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30 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 31 LUGLIO 2016 n. 209 Religioni e società «Q uel che non agisce non è» (E. Mounier). Dal latino actio - derivato da ag re “fare”, “agire” - il primo significato di azione è di un gesto volto al conseguimento di uno scopo di natura individuale o sociale. L’azione quindi non è un generico “darsi da fare” né un capriccioso “dir di sì” o “dir di no” senza un fine. Per i Greci l’azione va ricondotta alla parola praxis, che evoca dinamismo e attività, fino a definire un particolare modo di essere dell’uomo praktikos (abile, attivo, efficace). Aristotele, senza abolire la distanza fra l’agire e il pensare, lega in un certo senso la credibilità del pensiero alla sua capacità di trasformarsi in praxis; di trasformarsi cioè in un vivere, nel concreto dipanarsi degli eventi, impegnando se stessi. «Per la mente che vede con chiarezza - scrive J. Krishnamurti - non c’è necessità di scelta, c’è azione». Il filosofo francese E. Mounier offre una tipologia dell’azione, in base alla quale il “fare” (poièin) è l’azione che ha per scopo principale quello di dominare e organizzare una materia esterna; essa va valutata in termini di efficacia. L’ “agire” (pràttein) mira a formare colui che agisce, la sua abilità, le sue virtù, la sua unità personale; essa va giudicata in termini di autenticità. «Fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza, non vuol dire semplicemente subire - ricorda T. Mann - è un’azione attiva, un trionfo positivo». E infine, il “contemplare” (teorèin), che non è un’evasione ma «aspirazione a un regno di valori che pervadano e sviluppino tutta l’attività umana». L’autentica azione contemplativa si esprime attraverso la parola profetica che, contro gli inevitabili accomodamenti e le colpevoli compromissioni della storia, dà testimonianza dell’assoluto nel suo tagliente rigore. A completamento di questa tipologia dell’azione, Mounier si fa attento alla dimensione collettiva dell’azione: una dimensione che converte all’impegno meglio di quanto non siano in grado di farlo i clamori dei solitari. Con una avvertenza: esaltando la dimensione collettiva dell’azione non si intende offrire alcuna giustificazione a deformazioni che caratterizzano alcune istituzioni educative, di indirizzo politico o religioso. L’azione collettiva di cui qui si parla è decisamente lontana dal sonno delirante dei grandi ritmi unanimi, dalla rigidità passiva delle strutture militarizzate, dall’entusiasmo cieco e dall’opinione irresponsabile e prefabbricata. L’azione collettiva che converte all’impegno poggia sul gusto dello scambio, del dialogo, dell’impegno, del giudizio, della diversità e della sinodalità. Tuttavia «un’azione è valida ed efficace - avverte Mounier - solo se si è misurata prima con la verità, che le dà il suo senso e con la situazione storica, che le assicura insieme la misura e le condizioni per la sua realizzazione. Allorché da ogni parte, sotto il pretesto dello stato di emergenza, ci viene sollecitato di agire, non importa come e per qual fine, la cosa più urgente è quella di ricordare queste due esigenze fondamentali dell’azione e soddisfarle». © RIPRODUZIONE RISERVATA abitare le parole / azione di Nunzio Galantino Pensare muovendosi di  Gianfranco Ravasi P oche settimane fa (il 3 luglio) la copertina del nostro supplemen- to è stata occupata da alcuni estratti di un curioso e suggestivo sermone di Erasmo da Rotterdam. Vorrei ritornare su questo scritto affrontandone la componente teologica, soprattutto in connessione col grande interlocutore po- lemico di questo principe degli umanisti, cioè Martin Lutero, del quale l’anno pros- simo celebreremo il celebre atto d’avvio della Riforma protestante, la pubblicazio- ne delle «95 tesi». Pochi sanno che Erasmo da Rotterdam era un sacerdote agostiniano, ordinato nel 1492. Successivamente sarà dispensa- to dagli obblighi monastici di quell’Ordi- ne a cui apparteneva anche il suo “avver- sario” Lutero. Come è noto, Erasmo Desi- derio – latinizzazione del suo nome olan- dese Geer Geertz – col grande riformatore ebbe una veemente contesa teorica il cui emblema era già nel titolo stesso di quella “diatriba”, cioè del saggio De libero arbi- trio, al quale Lutero replicò con un altret- tanto famoso De servo arbitrio. Eravamo nel 1524: proprio in quello stesso anno ve- niva pubblicato questo Sermone sull’im- mensa misericordia di Dio che Pasquale Terracciano ha tradotto dal latino a di- stanza di oltre quattro secoli e mezzo dalla sua prima versione italiana (1542), “am- morbidita” dal traduttore di allora, Marsi- lio Andreasi (ne seguirono altre due nel 1551 e nel 1554 e poi il silenzio). Si può, perciò, dire che la nuova pre- sentazione di questa concio – come la ti- tola Erasmo – «elegantissima e coinvol- gente», sia una sorpresa che cade proprio nell’anno giubilare della misericordia. Ed è curioso notare che gli scritti di Era- smo, apologeta intelligente e libero del cattolicesimo, nel 1559 finirono senza misericordia sotto la mannaia dell’Indice di papa Paolo IV Carafa, come le ben più roventi pagine di Lutero. Ora, in questo testo erasmiano si intravedono in filigra- na gli stessi percorsi tematici dello scritto in difesa del libero arbitrio. Una difesa condotta, però, senza ignorare la pesan- tezza del peccato umano, focalizzato so- prattutto dall’antagonista Lutero. La raf- finatezza del teologo umanista sta nel navigare con rotta mediana tra i due sco- gli: da un lato, la Scilla di un’antropologia consapevole del male insediato nella cre- atura umana, per altro sottolineato an- che da san Paolo; d’altro lato, la Cariddi dell’«immensa