato – sentenziava Calvino – non si ha nella usura, ma nella sua esagerazione.Le tesi di Calvino produssero scalpore, ma non ebbero praticamente seguito: la communis opinio dei teologi cristiani continuò ancora per lungo tempo a dichiarare illecita l'usura: ancora nel 1745 Benedetto XIV con una enciclica ne ribadiva la condanna.Poi la forza delle cose ebbe il sopravvento: cessarono le condanne espresse e cautamente si cominciò ad ammettere che, nella prestazione di una cosa fungibile, si potesse pattuire un moderato interesse; purché esso risultasse giustificato da un danno o pericolo di danno del

mutuante. Danno o pericolo di danno che potevano assumere – secondo il più accettato insegnamento – quattro forme : danno emergente, lucro cessante, rischio della cosa, pericolo di dilazione.Ancor oggi i moralisti, in linea di massima, si attengono a questa impostazione, aggiungendo però che, data la situazione economica odierna, ogni prestito di denaro deve ritenersi sempre comportare un lucro cessante (3),Non mancano, però, voci, forse errate, ma senza dubbio coraggiose (4), che persistono in un'assoluta condanna.

Nostra opinione-Nell'esporla noi partiremo proprio dall'equiparazione, fatta da Calvino, tra chi dà in affitto un campo e chi dà a mutuo una cosa fungibile: l'equiparazione é senz'altro giusta ed é giusto che non si pervenga a soluzioni diverse per l'una e l'altra ipotesi.Per rendercene meglio conto facciamo il caso di due agricoltori, Tizio e Caio: tutti e due sono riusciti a risparmiare 100 quintali di grano, ma, nell'impiego di tale loro sudata ricchezza, seguono strade diverse: Tizio la usa, prima, per comprare e, poi, per dare in affitto un fondo; Caio la usa, per fare un mutuo. Ora perché mai questi ( idest, Caio ) compirebbe cosa immorale se pretendesse in restituzione qualcosa in più del tantundem ( cioé, qualcosa in più dei 100 sacchi dati a mutuo ) e quello ( idest, Tizio ) non la compirebbe se – dopo che il suo locatario, a forza di pagargli il fitto, anno dopo anno, é giunto a dargli già 100 sacchi di grano (5) – continuasse a chiedergli ancora il fitto ( a chiedergli altri sacchi di grano, oltre a quei 100 che corrispondono al prezzo d'acquisto del campo)? Veramente non si comprenderebbe!L'equiparazione proposta da Calvino, anche se esatta, però non dimostra il suo assunto: infatti partendo da essa, tanto si può concludere, che chi dà a mutuo fa cosa lecita a chiedere l'usura, quanto che il locatore di un bene non fa cosa lecita a continuare a chiedere il canone locatizio ( una volta che, i canoni precedentemente maturati, sommati l'un l'altro, l'hanno ripagato del prezzo sborsato per il bene dato in locazione).Essa ( idest, l'equiparazione tra mutuo e locazione di un bene ) ha solo il merito ( ma non é merito da poco ) di rendere evidente che il problema dell'usura si inserisce ( con quello del “giusto prezzo” e del “giusto salario”) (6) in una problematica più generale, che possiamo formulare così: una persona, che ha la disponibilità di una cosa per lei inutile , può chiedere un compenso per darla ad altri in uso? o, problema simile ( che ci asterremo però dall'approfondire per non complicare un discorso già difficile): una persona, che ha la disponibilità di una cosa, che presenta per lei una limitata utilità ( metti: un'utilità pari a 10) può chiedere, in compenso del suo uso, una maggiore utilità ( metti, un'utilità pari a 15) (7) ?Vediamo di chiarire i termini del ( primo) problema con un caso pratico: Caio ha un campo ( o, cento sacchi di grano ) che non saprebbe come utilizzare ( perché le sue braccia più di tanti metri di terreno non possono zappare, perché il suo stomaco più di tanti chili di grano non può digerire...); Sempronio bussa alla sua porta: “Lasciami coltivare il tuo campo” ( “lasciami mangiare il tuo grano”): é lecito per Caio chiedere al postulante un canone di affitto ( nel caso del grano: é lecito chiedergli un'usura, un quid pluris oltre alla restituzione del tantundem (8) ?Orbene a questa domanda – a cui una carità ( male intesa ) ci porterebbe a dare una risposta negativa ( perché mai non dare gratuitamente quello che a nulla ci serve?) - la ragione, invece, impone e la morale non vieta di dare una risposta positiva (9): “Sì, tu, Caio, puoi chiedere un canone d'affitto, puoi chiedere l'usura. Quanto? Quanto più puoi, non c'é nessuna norma morale che ti freni in ciò”.

