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NEWS DEL GAUDENS N. 107 DEL 14 OTTOBRE 2014 www.gaudens.altervista.org Sommario Controlli di velocità - RUP – Incentivi progettazione - PAOLA BRIGUORI Magistrato della Corte dei conti La disciplina dei compensi degli avvocati pubblici: cambiare tutto perché nulla cambi? di Andrea De Col Avvocato della provincia di Pordenone – La votazione del PRG nei piccoli comuni - Non retroattivi i nuovi incentivi ai progettisti La nuova disciplina degli incentivi alla progettazione non ha efficacia retroattiva, ma si applica solo a decorrere dal 19 agosto 2014 - Antimafia, tempi più stretti per il rilascio dei nullaosta alle imprese di Mauro Salerno Principi in materia di donazione di immobili o permuta da parte di enti pubblici: ammessi solo a fronte di una "utilitas". Esclusa la mera liberalità. La Corte conti Lombardia ribadisce l'esigenza di consolidamento dei bilanci locali Personale, l'in house non vale Consorzi e aziende speciali nel calcolo delle spese Gli enti locali, ai fini del rispetto dell'obbligo di contenimento delle spese di personale, devono considerare anche quelle dei consorzi e delle aziende speciali da essi partecipati, ma non quelle delle proprie società in house – Sul comma 557 dell’articolo 1 della legge 311/2004 Giurisprudenza – Strumenti l controllo della velocità: quadro normativo e orientamenti giurisprudenziali Quadro normativo Articoli 141 e 142 del C.d.S Articoli 342 , 343 , 345 del Regolamento di esecuzione Circ. 10307 del 14 agosto 2009 Circ. 17909 del 24 dicembre 2012 Circ. 2289 del 26 marzo 2012 Circ. 9363 del 13 dicembre 2013

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NEWS DEL GAUDENS N. 107 DEL 14 OTTOBRE 2014

www.gaudens.altervista.org

Sommario Controlli di velocità - RUP – Incentivi progettazione - PAOLA BRIGUORI Magistrato della Corte dei conti La disciplina dei compensi degli avvocati pubblici: cambiare tutto perché nulla cambi? di Andrea De Col Avvocato della provincia di Pordenone – La votazione del PRG nei piccoli comuni - Non retroattivi i nuovi incentivi ai progettisti La nuova disciplina degli incentivi alla progettazione non ha efficacia retroattiva, ma si applica solo a decorrere dal 19 agosto 2014 - Antimafia, tempi più stretti per il rilascio dei nullaosta alle imprese di Mauro Salerno Principi in materia di donazione di immobili o permuta da parte di enti pubblici: ammessi solo a fronte di una "utilitas". Esclusa la mera liberalità. La Corte conti Lombardia ribadisce l'esigenza di consolidamento dei bilanci locali Personale, l'in house non vale Consorzi e aziende speciali nel calcolo delle spese Gli enti locali, ai fini del rispetto dell'obbligo di contenimento delle spese di personale, devono considerare anche quelle dei consorzi e delle aziende speciali da essi partecipati, ma non quelle delle proprie società in house – Sul comma 557 dell’articolo 1 della legge 311/2004 Giurisprudenza – Strumenti

l controllo della velocità: quadro normativo e orientamenti giurisprudenziali

Quadro normativo

Articoli 141 e 142 del C.d.S Articoli 342, 343, 345 del Regolamento di esecuzione Circ. 10307 del 14 agosto 2009 Circ. 17909 del 24 dicembre 2012 Circ. 2289 del 26 marzo 2012 Circ. 9363 del 13 dicembre 2013

Rapporto tra gli articoli 141 e 142 del Codice della Strada

Il legislatore ha voluto tenere distinto il modo di regolare la velocità da parte degli utenti della strada secondo due parametri diversi e distinti.

Da una parte (art. 141) fissa l’obbligo di regolare la velocità del veicolo tenendo conto delle caratteristiche, stato e carico del veicolo stesso, delle caratteristiche e condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, in modo che sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose.

Dall’altra (art. 142) fissa limiti da rispettare, che potranno essere assoluti o condizionati, riferiti ai mezzi o ai conducenti.

L’art. 141 si pone l’obiettivo di individuare casi e situazioni dove la velocità non consona diviene motivo di serio ed immediato pericolo per la sicurezza. In esso viene fissato il principio secondo cui “Il conducente deve sempre conservare il controllo del proprio veicolo ed essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l'arresto tempestivo del veicolo entro i limiti del suo campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile”.

Occorre precisare che l’estensore della norma non è stato particolarmente chiaro e puntuale quando afferma che il conducente deve essere in grado di fermarsi entro i limiti del suo campo visivo. Questa condizione appare condivisibile solo sulle strade abbastanza larghe da consentire la suddivisione dei sensi di marcia tramite linea di mezzeria, ma appare assolutamente inadeguata quando la strada non consente il transito simultaneo di due veicoli provenienti da direzioni opposte (< mt. 5,60).

Percorrendo una curva su una strada non abbastanza larga da consentire il transito simultaneo di veicoli che si incrociano, prudenza vuole che ci si fermi in metà dello spazio visivo, perché l’altra metà serve al conducente che proviene dalla direzione opposta.

Altro aspetto che il legislatore ha voluto precisare all’interno di questo articolo è quello relativo al conducente che circola a velocità molto ridotta: questi non deve essere causa di intralcio o pericolo per il normale flusso della circolazione.

Trattandosi di situazioni di pericolo reale e non solo potenziale, ancorché riconducibile al solo accertamento soggettivo da parte dell’operatore di polizia stradale, questo articolo appare inadeguatamente sanzionato se lo si confronta con le ben più alte sanzioni contemplate nel successivo articolo 142, dove la situazione di pericolo appare molte volte solo potenzialmente tale.

Il gareggiare in velocità, oggi previsto sia al comma 5 dell’articolo in trattazione, sia nell’art. 9 ter del Codice della Strada fa sorgere dubbi se il legislatore intendesse tutelare identico bene giuridico o volesse distinguere tra due ipotesi possibili. Si è del parere che le due fattispecie siano poste a tutela di beni giuridici diversi e facciano quindi riferimento a situazioni sostanzialmente diverse tra loro. L’avvento degli articoli 9 bis e 9 ter è stato determinato dalla necessità di porre freno ad un pericoloso fenomeno (cd corse clandestine). La collocazione sistematica ed il contenuto dei due articoli citati appare finalizzato, il primo, a punire l’organizzazione e la partecipazione a gare “clandestine” con veicoli a motore, il secondo a punire momenti di gara anche al di fuori di competizioni vere e proprie, ma preparati e vissuti come tali dai partecipanti.

Un esempio può aiutare a comprendere le possibili differenze tra il comma 5 dell'art. 141 e l’articolo 9 ter (“possibili” perché si è di fronte a dottrina non univoca):

due persone si danno appuntamento in un viale periferico allo scopo di sfidarsi in una gara di velocità: trattasi di reato p.e.p. dal comma 1 dell'art. 9 ter;

due persone ferme affiancate al semaforo, all’accensione della luce verde gareggiano per primeggiare sulla colonna dei veicoli che sono ripartiti: trattasi di illecito amministrativo sanzionato ai sensi del comma 9 dell’art. 141.

L’art. 142 inizia con il determinare una serie di limitazioni generali della velocità, per poi contemplare la possibilità, per gli enti proprietari della strada, di fissare, provvedendo anche alla relativa segnalazione, limiti di velocità massimi e minimi diversi da quelli generali, in determinate strade o tratti di strada.

La norma prosegue poi con il fissare limiti in base alla categoria di veicolo e, in combinato con altri aspetti del codice della strada, anche in relazione a determinati conducenti, (es. neo-patentati e conducenti professionali) prevedendo poi anche aggravamenti di pena per particolari condotte o recidive.

Premesso quindi che questo articolo tratta la velocità in ambito di pericolo solo a livello potenziale, cioè non legato ad una particolare condizione di traffico, strada, veicolo o altro, esso trova applicazione per la mera disobbedienza al limite fissato in via generale o particolare, senza bisogno che si sia verificata una reale condizione di pericolo.

Impianto sanzionatorio

L’impianto sanzionatorio per le violazioni alle regole sulla velocità si presenta ampio ed articolato, spesso collegato a sanzioni amministrative accessorie e alla decurtazioni di punti sulla patente.

Per quanto riguarda l’art. 141, a parte le considerazioni già fatte, troviamo la previsione di decurtazione punti nelle sole ipotesi elencate nel comma 3 (5 punti). In esso sono previsti i casi quali: tratti di strada a visibilità limitata, curve, prossimità di intersezioni e scuole o comunque luoghi frequentati da fanciulli, forti discese, passaggi stretti o ingombrati, ore notturne, casi di insufficiente visibilità per condizioni atmosferiche o altro, attraversamento di abitati o tratti di strada fiancheggiati da edifici. Altre ipotesi parimenti pericolose, quali:

incrocio malagevole con altri veicoli, prossimità degli attraversamenti pedonali, pedoni che tardino a scansarsi o animali che diano segni di spavento, vengono sottratte alla decurtazione di punti e sono sanzionate alla pari di un superamento del limite di velocità di soli 6 km/h in condizioni di strada deserta e ben manutenuta.

Diverso è invece l’art. 142 che mostra un impianto sanzionatorio fortemente variegato e complesso.

Innanzitutto la progressività dell’ammontare della sanzione collegata al crescere dell’entità del superamento del limite di velocità di riferimento; poi al raddoppio della sanzione quando la violazione è commessa alla guida di particolari veicoli, ed infine il rinvio all’art. 179 per il superamento oltre il limite di taratura del limitatore di velocità per i veicoli che ne sono dotati.

Costituiscono fonti di prova dell’avvenuto superamento del limite di velocità le risultanze di apparecchiature appositamente omologate, sia per accertamenti di natura istantanea, che per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti determinati, le registrazioni del cronotachigrafo analogico o digitale, nonché i documenti relativi ai percorsi autostradali.

Non va dimenticato che le violazioni che riguardano la velocità rientrano tra quelle sottoposte ad aumento di un terzo della sanzione quando la violazione è commessa dopo le ore 22 e prima delle ore 7 (comma 2 bis dell’art. 195).

Postazioni di controllo fisse e controlli occasionali 

Le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo all'impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi, conformemente alle norme stabilite nel regolamento. Le modalità di impiego sono stabilite con decreto del Ministro dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'interno.

In quest’ottica fondamentale è stata la “Direttiva per garantire un'azione coordinata di prevenzione e contrasto dell'eccesso di velocità sulle strade”   del 14 agosto 2009 .

Tra gli obiettivi e i criteri dell'azione di contrasto degli eccessi di velocità viene inserito il “rilevamento selettivo” che consenta di sanzionare i conducenti responsabili dell'eccesso di velocità proporzionalmente al pericolo causato dalla loro condotta di guida.

I dispositivi ed i mezzi tecnici di controllo delle violazioni possono essere di tipo mobile e fisso. I primi per consentire un'utilizzazione più flessibile sul territorio, i secondi installati permanentemente in postazioni appositamente allestite per garantire un controllo sistematico e continuativo di tratti di strada caratterizzati da criticità particolari ovvero da elevata sinistrosità.

Gli apparecchi di misura della velocità non sono soggetti ad operazioni di taratura periodica in senso tecnico, poiché tale aspetto riguarda soltanto i controlli metrologici effettuati su apparecchi di misura di tempo, distanze e massa.

Relativamente alle strade classificate autostrade e strade extraurbane principali i dispositivi di controllo possono essere sempre utilizzati con o senza una preventiva ricognizione da parte del prefetto. Per le strade extraurbane secondarie e strade urbane di scorrimento, spetta

al prefetto, con proprio decreto, la determinazione dei tratti in cui è possibile l'attività di controllo remoto del traffico finalizzata all'accertamento delle violazioni per eccesso di velocità. Non va dimenticato che le strade classificate come "extraurbane", quando attraversano i centri abitati assumono automaticamente e funzionalmente la classificazione di Strade urbane di scorrimento, Strade urbane di quartiere o Strade locali, a seconda delle caratteristiche e a prescindere dall'ente che abbia la proprietà o la gestione amministrativa delle strade stesse.

La contestazione differita delle violazioni rilevate è legittima quando sono presenti criteri riferibili ad un elevato livello di incidentalità ed alla documentata impossibilità o difficoltà di procedere alla contestazione immediata sulla base delle condizioni strutturali, plano-altimetriche e di traffico.

Relativamente alla presegnalazione delle postazioni è da rilevare che il DDL n. 1512 attualmente in discussione al Parlamento prevede una modifica al comma 6 bis dell’art. 142 nel senso di prevedere una distanza di almeno trecento metri tra l'avviso di segnaletica di riduzione della velocità e la collocazione del sistema elettronico di rilevamento automatico della velocità.

Principali orientamenti giurisprudenziali

Obbligo di segnalamento delle posizioni di controllo - Cassazione Civile, sez. VI, sentenza n. 21199 del 28.11.2012.

Strada a urbana erroneamente ritenuta di scorrimento, inserita nell’elenco prefettizio - Cassazione Civile, sez. II, sentenza n. 7872 del 06.04.2011.

Casi di notificazione successiva e omologazione dell’apparecchiatura - Cassazione Civile, sez. II, sentenza n. 21091 del 12.10.2010.

Obbligo di segnalamento delle posizioni di controllo - Cassazione Civile, sez. II, sentenza n. 15105 del 22.06.2010

Omologazione e taratura degli apparati - Cassazione Civile, sez. II, sentenza n. 11273 del 10.05.2010

Contestazione in forma orale - Cassazione Civile, sez. II, sentenza n. 24944 del 26.11.2009.

Discrezionalità del Prefetto nell’individuazione delle strade - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 4321 del 26 agosto 2014.

Stato di necessità - Cassazione Civile, Sez. VI, sentenza n. 20121 del 24 settembre 2014. 

 Conflitto tra sezioni regionali sugli incentivi al RUP, in caso di affidamento delle attività di progettazione all'esterno V. Giannotti

Con due recentissimi pareri, due sezioni regionali della Corte dei Conti, affrontano il problema circa la legittimità della corresponsione dei compensi dovuti al RUP (Responsabile Unico del Procedimento), nel caso in cui le attività di progettazione siano affidate a professionisti esterni. In ordine di tempo è intervenuta sull’argomento la sezione regionale di controllo per la Lombardia, nella deliberazione n. 247 depositata in data 1à ottobre 2014, e con deposito nel giorno successivo (2 ottobre 2014), con conclusioni opposte, è intervenuta la sezione regionale di controllo per il Piemonte, nella deliberazione n. 197/2014. Qui di seguito le motivazioni dei pareri resi dai giudici contabili.

LE MOTIVAZIONI DEI GIUDICI CONTABILI LOMBARDIPremette il collegio contabile lombardo, come la materia degli incentivi sia stata recentemente innovata dalle disposizioni di cui all’art.13-bis della legge n. 114/2014, legge questa che ha convertito il d.l. n. 90/2014. A seguito delle recenti innovazioni normative i Comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento interno che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (art. 93, comma 7-bis, d.lgs. n. 163/2006) e un nuovo accordo integrativo decentrato, da recepire nel regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (nel successivo comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7 ter, ultimo periodo). In merito alla richiesta della possibilità di remunerare il RUP, anche qualora le attività di progettazioni siano affidate all’esterno, rileva il collegio contabile come la nuova disciplina si pone in sostanziale prosecuzione della precedente, prevedendo esplicitamente che beneficiari dei compensi in discorso possano essere i dipendenti interni incaricati delle funzioni di responsabile del procedimento, della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori. Allo stesso modo la nuova disciplina ribadisce la confluenza in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti sopra indicati, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione (ovvero prive, novità normativa, dell’accertamento dell'effettivo rispetto, nella fase realizzativa dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo). In disparte ad alcune considerazioni sulla giurisprudenza contabile richiamata dal collegio lombardo, viene evidenziato, dai giudici contabili, come:

Il c.d. “incentivo alla progettazione”, costituisce, uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione;

la legge pone alcuni paletti per la ripartizione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata, ma in virtù della novella legislativa del 2014, risulta chiarita la competenza della sola amministrazione, a mezzo di atto regolamentare, per la quantificazione del fondo, nella percentuale massima del 2% dell’importo posto a base di gara;

la norma preveda l’erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi). La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni,

sia necessario disciplinare una puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo

percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza,

debbano essere portate in economia le quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione;

ancora sono da portare in economia le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti.

LE MOTIVAZIONI DEI GIUDICI PIEMONTESISecondo, invece, il collegio contabile piemontese, i parametri normativi di base non hanno subito particolari innovazioni in tema di pagamento degli incentivi, i quali vengono tuttora ripartiti “tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico  dell'amministrazione”. Dal tenore letterale della norma, continua il collegio contabile, laddove circoscrive il compenso al responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, “àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto sia avvenuta all’interno dell’ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli uffici tecnici dell’ente”. In conclusione, riprendendo il collegio contabile i pareri già sul punto espressi dalla sezione (n. 290 del 9 agosto 2012 e n. 434 del 18 dicembre 2013 ) “con specifico riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.

CONCLUSIONINelle due citate deliberazioni, all’apertura della sezione lombarda sugli incentivi al RUP (purché regolamentata dal comune), corrisponde una restrizione della sezione piemontese, creando per tale verso la necessità, visto il contrasto tra le sezioni regionali, che la questione sia rimessa alla Sezione delle Autonomie. Va, tuttavia, evidenziato come recentemente l’orientamento della nomofilachia sia indirizzato al contenuto letterale della normativa, ben evidenziata dalla sezione piemontese sulla stretta e correlata individuazione del RUP con i citati progettisti e, qualora, questi ultimi siano esterni, al RUP non dovrebbero essere corrisposti incentivi.  

La prima mossa: il ricambio generazionale e abolizione dell'istituto del trattenimento in servizio PAOLA BRIGUORI Magistrato della Corte dei conti

La riforma della pubblica amministrazione prende il via facendo leva sul ricambio generazionale, espungendo l'istituto del trattenimento in servizio oltre il limite di età, con un grande impatto su una generazione di dipendenti pubblici che sino a ora aveva programmato una carriera di molto più lunga.

La scelta del legislatore costituisce un naturale punto di approdo delle precedenti norme che avevano progressivamente corroso l'originaria disciplina che riconosceva ai dipendenti pubblici un vero e proprio diritto potestativo a permanere in servizio oltre i limiti di età fissati dalla legge.

Come noto, l'art. 16, Dlgs n. 503 del 30 dicembre 1992, aveva previsto che "è in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio (...) per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo".

La norma era stata modificata dal comma 7, dell'articolo 72 del Dl n. 112 del 2008, alla cui stregua al pubblico dipendente non era più riconosciuto un diritto soggettivo al mantenimento in servizio, poiché la relativa istanza era soggetta a valutazioni dell'amministrazione (in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti e in funzione dell'efficiente andamento dei servizi) che erano sostanzialmente basate sulla tutela dell'interesse pubblico alla salvaguardia delle esigenze organizzative e funzionali della stessa.

L'art. 1, legge n. 114/2014 abroga, appunto, espressamente l'art. 16 cit. e anche le ultime disposizioni restrittive in materia (l'articolo 72, commi 8, 9, 10, del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008, e l'articolo 9, comma 31, del decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 30 luglio 2010). Al solo fine di evitare difficoltà organizzative dovute a un esodo drastico, detta una disciplina transitoria con cui si prevede - per le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 30 marzo 2001 - che siano fatti salvi fino al 31 ottobre 2014 (o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore) i trattenimenti in servizio in essere alla data di entrata in vigore del decreto, mentre che siano revocati quelli già disposti ma non ancora efficaci alla stessa data.

Peraltro, deroghe sono previste per due categorie per le quali si fissano decorrenze diverse: 1) per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, che alla data di entrata in vigore del decreto legge ne abbiano i requisiti, il trattenimento è ammesso sino al 31 dicembre 2015 (o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore) al fine di salvaguardare la funzionalità degli uffici giudiziari; 2) per il personale della scuola la permanenza è ammessa fino al 31 agosto 2014 (o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore, in applicazione dell'articolo 59, comma 9, della legge n. 449 del 27 dicembre 1997, e successive modificazioni) al fine di salvaguardare la continuità didattica e di garantire l'immissione in servizio fin dal 1º settembre.

La seconda mossa: la disciplina del turn over

Leit motiv della legislazione di urgenza di questi anni in materia finanziaria è la disciplina del turn over. Anche questa volta il legislatore - art. 3 - reimposta in via programmatica le percentuali delle assunzioni e detta, poi, disposizioni speciali e contingenti in tema di assunzioni per talune categorie (forze impiegate nella prevenzione nell'Expo Milano 2005, polizia di Stato, polizia penitenziaria, vigili del fuoco).

Se da una parte non si concedono più trattenimenti in servizio, dall'altra si dà il via all'aumento delle assunzioni e al raggiungimento progressivo del pareggio di spesa tra personale assunto e personale cessato nell'anno precedente.

Per i contratti di lavoro a tempo indeterminato delle amministrazioni centrali, le agenzie e gli enti pubblici economici e di ricerca, le assunzioni siano autorizzate con il decreto e le procedure di cui all'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 30 marzo 2001, previa richiesta delle amministrazioni interessate, predisposta sulla base della programmazione del fabbisogno, corredata da analitica dimostrazione delle cessazioni avvenute nell'anno precedente e delle conseguenti economie e dall'individuazione delle unità da assumere e dei correlati oneri.

Tali amministrazioni possono procedere, per l'anno 2014, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente a una spesa pari al 20% di quella relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente. Il limite sale al 40% per l'anno 2015, al 60% per l'anno 2016, all'80% per l'anno 2017, al 100% a decorrere dall'anno 2018. Per gli enti di ricerca virtuosi sono previste percentuali di assunzioni più elevate.

Si tratta di percentuali modificabili con misure correttive per effetto del monitoraggio annuale sull'andamento delle assunzioni e dei livelli occupazionali a opera della Presidenza del Consiglio dei ministri - dipartimento della Funzione pubblica e del ministero dell'Economia e delle finanze - dipartimento della Ragioneria generale dello Stato.

Per le regioni e gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno le nuove disposizioni prevedono che la percentuale di turn over per gli anni 2014 e 2015 sia pari al 60% (precedentemente era il 40%) delle cessazioni avvenute nell'anno precedente (tale percentuale è incrementata nell'anno 2014 all'80% per gli enti in cui, il rapporto tra spesa del personale e spesa corrente sia inferiore o pari al 25%, tale percentuale è pari al 100% nell'anno 2015 e seguenti), negli anni 2016 e 2017 pari all'80% e nel 2018 al 100%.

Nel silenzio della norma - ma alla luce delle decisioni della Corte dei conti - nel calcolo di tale rapporto si ritiene che comunque debba rientrare il consolidamento delle spese delle società partecipate, pur essendo stato abrogato l'art. 76, comma 7, del Dl n. 112 del 25 giugno 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008.

L'art. 3, comma 5-quinquies, ribadisce il divieto di assunzioni a tempo indeterminato per le province, confermando quanto disposto dall'art. 16, comma 9, del Dl 95/2012: "Nelle more dell'attuazione delle disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle province è fatto comunque divieto alle stesse di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato".

Il comma 6 prevede un'eccezione per le assunzioni di personale appartenente alle categorie protette ai fini della copertura delle quote d'obbligo.

La terza mossa: la mobilità e l'assegnazione a nuove mansioni

Nuova spinta all'istituto della mobilità, per il quale è istituito un apposito fondo.

La mobilità - obbligatoria e volontaria - è concepita come mezzo per far fronte all'emergenza occupazionale e, nel contempo, agli esuberi riscontrati in alcuni settori del Pi. L'art. 4 della legge 114 sostituisce la precedente disciplina di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 30 del Tu n. 165/2001. Tre importanti disposizioni hanno l'obiettivo di agevolare le procedure: l'istituzione di un portale finalizzato all'incontro tra la domanda e l'offerta di mobilità presso la Presidenza del Consiglio dei ministri - dipartimento della Funzione pubblica; l'inderogabile adozione entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge - in difetto, con decreto del ministro delegato per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell'Economia e delle finanze, prescindendo anche dall'assenso delle Organizzazioni sindacali - della tabella di equiparazione di cui all'art. 29-bis del Tu n. 165/2001 fra i livelli di inquadramento; il ruolo di supporto assegnato alla Scuola nazionale dell'amministrazione per garantire la riqualificazione dei dipendenti trasferiti.

