© RIPRODUZIONE RISERVATA Non c’è scienza senza etica …sta ha ceduto alla Chemical Heri ......

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26 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 17 APRILE 2016 n. 105 Scienza e filosofia di  Roberto Casati e Achille Varzi L ui. Questa è proprio bella. C’è un filosofo che ha scritto un lungo articolo contro la teoria delle parti, difendendo invece una te- oria del tutto. Lei. Che cosa c’è da ridere? Mi sembra una posizione di tutto rispetto. La storia della filosofia è piena di autori che hanno privilegiato l’importanza del tutto ri- spetto a quella delle parti. Lui. Ma questo non si limita a privile- giare l’importanza del tutto. Questo filo- sofo sostiene che le parti non esistono proprio. Ah ah. Lei. Continuo a non capire perché la cosa ti faccia ridere. È una tesi piuttosto radicale, lo riconosco. Ma anche a que- sto riguardo si possono citare dei prece- denti illustri, dagli Eleatici a Spinoza. Anche tra i filosofi contemporanei ne ho già incontrati che sostengono un punto di vista simile. Terry Horgan e Matjaž Potrč, per esempio, sostengono che l’in- tero cosmo non sia altro che un atomo gigantesco, un «blobject» enorme e af- fatto privo di parti. Lui. Davvero? Lei. Per quanto ne sappiamo, questa potrebbe essere l’ontologia che si addice meglio anche alla meccanica quantisti- ca, se non a quella newtoniana: un’unica particella solitaria che schizza attraver- so lo spazio delle configurazioni. Se non sbaglio, il filosofo David Albert sostiene un punto di vista del genere. Lui. Se è per quello, c’è anche chi ha sostenuto che l’ontologia migliore e più «economica» risieda nell’ipotesi che esista un’unica particella che continua a viaggiare avanti e indietro nel tempo in modo da trovarsi in più luoghi nello stesso momento. A noi sembra che l’universo sia composto da un numero esorbitante di atomi (si stima che siano dell’ordine di 10 all’ottantesima poten- za, cioè quasi un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliar- di di miliardi di miliardi di miliardi), mentre invece sarebbe sempre la stessa particella che si trova contemporanea- mente in un numero esorbitante di posti diversi. Lei. Sì, ho sentito anch’io questa teo- ria. Ma il tuo filosofo sostiene una teoria diversa, giusto? Lui. Giusto. Lui non parla di particelle che viaggiano nel tempo o altre strambe- rie del genere. Dice soltanto che c’è un unico tutto, e che le sue parti sono una nostra invenzione, un’astrazione con- cettuale a cui non corrisponde alcuna re- altà. Le parti non esistono proprio... Lei. La tua risata comincia a irritarmi. Mi vuoi spiegare che cosa ti diverte così tanto? Lui. Perché la teoria è talmente im- plausibile che per difenderla non basta enunciarla; bisogna anche sostenerla con buone argomentazioni. E questo fi- losofo si è impegnato a tal punto che ne è uscito un saggio lunghissimo, così lungo che la rivista ha ben pensato di suddivi- derne la pubblicazione su due numeri successivi. Risultato? Ecco qua il primo numero: C’è solo il tutto, Parte I. © RIPRODUZIONE RISERVATA semplicità insormontabili C’è solo il tutto di  Gianni Fochi P er 112.500 dollari un collezioni- sta ha ceduto alla Chemical Heri- tage Foundation di Filadelfia un manoscritto autografo d’Isaac Newton. Il suo contenuto non stupirà gli studiosi, ma certamente stupirà il vasto pubblico. Tutti conoscono almeno il Newton fisico. Le enciclopedie più con- sultate, dalla Britannica alla nostra Trec- cani all’ormai insostituibile Wikipedia, nelle righe introduttive lo presentano come fisico e matematico; poi, svilup- pandone la figura storica, dedicano qualche parola anche ai suoi interessi al- chemici. La proporzione è giusta, perché proprio nella fisica e nella matematica egli giganteggia anche agli occhi dei mo- derni, mentre l’anima non scientifica dell’alchimia non poteva far a meno di vanificare ben presto l’impegno che egli le dedicò. Nel Seicento britannico la chimica sta- va lentamente tagliando l’erba sotto i pie- di agli alchimisti ancorati alle elucubra- zioni astratte e fantasiose: il pensiero dell’anglo-irlandese Robert Boyle, la cui legge dei gas si studia sui banchi di scuo- la, si discosta già in vari punti dal vecchio modo di pensare. Newton sembra riser- vare la maggior parte del suo genio inno- vatore ai settori in cui è giustamente fa- moso, piegando invece la sua indole criti- ca alla tradizione alchemica, che egli si sforza di penetrare studiandone con cura i dettagli. Un esempio della sua attenzio- ne ci dà un’idea per la data del manoscrit- to