Se noi amassimo un ragionare cavilloso, potremmo anche tentare di dare di ciò una demonstratio ad absurdum : se a Caio si fa divieto di chiedere l'usura, logica vuole che gli si faccia anche divieto di chiedere la restituzione del tantundem ( infatti, se é immorale chiedere qualche compenso per “quod non est”, per “niente”, pure é immorale che Caio chieda 100 sacchi di grano per il fatto che, prima, ha dati 100 sacchi che...però erano destinati a giacere inutilizzati nel suo magazzino: per lui erano “niente” ); e, se si proibisce a Caio – che imprudentemente ha dato i suoi 100 sacchi a Sempronio – di chiedere la restituzione del tantundem , anche si deve comandare a Cornelio – che prudentemente ha tenuto i suoi 100 sacchi di grano nel magazzino ( ancorché superflui per i suoi bisogni ) - di darli a chi ne ha la necessità ; e se si impone, a chi non ha bisogno di una cosa, di darla a chi invece ne ha, si deve anche imporre, a chi ha meno bisogno di una cosa, di darla a chi ne ha più bisogno e così via ….fino all'eliminazione radicale del diritto di proprietà.Siccome, però, noi aborriamo dai cavilli, semplicemente diremo che un principio o lo si accetta in toto, portandolo alle sue estreme conseguenze, o lo si rifiuta in toto.A la guerre comme a la guerre: se l'homo oeconomicus si trova in una posizione di forza , l'usi fino in fondo! Catone faceva benissimo a chiedere per il prestito dei suoi capitali gli interessi più esosi che poteva!Quel che veramente importa alla Morale e alla Società, non é se Caio ha praticato l'usura, se Caio ha chiesto o ha dato un “giusto prezzo”, un “giusto salario”: l'unica cosa che importa é : ma che uso farà Caio dei soldi ricevuti a titolo di usura, che cosa, dei soldi ricevuti a titolo di prezzo ? Quei soldi, una volta nelle sue tasche, si riveleranno più utili per la Società, che nelle tasche di Sempronio? Caio con quei soldi, costruirà scuole, strade, ospedali o li spenderà per soddisfare i suoi capricci ( come per soddisfare i suoi capricci li avrebbe spesi Sempronio ) ?Ecco il punto, ecco l'unica cosa che conta!Quel che conta, é che la ricchezza nazionale risulti, in definitiva, distribuita con giustizia. L'ideale sarebbe che a tale distribuzione provvedesse lo Stato ( ispirandosi all'Ulpianeo “ suum cuique tribuere”, non certo dando a tutti l'identica fetta di torta ) . Purtroppo questo é un ideale, che non é nè di facile nè, comunque, di prossima attuazione; e, allora, tocca al privato di sostituirsi allo Stato in questo esercizio della “giustizia distributiva” (10). Ma egli non deve preoccuparsi di questo nel momento della “lotta economica”: in quel momento deve solo pensare a vincere, cioé ad acquisire la maggior ricchezza possibile. E' un bene che la ricchezza si concentri nelle mani dei migliori ( nelle mani che più sapranno distribuirla secondo giustizia) (11). Il male dei nostri tempi é che la ricchezza se la sono accaparrata i peggiori ( quelli che peggio sanno amministrarla nell'interesse comune)!