misericordia» divina che ingloba e trascende la mera giustizia e che riconosce alla libertà umana la possi- bilità di un’accoglienza di questa grazia e della relativa conversione. Quindi, come nel trattato De libero arbi- trio, Erasmo parte dallo stesso terreno pessimistico sul quale è saldamente anco- rato Lutero, per approdare però a un ben diverso esito. Certo, l’uomo debole e simi- le a un verme, con la sua scelta libera può secernere male e colpa; ma questa creatu- ra ha in sé la stessa capacità libera di acco- gliere il dono divino del perdono miseri- cordioso. Senza un simile “libero arbi- trio”, sarebbe impossibile l’atto morale responsabile. Interessante a questo ri- guardo è la comparazione che Erasmo stabilisce tra due peccatori, entrambi tra- ditori di Cristo, entrambi avvolti dal man- to misericordioso di Dio, ma dalla fine an- titetica proprio per il diverso esercizio della libertà, sfociata nella conversione per l’uno, nella disperazione per l’altro. Lasciamo la parola al grande “predicato- re” che mette in scena appaiati Pietro e Giuda. «Pietro ricordò e tornò nel suo cuore [si convertì dal tradimento], e per questo gli venne tolto il cuore di pietra, quel cuore di pomice dal quale non si poteva far uscire alcuna lacrima: gli fu dato un cuore di car- ne, dal quale immediatamente sgorgò una fonte di lacrime, amara per il dolore della penitenza, ma salutare per l'inno- cenza che gli fu restituita. Giuda, invece, non è tornato a Gesù, ma andò dai sacer- doti e dai farisei, riportò indietro il fatale compenso, si diresse verso l'infausto ca- pestro e si squarciò in mezzo (Atti 1,18)... Giuda conobbe la grandezza del suo erro- re, ma non si ricordò delle parole di Dio, che nei libri sacri incessantemente invita- no al ritorno [conversione], spingono alla penitenza e promettono la misericordia». Certo, la grazia divina precede ed ecce- de la libertà umana ma non la annulla perché non vuole come destinatario una realtà materiale che obbedisca solo a leg- gi fisiche necessitanti ma un interlocuto- re libero, consapevole della sua colpa e disponibile ad essere abbracciato dal suo Creatore che punisce il peccato fino alla quarta e quinta generazione, ma perdo- na fino alla millesima generazione, come afferma il Dio biblico citato nel finale del- l’opera (Esodo 34,6-7). Il primato, dun- que, è sempre di Dio e della sua miseri- cordia che trascende la pur esigente sua giustizia. All’uomo, però, non viene tolta la possibilità di accettare l'offerta della salvezza o di rigettarla. Naturalmente il discorso di Erasmo, condotto su un ne- cessario crinale tra luce e tenebra, è più complesso, come emerge dall’accurata introduzione del curatore Pasquale Ter- racciano. È lui a sottolineare anche un al- tro aspetto che riteniamo molto sugge- stivo, soprattutto oggi con lo sforzo evi- dente del papato di Francesco per il dia- logo ecumenico e interreligioso. L’azione della misericordia divina non si esercita solo nei confronti dei cristiani, ma si manifesta anche nell’intera storia dell’umanità, tant’è vero che non si fa cenno alla necessità del battesimo per ot- tenere il dono della bontà divina. Perciò, come Giuda, anche il faraone oppressore avrebbe potuto salvarsi, così come la di- scesa di Cristo agli inferi testimonia che la misericordia divina può spalancare anche le «porte delle tenebre». E qui en- tra in scena una tesi delicata e si rivela l’abilità di Erasmo nel muoversi su un terreno molle: «Oserei aggiungere, in ac- cordo con l’autorità di Giobbe e dell’Apo- stolo, che non solo la terra è piena della misericordia di Dio, ma lo sono anche i cieli e gli inferni». Sta di fatto, comunque sia, che la misericordia acquista un rilie- vo capitale nella stessa definizione di Dio e dell’essere umano: se Dio non potesse perdonare, non sarebbe onnipotente. È ciò che si legge anche nel libro biblico della Sapienza: «Hai compassione di tut- ti, perché tutto puoi... Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signo- re amante della vita» (11,23.26). Come scrive Terracciano, il sermone è «capace di sfruttare sapientemente le re- gole della retorica e la maestria dell’ese- gesi delle S. Scritture per provvedere all'elevazione morale del proprio udito- rio». Non bisogna dimenticare che lo stesso Erasmo elaborò una ratio concio- nandi, un esemplare canone di eloquen- za e retorica sacra nella sua ultima gran- de opera intitolata Ecclesiastes, un ri- mando allusivo al significato etimologi- co di questo vocabolo che è lo pseudonimo greco-latino di un autore biblico, l’Ecclesiaste appunto o Qohelet, cioè il “Predicatore”. Era il 1535 ed Era- smo morirà sessantasettenne l’anno successivo in quella Basilea ove aveva tentato invano di conciliare cattolici e protestanti, divenuto arbitro del dialogo umanistico, culturale e teologico, stima- to ma non ascoltato da papa Leone X o da- gli imperatori Francesco I e Carlo V. In appendice, vorremmo però allegare una bella testimonianza sulla misericordia divina proprio dell’interlocutore pole- mico ma rispettoso di Erasmo, cioè Lute- ro: «La misericordia di Dio è come il cielo che rimane sempre fisso sopra di noi. Sotto questo tetto siamo al sicuro dovun- que ci troviamo». © RIPRODUZIONE RISERVATA Erasmo da Rotterdam, La misericordia di Dio, a cura di Pasquale Terracciano, Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 118, € 10 teologia & letteratura Cercare lo Spirito nelle lettere di  Armando Torno M arco Ballarini, docente di Teolo- gia e Letteratura alla Facoltà teo- logica dell’Italia settentrionale, dottore della Biblioteca Ambro- siana, monsignore del Duomo di Milano, si potrebbe definire un letterato. Avrebbe vissu- to benissimo nel