# 6 Marzo 2011

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Radiohead. Tim Hecker . Mogwai . Anna Calvi . Oval . Colin Stetson . Nico . Explosions In The Sky . Tim Hecker . Murcof . EDITORIALE JAPAN! JAPAN! Il fondo di questo mese doveva parlare d’altro, ma di fronte a ciò che è successo in Giappone le ultime su Thom Yorke passano decisamente in secondo piano. L’11 marzo un terremoto potentissimo ha gonfiato dal mare onde alte metri e metri, che si sono mangiate interi paesi, hanno ingoiato e rigurgitato abitazioni e persone, messo in ginocchio una delle nazioni più forti del mondo nel volgere di poche ore. Ad abbattersi sulla costa non è stato è il mare cristallino di Hokusai, fiero e incazzoso, ma quello del Ponyo di Miyazaki, un mare antropomorfo e inquinatissimo, e perciò vanitoso e vendicativo. I lettori di Feedback sanno bene quanto i giapponesi rispettino la natura del mare: ancora più che alle onde dell’illustratrice Yuko Shimizu, lunghe lingue nere avviluppate a membra nude, noi pensiamo allo tsunami dei Boredoms, quel Seadrum/House of Sun selvaggio e incalzante, così come il ribollire magmatico di un disco di Kaijo Haino, un pentolone sonoro di corpi, detriti e sangue. Mentre vi scriviamo il paese è ancora sotto scacco per il nucleare, frutto dell’attività umana e non della natura. Quel che più colpisce un popolo piagnone e abituato agli strepiti come il nostro, oltre alla violenza delle immagini, è la dignità che il Giappone e i giapponesi hanno mantenuto nei momenti più drammatici: sentire l’imperatore specchiarsi con toni mesti e raccolti davanti agli eroi della nazione, dagli operai di Fukushima ai ragazzini di Taro, ci fa tornare in mente Il Sole di Sokurov, esemplare nel mostrarci l’indole giapponese. ...continua a pagina 11 anno I feedback fanzine di musica indipendente IN QUESTO NUMERO: 1 www.feedbackmagazine.it numero 6 MARZO 2O11

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Marzo 2011

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Radiohead. Tim Hecker . Mogwai . Anna Calvi . Oval . Colin Stetson . Nico . Explosions In The Sky . Tim Hecker . Murcof .

EDITORIALE

JAPAN! JAPAN!Il fondo di questo mese doveva parlare d’altro, ma di fronte a ciò che è successo in Giappone le ultime su Thom Yorke passano decisamente in secondo piano. L’11 marzo un terremoto potentissimo ha gonfiato dal mare onde alte metri e metri, che si sono mangiate interi paesi, hanno ingoiato e rigurgitato abitazioni e persone, messo in ginocchio una delle nazioni più forti del mondo nel volgere di poche ore. Ad abbattersi sulla costa non è stato è il mare cristallino di Hokusai, fiero e incazzoso, ma quello del

Ponyo di Miyazaki, un mare antropomorfo e inquinatissimo, e perciò vanitoso e vendicativo. I lettori di Feedback sanno bene quanto i giapponesi rispettino la natura del mare: ancora più che alle onde dell’illustratrice Yuko Shimizu, lunghe lingue nere avviluppate a membra nude, noi pensiamo allo tsunami dei Boredoms, quel Seadrum/House of Sun selvaggio e incalzante, così come il ribollire magmatico di un disco di Kaijo Haino, un pentolone sonoro di corpi, detriti e sangue. Mentre vi scriviamo il paese è ancora sotto scacco per il nucleare, frutto

dell’attività umana e non della natura. Quel che più colpisce un popolo piagnone e abituato agli strepiti come il nostro, oltre alla violenza delle immagini, è la dignità che il Giappone e i giapponesi hanno mantenuto nei momenti più drammatici: sentire l’imperatore specchiarsi con toni mesti e raccolti davanti agli eroi della nazione, dagli operai di Fukushima ai ragazzini di Taro, ci fa tornare in mente Il Sole di Sokurov, esemplare nel mostrarci l’indole giapponese.