La mobilità volontaria tra amministrazioni diverse - attraverso una puntuale procedura prevista dalla norma - avviene non più con la cessione del contratto di lavoro dei dipendenti della stessa qualifica ma con il passaggio diretto dei dipendenti appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell'amministrazione di appartenenza. Pertanto, il dipendente perde definitivamente lo status e le prerogative acquisite in forza del vecchio contratto per essere ex nunc sottoposto al diverso regime contrattuale dell'amministrazione ricevente, pur nella tendenziale omogeneità delle discipline contrattuali del Pi.

Fino all'introduzione di nuove procedure per la determinazione dei fabbisogni standard di personale delle amministrazioni pubbliche, per il trasferimento tra le sedi centrali di differenti Ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici nazionali non è richiesto l'assenso dell'amministrazione di appartenenza, la quale dispone il trasferimento entro due mesi dalla richiesta dell'amministrazione di destinazione, fatti salvi i termini per il preavviso e a condizione che l'amministrazione di destinazione abbia una percentuale di posti vacanti superiore all'amministrazione di appartenenza.

La mobilità obbligatoria - mediante trasferimento - può attuarsi all'interno della stessa amministrazione o, previo accordo tra le amministrazioni interessate, in altra amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello stesso comune ovvero a distanza non superiore a cinquanta chilometri dalla sede cui sono adibiti i dipendenti. Nel qual caso non trova applicazione il terzo periodo dell'art. 2103 c.c., che resta evidentemente confinato al settore privato e che subordina il trasferimento da una unità produttiva a una altra alla presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

La norma è chiara e secca nella sua previsione e non sembra dare spazio ai diritti del lavoratore pubblico, che può verosimilmente vedersi spostare di sede senza poter sollevare contestazioni, a eccezione del genitore di figlio di età inferiore ai tre anni che fruisca del congedo parentale ovvero del titolare del diritto di cui all'art. 33, comma 3, legge n. 104/1992, per i quali è richiesto l'assenso.

La mobilità, senza preventivo accordo tra amministrazioni, è anche il mezzo per garantire l'esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni che presentano carenze di organico.

L'art. 5 segna una soluzione di continuità con il passato, comportando il netto superamento dei principi di cui all'art. 2103 anche in tema del diritto a conservare le stesse mansioni (ovvero quelle equivalenti) in caso di trasferimento .

Tale diritto deve sacrificarsi - seppure temporaneamente - a fronte della tutela del diritto al lavoro e il legislatore ha previsto che il personale pubblico in disponibilità possa presentare, alle amministrazioni che hanno posti vacanti in organico, istanza di ricollocazione, in deroga all'articolo 2103 del codice civile, nell'ambito dei posti vacanti in organico, anche in una qualifica inferiore o in posizione economica inferiore della stessa o di inferiore area o categoria di un solo livello per ciascuna delle suddette fattispecie, al fine di ampliare le occasioni di ricollocazione.

Il personale ricollocato ai sensi del periodo precedente non ha diritto all'indennità di mobilità, ma mantiene il diritto di essere successivamente ricollocato nella propria originaria qualifica e categoria di inquadramento, anche attraverso le procedure di mobilità volontaria.

Anche per le procedure di mobilità del personale delle società partecipate pubbliche il legislatore prevede che il personale possa presentare istanza alla società da cui è dipendente o all'amministrazione controllante per una ricollocazione, in via subordinata, in una qualifica inferiore nella stessa società o in altra società.

La disciplina dei compensi degli avvocati pubblici: cambiare tutto perché nulla cambi? di Andrea De Col Avvocato della provincia di Pordenone

L'incessante impulso riformatore che contraddistingue l'attuale momento storico della legislatura non ha risparmiato nemmeno la disciplina delle cosiddette "propine" (o "procuratorie") degli avvocati dipendenti degli enti pubblici e cioè l'attribuzione dei compensi professionali dovuti e "recuperati" a seguito di sentenza favorevole all'ente di appartenenza con condanna della parte avversa soccombente ovvero a spese compensate.

Ispirate alla superiore finalità, comune invero a numerosi e recenti interventi legislativi, di contenere la spesa pubblica, le nuove regole sono state introdotte dall'art. 9 del Dl n. 90/2014 (recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari) successivamente e non senza travaglio convertito nella legge n. 114 dell'11 agosto 2014.

La previgente disciplina in materia risultava regolata, in parte, da fonte di rango legislativo (Rd n. 1578 del 27 novembre 1933 "Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore"; Rd n. 1611 del 30 ottobre 1933 "TU delle leggi sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato") in parte da fonte di rango regolamentare (art. 69, Dpr n. 268/1987) e in parte dalla contrattazione collettiva.

Le ONLUS non possono essere considerate automaticamente esenti dall'IMU e dalla TASIDocumentazione 14/10/2014

I piccoli Comuni, gli interessi dei consiglieri e la votazione del PrgA. Mafrica (Approfondimento 30/9/2014)

Ai sensi dell’art. 78 comma 2 del T.U.E.L.(1), “gli amministratori di cui all'articolo 77, comma 2(2), devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.

Come può in concreto attuarsi tale previsione nel caso della votazione del PRG nei piccoli comuni ove è quasi inevitabile il verificarsi di situazioni di titolarità di interessi in capo ai consiglieri o alla relativa cerchia familiare? La soluzione individuata dalla giurisprudenza(3), anche alla luce della mancanza nell’ordinamento di una norma che lo vieti(4), è quella della votazione per parti frazionate, con l’astensione per coloro che, di volta in volta, in concreto vi abbiano interesse: “tale meccanismo è l'unico in grado di assicurare, ad un tempo, l'osservanza dell'obbligo di astensione e l'esercizio dei poteri di pianificazione urbanistica in capo all'organo comunale cui essi competono e, quindi, il rispetto del principio di democraticità rappresentativa, laddove, altrimenti, proprio le scelte espressive della pianificazione territoriale più significative e incisive sulla vita della comunità locale dovrebbero essere demandate ad un organo straordinario non elettivo ed estraneo alla comunità, quale il commissario ad acta”(5).

Soluzione pratica e ragionevole che però presenta un aspetto potenzialmente insidioso, ossia la compatibilità della votazione per parti separate l’esigenza di una votazione globale finale sull’adozione del PRG: in detta votazione finale potranno partecipare i consiglieri che si sono astenuti nelle precedenti votazioni per parti separate o dovranno continuare ad astenersi? Secondo la giurisprudenza(6), nella votazione finale non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell’amministratore in conflitto: in pratica, poiché il consigliere interessato si è astenuto nelle precedenti votazioni, si ritiene che non abbia più la possibilità di incidere sulle scelte (già effettuate) nella fase della votazione finale(7).Recentemente la giurisprudenza amministrativa(8) ha avuto modo di effettuare (o, meglio, di ribadire(9)) una distinzione importante in merito alla votazione del PRG in relazione al contenuto:

vi è un inscindibile contenuto globale, costituito dai criteri tecnico-urbanistici, dai principi informatori delle scelte urbanistiche compiute e dagli obiettivi generali della disciplina adottata, sui quali per definizione non può darsi conflitto di interessi né dunque obbligo di astensione, e per il quale dunque occorre la partecipazione di tutti gli Amministratori;

vi è, poi, l'esame analitico da cui consegue la puntuale deliberazione delle previsioni pianificatorie, da riservare alla votazione frazionata.

Un aspetto di ulteriore interesse e rilievo pratico è rappresentato dalle conseguenze dell’astensione dei consiglieri interessati rispetto al quorum necessario perché la delibera sia valida: su tale aspetto il Consiglio di Stato(10) ha affermato che la materia non è oggetto di normativa statale ma è lasciata all’autonomia dell’ente locale, con la conseguenza che sarà il regolamento sul funzionamento e l’operatività del Consiglio comunale a dover prevedere

disposizioni a riguardo (ad esempio, potrebbe prevedere che i consiglieri astenuti concorrono comunque alla formazione del numero legale (quorum strutturale) dei presenti per la validità della seduta ma non si computano nel numero dei votanti).

Ricordiamo, infine, che non scatta l’obbligo di astensione per il consigliere comunale che aveva presentato in precedenza una osservazione al PRG, nella qualità di privato cittadino: secondo la giurisprudenza, infatti, tale circostanza “non è elemento che determina una posizione conflittuale con l’ente, trattandosi di interventi ausiliativi consentiti a tutti e che non determinano, per il fatto di essere stati presentati, una inconciliabilità con il diritto – dovere di essi stessi, quali consiglieri comunali, di partecipare al voto. Il conflitto di interessi, infatti, è una posizione giuridica antitetica con l’interesse dell’ente, oggettivamente determinata e precisamente individuabile (come un’azione giudiziaria o l’essere proprietari di un’area avvantaggiata o danneggiata dalla variante), mentre nella specie si è trattato soltanto dell’esercizio di un dovere civico di formulare osservazioni”(11).

-----------(1) Decreto Legislativo n. 267/2000. (2) Per amministratori si intendono i sindaci, anche metropolitani, i presidenti delle province, i consiglieri dei comuni anche metropolitani e delle province, i componenti delle giunte comunali, metropolitane e provinciali, i presidenti dei consigli comunali, metropolitani e provinciali, i presidenti, i consiglieri e gli assessori delle comunità montane, i componenti degli organi delle unioni di comuni e dei consorzi fra enti locali, nonché i componenti degli organi di decentramento. (3) Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 4429 del 22 giugno 2004, sent. n. 3663 del 16 giugno 2011 e sent. n. 1816 del 14 aprile 2014; TAR Veneto, sez. I, sent. n. 4159 del 6 agosto 2003, sez. II, sent. n. 283 del 5 marzo 2014; TAR Abruzzo, sez. Pescara, sent. n. 333 del 3 luglio 2012. (4) Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 1816 del 14 aprile 2014, secondo cui “Tale modalità procedimentale non è esclusa né vietata da alcuna disposizione normativa”. (5) Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 1816 del 14 aprile 2014. (6) Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 3663 del 16 giugno 2011; TAR Veneto, sez. II, sent. n. 283 del 5 marzo 2014. (7) Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 1816 del 14 aprile 2014, secondo cui, nella finale votazione unitaria sullo strumento urbanistico, essendo già intervenuta quella per "settori", atta ad assicurare il formale rispetto dell'obbligo di astensione, il consigliere in potenziale conflitto non è più in grado di influire sulle specifiche scelte di assetto territoriale rispetto alle quali sia in astratta posizione d'interferenza. (8) TAR Campania, sez. I Salerno, sent. n. 1509 del 3 settembre 2014. (9) Come già osservato in passato dal Consiglio di Stato, sez. IV, nella sent. n. 4429/2004. (10) Sent. n. 3372/2001. (11) TAR Veneto, sez. II, sent. n. 1087 del 21 agosto 2013, richiamando Consiglio di Stato, sent. n. 2740/2004.

Le ONLUS non possono essere considerate automaticamente esenti dall'IMU e dalla TASI Lo afferma il MEF nelle istruzioni al modello di dichiarazione IMU TASI ENC approvate con decreto 26 giugno 2014.

In particolare, nelle citate istruzioni, nel box a pag. 7, si legge “ Vale la pena di ricordare che nell’ambito del requisito soggettivo di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), del D. Lgs. n. 504

del 1992, non rientrano tutte le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) di cui al D. Lgs 4 dicembre 1997, n. 460 in quanto, come precisato al punto 1.12 della circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 168/E del 26 giugno 1998, “la riconducibilità nella categoria soggettiva delle ONLUS prescinde da qualsiasi indagine sull'oggetto esclusivo o principale dell'ente e, quindi, sulla commercialità o meno dell’attività di fatto dallo stesso svolta”.Tuttavia, è bene sottolineare che l’art. 21 di quest’ultimo provvedimento prevede che “i comuni, le province, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono deliberare nei confronti delle ONLUS la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti”. Pertanto, le ONLUS per poter beneficiare dell’agevolazione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), del D. Lgs. n. 504 del 1992, devono essere enti non commerciali ai sensi dell’art. 73 del TUIR. Ciò indipendentemente da qualsiasi scelta regolamentare dei comuni, i quali possono comunque decidere di esentare le ONLUS in quanto tali in virtù dell’art. 21 del D.Lgs. n. 460 del 1997.

Moduli standard e informatizzazione del settore edilizio previsti dall'art. 24 del Dl 90/2014 Le semplificazioni in edilizia di Marco Porcu Avvocato (Studio legale Rusconi&Partners)

Premessa

La semplificazione legislativa, in ogni settore, è ormai un'esigenza imprescindibile, senza la quale l'intero sistema economico rischia di rimanere fortemente inceppato, indipendentemente da qualsiasi ulteriore intervento statale.

È quindi fondamentale che, specie in un settore trainante del sistema produttivo italiano come quello edilizio, vi sia una risposta legislativa concreta.

Incontestata la necessità che ciascuna parte del territorio nazionale, così diversa e articolata, sia tutelata in modo adeguato e tenendo conto di prerogative eterogenee, appare preminente la necessità di assicurare la liberalizzazione del mercato e la concorrenza degli operatori economici, oltre ad uniformità e certezza amministrativa, irrinunciabili per uno Stato di diritto.

Con queste premesse, è stato pubblicato il Dl n. 90 24 giugno 2014, n. 90 (in Gu n. 144 del 24 giugno 2014 - in vigore dal 25 giugno 2014 e convertito con modificazioni, dalla legge n. 114 dell'11 agosto 2014 - in Gu n. 190 del 18 agosto 2014), recante "Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari", con lo scopo primario di "realizzare interventi di semplificazione dell'organizzazione amministrativa e dello Stato e degli enti pubblici" oltre che di "introdurre ulteriori misure di semplificazione per l'accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione".

Cosa prevede il decreto legge

Il Dl n. 90/2014 introduce, in 54 articoli, una serie di misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e l'efficienza degli uffici giudiziari.

Il raggio d'azione è molto ampio (forse troppo?), visto che si va dalle disposizioni in materia di ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni (art. 1), all'istituzione

di un'unità operativa speciale per Expo 2015 (art. 30), fino alle misure per lo snellimento del processo amministrativo e l'attuazione del processo civile telematico (artt. 38 e ss.).

Per quanto concerne la materia edilizia, nonostante le numerose aspettative che erano sorte, le novità sono concentrate unicamente nell'articolo 24.

Esso stabilisce che, entro il 31 ottobre 2014, il Consiglio dei ministri, su proposta del ministero per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo n. 281 del 28 agosto 1997, sarà tenuto ad approvare l'Agenda per la semplificazione per il triennio 2015-2017, concernente le linee di indirizzo condivise tra Stato, regioni, province autonome e autonomie locali e il cronoprogramma per la loro attuazione.

Il primo comma dell'art. 24 prevede che le amministrazioni interessate perseguano semplificazione e snellimento mediante la sottoscrizione di accordi e intese, al fine di coordinare le loro iniziative e attività, cui seguirà la costituzione di un apposito comitato interistituzionale.

La vera novità di questo decreto, in materia edilizia, è invece contenuta nel successivo comma 2, secondo il quale, entro centottanta giorni dalla sua entrata in vigore, le amministrazioni statali che non vi abbiano già provveduto, adottano con decreto del Ministro competente, di concerto con il ministro delegato per la Semplificazione e la pubblica amministrazione, sentita la Conferenza unificata, moduli unificati e standardizzati su tutto il territorio nazionale per la presentazione di istanze, dichiarazioni e segnalazioni da parte dei cittadini e delle imprese.

L'adozione di modelli standardizzati deve tuttavia scontrarsi con il fatto che, a seguito della riforma dell'articolo 117 della Costituzione, la legislazione regionale è posta sullo stesso piano di quella statale, con il conseguente vincolo del rispetto della Costituzione, dei principi generali dell'ordinamento e degli obblighi derivanti dall'ordinamento comunitario e internazionale.

Il nuovo art. 117 della Costituzione attribuisce infatti la materia del governo del territorio, che ricomprende sia l'urbanistica che l'edilizia, alla legislazione concorrente Stato/regione (Corte costituzionale, sentenza n. 303/2003).

Spetta dunque alle regioni la potestà legislativa di dettaglio nel rispetto dei criteri ed agli obiettivi individuati a livello statale.

La potestà regolamentare è attribuita invece alle regioni, salvo che per le materie di esclusiva competenza statale, mentre le funzioni amministrative spettano ai comuni.

All'interno di questi limiti, il comma 3 dell'art. 24 stabilisce che il Governo, le regioni e gli enti locali, in sede di Conferenza unificata, concludono accordi ai sensi del Dlgs n. 281 del 28 agosto 1997, per adottare una modulistica unificata su tutto il territorio nazionale.

La legge di conversione, rispetto all'originaria previsto del decreto legge, impone, con l'art. 24, comma 3-bis, l'istituzione da parte delle amministrazioni interessate di un piano di informatizzazione delle procedure per la presentazione di istanze, dichiarazioni e segnalazioni.

In base al comma 4-bis, infine, vi è la possibilità di reperire tutta la modulistica in materia edilizia, e non solo, nel portale www.impresainungiorno.gov.it.

Con l'accordo raggiunto in sede di Conferenza unificata del 12 giugno 2014 (in Gu n. 161 del 14 luglio 2014 - Suppl. ord. n. 56), sono stati adottati i moduli unificati e semplificati per la presentazione dell'istanza del permesso di costruire e della segnalazione certificata di inizio attività (Scia) in edilizia (reperibili in www.funzionepubblica.gov.it), che, ove necessario, potranno essere adeguati alle specificità della normativa regionale, ma consentiranno di superare la eterogeneità finora esistente.

Lo stato dell'arte in materia edilizia

Attualmente il settore edilizio soffre, come detto, di un eccessivo carico burocratico, oltre che della mancanza di incentivi adeguati, che rischiano di indebolire ulteriormente centinaia di piccole e medie imprese.

La disciplina nazionale di riferimento è contenuta nel Dpr n. 380 del 6 giugno 2001 (Testo unico dell'edilizia), che, nel corso degli ultimi 3 anni, ha subito numerose modifiche, tese alla liberalizzazione e semplificazione delle procedure.

Gli interventi legislativi più significativi sono stati sostanzialmente due: l'introduzione della segnalazione certificata di inizio attività (Scia) e la modifica, a più riprese, dell'art. 6 del Dpr n. 380/2001, in materia di attività edilizia libera.

In un'ottica di riduzione degli oneri burocratici in capo al privato, il legislatore è infatti intervenuto con l'art. 49, comma 4-bis, del Dl n. 78 del 31 maggio 2010, rubricato "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica", convertito con legge n. 122 del 30 luglio 2010, che modificava l'art. 19 della legge n. 241/1990, "eliminando" dal procedimento amministrativo l'istituto della Dia semplice e introducendo la Scia.

È stato necessario l'intervento del Dl n. 70 del 13 maggio 2011, convertito in legge n. 106 del 12 luglio 2011 (c.d. decreto Sviluppo) per confermare, attraverso una norma di interpretazione autentica, l'applicabilità della Scia anche al settore edilizio.

La Scia è dunque prevista per tutti gli interventi compresi dall'art. 22, commi 1 e 2, del Tue, mentre continua ad essere applicabile la super Dia (qualora sia prevista dalla legislazione regionale) per gli interventi di cui all'art. 22, comma 3.

Sulla natura giuridica della Scia, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che, "Da ultimo, si deve considerare l'ulteriore evoluzione dell'ordinamento che, a seguito delle modifiche apportate all'art. 19 della legge n. 241/1990 dal Dl n. 78 del 31 maggio 2010, convertito dalla legge n. 122 del 30 luglio 2010, consente sempre l'immediato inizio dell'attività oggetto dell'informativa a seguito della presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (c.d. Scia). Restano salvi, anche nella rinnovata architettura normativa, il potere dell'amministrazione di vietare, entro il modificato termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, l'esercizio dell'attività in assenza delle condizioni di legge, nonché il potere di autotutela esercitabile in caso di decorso infruttuoso di tale termine e dei poteri sanzionatori e di vigilanza di cui al rammentato art. 21." (Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 15 del 29 luglio 2011).

Rilevanti, come detto, sono state anche le modifiche riguardanti l'art. 6 del Dpr n. 380/2001, che consente la realizzazione di interventi edilizi senza il rilascio di alcun preventivo titolo abilitativo.

Queste le modifiche più importanti contenute nell'articolo 6:

l'introduzione della comunicazione di inizio dei lavori (legge n. 73/2010); l'introduzione della lettera e- bis) al comma 2, che ricomprende all'interno di questi

interventi "le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti a esercizio d'impresa, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti a esercizio d'impresa" (legge n. 134/2012);

l'abrogazione del comma 3, che prevedeva l'allegazione alla comunicazione di inizio lavori delle autorizzazioni eventualmente obbligatorie e, ove necessario, dei dati identificativi dell'impresa alla quale affidare la realizzazione dei lavori (legge n. 134/2012).

Nell'ottica della semplificazione del sistema, sono apprezzabili alcuni interventi adottati a livello regionale, come nel caso dell'Emilia Romagna.

Con legge regionale n. 15 del 30 luglio 2013, l'Emilia Romagna ha infatti inteso perseguire la semplificazione dell'attività edilizia e l'uniformità di interpretazione e applicazione della disciplina edilizia nell'ambito del sistema regionale delle autonomie locali, attraverso una serie di importanti interventi, tra i quali:

il rafforzamento della funzione dello Sportello unico per l'edilizia (Sue), in qualità di unico interlocutore ai fini del rilascio dei titoli abilitativi;

la previsione che la Scia possa sostituire anche gli interventi assoggettabili a titolo alternativo al permesso di costruire;

l'estensione dei casi di attività edilizia libera; la gestione telematica dei procedimenti edilizi e catastali.

Conclusioni

A seguito dell'entrata in vigore del Dl n. 90/2014, ci si è resi conto che la tanto sperata riforma del sistema edilizio non ci sarebbe stata, in quanto l'unica vera novità è stata l'individuazione di modelli unici a livello nazionale per Scia e permesso di costruire.

Un po' poco, se si vuole incidere fortemente su un settore tanto importante come quello edilizio.

Vista l'inerzia statale, dovrebbero comunque essere le regioni e gli enti locali a intraprendere la strada di una reale ed effettiva semplificazione del sistema, ma anche in questo versante si registrano colposi ritardi.

Allo stato attuale, può tuttavia concludersi che una vera e propria semplificazione del sistema, potrebbe aversi soltanto con un nuovo intervento sul Titolo V della Costituzione.

Il diritto al compenso professionale degli avvocati pubblici

Detto che la questione dei compensi professionali, oltre che agli avvocati e ai procuratori dello Stato, riguarda l'intera categoria degli avvocati interni delle amministrazioni pubbliche iscritti nell'elenco speciale ex art. 3, comma 4, lett. b), del Rd novembre 1933, cioè circa 3.500 professionisti togati delle amministrazioni pubbliche (comuni, province, regioni, Asl, enti previdenziali e assistenziali, società pubbliche ecc.), è necessario risalire al fondamento giuridico di quello che, a tutti gli effetti, è un diritto patrimoniale dell'avvocato pubblico. A tal proposito, il citato regio decreto n. 1611 del 30 ottobre 1933, disciplinava la materia con riferimento alla sola Avvocatura dello Stato, ma a essa si sono, poi, conformati le restanti avvocature pubbliche e la vigente contrattazione collettiva. L'art. 21 del Rd (ora abrogato dall'art. 9, legge n. 114/2014) attribuiva all'Avvocatura dello Stato la facoltà di esazione diretta "delle competenze di avvocato e di procuratore nei confronti delle controparti quando tali competenze siano poste a carico delle controparti stesse per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione" (commi 1 e 2). Ai sensi del successivo comma 3, "Negli altri casi di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni dello Stato e nei casi di pronunciata compensazione di spese in cause nelle quali le amministrazioni stesse non siano rimaste soccombenti, sarà corrisposta dall'Erario all'Avvocatura dello Stato, con le modalità stabilite dal regolamento, la metà delle competenze di avvocato e di procuratore che si sarebbero liquidate nei confronti del soccombente. Quando la compensazione delle spese sia parziale, oltre la quota degli onorari riscossa in confronto del soccombente sarà corrisposta dall'Erario la metà della quota di competenze di avvocato e di procuratore sulla quale cadde la compensazione".