Settecento, quanto Muratori stava attendendo alle sue eruditissime opere; nell’Ottocento sarebbe stato di casa con Porta e Manzoni, ma non potremmo escludere qualche sua frequentazione con Vincenzo Monti, nella cui magione tra l’altro si riuniva la claque della Scala. Nel Novecento Ballarini ha fatto comunque tanto, a cominciare dai suoi studi su Bernanos, tuttavia è stato costretto a vivere in un periodo nel quale la cosiddetta so- cietà letteraria si è quasi estinta o si vede poco, comunque respira a fatica. Del resto, a diffe- renza della Chiesa, di cui don Marco è membro prezioso e che resta somma istituzione rego- lata dai secoli, la letteratura odierna va a perio- di, a volte non più lunghi di qualche settimana. Tutto questo lo scriviamo non con intenti ironici ma semplicemente con il desiderio di rendere omaggio a monsignore, uomo di va- ste letture e di meditate ricerche, soprattutto di raffinato spirito. Una fede magnifica convi- ve in lui con gli slanci e le delusioni e gli esal- tanti intenti delle lettere; per dirla in breve, nel suo animo vi trovate Parini (del quale cura an- che dei testi nella nuova edizione nazionale) e von Balthasar, un pensiero su una passione del Pulci e Romano Guardini intento a capire l’enigma Dostoevskij. Scusate il pasticcio, ma non era intenzione di chi scrive tentare un ritratto a tutto tondo di Ballarini; il vostro cronista cercava soltan- to di presentare tre volumi da poco usciti che si possono considerare il compendio del suo lavoro di studioso. I primi due, pubblicati dal- le Edizioni di Storia e Letteratura, hanno co- me titolo Lo spirito e le lettere: il volume I tratta da San Francesco a Petrarca, il II da Boccaccio al Novecento. Un terzo libro è contempora- neamente uscito da Morcelliana e reca signi- ficativamente il titolo Teologia e letteratura. In tal caso la materia si amplia e Ballarini, ol- tre ad esaminare eminenti figure di pensatori cattolici contemporanei in talune loro analisi letterarie, dedica la prima parte del volume ad argomenti quali I monaci e le lettere, o In- contro tra teologia patristica e letteratura clas- sica o, come recita il saggio che apre l’opera, La Bibbia è (anche) letteratura. Alcune figure spiccano qua e là, tra un’analisi e una questio- ne: è il caso di Hölderlin, esaminato sia da Guardini che da von Balthasar; potremmo aggiungere Dante, autore che, comunque, è anche oggetto di un bel saggio dello stesso Ballarini nel primo volume della ricordata opera Lo spirito e le lettere. Accattivante l’ar- gomento: Il corpo, l’anima e la risurrezione della carne nella Divina Commedia. C’è anche un monsignore letterato calato nella contemporaneità, ma senza esagerare: nel secondo tomo de Lo spirito e le lettere” vi so- no saggi su Emilio De Marchi, Eugenio Mon- tale, David Maria Turoldo. Certo, non manca- no Manzoni o Parini, né mille altre attenzioni, ché i poeti possono essere «veri scribi del mi- stero, perché anche un solo verso può essere fessura dell’infinito». Sensibilità che si ritro- vano nell’introduzione al volume edito da Morcelliana: «Anche a noi piace immaginare la teologia in ascolto della poesia e della lette- ratura in genere, perché questa, quando è vera letteratura, racconta in fondo un’unica storia alla quale la teologia non può essere assoluta- mente indifferente». Certo, la letteratura deve essere “vera” per l’alta missione ma, come dire?, oggi sull’ar- gomento c’è stata qualche confusione e sen- tendo i giurati dei premi letterari o gli orga- nizzatori dei saloni dei libri dovremmo esse- re inondati da capolavori anche se le opere di poeti e romanzieri durano quasi tutte meno di una stagione, quando non tirano le cuoia in fretta. Tanto che anche gli addetti ai lavori non ricordano bene chi ha vinto gli ultimi No- bel e soprattutto perché. In questa presentazione abbiamo chia- mato Marco Ballarini “letterato”. Non ci è sfuggito, ma non vorremmo che qualche let- tore lo intendesse nel senso che a esso dava donna Prassede quando si innervosiva con don Ferrante. Manzoni – siamo nel capitolo XXVII de I Promessi Sposi – chiosa il termine in questo modo: «titolo nel quale, insieme con la stizza, c’entrava anche un po’ di com- piacenza». Lo abbiamo scritto con amicizia e un sorriso. Senza la stizza, e nemmeno la compiacenza, di quella donna impegnatis- sima a far del bene. © RIPRODUZIONE RISERVATA Marco Ballarini, Lo spirito e le lettere, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, vol. I Da San Francesco a Petrarca, pagg. 240, € 24; vol. II Da Boccaccio al Novecento, pagg. 206, € 28 Marco Ballarini, Teologia e letteratura, Morcelliana, Brescia, pagg. 224, € 16 L’umanità del Ghetto di Venezia In occasione dei cinquecento anni dalla apertura del Ghetto di Venezia, il primo quartiere ebraico d’Europa, Donatella Calabi ha esplorato la storia urbanistica e demografica del sito in un libro recensito da Sergio Luzzatto in copertina sulla Domenica il 13 marzo 2016 www.archiviodomenica.ilsole24ore.com judaica Venezia «amò» gli Ebrei Una mostra a Palazzo Ducale racconta la storia della comunità ebraica veneziana, chiusa nel Ghetto ma bene accolta in città di Giulio Busi D iasporica, mercantile, im- prenditrice dalle navi inesau- ste e dai traffici febbrili, Vene- zia fu a lungo troppo “ebraica” essa stessa per dare volentieri spazio agli ebrei. Se nei posse- dimenti veneziani di Terraferma gli insedia- menti ebraici hanno una lunga e nobile sto- ria, il soggiorno degli ebrei in laguna fu ri- stretto e tollerato di malavoglia, almeno du- rante l’età medievale, e sino al 1508-1509. Alla Venezia regina dei traffici del Mediterraneo, la concorrenza della diaspora ebraica, così capillare e vigorosa, non doveva