...continua a pagina 11

anno I

feedbackfanzine di musica indipendente

IN QUESTO NUMERO:

1

www.feedbackmagazine.it

numero 6MARZO 2O11

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RADIOHEAD ARTISTA DEL MESE

gli innovatori degli anni duemila

MOGWAI

I Radiohead nascono nel 1985 con il nome di On A Friday da cinque ragazzi che frequentano il college di Abingdon; fino ai primi anni novanta la loro attività è confinata ai pub e ai locali di Oxford, ma non appena le loro live performance aumentano Chris Hufford della Oxford’s Courtyard Studios diventa il loro manager e ottiene un contratto dalla EMI (che richiede espressamente di cambiare il nome della band in Radiohead, canzone dei Talking Heads). Pubblicano il loro primo Ep The Drill ed il singolo estratto, The Creep, gli garantisce un po’ di attenzione dei media anche se da viene definito troppo triste e deprimente e viene bandito da molte radio. Un anno dopo, nel 1993, esce Pablo Honey il primo disco dei Radiohead ma il successo non è immediato, vengono definiti la versione light dei Nirvana e nessuno dei singoli estratti diventa una hits di successo, poi il miracolo: i Radiohead cominciano ad attirare fan da altre direzioni e le radio di Tel Aviv, Berlino, San Francisco trasmettono le loro tracce a tutto spiano. Arrivano ristampe , tour e successo anche in Inghilterra ed assieme a tutto questo una grande pressione psicologica sulla band che, lavorando al secondo disco non può fallire. The Bends esce nel 1995 ed ha un ottimo riscontro, le sonorità della band si scansano un po’ da quel brit-pop in voga in quegli anni ma i singoli estratti hanno tutti un buon successo e la band si guadagna l’onore di aprire i concerti dei R.E.M.. E l’amicizia di Michael Stipe. I Radiohead si rimettono a lavoro e dalla sala

registrazione di St. Catherine’s Court, grazie all’aiuto di The Beatles,  DJ Shadow,  Ennio Morricone e Miles Davis, nasce Ok Computer che finalmente li lancia in vetta alle classifiche e gli regala un Grammy ed altri premi; il rock melodico della band si contamina di leggeri rumori elettronici, influenze ambient e avant-garde il tutto a creare un suono nostalgico e a volte drammatico che li innalza nell’olimpo della musica alternativa trascinandoli fuori dalla scena brit-pop. Niente però è più bello del cambiamento e Thom Yorke lo sa bene, dopo un po’ di tour e tanti litigi i 5 si rinchiudono in sala studio ed il risultato scintillante è una sessione musicale che si trasforma prima in Kid A nel 2000 e poi in Amnesiac nel 2001. Due album elettronici in tutto e per tutto che sfiorano la perfezione, il rock è completamente sparito per fare spazio a beat elettronici, effetti ambient e contaminazione musicali di ogni tipo, dal kraut all’avanguardia passando per il jazz e la musica classica; i Radiohead confezionano due dischi che rappresentano una delle doppie uscite più rivoluzionarie per la musica perchè sintetizzano in tutto il loro splendore il completo menefreghismo di logiche di mercato e di vendita. Escono uno accanto all’altro perchè uno completa l’altro, quando il primo esplora nuovi sentieri il secondo è gia pronto ad evolverli o ad amplificarli confermando la capacità della band di cambiare stili, strumenti e scenari e la vena artistica pressochè infinita di 5 trentenni che studiano, imparano e rinnovano

la musica perchè così si sentono di fare e non sono obbligati da nessuna etichetta. Molti fan storgono il naso per il cambiamento ma questo grande taglio operato da Yorke e compagni ha il merito di far conoscere a mezzo mondo un’altra musica, quella alternativa e underground per la quale i Radiohead si candidano a star indiscusse. Hail to the Thief è la quiete dopo la tempesta, i Radiohead reintegrano un po’ di sano rock con l’elettronica sperimentale ed il risultato più tranquillo ed accessibile balza in cima a tutte le classifiche procurandogli un altro tour ed altre polemiche, stavolta dei fan più avanguardisti che li accusano della retromarcia. Nessun problema, i Radiohead si fermano 4 anni e si dedicano ad eventi di beneficenza godendosi il meritato successo per poi ripartire nel 2007 con In Rainbows, il primo disco autoprodotto che viene messo in download sul sito della band rappresenta una novità non soltanto per il formato digitale ma anche per i testi e la musica; Thom Yorke entra dentro se stesso parlando dei drammi personali e anche il suono si fa più delicato con la solita elettronica costeggiata da archi e pianoforte tutto ciò senza sacrificare energia e vitalità. Da pochi giorni è uscito il nuovo disco e non sto qui a ripetervi quanto vi consiglio di ascoltarlo ma una cosa ve la ripeto: i Radiohead sono talmente importanti per la musica di oggi che non esiste una musica senza i Radiohead, perciò dovete ascoltarli.