È quindi un dato positivo che gli avvocati e procuratori degli uffici istituiti presso enti pubblici sono titolari di uno "status" particolare caratterizzato dal fatto che essi sintetizzano la qualità di pubblici impiegati e quella di professionisti iscritti nel relativo Albo professionale, particolarità giustificata dalla peculiarità delle funzioni svolte. La disciplina del loro trattamento retributivo prevede che essi fruiscano, in aggiunta allo stipendio tabellare, di una quota di retribuzione, a titolo di onorari per prestazioni professionali, quantificata sulla base della legge e delle tariffe professionali forensi (Corte cost., sent. n. 33/2009; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, sent. 14 giugno 2001, n. 879; Tar Umbria, Perugia, sent. 31 gennaio 1998, n. 137). Lungo tale crinale normativo, si era successivamente sviluppata la normazione secondaria (Dpr n. 268/1987 e regolamenti interni) e gli orientamenti della giurisprudenza (di recente sent. Tribunale Mantova, sezione lavoro, 31 agosto 2014), entrambi concordi nel riconoscere a favore degli avvocati pubblici il generale diritto a percepire i compensi per cause concluse con sentenza favorevole, sia con spese a carico della controparte (nella misura determinata dal Giudice) sia in caso di compensazione di spese legali (in questo caso secondo i rispettivi regolamenti, sebbene si sia privilegiata sempre l'applicazione dei parametri forensi ridotti della metà: Tar Puglia, Lecce, sez. III, sent. n. 847 del 25 marzo 2010 e Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Basilicata, Potenza, con la deliberazione n. 2/2010/PAR). Su tali spettanze erano e rimangono ex art. 1, comma 208, legge n. 266 del 23 dicembre 2005 (la cui legittimità costituzionale è stata ribadita con sentenza Corte cost. n. 33/2009) a carico dell'avvocato pubblico gli oneri riflessi (assistenziali e previdenziali), ma non l'Irap (cfr. sezioni riunite, Corte dei conti n. 33/2010, Corte dei conti Liguria n. 38/2014 e Corte dei conti Emilia Romagna n. 34/2007). Nella materia de qua, era rilevante anche l'art. 27 del Ccnl 14 settembre 2000 e s.m.i.: "Gli enti provvisti di Avvocatura costituita secondo i rispettivi ordinamenti disciplinano la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all'ente, secondo i principi di cui al regio decreto legge 27.11.1933, n. 1578 e disciplinano, altresì, in sede di contrattazione decentrata integrativa la correlazione tra tali compensi professionali e la retribuzione di risultato di

cui all'art. 10 del Ccnl del 31.3.1999. Sono fatti salvi gli effetti degli atti con i quali gli stessi enti abbiano applicato la disciplina vigente per l'Avvocatura dello Stato anche prima della stipulazione del presente Ccnl". Il trattamento retributivo da adottare nei confronti dei pubblici dipendenti era pertanto quello previsto nella norma indicata difettando, per espressa previsione dell'art. 45 Dlgs n. 165/2001, la possibilità per l'ente pubblico di prevedere trattamenti deteriori rispetto a quelli ivi fissati (in tal senso Tar Puglia n. 847/2010). A conclusione di questo breve ma inevitabile excursus normativo ante riforma, va infine richiamato (ancorché come dato storico stante la sua sopravvenuta abrogazione a opera dell'art. 9 legge n. 114/2014) l'art. 1, comma 457, della legge di stabilità 2014 (legge n. 147/2013) che, nel tentativo di "ripubblicizzare" la materia avente intuitivamente un impatto non trascurabile sulle già malandate casse erariali, con criptica formulazione statuiva che "A decorrere dal 1º gennaio 2014 e fino al 31 dicembre 2016, i compensi professionali liquidati, esclusi, nella misura del 50 per cento, quelli a carico della controparte, a seguito di sentenza favorevole per le pubbliche amministrazioni ai sensi del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, o di altre analoghe disposizioni legislative o contrattuali, in favore dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti nella misura del 75 per cento. Le somme provenienti dalle riduzioni di spesa di cui al presente comma sono versate annualmente dagli enti e dalle amministrazioni dotate di autonomia finanziaria ad apposito capitolo di bilancio dello Stato. La disposizione di cui al precedente periodo non si applica agli enti territoriali e agli enti, di competenza regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano, del Servizio sanitario nazionale".

L'articolo 9 del decreto legge n. 90 del 24 giugno 2014

Alla vigilia del Dl n. 90/2014, l'assetto era, per quanto qui interessa, il seguente:

- se il legale del comune/provincia/regione perdeva una causa con condanna dell'ente alle spese, non percepiva alcun compenso;

- se il legale del comune/provincia/regione perdeva una causa con compensazione delle spese non percepiva alcun compenso;

- se il legale del comune/provincia/regione vinceva una causa con compensazione delle spese percepiva il compenso previsto dal Regolamento interno xxx;

- se il legale dell'amministrazione vinceva una causa con condanna di controparte alle spese, percepiva il compenso previsto dal Regolamento o il maggior compenso liquidato in sentenza dal giudice a carico di controparte con la riduzione prevista dall'art. 1, comma 457, legge di stabilità 2014.

Innovando drasticamente la disciplina previgente, il Dl n. 90/2014 nella sua originaria formulazione:

a) abroga riferimento alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto il comma 457 dell'art. 1 della legge n. 147 del 27 dicembre 2013 e l'art. 21 del Rd n. 1611/1933;

b) nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, limita al 10% delle somme recuperate il riconoscimento a favore degli avvocati dello Stato o degli avvocati dipendenti dalle altre amministrazioni, in base alle norme del regolamento delle stesse, "salvando" dalla tagliola i compensi degli avvocati non dirigenti;

c) elimina del tutto la corresponsione dei compensi professionali in caso di compensazione integrale delle spese, ivi inclusi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alla PA.

Nell'intento governativo, l'art. 9 del Dl n. 90/2014 annunciato dapprima ai mass-media e finalmente pubblicato in data 24 giugno 2014 rispondeva "alle urgenti necessità di contenimento della spesa pubblica" (vedasi relazione di accompagnamento al Dl), riducendo l'ammontare dei compensi professionali non correlati a criteri di valutazione della performance omogenei alle altre categorie dirigenziali, con ciò soddisfacendo anche esigenze di perequazione e arrecando un comprensibile vantaggio alle finanze degli enti pubblici mercé la bravura e la competenza delle loro professionalità interne. Purtuttavia, esso provocava una vera e propria levata di scudi da parte delle categorie interessate, in massima parte e oggettivamente giustificata sia dallo "svilimento" dello status professionale dell'avvocatura pubblica sia da "storture" normative che difficilmente avrebbero retto al vaglio di legittimità costituzionale. In particolare, è apparsa immediatamente lesiva del principio di uguaglianza la disposizione contemplata dal comma 3 che, incidendo sul compenso professionale, operava un'irragionevole differenziazione tra avvocati dirigenti e avvocati non dirigenti - anche appartenenti allo stesso ufficio - negando ai primi ma riconoscendole ai secondi le somme recuperate in caso di sentenza favorevole. In secondo luogo, non differenziava affatto tra Avvocatura dello Stato e Avvocatura degli altri enti pubblici, ancorché profondamente diversi siano lo status, il trattamento economico e le modalità di accesso alle relative carriere.

L'articolo 9 del Dl n. 90/2014 convertito nella legge n. 114/2014

In sede di conversione - complice probabilmente il "caldo" agostano - il Legislatore rivaluta le scelte adottate in via di "necessità e urgenza" dall'Esecutivo "ristrutturando" l'articolo 9 e sancendo una volta per tutte, sia pure attraverso alcune modifiche molto dettagliate e di non facile lettura, la possibilità di remunerare l'attività professionale degli avvocati pubblici, distinguendo sia nella tipologia dei compensi (spese a carico di controparte/spese compensate) sia nella procedura per l'erogazione degli stessi tra il personale dipendente delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del Dlgs n. 165/2001 dal personale dell'Avvocatura dello Stato.

In pillole, il nuovo articolato, fermo restando l'abrogazione a far data dalla pubblicazione del Dl n. 90/2014 del comma 457 dell'art. 1 della legge n. 147 del 27 dicembre 2013, e il terzo comma dell'art. 21 del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, prevede:

a) il principio generale per cui i compensi professionali di tutti gli avvocati pubblici non possono superare il limite massimo del trattamento economico onnicomprensivo commisurato a quello previsto per il Primo Presidente della Corte di cassazione che attualmente è di euro 240.000,00. È di tutta evidenza che detto limite, "irraggiungibile" per l'Avvocatura degli enti locali, riguarda di fatto soltanto l'Avvocatura dello Stato;

b) il principio generale per cui i compensi possono essere erogati soltanto in caso di "sentenza" favorevole o comunque in caso di provvedimento avente ex lege contenuto decisorio (es. ordinanze 702-quater c.p.c., decreto ingiuntivo non opposto, ordinanza ex art. 348-ter c.p.c), indipendentemente dalla formazione del giudicato;

c) nel caso di sentenza favorevole con il recupero delle spese legali a carico di controparte:

per gli avvocati degli enti pubblici, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti nella misura e con le modalità definite dai "rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7" mentre "la parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione" (comma 3). Ciò significa che l'ammontare delle spese erogate al singolo avvocato dell'ufficio nel corso dell'anno non può essere superiore al trattamento complessivo dell'interessato;

per gli avvocati dello Stato, "il 50 per cento delle somme recuperate secondo le previsioni regolamentari dell'Avvocatura dello Stato, adottate ai sensi del comma 5. Un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato, da attribuire previa procedura di valutazione comparativa. Il rimanente 25 per cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all'art. 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni" (comma 4);

rientrano nell'ambito della regolamentazione interna e della contrattazione integrativa decentrata soltanto:

1. l'individuazione dei criteri di riparto delle somme recuperate a seguito di sentenza favorevole tra gli avvocati dipendenti dello stesso ufficio, tenendo conto di "indicatori" il più oggettivi possibile e quindi misurabili, e comunque incentrati sul rendimento o "performance" individuale, come ad esempio la puntualità degli adempimenti processuali (comma 5). In altri termini, le regole interne devono prevedere parametri di virtuosità nella "distribuzione" dei compensi;

2. l'individuazione dei "criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo princìpi di parità di trattamento e di specializzazione professionale" (comma 5);

d) In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese (e quindi non solo di sentenza), ivi compresi i casi di transazione conclusi dopo sentenza favorevole (comma 6), fermo restando i criteri stabiliti in sede regolamentare e decentrata in ordine alla ripartizione delle spese tra gli avvocati dell'ufficio, scatta anche un limite economico (che si aggiunge a quello relativo al divieto di superamento del tetto di trattamento economico individuale) e cioè non possono essere erogati compensi oltre il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013;

e) I tetti ai compensi per le cause vinte con compensazione delle spese nonché per quelle vinte con condanna al pagamento delle spese legali si applicano dalla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni regolamentari e contrattuali. Per le cause vinte con compensazione delle spese le nuove regole si applicano alle sentenze depositate dopo la data di entrata in vigore del Dl, e quindi dal 25 giugno in avanti (comma 8). Le

amministrazioni hanno tempo tre mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione (entro la fine di novembre) per approvare i regolamenti interni e i contratti collettivi o adeguarli alle nuove disposizioni; in difetto, fermo restando i diritti maturati dagli interessati, non potrà essere elargito alcun compenso a partire dal 1° gennaio 2015.

Certezze e spunti applicativi della nuova disciplina

L'approvazione del "nuovo" articolo 9 segna senza dubbio un punto importante a favore delle Avvocature degli enti locali sia sotto il profilo economico che sotto il profilo professionale. Viene ripristinato, anzi rafforzato, in capo a tutti gli avvocati, siano essi dirigenti o funzionari, il diritto a percepire per intero non solo i compensi professionali a seguito di giudizi conclusisi vittoriosamente con spese a carico di controparte, ma, a differenza di quanto inopinatamente introdotto nel "vecchio" Dl n. 90/2014, anche di quelli decisi a spese compensate. Trattandosi di un diritto soggettivo riconosciuto direttamente dalla legge che, in definitiva, si è "riappropriata" della materia, nessuna norma interna né tanto meno di natura contrattuale può ridurre o limitare a svantaggio dell'avvocato il quantum delle spese liquidate a carico della parte soccombente. In altri termini, non vi è alcun ulteriore limite al percepimento dei compensi professionali nella loro integrità, a eccezione del tetto retributivo individuale e, per le spese compensate, del rispetto di quanto stanziato nel 2013. Sotto questo aspetto, la disposizione è addirittura più vantaggiosa non solo rispetto al Dl n. 90/2014 ma anche rispetto alla legge di stabilità del 2014 che imponeva agli avvocati pubblici il sacrifico di una percentuale di guadagni sulle cause vinte sull'altare del contenimento della spesa pubblica. È altrettanto evidente che, maturandosi il diritto al compenso professionale e il relativo obbligo per la PA di liquidarlo per effetto rispettivamente di una sentenza favorevole e del successivo accertamento nel relativo capitolo di entrata, incorrerà in responsabilità da ritardo nei confronti del singolo professionista l'amministrazione che lascerà spirare il termine del 31 dicembre 2014 senza aver adottato i regolamenti e i contratti di cui al comma 8. Sul versante "interno", viceversa, si pone il problema di configurare in concreto i criteri tecnico-discrezionali in base ai quali ripartire tra gli avvocati dello stesso ufficio le c.d. 'Propine', di cui il legislatore offre soltanto degli spunti indicativi (la puntualità negli adempimenti professionali). Viene lasciata alla potestà regolamentare e alla contrattazione collettiva decentrata, unicamente la determinazione della "misura e delle modalità" il riparto delle somme tra colleghi dell'ufficio. Dal punto di vista procedimentale, il sistema sembra prevedere un duplice passaggio: un riconoscimento a livello contrattuale ai fini dell'inquadramento dei compensi in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione e una definizione specifica, in relazione alla specifica realtà organizzativa di ciascun ente, contenente le concrete regole di distribuzione. Resta da vedere nel caso, peraltro ordinario, di un ufficio composto da un Avvocato con qualifica dirigenziale e avvocati funzionari a quale livello (dirigenziale o meno) attivare la contrattazione decentrata. Dal punto di vista sostanziale, la questione è essenzialmente quella di misurare il grado di performance professionale posta in essere dall'avvocato in relazione all'attività svolta in sede contenziosa e non. Potranno essere al riguardo introdotti criteri quali la complessità e il valore economico delle cause trattate, il numero delle parti, le novità delle questioni affrontate, la sinteticità della difesa tecnica, il tempo dedicato all'affare in relazione alla sua urgenza, il parere rilasciato ante causam cui la sentenza poi si è conformata ecc. Non pare un fuor d'opera "oggettivizzare" quelli che sono gli indicatori utilizzati dalla PA per valutare al suo interno la performance dei dipendenti quali in via esemplificativa:

il grado di polivalenza funzionale e di "versatilità" nell'assolvimento delle attribuzioni di competenza, puntualità e precisione nell'assolvimento delle mansioni (l'avvocato specializzato in più materie potrà essere premiato di più);

il grado di autonomia nell'assolvere le funzioni assegnate (un conto è essere nel mandato defensionale da solo, un altro congiuntamente ad altri colleghi dell'ufficio);

capacità di trasmettere le proprie competenze nell'ambito lavorativo di appartenenza (avvocato consulente);

capacità di affrontare positivamente nuove situazioni e problematiche giuridiche non previste, capacità di elaborare contributi originali proponendo soluzioni e metodologie innovative, disponibilità a proporsi e a partecipare alle esigenze di flessibilità del contesto lavorativo e di riferimento, assunzione di responsabilità di procedimenti di particolare complessità con connessa adozione del relativo provvedimento finale (non espressivo di volontà), grado di conoscenza degli aspetti normativi e procedurali e livello di competenza tecnico-professionale).

Con riguardo invece ai criteri di distribuzione degli affari contenziosi e di selezione dei colleghi cui destinarne la trattazione, pare opportuno ispirarsi a ciò che grossomodo avviene nei Tribunali civili e penali in sede di assegnazione dei ruoli, laddove il Presidente (nel nostro caso sarebbe il Dirigente avvocato la cui autonomia dirigenziale sarebbe vincolata dalle norme regolamentari interne) attribuisce il singolo affare a questo o a quel magistrato, tenendo conto della sua "specializzazione" in materia (ad esempio la frequenza a master in determinate discipline) o della sua esperienza del caso concreto o anche in virtù del sua anzianità professionale (ad esempio, l'avvocato cassazionista, sfruttando il titolo, potrà occuparsi preferibilmente di ricorsi in cassazione). Sarebbe opportuno a tal proposito formulare da parte della categoria interessata o anche del singolo consiglio dell'Ordine opportunamente coinvolto, una sorta di "decalogo" o di vademecumcontenente detti criteri in modo da facilitare alle varie amministrazioni l'opera di adeguamento dei regolamenti e dei contratti, anche a livello individuale, alle nuove disposizioni così come richiesto dall'articolo 9, comma 8. In attesa dell'entrata a regime della nuova disposizione, il dato certo è che essa appare coerente con il principio sancito dall'art. 23, legge n. 247 del 31 dicembre 2012 (Legge di Riforma dell'Ordinamento Forense) che riconosce agli avvocati pubblici "un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta", ciò che il Dl n. 90/2014 aveva quasi del tutto cancellato ma che con fare di "gattopardesca" memoria un "illuminato" Legislatore ha ripristinato, valorizzando finalmente il ruolo, l'importanza e il prestigio che l'Avvocatura pubblica oggi più che mai assume all'interno della pubblica amministrazione.

Non retroattivi i nuovi incentivi ai progettisti La nuova disciplina degli incentivi alla progettazione non ha efficacia retroattiva, ma si applica solo a decorrere dal 19 agosto 2014

Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, che con il parere n. 183/2014 si è pronunciata sulla decorrenza della riforma introdotta dalla legge 114/2014, di conversione del dl 90. In particolare, viene in considerazione l'art. 13-bis, che ha abrogato i commi 5 e 6 dell'art. 92 del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) e ha inserito 4 nuovi commi (da 7-bis a 7-quinquies) al successivo art. 93 In base a questi ultimi, ciascuna amministrazione deve istituire (con apposito regolamento) un fondo in cui far confluire una somma fino al 2% degli importi a base di gara. Di tali somme, l'80% verrà ripartito al progettisti interni, mentre il restante 20% sarà destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché

all'ammodernamento ed efficientamento dell'ente e dei servizi ai cittadini. In ogni caso, i premi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non potranno superare il 50% trattamento economico complessivo annuo lordo. Gli incentivi, inoltre, sono ora espressamente collegati alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche a mete attività di pianificazione territoriale e, in ossequio al principio della onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, non spettano ai dirigenti.Tuttavia, hanno chiarito in magistrati contabili, la nuova disciplina non è applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica, ma scatta solo dall'entrata in vigore della l 114 e quindi, come detto, dal 19 agosto. Il parere in commento suggerisce anche come regolarsi rispetto al pregresso chiarendo che fino al 19 agosto continuano ad applicarsi le regole previgenti. Rimane il dubbio se la novella si applichi per le sole opere progettate dopo tale data (facendo quindi salvi tutti gli impegni assunti prima) o valga, invece, per tutte le liquidazioni successive, anche se riferite a opere progettate quando era in vigore la precedente normativa. A parere di chi scrive è preferibile la prima lettura.

La Corte conti Lombardia ribadisce l'esigenza di consolidamento dei bilanci locali Personale, l'in house non vale Consorzi e aziende speciali nel calcolo delle spese Gli enti locali, ai fini del rispetto dell'obbligo di contenimento delle spese di personale, devono considerare anche quelle dei consorzi e delle aziende speciali da essi partecipati, ma non quelle delle proprie società in house.

Lo ha chiarito (confermando il proprio orientamento sul punto) la Corte dei conti - Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con il parere n. 237/2014.

La pronuncia ribadisce l'esigenza del consolidamento delle spese di personale del «gruppo ente locale», che comprende i diversi sistemi organizzativi nei quali, ormai, si articola l'amministrazione pubblica. Tale esigenza, tuttavia, non può essere assolutizzata, ma deve essere sempre letta alla luce del contesto e dell'evoluzione normativa.

Da qui l'esclusione delle spese di personale delle società in house, tenuto conto delle controproducenti rigidità gestionali che ne deriverebbero: tali compagini, infatti, di norma, gestiscono servizi caratterizzati da picchi di attività ultra-annuali, che rischierebbero di falsare le serie storiche. Al contrario, vanno consolidate le aziende speciali, alla luce del rapporto di immedesimazione organica e funzionale con l'ente partecipante che le caratterizza. Stesso discorso per i consorzi, vista la loro stretta strumentalità (che rasenta l'immedesimazione organica e funzionale). Ricordiamo che i limiti alle spese di personale sono quelli previsti dall'art. 1, commi 557 e 562, della l 296/2006: gli enti soggetti al Patto di stabilità interno devono garantire il contenimento rispetto al valore medio del triennio 2011-2013, mentre quelli non soggetti non devono superare il valore del 2008. Fanno eccezione i soli enti (soggetti al Patto) che nel 2012 partecipavano alla sperimentazione del nuovo sistema contabile. In tal caso, come chiarito dal recente parere n. 73024/2014 del Mef, la base di calcolo è pari al doppio della spesa 2011 + la spesa 2013 diviso 3. Ciò per sterilizzare gli effetti derivanti dall'applicazione del nuovo principio della competenza finanziaria potenziata

Pesano le indicazioni dei ccnl Per il conferimento di incarichi requisiti vincolati ai contratti La pubblica amministrazione nel conferire incarichi di posizione organizzativa può legittimamente inserire dei criteri d'accesso, purché essi siano conformi alla contrattazione collettiva

.Il caso riguarda un caposervizio addetto alla manutenzione stradale di un Comune, che aspirava a ricoprire uno degli incarichi per i quali venivano richiesti il possesso del diploma di laurea e

l'inquadramento nella categoria D3, due requisiti da lui non posseduti. Il caposervizio, ritenendo che la previsione di tali criteri lo escludesse illegittimamente dall'attribuzione della posizione organizzativa, tenuto anche conto delle mansioni che aveva ricoperto, aveva fatto ricorso prima al Tribunale di Macerata, che aveva respinto l'istanza, poi alla Corte d'appello, la quale aveva confermato quanto deciso in primo grado Nell'esaminare i motivi di ricorso, la Cassazione, con sentenza 19223 pubblicata lo scorso 11 settembre, preliminarmente non manca di ribadire un principio, ormai acquisito, che qualifica il bando di selezione per il conferimento delle posizioni organizzative non come atto amministrativo, ma come atto assunto con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro (ex art. 5, comma 2 del Dlgs 165/01). La decisione in merito ai criteri da assumere ai fini dell'attribuzione delle posizioni organizzative costituisce, pertanto, un atto di gestione che afferisce alla sfera di discrezionalità del datore di lavoro. Tale discrezionalità non può, tuttavia, trasformarsi in arbitrio e per questo non solo la scelta del soggetto a cui conferire l'incarico non può prescindere da una valutazione comparativa degli aspiranti (Cass. Civ. Sez. Lav. 16 luglio 2014 n. 16247), ma anche i criteri assunti ai fini dell'attribuzione della posizione organizzativa sono sottoposti al limite del rispetto dei principi di correttezza e buona fede che presiedono allo svolgimento del rapporto di lavoro (articoli 1175 e 1375 c.c.). Nel verificare se, nel caso di specie, si fosse agito conformemente a tali principi i giudici di legittimità fanno salva la decisione dell'ente convenuto. Tra i criteri che l'articolo 9, comma 2 del ccnl del comparto Regioni-Autonomie locali prevede ai fini del conferimento delle posizioni organizzative viene indicato, infatti, anche quello relativo ai «requisiti culturali posseduti». La valorizzazione del possesso della laurea e dell'inquadramento nella categoria D3 risulterebbe quindi conforme ai criteri indicati dalla contrattazione collettiva e ciò varrebbe ad escludere, secondo la Corte, che nel caso in esame abbia potuto verificarsi una violazione dei principi di correttezza e buona fede a danno del ricorrente. Nell'indicare i criteri per il conferimento degli incarichi di posizione organizzativa, il contratto collettivo connette, tuttavia, la loro concreta regolamentazione da parte degli enti «rispetto alle funzioni e alle attività da svolgere». C'è da chiedersi, allora, se nel caso di specie la restrizione ai soli soggetti in possesso di laurea e inquadrati nella categoria D3 fosse realmente giustificabile in relazione all'oggetto dell'incarico di posizione organizzativa che si andava ad assegnare. Ma è questo un aspetto che avrebbe dovuto essere oggetto di specifiche allegazioni e di comprovate circostanze da parte del ricorrente nei pregressi gradi di merito, non più valutabile, qualora non tempestivamente dedotto, in sede di legittimità.