poi piacer molto. In questo tenere lontani gli ebrei dalla città, si coglie un senso malcelato di emula- zione, almeno nel grande centro del potere, in quel meraviglioso emporio di marmi e acque diafane, ostentato al mondo come un gioiello e difeso con altrettanta gelosia. Ci volle la crisi causata dalla lega di Cambrai, e la rovinosa battaglia di Agnadello, vera minaccia mortale per la sopravvivenza della Repubblica, a con- vincere il restio potere veneziano ad acco- gliere i profughi ebrei dai territori minacciati del nemico. È solo allora, sotto la spinta del pericolo, che si avvia quella tormentata, si- nuosa storia del giudaismo nella città di Ve- nezia, che è ora rappresentata in un’ampia mostra a Palazzo Ducale, e documentata da un catalogo ponderoso e amorevole. Parlare di amore, in senso intellettuale, scientifico, non è fuori luogo. Non diversamente da quel- lo che accade per la Venezia delle pietre - sen- suale, misteriosa, a tratti indisponente - così la storia dell’ebraismo lagunare attrae fatal- mente passioni amorose, dedizioni lunghe una vita. Il grande catalogo sui 500 anni del ghetto porta alla luce, oltre agli studi pazienti, anche la devozione innamorata di tanti ricer- catori, convenuti dai quattro angoli del mon- do per rendere omaggio a questa vicenda, co- sì brillantemente speciale. Quando, nel 1516 si decise di mettere a di- sposizione l’area del “Geto nuovo”, la fonderia di rame, per gli ebrei che volevano risiedere a Venezia, non si pensava certo che, a cinque se- coli di distanza, il quartiere giudaico sarebbe diventato una macchina della memoria così ben congegnata, in grado di funzionare con sorprendente continuità. La parola nasce dal nome di un’officina per “gettare”, ovvero fondere metalli, che lì si tro- vava prima dell’insediamento ebraico. Pro- nunciato “ghetto” dagli ebrei di origine tede- sca, il temine si trasformerà da toponimo in categoria sociologica, per indicare qualsiasi area di segregazione e marginalizzazione, ove venga rinchiusa una minoranza. Dai ghetti neri degli Stati Uniti a quelli delle peri- ferie europee, la parola originaria si è diffusa ben oltre i confini della laguna. Eppure, tra la ricchezza strabiliante dell’esperienza storica veneziana, e la miseria e la sopraffazione dei “ghetti” contemporanei, c’è una differenza enorme. Certo, il ghetto fu voluto per tenere sotto controllo e per discriminare chi aveva l’obbligo di risiedervi. Le porte che si chiude- vano di notte, la sorveglianza lungo i canali che segnavano il perimetro del claustro ebrai- co, sono i simboli della divisione, della barrie- ra fisica che fu contrapposta alla libera circo- lazione entro lo spazio urbano. Di giorno però, quando i mercanti ebrei sciamavano in città, e si affollavano nelle bot- teghe e nei fondaci, soprattutto nell’indaffa- ratissima zona di Rialto, tutta Venezia si colo- rava di diaspora, in un intrecciarsi di abiti e di voci yiddish, ladine (ebraico-spagnole), ara- be, turche. Ho sentito spesso ripetere, in questi mesi, che è sbagliato parlare di “celebrazioni” del quinto centenario dall’istituzione del ghet- to, giacché non c’è nulla da celebrare in un evento di natura discriminatoria. È vero, na- turalmente, ma è anche vero che l’intrapren- denza e la millenaria capacità ebraica di tra- sformare le sconfitte in elemento di aggre- gazione hanno saputo fare del ghetto uno stimolo a crescere, resistere, contro-pro- porre. E una simile resistenza, l’arte di fare necessità virtù – e che virtù – non merita for- se di essere celebrata? Il libro e la mostra a Palazzo Ducale danno conto di tutto quanto fu prodotto dagli ebrei veneziani. I torchi delle tipografie ebraiche, che lavoravano a ritmo incessante, le predi- che dei rabbi nelle sinagoghe, a cui accorreva- no anche diplomatici e intellettuali cristiani, la musica, che qui ebbe cultori informati e cre- ativi, la filosofia e il pensiero economico-poli- tico, è materia per riempire non un catalogo ma un’enciclopedia intera. E se è lecito sfrut- tare la ricorrenza per proporre un sogno da re- alizzare, sarebbe bello che si lanciasse, dopo gli eventi di questo 2016, una vera “Enciclope- dia del ghetto di Venezia”. Di materia ce n’è a dismisura, e anche le competenze, come il ca- talogo prova, sono pronte a concretizzarsi. Dal ghetto esce per secoli un fiume di paro- le, lettere, libri, suoni, che si riversa nel resto di Venezia e da qui in Europa e nel mondo. So- no gli ebrei del ghetto, con la loro imprendito- rialità, a rallentare il declino della città, nel Sei e Settecento. Venezia lo sa, ed è per questo che, nonostante coloro che vorrebbero l’espulsione, continua a rinnovare il diritto ebraico di residenza. La storia giudaica non è mai intessuta di un filo solo. È intrecciata di discriminazioni e di sospetti, di attacchi e di umiliazioni. E poi c’è l’altro filo, quello che non si taglia, il filo del “nonostante”. Agire, pensare, scrive- re, dire, controbattere, nonostante le diffi- coltà, le espulsioni, le violenze. In fondo, an- che in questo, il destino di Venezia e quello dell’ebraismo hanno qualcosa in comune. Quale altra città può vantare una simile vo- cazione al “nonostante”? A dispetto di ma- ree, logorio d’acque e di millenni, e ultima- mente malgrado quell’altra marea inarre- stabile del turismo, Venezia esiste e resiste, bellissima. Nonostante il ghetto / grazie al ghetto, l’ebraismo e Venezia hanno, assie- me, molto da insegnarci. © RIPRODUZIONE RISERVATA Venezia, gli ebrei e l’Europa. 1516-2016, Venezia, Palazzo Ducale, fino al 13 novembre. Catalogo Marsilio quentin metsys | «Ecce Homo», 1525, in mostra a Palazzo Ducale di Venezia erasmo da rotterdam Misericordia e libero arbitrio