-w-

il fragore e il frastuono

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Parlare dei Mogwai per me non è mai semplice, un po’ perchè il genere di post rock è tanto generale quanto l’unico che mi sembra sensato e un po’ perchè rappresentano uno dei primi gruppi capaci di sconvolgere e rivoltare la mia annebbiata mente musicale aprendola a nuove prospettive. La band scozzese si forma a Glasgow, nel 1995, come un trio composto da Stuart Braithwaite (chitarra e voce) Dominic Aitchison (basso) e Martin Bulloch (batteria); i tre però molto presto soffrono di solitudine e così decidono di reclutare un altro chitarrista per creare più rumore possibile. Con questa formazione danno luce a Ten Rapid, ep autoprodotto che fa lievitare la fama della band e li trascina fra le braccia dei Delgados (possessori di un etichetta a Glasgow): così arrivano contratto, un nuovo ep chiamato 4 Satin, un discreto successo e la possibilità di registrare un disco vero. I Mogwai assoldano un altro chitarrista e il gioco è fatto: nasce Mogwai Young Team, quello che per molti è il capolavoro della band, deliberatamente ispirato al post-rock istintivo e angosciante degli Slint il disco riunisce tutti i tratti distintivi del genere con le lezioni shoegaze e grunge degli anni 90 creando un impatto sonoro sull’ascoltatore di proporzioni immense (vi consiglio caldamente i 16 minuti di Mogwai Fear Satan). Passano due anni fra tour e remix di successo e gli scozzesi si

rimettono al lavoro, nel 1999 esce Come on Die Young che ci fa scoprire la versione leggera ed ovattata dei Mogwai, si sentono infatti molte più voci e le distorsioni ed i feedback lasciano molto spazio a lente sinfonie di slide-guitar ed effetti ambient tanto che si deve aspettare fino alla penultima canzone Christmas Steps per potersi un po’ sfogare. Ma la metamorfosi va avanti e due anni dopo con Rock Action siamo spiazzati di fronte all’uso “smodato” che viene fatto della voce, sempre stati molto silenziosi, i 5 che avevano confessato di non scrivere testi perchè vuoti di argomenti interessanti e di preferire di gran lunga la parte strumentale vanno avanti con il loro cinismo musicale e intellettuale che li caratterizza da sempre, ma stavolta ce lo raccontano anche a voce cercando forse di “acchiappare” più gente possibile. E allora se di piccola crisi di idee si può parlare, anche nel 2003 i Mogwai non sono irresistibili completando un lavoro che più che di sviluppo appare di sintesi: Happy Songs for Happy People fa sparire un po’ di voce umana che viene sostituita dal vocoder e fa riapparire un po’ di abrasioni elettriche ma il lavoro sembra decisamente incerto sulla strada da prendere. A spazzare via i dubbi ci pensa Mr Beast del 2006 che ricorda ai Mogwai la via del rumore e della deflagrazione, senza però dimenticarsi degli sviluppi precedenti il disco che presenta tracce brevi, poca voce ma

molta riflessione e molto cinismo appare un vero gioellino per sofisticatezza e precisione; senza mai opprimere l’ascoltatore nonostante l’energia, il disco si guadagna anche gli onori della critica che urla a gran voce il ritorno in grande stile alle origini scozzesi del post-rock. Stessa linea ma forma diversa per The Hawk is Howling il capitolo del 2008 che contiene soltanto tracce strumentali e sposta l’attenzione sulla lunghezza e la raffinatezza dei pezzi che assumono la conformazione di lunghe suite rumoristiche e presentano al grande pubblico i Mogwai delicati ed estremamente tecnici in quanto a suono e passaggi musicali. Tante le esplosioni e i cambi di umore ma tante anche le digressioni lente e spassionate che appaiono una rivisitazione moderna e ragionata della gioventù più agitata, la band conclude gli esperimenti dei primi dischi ritornando all’origine ma non per poca fantasia o scarsa vena artistica ma semplicemente perchè è il suono che meglio si addice ai loro affamati strumenti. E siamo al 2011, da pochi giorni è uscito il loro nuovo disco Hardcore Will Never Die, but You Will giusto per ribadire la fragilità dell’uomo e l’ indistruttibilità della musica e si dice che ci sia del Kraut, del rock , del noise e un nuovo tipo che canta al vocoder. Perentori.