di cui stiamo parlando, pur destinata a restar comunque vaga. In quei fogli Newton trascrive un testo altrui, che verrà stampato postumo nel 1678. Scritto in latino, cosa assolutamen- te normale a quei tempi nella scienza, il trattato contiene a un certo punto la pre- posizione ex. Newton ricopia fedelmen- te, ma non è convinto; fra parentesi qua- dre, suggerisce piuttosto la congiunzio- ne et. Nell’opera pubblicata, il testo risul- ta corretto in tal senso, e ciò potrebbe doversi proprio a Newton: il manoscritto newtoniano sarebbe dunque preceden- te. In ogni caso ha almeno il merito di far- ci conoscere la stesura originale, andata perduta. L’autore di questa si firma con lo pseu- donimo grecizzante di Eirenaeus Phila- lethes («pacifico amante del vero»). La quaestio della sua identità s’è trascinata a lungo, ma ormai la maggioranza degli studiosi concorda sulla figura del medico e alchimista George Starkey, nato a Ber- muda nel 1628, che da ragazzo si trasferì sul continente nordamericano e a quin- dici anni s’iscrisse al college di Harvard, dove s’appassionò agli studi d’alchimia. Nel 1650, ventiduenne, decise di migrare a Londra, forse per trovare le tecnologie avanzate che gli permettessero di svilup- pare e applicare certi suoi progetti di for- naci da laboratorio. Nei circoli scientifici londinesi egli acquistò presto una buona stima; collaborò con Boyle e altri «filosofi naturali» e compose una serie di trattati, alcuni pubblicati postumi, che divenne- ro assai popolari fra le persone di cultura. Attribuirli a lui ha richiesto però un di- screto impegno, perché li firmò con pseu- donimi vari. James Voelkel, curatore del- la sezione libri rari alla fondazione ame- ricana ora proprietaria del manoscritto di Newton, ritiene che l’abbia fatto per poter osservare le reazioni degli scienziati stando al riparo da eventuali critiche: te- meva cioè le opinioni negative più di quanto il suo amor proprio d’intellettuale desiderasse la notorietà. Un tipo molto prudente, insomma, che amava il viver tranquillo. Veniamo al lungo titolo di quel suo la- voro, che Newton riporta con abbrevia- zioni e simboli grafici capaci di rendere ancor più misteriosi i termini alchemici. Potremmo interpretarlo più o meno così: «Preparazione del mercurio sofico per arrivare alla pietra attraverso antimonio, Marte e Luna, dal manoscritto d’un filo- sofo americano». A quei corpi celesti ve- nivano allora associati idealmente certi metalli, ma a noi moderni un discorso del genere ricorda la supercazzola tognaz- ziana, o anche, in tema di scienza, una classica vignetta dei fumetti Walt Di- sney, in cui Paperino, dopo aver preso una botta in testa, spara a casaccio frasi del gergo chimico che ovviamente non conosce. Secondo Voelkel il mercurio «sofico» doveva essere una tappa verso la sognata pietra filosofale, che avrebbe disgregato i metalli per poi rimontarli trasmutati: da quelli vili si sarebbe otte- nuto l’oro. È probabile che Newton abbia ricopia- to l’opera del Philalethes per tener sotto mano una guida agli esperimenti che fa- ceva, ma non si sa se abbia mai tentato di produrre quel fantomatico mercurio so- fico. Non ne parla nel suo quaderno di la- boratorio conservato in Inghilterra a Cambridge, nel quale annota invece i tentativi d’interpretare ed eseguire altre ricette enigmatiche dell’americano. Sen- za risultati, a quanto pare: non di rado, al- la fine, la consapevolezza di non averci capito nulla lo porta a cancellare con un tratto di penna le righe entusiaste verga- te all’inizio. Fu comunque, questo di Newton per l’alchimia, un amore vero: poco cono- sciuto e fruttuoso, ma non per ciò meno grande degli altri più fortunati. © RIPRODUZIONE RISERVATA newton all’incanto Quanto vale Isaac l’alchimista frontespizio | Il manoscritto acquistato dalla Chemical Heritage Foundation di Filadelfia per 112.500 dollari In bilico la reputazione di Isaac Due anni fa, il 2 novembre 2014, Sarah Dry ricostruì l'incredibile vicenda dei manoscritti di Newton, un “giallo” che coinvolse anche Keynes. Sulla Domenica Franco Giudice commentò: «L’immagine del freddo razionalista e abile sperimentatore veniva trasformata al punto da compromettere la reputazione di Isaac». www.archiviodomenica.ilsole24ore.com festival della luce Il Nobel della Fisica che ha inventato il Led Sarà ospite sabato 7 maggio a Villa Erba a Cernobbio Shuji Nakamura, premio Nobel per la Fisica 2014 (insieme a Isamu Akasaki e Hiroshi Amano), per raccontare l’invenzione dei Led a luce blu a basso consumo energetico, una vera rivoluzione nei sistemi di