 

Note

 (1) “Affinché non succedano equivoci, é necessario precisare che il termine usura ha due accezioni, una assoluta e l'altra relativa all'interesse. Nel primo caso usura é il lucro percepito dal mutuo come se fosse dovuto in forza del mutuo stesso, nel secondo caso é l'interesse eccessivo, quello cioé superiore al tasso stabilito dalla legge (umana o naturale)”. Cfr. L Rossi ( Usura, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, p. 1200).Quando noi parleremo di usura, noi ci riferiremo al primo significato del termine usura : usura – non come interesse eccessivo – ma come compenso per il prestito del denaro.

 (2) “Et quocumque sorti accedit, usura est” ( “Qualunque cosa sia aggiunta al debito di capitale, é usura”), insegnava S. Ambrogio, nel De Tobia ( 14, 49 ed. P.A. Ballerini, Milano, 1875, vol I ).

 (3) Cfr. L. Rossi, Usura , in Dizionario enciclopedico di teologia morale, p.1204.

 (4) Tra queste si distinse quella di Ezra Pound. Il grande poeta americano in uno dei suoi famosi cantos definì l'usura “Silfide dello Stato, di ogni regno// porro del bene pubblico // tumore che guasta ogni cosa”.

 (5) O, se non pagasse in natura: l'equivalente di 100 sacchi di grano.

 (6) Come é noto l'individuazione del “giusto prezzo” e del “giusto salario” ha affaticato per secoli la dottrina cattolica.San Tommaso definiva il giusto salario come “ debitum lucrum de labore, secundum communem aestimationem” ; cfr. P.E. Tavani ( Prospettive sociali, Milano, 1945, p. 40 ) Sempre il Taviani ( Op. cit. p.41 ) fa, però , rilevare l'indeterminatezza dell'espressione “secundum communem aestimationem”: “ La stima comune di chi? - si domanda l'illustre Autore - “della schiera degli stipendiati statali che si crogiolano nell'attesa di un premio mensile di 100 lire, o dei negozianti che considerano buttata via la giornata che non ha reso almeno cinque volte tanto? La stima comune di quando? Degli anni di benessere sul principio del secolo, o di quelli dell'inflazione, o di quelli della successiva grande crisi?”.E veniamo a quel che dice la Dottrina Cattolica sul “giusto prezzo”. Mario Baronci ( nell' Enciclopedia Cattolica, voce, Prezzo, p- 1999 ) parla del “giusto prezzo” come dello “aspetto economico del grande precetto cristiano ama il tuo prossimo come te stesso”; e, poi, continua: “Quel “come” stabilisce infatti che debba esservi equivalenza tra l'effetto utile del lavoro che ciascuno dedica al benessere del prossimo e il benessere che ciascuno pretende per sé in contraccambio. Quando fosse realizzato il giusto prezzo, l'unico modo di accrescere le proprie entrate monetarie – stiamo sempre riportando le osservazioni del M. Baronci – resterebbe quello di procurare al prossimo il maggior benessere possibile”

P. Faggiotto ( voce Prezzo della Enciclopedia Filosofica, 1979, Roma, c. 800 ) fa, però, “presente che la determinazione in concreto del giusto prezzo di un bene non é facile, dipendendo essa da molteplici fattori. La stima comune in questo caso ha una grande importanza nell'indicare i confini entro cui il giusto prezzo può oscillare”.