- w

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LIVE

MURCOF & SAUL SAGUATTI Venezia, 17/03/2011

OVAL MOGWAI MURCOF & SAUL SAGUATTI

OVALPisa, 04/03/2011

MOGWAI Bologna, 09/03/2011I Mogwai sono molto affezionati all’Italia e l’Italia è molto affezionata a loro. Lo dimostra la fredda serata di Bologna, data italiana del tour successivo al nuovo disco, Estragon pieno all’inverosimile, lunga (ma rapida) coda per entrare, pubblico pigiato fin dietro il mixer. In apertura il progetto di RM Hubbert che si destreggia tra flamenco e primitive guitar imbracciando solo la sua chitarra acustica. Poi arriva il momento degli scozzesi. Imponenti anche alla vista, tra muri di amplificatori, chitarre, bassi, ma poco entusiasmanti a livello estetico, sembrano tanti paletti piantati sul palco, ma questo non è importante. La loro è una musica da sogno, da ascoltare dondolando ad occhi chiusi, e così ecco attingere la band all’ultima fatica dal titolo emblematico Hardcore will never die but you will aprendo la serata con White Noise e passando da Death Rays e da San Pedro. La scaletta non è delle migliori, praticamente niente da Young Team e solo un pezzo dal penultimo, discreto disco The Hawk Is Howling, una I’m Jim Morrison, I’m dead poco incisiva. Perfette a livello tecnico le esecuzioni, tant’è che sembra si vedere un’orchestra tant’è la perfezione e l’eleganza dei suoni. Peccato che gli scozzesi talvolta indugino troppo su diavolerie vocoderistiche, che stanno bene in Mexica Grand Prix (cantato da un misterioso personaggio) ma che stona quando è troppo prolungato e risulta davvero forzato. Tant’è che stasera i Mogwai

Torna in scena, giunto ormai alla sua settima edizione, Fosfeni - Percorsi nella nuova musica elettronica, che da anni porta in Toscana artisti tra i più importanti e influenti della musica elettronica contemporanea (solo negli ultimi anni son passati di qui personaggi come Jon Hopkins, Cluster e Alva Noto).E per l’occasione riappare dopo una lunga assenza Oval, ovvero Murkus Popp: in breve colui che con i primi incendiari dischi aveva definito l’estetica glitch e teorizzato il nuovo modo di produzione di musica digitale, basata appunto sul suono prodotto dall’errore e dal disturbo da parte di dispositivi come lettori cd (l’album systemisch esplora ampiamente tutto questo micromondo), vinili (mediante graffi o peggio), contatti elettrici o crash di software.Negli anni Oval ha costantemente affinato

il suo stile e collaborato con diversi artisti: Mouse on Mars, Bjork, Ryuichi Sakamoto, Tortoise, SquarePusher, giusto per citare i più importanti.E dopo 10 anni d’attesa torna (non ci sperava più nessuno ormai). Infatti esce nel 2010 l’ep Oh, apripista dell’album, doppio cd, dal titolo O. Un bellissimo disco, se fossi riuscito ad ascoltarlo in tempo (entro la fine dell’anno passato, s’intende), con ogni probabilità sarebbe entrato in classifica top 10. Ma si sa, le classifiche son da hipster.Per questo decido di andare a vederlo dal vivo, esattamente a Cascina in provincia di Pisa. Strade buie e segnaletica stradale inesistente (o/e nascosta con perizia) fanno del viaggio un’ascesa infernale in questo anus mundi toscano.

Mi chiedo come riuscirà l’artista a rendere live non tanto i suoni sì peculiari, ma l’attitudine del disco, composto da 76 piccole o piccolissime tracce.E infatti è come mi aspettavo. Una summa tra frammenti zen ambient e piccoli prismi sonori quasi pop a cui sovente, come nel disco, si intromette una free drum. Degli haiku (o bonsai, fate voi) uno dopo l’altro allacciati con maestria mentre (scialbi) visual vengono proiettati sul palco. Ma è la musica a dettare legge: è incredibile la tensione che possiedono queste tracce, tra strappi brutali e collisioni di chitarre trattate che però producono all’ascoltatore una sorta di quiete interiore, chiaramente orientale. E’ il suono che l’uomo post-moderno percepisce tra i percorsi d’acqua nei tubi di bambù.

- mr. potato

si sentono molto romantici e prediligono i pezzi più soffusi, pur non dando scampo alle orecchie quando decidono di distorgere. Prima del bis c’è un piccolo sentimento di delusione, per la scaletta (assolutamente non per i Mogwai), ma è l’ultimo pezzo a rendere la serata meravigliosa. My Father My King, 30 minuti che traboccano di emozioni, chitarre

potenstissime, batteria perfetta e 10 minuti di puro noise finale con i chitarristi chinati sui loro pedali, un sogno ad occhi aperti, con una delle loro migliori canzoni di sempre, chitarre che piangono su tappetti di batteria e tastiera che sanguina fino allo stop finale, tutto in contemporanea che ci fa tornare sulla Terra. E uscimmo a riveder le stelle.