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30 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 31 LUGLIO 2016 n. 209

Religioni e società

«Quel che non agisce nonè» (E. Mounier). Dallatino actio - derivato daag re “fare”, “agire” - ilprimo significato di

azione è di un gesto volto al conseguimento di uno scopo di natura individuale o sociale. L’azione quindi non è un generico “darsi da fare” né un capriccioso “dir di sì” o “dir di no” senza un fine. Per i Greci l’azione va ricondotta alla parola praxis, che evoca dinamismo e attività, fino a definire un particolare

modo di essere dell’uomo praktikos (abile, attivo, efficace). Aristotele, senza abolire la distanza fra l’agire e il pensare, lega in un certo senso la credibilità del pensiero alla sua capacità di trasformarsi in praxis; di trasformarsi cioè in un vivere, nel concreto dipanarsi degli eventi, impegnando se stessi. «Per la mente che vede con chiarezza - scrive J. Krishnamurti - non c’è necessità di scelta, c’è azione». Il filosofo francese E. Mounier offre una tipologia dell’azione, in base alla quale il “fare” (poièin) è l’azione che ha per scopo

principale quello di dominare e organizzare una materia esterna; essa va valutata in termini di efficacia. L’ “agire” (pràttein) mira a formare colui che agisce, la sua abilità, le sue virtù, la sua unità personale; essa va giudicata in termini di autenticità. «Fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza, non vuol dire semplicemente subire - ricorda T. Mann - è un’azione attiva, un trionfo positivo». E infine, il “contemplare” (teorèin), che non è un’evasione ma «aspirazione a un regno di valori che

pervadano e sviluppino tutta l’attività umana». L’autentica azione contemplativasi esprime attraverso la parola profetica che, contro gli inevitabili accomodamenti e le colpevoli compromissioni della storia, dà testimonianza dell’assoluto nel suo tagliente rigore. A completamento di questa tipologia dell’azione, Mounier si fa attento alla dimensione collettiva dell’azione: una dimensione che converte all’impegno meglio di quanto non siano in grado di farlo i clamori dei solitari. Con una avvertenza: esaltando la dimensione

collettiva dell’azione non si intende offrire alcuna giustificazione a deformazioni che caratterizzano alcune istituzioni educative, di indirizzo politico o religioso. L’azione collettiva di cui qui si parla è decisamente lontana dal sonno delirante dei grandi ritmi unanimi, dalla rigidità passiva delle strutture militarizzate, dall’entusiasmo cieco e dall’opinione irresponsabile e prefabbricata. L’azione collettiva che converte all’impegno poggia sul gusto dello scambio, del dialogo, dell’impegno, del giudizio, della diversità

e della sinodalità. Tuttavia «un’azione è valida ed efficace - avverte Mounier - solo se si è misurata prima con la verità, che le dà il suo senso e con la situazione storica, che le assicura insieme la misura e le condizioni per la sua realizzazione. Allorché da ogni parte, sotto il pretesto dello stato di emergenza, ci viene sollecitato di agire, non importa come e per qual fine, la cosa più urgente è quella di ricordare queste due esigenze fondamentali dell’azione e soddisfarle».

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abitare le parole / azionedi Nunzio Galantino Pensare muovendosi

di Gianfranco Ravasi

Poche settimane fa (il 3 luglio) lacopertina del nostro supplemen-to è stata occupata da alcuniestratti di un curioso e suggestivo

sermone di Erasmo da Rotterdam. Vorreiritornare su questo scritto affrontandonela componente teologica, soprattutto inconnessione col grande interlocutore po-lemico di questo principe degli umanisti,cioè Martin Lutero, del quale l’anno pros-simo celebreremo il celebre atto d’avviodella Riforma protestante, la pubblicazio-ne delle «95 tesi».

Pochi sanno che Erasmo da Rotterdamera un sacerdote agostiniano, ordinatonel 1492. Successivamente sarà dispensa-to dagli obblighi monastici di quell’Ordi-ne a cui apparteneva anche il suo “avver-sario” Lutero. Come è noto, Erasmo Desi-derio – latinizzazione del suo nome olan-dese Geer Geertz – col grande riformatoreebbe una veemente contesa teorica il cuiemblema era già nel titolo stesso di quella“diatriba”, cioè del saggio De libero arbi­trio, al quale Lutero replicò con un altret-tanto famoso De servo arbitrio. Eravamonel 1524: proprio in quello stesso anno ve-niva pubblicato questo Sermone sull’im­mensa  misericordia  di  Dio  che PasqualeTerracciano ha tradotto dal latino a di-stanza di oltre quattro secoli e mezzo dallasua prima versione italiana (1542), “am-morbidita” dal traduttore di allora, Marsi-lio Andreasi (ne seguirono altre due nel1551 e nel 1554 e poi il silenzio).

Si può, perciò, dire che la nuova pre-sentazione di questa concio – come la ti-tola Erasmo – «elegantissima e coinvol-gente», sia una sorpresa che cade proprionell’anno giubilare della misericordia.Ed è curioso notare che gli scritti di Era-smo, apologeta intelligente e libero delcattolicesimo, nel 1559 finirono senzamisericordia sotto la mannaia dell’Indicedi papa Paolo IV Carafa, come le ben piùroventi pagine di Lutero. Ora, in questotesto erasmiano si intravedono in filigra-na gli stessi percorsi tematici dello scrittoin difesa del libero arbitrio. Una difesacondotta, però, senza ignorare la pesan-tezza del peccato umano, focalizzato so-prattutto dall’antagonista Lutero. La raf-finatezza del teologo umanista sta nelnavigare con rotta mediana tra i due sco-gli: da un lato, la Scilla di un’antropologiaconsapevole del male insediato nella cre-atura umana, per altro sottolineato an-che da san Paolo; d’altro lato, la Cariddidell’«immensa misericordia» divina cheingloba e trascende la mera giustizia eche riconosce alla libertà umana la possi-bilità di un’accoglienza di questa grazia edella relativa conversione.