illuminazione. La conferen- za su «Un modo nuovo e più sostenibile di illuminare il mondo» è promossa e soste- nuta dal Festival della Luce, il festival di divulgazione scientifica che si tiene a Como dal 6 al 25 maggio, in collaborazio- ne con Now Festival, il festival del Futuro Sostenibile, e ben evidenzia gli enormi benefici dei Led in termini di risparmio energetico a livello globale. Shuji Nakamura illustrerà nella confe- renza sia la storia dell’invenzione dei Led a luce blu sia, soprattutto, le loro enormi potenzialità per il futuro dell’il- luminazione. I tre premiati con il Nobel per la Fisica hanno inventato un Led che emette luce blu e che ha permesso di realizzare lampa- de e altri sistemi per illuminare che consu- mano pochissima energia elettrica e che durano anni, prima di richiedere una loro sostituzione. Akasaki, Amano e Nakamu- ra realizzarono i loro Led blu all’inizio degli anni Novanta, mentre erano al lavoro su alcuni semiconduttori. L’incontro è gratuito. Iscrizione obbliga- toria sul sito internet del Festival(www.fe- stivaldellaluce.it). henri poincaré (1854–1912) Non c’è scienza senza etica Il rispetto dei fatti e l’attacco ai pregiudizi, l’amore per la verità e per il lavoro collettivo sono una vera palestra per la moralità umana di Henri Poincaré S pesso, nell’ultima metà del XIX secolo, si è sognato di creare una morale scientifica. Non ci si ac- contentava di vantare le virtù educative della scienza, i van- taggi che l’animo umano ricava per il proprio perfezionamento dal guarda- re in faccia la verità; si contava sul fatto che la scienza mettesse le verità morali al di so- pra di ogni contestazione, così come ha fat- to per i teoremi di matematica e per le leggi enunciate dai fisici. Dall’altro lato, c’erano alcuni che della scienza pensavano tutto il male possibile, e in essa vedevano una scuola d’immoralità. Non soltanto essa dà troppo spazio alla ma- teria, levandoci il senso del rispetto (perché rispettiamo soltanto ciò che non osiamo guardare dritto in faccia), ma le sue conclu- sioni non rappresenteranno forse la nega- zione della morale? Come ha detto non ri- cordo quale celebre autore, la scienza spe- gnerà le luci del cielo o, per lo meno, le pri- verà di ciò che hanno di misterioso per ridurle allo stato di volgari lampioni. Cosa dovremmo pensare delle speranze degli uni e delle paure degli altri? Non ho esitazione a rispondere che sono entrambe vane, le une come le altre. Non può esistere una morale scientifica, ma non può nem- meno esistere una scienza immorale. La ra- gione è molto semplice ed è, come dire, pu- ramente grammaticale. Se le premesse di un sillogismo sono en- trambe all’indicativo, lo sarà anche la con- clusione. Perché sia possibile mettere la conclusione all’imperativo, è necessario che lo sia almeno una delle premesse. I princìpi della scienza e i postulati della geo- metria sono all’indicativo, e non potrebbe essere altrimenti; lo sono anche le verità sperimentali, e alla base delle scienze non c’è e non può esserci nient’altro. Il dialettico più astuto può giocare con questi princìpi come vuole, combinandoli e impilandoli gli uni sugli altri: ciò che ne emergerà sarà sempre all’indicativo, non otterrà mai una proposizione che dica «fai questo» oppure «non fare quello», ossia una proposizione che confermi o contraddica la morale. Ogni morale dogmatica e dimostrativa è dunque destinata fin dal principio a un si- curo insuccesso; è come una macchina in cui vi siano soltanto trasmissioni di moto e nessuna energia motrice. Il motore morale capace di mettere in funzione tutto l’insie- me di bielle e ingranaggi può essere soltan- to un sentimento. La scienza può diventare creatrice o ispi- ratrice di sentimenti? E ciò che la scienza non arriva a fare, può forse conseguirlo l’amore che proviamo per essa? La scienza ci mette costantemente in re- lazione con qualcosa di più grande di noi; ci offre uno spettacolo sempre nuovo e sem- pre più vasto: dietro le cose più grandi che ci mostra, ci fa indovinare qualcosa di ancora più grande. Questo spettacolo è per noi fon- te di gioia, una gioia nella quale ci dimenti- chiamo di noi stessi, ed è per questo motivo che essa è moralmente sana. Chi ha apprezzato, chi ha visto, anche so- lo da lontano, la splendida armonia delle leggi naturali, è sicuramente meglio dispo- sto di altri a fare poco caso ai propri piccoli interessi egoistici; costui avrà un ideale che amerà più di se stesso, e questo è il solo ter- reno su cui si possa costruire un’etica. Per il suo ideale, egli lavorerà senza risparmiarsi