- matmo

3

Il famoso Murcof, direttamente dal Messico, ha riproposto i suoi itinerari elettronici in collaborazione con l’artista visivo Saul Saguatti. Una perfofmance live, nel vero senso della parola. In real time Murcof ha reinterpretato la musica da camera del XVII sec. utilizzando frammenti di clavicembalo,

voci corali soliste, flauti, e suoni marittimi di porti sferraglianti lontani nel tempo. Saul Saguatti, con una lavagnetta luminosa, alterata con l’ausilio di un Mac Book Pro, dipingeva, spargeva polvere, soffiava liquidi dando forma e movimento ad un’intima cosmogonia con finale di alba ambrata e

serpentina. Un Murcof solenne, immobile, riflessivo, con sguardo sulla televisione a tubo catodico; un Saguatti indaffarato e a testa china che cercava un paesaggio archetipico. Spettacolo impagabile, all’origine del tempo. (Grazie Marina...)

- gorot

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Avant-Pop-Rock

RADIOHEAD The King of Limbs[Autoprodotto, 2011]

Cathedral Ambient

TIM HECKER Ravedeath, 1972[Kranky, 2011]

DISCO DEL MESE

Ciò che viene raffigurato in copertina è l’istantanea di un momento: un rituale nel quale gli studenti del MIT lanciano un pianoforte giù da una palazzina. I significati che si possono trovare son molti, a cominciare da un reazionario rifiuto verso il “classico”, il ruolo della musica e il suo valore attuale, il mondo analogico che cede il passo al digitale (in campo musicale il tema è quantomai pregnante). Egli stesso ci fornisce un’ulteriore spunto: “I became obsessed with digital garbage, like when the Kazakstan government cracks down on piracy and there’s pictures of 10 million DVDs and CDRs being pushed by bulldozers”. Ma facciamo un passo indietro. Tim Hecker, artista canadese e tra i più importanti sound artist della scena. Dischi memorabili come Radio Amor, Harmony in Ultraviolet e l’ultimo (2009) An Imaginary Country.La sua è musica mentale più che d’orecchio, richiama una forte spiritualità interiore: più tecnicamente fonde l’ambient astrale dei Tangerine Dream e dei cosmici in generale con un’impronta più ruvida propria del noise e delle basse frequenze drone. L’attitudine però è completamente diversa da quella di un noisers (uno a caso, Prurient?). Tim suona con il cuore, più propriamente con lo spirito, non santo ma sensibile. E’ come un Virgilio che ti accompagna con mano in posti sommersi. Non è un terrorista sonoro con l’intenzione di farti sanguinare le orecchie, non è musica che parte dalle viscere.

Ma torniamo al disco.The Piano Drop dicevamo. Registrato in una chiesa a Reykjavik, in Islanda, Ravedeath 1972 è il sesto album del canadese. Fondamentale per la realizzazione è stato l’apporto del produttore Ben Frost (autore del disco By the Throat, ovviamente consigliato), che risiede proprio nella capitale islandese. Registrazioni di maestosi organi a canne si mescolano a pianoforti e synths in un mix sintetico orchestrale. Il tutto sapientemente rimasticato da una post produzione al computer. Suoni meravigliosi, a volte sottili a volte ruvidi, in bilico tra noise, ambient e shoegaze. Il romanticismo degli strumenti d’orchestra, nonostante filtrati da un laptop che li distorge, non si viene

la commovente conclusione, affidata al trittico In The Air I, II, III, con quel pianoforte malinconico simil requiem, ma sottovoce. Al pastoralismo del precendente disco, il canadese sostituisce una personale e sensibile dicotomia tra luce e tenebra influenzato sicuramente da By the Throat di Frost, che contiene alcuni passaggi (l’ululato dei lupi su tutti) estremamente oscuri e angoscianti. Ci si ritrova quindi anche del gotico in questo nuovo lavoro. Non siamo lontani dalle rovine delle cattedrali di Friedrich, sepolte dalla neve.

- mr. potato

a perdere, anzi nasce una forma di lirismo nuova (vero impianto formale di artisti dal destino comune a Hecker, come Infinite Body, Jefre Cantu-Ledesma, Aidan Baker e lo stesso Frost) basata su pathos e tensione, aperture e strozzature sonore. “The Piano Drop” non può che essere l’incipit del disco. Bellissima e misteriosa con quel trascinante leitmotif sinfonico ruvido e gelido. No Drums è isolamento sonoro, che ricorda Biosphere. E il rumore del sole che scioglie la neve. Subito dopo due monoliti sonori: Hatred of Music I e II, puro romanticismo drone che riscalda e illumina le pareti della caverna ove i suoni rimbalzano. E poi

«Che meraviglia i nuovi vestiti dell’imperatore!». Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all’altezza del suo incarico. «Ma non ha niente addosso!» disse un bambino. Sì, non ha niente addosso e non è affatto un bello spettacolo. (4/5)

- bobi raspati

“How to disappear completely” e tornare poi all’improvviso. Così hanno fatto i Radiohead. Il disco è più Thom Yorke che Radiohead. La musica tratteggia una linea che unisce Ok Computer e KidA/Amnesiac e saluta la chitarra che aveva reso immenso In Rainbows. Decisione coraggiosa, ma che premia la band influenzata tanto da Flying Lotus quanto da Bjork.C’è vita e acqua sotto le grandi radici dei “limbs”.