 (7) Io ho 10 sacchi di grano, che rappresentano per me un'utilità pari a 10. Il mio vicino ha, di questo mio cereale, un disperato bisogno e per averlo sarebbe disposto a darmi fino a 10 Kg, di oro zecchino: posso pretenderli come prezzo oppure debbo accontentarmi di ricevere come prezzo solo quell'esatta quantità di oro ( metti, un etto, non un'oncia in più ) che rappresenti per me la stessa utilità 10 dei sacchi di grano ( giacenti nei miei magazzini ) ?Se si esclude la prima soluzione ( “no, non puoi pretendere i 10 kg. d'oro”) , in quanto con tutta evidenza contrastante con la Legge di Carità, e si esclude la seconda soluzione, in quanto con altrettanta evidenza contrastante con le leggi dell'economia ( nessuno si scomoda a dar 10 per ottenere un altro 10 !) , sorge il problema del criterio con cui stabilire ( collocandolo tra i due estremi dei troppo esosi 10 kg e del troppo insignificante etto d'oro) il “giusto prezzo”.Questo problema ( del “giusto prezzo” ), così come quello analogo del “giusto salario”, possono trovare la loro soluzione – come cercheremo di spiegare nel testo – nell'ambito della “giustizia distributiva” ( non in quello della “giustizia commutativa”).

 (8) ( Come faremo meglio osservare in seguito ) con più rigore ci si potrebbe addirittura domandare : é lecito a Caio chiedergli la restituzione di quei sacchi di grano, che nei suoi magazzini erano destinati a marcire ?

(9) Ma questa risposta positiva di certo non può essere giustificata né col carattere fruttifero del bene ( ad esempio, dato a mutuo ) né con il pericolo di danno ( ad esempio, da parte del mutuatario).Tentiamone una dimostrazione, per semplicità limitandoci al caso del mutuo. Si dice: Caio può chiedere l'usura ( nel significato attribuito a tale termine nella precedente nota 1 ) a Sempronio, in quanto, se non impegnasse i suoi soldi nel mutuo a Sempronio, li potrebbe dare in prestito ad un altro , metti al Banco di Roma, che gli corrisponderebbe gli interessi. Sì, però, dicendo questo, non si fa che spostare il problema: Caio può lecitamente chiedere gli interessi al Banco di Roma? Se non lo potesse, egli non potrebbe di certo giustificare la richiesta dell' “usura” ( la richiesta degli interessi a Sempronio ) col fatto che il mutuo a lui concesso gli ha impedito di realizzare ...un profitto immorale. E mutatis mutandis analoghe critiche possono muoversi a chi volesse giustificare la richiesta di “usura” di Caio a Sempronio ( o al Banco di Roma ), col fatto che, poi, Sempronio ( o il Banco ) a sua volta darebbe a mutuo tale somma e ne percepirebbe gli interessi.E veniamo alla giustificazione ( dell'usura ) che si dà, avanzando il pericolo della non restituzione della cosa mutuata o di un ritardo nella sua restituzione. Tale giustificazione, più che inconsistente, é immorale, in quanto é immorale penalizzare una persona per un male che non ha commesso: Sempronio restituisce tutti i soldi ricevuti e alla precisa scadenza : perché penalizzarlo facendogli pagare l'usura?!

 (10) Com'é noto la teologia morale cattolica , sulla scia di San Tommaso, distingue tra : “giustizia commutativa” ( detta anche compensativa o equiparativa) , la quale regola il rapporto del singolo con l'altro singolo; “giustizia distributiva” (dispensativa o ripartitiva ) che regola il rapporto dell'essere collettivo, in quanto tale, coi singoli suoi membri; giustizia “legale” o “generale” che regola la relazione dei membri col tutto sociale”. Confr. G. Mattai , voce Giustizia, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, p. 457.