Antimafia, tempi più stretti per il rilascio dei nullaosta alle imprese di Mauro Salerno

Termini ridotti per i nulla osta alle imprese, stop alle verifiche su minorenni e familiari residenti all'estero, controlli più attenti (quando necessario) sugli appalti di piccola taglia. Sono le principali novità contenute nel secondo decreto correttivo del codice antimafia (il Dlgs 159/2011, già oggetto di una pesante riscrittura a fine 2012) approvato in via definitiva dal Governo, dopo il passaggio parlamentare sullo schema di decreto varato in prima battuta a luglio.

Rispetto a quel testo, l'esame da parte delle commissioni di Camera e Senato, ha portato una novità. Riguarda i controlli antimafia necessari alla concessione di contributi, finanziamenti e agevolazioni pubbliche. Per poterli ottenere i beneficiari dovranno esibire una fideiussione a garanzia dell'autocertificazione con cui dichiarano di essere in possesso dei requisiti antimafia: clausola richiesta in Parlamento per scongiurare il danno patrimoniale a carico delle casse pubbliche nel caso i controlli successivi dessero riscontri negativi.

Per il resto il decreto conferma il mix di misure di semplificazione delle procedure abbinate a una linea più attenta alla sostanza che al rigore formale. La prima correzione riguarda i soggetti da sottoporre alle verifiche antimafia. Il provvedimento conferma che i controlli vanno estesi ai familiari conviventi, ma chiarisce che da questo gruppo vanno esclusi i minori e i residenti all'estero. Un altro intervento riguarda i contratti d'urgenza che ora spesso rimangono "congelati" in attesa del nulla osta prefettizio. Di norma, per il rilascio dell'informativa ai prefetti viene concesso un termine minimo di 45 giorni, prorogabile di altri 30. Per gli appalti d'urgenza già ora questo termine si riduce a 15 giorni. Con le nuove misure, le amministrazioni potranno bypassare anche questo termine e dare corso agli appalti urgenti subito, salvo risolvere il contratto in caso di esito negativo delle verifiche.

Ma non solo. I termini per il rilascio della documentazione antimafia vengono accorciati in via generale. Per la comunicazione – nullaosta che analizza solo i casi in cui la connivenza con ambienti criminali sia provata dall'adozione di misure di prevenzione o di sentenze di condanna – si passa a 30 giorni, rispetto agli attuali 45, prorogabili di altri 30 nei casi di particolare complessità. Anche per le informazioni antimafia – che oltre alle sentenze analizzano e puniscono i casi di infiltrazioni emersi nel corso di indagini di polizia – si scende a 30 giorni, fatta salva una proroga dai altri 45 giorni per scogliere le riserve nei casi più difficili. Sia nel caso di richiesta di comunicazione che di informativa antimafia, decorso il primo termine di 30 giorni, la Pa potrà procedere con il contratto o con l'attribuzione di contributi pubblici, salvo la revoca del contratto (con pagamento delle prestazioni già eseguite) in caso di esito negativo dei controlli finali.

Previsto anche un giro di vite sugli appalti di taglia medio-piccola, vero terreno di coltura delle infiltrazioni mafiose. L'attuale sistema prevede che gli interventi compresi tra 150mila e 5,18 milioni di euro possano essere assegnati sulla base della semplice comunicazione antimafia. Controllata l'assenza di condanna o di misure di prevenzione sui rappresentanti dell'impresa, ora scatta il via libera anche per le aziende che in realtà sono "in odore" di infiltrazione. Con le nuove regole, in caso di ombre, anche per gli appalti compresi tra questi importi il prefetto potrà emanare un provvedimento interdittivo alla stipula dei contratti, basato sugli elementi raccolti nel corso delle indagini. Sia la comunicazione, sia l'informazione interdittiva antimafia dovranno essere comunicate dal prefetto all'impresa entro cinque giorni dalla sua adozione.

Il Dlgs semplifica anche la norma sulla competenza territoriale. Con l'approvazione del decreto sarà esclusivamente competente al rilascio della documentazione antimafia il prefetto del luogo ove ha sede l'impresa invece invece che dell'amministrazione richiedente, «a tutto vantaggio della completezza, dell'efficacia e dell'approfondimento dei riscontri informativi», nota il Governo. L'intervento approvato oggi dal Consiglio dei ministri dovrà trovare il suo completamento con la prossima pubblicazione del regolamento sul funzionamento della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, «che ha recentemente concluso il suo iter formativo».

Orientamenti applicativi delle Regioni-autonomie locali e dei segretari comunali e provinciali

Retribuzione giornaliera del personale dirigente, assenza per malattia e ferie, trattamento economico accessorio e risorse.

La retribuzione giornaliera del personale dirigente dell’Area II (Regioni-autonomie locali) si determina dividendo la retribuzione mensile per ventisei o per 30?

L’avviso dellAran è nel senso che la retribuzione giornaliera del personale con qualifica dirigenziale debba essere calcolata, secondo un principio generale, dividendo convenzionalmente la retribuzione mensile per 30.

Manca, infatti, nella vigente disciplina contrattuale di tale particolare categoria di personale (Area II), una regola analoga a quella stabilita per il personale non dirigente dall'art. 52, comma 4, del CCNL del 14.9.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del 9.5.2006, secondo la quale in tutti

i casi in cui occorre retribuire una prestazione lavorativa o effettuare un recupero, in relazione ad un periodo non lavorato, la cui durata risulti inferiore al mese, per la determinazione del valore economico della retribuzione giornaliera trova applicazione la regola del “divisore 26”, ivi indicato.

Un dipendente assente per malattia, alla fine del predetto periodo di assenza, deve necessariamente rientrare in servizio o può, senza che vi sia ripresa dell’attività lavorativa, fruire immediatamente delle ferie subito dopo il termine del periodo di malattia?

In relazione a tale problematica, si rileva che nessuna disposizione, legale o contrattuale, vieta in assoluto la fruizione delle ferie da parte del dipendente, dopo la fruizione di un periodo di assenza per malattia dello stesso.

Tuttavia, si deve ricordare che, in base all’art. 2109 del codice civile e all’art. 18 del CCNL del 6.7.1995, la fruizione delle ferie deve essere sempre preventivamente autorizzata dal competente dirigente, che deve valutare la compatibilità delle stesse con le prioritarie esigenze di servizio.

Pertanto, il dipendente dovrà sempre formulare, in via preventiva, una specifica richiesta in tal senso al dirigente e solo a seguito dell’intervenuta autorizzazione potrà assentarsi dal servizio a titolo ferie.

Quali sono gli istituti del trattamento economico accessorio del personale che devono essere necessariamente finanziati con le risorse aventi carattere di certezza, stabilità e continuità, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del CCNL del 22.1.2004?

L’avviso dell’Aran è nel senso che devono essere finanziati necessariamente con oneri a carico delle risorse decentrate stabili effettivamente disponibili presso ciascun ente i seguenti istituti del trattamento economico del personale:

a)   la progressione economica orizzontale, di cui all’art. 5 del CCNL del 31.3.1999;

b)   la retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative negli enti con dirigenza nonché negli enti privi di dirigenza diversi dai comuni e dalle unioni di comuni, per i quali trova applicazione la disciplina dell’art. 11 del CCNL del 31.3.1999;

c)   la quota dell’indennità professionale del personale educativo degli asili nido, di cui all’art. 31, comma 7, del CCNL del 14.9.2000 ed all’art. 6 del CCNL del 5.10.2001;

d)   la quota dell’indennità di comparto di cui all’art. 33, comma 4, lett. b e c, del CCNL del 22.1.2004.

Per completezza informativa, si ricorda che sono stati posti a carico delle medesime risorse decentrate stabili anche gli oneri per il finanziamento per la riclassificazione di alcune categorie di personale, secondo le previsioni del CCNL del 31.3.1999.

Nell’esercizio del potere di segnalazione di cui all’articolo 21 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato intende formulare alcune osservazioni in merito all’“affidamento del servizio di recupero stragiudiziale dei crediti derivanti dal mancato pagamento dei tributi comunali non ancora esecutati dall’ente, nonché dei crediti derivanti dal mancato pagamento delle sanzioni per violazione del codice della strada - CIG 56602634CA”.

Il bando di gara in oggetto prevede, tra i requisiti di ammissione, “l’aver gestito per almeno 2 anni non consecutivi e nel quinquennio precedente, servizi analoghi a quelli posti a bando per almeno 2 comuni o P.A. di pari grado o superiore”. Inoltre, è prevista la necessità di raggiungere un risultato minimo di riscossione delle somme da recuperare e il rilascio di un’apposita cauzione per tale somma.

Dall’analisi degli atti di gara e dalle segnalazioni ricevute dal mercato emergono criticità di natura concorrenziale. Per quanto riguarda, nello specifico, la necessità che i soggetti partecipanti

alla gara abbiano “gestito per almeno 2 anni non consecutivi e nel quinquennio precedente, servizi analoghi a quelli posti a bando per almeno 2 comuni o P.A. di pari grado o superiore” si evidenzia che i requisiti di accesso alla gara dovrebbero essere tali da delineare maggiori opportunità di partecipazione alle imprese presenti nel settore e pertanto non devono produrre l’effetto di limitare ingiustificatamente la partecipazione mediante la fissazione di criteri di preselezione eccessivamente rigidi. Si rileva, quindi, la necessità di consentire alle imprese interessate alla presentazione di un’offerta di poter provare la propria capacità tecnica mediante strumenti alternativi giudicati idonei dalla stazione appaltante. Tale modifica consentirebbe di ampliare il numero di concorrenti in grado di partecipare alla gara, non penalizzando, ad esempio, società che hanno maturato un’esperienza qualificata in diversi contesti come nel caso di committenti privati. Invece, con riferimento alla previsione di un risultato minimo di riscossione delle somme da recuperare, per una cifra pari al 10% dell’importo a bando, si rileva che una simile disposizione potrebbe costituire un limite dal lato dell’offerta disincentivando la partecipazione alla gara. Del resto l’esito deserto appare mostrare che i vincoli del bando producono una restrizione allo svolgimento della procedura concorsuale. Una previsione come quella in oggetto dovrebbe quindi essere fissata a livelli economicamente sostenibili individuati a seguito di specifiche analisi di mercato. In ogni caso, tali previsioni dovrebbero essere supportate da un’esplicita motivazione legata alla natura del servizio oggetto di appalto.

Pertanto, l’Autorità auspica che i futuri bandi di gara per “l’affidamento del servizio di recupero stragiudiziale dei crediti derivanti dal mancato pagamento dei tributi comunali” accolgano le indicazioni dell’Autorità al fine di consentire un più ampio confronto competitivo, in particolare, consentendo alle imprese interessate alla presentazione di un’offerta di poter provare la propria capacità tecnica mediante altri criteri alternativi ritenuti adeguati dalla stazione appaltante e stabilendo il livello minimo del risultato di riscossione delle somme da recuperare, ove necessario, a livelli economicamente sostenibili, specificatamente individuati a seguito di analisi di mercato.

Indisponibilità del credito tributario: l'ente non può deliberare la non applicazione di sanzioni ed interessi per i tributi locali

Categorie: Tributi

La Corte dei Conti, sezione di controllo per la Regione siciliana, nella Deliberazione n. 106/2014/PAR ribadisce con fermezza che il Comune non può rinunciare a sanzioni ed interessi relativamente alla TARES e alla TIA. E' consolidato il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, sicché l’ente impositore –eccettuate specifiche disposizioni di legge- non può rinunciare neppure alle sanzioni e agli interessi relativi ai tributi. Nel caso di specie, un Comune aveva deliberato di concedere ai contribuenti, che non hanno pagato la TIA 2012 e la TARES 2013 entro le scadenze stabilite, la possibilità di pagare i suddetti tributi entro il 30 giugno 2015 senza applicare le sanzioni e gli interessi di legge. Non ostano al principio in esame gli strumenti deflativi del contenzioso tributario o di definizione concordata dei tributi, introdotti dal legislatore che "non costituiscono una negazione del principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, ma rappresentano deroghe che, in quanto applicabili alle sole ipotesi e secondo le modalità rigorosamente circoscritte dal legislatore, confermano la vigenza del principio." Anche nell'accertamento con adesione e nella conciliazione giudiziale deve rispettarsi il principio di indisponibilità dell'obbligazione tributaria, sicché il funzionario può essere responsabile di danno erariale (Corte Conti, sez. giurisdizionale Sicilia, 16/03/2005, n. 512)..

a materia delle riduzioni e delle esenzioni in materia di TARI è prevista in diverse disposizioni che si presentano in modo articolato. Ci sono le agevolazioni specifiche e quelle di carattere generale. Nella predisposizione del regolamento comunale del tributo si deve tener conto di tutte queste disposizioni. Si può fare il punto della situazione? a cura di Girolamo Ielo

Le riduzioni e le esenzioni in materia di TARI sono diverse e possono essere sunteggiate per punti.

Riduzione per i rifiuti speciali assimilati. Per i produttori di rifiuti speciali assimilati agli urbani, nella determinazione della TARI, il comune disciplina con proprio regolamento riduzioni della quota variabile del tributo proporzionali alle quantità di rifiuti speciali assimilati che il produttore dimostra di aver avviato al riciclo, direttamente o tramite soggetti autorizzati. Con il medesimo regolamento il comune individua le aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili e i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all'esercizio di dette attivita' produttive, ai quali si estende il divieto di assimilazione.

Riduzione per mancato svolgimento servizio. Il tributo è dovuto nella misura massima del venti per cento della tariffa, in caso di mancato svolgimento del servizio.

Riduzione per servizio svolto in violazione norme. Il tributo è dovuto nella misura massima del venti per cento della tariffa in caso di effettuazione del servizio di gestione dei rifiuti in grave violazione della disciplina di riferimento.

Riduzione per interruzione servizio. Il tributo è dovuto nella misura massima del venti per cento della tariffa i caso di interruzione del servizio per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi che abbiano determinato una situazione riconosciuta dall'autorità sanitaria di danno o pericolo di danno alle persone o all'ambiente.

Riduzione zone non servite. È prevista una riduzione per i locali e le aree situati nelle zone in cui non è effettuata la raccolta. In questo caso il tributo è dovuto in misura non superiore al quaranta per cento della tariffa, graduabile tenendo conto della distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita.

Riduzione raccolta differenziata utenze domestiche. Per quanto riguarda questa agevolazione non è prevista una misura specifica. Il legislatore si limita a dire che nella modulazione della tariffa sono "assicurate" riduzioni per la raccolta differenziata riferibile alle utenze domestiche.

Riduzione/esenzione abitazione con unico occupante. Nel caso di abitazioni con unico occupante il comune con regolamento può prevedere riduzioni tariffarie ed esenzioni. Non è stabilita una misura massima.

Riduzione/esenzione abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale, limitato, discontinuo. Nel caso di abitazioni nel caso di abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale od altro uso limitato e discontinuo il comune con regolamento può prevedere riduzioni tariffarie ed esenzioni. Non è stabilita una misura massima.

Riduzione/esenzione locali ed aree adibite ad uso stagionale, non continuativo. Nel caso di locali, diversi dalle abitazioni, ed aree scoperte adibiti ad uso stagionale o ad uso non continuativo, ma ricorrente, il comune con regolamento può prevedere riduzioni tariffarie ed esenzioni. Non è stabilita una misura massima.

Riduzione/esenzione abitazioni occupati da residenti all'estero. Nel caso di abitazioni occupate da soggetti che risiedano o abbiano la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero, il comune con regolamento può prevedere riduzioni tariffarie ed esenzioni. Non è stabilita una misura massima.

Riduzione/esenzione fabbricati rurali ad uso abitativo. Nel caso di fabbricati rurali ad uso abitativo il comune con regolamento può prevedere riduzioni tariffarie ed esenzioni. Non è stabilita una misura massima. L'agevolazione è limitata ai soli fabbricati rurali ad uso abitativo: per le altre fattispecie non si rende applicabile l'agevolazione.

Ulteriori riduzioni ed esenzioni e copertura costi. Il comune con il regolamento può deliberare ulteriori riduzioni ed esenzioni rispetto a quelle previste per le abitazioni con unico occupante, per le abitazioni ad uso stagionale, per i locali e aree ad uso stagionale, non continuativo, per le abitazioni occupate da residenti all'estero e per i fabbricati rurali ad uso abitativo(innanzi viste). La relativa copertura può essere disposta attraverso apposite autorizzazioni di spesa e deve essere assicurata attraverso il ricorso a risorse derivanti dalla fiscalità generale del comune.

Riduzioni ed esenzioni e ISEE. Il comune con il regolamento disciplina eventuali riduzioni ed esenzioni che tengano conto della capacità contributiva della famiglia attraverso l'applicazione dell'ISEE.

Riduzioni rifiuti speciali. Il comune in sede tregolamentare provvede alla individuazione di categorie di attività produttive di rifiuti speciali alle quali applicare, nell'obiettiva difficoltà di delimitare le superfici ove tali rifiuti si formano, percentuali di riduzione rispetto all'intera superficie su cui l'attività viene svolta.

Riduzioni ed esenzioni previste da norme di carattere generale. Ulteriori agevolazioni, sotto forma di riduzioni ed esenzioni, possono essere deliberate dal comune per ragioni meritevoli di considerazione, anche non collegate alla capacità di produzione di rifiuti. A questo proposito i comuni possono attingere da alcune disposizioni che prevedono la facoltà per questi enti locali a concedere agevolazioni per i tributi locali, e quindi anche per la TARI. Ecco un elenco: Zone precluse al traffico (comma 86, art. 1, L. 28 dicembre 1995, n. 549), ONLUS ( art. 21, D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460), Associazioni promozione sociali (art. 23,legge 7 dicembre 2000 n. 383), Istituzioni pubbliche di assistenza (art. 4, D.Lgs. 4 maggio 2001, n. 207), Piccoli operatori economici che operano nei piccoli centri ( comma 1, art. 10, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114), Attività in posteggi (comma 17, art. 28, D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114).

Riferimenti normativi e contrattualiL. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 1, comma 86D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, art. 21D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, art. 10D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, art. 28L. 7 dicembre 2000 n. 383, art. 23D.Lgs. 4 maggio 2001, n. 207, art. 4L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 649 L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 656L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 657L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 658L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 659L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 660L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 682

I conteggi sulla spesa del personale vanno effettuati sulla spesa sostenuta con esclusione delle somme previste ma non erogate

La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi (...continua).

Corte dei Conti - Sezione Autonomie - Deliberazione del 6 ottobre 2014

La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per il Piemonte, con deliberazione del 6 ottobre 2014 ha enunciato il seguente principio di diritto "A seguito delle novità introdotte dal nuovo art. 1, comma 557 quater, della legge n. 296/2006, il contenimento della spesa di personale va assicurato rispetto al valore medio del triennio 2011/2013, prendendo in considerazione la spesa effettivamente sostenuta in tale periodo, senza, cioè, alcuna possibilità di ricorso a conteggi virtuali. Nel delineato contesto, le eventuali oscillazioni di spesa tra un'annualità e l'altra, anche se causate da contingenze e da fattori non controllabili dallì'ente, trovano fisiologica compensazione nel valore medio pluriennale e nell'ampliamento della base temporale di riferimento".

LA PERDURANTE APPLICABILITÀ DEL COMMA 557 DELL'ART. 1 DELLA LEGGE 30 DICEMBRE 2004, N. 311

Il comma 557 dell'articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria per l'anno 2005) prevede testualmente:

«I comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purchè autorizzati dall'amministrazione di provenienza.».

Il Consiglio di Stato, nel parere della Sezione I, n. 2141/2005 del 25 maggio 2005, parere richiesto dal Ministero dell'Interno – Direzione Centrale per le Autonomie – e riportato nella Circolare 2/2005 del 21 ottobre 2005, ha affermato che la disposizione in questione «è fonte normativa speciale ed in quanto tale introduce, nel suo ristretto ambito di efficacia, una deroga al principio relativo all'unicità del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti espresso dall'art. 53, comma 1 del Dlgs n. 165/2001 il quale fa salve le specifiche incompatibilità previste dagli artt. 60 e seguenti del DPR 10 gennaio 1957, n. 3.». Ed ancora che, «necessita di un coordinamento con l'art. 92, comma 1, del d. lgs. n. 267/2000, il quale consente ai dipendenti degli enti locali di svolgere attività lavorativa a favore di altri enti locali soltanto se titolari di un rapporto di lavoro a tempo parziale». Ed inoltre, per quel che concerne i rapporti tra le parti interessate (le due amministrazioni ed il lavoratore), configurerebbe «una situazione non dissimile, nei suoi tratti essenziali, da quelle che consentono l'espletamento di altra attività lavorativa da parte del personale a tempo parziale» e pertanto che le lacunosità della norma possano essere colmabili applicando la vigente disciplina statuita per tali fattispecie (art. 4, comma 7 e seguenti del CCNL del comparto regioni/autonomie locali del 14 settembre 2000), «fatta eccezione per le norme che risultino incompatibili, in relazione al rapporto di lavoro con l'ente di originaria appartenenza, che era e rimane a tempo pieno.».

In ogni caso resta ferma la regola del principio costituzionale del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione e, pertanto, l'utilizzazione del personale dipendente presso altri enti locali sarà consentita solamente qualora le prestazioni lavorative aggiuntive non rechino pregiudizio al corretto svolgimento del rapporto di lavoro presso l'ente di appartenenza. Inoltre, qualora l'utilizzazione da parte dell'altro ente, avvenga sulla base di un rapporto di lavoro subordinato (perché potrebbe avvenire anche sulla base di un rapporto di lavoro autonomo), ed in considerazione della permanenza di un rapporto a tempo pieno, impone una particolare cura

nell'applicazione delle prescrizioni stabilite a tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, in tema di:

orario di lavoro giornaliero e settimanale, che non potrà superare nel cumulo dei due rapporti, la durata massima consentita che, ai sensi dell'art. 4 del Dlgs n. 66/2003, così come modificato dal d. lgs. n. 213/2004, la durata media dell'orario non può superare, per ogni periodo di sette giorni, le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario, durata media che deve essere calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a 4 mesi, escludendo i periodi di ferie e di assenze per malattia

periodo di riposo giornaliero e settimanale, che dovrà essere garantito tenendo conto dell'impegno lavorativo presso i due enti;

ferie annuali che dovranno essere fruite nello stesso periodo. 

Comunque, la norma nasce in quanto il legislatore voleva venire incontro alle esigenze dei piccoli enti consentendo loro di disporre di uno strumento flessibile e non oneroso per ricoprire anche posti di responsabilità, permettendo quindi, anche ai piccoli comuni, di avere delle professionalità per la direzione e la gestione dei propri servizi (Anci – chiarimenti sull'applicazione del comma 557, art. 1 legge 311/2004 del 18/11/2005).

Sembrava che la finanziaria 2008 (legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 3, comma 79), che ha riscritto l'art. 36 del Dlgs n. 165/2001, nell'ambito degli interventi normativi volti ad eliminare il fenomeno del precariato nella pubblica amministrazione, avesse implicitamente abrogato le disposizioni del comma 557 dell'art. 1 della legge 311/2004.

Ma il Dipartimento della Funzione Pubblica, con parere UPPA n. 34 del 23 maggio 2008, scongiurava questa evenienza con la seguente motivazione: «la norma in esame non si pone in conflitto con la ratio della nuova disciplina in materia di rapporti di lavoro flessibile di cui all'art. 36 citato che, come già chiarito, è quella di evitare la formazione di ulteriore precariato nelle pubbliche amministrazioni. Infatti il comma 557 si riferisce a lavoratori già dipendenti e quindi a soggetti già incardinati nell'amministrazione che rilascia l'autorizzazione, configurandosi , come sopra detto, quale deroga al regime di esclusività e non cumulabilità degli impieghi.».

Passando alle questioni maggiormente operative, possiamo sostenere che l'applicazione del comma 557 ad un dipendente dovrebbe comportare la stipula di un nuovo contratto di lavoro a tempo parziale e determinato (che non dovrebbe essere altro che un prolungamento del contratto in essere con l'amministrazione di appartenenza) con l'ulteriore amministrazione che si avvale di tale facoltà (contro > deliberazione della Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti del Veneto n. 17 dell'8 maggio 2008), procedendo anche a disciplinare le modalità operative dell'utilizzo, in una apposita convenzione.