e senza aspettarsi alcuna delle ricompense grossolane che invece per altri uomini sono tutto ciò che conta. Tanto più che la passione che lo ispira è l’amore della verità; un tale amore non è forse di per sé un’etica? Quando avremo ac- quisito l’abitudine al metodo scientifico, al- la sua precisione scrupolosa; quando avre- mo l’orrore di qualsiasi aggiustamento del- l’esperienza; quando ci saremo abituati a temere come il peggior disonore il rimpro- vero di aver, per quanto innocentemente, truccato i nostri risultati, e quando questo sarà diventato per noi un tratto professio- nale indelebile, una seconda natura; ebbe- ne quando tutto ciò sarà successo, non ci porteremo forse dietro in tutte le nostre azioni questa preoccupazione per la verità assoluta, fino a non comprendere più cosa spinga un uomo a mentire? Non è forse questo il modo migliore per acquisire la più rara, la più difficile di tutte le sincerità, quel- la che consiste nel non ingannare noi stessi? La scienza ci rende inoltre un altro servi- zio: essa è un’opera collettiva, e non potreb- be essere altrimenti. È come un monumen- to la cui costruzione richiede secoli di lavo- ro, in cui ciascuno deve apporre la propria pietra, che talvolta gli costa tutta l’esisten- za. La scienza ci fornisce il sentimento della necessità della collaborazione, della solida- rietà dei nostri sforzi e di quelli dei nostri contemporanei, e anche di quelli di chi ci ha preceduto e di chi ci seguirà. Se la scienza non ci appare più impotente nei confronti dei nostri cuori e non è più moralmente indifferente, non potrà forse avere anche un’influenza nociva, come ne ha una utile? I nostri animi sono un tessuto comples- so, dove i fili formati dalle associazioni d’idee si incrociano e si aggrovigliano in tutte le direzioni: tagliare uno di questi fili del tessuto ci espone a strappi del tutto im- prevedibili. Non siamo stati noi a tesserlo, ma è un lascito del nostro passato; spesso, le nostre più nobili aspirazioni si trovano at- taccate, senza che lo sappiamo, ai pregiudi- zi più antiquati e ridicoli. La scienza di- strugge tali pregiudizi: è il suo compito na- turale, il suo dovere. Ma non ne soffriranno le tendenze più nobili, che erano legate ad antiche abitudini? Si sostiene che la scienza sia distruttri- ce; ci si spaventa dei disastri che può gene- rare e si teme che, là dove passa, le società non possano sopravvivere. Non vi è però in questi timori una sorta di contraddizio- ne interna? Se si dimostra scientificamen- te (ammesso che tale dimostrazione sia possibile) che questa o quell’altra abitudi- ne, considerata indispensabile per la stes- sa esistenza delle società umane, in realtà non era così importante come si pensava e ci illudeva soltanto per la sua venerabile antichità, la moralità umana ne risulterà forse compromessa? Delle due, l’una: o l’abitudine è utile, e allora una qualsiasi scienza ragionevole non potrà dimostrare che non lo è, oppure è inutile, e allora non vi sarà nulla da rimpiangere. Non esiste, né mai esisterà, una morale scientifica nel senso proprio del termine; tuttavia la scienza può essere, indiretta- mente, di aiuto alla morale; la scienza larga- mente intesa non può che servirla; solo la mezza scienza è qualcosa di temibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA Nel 1910 il matematico, fisico ed epistemo- logo francese Henri Poincaré (1854-1912), l’ultimo dei grandi scienziati universali, affrontò in un breve saggio, pubblicato in «Ultimi pensieri» (1913), il tema del rappor- to tra scienza ed etica di cui qui pubblichia- mo un estratto. È possibile fondare una morale scientifica? La risposta, secondo Poincaré, è no, il che tuttavia non significa che la scienza sia moralmente indifferente, o addirittura pericolosa. Essa infatti ispira sentimenti di alto valore etico – l’amore per la verità, l’aderenza ai fatti, la propensione all’universale, la necessità della collabora- zione – e, al tempo stesso, demolisce gli antichi pregiudizi. Non è la vera scienza che dobbiamo temere, ma la “mezza scien- za”, la scienza falsa assoggettata a vincoli e a dogmi che le sono estranei.Apparso postumo nel 1913 e tradotto ora per la prima volta dall’editore Dedalo (a cura di Vincenzo Barone, trad. di E. Filoramo) nella versione ampliata del 1926, «Ultimi pensieri» raccoglie gli ultimi scritti di Poincaré sui fondamenti delle scienze fisico-matematiche e su temi di filosofia scientifica. nel suo studio | Poincaré lavorava regolarmente ogni giorno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 edito da dedalo