 (11) Emerson R.W. ( nel saggio La ricchezza riportato in La guida della vita, p. 65 ): “Dovrebbe essere possessore chi sa amministrare, non già chi accumula e nasconde: non coloro che, quanto più posseggono, tanto più si mostrano mendicanti, bensì quelli che preparano lavoro a molti, che aprono una via a tutti. Poiché é ricco colui nel quale la gente trova la propria ricchezza, ed é povero chi lascia il popolo in miseria”

Verità e falsità

Il giovane – E' possibile raggiungere quella Adaequatio intellectus et rei , quella conformità del pensiero e dell'essere, di cui parla S. Tommaso e di cui i filosofi da sempre discutono ? In parole più concrete, può l'uomo dare risposte che siano “vere” alle domande che incessntemente lo assillano ?

Il vecchio – Bisogna distinguere se le domande riguardano il mondo fisico, cioé quel quid che percepiscono i nostri sensi, i fatti storici, le idee astratte.

Il giovane – Poniamo che riguardino il mondo fisico ; pensa a una domanda banale come questa : “ La scatola, che contiene i dolci, é rossa o verde”.

Il vecchio- Ebbene questa domanda non avrebbe senso perché quella scatola appare , rossa, verde o....gialla, a seconda della conformazione dell'occhio di chi la guarda. Cento persone guardandola la vedrebbero verde, Tizio che é daltonico la vede, metti, rossa : non é che Tizio non ha visto bene qual'é il colore della scatola : é semplicemente che il suo occhio gli ha trasmesso una senzazione diversa da quella percepita dalla maggior parte delle altre persone. Probabilmente l'occhio di una mucca vedrebbe la scatola in modo ancora diverso da Tizio e da tutti gli uomini.

Il giovane - Quindi avevano gli scettici e in particolare Protagora quando sostenevano che “l'uomo ( singolo) é la misura di tutte le cose” e che quindi la verità differisce secondo la diversità dei soggetti conoscenti ( cfr. Enciclopedia cattolica, voce “Verità” ).

Il vecchio - Ma l'importanza di queste divergenze, nella percezione del mondo fisico, a me non pare che debba essere ingigantita : in pratica chi dovrà ordinare a Tizio di prendere la scatola dei cioccolatini, dovrà tenere presente che questi ha un difetto nella vista e dirgli “Prendimi la scatola rossa” ( mentre a qualsiasi altra persona si sarebbe rivolto dicendo “Prendimi la scatola verde” ).

Il giovane – Veniamo alla possibilità di dare una risposta vera a una domanda del tipo “ La moglie di Caio é andata a letto con Sempronio o no ?”.

Il vecchio - A questa domanda una risposta che rispecchi la realtà delle cose é possibile, anche se, secondo i casi, sarà più o meno difficile ( la difficoltà dipenderà dalla possibilità o meno di trovare testimoni del fatto, dalla loro attendibilità e da elementi simili, che ogni giudice e avvocato conosce).

Il Giovane- Ora veniamo alle domande più importanti, quelle che da secoli tormentano l'anima umana : le domande astratte , del tipo, “esiste il male?”, “esistono il mondo, la materia ?”, e, per venire alla domanda fondamentalissima, “esiste Dio?”.

Il vecchio- Tali domande non possono di massima avere risposta, perché di massima

sono mal poste. Prendiamo quella che tu dici essere la domanda fondamentalissima, “esiste Dio?”. Ebbene chi pone tale domanda, per avere una risposta “vera”,dovrebbe prima chiarire che cosa intende per “Dio”. Se non lo fa é come se una persona entrasse in una sala e domandasse ai presenti “Avete visto il signor X ?” - cioé ponesse la domanda senza saper dire il nome della persona cercata, il suo aspetto fisico e cose simili ( e questo per la semplice ragione che neanche lui le conosce ).Ben diversa sarebbe una domanda del tipo “ E' vero che Ramakrishna ogni tanto cadeva in estasi, addirittura cadeva come corpo morto sulla terra e, quando ritornava in sé, diceva di aver avuto delle visioni e delle senzazioni di una indicibile bellezza ?” Questa domanda riguarda un fatto storico e quindi la sua risposta, può essere difficile, ma é possibile.