La fattispecie in esame non costituisce “nuova assunzione di personale”, e come tale non è subordinata al rispetto dei vincoli assunzionali vigenti sia per le assunzioni di personale a tempo determinato che per quelle a tempo indeterminato, «ma di un migliore utilizzo delle risorse già in forza nel settore pubblico».

«La spesa derivante dall'utilizzazione del personale ai sensi del citato comma 557 va, comunque, inclusa nei limiti imposti dal legislatore alla spesa di personale» (Corte dei Conti – Sezione di controllo del Piemonte – delibera 281/2012 e Sezione Toscana – delibera n. 6/2012). Pertanto, attualmente, per i comuni sottoposti al patto di stabilità, la riduzione della spesa dell'anno potrà essere misurata con riferimento al valore medio del triennio precedente (art. 1, comma 557-

quater, legge n. 296/2006, così come modificato dall'art. 3, comma 5-bis, del Dl n. 90/2014), mentre per i comuni non soggetti al patto, verrà misurata sulla spesa dell'anno 2008 (art. 1, comma 562, legge 296/2006, così come modificato dall'art. 4-ter, comma 11, della legge n. 44/2012).

Per finire occorre ricordare la Circolare del Ministero dell'Interno n. 2 del 26 maggio 2014, recante “Problematiche applicative in materia di personale dipendente dagli enti locali: art. 1, comma 557, della legge 30 dicembre 2004, n. 311”, emessa in risposta alle richieste di chiarimento di numerosi enti locali di minore dimensione, in relazione alla possibilità di attribuire la responsabilità di un servizio ai dipendenti utilizzati ai sensi del citato comma 557, anche se impiegati per un numero di ore inferiore rispetto a quello previsto dall'art. 4, comma 2-bis del CCNL 14/09/2000, inserito dall'art. 11 del CCNL 22/1/2004, concernente le posizioni organizzative a tempo parziale. Infatti il sopra citato art. 4, comma 2-bis, del CCNL 14/09/2000 prevede espressamente che negli enti privi di dirigenza le posizioni organizzative possono essere conferite anche al personale con rapporto di lavoro a tempo parziale di durata non inferiore al 50% del rapporto a tempo pieno.

Il Ministero dell'Interno, dopo avere richiesto, ancora una volta, un parere al Consiglio di Stato, conclude «tenuto conto del sopravvenuto quadro legislativo, inteso a perseguire la finalità, di primario interesse pubblico, di venire incontro alle difficoltà degli enti di ridotte dimensioni nello svolgimento delle proprie funzioni e nel reperimento di personale con competenze adeguate alla assunzione di responsabilità dei servizi, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, assicurato il rispetto dei limiti esterni soprarichiamati e in presenza di un accordo preventivo tra le Amministrazioni per la gestione dei rapporti di lavoro, l'art. 4, comma 2-bis, del CCNL 14/09/2000 possa ritenersi compatibile con la normativa di cui al comma 557 dell'art. 1 della l. n. 311 del 2004. Alla luce di quanto sopra sarà, quindi, possibile procedere al conferimento della responsabilità di un Ufficio o Servizio al dipendente di un'altra amministrazione, utilizzato ai sensi del citato comma 557, anche nel caso in cui l'utilizzazione non raggiunga il limite del 50% dell'orario di lavoro a tempo pieno.».

Posizioni organizzative al personale in distacco a tempo parziale: le condizioni negli enti privi di dirigenza

Il ministero dell'Interno con la circolare che riprende il parere del Consiglio di Stato in materia di utilizzo di personale dipendente da altre amministrazioni elenca i limiti esterni ed interni entro i quali procedere al conferimento di posizioni organizzative verso dipendenti utilizzati per meno del 50% dell'orario di lavoro a tempo pieno.

Limiti interni ed esterni nel conferimento della titolarità di posizioni organizzative in enti privi di dirigenza a personale di altre amministrazioni utilizzato per meno del 50% dell'orario pieno.

A ricordarli è il ministero dell'Interno nella circolare 26 maggio 2014 n. 2 che riprende il nuovo parere del Consiglio di Stato 1° dicembre 2013 n. 3764 in cui si raccorda la disciplina dell'articolo 53, comma 1, del Dlgs n. 165/2001 all'articolo 4 del CCNL 14 settembre 2000 dei dipendenti degli enti locali e in particolare al comma 2-bis dello stesso articolo.

Limiti esterni sono costituiti dalle regole di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione che consentono l'utilizzazione di personale per le sole prestazioni che non rechino pregiudizio al corretto svolgimento del rapporto di lavoro e non interferiscano con i compiti istituzionali.Limiti interni invece nascono dalle disposizioni di legge che dettano le linee per l'associazionismo

fra enti di minori dimensioni per la gestione in forma associata di funzioni fondamentali che eviti il lievitare della spesa pubblica.

Il quadro legislativo attuale, ricorda il Ministero, ha come finalità quella di venire incontro alle difficoltà degli enti minori nello svolgimento delle proprie funzioni e nel reperimento di personale con competenze adeguate: per questo si ritiene possibile procedere al conferimento della responsabilità di un Ufficio o di un Servizio al dipendente di un'altra amminsitrazione utilizzato ai sensi del comma 557, articolo 1, della legge n. 311/2004, anche nel caso non si raggiunga il limite del 50% dell'orario di lavoro a tempo pieno.

Principi in materia di donazione di immobili o permuta da parte di enti pubblici: ammessi solo a fronte di una "utilitas". Esclusa la mera liberalità.

Interessante parere (deliberazione n. 205/2014) emesso dalla Corte dei conti, sezione regionale della Campania sulla capacità negoziale degli enti pubblici in materia di alienazioni. Il parere, pur essendo "inammissibile", assume una posizione particolaremente rigorosa e limitativa delle donazioni o permute di immobili, in specie appartenenti al demanio culturale, da parte di enti pubblici.In particolare, la Corte esprime l'avviso che tutti gli atti di disposizione del patrimonio pubblico, a prescindere dalla forma giuridica adottata non possono che essere funzionalizzati, in ogni caso, all’interesse pubblico. La perdita di un cespite deve essere adeguatamente compensata da una partita di carattere finanziario o con un’“utilitas” di carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà, servizi). Tale utilitas solo eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di carattere non patrimoniale, in base a precipue ed espresse disposizioni di legge che tipizzano l’interesse tra gli scopi perseguibili dall’ente o che espressamente autorizzano l’alienazione gratuita. Da qui l'incompatibilità con l'interesse pubblico degli atti di alienazione a titolo gratuito con l’interesse pubblico: infatti "l’attribuzione negoziale a titolo gratuito, poiché espone gli enti ad un potenziale impoverimento, riducendone i mezzi patrimoniali, si presume incompatibile con gli scopi istituzionali, sia che si agisca con moduli di diritto pubblico che con strumenti di diritto comune. Come è stato affermato, infatti, il patrimonio degli enti pubblici, ed in particolare degli enti locali, non può non produrre reddito o utilità (SRC Sardegna, deliberazione n. 4/2008/PAR)".Secondo la sezione, pur non esistendo un divieto o una norma che preveda l'incapacità a donare da parte di tutti gli enti, la donazione, in ogni caso, non può integrare una mera “liberalità”. Detto in altri termini "la causa liberale, funzione per la quale un soggetto dell’ordinamento arricchisce in modo unilaterale e spontaneo un altro soggetto, si presume incompatibile con la capacità giuridica riconosciuta agli enti pubblici, in particolare degli enti locali, salvo vi sia un’espressa autorizzazione di legge o una chiara compatibilità con gli scopi istituzionali. Per altro verso, l’ammissibilità nel nostro ordinamento di atti dispositivi atipici a titolo gratuito è fortemente revocata in dubbio, vigendo nel nostro ordinamento il principio di causalità e il filtro di meritevolezza (cfr. sul tema C. Cass. sentenza 20 novembre 1992, n. 12401)." Vi sarebbe, in sostanza, una vera e propria limitazione della capacità giuridica degli enti pubblici: ai sensi della L. 241/1990 può affermarsi che "...il perimetro della capacità giuridica degli enti pubblici non sia coincidente con quella degli altri soggetti di diritto comune, ma vada ritagliata sugli scopi e sui limiti che la legge stabilisce in relazione allo loro esistenza e al loro agire, pena l’integrazione di abusi ed elusione di limiti di legge (cfr. SRC Lombardia n. 513/2013/PRSP), con conseguenze tanto sul piano della validità degli atti che su quello della responsabilità dei soggetti agenti."

La Sezione, tuttavia, non esclude in ogni caso la possibilità di ricorrere alla donazione, purché vi sia una "utilitas" e non si possa procedere ad alienazione a valore di mercato. In particolare ".. a

garanzia dell’utilitas publica, il sacrificio cui gli enti si espongono deve inserirsi in una logica commutativa, ovvero l’impoverimento deve essere compensato dalla realizzazione di un interesse ritenuto normativamente equivalente.Inoltre, occorre adottare la massima cautela sia sotto il profilo causale (mediante la verifica in concreto della sussistenza di significative circostanze soggettive e oggettive giustificative), sia sotto il profilo formale (adeguato percorso procedurale e motivazionale, nonché, adozione delle opportune formalità negoziali). Detto in altri termini, la cessione a titolo gratuito si deve presumere in linea di massima incompatibile con l’interesse pubblico, specie in assenza di una previa verifica della possibilità di alienazioni a titolo oneroso in cui il corrispettivo  sia allineato con il reale valore patrimoniale del bene."Per quanto riguarda, invece, la possibilità di permuta, la Sezione precisa che per "qualsiasi valutazione sulla concreta legittimità di qualsiasi operazione negoziale, con specifico riferimento agli aspetti giuscontabilistici della permuta" occorre che siano rispettati i principi di trasparenza e concorsualità e, nel caso in cui l’operazione comporti un conguaglio in denaro a carico del comune, il comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n. 98/2011. Su quest'ultimo aspetto, pur essendo escluse dall'ambito applicativo le c.d. permute a parità di prezzo, per evitare l’impoverimento patrimoniale dell’ente, anche in caso di permuta “pura”, l’operazione deve essere sostenuta da adeguata istruttoria che documenti il valore degli immobili permutandi ed eventualmente evidenzi in termini la necessità di un conguaglio e le ragioni della congruità della sua determinazione.  "In definitiva, e salvi, in ogni caso, i vincoli che comunque discendono dalla applicabilità delle norme del Codice dei beni culturali, anche la permuta, come atto di disposizione del patrimonio immobiliare pubblico, incontra tutti i limiti cui soggiacciono le alienazioni che interessano beni immobili di interesse religioso, destinati al culto ed eventualmente a carattere culturale". Inoltre, precisa la Corte "poiché il valore storico-artistico corrisponde inevitabilmente ad un elevato valore patrimoniale, la permuta con beni di solo “valore sociale” o ordinario valore di mercato, rischia di costituire una grave occasione di impoverimento dell’ente. Ciò spiega la necessità che, anche in caso di permuta, l’operazione sia preceduta da adeguata istruttoria che documenti il valore degli immobili permutandi, l’eventuale necessità di un conguaglio in denaro e le ragioni della congruità della sua determinazione. Tali operazioni devono essere adeguatamente presidiate dal punto di vista procedimentale e motivazionale, al fine di non integrare occasioni di responsabilità amministrativo-contabile".

In conclusione, riassume la Corte "gli enti locali sono chiamati in primo luogo osservare la disciplina del demanio culturale sopra ricostruita, specie sotto il profilo dei vincoli di inalienabilità (art. 822, 2° comma, c.c. e D.lgs. n. 42/2004); ove il bene non vi rientri o, comunque, ne sia stato sottratto secondo legittime procedure, in base alle sue caratteristiche concrete, gli atti di disposizione di tali beni devono rispettare i limiti sopra richiamati, sotto il profilo procedurale e sostanziale, in particolare sotto il profilo dei vincoli di destinazione. Sul piano negoziale astrattamente considerato, per i medesimi enti, è presunta l’incompatibilità degli atti a titolo gratuito con la disciplina legale a presidio dell’esercizio della discrezionalità di spesa e negoziale degli enti pubblici. Per quanto attiene alla permuta, oltre al rispetto delle norme in materia di alienazioni, l’ente, onde evitare un surrettizio depauperamento del patrimonio pubblico, dovrà far precedere la stessa da un’adeguata stima degli immobili permutandi e da una rigorosa verifica della destinabilità dell’immobile sostitutivo alla pubblica utilità.".

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ITALIA OGGI

Lo stesso soggetto non può candidarsi a rappresentare due comunità Sindaci, no a doppi giochi

Chi guida un ente è ineleggibile per un altroÈ legittima la candidatura a sindaco di candidati di due diverse liste presentate nel comune in questione che ricoprono,uno, la carica di consigliere comunale in un comune, e l'altro, la carica di sindaco in altro ente locale? L'art. 60, comma 1, n,12, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 prevede l'ineleggibilità alla carica di sindaco, presidente della provincia,consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale per chi riveste le stesse cariche, rispettivamente in altro comune, provincia o circoscrizione.

La Cassazione civile, sez.I, con sentenza n. 11894 del 20 maggio 2006 ha interpretato estensivamente la predetta norma, chiarendo che l'ipotesi diineleggibilità alla carica di sindaco opera anche per chi ricopre la carica di consigliere in altro comune. Tali cause di ineleggibilità cessano solo con la presentazione di formali e tempestive dimissioni degli interessati dalla carica

ricoperta, non essendo possibili rimedi equipollenti, quali il collocamento in aspettativa previsto per altre ipotesi di ineleggibilità.La ratio di tale interpretazione si fonda sul principio che il medesimo soggetto «non può far parte di più assemblee rappresentative di altrettante collettività comunali», in nome della esigenza che chiunque è impegnato nella cura diinteressi generali di una comunità comunale, ad essa è vincolato in via esclusiva fino a quando non abbia reciso il legameinstaurato con la sua elezione (cfr sul punto Cassazione civile, sez. I, n. 11894 del 20 maggio 2006 e sentenza della Corte costituzionale 2 marzo 1991, n. 97).

Nella fattispecie, se è pur vero che dopo l'elezione gli interessati rappresentano, ognuno, una sola collettività comunale, al momento della candidatura esiste la condizione di rappresentare una collettività e l'interesse a voler rappresentare un'altra collettività comunale, condizione questa non consentita dalla normativa vigente in materia che prevede, come già detto, l'obbligo delle dimissioni, ai sensi dell'art. 60, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267/2000, al fine di non incorrere nelle cause di ineleggibilità di cui al citato art. n. 60, comma 1, n. 12).

Le cause di ineleggibilità riguardano situazioni idonee a provocare effetti distorsivi nella parità di condizioni tra i vari candidati, nel senso che, avvalendosi della particolare posizione in cui versa, il soggetto non eleggibile può variamente influenzare a suo favore il corpo elettorale. Diversa è la situazione di incompatibilità, che non si riflette sulla parità di condizioni tra i candidati, ma attiene alla concreta possibilità, per l'eletto, di esercitare pienamente le funzioni connesse alla carica per motivi concernenti il conflitto di interessi in cui il soggetto verrebbe a trovarsi se fosse eletto. Di conseguenza, il soggetto ineleggibile deve eliminare ex ante la situazione in cui versa, mentre il soggetto incompatibile è tenuto ad optare ex post, cioè ad elezione avvenuta, tra il mantenimento della precedente carica e il munus pubblico derivante dalla conseguita elezione (cfr. Corte costituzionale n. 283/2010)

Per quanto concerne le iniziative praticabili per far valere l'ineleggibilità, si rammenta che, ai sensi dell'art. 41, comma 1,del richiamato decreto legislativo n. 267/2000, il consiglio comunale dell'ente, nella prima seduta e prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto, dovrà esaminare la condizione degli eletti, per dichiarare la decadenza dell'amministratore interessato, in presenza di una delle cause di ineleggibilità.

Ciò in quanto, fatta salva la norma di chiusura di cui all'art. 70 della stesso decreto legislativo, in conformità al principio generale per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la valutazione in ordine all'eventuale sussistenza di un'ipotesi ostativa all'esercizio del mandato elettorale èrimessa al consiglio comunale del quale l'interessato fa parte.

ITALIA OGGI - Anticipazioni di cassa più facili Il limite va rapportato al saldo tra erogazioni e restituzioni Il limite massimo delle anticipazioni di tesoreria è da intendersi rapportato, in modo costante, al saldo tra erogazioni erestituzioni.

Il chiarimento arriva dalla sezione autonomie della Corte dei conti, che ,con la deliberazione n. 23/2014, ha risolto la questione di massima sollevata dalla sezione regionale di controllo per la Campania in ordine alla corretta interpretazionedell'art. 222, comma 1 del Tuel.

Come noto, tale disposizione autorizza il tesoriere a concedere anticipazioni entro il limite massimo dei tre dodicesimi delle entrate correnti accertate dall'ente richiedente nel penultimo anno precedente.

Il dubbio era se tale meccanismo vada inteso a tutti gli effetti come una sorta di «fido», ovvero se i tre dodicesimi rappresentino un tetto massimo alle somme complessivamente anticipabili dallo stesso, senza tenere conto delle restituzioni medio tempore intervenute.

Per risolvere la questione, la Corte evidenzia come dalla norma citata si rilevino due elementi fattuali che caratterizzano l'attività di anticipazione e, dunque, gli accordi contrattuali, vale a dire: la reiterabilità delle richieste e il limite oltre il qualela richiesta non è proponibile. Il punto focale è rappresentato da questa seconda condizione che, in sostanza, integra una clausola legale automaticamente inserita nel contratto di tesoreria e che vincola il tesoriere quanto l'ente, con la differenza che per il tesoriere non crea a suo carico uno specifico obbligo contrattuale, ma solo la facoltà di potersi legittimamente astenere dal dare esecuzione ad un'eventuale richiesta esorbitante.

Riforma dirigenza pubblica + abolizione Segretari 10/10/2014 - Italia Oggi

La Corte conti boccia la riforma della dirigenza pubblica contenuta nel ddl Madia. La delega «accresce i margini di discrezionalità nel conferimento degli incarichi» e rischia di sacrificare l'autonomia dei dirigenti. La creazione del ruolo unico, l'abolizione dell'attuale articolazione in due fasce, la breve durata degli incarichi attribuiti, «il rischio che il mancato conferimento di una funzione possa provocare la decadenza del rapporto» sono tutti elementi che, secondo la magistratura contabile, potrebbero limitare l'indipendenza dei manager.

L'abolizione dei segretari comunali, poi, «suscita perplessità» ed è controproducente dal punto di vista finanziario perché la previsione di un utilizzo dei segretari comunali di fascia C come dirigenti responsabili anche presso comuni di minori dimensioni, attualmente privi di figure dirigenziali, rischia di produrre «esorbitanze di spesa, a fronte del conferimento di funzioni di scarsa utilità per enti di dimensioni particolarmente ridotte».

In audizione davanti alla commissione affari costituzionali del senato, il presidente della Corte dei conti, Raffaele Squitieri, punta il dito contro uno dei punti più qualificanti del disegno di legge di riforma della p.a., ossia quel ruolo unico della dirigenza pubblica «già sperimentato nelle amministrazioni statali con esiti non del tutto positivi» tra il 1998 e il 2002.

Francesco Cerisanol

'analisi

Il differente regime applicabile ai debiti fuori bilancio e alle passività pregresse di Salvio Biancardi Funzionario Settore Economato-Approvvigionamenti nel Comune di Verona, autore di pubblicazioni e docente in corsi di formazione

Con la deliberazione n. 212/2014 la Corte dei conti, sez. di controllo per la Lombardia, è tornata a pronunciarsi in materia di debiti fuori bilancio e passività pregresse.Il procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio, previsto solo in alcuni casi tassativi (art.194 t.u.e.l.), è lo strumento giuridico per riportare una obbligazione giuridicamente perfezionata ed esistente all’interno della sfera patrimoniale dell’ente, ricongiungendo debito e volontà amministrativa sul piano dell’adempimento.La funzione del procedimento è quella di consentire a debiti sorti al di fuori della legittima procedura di spesa e di stanziamento di rientrare nella contabilità dell’ente.Come si diceva, al fine di evitare l’insorgere di situazioni debitorie non assistite dai relativi impegni, il legislatore ha previsto che solo in alcuni casi tassativi tali debiti possano essere riconosciuti, attraverso il procedimento di riconoscimento di legittimità dei debiti fuori bilancio. Ciò è infatti possibile solo qualora tali debiti derivino da:

a. sentenze esecutive; b. copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli

obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;

c. ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;

d. procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità; e. acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3

dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.

La Corte ha evidenziato che accanto a quelli che vengono definiti debiti fuori bilancio si collocano le passività pregresse. Queste ultime sono spese per le quali, a differenza dei debiti fuori bilancio, si è proceduto a regolare impegno ma che, per fatti non prevedibili, hanno dato luogo ad un debito senza copertura. Proprio perché le passività pregresse si pongono all’interno di una regolare procedura di spesa, esulano dalla fenomenologia del debito fuori bilancio e costituiscono, pertanto, debiti la cui competenza finanziaria è riferibile all’esercizio della loro manifestazione. In tali casi, lo strumento procedimentale di spesa è costituito dalla procedura ordinaria di spesa ex art. 191 del t.u.e.l., accompagnata dalla eventuale variazione di bilancio necessaria a reperire le risorse ove queste siano insufficienti.

La Corte conclude l’esame delle due fattispecie relative al debito fuori bilancio e delle passività pregresse, evidenziando che per quanto attiene alla prima, resta salva la facoltà dell’ente di un riconoscimento del debito fuori bilancio nei più ristretti limiti dell’arricchimento conseguito (e riconosciuto) dall’ente medesimo a danno dei privati, facoltà che comunque dovrà essere discrezionalmente esercitata in modo assolutamente prudenziale, attesa la potenziale interferenza di profili di responsabilità connessi ad esborsi illegittimi.

GIURISPRUDENZA

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Ordine di demolizione di opere edilizie abusive con doppia firma Il Comune: emana un’ordinanza di demolizione di opere abusive, firmata dal del Segretario Generale del Comune e del Capo Settore Urbanistica e Demanio del medesimo ente.

La risposta esatta : il Comune ha emesso un atto illegittimo, come ricordato recentemente dal TAR Lazio, sez. Latina, nella sent. n. 667 del 29 luglio 2014 .

Come è noto, la giurisprudenza(1) tende a ritenere ammissibile la doppia sottoscrizione del provvedimento nell’ipotesi in cui l’atto sia contestualmente sottoscritto anche dal responsabile del procedimento, perché la firma anche da parte di quest’ultimo non può far sorgere dubbi su quale sia l’effettiva volontà manifestata dalla P.A., evidenziata dal provvedimento, né basta a far ipotizzare contraddittorietà di valutazioni o di posizioni. La sottoscrizione dell’atto anche da parte del responsabile del procedimento non incide, cioè, sulla posizione della P.A.Nel caso specifico, tuttavia, nessuno dei due organi firmatari del provvedimento l’ha sottoscritto quale mero responsabile del procedimento ma, al contrario, deve ritenersi che la sottoscrizione di entrambi (il Capo Settore Urbanistica e Demanio ed il Segretario Generale) fosse conseguenza della loro competenza in materia. Ma ciò è, ovviamente, inammissibile, perché se il primo è l’organo deputato in via esclusiva all’adozione dei provvedimenti di rilevanza urbanistica-edilizia, il secondo è oggettivamente privo di competenza in materia.