Quindi, come nel trattato De libero arbi­trio, Erasmo parte dallo stesso terreno pessimistico sul quale è saldamente anco-rato Lutero, per approdare però a un bendiverso esito. Certo, l’uomo debole e simi-le a un verme, con la sua scelta libera puòsecernere male e colpa; ma questa creatu-ra ha in sé la stessa capacità libera di acco-gliere il dono divino del perdono miseri-cordioso. Senza un simile “libero arbi-trio”, sarebbe impossibile l’atto moraleresponsabile. Interessante a questo ri-guardo è la comparazione che Erasmostabilisce tra due peccatori, entrambi tra-ditori di Cristo, entrambi avvolti dal man-to misericordioso di Dio, ma dalla fine an-titetica proprio per il diverso eserciziodella libertà, sfociata nella conversioneper l’uno, nella disperazione per l’altro. Lasciamo la parola al grande “predicato-re” che mette in scena appaiati Pietro eGiuda.

«Pietro ricordò e tornò nel suo cuore [siconvertì dal tradimento], e per questo glivenne tolto il cuore di pietra, quel cuore dipomice dal quale non si poteva far uscirealcuna lacrima: gli fu dato un cuore di car-ne, dal quale immediatamente sgorgòuna fonte di lacrime, amara per il doloredella penitenza, ma salutare per l'inno-cenza che gli fu restituita. Giuda, invece,

non è tornato a Gesù, ma andò dai sacer-doti e dai farisei, riportò indietro il fatalecompenso, si diresse verso l'infausto ca-pestro e si squarciò in mezzo (Atti 1,18)...Giuda conobbe la grandezza del suo erro-re, ma non si ricordò delle parole di Dio,che nei libri sacri incessantemente invita-no al ritorno [conversione], spingono allapenitenza e promettono la misericordia».

Certo, la grazia divina precede ed ecce-de la libertà umana ma non la annullaperché non vuole come destinatario unarealtà materiale che obbedisca solo a leg-gi fisiche necessitanti ma un interlocuto-re libero, consapevole della sua colpa edisponibile ad essere abbracciato dal suoCreatore che punisce il peccato fino allaquarta e quinta generazione, ma perdo-na fino alla millesima generazione, comeafferma il Dio biblico citato nel finale del-l’opera (Esodo 34,6-7). Il primato, dun-que, è sempre di Dio e della sua miseri-cordia che trascende la pur esigente suagiustizia. All’uomo, però, non viene toltala possibilità di accettare l'offerta dellasalvezza o di rigettarla. Naturalmente ildiscorso di Erasmo, condotto su un ne-cessario crinale tra luce e tenebra, è piùcomplesso, come emerge dall’accurataintroduzione del curatore Pasquale Ter-racciano. È lui a sottolineare anche un al-tro aspetto che riteniamo molto sugge-stivo, soprattutto oggi con lo sforzo evi-dente del papato di Francesco per il dia-logo ecumenico e interreligioso.

L’azione della misericordia divina nonsi esercita solo nei confronti dei cristiani,ma si manifesta anche nell’intera storiadell’umanità, tant’è vero che non si facenno alla necessità del battesimo per ot-tenere il dono della bontà divina. Perciò,come Giuda, anche il faraone oppressoreavrebbe potuto salvarsi, così come la di-scesa di Cristo agli inferi testimonia chela misericordia divina può spalancareanche le «porte delle tenebre». E qui en-tra in scena una tesi delicata e si rivelal’abilità di Erasmo nel muoversi su unterreno molle: «Oserei aggiungere, in ac-cordo con l’autorità di Giobbe e dell’Apo-stolo, che non solo la terra è piena dellamisericordia di Dio, ma lo sono anche icieli e gli inferni». Sta di fatto, comunquesia, che la misericordia acquista un rilie-vo capitale nella stessa definizione di Dioe dell’essere umano: se Dio non potesseperdonare, non sarebbe onnipotente. Èciò che si legge anche nel libro biblicodella Sapienza: «Hai compassione di tut-ti, perché tutto puoi... Tu sei indulgentecon tutte le cose, perché sono tue, Signo-re amante della vita» (11,23.26).

Come scrive Terracciano, il sermone è«capace di sfruttare sapientemente le re-gole della retorica e la maestria dell’ese-gesi delle S. Scritture per provvedereall'elevazione morale del proprio udito-rio». Non bisogna dimenticare che lostesso Erasmo elaborò una ratio concio­nandi, un esemplare canone di eloquen-za e retorica sacra nella sua ultima gran-de opera intitolata Ecclesiastes, un ri-mando allusivo al significato etimologi-co di questo vocabolo che è lopseudonimo greco-latino di un autorebiblico, l’Ecclesiaste appunto o Qohelet,cioè il “Predicatore”. Era il 1535 ed Era-smo morirà sessantasettenne l’annosuccessivo in quella Basilea ove avevatentato invano di conciliare cattolici eprotestanti, divenuto arbitro del dialogoumanistico, culturale e teologico, stima-to ma non ascoltato da papa Leone X o da-gli imperatori Francesco I e Carlo V. Inappendice, vorremmo però allegare unabella testimonianza sulla misericordiadivina proprio dell’interlocutore pole-mico ma rispettoso di Erasmo, cioè Lute-ro: «La misericordia di Dio è come il cieloche rimane sempre fisso sopra di noi.Sotto questo tetto siamo al sicuro dovun-que ci troviamo».

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Erasmo da Rotterdam, La misericordia di Dio, a cura di Pasquale Terracciano, Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 118, € 10

teologia & letteratura

Cercare lo Spirito nelle letteredi Armando Torno

Marco Ballarini, docente di Teolo-gia e Letteratura alla Facoltà teo-logica dell’Italia settentrionale,dottore della Biblioteca Ambro-

siana, monsignore del Duomo di Milano, sipotrebbe definire un letterato. Avrebbe vissu-to benissimo nel Settecento, quanto Muratoristava attendendo alle sue eruditissime opere;nell’Ottocento sarebbe stato di casa con Portae Manzoni, ma non potremmo escludere qualche sua frequentazione con Vincenzo Monti, nella cui magione tra l’altro si riuniva laclaque della Scala. Nel Novecento Ballarini ha fatto comunque tanto, a cominciare dai suoi studi su Bernanos, tuttavia è stato costretto a vivere in un periodo nel quale la cosiddetta so-cietà letteraria si è quasi estinta o si vede poco,comunque respira a fatica. Del resto, a diffe-renza della Chiesa, di cui don Marco è membroprezioso e che resta somma istituzione rego-lata dai secoli, la letteratura odierna va a perio-di, a volte non più lunghi di qualche settimana.