- matmo

Non un album trascinante, l’ultimo Radiohead; ma quell’elettronica, risolta con quella melanconia meditativa, io continuo ad amarla.

-visjo

Dicono necessiti di molti ascolti (5)- zorba

Sicuramente un passo in avanti, anche se non si sa in quale direzione; adoro brancolare nel buio ascoltando The King Of Limbs. (7)

-w

Le prime parole di Thom Yorke donano l’immagine, oltre che della sua Euridice, dell’ascoltatore: “Open your mouth wide”. A bocca aperta, attonito dal buio della luce di un disco che come una nebbia placida se ne sta in superficie, coprendo il suolo. Questo re dei limbi avrà già abdicato da tempo.

- gorot

Fa sempre piacere ascoltare un nuovo lavoro di Yorke e soci; vale anche per The King Of Limbs e, sebbene i primi ascolti (forse) non premino immediatamente, alla fine comunque non rimarrete insoddisfatti. Tra le tracce spiccano Feral, brano in cui l’elettronica è protagonista assoluta, e

Give up the ghost, con Yorke alla voce e alla chitarra acustica. (6)

- fragor

4

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RECENSIONINoir Pop

ANNA CALVI Anna Calvi[Domino Records, 2011]

Ambient-Dub, Uk Garage

CLUBROOT II MMX[LoDubs, 2011]

Avant-Rock

THANK YOU Golden Worry[Thrill Jockey, 2011]

Ci stiamo innamorando delle cantautrici, ma è comprensibile; piacciano o no, Joanna Newsom, Janelle Monàe, Pj e non poche altre reginette folk e pop hanno raccolto con eleganza lo scettro lasciato cadere, ormai da qualche anno, dagli uomini, che nel cantautorato l’avevano sempre fatta da padroni.Sulla scia di un filone più noir (Soap&Skin, Zola Jesus), artiste che immaginiamo immerse nel fumo di un locale semibuio, si colloca l’esordio della Calvi. Molto fumo, in effetti, attorno a questa cantante (britannica ma di ovvie origini italiane): è già stata paragonata a Nick Cave, Patti Smith e ad entrambi i Buckley, ed inserita dalla BBC tra gli “artisti da seguire” del 2011 dopo che si era fatta notare l’anno scorso facendo da spalla ai Grinderman nel loro tour.Misteriosa e sensuale, Anna Calvi ha ipnotizzato molti (e lasciato indifferenti altrettanti) con queste dieci canzoni per voce (turgida e potente) chitarra e, spesso, harmonium e percussioni, come nell’orchestrale Blackout. Noir pop che strizza continuamente l’occhio al blues e che trova la sua massima espressione nella struggente First We Kiss, che assieme a The Devil costituisce il momento più solenne del disco.A conti fatti un buon lavoro, giusta mediazione tra atmosfere arcane e disorientanti (si è parlato di rimandi lynchiani) e momenti più dolci e rassicuranti. Anna Calvi non regge il confronto (e come potrebbe) con i mostri sacri cui è stata paragonata, ma contribuisce certamente alla rivincità del gentil sesso.

6/7-zorba

come CLUBROOT, capace di gestire tutte le differenti sfaccettature del suo progetto senza mai lasciarne incompiute. Soltanto attraverso la riflessione e l’immaginazione si riesce a capire in quali lontani luoghi questo disco prioetti la dubstep e tutte le sue correnti alla ricerca di un nuovo sviluppo che sicuramente parte da qui e oramai non ha più confini.