Di conseguenza, secondo i giudici, la contestuale sottoscrizione del provvedimento da parte del Segretario Generale, in difetto di una competenza specifica di quest’ultimo, produce l’effetto di non rendere detto provvedimento imputabile in via esclusiva all’Ufficio amministrativo ad esso preposto, con il corollario dell’illegittimità dello stesso. Da ciò deriva l’ulteriore corollario che, essendo stata la doppia sottoscrizione apposta da organi diversi, portatori di funzioni e compiti diversi ed autonomi, essa non può che ingenerare il dubbio su quale sia stato il potere effettivamente esercitato.Inoltre, l’impossibilità di individuare il soggetto emanante il provvedimento comporta la non secondaria conseguenza di rendere incerto il regime della responsabilità del dipendente conseguente alla sua adozione (proprio per i dubbi circa la competenza ad adottarlo).La tesi particolarmente rigorosa espressa dai giudici laziali conferma un orientamento riscontrabile in altre pronunce:

nella sent. n. 225 del 9 febbraio 2007 del TAR Liguria, sez. I, è stata ritenuta illegittima un’ordinanza di rimozione di un cancello da una strada vicinale di uso pubblico con firma del responsabile dei servizi tecnico-urbanistico-economici e del Sindaco, in quanto la firma di quest’ultimo, privo di competenza specifica in materia, rendeva non esclusivamente imputabile all’ufficio amministrativo proposto l’atto;

nella sent. n. 55 del 4 gennaio 2005 i giudici del TAR Lazio, sez. II bis Roma, hanno ritenuta illegittima una concessione edilizia rilasciata con la firma sia del Sindaco che del Dirigente: nell’occasione i giudici hanno affermato che “invero, quale che sia il valore da attribuirsi alla sottoscrizione apposta dal responsabile dell’Ufficio tecnico comunale (fosse anche di ratifica dell’atto adottato dal sindaco con l’intento di emendarne il vizio di incompetenza), è certo che la contestualità delle sottoscrizioni e l’oggettiva imputabilità formale dell’atto  ad ambedue i soggetti firmatari inducono a ritenere che l’amministrazione abbia volutamente  inteso emanare un atto a firma congiunta (quale atipico atto complesso), in palese contrasto con i principi ordinamentali più sopra esposti, che sottraggono in modo tassativo al sindaco qualsiasi influenza o interferenza in materia (così sul punto, e condivisibilmente, Tar Liguria, I, 29 ottobre 2002, n. 1061). Il che, per altro verso, conferma l’illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di competenza dell’autorità procedente”.

Vi sono state, tuttavia, pronunce che hanno ritenuto irrilevante la doppia sottoscrizione di un atto:

nella sent. n. 6557/2004 il Consiglio di Stato ha ritenuto ininfluente la presenza della sottoscrizione dell’assessore al ramo unitamente a quella del dirigente di settore sull’ordine di sospensione per un giorno di un’attività economica in quanto, la sottoscrizione del soggetto politico costitutiva in sostanza “soltanto un elemento ridondante e, in quanto tale, non viziante”;

nella sent. n. 3692/2005 sempre il Consiglio di Stato ha ritenuto riferibile comunque al Sindaco firmatario un’ordinanza di rimozione di un impianto nonostante la sigla apposta dal dirigente sulla sinistra del documento, “solo indicativa della provenienza dell’atto da parte dell’ufficio competente alla sua redazione al quale è preposto il predetto dirigente”;

nella sent. n. 2170 del 18 settembre 2013 il TAR Lombardia, sez. II Milano, i giudici hanno ritenuto riferibile al Sindaco, nonostante la contestuale firma del responsabile dell’ufficio tecnico, un’ordinanza di demolizione e riduzione in pristino di un deposito di materiali su strada vicinale, in quanto la norma di riferimento (art. 15 del d.l.lgt. n. 1446/1918 in materia di esercizio del potere di autotutela possessoria) conferiva, senza dubbio, proprio al Sindaco il potere di emettere l’ordinanza suddetta.

(1) TAR Liguria, sez. I, sent. n. 186 del 5 febbraio 2014.

Sono legittime le delibere con le quali sono stati approvati il piano economico e finanziario TARES e il regolamento per la disciplina della TARES e quelle relative all'approvazione della TARES e delle relative cadenze e pagamenti www.ufficiotributi.it 14/10/2014

Con la sentenza n. 503 del 24 settembre 2014 il TAR Calabria, sezione Staccata di Reggio Calabria ha dichiarato in parte irricevibile, per tardività della notificazione, in parte inammissibile, per difetto di giurisdizione e infondato nel merito, per la restante parte, il ricorso presentato da numerosi ricorrenti per l'annullamento delle deliberazioni che disciplinano l’applicazione della TARES e, cioè, il piano economico e finanziario, il regolamento per la disciplina della TARES  e la delibera concernente l'approvazione della tariffe della TARES e le relative scadenze e pagamenti.

Nel merito i giudici amministrativi, infatti, scardinano tutti i motivi opposti dai ricorrenti, respingendo, innanzitutto, l’eccezione relativa alla violazione dell'art. art. 3-bis del D.L. n. 138 del 2011 - modificato dall’art. 34, comma 23 del D. L. n. 179 del 2012 - che regolamenta gli "Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali" e che al comma 1-bis stabilisce che "Le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe all'utenza per quanto di competenza, di affidamento della gestione e relativo controllo sono esercitate unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei istituiti o designati ai sensi del comma 1 del presente articolo." Il TAR interpreta tale norma affermando che essa non incide sulla materia dei tributi locali, ma sulla materia dell'organizzazione e dello svolgimento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, con particolare riguardo alle procedure di affidamento e di gestione dei servizi stessi. Una diversa interpretazione comporterebbe, secondo il TAR, un irrimediabile contrasto con l'art. 119, comma 2, della Costituzione che, disciplinando l'autonomia finanziaria degli enti locali, statuisce che i Comuni, al pari delle Province, delle Città metropolitane e delle

Regioni, hanno risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.Infondate sono considerate anche le eccezioni relative alla violazione dell'art. 14 del D.L. n. 201 del 2011 e all'eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione degli atti impugnati. Il Piano economico finanziario è stato, infatti, redatto nel rispetto formale delle Linee Guida del Ministero dell'Economia e delle Finanze ed è ritenuto adeguato poiché individua “i costi che devono essere coperti con le entrate, giustifica in maniera non manifestamente irrazionale e apparentemente congrua il gettito tributario e il relativo prelievo, dà conto, con ragionamento esente da irragionevolezza apparente, dei criteri di ripartizione dei costi tra le varie utenze, il tutto con motivazione plausibile e secondo criteri razionali, anche presuntivi, sui quali il sindacato di legittimità del GA non può entrare”.Allo stesso modo è stato respinto il difetto di motivazione, sia perché ai sensi dell'art. 3, comma 2, della legge n. 241 del 1990 la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale, sia perché l'atto impugnato risulta, secondo i giudici, sufficientemente motivato.La sentenza respinge, inoltre, anche l’eccezione relativa alla violazione del comma 20 dell’art. 14 del D. L. n. 201 del 2011 secondo il quale “il tributo è dovuto nella misura massima del 20% della tariffa in caso di mancato svolgimento del servizio di gestione rifiuti, ovvero effettuazione dello stesso in grave violazione della disciplina di riferimento nonché di interruzione del servizio per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi che abbiano determinato una situazione riconosciuta dall'autorità sanitaria di danno o pericolo di danno alle persone o all'ambiente", dal momento che, nel caso di specie, non esiste neppure una certificazione rilasciata dall'autorità competente attestante la sussistenza della situazione di grave danno o pericolo di danno, come previsto dalla norma.Il motivo con cui i ricorrenti lamentano l'irretroattività della determinazione della tariffa è stato anch’esso considerato infondato nel merito, in quanto il comune ha agito nel rispetto dell’art. 1, comma 169 della finanziaria 2007 che stabilisce che le deliberazioni tariffarie, anche se approvate successivamente all'inizio dell'esercizio, purché entro il termine per la deliberazione del bilancio di previsione, hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento.  I giudici mostrano una timida apertura nei confronti della applicazione della riduzione della tariffa a consuntivo nei confronti delle utenze domestiche che effettuano la raccolta differenziata presso i centri di raccolta e delle utenze non domestiche che dimostrino di aver avviato al recupero nell'anno di riferimento, mediante una specifica attestazione rilasciata dall'impresa, a ciò abilitata, che ha effettuato l'attività di recupero. Ma anche su questo punto il TAR afferma che se è da ritenere necessario che vengano predisposti piani volti a incrementare la raccolta differenziata, tuttavia la mancata attuazione non può essere considerata come un vizio di legittimità degli atti impugnati, per cui nessuna omissione grave può essere considerata posta in essere dal comune che ha previsto, pur astrattamente, la possibilità delle riduzioni in questione.I giudici di legittimità, infine, ritengono non sussistente neppure la violazione del principio di capacità contributiva per avere il comune stabilito per i nuclei con più di quattro componenti un coefficiente inferiore a quello medio applicato dall'ente, mentre per le utenze con 5 o 6 componenti ha applicato un coefficiente inferiore ai valori massimi stabiliti dalla legge. In definitiva, l’azione dei ricorrenti è stata demolita dai giudici del TAR che hanno considerato corretto, soprattutto dal punto di vista formale, l’operato del comune.

TAR Veneto sez. II 12/9/2014 n. 1197 Giurisdizione - Comune e provincia - Sindaco - Responsabilità dell'area - G.O.Non spetta al giudice amministrativo una controversia avente ad oggetto l'impugnazione, da parte di un geometra comunale, del provvedimento con il quale il Sindaco, in sede di nomina del responsabile di posizione organizzativa per il settore di staff e per il settore tecnico manutentivo, ha trattenuto in capo alla sua persona la responsabilità dell'area tecnica dell'Ente, con invito, al medesimo geometra dipendente, di predisporre i provvedimenti inerenti alla gestione del settore tecnico-manutentivo da sottoporre alla propria firma. In tal caso, infatti, la determina del Sindaco, di conferimento a sé stesso della responsabilità del settore tecnico-manutentivo del Comune, non assume rilevanza organizzativa, non avendo una portata di generale innovazione dell'organizzazione degli uffici e dei servizi e delle macrostrutture, incide su di un'unica posizione organizzativa, ovvero quella del settore tecnico-manutentivo, con riflessi immediati sul singolo rapporto lavorativo con l'odierno ricorrente. .

 

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

per l'annullamento

della determinazione del Sindaco di Teglio Veneto in data 27.5.2014, prot. n. 3148/2014 avente ad oggetto "nomina del responsabile di posizione organizzativa per il settore di staff e per settore tecnico manutentivo" e della nota sindacale 27.5.2014 prot. n. 3161/2014 con la quale il ricorrente è stato informato che il Sindaco, con provvedimento contestualmente allegato, aveva trattenuto in capo alla sua persona la responsabilità dell'area tecnica.

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Con il presente ricorso, il Geometra Franco Carmelo impugna la determinazione del Sindaco di Teglio Veneto con la quale quest’ultimo, appena riconfermato nella carica dalle elezioni amministrative ed in apertura della nuova legislatura, ha trattenuto in capo alla sua persona, ai sensi dell’art. 53, comma 23, della Legge 388/2000, la responsabilità del Settore Tecnico-Manutentivo, fino ad allora affidata all’odierno ricorrente.Il Geometra Franco Carmelo impugna altresì la nota con la quale il Sindaco lo ha informato della suddetta decisione e lo ha invitato “a sottopormi i provvedimenti che dovrò sottoscrivere e che la S.V. avrà cura di predisporre”.

Preliminarmente, deve essere affrontata la questione, sottoposta dal resistente e dal controinteressato e comunque rilevabile d'ufficio, dell’esistenza della giurisdizione del giudice amministrativo sulla presente controversia, riguardante un rapporto di lavoro contrattualizzato alle dipendenze della P.A. .

In estrema sintesi, la giurisdizione va riconosciuta per il caso di contestazione di

provvedimenti di organizzazione perché connessi a posizioni di interesse legittimo va, invece, declinata per quelli incidenti su situazioni giuridiche soggettive integrate nel rapporto di lavoro e da ricondurre quindi alla giurisdizione ordinaria (Consiglio Stato, sez. V, 29 aprile 2010, n. 2454; Cassazione SS. UU. 16 febbraio 2009, n. 3677; Cassazione SS. UU. 24 novembre 2010, ord. n. 23781).Ciò posto, si ritiene che nel caso in esame la giurisdizione vada declinata con riguardo ad entrambi gli atti impugnati, perché riconducibili alla gestione di una singola posizione lavorativa.E ciò vale, evidentemente, per l’invito rivolto dal Sindaco, con la nota del 27 maggio 2014, al dipendente, di predisporre i provvedimenti, inerenti alla gestione del settore tecnico-manutentivo, da sottoporre alla firma del primo.

E, a ben vedere, anche la determina del Sindaco di conferimento a sé stesso della responsabilità del settore Tecnico-Manutentivo del Comune, è strettamente connessa e prodromica alla predetta disposizione, ed anch’essa, non assume rilevanza organizzativa, non avendo una portata di generale innovazione dell'organizzazione degli uffici e dei servizi e delle macrostrutture, bensì incidendo su di un’unica posizione organizzativa, ovvero quella del settore tecnico-manutentivo, con riflessi immediati sul singolo rapporto lavorativo con l’odierno ricorrente. Pertanto, alla luce di quanto sopra rappresentato, il Collegio ritiene che difetti la giurisdizione in capo al giudice amministrativo sulla controversia in esame e che la stessa sia da attribuire al giudice ordinario.Per il principio della "translatio iudicii" sono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda se il giudizio è riassunto davanti al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato di detta pronuncia.In considerazione della natura della decisione sussistono i presupposti di legge per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, spettando essa al giudice

Consiglio di Stato sez. VI 23/9/2014 n. 47941. Concorso - Commissione giudicatrice - Composizione - Divieto di farne parte per i dirigenti sindacali - Individuazione2. Concorso - Commissione giudicatrice - Incompatibilità - Rapporti personali di colleganza e/o collaborazione 3. Concorso - Commissione giudicatrice - Soggetti incompatibili - Funzioni

1. L’art. 35, comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel vietare la presenza nelle commissioni di concorso di “rappresentanti sindacali”, fa riferimento a quei soggetti che scontano la stabile partecipazione alle scelte del sindacato e l’appartenenza all’apparato organizzativo, rispetto alla partecipazione ad un organismo plurisoggettivo “in rappresentanza” del sindacato stesso, cioè quali portavoce delle relative istanze. Non comporta pertanto la violazione del predetto divieto il fatto che della commissione di un concorso per il reclutamento di dirigenti della scuola abbia fatto parte un componente è stato nominato in ragione delle sua qualifica di dirigente scolastico in servizio, e non come rappresentante sindacale; tale ultima qualifica non gli è, del resto, attribuibile, non essendo sufficiente a tal fine la partecipazione, in rappresentanza della FLC CGIL, all’osservatorio regionale di monitoraggio per la formazione e l’aggiornamento del personale della scuola.

2. La colleganza e/o collaborazione tra alcuni componenti della commissione di concorso e determinati candidati ammessi alla prova orale non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione. Invero, nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del codice di procedura civile, senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma possano essere oggetto di estensione analogica.

3. Non comporta alcun vizio della procedura concorsuale la circostanza che abbiano partecipato al procedimento concorsuale alcuni soggetti che si trovavano in un situazione di incompatibilità, allorché risulti che tali soggetti abbiano svolto solo l’attività di segretari della commissione e pertanto non avevano alcun potere di incidere sulle scelte della commissione esaminatrice.

(Omissis)

FATTO e DIRITTO

1. Con bando pubblicato sulla G.U.R.I., IV Serie Speciale, n. 56 del 15 luglio 2011, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca indiceva una procedura concorsuale per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti della scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e degli istituti educativi, per n. 2.386 posti complessivi, di cui n. 224 per la Regione Campania.

2. L’art. 8 della lex specialis stabiliva che i candidati che avessero superato una prova preselettiva di carattere culturale e professionale avrebbero dovuto sostenere due prove scritte ed una prova orale, secondo quanto stabilito dall’art. 9; la medesima disposizione stabiliva che la selezione avrebbe compreso la valutazione dei titoli, oltre all’espletamento di un periodo obbligatorio di formazione e tirocinio per i candidati utilmente collocati nelle graduatorie generali di merito e dichiarati vincitori entro i limiti dei posti messi a concorso.

Più in dettaglio, l’art. 10 stabiliva che le due prove scritte avrebbero accertato la preparazione dei candidati sotto il profilo teorico ed operativo in relazione alla funzione di dirigente scolastico: la prima consisteva nella redazione di un elaborato su una o più delle aree tematiche di cui all’art. 8; mentre la seconda riguardava la risoluzione di un caso pratico di gestione dell’istituzione scolastica. Per essere ammessi alla prova orale occorreva ottenere un punteggio minimo di 21/30 punti in ciascuna delle prove scritte.

La prova orale, invece, consisteva in un colloquio interdisciplinare sulle aree tematiche di cui all’art. 8, con eventuali riferimenti ai contenuti degli elaborati scritti; oggetto di valutazione era anche la capacità di conversazione su tematiche educative su una lingua straniera prescelta dal candidato. Anche in questo caso, per superare la prova occorreva un punteggio non inferiore a 21/30 punti.

Le aree tematiche di cui all’art. 8 del bando erano le seguenti:

a) Unione Europea, le sue politiche ed i suoi programmi in materia di istruzione e formazione, i sistemi formativi e gli ordinamenti degli studi in Italia e nei Paesi dell’Unione Europea, con particolare riferimento al rapporto tra le autonomie scolastiche e quelle territoriali ed ai processi di riforme ordinamentali in atto;

b) gestione dell’istituzione scolastica, predisposizione e gestione del piano dell’offerta formativa nel quadro dell’autonomia delle istituzioni scolastiche ed in rapporto alle esigenze formative del territorio;

c) area giuridico-amministrativo-finanziaria, con particolare riferimento alla gestione integrata del piano dell’offerta formativa e del programma annuale;

d) area socio-psicopedagogica, con particolare riferimento ai processi di apprendimento, alla valutazione dell’apprendimento e dell’istituzione scolastica, alla motivazione, alla difficoltà di apprendimento, all’uso dei nuovi linguaggi multimediali nell’insegnamento e alla valutazione del servizio offerto dalle istituzioni scolastiche;

e) area organizzativa, relazionale e comunicativa, con particolare riguardo alla integrazione interculturale e alle varie modalità di comunicazione istituzionale;

f) modalità di conduzione delle organizzazioni complesse e gestione dell’istituzione scolastica, con particolare riferimento alle strategie di direzione;

g) uso a livello avanzato delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche diffuse;

h) conoscenza di una tra le seguenti lingue straniere a livello B1 del quadro comune europeo di riferimento: francese, inglese, tedesco, spagnolo.

3. Con d.d.g. 6 ottobre 2011, prot. n. AOODRCA/RU 13599, veniva nominata la commissione giudicatrice.

4. Dopo l’espletamento della prova preselettiva, il 14 e 15 dicembre 2011 si svolgevano le prove scritte.

5. Con d.d.g. 3 gennaio 2012, prot. n. AOODRCA/RU/3, la commissione giudicatrice veniva integrata, dando vita ad una commissione base e tre sottocommissioni.

6. Con verbale n. 12 del 20 gennaio 2012 la commissione giudicatrice stabiliva i criteri di valutazione per la correzione delle due prove scritte, con la predisposizione di una specifica griglia riepilogativa.

7. Alla procedura concorsuale partecipavano i nominativi indicati in epigrafe, nessuno dei quali era stato ammesso a sostenere la prova orale.

8. Detti nominativi, col ricorso proposto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, hanno impugnato gli atti con i quali l’Ufficio scolastico regionale per la Campania ha provveduto alla nomina (d.d.g. 6 ottobre 2011, prot. n. AOODRCA/RU 13599) e alla successiva integrazione e modificazione (d.d.g. 3 gennaio 2012, prot. n. AOODRCA/RU/3; 5 gennaio 2012, prot. n. AOODRCA/73; 29 febbraio 2012, prot. n. AOODRCA.1663) dei componenti della commissione esaminatrice e delle sottocommissioni, nonché alla formazione dell’elenco dei candidati ammessi a sostenere la prova orale (d.d.g. 30 ottobre 2012, prot. n. AOODRCA.9460); le operazioni espletate dalla commissione esaminatrice, concernenti, segnatamente, la formulazione dei criteri di valutazione e delle tracce, nonché la correzione degli elaborati.

9. Con la sentenza impugnata il ricorso è stato respinto.

10. Con il ricorso in appello n. 201309247, proposto da Catino Mauro, Carlone Gianfranco, Vita Luigia e Guarracino Annamaria vengono dedotti i seguenti motivi che possono così sintetizzarsi:

a) violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 487/1994; degli artt. 51 e 52 del Cod. proc. civ. e dell’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001 per la partecipazione alle operazioni concorsuali della prof.ssa Buonaiuto;

b) sull’incompatibilità e sull’obbligo di astensione del dott. Marcucci; omessa sottoscrizione delle dichiarazioni di insussistenza di situazioni di incompatibilità da parte dei membri e dei componenti delle commissioni di vigilanza;

c) sull’incompatibilità della prof.ssa Alessandra Monda;

d) sull’obbligo di astensione e la conseguente incompatibilità dei commissari di esame per la presenza al concorso e successiva ammissione dei propri vicari e collaboratori;

e) incompatibilità dei segretari della commissione Rita Facchiano e Stefano Coscia; mancata indicazione del soggetto verbalizzante e partecipazione alla seduta di soggetti estranei al collegio decisionale in relazione al verbale n. 12 del 20 gennaio 2012 riguardante l’elaborazione dei criteri di valutazione delle prove scritte;

f) contemporanea presenza di alcuni membri di commissione in due luoghi diversi: tale aspetto renderebbe nulla tutta la procedura concorsuale;

g) numerose e continue dimissioni dei commissari d’esame o rinunce all’assunzione dell’incarico.

11. Con il ricorso in appello n. 201403494, proposto da Roscigno Maria Grazia, viene dedotto un unico motivo che può individuarsi nella violazione dell’art. 35, comma 3, lettera e) del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

12. I ricorsi n. 201309247 e n. 201403494 debbono essere riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza (art. 96, comma 1, del Cod. proc. amm.).

13.1. Il primo motivo del ricorso n. 201309247 è infondato.

La dottoressa Giuseppina Bonaiuto, componente della terza sottocommissione, è stata nominata in ragione delle sua qualifica di dirigente scolastico in servizio, e non come rappresentante sindacale. Tale ultima qualifica non le è, del resto, attribuibile, data la non sufficienza della partecipazione, in rappresentanza della FLC CGIL, all’osservatorio regionale di monitoraggio per la formazione e l’aggiornamento del personale della scuola, evidenziata dagli appellanti. Diverso è, infatti, il concetto di “rappresentante sindacale”, del quale l’art. 35, comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 vieta la presenza nelle commissioni di concorso, e che sconta la stabile partecipazione alle scelte del sindacato e l’appartenenza all’apparato organizzativo, rispetto alla partecipazione ad un organismo plurisoggettivo “in rappresentanza” del sindacato stesso, cioè quale portavoce delle relative istanze. Né una tale appartenenza può essere fatta derivare dalla partecipazione della dottoressa Bonaiuto alla struttura di comparto dei dirigenti scolastici della Campania, anche evidenziata con i ricorsi, dato che la competenza in materia contrattuale propria di tale organizzazione si esplica nell’ambito di scelte generali, e non attiene alla gestione e alle

scelte organizzative e di reale impulso all’attività che, secondo la circolare n. 11 del 2010 del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, condivisibilmente richiamata dal primo giudice, comporta l’incompatibilità prevista dalla norma.

Poiché, comunque, all’accertamento dell’incompatibilità sarebbe necessaria la dimostrazione della possibilità del soggetto di incidere sul neutrale svolgimento del concorso per il solo effetto della posizione di rappresentanza svolta per il sindacato (Consiglio di Stato, sez. VI, 11 dicembre 2013, n. 5947) e poiché, infine, la nomina in discorso è stata effettuata non dal sindacato e in ragione dell’appartenenza al sindacato, ma dal direttore generale dell’ufficio scolastico regionale in considerazione della qualifica professionale posseduta dalla dottoressa Bonaiuto, non può ravvisarsi l’illegittimità, sul punto, della composizione della commissione.

13.2.a. Parimenti infondato è il secondo motivo del ricorso nella parte in cui censura la partecipazione alla procedura concorsuale del dott. Marcucci.

La presenza del dottor Angelo Francesco Marcucci, coniuge della candidata Rosalia Manasseri (25 gennaio 1964), tra i componenti supplenti non inficia la legittimità della composizione della commissione, dato che tale soggetto non ha mai partecipato ai lavori e si è dimesso prima dell’espletamento delle prove orali.

13.2.b. Il motivo, nella parte in cui deduce l’omessa sottoscrizione delle dichiarazioni di insussistenza di situazioni di incompatibilità da parte dei membri e dei componenti delle commissioni di vigilanza, è invece inammissibile per essere stato proposto per la prima volta nel ricorso in appello.

13.3. È invece inammissibile il terzo motivo del ricorso, nella parte in cui censura la partecipazione alla procedura concorsuale della prof.ssa Alessandra Monda, perché è stato proposto per la prima volta nel giudizio di appello.

13.4. È infondato il quarto motivo d’appello.