Tutto questo lo scriviamo non con intentiironici ma semplicemente con il desiderio di

rendere omaggio a monsignore, uomo di va-ste letture e di meditate ricerche, soprattutto di raffinato spirito. Una fede magnifica convi-ve in lui con gli slanci e le delusioni e gli esal-tanti intenti delle lettere; per dirla in breve, nelsuo animo vi trovate Parini (del quale cura an-che dei testi nella nuova edizione nazionale) evon Balthasar, un pensiero su una passione del Pulci e Romano Guardini intento a capire l’enigma Dostoevskij.

Scusate il pasticcio, ma non era intenzionedi chi scrive tentare un ritratto a tutto tondodi Ballarini; il vostro cronista cercava soltan-to di presentare tre volumi da poco usciti chesi possono considerare il compendio del suolavoro di studioso. I primi due, pubblicati dal-le Edizioni di Storia e Letteratura, hanno co-me titolo Lo spirito e le lettere: il volume I trattada San Francesco a Petrarca, il II da Boccaccioal Novecento. Un terzo libro è contempora-neamente uscito da Morcelliana e reca signi-ficativamente il titolo Teologia e letteratura.In tal caso la materia si amplia e Ballarini, ol-tre ad esaminare eminenti figure di pensatoricattolici contemporanei in talune loro analisiletterarie, dedica la prima parte del volumead argomenti quali I monaci e le lettere, o In­contro tra teologia patristica e letteratura clas­

sica o, come recita il saggio che apre l’opera,La Bibbia è (anche) letteratura. Alcune figurespiccano qua e là, tra un’analisi e una questio-ne: è il caso di Hölderlin, esaminato sia daGuardini che da von Balthasar; potremmoaggiungere Dante, autore che, comunque, èanche oggetto di un bel saggio dello stessoBallarini nel primo volume della ricordataopera Lo spirito e le lettere. Accattivante l’ar-gomento: Il corpo,  l’anima e  la risurrezionedella carne nella Divina Commedia.

C’è anche un monsignore letterato calatonella contemporaneità, ma senza esagerare: nel secondo tomo de Lo spirito e le lettere” vi so-no saggi su Emilio De Marchi, Eugenio Mon-tale, David Maria Turoldo. Certo, non manca-no Manzoni o Parini, né mille altre attenzioni,ché i poeti possono essere «veri scribi del mi-stero, perché anche un solo verso può essere fessura dell’infinito». Sensibilità che si ritro-vano nell’introduzione al volume edito daMorcelliana: «Anche a noi piace immaginare la teologia in ascolto della poesia e della lette-ratura in genere, perché questa, quando è veraletteratura, racconta in fondo un’unica storia alla quale la teologia non può essere assoluta-mente indifferente».

Certo, la letteratura deve essere “vera” per

l’alta missione ma, come dire?, oggi sull’ar-gomento c’è stata qualche confusione e sen-tendo i giurati dei premi letterari o gli orga-nizzatori dei saloni dei libri dovremmo esse-re inondati da capolavori anche se le opere dipoeti e romanzieri durano quasi tutte menodi una stagione, quando non tirano le cuoia infretta. Tanto che anche gli addetti ai lavorinon ricordano bene chi ha vinto gli ultimi No-bel e soprattutto perché.

In questa presentazione abbiamo chia-mato Marco Ballarini “letterato”. Non ci èsfuggito, ma non vorremmo che qualche let-tore lo intendesse nel senso che a esso davadonna Prassede quando si innervosiva condon Ferrante. Manzoni – siamo nel capitoloXXVII de I Promessi Sposi – chiosa il terminein questo modo: «titolo nel quale, insiemecon la stizza, c’entrava anche un po’ di com-piacenza». Lo abbiamo scritto con amiciziae un sorriso. Senza la stizza, e nemmeno lacompiacenza, di quella donna impegnatis-sima a far del bene.

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Marco Ballarini, Lo spirito e le lettere, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, vol. I Da San Francesco a Petrarca, pagg. 240, € 24; vol. II Da Boccaccioal Novecento, pagg. 206, € 28

Marco Ballarini, Teologia e letteratura, Morcelliana, Brescia, pagg. 224, € 16

L’umanità del Ghetto di VeneziaIn occasione dei cinquecento anni dalla apertura

del Ghetto di Venezia, il primo quartiere ebraico d’Europa,Donatella Calabi ha esplorato la storia urbanistica

e demografica del sito in un libro recensitoda Sergio Luzzatto in copertina sulla Domenica il 13 marzo 2016

www.archiviodomenica.ilsole24ore.com

judaica

Venezia «amò» gli EbreiUna mostra a PalazzoDucale racconta lastoria della comunitàebraica veneziana,chiusa nel Ghetto ma bene accolta in città

di Giulio Busi

Diasporica, mercantile, im-prenditrice dalle navi inesau-ste e dai traffici febbrili, Vene-zia fu a lungo troppo “ebraica”essa stessa per dare volentierispazio agli ebrei. Se nei posse-