7 -w

Apertura solare con chitarre distorte e ritmate a single note. Poche note da ritornello brasileiro, e batteria con incedere tribale sul rullante. Cori contenti e ammiccanti. 1-2-3 Bad. Cambia la faccenda con il sogno di arabeschi candidi del secondo pezzo Birth reunion. Molti synth, noterelle che accennano ad un Bach svogliato, e organetti alla tarda epoca dei genesis. Peccato per il cambio poco contestualizzato della canzone che richiama il brano precedente. Per rimanere in quell’ambito il terzo pezzo (Pathetic Magic) riprende ancora le chitarre canterine e la batteria molto veloce. Sembra che la lezione di Bach si sia stravolta. Primo la fuga e poi a toccata. Ecco un altro cambio con voci sovrapposte ed effetti d’arpa. Il Messico fa da sfondo a questo quarto brano (Continental Divide) col fischio di un treno che parte e chitarre con accordi à la Cucaracha, per lasciare spazio a scacciapensieri e grasse chitarre in contro canto storpiato. Il pezzo poi si riposa e si siede. La batteria usata più come insieme di tamburi, che non come batteria “standard”, è l’accenno perenne alla danza tribale africana che accompagna spesso i brani. Strange All ricorda già il primo brano, solo un po’ più organ-izzato (molti organetti). Una lezione dai Doors a questo giro. E poi l’ultimo pezzo Can’t/Can. Batteria colorata, chitarre rapsodiche, coreuti, e un basso di slides e ottave a più non posso. Stop con organetto e timpano in crescendo ingannandol’ascoltatore. Il pezzo infatti si concluderà con pace e grazia. Il disco è organico, il suono del gruppo è personale, la struttura delle canzoni non sempre impeccabile, ma il livello tecnico è alto. Un bel pastone di giungla, Mar Mediterraneo, e Savane. Forse un po’ ripetitivo, ma del resto la danza deve essere trascinante, rimembrante, ed esorcizzante.

7 -gorot

Feedback-wave-pop

THE PAINS OF BEING PURE AT HEART Belong[Slumberland, 2011]

Sax Solo

COLIN STETSON New History Warfare Vol. 2: Judges [Constellation, 2011]Ecco un disco davvero originale e compiuto, finalmente. Colin Stetson è un musicista americano che da anni accompagna gli Arcade Fire, collabora con Tom Waits e i Tv on the Radio ed è membro della Bell Orchestra. Capace di spaziare tra diversi fiati, questa sua seconda prova solista è dedicata nella sua interezza all’esplorazione di tutte le possibilità armoniche e ritmiche, più in generale artistiche, del sassofono basso. Talmente siamo abituati alla pochezza strumentale dei musicisti d’oggi, succubi della tecnologia e tutti rintanati nei battiti di mamma Korg, che stupirà un approccio alla musica amorevole e caloroso come quello di questo ragazzo. Ancor più strano sembrerà, davanti a questi muraglioni di drone bassi e pulsanti, polifonici e percussivi, sapere che nella registrazione di questo album non si è ricorso ad alcuna sovraincisione: quel che sentiamo non è che quanto prodotto dall’amplesso di Colin col suo sassofono, un assolo incocciato su 24 microfoni e mixato con furbizia dalle mani filo-crucche di Ben Frost, bravo ad enfatizzare le note e le vibrazioni più sinistre. Il buon Colin conosce bene le meraviglie della respirazione circolare, strilla dentro il proprio strumento mentre al contempo sfiata un tappeto di sussulti metallici e mutevoli, puntellati da un pestare sui tasti fatto a rudimentale macchina

Era attesissimo il ritorno del quartetto newyorkese (il 32esimo nella top 50 di quest’anno per Stereogum), dopo quel debutto che nel 2009 tanto aveva fatto parlare di sé. E non a caso direi, data l’indubbia posizione di rilievo che i Pains Of Being Pure At Heart

5

11 pezzi e 53 minuti per illuminare una nuova via sonora che prende vita dallo scheletro della dubstep e trascina le menti nello spazio cosmico della nuova generazione descrivendo luoghi oscuri ai soliti amanti della musica elettronica. Il vento del rinnovo si percepisce fin dall’inizio, da quei rumori naturali e antichi che sembrano predire una vecchia profezia di distruzione e morte e che introducono i battiti delle più scatenate notti dubstep andandosi a fondere con le algide sferzate di synth che alleggeriscono l’atmosfera ed aprono i timpani per prepararli a nuove sonorità. Quasi tutte le tracce sono composte da un crescendo di suoni e stili che cominciano lentamente a penetrare nella base ritmica tipicamente dub e si fondono insieme portando a termine il difficile compito di proiettare la musica oltre i confini di sè stessa con grande energia; ed è proprio lo sviluppo del suono che sorprende in questo lavoro del giovane Dan Richmond, alla sua seconda prova