I rapporti personali di colleganza e/o collaborazione tra alcuni componenti della commissione e determinati candidati ammessi alla prova orale non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa. Come ha chiarito questo Consiglio di Stato (sez. IV, 19 marzo 2013, n. 1606, sez. VI 27 novembre 2012, n.4858 e 31 maggio 2012 n. 3276), e come ha rilevato la sentenza impugnata, nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del codice di procedura civile, senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, tra le quali non rientra, di per sé (e cioè in assenza di ulteriori e specifici indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio), l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza, possano essere oggetto di estensione analogica.

13.5.a. Parimenti infondato è il quinto motivo di ricorso nella parte in cui censura la partecipazione al procedimento concorsuale dei dott.ri Rita Facchiano e Stefano Coscia. Essi, svolgendo attività di segretari della commissione, non avevano alcun potere di incidere sulle scelte della commissione esaminatrice.

13.5.b È invece inammissibile la censura relativa alla mancata indicazione del soggetto verbalizzante nella seduta del 20 gennaio 2012, riguardante l’elaborazione dei criteri di valutazione delle prove scritte, perché proposta per la prima volta in appello.

13.6. È ancora inammissibile il sesto motivo di ricorso, relativo alla contemporanea presenza di alcuni membri di commissione in due luoghi diversi, perché proposto per la prima volta in appello.

13.7. Anche il settimo e ultimo motivo di ricorso è inammissibile per essere stato proposto per la prima volta in appello, ferma restando la sua infondatezza in quanto nessuna norma pone un limite numerico alle dimissioni dei commissari e alla loro sostituzione.

14. Nemmeno il ricorso n. 201403494, proposto da Roscigno Maria Grazia, può trovare accoglimento.

Il Collegio prescinde dall’esame di ogni profilo di inammissibilità del ricorso e segnatamente dalla circostanza che la ricorrente in appello non risulta tra i ricorrenti in primo grado, con la conseguenza che ella non era legittimata a proporre l’impugnazione.

L’unico motivo di ricorso, con il quale si deduce la violazione dell’art. 35, comma 3, lettera e) del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, è inammissibile perché manca l’indicazione di qualsiasi soggetto che sia stato nominato nella commissione di concorso, in presunta violazione della norma invocata.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) previamente riuniti i ricorsi n. 9247 del 2013 e n. 3494 del 2014, come in epigrafe proposti, definitivamente pronunciando su di essi, li respinge.

Spese compensate.

TAR Puglia Lecce sez. II 25/9/2014 n. 2247Maternità - Beneficio dei riposo giornalieri previsti dall'art. 39 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151 - Riconoscimento anche in favore del padre lavoratore - Madre casalinga - Risarcimento del danno da mancata fruizione - Esclusione

Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

La Consigliera di Parità della Provincia di Lecce ha chiesto l’annullamento degli atti con cui la Questura di Lecce, Ufficio del Personale, ha rigettato la domanda di fruizione dei riposi giornalieri avanzata dall’Assistente Capo della Polizia di Stato, sig. -OMISSIS-, padre di un neonato e coniugato con una casalinga: ha, altresì, richiesto il risarcimento del danno.

3. Il ricorso merita parziale accoglimento.

3.1. La più recente giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la lettera c) dell'art. 40 del D.Lgs. n. 151/2001, riferendosi alla "madre che non sia lavoratrice dipendente", si applica non solo alla lavoratrice "autonoma" ma, per la sua lata accezione letterale e in mancanza di esplicita esclusione, anche alla lavoratrice "casalinga" (cfr: Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza

10 settembre 2014 n. 4618; Consiglio di Stato, Sez. III, Ordinanza 30/08/13 n. 3386: Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4293/08). Tale conclusione appare in sintonia con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che aveva precedentemente sottolineato come in numerosi ambiti ordinamentali la casalinga sia considerata come lavoratrice (Cass., sez. III, n. 20324 del 20 ottobre 2005), in quanto impegnata in attività che comunque la distolgono dalla cura del neonato.La prospettata interpretazione estensiva della lettera c) dell'art. 40 citato è stata ritenuta maggiormente aderente alla ratio legis, volta a garantire al lavoratore padre la cura del bambino in tutte le ipotesi in cui l'altro genitore sia impegnato in attività lavorative che lo distolgano dall'assolvimento di tale compito (per Consiglio di Stato, Sez. III– sentenza 10 settembre 2014 n. 4618 “E’ illegittimo il provvedimento con il quale la P.A. ha respinto la domanda di un dipendente (nella specie si trattava di un assistente della Polizia di Stato) volta ad ottenere il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del D.L.vo 26 marzo 2001 n. 151 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, motivato con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D.Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice. Infatti, poiché l’art. 40 del T.U. 151/2001 costituisce una norma volta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall’art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato”).Alla luce delle suesposte considerazioni va annullato il provvedimento impugnato nella parte in cui ha negato al sig. -OMISSIS- la fruizione dei permessi giornalieri ex art. 40 lett c) Dlgs 151/2001.3.2. Non spetta, invece, l’invocato risarcimento del danno, difettando nella specie la colpa della P.A.: l’oscurità del dato normativo, che non disciplina espressamente l’ipotesi all’esame, e l’esistenza di contrasti giurisprudenziali in materia (es. T.A.R. Liguria, Sez. II, n. 222/2014, TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 21 luglio 2014, n. 395 e, in sede consultiva, Cons. Stato, Sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732 hanno negato i permessi in oggetto al padre lavoratore con moglie casalinga) inducono, infatti, a ritenere che l’Amministrazione sia incorsa in un errore scusabile.

4. Spese compensate in ragione della controvertibilità delle questioni trattate e dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali in materia.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Seconda definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione.Spese compensate.

Consiglio di Stato: delibera sedi farmaceutiche e avviso inizio procedimento. Nella sentenza n. 4705 del 16 settembre 2014 il Consiglio di Stato ha precisato che la delibera di determinazione delle sedi farmaceutiche ai sensi dell’art. 11 della legge n. 27del 2012 ha natura di atto di pianificazione sul territorio del servizio di distribuzione e vendita dei farmaci e, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 241 del 1990, non deve quindi essere preceduta dal preventivo avviso di inizio del procedimento ai soggetti interessati.

Nella sentenza n. 4841 del 26 settembre 2014 il Consiglio di Stato si esprime in merito alla concessione del suolo cimiteriale da un Comune ad un privato, affermando che il diritto sul sepolcro già costituito sorge con una concessione amministrativa di un’area di terreno o di porzione di edificio in un cimitero pubblico di carattere demaniale (art. 824 c.c.), da cui deriva che la concessione, di natura traslativa, crea a sua volta nel privato concessionario un diritto reale (suscettibile di trasmissione per atti inter vivos o mortis causa) e perciò opponibile agli altri privati, assimilabile al diritto di superficie, che comporta la sussistenza di posizioni di interesse legittimo – con la relativa tutela giurisdizionale – quando l’amministrazione concedente disponga la revoca o la decadenza della concessione per la tutela dell’ordine e della buona amministrazione.

TAR PUGLIA-BARI, SEZ. I – Sentenza 7 ottobre 2014, n. 11641. Procedimento amministrativo – progetto di ampliamento di una discarica – diniego provinciale di autorizzazione – illegittimità – fattispecie 2. Procedimento amministrativo – conferenza di servizi – provvedimento conclusivo – motivazione – mera acritica ripetizione dei pareri (tra l’altro non vincolanti) espressi dalle amministrazioni partecipanti – illegittimità – fattispecie

1. È illegittimo il provvedimento con cui la Provincia ha negato l’autorizzazione alla realizzazione del progetto di ampliamento di una discarica, limitandosi a dare parere negativo sull’ Aia, non esprimendosi sulla Via. Il fatto che ai sensi dell’art. 7, comma 2, della l.r. Puglia 17/2007, la ricorrente si sia avvalsa della procedura coordinata Via-Aia non può far ritenere assorbita la valutazione sugli aspetti localizzativi e strutturali (propri della Via) in quella diversa sugli aspetti gestionali (propri dell’Aia), richiedendosi la trasparente ed espressa formulazione di distinte e motivate valutazioni, sia pure contenute nel contesto di un solo atto. L’art. 7, comma 2, della legge regionale citata, richiede infatti, che la procedura integrata si svolga comunque “nel rispetto delle procedure definite dalla normativa nazionale di settore”.

2. La motivazione del provvedimento conclusivo di un procedimento svoltosi in sede di conferenza dei servizi tra le amministrazioni interessate, non può risolversi nella mera acritica ripetizione dei pareri (tra l’altro non vincolanti) espressi dalle amministrazioni partecipanti (cfr. Cons. Stato, 21.10.2009, n. 6455; TAR Lombardia, Brescia, 4.12.2007, n. 6455), ove non sia possibile evincere in maniera chiara quali siano le motivazioni logiche effettivamente influenti sul diniego finale, in quanto ritenute ostative all’assenso. Ciò vale soprattutto a seguito delle modifiche apportate all’art. 14-ter, legge 241/1990 dapprima dalla legge 15/2005 e successivamente dal d.l. 78/2010, sostituendosi al criterio decisionale di tipo quantitativo/maggioritario quello qualitativo delle posizioni prevalenti. In particolare il comma 6-bis ha previsto, all’esito dei lavori della conferenza, l’adozione da parte dell’amministrazione procedente della “determinazione motivata” di conclusione del

procedimento, sulla base delle risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede, evidenziandone il carattere non meramente dichiarativo, bensì costitutivo di effetti finali, potendo essa sostituire ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza. Va inoltre ribadito che con specifico riguardo agli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti, l’art. 208, comma 8, del d.lgs. 152/2006 richiede che, in caso di esito negativo dell’istruttoria, il procedimento si concl uda con provvedimento di “diniego motivato”. A giudizio del Collegio tale obbligo motivazionale non può considerarsi una ridondante ripetizione del generale obbligo di motivazione di cui all’art. 3 della stessa legge 241/1990, ritenendo che, data l’ampia portata del provvedimento ex art. 14-ter comma 6-bis della legge 241/1990, anche in correlazione con l’art. 208 d.lgs. 152/2006, lo stesso debba contenere una motivazione di sintesi che, all’esito del bilanciamento dei contrapposti interessi, sia in grado di far emergere con sufficienza il giudizio finale di prevalenza delle posizioni risultanti dall’istruttoria conferenziale, con l’indicazione di quelle condivise e ritenute preclusive ad ogni opzione anche modificativa del progetto; motivazione rimessa con valore costitutivo autonomo all’autorit&ag rave; deputata all’emanazione del provvedimento finale. Ciò vale in modo particolare con riferimento alle ipotesi di esito negativo del procedimento di cui all’art. 208 d.lgs. 152/2006, in presenza di progetti privati, ma di utilità sociale, ancora necessari allo stato attuale del sistema di gestione dei rifiuti. Nel caso in esame, in particolare, avente ad oggetto il diniego di autorizzazione alla realizzazione del progetto di ampliamento di una discarica, la delicatezza degli interessi coinvolti imponeva alla Provincia di adottare una propria motivazione conclusiva, con l’indicazione delle ragioni ritenute ostative e non superabili attraverso l’imposizione di prescrizioni da parte del provvedimento autorizzatorio (ad es. con la precisazione dell’elenco di codici Cer conferibili) né con modifiche al progetto. Pertanto, non ris ultava sufficiente il mero rinvio ai pareri espressi dagli enti portatori di interessi propri e specifici, in una visione prettamente unilaterale della vicenda, occorrendo una valutazione complessiva, frutto della trasparente comparazione degli interessi rimessa all’amministrazione procedente, in grado di evidenziare in maniera chiara e coerente le scelte provinciali in tema di localizzazione e autorizzazione degli impianti di smaltimento di rifiuti e di consentire il sindacato estrinseco sulla legittimità degli atti.

I comuni sono liberi di chiedere agli utenti dei servizi di partecipare pro quota ai costi per l'erogazione dei suddetti i servizi. Pertanto, non esiste un diritto soggettivo in capo ai cittadini di ottenere quel servizio in forma gratuita. Inoltre, il meccanismo dell'Isee (indicatore della situazione economica equivalente) è adeguato per definire chi può e chi non può accedere in forma agevolata a tali servizi. È questo il principio sancito dal Tar Piemonte nella sentenza n. 1365/14.

Una sentenza che può essere letta come guida anche per altri casi, come quello di Roma, dove è scoppiata la protesta per gli aumenti dei costi degli asili. Il ricorso era stato presentato da alcuni genitori nei confronti della determinazione del Comune di Torino che aveva stabilito gli indirizzi per l'esercizio 2013 del sistema tariffario dei servizi educativi, approvando così le quote e le tariffe per l'anno scolastico 2013/2014. I ricorrenti contestavano che il comune guidato da Piero Fassino, rispetto agli anni precedenti, avesse aumentato la quota a carico delle famiglie degli allievi, imputando tale aumento al sistema ISEE utilizzato. Di qui la richiesta di pronunciare la illegittimità dell'atto impugnato perché il servizio, a loro dire, avrebbe dovuto essere erogato gratuitamente.

Secondo il Tar, il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico locale a domanda individuale. Ne consegue che l'ente locale non ha l'obbligo né di istituire né di organizzare il servizio. Qualora lo istituisca, l'ente locale deve individuare il costo complessivo del servizio, includendo sia i costi diretti effettivamente pagati per la sua erogazione, sia quelli indiretti. Nel fare ciò il Comune deve definire la misura percentuale del costo finanziabile con risorse comunali e fissare contribuzioni a carico diretto dell'utenza.

Pertanto, il Tar del Piemonte ha ritenuto legittime le scelte del Comune di Torino che ha agito nell'ambito dei propri poteri discrezionali. Le tariffe del servizio di refezione scolastica non sono aumentate perché il Comune ha applicato automaticamente gli scaglioni ISEE, bensì perché il Comune ha deciso, motivatamente, di aumentare la percentuale di contribuzione dell'utenza sul costo complessivo del servizio stabilito per l'nno scolastico 2013-2014, così come la legge gli consentiva di fare.

Federico Unnia

Concessione e appalto di servizi

Per consolidato orientamento giurisprudenziale si ha concessione di servizi quando l'operatore economico si assume in concreto i rischi della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza per mezzo della riscossione di un qualsiasi tipo di canone o tariffa, mentre si ha appalto laddove l'onere del servizio stesso viene a gravare sull'Amministrazione (in tal senso - ex plurimis -: Cons. Stato, VI, 4 settembre 2012, n. 4682; id., V, 9 settembre 2011, n. 5068; id., V, 6 giugno 2011, n. 3377 Consiglio di Stato Sez. VI del 21.5.2014).

La differenza tra le concessioni e gli appalti di servizi è quindi costituita dal cd. fattore rischio e, conseguentemente, dal corrispettivo. Le concessioni, infatti, si caratterizzano per la traslazione dell'alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato. Qualora l'operatore economico si assuma i rischi della gestione del servizio rifacendosi sull'utente mediante la riscossione di qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 30 del Dlgs 163/2006, rubricato “Concessione di servizi”. Sono proprio le modalità della remunerazione a costituire il tratto distintivo rispetto all'appalto di servizi nel quale l'onere viene a gravare sull'Amministrazione. La natura del contratto di concessione è quindi aleatoria, in opposizione al carattere commutativo del contratto d'appalto.

Altro carattere distintivo attiene, invece, ai destinatari. La concessione di servizi ha ad oggetto un servizio pubblico fornito alla collettività indistinta degli utenti; nel caso dell'appalto il servizio ha come destinatario la pubblica amministrazione appaltante. Con riferimento alla disciplina relativa alle concessioni di servizi, come ricordato da una giurisprudenza conforme e dallo stesso disposto normativo, l'affidamento deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.

CONCESSIONI DI SERVIZI, PREDETERMINAZIONE DEI CRITERI SELETTIVI

Lo ricorda il Consiglio di Stato con la sentenza 2 ottobre 2014, n. 4913 . I Giudici confermano l'annullamento di una gara di concessione di servizi "perché il bando di gara aveva omesso di attribuire a ciascuna componente dell'offerta qualitativa, individuando sub-criteri e/o sub-punteggi, il relativo punteggio, impedendo ai concorrenti di elaborare le offerte in relazione ai pesi di ciascuna componente e, a posteriori, non consentendo ad essi di riscontrare la corretta attribuzione dei punteggi alle singole offerte. Una simile situazione aveva esposto i concorrenti al rischio di valutazioni arbitrarie e all'impossibilità per il concorrente di conoscere integralmente i criteri di valutazione nel

momento in cui aveva predisposto l'offerta." Il Consiglio di Stato precisa che "proprio il comma 3 dell'art. 30 del Codice dei contratti , dispone che: “La scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi”. Pertanto, sebbene la normativa comunitaria abbia tendenzialmente escluso dal proprio ambito le concessioni di servizi, le stesse non si sottraggono al rispetto dei principi fondamentali del Trattato tra i cui corollari si apprezza proprio quello della predeterminazione dei criteri selettivi. Strumento quest'ultimo indispensabile per assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità. Quindi, sia pure nell'ambito di una gara informale, le concessioni di servizi possono essere affidate solo all'esito di una procedura caratterizzata dalla predeterminazione dei criteri selettivi."

2. La rilevanza economica degli impianti sportivi

Tra le prime azioni necessarie a stabilire le modalità di inquadramento e quindi di affidamento della gestione dell'impiantistica sportiva è la valutazione della rilevanza economica dei servizi sportivi. Secondo alcuni orientamenti comunitari, la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo in quanto non è possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura non economica, che varia nel tempo a seconda delle trasformazioni sociali. Spetta, inoltre, al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare di alcuni parametri quali l'assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività e dell'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in questione.

La rilevanza economica degli impianti sportivi è legata, secondo tali orientamenti, all'impatto che l'attività può avere sull'assetto della concorrenza ed ai suoi caratteri di redditività: ha rilevanza economica il servizio che risponde ad un interesse pubblico e che si innesta in un settore per il quale esiste, quantomeno in potenza, una redditività, e quindi una competizione sul mercato e ciò ancorché siano previste forme di finanziamento pubblico, più o meno ampie.

È privo di rilevanza economica il servizio che, per sua natura o per i vincoli ai quali è sottoposta la relativa gestione, non dà luogo ad alcuna competizione e quindi appare irrilevante ai fini della concorrenza. Nel caso della valutazione economica degli impianti occorre fare riferimento sia alle caratteristiche tecnico strutturali degli impianti che alla possibilità di sviluppare attività commerciali /imprenditoriali e/o tariffarie, oltre alla gestione sportiva tipica.

La rilevanza economica, in particolare, è caratterizzata da fattori che garantiscono un margine di profitto sulla base della redditività non determinabile a priori ma previa analisi puntuale di fattori quali, la dimensione dell'impianto sportivo, il bacino e numerosità d'utenza attesa, la propensione al consumo dei servizi sportivi, la tipologia impiantistica (impianto monovalente/ polivalente), la tipologia della disciplina sportiva (agonistica o attività sportiva di base), la presenza servizi aggiuntivi che consentano di incrementare l'autofinanziamento (wellness, fitness, ristorazione, vendita di prodotti sportivi, corsi di avviamento allo sport o per il benessere fisico, ecc.), la presenza o meno sul mercato di riferimento di potenziali imprese sponsor coinvolgibili.

Anche l'Ente Locale incide spesso sulla potenziale rilevanza economica degli impianti con l'introduzione di vincoli convenzionali che comprimono, di fatto, la capacità di autofinanziamento del soggetto gestore, quali il rispetto del sistema tariffario dei servizi rivolti all'utenza (art. 117 TUEL), i vincoli sociali di utilizzo, il numero di giornate di uso riservato degli impianti a titolo

gratuito per iniziative dell'Ente o di soggetti patrocinati, le eventuali migliorie obbligatorie. Si possono quindi delineare diverse tipologie di affidamento:

gli impianti sportivi a rilevanza economica regolati dall'art. 113 Dlgs 267/2000, gli impianti gestiti direttamente dagli enti locali, anche attraverso convenzioni tra gli enti

stessi, gli impianti gestiti da società a capitale interamente pubblico (in house providing) o aziende

speciali anche consortili, costituite dall'ente locale, gli impianti gestiti da associazioni e istituzioni costituite da enti locali e partecipate, tra gli

altri, da associazioni sportive dilettantistiche, enti promozione sportiva, associazioni di discipline sportive associate e federazioni sportive nazionali

3. Libero accesso e utilizzo degli impianti sportivi

L'art. 90, comma 24 della Legge 27 dicembre 2002 n. 289, introduce il principio di libero accesso e utilizzo degli impianti ai cittadini singoli o in forma associata come segue: «… l'uso degli impianti sportivi in esercizio da parte degli enti locali territoriali è aperto a tutti i cittadini e deve essere garantito, sulla base di criteri obiettivi, a tutte le società e associazioni sportive».

Rilevante, ai fini della individuazione del carattere di obbligatorietà o volontarietà a cui è tenuta la Pubblica Amministrazione nel momento di destinazione degli impianti e fornitura dei servizi, è l'esame della natura giuridica riferita alla finalizzazione dell'impiantistica sportiva. L'art. 90, comma 25, della legge citata precisa che nei casi in cui l'ente pubblico territoriale non intenda gestire direttamente gli impianti sportivi, la gestione è affidata in via preferenziale a società e associazioni sportive dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline sportive associate e Federazioni sportive nazionali, sulla base di convenzioni che ne stabiliscono i criteri d'uso e previa determinazione di criteri generali e obiettivi per l'individuazione dei soggetti affidatari. Il medesimo comma 25 stabilisce che le modalità di affidamento devono essere disciplinate dalle Regioni nell'ambito della propria potestà legislativa Il seguente comma 26 precisa poi che le palestre, le aree di gioco e gli impianti sportivi scolastici, compatibilmente con le esigenze dell'attività didattica e delle attività sportive della scuola, comprese quelle extracurriculari ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 ottobre 1996, n. 567 , devono essere posti a disposizione di società e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nel medesimo comune in cui ha sede l'istituto scolastico o in comuni confinanti.

4. Fase procedimentale di affidamento del servizio

Per quanto riguarda la fase procedimentale occorre considerare, in particolare, che nel caso della gestione di grandi complessi sportivi le organizzazioni dispongono di personale tecnico in possesso delle competenze professionali adeguate alla conduzione e organizzazione dell'attività sportiva tipica, nonché del personale idoneo per il presidio degli aspetti amministrativi Più spesso, nel caso di organizzazioni meno articolate, i gestori provvedono all'esternalizzazione di attività specifiche legate alla tutela e all'adeguamento funzionale del patrimonio e alla sicurezza del pubblico (edilizia, impiantistica tecnica, normativa sulla sicurezza).

Nel caso di impianti di piccole e medie dimensioni, peraltro, le figure gestionali sono spesso rappresentate da associazioni sportive dilettantistiche radicate sul territorio che non dispongono delle competenze interne necessarie a soddisfare pienamente le esigenze di gestione tecnica, amministrativa e contabile richieste. L'ente locale, pertanto, sia nel momento della stesura del regolamento, che delle procedure per l'affidamento in uso e gestione dei servizi e degli impianti (Bando, Disciplinare, Convenzione) dovrà presidiare opportunamente alcuni fondamentali aspetti quali, da un lato, la promozione dell'uso sociale degli impianti e la garanzia di utilizzo da parte degli altri soggetti sportivi, e dall'altro, la verifica del possesso di altre caratteristiche non meno importanti quali la solidità finanziaria (soprattutto nel caso delle gestioni di rilevanza economica), il piano organizzativo, il piano del personale impiegato e la natura del relativo rapporto di lavoro, il controllo

della qualità del servizio erogato e la capacità tecnica in generale. Tali ultimi aspetti dovranno essere valutati in ambito delle procedure di scelta del contraente, al fine di evitare situazioni che possono costituire motivo di instabilità e di inefficacia del servizio.

La presenza di un soggetto gestore che è al contempo soggetto utilizzatore dell'impianto (es.: l'associazione dilettantistica di calcio che gestisce gli impianti per la relativa disciplina sportiva) introduce fattori di criticità; occorre contemperare due opposte esigenze: l'interesse principale dell'associazione ad usufruire dell'impianto sportivo per le attività rivolte ai propri tesserati (attività di allenamento e di gara) con la necessità di garantire il servizio agli altri utenti sportivi in condizioni di uguaglianza, con riferimento alle condizioni previste dalla convenzione/contratto stipulata.