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  • 26 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 17 APRILE 2016 n. 105

    Scienza e filosofiadi Roberto Casati e Achille Varzi

    L ui. Questa è proprio bella. C’è unfilosofo che ha scritto un lungoarticolo contro la teoria delleparti, difendendo invece una te-oria del tutto.

    Lei. Che cosa c’è da ridere? Mi sembrauna posizione di tutto rispetto. La storiadella filosofia è piena di autori che hannoprivilegiato l’importanza del tutto ri-spetto a quella delle parti.

    Lui. Ma questo non si limita a privile-giare l’importanza del tutto. Questo filo-

    sofo sostiene che le parti non esistonoproprio. Ah ah.

    Lei. Continuo a non capire perché lacosa ti faccia ridere. È una tesi piuttostoradicale, lo riconosco. Ma anche a que-sto riguardo si possono citare dei prece-denti illustri, dagli Eleatici a Spinoza.Anche tra i filosofi contemporanei ne hogià incontrati che sostengono un puntodi vista simile. Terry Horgan e MatjažPotrč, per esempio, sostengono che l’in-tero cosmo non sia altro che un atomogigantesco, un «blobject» enorme e af-fatto privo di parti.

    Lui. Davvero?Lei. Per quanto ne sappiamo, questa

    potrebbe essere l’ontologia che si addicemeglio anche alla meccanica quantisti-ca, se non a quella newtoniana: un’unicaparticella solitaria che schizza attraver-so lo spazio delle configurazioni. Se nonsbaglio, il filosofo David Albert sostieneun punto di vista del genere.

    Lui. Se è per quello, c’è anche chi hasostenuto che l’ontologia migliore e più«economica» risieda nell’ipotesi cheesista un’unica particella che continua aviaggiare avanti e indietro nel tempo inmodo da trovarsi in più luoghi nellostesso momento. A noi sembra chel’universo sia composto da un numeroesorbitante di atomi (si stima che siano

    dell’ordine di 10 all’ottantesima poten-za, cioè quasi un miliardo di miliardi dimiliardi di miliardi di miliardi di miliar-di di miliardi di miliardi di miliardi),mentre invece sarebbe sempre la stessaparticella che si trova contemporanea-mente in un numero esorbitante di postidiversi.

    Lei. Sì, ho sentito anch’io questa teo-ria. Ma il tuo filosofo sostiene una teoriadiversa, giusto?

    Lui. Giusto. Lui non parla di particelleche viaggiano nel tempo o altre strambe-rie del genere. Dice soltanto che c’è ununico tutto, e che le sue parti sono unanostra invenzione, un’astrazione con-

    cettuale a cui non corrisponde alcuna re-altà. Le parti non esistono proprio...

    Lei. La tua risata comincia a irritarmi.Mi vuoi spiegare che cosa ti diverte cosìtanto?

    Lui. Perché la teoria è talmente im-plausibile che per difenderla non bastaenunciarla; bisogna anche sostenerlacon buone argomentazioni. E questo fi-losofo si è impegnato a tal punto che ne èuscito un saggio lunghissimo, così lungoche la rivista ha ben pensato di suddivi-derne la pubblicazione su due numerisuccessivi. Risultato? Ecco qua il primonumero: C’è solo il tutto, Parte I.

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    semplicità insormontabili

    C’è solo il tutto

    di Gianni Fochi

    P er 112.500 dollari un collezioni-sta ha ceduto alla Chemical Heritage Foundation di Filadelfia unmanoscritto autografo d’IsaacNewton. Il suo contenuto non stupirà glistudiosi, ma certamente stupirà il vastopubblico. Tutti conoscono almeno ilNewton fisico. Le enciclopedie più con-sultate, dalla Britannica alla nostra Trec-cani all’ormai insostituibile Wikipedia,nelle righe introduttive lo presentanocome fisico e matematico; poi, svilup-pandone la figura storica, dedicanoqualche parola anche ai suoi interessi al-chemici. La proporzione è giusta, perchéproprio nella fisica e nella matematicaegli giganteggia anche agli occhi dei mo-derni, mentre l’anima non scientificadell’alchimia non poteva far a meno divanificare ben presto l’impegno che eglile dedicò.

    Nel Seicento britannico la chimica sta-va lentamente tagliando l’erba sotto i pie-di agli alchimisti ancorati alle elucubra-zioni astratte e fantasiose: il pensierodell’anglo-irlandese Robert Boyle, la cuilegge dei gas si studia sui banchi di scuo-la, si discosta già in vari punti dal vecchiomodo di pensare. Newton sembra riser-vare la maggior parte del suo genio inno-vatore ai settori in cui è giustamente fa-moso, piegando invece la sua indole criti-ca alla tradizione alchemica, che egli sisforza di penetrare studiandone con curai dettagli. Un esempio della sua attenzio-ne ci dà un’idea per la data del manoscrit-to di cui stiamo parlando, pur destinata arestar comunque vaga.