dimenti veneziani di Terraferma gli insedia-menti ebraici hanno una lunga e nobile sto-ria, il soggiorno degli ebrei in laguna fu ri-stretto e tollerato di malavoglia, almeno du-rante l’età medievale, e sino al 1508-1509. AllaVenezia regina dei traffici del Mediterraneo,la concorrenza della diaspora ebraica, cosìcapillare e vigorosa, non doveva poi piacermolto. In questo tenere lontani gli ebrei dallacittà, si coglie un senso malcelato di emula-zione, almeno nel grande centro del potere, inquel meraviglioso emporio di marmi e acquediafane, ostentato al mondo come un gioielloe difeso con altrettanta gelosia. Ci volle la crisicausata dalla lega di Cambrai, e la rovinosa battaglia di Agnadello, vera minaccia mortaleper la sopravvivenza della Repubblica, a con-vincere il restio potere veneziano ad acco-gliere i profughi ebrei dai territori minacciatidel nemico. È solo allora, sotto la spinta del pericolo, che si avvia quella tormentata, si-nuosa storia del giudaismo nella città di Ve-nezia, che è ora rappresentata in un’ampiamostra a Palazzo Ducale, e documentata da un catalogo ponderoso e amorevole. Parlaredi amore, in senso intellettuale, scientifico,non è fuori luogo. Non diversamente da quel-lo che accade per la Venezia delle pietre - sen-suale, misteriosa, a tratti indisponente - cosìla storia dell’ebraismo lagunare attrae fatal-mente passioni amorose, dedizioni lungheuna vita. Il grande catalogo sui 500 anni delghetto porta alla luce, oltre agli studi pazienti,anche la devozione innamorata di tanti ricer-catori, convenuti dai quattro angoli del mon-do per rendere omaggio a questa vicenda, co-sì brillantemente speciale.

Quando, nel 1516 si decise di mettere a di-

sposizione l’area del “Geto nuovo”, la fonderiadi rame, per gli ebrei che volevano risiedere a Venezia, non si pensava certo che, a cinque se-coli di distanza, il quartiere giudaico sarebbe diventato una macchina della memoria cosìben congegnata, in grado di funzionare consorprendente continuità.

La parola nasce dal nome di un’officina per“gettare”, ovvero fondere metalli, che lì si tro-vava prima dell’insediamento ebraico. Pro-nunciato “ghetto” dagli ebrei di origine tede-sca, il temine si trasformerà da toponimo in categoria sociologica, per indicare qualsiasiarea di segregazione e marginalizzazione,ove venga rinchiusa una minoranza. Daighetti neri degli Stati Uniti a quelli delle peri-ferie europee, la parola originaria si è diffusa

ben oltre i confini della laguna. Eppure, tra laricchezza strabiliante dell’esperienza storica veneziana, e la miseria e la sopraffazione dei “ghetti” contemporanei, c’è una differenzaenorme. Certo, il ghetto fu voluto per tenere sotto controllo e per discriminare chi aveval’obbligo di risiedervi. Le porte che si chiude-vano di notte, la sorveglianza lungo i canali che segnavano il perimetro del claustro ebrai-co, sono i simboli della divisione, della barrie-ra fisica che fu contrapposta alla libera circo-lazione entro lo spazio urbano.

Di giorno però, quando i mercanti ebreisciamavano in città, e si affollavano nelle bot-teghe e nei fondaci, soprattutto nell’indaffa-ratissima zona di Rialto, tutta Venezia si colo-rava di diaspora, in un intrecciarsi di abiti e di

voci yiddish, ladine (ebraico-spagnole), ara-be, turche.

Ho sentito spesso ripetere, in questi mesi,che è sbagliato parlare di “celebrazioni” delquinto centenario dall’istituzione del ghet-to, giacché non c’è nulla da celebrare in unevento di natura discriminatoria. È vero, na-turalmente, ma è anche vero che l’intrapren-denza e la millenaria capacità ebraica di tra-sformare le sconfitte in elemento di aggre-gazione hanno saputo fare del ghetto unostimolo a crescere, resistere, contro-pro-porre. E una simile resistenza, l’arte di farenecessità virtù – e che virtù – non merita for-se di essere celebrata?

Il libro e la mostra a Palazzo Ducale dannoconto di tutto quanto fu prodotto dagli ebrei veneziani. I torchi delle tipografie ebraiche, che lavoravano a ritmo incessante, le predi-che dei rabbi nelle sinagoghe, a cui accorreva-no anche diplomatici e intellettuali cristiani, la musica, che qui ebbe cultori informati e cre-ativi, la filosofia e il pensiero economico-poli-tico, è materia per riempire non un catalogo ma un’enciclopedia intera. E se è lecito sfrut-tare la ricorrenza per proporre un sogno da re-alizzare, sarebbe bello che si lanciasse, dopogli eventi di questo 2016, una vera “Enciclope-dia del ghetto di Venezia”. Di materia ce n’è a dismisura, e anche le competenze, come il ca-talogo prova, sono pronte a concretizzarsi.

Dal ghetto esce per secoli un fiume di paro-le, lettere, libri, suoni, che si riversa nel restodi Venezia e da qui in Europa e nel mondo. So-no gli ebrei del ghetto, con la loro imprendito-rialità, a rallentare il declino della città, nel Seie Settecento. Venezia lo sa, ed è per questoche, nonostante coloro che vorrebberol’espulsione, continua a rinnovare il diritto ebraico di residenza.

La storia giudaica non è mai intessuta diun filo solo. È intrecciata di discriminazionie di sospetti, di attacchi e di umiliazioni. Epoi c’è l’altro filo, quello che non si taglia, ilfilo del “nonostante”. Agire, pensare, scrive-re, dire, controbattere, nonostante le diffi-coltà, le espulsioni, le violenze. In fondo, an-che in questo, il destino di Venezia e quellodell’ebraismo hanno qualcosa in comune.Quale altra città può vantare una simile vo-cazione al “nonostante”? A dispetto di ma-ree, logorio d’acque e di millenni, e ultima-mente malgrado quell’altra marea inarre-stabile del turismo, Venezia esiste e resiste,bellissima. Nonostante il ghetto / grazie alghetto, l’ebraismo e Venezia hanno, assie-me, molto da insegnarci.

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Venezia, gli ebrei e l’Europa. 1516-2016, Venezia, Palazzo Ducale, fino al 13 novembre. Catalogo Marsilio

quentin metsys | «Ecce Homo», 1525, in mostra a Palazzo Ducale di Venezia

erasmo da rotterdam

Misericordiae libero arbitrio