5. Canone concessorio ed eventuale contribuzione dell'ente

L'art. 11 del DPR 13 settembre 2005 n. 296 subordina (come già l'abrogata legge 11 luglio 1986 n. 390) la concessione del bene al pagamento di un canone anche se ridotto (cd. canone ricognitorio), tuttavia, come più volte evidenziato in giurisprudenza amministrativa e contabile, tale disposizione trova applicazione solo con riferimento ai beni dello Stato, così che gli enti locali concedenti impianti sportivi di loro proprietà possono, in lin in linea generale, affidare gli stessi senza prevedere il pagamento di un canone (in tal senso ex plurimis: T.A.R. Basilicata Potenza Sent., 12/05/2007, n. 366, T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, 27/11/2009, n. 2868, C. Conti Veneto Sez. giurisdiz., 21/04/2009, n. 323).

La Corte dei Conti, Sez. di Controllo per la Lombardia, con il parere n. 349/2011, in merito alla possibilità di non prevedere un canone concessorio ha rilevato che viene in rilievo la disciplina generale dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici contenuta nell'art. 12 della legge L. 7 agosto 1990, n. 241 in materia di procedimento amministrativo.

L'art. 12 cit., sotto la rubrica «Provvedimenti attributivi di vantaggi economici», stabilisce che «la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi»; poi, al secondo comma, aggiunge che «l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1».

Chiarito che il provvedimento attributivo del vantaggio economico in favore di soggetto di diritto privato deve essere adottato nel rispetto dei principi generali dettati dalla l. n. 241/90, nonché delle norme regolamentari dell'ente locale, occorre altresì evidenziare che all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale. Per quanto concerne la possibilità per l'Ente locale di prevedere l'erogazione di un contributo in favore del concessionario, rientra nella sfera della discrezionalità la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile e l'erogazione di contributi, purchè l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo.

Laddove la finalità perseguita dal Comune con l'erogazione di un contributo annuale alle Associazioni che operano sul territorio è quella di sostenere le associazioni locali che abbiano specifiche caratteristiche di collegamento con la Comunità locale, si tratta di prestazione che non rientra nella nozione di spesa per sponsorizzazione vietata dall'art. 6, co. 9 del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, convertito in L. 31 luglio 2010, n. 122 e, come tale, ammissibile, nei limiti delle risorse finanziarie dell'ente locale e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica di carattere generale.

6. L'ente locale e la gestione diretta degli impianti sportivi quale opzione residuale

La citata Legge 27 dicembre 2002 n. 289 non esclude la gestione diretta degli impianti già prevista dall'art. 113 Dlgs 18 agosto 2000, n. 267, che la ricomprende nel novero delle possibili modalità di gestione dei servizi pubblici locali, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una azienda speciale, anche consortile, una società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano.

Occorre considerare che la gestione diretta comporta, per la pubblica amministrazione, il farsi carico di esigenze a volte complesse sia nel campo dell'organizzazione che della ricerca delle necessarie risorse per garantire l'autofinanziamento delle spese gestionali (tariffe, vendita prodotti di merchandising, servizi aggiuntivi, corsi di formazione sportiva, sponsorizzazioni, ecc.). L'ente locale, in tali casi, deve operare secondo una logica di management pubblico nel tentativo di soddisfare l'esigenza di massimizzazione delle fonti di finanziamento delle attività di gestione e, al contempo, di soddisfare gli obiettivi politici di socialità. Il ricorso alla tariffa deve essere considerato solo come una delle componenti di entrata per consentire la copertura dei costi gestionali sostenuti.

7. Schema iter di affidamento impianti sportivi comunali

Uno schema a titolo meramente esemplificativo dell'iter di affidamento d'impianti sportivi comunali potrebbe essere il seguente.

1. REGOLAMENTO PER LA GESTIONE E L'USO DEGLI IMPIANTI SPORTIVI COMUNALI – da approvare con Delibera di Consiglio Comunale

2. Modulo: CONCESSIONE DI SERVIZI EX ART. 30 DEL DLGS 18 AGOSTO 2000, N. 267 - con possibilità di prevedere l'esclusiva partecipazione di da associazioni sportive dilettantistiche, enti promozione sportiva, associazioni di discipline sportive associate e federazioni sportive nazionali ex Legge 27.12.2002 n. 289 – da approvare come modulo procedimentale con Delibera di Consiglio Comunale – competenza del Consiglio Comunale ex art. 42, comma 2, lett. e :” e) organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione”

3. SCHEMA DI CONVENZIONE TRA CONCEDENTE E CONCESSIONARIO: possibilità di prevedere azzeramento del canone concessorio e previsione di un contributo da parte del Comune, entrambi motivati ad esempio nel primo caso dalla volontà di favorire «l'attività giovanile, l'aggregazione sportiva e l'integrazione dei cittadini, l'accesso alla pratica sportiva da parte di tutti senza distinzione di genere, di abilità, di condizione sociale; la nascita e lo sviluppo di nuove discipline sportive in considerazione dell'alta finalità sociale e dell'interesse pubblico che esse rivestono», nel secondo caso dalla possibilità per il Comune di prevedere tariffe agevolate per i residenti o per categorie di persone quali bambini delle scuole, anziani, ecc… oppure per riservarsi la possibilità di continuare ad utilizzare gli impianti a semplice richiesta al concessionario - da approvare come modulo procedimentale con Delibera di Consiglio Comunale – competenza del Consiglio Comunale ex art. 42, comma 2, lett. e :” e) organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione”. Allegato alla Convenzione: DISCIPLINARE /CAPITOLATO recante le disposizioni speciali in materia di manutenzione ordinaria/straordinaria/spese

4. BANDO DI GARA EX ART. 30 D.LGS. 18 AGOSTO 2000, N. 267 E ALLEGATI (Domanda di partecipazione - Offerta economica (se si prevede un canone concessorio) – e Offerta tecnica progettuale contenente il progetto di gestione/sviluppo/implementazione degli impianti) – da approvare con Determinazione del Responsabile del Servizio competente

5. PROCEDURA DI AGGIUDICAZIONE: offerta economicamente più vantaggiosa sia nel caso di canone concessorio azzerato, nel qual caso si valuteranno solo i criteri contenuti nell'offerta tecnica progettuale, sia nel caso si stabilisca un canone concessorio base e quindi si valuteranno la somma dei punteggi conseguiti nelle due offerte.

6. DETERMINA DI AGGIUDICAZIONE DEFINITIVA7. STIPULA DELLA CONVENZIONE

Il decreto-legge n. 90 del 2014, convertito dalla Legge n. 114/2014, contiene varie misure in materia di lavoro pubblico; misure riguardanti l’organizzazione della pubblica amministrazione; alcuni interventi urgenti in materia di semplificazione, misure per l’incentivazione della trasparenza e correttezza delle procedure nei lavori pubblici; norme in materia di giustizia, nella direzione di uno snellimento del processo amministrativo e dell’attuazione del processo civile telematico; vediamo di analizzare le principali novità che interessano gli enti locali con particolare riferimento al settore ragionieristico-tributario.

Diritti di rogito

Abrogata la norma di concessione di una quota dei diritti di rogito ai segretari comunali e provinciali. Queste novità non si applicano per le quote già maturate alla data del 25 giugno 2014, data di entrata in vigore del D.L. (art. 10, comma 1)

Provento annuale diritti di segreteria

Il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune o alla provincia. Per i comuni ci sono eccezioni. E' previsto, infatti, che negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della Tabella D.L. 8 giugno 1962, n. 604 (si tratta di avvisi d'asta, verbali relativi ad incanti, contratti relativi agli avvisi d'asta, ecc.) è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore ad un quinto dello stipendio in godimento. Queste novità non si applicano per le quote già maturate alla data del 25 giugno 2014- data di entrata in vigore del D.L. E' previsto, altresì, che il segretario ( comunale e provinciale) roga, su richiesta dell'ente, i contratti nei quali l'ente è parte e autentica scritture private ed atti unilaterali nell'interesse dell'ente (art. 10, comma 2).

Soppressione incentivi progettazione

I commi 5 e 6 dell'art. 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 sono abrogati. Il comma 5, riguardava l'incentivo del 2 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, il comma 6 riguardava l'incentivo del trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato (art. 13)

Fondo per la progettazione e l'innovazione

E’ stabilito che le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro. La percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento e all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini (art. 13-bis).

Fusione comuni

A decorrere dall'anno 2013, il contributo straordinario ai comuni che danno luogo alla fusione, di cui all'art. 15, comma 3, del TUEL 18 agosto 2000, n. 267, o alla fusione per incorporazione di cui all'art. 1, comma 130, L. 7 aprile 2014, n. 56, è commisurato al 20 per cento dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti in misura comunque non superiore a 1,5 milioni di euro. Queste disposizioni si applicano per le fusioni di comuni realizzate negli anni 2012 e successivi. Alle fusioni per incorporazione, ad eccezione di quanto per esse specificamente previsto, si applicano tutte le norme previste per le fusioni di cui all'art. 15, comma 3, del D.Lgs. n. 267 del 2000. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'interno sono disciplinati le modalità e i termini per l'attribuzione dei contributi alla fusione dei comuni e alla fusione per incorporazione innanzi visti. A decorrere dall'anno 2013 sono conseguentemente soppresse le disposizioni del regolamento concernente i criteri di riparto dei fondi erariali destinati al finanziamento delle procedure di fusione tra i comuni e l'esercizio associato di funzioni comunali, di cui al Decreto del Ministro dell'interno 1° settembre 2000, n. 318, incompatibili con le disposizioni innanzi viste (art. 23).

Acquisizione lavori, beni e Novità per i comuni istituiti a seguito di fusione; i comuni non

servizi: fusione comuni

capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'art. 32 del D.Lgs. n. 267 del 2000, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della L. n. 56 del 2014. In alternativa, gli stessi comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento. L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture non rilascia il codice identificativo gara (CIG) ai comuni non capoluogo di provincia che procedano all'acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli adempimenti innanzi previsti. Per i comuni istituiti a seguito di fusione l'obbligo di cui al primo periodo decorre dal terzo anno successivo a quello di istituzione (art. 23-bis).

Città metropolitane e province: recupero per

omesso versamento contributo

In caso di mancato versamento del contributo di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 47, D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 giugno 2014, n. 89, entro il 10 ottobre, sulla base dei dati comunicati dal Ministero dell'interno, l'Agenzia delle Entrate, attraverso la struttura di gestione di cui all'art. 22, comma 3, D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, provvede al recupero delle predette somme nei confronti delle province e delle città metropolitane interessate, a valere sui versamenti dell'imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, esclusi i ciclomotori, di cui all'art. 60, D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, riscossa tramite modello F24, all'atto del riversamento del relativo gettito alle province medesime (art. 23-quater).

 

 Ratei facoltà assunzionali e impegni di spesa

Nella delibera n. 214 del 15 luglio 2014 la Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, ha chiarito che la possibilità di cumulo dei ratei delle facoltà assunzionali non utilizzate anno per anno, non richiede un impegno formale in senso contabile delle somme che si liberano.

Il Sindaco di un Comune, assoggettato alle regole del Patto di Stabilità interno dall’anno 2012, ha posto sostanzialmente alla Sezione della Corte dei Conti i seguenti quesiti:

1. se, ai fini del computo del montante delle facoltà assunzionali residue del Comune, parametrate ad una riduzione della spesa sostenuta, secondo legge,“nell’anno precedente” e riferite dunque alla somma delle cessazioni relative alla disciplina del turn-over e non utilizzate medio tempore, sia necessario impegnare contabilmente la quota delle risorse inerenti alle facoltà assunzionali che di anno in anno si liberano ovvero sia a tal fine

sufficiente una qualche forma di “prenotazione” ai soli fini del disposto di cui all’art. 1, comma 557, della legge 27/12/2006, n. 296;

2. se, in considerazione del cumulo delle quote accantonate per due cessazioni di personale, avvenute rispettivamente nel 2012 e nel 2014, “sia possibile utilizzare la suddetta spesa accantonata per procedere ad un’assunzione nel corso dell’anno 2015”.

I giudici contabili osservano che, con la deliberazione n. 27/SEZAUT/2013/QMIG, interpretando la normativa oggetto del presente parere, in una fattispecie però diversa, ha affermato il principio di diritto, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge n. 174 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 213 del 2012, secondo cui “l’art. 16, comma 31 del d.l. n. 138/2011, che ha esteso, anche ai comuni con popolazione compresa tra i 1.001 ed i 5.000 abitanti, l’obbligo di riduzione della spesa di personale di cui all’art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006, è norma di stretta interpretazione, pertanto l’importo previsto per assunzioni programmate, ma non effettuate, non può incrementare virtualmente il livello della spesa di personale da prendere in considerazione per l’anno di riferimento”.

Tuttavia, nel caso di specie, non si verte in una fattispecie di comparazione fra aggregati di spesa disomogenei, come in quel caso (dove, nello specifico, si affrontava il problema relativo alla comparabilità fra spese per il personale effettive e spese per il personale “virtuali”, cioè tali da considerare anche la spesa per le assunzioni programmate, ma non ancora effettuate), ma in un’ipotesi di accantonamento di risorse, anno per anno, ad opera dell’ente locale, al fine di procedere ad un “utilizzo congiunto” di dette risorse accantonare per una nuova assunzione che assorba il montante delle facoltà assunzionali residue.

Quanto al merito della prima questione, relativa alla necessità, ai fini dell’impiego congiunto, di un impegno contabile della quota delle risorse inerenti alle facoltà assunzionali che di anno in anno si liberano ovvero alla sufficienza, a tal fine, di una qualche forma di “prenotazione” per il soddisfacimento “del disposto di cui all’art. 1, comma 557, della legge 27/12/2006, n. 296”, si deve preliminarmente muovere da una ricostruzione del quadro normativo rilevante e della giurisprudenza di questa Corte in materia.

L’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, evocato dal Comune istante, stabilisce che “(a) i fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, con azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio, ai seguenti ambiti prioritari di intervento:

a. riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile;

b. razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico amministrative, anche attraverso accorpamenti di uffici con l'obiettivo di ridurre l'incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organici;

c. contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni statali”.

Dalla prospettazione, in fatto ed in diritto, del richiedente, s’evince dunque che la disposizione da esso in realtà considerata, nel formulare il parere, è invero non quella prima riportata, quanto piuttosto l'art. 76, comma 7, del decreto legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente modificato, il quale stabilisce, fra l’altro, che:

a. "è fatto divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con

qualsivoglia tipologia contrattuale; i restanti enti possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente”;

b. “per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o inferiore al 35 per cento delle spese correnti sono ammesse, in deroga al limite del 40 per cento e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale, le assunzioni per turn-over che consentano l'esercizio delle funzioni fondamentali previste dall'articolo 21, comma 3, lettera b), della legge 5 maggio 2009, n. 42” (tale comma è stato ora abrogato dall’art. 3, comma 5, del D.L. n. 90 del 2014).

L'art. 14, comma 9, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010, ha disposto che tali disposizioni si applicano “a decorrere dal 1° gennaio 2011, con riferimento alle cessazioni verificatesi nell'anno 2010".

Al riguardo, si deve rilevare che questa Sezione, in riferimento a disposizioni che parametrano la riduzione alla spesa di personale all’“anno precedente”, ha affermato, anche in riferimento a Comuni sottoposti al Patto di Stabilità, una siffatta possibilità di cumulo, ritenendo che si possano riportare all’anno successivo eventuali margini di spesa originati da cessazioni di personale non utilizzate nell’anno precedente (deliberazioni nn. 167/2011/PAR, 451/2012 e 18/2013/PAR di questa Sezione; cfr. Sezioni Riunite, in sede di controllo, deliberazione n. 52/CONTR). Tuttavia, in relazione a disposizioni che invece considerano un anno specifico come termine di paragone, dette pronunce hanno invece affermato l’opposto principio, dato che, in tali ipotesi, è il legislatore ad individuare un anno specifico come termine di raffronto.

Sulla base del tracciato quadro normativo e giurisprudenziale, si deve ritenere che a tali fini non sia necessario che l’ente locale proceda, anno per anno, ad uno specifico impegno delle somme liberate dal mancato impiego delle facoltà assunzionali residue determinate dalla disciplina vincolistica del turn-over.

Infatti, da un lato, l'impegno, che costituisce la prima fase del procedimento di spesa, postula, secondo l’art. 183, comma 1, del T.U.E.L., un’obbligazione giuridicamente perfezionata, mentre in virtù del blocco del turn-over (e del connesso progressivo cumulo delle facoltà assunzionali negli anni) l’assunzione potrebbe intervenire anche a distanza di tempo rispetto al momento in cui le risorse si liberano; l’assunzione, al limite, potrebbe anche non intervenire del tutto.

Ne consegue che la minore spesa per il personale verificatasi nell’anno, al termine dello stesso, si traduce in una economia che va a migliorare i saldi di finanza pubblica. Infatti, secondo l’ art. 190, commi 2 e 3, T.U.E.L. , “le somme non impegnate entro il termine dell'esercizio costituiscono economia di spesa e, a tale titolo, concorrono a determinare i risultati finali della gestione”; esse non possono essere iscritte fra i residui passivi.

In tal modo si realizza la finalità stessa delle misure di contenimento della spesa di personale, rivolte, oltre a ridurre le rigidità di bilancio, a realizzare un intervento che, anche alla luce degli obblighi assunti dall’Italia in sede europea, abbia effetti positivi immediati sugli equilibri delle pubbliche finanze.

Verificatasi dunque la vacanza d’organico non sostituita secondo il coefficiente di turn over dell’anno, l’ente locale dovrà programmare in termini amministrativi la futura assunzione, che potrà però realizzarsi, nel rispetto della disciplina vincolistica delle assunzioni a quel momento vigente, laddove nell’anno dell’assunzione sia possibile iscrivere nel relativo bilancio la spesa.

Nel caso in cui il procedimento assunzionale non si perfezioni nell’anno nel cui bilancio preventivo è iscritta la previsione di spesa, potrà trovare applicazione, anche in via analogica, la disposizione di cui all’art. 183, terzo comma, ultimo periodo, del T.U.E.L., articolo secondo cui:

a. “durante la gestione possono anche essere prenotati impegni relativi a procedure in via di espletamento”;

b. “i provvedimenti relativi per i quali entro il termine dell'esercizio non è stata assunta dall'ente l'obbligazione di spesa verso i terzi decadono e costituiscono economia della previsione di bilancio alla quale erano riferiti, concorrendo alla determinazione del risultato contabile di amministrazione”;

c. “quando la prenotazione di impegno è riferita a procedure di gara bandite prima della fine dell'esercizio e non concluse entro tale termine, la prenotazione si tramuta in impegno e conservano validità gli atti ed i provvedimenti relativi alla gara già adottati”.

somme derivanti dallo “sblocca-debiti” non possono essere destinate a finanziare spese aggiuntive

Le somme ricevute dagli Enti a seguito dei provvedimenti "sblocca-debiti" (in particolare dal DL 35/2013 convertito nella legge 64/2013), a valere sui fondi specificamente costituiti, rappresentano "anticipazioni" finanziarie finalizzate a fronteggiare situazioni di tensione di liquidità e non possono essere destinate al finanziamento di spesa aggiuntiva.

È quanto ha stabilito la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti con la deliberazione n. 19/SEZAUT/2014/QMIG, censurando, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale, il comportamento di una Regione che aveva utilizzato tali risorse in parte per finanziare il disavanzo risultante dal rendiconto 2012 e in parte per finanziare i trasferimenti alle aziende sanitarie e gli ammortamenti non sterilizzati.

Di conseguenza, secondo la magistratura contabile, anche questa anticipazione (così come quella ordinariamente prevista dall'articolo 222 del Tuel) deve essere contabilizzata secondo la logica delle "partite di giro", in forza della quale l'entrata da attivazione dell'anticipazione finanzia il "rimborso" della stessa anticipazione e non spesa in conto capitale o spesa corrente.

Pertanto, l'iscrizione deve avvenire computando l'entrata nel titolo V (relativo alle accensioni di prestiti) e la spesa nel titolo III (rimborso di prestiti) per l'intero importo, anche al fine di sterilizzare il possibile effetto prodotto sul risultato di amministrazione che, procedendo diversamente, risulterebbe maggiore rispetto a quello correttamente determinato.

Seguendo quest'ultima modalità, tra l'altro, avendo tale finanziamento natura di anticipazione, sarebbe parimenti violato il principio sancito dall'articolo 119 della Costituzione, a mente del quale gli enti territoriali possono ricorrere a indebitamento esclusivamente per il finanziamento degli investimenti.

Procedendo nel modo descritto, infatti, la contabilizzazione è del tutto coerente con la natura e le peculiarità: l'anticipazione non è così destinata a fronteggiare nuove spese bensì a fronteggiare, esclusivamente "in termini di cassa", corrispondenti spese già decise e finanziate "in termini di competenza" (e quindi impegnate).

Solo in questi termini, infatti, l'operazione è consentita dalle disposizioni vigenti in materia e, in particolare, dall'articolo 3 della legge 350/2003, secondo cui "le operazioni che non comportano risorse aggiuntive, ma consentono di superare, entro il limite massimo stabilito dalla normativa

statale vigente, una momentanea carenza di liquidità e di effettuare spese per le quali è già prevista idonea copertura a bilancio" non costituiscono indebitamento.

Ne consegue altresì, a parere della Corte dei conti, che tale anticipazione, non avendo la finalità di finanziare spese ma soltanto quello di fornire risorse utilizzabili per cassa per pagare spese regolarmente impegnate e finanziate, non deve incidere in alcun modo sui saldi del risultato di amministrazione.

A tale scopo, pertanto, legato all'esigenza di assicurare l'assoluta neutralità dell'operazione ai fini della determinazione del risultato di amministrazione, è quindi necessario contabilizzare integralmente la spesa relativa al rimborso dell'anticipazione ricevuta già nel primo esercizio di riferimento, con la corrispondente assunzione dell'impegno.

La conferma della giustezza di tale impostazione, tra l'altro, risulta anche dai contenuti dei contratti di prestito stipulati con il Mef, i quali stabiliscono che la Regione si è impegnata a registrare nelle scritture contabili l'entrata derivante dall'anticipazione con modalità tali da evitare l'ampliamento della propria capacità di spesa.

Per riflettere correttamente contenuti e caratteristiche dell'operazione, la magistratura contabile (coerentemente con quanto deciso in passato in relazione al fondo di rotazione di cui all'articolo 243-ter del Tuel) suggerisce di costituire un apposito fondo vincolato (denominato, ad esempio, "Fondo speciale destinato alla restituzione dell'anticipazione ottenuta"), pari all'importo dell'anticipazione assegnata dal Mef, maggiorata degli interessi previsti dal piano di restituzione, da ridursi progressivamente sulla base di un ammontare pari alle somme annualmente rimborsate.

Tale soluzione, in più, presenta il vantaggio di evidenziare i movimenti contabili sia nel conto del bilancio sia nel conto del patrimonio, in cui il debito per anticipazione viene rilevato tra i debiti di finanziamento.

In ultimo, con la pronuncia, la Sezione delle Autonomie della Corte invita le singole Sezioni regionali di controllo, nell'ambito delle valutazioni di competenza finalizzate alla salvaguardia degli equilibri di bilancio e delle regole sull'indebitamento, a verificare la corretta applicazione delle clausole contrattuali e dei principi di corretta contabilizzazione in bilancio delle anticipazioni di liquidità concesse.

Regole che impongono, altresì, di sterilizzare l'eventuale miglioramento prodotto sul risultato di amministrazione dall'anticipazione ricevuta sia per l'anno di riferimento sia per le annualità successive, fino al completo rimborso del finanziamento ottenuto, con l'obiettivo di evitare che essa possa generare effetti espansivi della capacità di spesa.

Conclusivamente, va ricordato che l'impostazione accolta dalla Sezione delle Autonomie risulta coerente, nelle finalità perseguite (ancorché diversa nelle specifiche modalità di attuazione), con le indicazioni rivenienti dal Ministero dell'Economia e delle finanze che già nel corso del 2013 aveva evidenziato che «l'anticipazione in esame è configurabile come partita di natura meramente finanziaria finalizzata a fornire liquidità agli enti che ne risultano sprovvisti» non concorrendo agli equilibri di parte capitale.

Lo stesso Ministero, però, aveva ipotizzato di istituire un apposito fondo nella parte spesa del bilancio per un importo pari a quello dell'anticipazione accertata in entrata, imputato contabilmente tra i rimborsi di prestiti sul quale non è possibile impegnare e pagare.

Di conseguenza, a fine esercizio, sarebbe stato necessario far confluire la relativa economia di bilancio nel risultato di amministrazione, costituendo il fondo vincolato destinato a reintegrare le risorse correnti utilizzate per il rimborso dell'anticipazione (esclusi gli interessi).