    In quei fogli Newton trascrive un testoaltrui, che verrà stampato postumo nel1678. Scritto in latino, cosa assolutamen-te normale a quei tempi nella scienza, iltrattato contiene a un certo punto la pre-posizione ex. Newton ricopia fedelmen-te, ma non è convinto; fra parentesi qua-dre, suggerisce piuttosto la congiunzio-ne et. Nell’opera pubblicata, il testo risul-ta corretto in tal senso, e ciò potrebbedoversi proprio a Newton: il manoscrittonewtoniano sarebbe dunque preceden-te. In ogni caso ha almeno il merito di far-ci conoscere la stesura originale, andataperduta.

    L’autore di questa si firma con lo pseu-donimo grecizzante di Eirenaeus Philalethes  («pacifico amante del vero»). Laquaestio della sua identità s’è trascinata alungo, ma ormai la maggioranza deglistudiosi concorda sulla figura del medicoe alchimista George Starkey, nato a Ber-muda nel 1628, che da ragazzo si trasferìsul continente nordamericano e a quin-dici anni s’iscrisse al college di Harvard,dove s’appassionò agli studi d’alchimia.Nel 1650, ventiduenne, decise di migrarea Londra, forse per trovare le tecnologieavanzate che gli permettessero di svilup-pare e applicare certi suoi progetti di for-naci da laboratorio. Nei circoli scientificilondinesi egli acquistò presto una buonastima; collaborò con Boyle e altri «filosofinaturali» e compose una serie di trattati,alcuni pubblicati postumi, che divenne-ro assai popolari fra le persone di cultura.

    Attribuirli a lui ha richiesto però un di-screto impegno, perché li firmò con pseu-donimi vari. James Voelkel, curatore del-la sezione libri rari alla fondazione ame-ricana ora proprietaria del manoscritto diNewton, ritiene che l’abbia fatto per poterosservare le reazioni degli scienziati stando al riparo da eventuali critiche: te-meva cioè le opinioni negative più diquanto il suo amor proprio d’intellettualedesiderasse la notorietà. Un tipo moltoprudente, insomma, che amava il vivertranquillo.

    Veniamo al lungo titolo di quel suo la-voro, che Newton riporta con abbrevia-zioni e simboli grafici capaci di rendereancor più misteriosi i termini alchemici.Potremmo interpretarlo più o meno così:«Preparazione del mercurio sofico perarrivare alla pietra attraverso antimonio,Marte e Luna, dal manoscritto d’un filo-sofo americano». A quei corpi celesti ve-

    nivano allora associati idealmente certimetalli, ma a noi moderni un discorso delgenere ricorda la supercazzola tognaz-ziana, o anche, in tema di scienza, unaclassica vignetta dei fumetti Walt Di-sney, in cui Paperino, dopo aver presouna botta in testa, spara a casaccio frasidel gergo chimico che ovviamente nonconosce. Secondo Voelkel il mercurio«sofico» doveva essere una tappa versola sognata pietra filosofale, che avrebbedisgregato i metalli per poi rimontarlitrasmutati: da quelli vili si sarebbe otte-nuto l’oro.

    È probabile che Newton abbia ricopia-to l’opera del Philalethes per tener sottomano una guida agli esperimenti che fa-ceva, ma non si sa se abbia mai tentato diprodurre quel fantomatico mercurio so-fico. Non ne parla nel suo quaderno di la-boratorio conservato in Inghilterra aCambridge, nel quale annota invece itentativi d’interpretare ed eseguire altrericette enigmatiche dell’americano. Sen-za risultati, a quanto pare: non di rado, al-la fine, la consapevolezza di non avercicapito nulla lo porta a cancellare con untratto di penna le righe entusiaste verga-te all’inizio.

    Fu comunque, questo di Newton perl’alchimia, un amore vero: poco cono-sciuto e fruttuoso, ma non per ciò menogrande degli altri più fortunati.

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    newton all’incanto

    Quanto vale Isaac l’alchimista

    frontespizio | Il manoscritto acquistato dalla Chemical Heritage Foundation di Filadelfia per 112.500 dollari

    In bilico la reputazione di IsaacDue anni fa, il 2 novembre 2014, Sarah Dry ricostruì l'incredibile

    vicenda dei manoscritti di Newton, un “giallo” che coinvolse anche Keynes. Sulla Domenica Franco Giudice commentò:

    «L’immagine del freddo razionalista e abile sperimentatore veniva trasformata al punto da compromettere la reputazione di Isaac».