Il govane - Ma io posso credere che Ramkrishna sia caduto in estasi ( perché testimoni vari me lo confermano), ma come posso credere che egli abbia avuto effetivamente “delle visioni di indicibile bellezza”.

Il vecchio - Certamente qui tu ti dovrai fidare della sua parola , e a seconda che tu faccia credito alla sincerità e onestà di questa, gli crederai o meno. Diversa dalla tua sarà la posizione di Ramakrishana : Egli potrà dubitare ( come in effetti, almeno all'inizio, dubitava ) che tali visioni fossero dovute a un'allucinazione o no , ma non potrà dubitare che tali visioni gli abbiano procurato delle sensazioni incredibilmente belle e intense. E se tu gli dirai che ciò non può essere vero; egli crederà a quel che ha sentito e non alle tue parole.E qui mi piace aprire una breve parentesi per citare le parole di Vivekananda sull'importanza di una esperienza diretta religiosa ( “Perché dite che credete in Dio se non l'avete veduto?” ) . Dice il grande Swami : “ Se voi avete veduto un certo paese e un tale vi costringe a dire che non l'avete veduto, nel profondo del vostro animo sapete di averlo veduto. Allorché potrete percepire la religione e Dio con un senso più intenso di quello con cui percepite questo mondo esterno, nulla potrà scuotere la vostra credenza. Allora avrete la vera fede.” ( Jnana Yoga cit. p.133 )..

Il giovane- Senza richiamarti a Vivekananda potevi sul punto richiamarti agli Stoici. Questi infatti trovavano che l'unico criterio sicuro per stabilire la verità di una cosa era la “immaginazione catalettica”, un'immaginazione cioé che ci porta l'oggetto reale così “ a portata di mano”, che una negazione diventa assurdo ( e non dimentichiamo che proprio a questa “evidenza” deve la sua fortuna il Cogito ergo sum di Cartesio ).Ma non divaghiamo. Abbiamo parlato della possibilità di una adaequatio intellectus et rei , vediamo ora i limiti della doverosità di evitare una difformitas intellectus et intellectus ( per usare la formula usata da Kant per indicare il mendacio ). In parole semplici la questione é questa : Tizio , per ritornare al protagonista di un precedente mio esempio, vede la scatola dei cioccolatini come rossa . Lasciamo perdere come fatto ora irrilevante che altri vede la scatola come verde, egli, che la vede rossa e crede che sia rossa, può dire che sia verde ?