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    festival della luce

    Il Nobel della Fisicache ha inventato il Led

    Sarà ospite sabato 7 maggio a Villa Erba a Cernobbio Shuji Nakamura, premio Nobel per la Fisica 2014 (insieme a Isamu Akasaki e Hiroshi Amano), per raccontare l’invenzione dei Led a luce blu a basso consumo energetico, una vera rivoluzione nei sistemi di illuminazione. La conferenza su «Un modo nuovo e più sostenibile di illuminare il mondo» è promossa e sostenuta dal Festival della Luce, il festival di divulgazione scientifica che si tiene a Como dal 6 al 25 maggio, in collaborazione con Now Festival, il festival del Futuro Sostenibile, e ben evidenzia gli enormi benefici dei Led in termini di risparmio energetico a livello globale.Shuji Nakamura illustrerà nella conferenza sia la storia dell’invenzione dei Led a luce blu sia, soprattutto, le loro enormi potenzialità per il futuro dell’illuminazione.I tre premiati con il Nobel per la Fisica hanno inventato un Led che emette luce blu e che ha permesso di realizzare lampade e altri sistemi per illuminare che consumano pochissima energia elettrica e che durano anni, prima di richiedere una loro sostituzione. Akasaki, Amano e Nakamura realizzarono i loro Led blu all’inizio degli anni Novanta, mentre erano al lavoro su alcuni semiconduttori. L’incontro è gratuito. Iscrizione obbligatoria sul sito internet del Festival(www.festivaldellaluce.it).

    henri poincaré (1854–1912)

    Non c’è scienza senza eticaIl rispetto dei fattie l’attacco ai pregiudizi,l’amore per la veritàe per il lavoro collettivosono una vera palestraper la moralità umana

    di Henri Poincaré

    Spesso, nell’ultima metà del XIXsecolo, si è sognato di creare unamorale scientifica. Non ci si ac-contentava di vantare le virtùeducative della scienza, i van-taggi che l’animo umano ricavaper il proprio perfezionamento dal guarda-re in faccia la verità; si contava sul fatto chela scienza mettesse le verità morali al di so-pra di ogni contestazione, così come ha fat-to per i teoremi di matematica e per le leggienunciate dai fisici.

    Dall’altro lato, c’erano alcuni che dellascienza pensavano tutto il male possibile, ein essa vedevano una scuola d’immoralità.Non soltanto essa dà troppo spazio alla ma-teria, levandoci il senso del rispetto (perchérispettiamo soltanto ciò che non osiamoguardare dritto in faccia), ma le sue conclu-sioni non rappresenteranno forse la nega-zione della morale? Come ha detto non ri-cordo quale celebre autore, la scienza spe-gnerà le luci del cielo o, per lo meno, le pri-verà di ciò che hanno di misterioso perridurle allo stato di volgari lampioni.

    Cosa dovremmo pensare delle speranzedegli uni e delle paure degli altri? Non ho esitazione a rispondere che sono entrambevane, le une come le altre. Non può esistereuna morale scientifica, ma non può nem-meno esistere una scienza immorale. La ra-gione è molto semplice ed è, come dire, pu-ramente grammaticale.

    Se le premesse di un sillogismo sono en-trambe all’indicativo, lo sarà anche la con-clusione. Perché sia possibile mettere laconclusione all’imperativo, è necessarioche lo sia almeno una delle premesse. I princìpi della scienza e i postulati della geo-metria sono all’indicativo, e non potrebbeessere altrimenti; lo sono anche le veritàsperimentali, e alla base delle scienze nonc’è e non può esserci nient’altro. Il dialetticopiù astuto può giocare con questi princìpicome vuole, combinandoli e impilandoli gliuni sugli altri: ciò che ne emergerà saràsempre all’indicativo, non otterrà mai unaproposizione che dica «fai questo» oppure«non fare quello», ossia una proposizioneche confermi o contraddica la morale.

    Ogni morale dogmatica e dimostrativa èdunque destinata fin dal principio a un si-curo insuccesso; è come una macchina in cui vi siano soltanto trasmissioni di moto enessuna energia motrice. Il motore moralecapace di mettere in funzione tutto l’insie-me di bielle e ingranaggi può essere soltan-to un sentimento.

    La scienza può diventare creatrice o ispi-ratrice di sentimenti? E ciò che la scienzanon arriva a fare, può forse conseguirlol’amore che proviamo per essa?

    La scienza ci mette costantemente in re-lazione con qualcosa di più grande di noi; cioffre uno spettacolo sempre nuovo e sem-pre più vasto: dietro le cose più grandi che cimostra, ci fa indovinare qualcosa di ancorapiù grande. Questo spettacolo è per noi fon-te di gioia, una gioia nella quale ci dimenti-chiamo di noi stessi, ed è per questo motivoche essa è moralmente sana.

    Chi ha apprezzato, chi ha visto, anche so-lo da lontano, la splendida armonia delleleggi naturali, è sicuramente meglio dispo-sto di altri a fare poco caso ai propri piccoliinteressi egoistici; costui avrà un ideale cheamerà più di se stesso, e questo è il solo ter-reno su cui si possa costruire un’etica. Per ilsuo ideale, egli lavorerà senza risparmiarsie senza aspettarsi alcuna delle ricompensegrossolane che invece per altri uomini sonotutto ciò che conta.

    Tanto più che la passione che lo ispira èl’amore della verità; un tale amore non è forse di per sé un’etica? Quando avremo ac-

    quisito l’abitudine al metodo scientifico, al-la sua precisione scrupolosa; quando avre-mo l’orrore di qualsiasi aggiustamento del-l’esperienza; quando ci saremo abituati atemere come il peggior disonore il rimpro-vero di aver, per quanto innocentemente,truccato i nostri risultati, e quando questosarà diventato per noi un tratto professio-nale indelebile, una seconda natura; ebbe-ne quando tutto ciò sarà successo, non ciporteremo forse dietro in tutte le nostreazioni questa preoccupazione per la veritàassoluta, fino a non comprendere più cosaspinga un uomo a mentire? Non è forsequesto il modo migliore per acquisire la piùrara, la più difficile di tutte le sincerità, quel-la che consiste nel non ingannare noi stessi?

    La scienza ci rende inoltre un altro servi-zio: essa è un’opera collettiva, e non potreb-be essere altrimenti. È come un monumen-to la cui costruzione richiede secoli di lavo-ro, in cui ciascuno deve apporre la propriapietra, che talvolta gli costa tutta l’esisten-za. La scienza ci fornisce il sentimento della

    necessità della collaborazione, della solida-rietà dei nostri sforzi e di quelli dei nostricontemporanei, e anche di quelli di chi ci hapreceduto e di chi ci seguirà.

    Se la scienza non ci appare più impotentenei confronti dei nostri cuori e non è piùmoralmente indifferente, non potrà forseavere anche un’influenza nociva, come neha una utile?

    I nostri animi sono un tessuto comples-so, dove i fili formati dalle associazionid’idee si incrociano e si aggrovigliano intutte le direzioni: tagliare uno di questi filidel tessuto ci espone a strappi del tutto im-prevedibili. Non siamo stati noi a tesserlo,ma è un lascito del nostro passato; spesso, lenostre più nobili aspirazioni si trovano at-taccate, senza che lo sappiamo, ai pregiudi-zi più antiquati e ridicoli. La scienza di-strugge tali pregiudizi: è il suo compito na-turale, il suo dovere. Ma non ne soffrirannole tendenze più nobili, che erano legate adantiche abitudini?

    Si sostiene che la scienza sia distruttri-

    ce; ci si spaventa dei disastri che può gene-rare e si teme che, là dove passa, le societànon possano sopravvivere. Non vi è peròin questi timori una sorta di contraddizio-ne interna? Se si dimostra scientificamen-te (ammesso che tale dimostrazione siapossibile) che questa o quell’altra abitudi-ne, considerata indispensabile per la stes-sa esistenza delle società umane, in realtànon era così importante come si pensava eci illudeva soltanto per la sua venerabileantichità, la moralità umana ne risulteràforse compromessa? Delle due, l’una: ol’abitudine è utile, e allora una qualsiasiscienza ragionevole non potrà dimostrareche non lo è, oppure è inutile, e allora nonvi sarà nulla da rimpiangere.

    Non esiste, né mai esisterà, una moralescientifica nel senso proprio del termine;tuttavia la scienza può essere, indiretta-mente, di aiuto alla morale; la scienza larga-mente intesa non può che servirla; solo la mezza scienza è qualcosa di temibile.

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    Nel 1910 il matematico, fisico ed epistemologo francese Henri Poincaré (18541912), l’ultimo dei grandi scienziati universali, affrontò in un breve saggio, pubblicato in «Ultimi pensieri» (1913), il tema del rapporto tra scienza ed etica di cui qui pubblichiamo un estratto. È possibile fondare una morale scientifica? La risposta, secondo Poincaré, è no, il che tuttavia non significa che la scienza sia moralmente indifferente, o addirittura pericolosa. Essa infatti ispira sentimenti di alto valore etico – l’amore per la verità, l’aderenza ai fatti, la propensione all’universale, la necessità della collaborazione – e, al tempo stesso, demolisce gli antichi pregiudizi. Non è la vera scienza che dobbiamo temere, ma la “mezza scienza”, la scienza falsa assoggettata a vincoli e a dogmi che le sono estranei.Apparso postumo nel 1913 e tradotto ora per la prima volta dall’editore Dedalo (a cura di Vincenzo Barone, trad. di E. Filoramo) nella versione ampliata del 1926, «Ultimi pensieri» raccoglie gli ultimi scritti di Poincaré sui fondamenti delle scienze fisicomatematiche e su temi di filosofia scientifica.nel suo studio | Poincaré lavorava regolarmente ogni giorno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 

    edito da dedalo