Il vecchio – Sull'ammissibilità morale del mendacio le opinioni sono molto discordi.Molti Pensatori ritengono che sia lecito mentire quando la verità provoca danno ingiusto a sé o ad altri. Il Sighele – in un libro che significativamente ha intitolato Elogio della menzogna - sostiene che questa “ non é un vizio altro che quando fa male : é una grande virtù quando fa del bene”. L. Battistelli – in un libro intitolato proprio La bugia - dopo aver messo in evidenza con numerosissimi esempi, tratti dalla vita degli animali e delle stesse piante, che “la frode é una legge permanente della vita naturale”, conclude, ammettendo, sì, un obbligo di dire la verità, ma negando che la sua osservanza possa “condurre all'assurdo di compromettere le stesse sane ragioni della vita umana”. Nello stesso ordine di idee, Nietzche sostiene che la “falsità di un giudizio non può servire a noi di obiezione contro il medesimo. La questione é di sapere quanto tale giudizio possa giovare e influire a conservare la vita, la specie, quanto possa essere necessario per la loro evoluzione”. Quanto a Schopenhauer, egli deduce il diritto alla menzogna, con una sorta di ragionamento a maiori ad minus, dal diritto alla violenza : se noi possiamo usare la violenza contro una persona ( ad esempio, incarcerandola ) per impedirle di fare del male, a maggior ragione noi possiamo, per raggiungere tale scopo, dire una bugia.In netto contrasto con le opinioni sopra riportate é l'insegnamento tradizionale : per esso, il mentire non é considerato un'azione neutra ( come potrebbe essere il guidare un'auto, mangiare un dato cibo ), la cui ammissibilità vada giudicata in base alle conseguenze “buone” o “cattive” che ne derivano: il dire una menzogna é male in sé, anzi il più grave male.Nel Mahanirvana Tantra - così come lo vedo citato in un interessante articolo di P. Daniel Acharuparambil intitolato Il Raja-Yoga e pubblicato nella rivista Yoga - si afferma che “ non vi é virtù più eccellente della verità. Né vi é peccato peggiore della menzonga (….) Il culto senza la verità é inutile : sono parimenti inutili senza la verità sia la recita dei mantra che la pratica della penitenza”.Leggo in Evola ( La doctrine de l'eveil , Paris, 1956, pp. 230-231) che in un testo ariano-persiano “si viene addirittura a dire che l'omicidio non é un delitto più grave della menzogna”.Nel sistema di Patanjali, all'osservanza della veridicità ( satya ), si attribuisce tale importanza, che si reputa che senza di essa neanche le asana ( che pure si presentano come semplici esercizi fisici ) diano i loro frutti e si riducano a semplici acrobazie” ( così come vedo scritto a p.13 di Teoria e pratica dello yoga , di B.K.S Yengar ).– Perché non si creda che il culto della veracità fosse monopolio dei popoli orientali, ricorderò che per Livio (XXII,22,6 ), ciò che caratterizza il Romano, di contro al Barbaro, é la fides ( e la Fides , non a caso – nelle sue varie forme, Fides Romana, Fides Publica ecc. - é una fra le più antiche divinità di Roma ; sul che cfr. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit. , p. 356 ).E un'eco, sia pure attenuata, di tale concezione, la troviamo ancora in Cicerone, cioé nel rappresentante di un'epoca già “moderna” e scioltasi dalla Tradizione : nel De Officiis ( libro I, parag. XIII ) egli – dopo aver osservato che in due modi si può recare ingiuria ad altri : con la frode e con la violenza ( “ duobus modis, idest aut vi

aut fraude est iniuria” )- ritiene più lontano dalla natura umana quello anziché questo ( “utrumque homine alienissima, sed frau odio digna maiore” ).

Il giovane – Tu come ti spieghi tale decisissima condanna della menzogna ? Io me la spiego col fatto con l'esigenza che ha l'uomo - dal tempo delle caverne ad oggi - di conoscere meglio il mondo esterno al fine di potersi difendere : se so che c'é un orso in quella caverna....giro al largo.

Il vecchio – Questa potrebbe essere una spiegazione; ma secondo me non é la vera spiegazione : perché, ad esempio, non spiega, perché la menzogna é ritenuta peggiore dell'omicidio; o perché la menzogna, fatta per evitare un danno ad altri, renda inefficaci le asana .

Il giovane – E allora qual'é il vero motivo che spinge i Pensatori della tradizione a questa drastica condanna della menzogna ?

Il vecchio - Tale drastica condanna si giustifica col fatto che, come si legge nell'Antico testamento, Os quod mentitur occidit anima , la bocca che mente uccide l'anima.Infatti tu con la menzogna, non solo impedisci a chi la sente di conoscere la verità, ma lo impedisci anche a te stesso.

Il giovane – Perché mai ?

Il vecchio – Perché la falsità che tu incidi nella mente del tuo ascoltatore, la incidi anche nella tua stessa mente. Tu parli alla mente del tuo ascoltatore, ma anche parli alla tua stessa mente. Quando dici al tuo interlocutore “Io sono Napoleone”, lo dici anche alla tua mente, la suggestioni, la induci in errore. Quanti esempi ci sono di persone, che fintesi matte per sfuggire, metti, al carcere, poi matte davvero sono diventate !