hanno rivestito per il revival del pop à-la Jesus and Mary Chain, ma anche, e soprattutto, dato l’indubbio gusto che avevano dimostrato per una melodia tanto semplice quanto disarmante. Cos’è cambiato in due anni? Benché la coordinata principale rimanga il pop trasognato e imbevuto del caratteristico spleen anni 80, fatto di tenui melodie trasportate da ventate di feedback chitarristici, stavolta il sound appare più delineato dal lavoro in studio. È questo il cambiamento più rilevante, e forse la marcia in più rispetto al disco precedente se a capitanare le operazioni è Alan Moudler, ovvero colui che ha prodotto gli “originali” (JMC, Lush, Ride, My Bloody Valentine, Smashing Pumpkins). Belong sembra prendere le distanze dal twee-pop alla Belle&Sebastian di The Tenure Itch (senza dubbio uno dei pezzi più riusciti dell’album precedente) a favore dello shoegaze (My Bloody Valentine), delle distorsioni stile JMC e in generale di un sound decisamente più corposo. Inoltre non si disdegna un uso più massiccio dei synth, a servizio di riff danzerecci (quelli di The Body o My Terrible Friend) o di tappeti ambientali (Strange). Parlare di conferma appare quindi riduttivo di fronte a canzoni incantevoli come la Smithsiana Belong (vera perla dell’album), l’irresistibile Heart in You Heartbreak, con quella melodia che entra in circolo subito al primo ascolto, la succitata The Body, fresca e avvolgente tra i suoi vortici di tastiere e riverberi di chitarra, o la dolcissima Anne With An E. Just like honey.

7 - visjo

feedback - MARZO 2011 feedback - MARZO 2011

Other-Dub, Experimental-Techno

MORITZ VON OSWALD TRIO Horizontal Structures[Honest Jon’s, 2011]

Synth-Popper/Songwriter

DESTROYER Kaputt[Merge, 2011]

Songwriter/Pop

BRIGHT EYES People’s Key[Saddle Creeck, 2011]

ritmica (sentire Fear of the Unknown And The Blazing Sun e Home per credere). Il disco, 16 composizioni che riducono ad un un’unica poltiglia pop il minimalismo di Steve Reich e il free jazz avanguardistico di Anthony Braxton (Judges e Clothed In The Skin of the Dead su tutte), ha tuttavia poco di improvvisato e al contrario le partiture si mostrano compatte e serrate, miracolosamente attuali e godibili. Le voci di Laurie Anderson e My Brightest Diamond, presenti in alcuni pezzi, allungano l’ombra confortevole del sassofono di Stetson. Bello, evviva!

7/8- bobi raspati

Area C è il progetto di Erik Carlson, un artista a 360 gradi proveniente da quell’isola che non c’è che è Providence, nel Rhode Island. Questa è la sua ottava opera e continua sulla linea delle precedenti, seguendo una linea che unisce le tendenze della musica sperimentale/avanguardistica con l’ambient e le fascinazioni elettroniche contemporanee (drone e glitch). L’ascolto del disco non è affatto immediato, anzi, richiede molto tempo per riuscire a capire cosa si muove (se si muove) dietro gli affreschi drone del nostro amico Erik. E la sentenza è che sì, dietro questa musica si muove un mondo di immagini. La musica è formata de

I m p r o v v i s a z i o n e come imperativo e sperimentazione come obbligo, queste le ferree regole sulle quali si basa il successo del pioniere della musica elettronica Mortiz Von Oswald che per il 2011 rimette insieme il trio di Vertical Ascent e Live in New York composto da egli stesso, Max Loderbauer (NSI/Sun Electric) e Sasu Ripatti (Vladislav Delay/Luomo) e con l’aiuto della chitarra di Paul St Hilaire (also known as Tikiman) e il doppio basso di Marc Muellbauer (via ECM) riesce a creare “strutture orizzontali” di rara solidità e raffinatezza. Un lungo percorso composto da 5 tracce di pura elettronica che spaziano dalla dub alla techno passando da ritmi esotici e 80s a schitarrate di punk d’avanguardia e che trovano ognuna la giusta direzione nel tappeto rumoristico imbastito dalle improvvise visioni dei 5 artisti; alle prese con un suono che più che bruciare cerca di scaldare i corpi l’ascoltatore rimane a metà tra l’esplosione energica e la contemplazione mistica, imbattendosi in una prima parte più sperimentale e rumoristica, dove si percepisce il jazz e il minimalismo che affiorano, e in una seconda parte più ritmata e divertente. Il lento suono del trio ti trascina senza mai stenderti del tutto, d’altronde la sensazione più bella è quella di fluttuare e Moritz lo sa bene.

7/8- w

Carriera curiosa, quella di Daniel Bejar: da alfiere del lo-fi più “lo” ad elaboratore di una compiutissima e personale idea musicale che lambisce i confini del pop barocco e del cantautorato. Forse l’ultima fatica che porta il suo nome (o, meglio, quello del suo gruppo Destroyer) altro non è che la naturale evoluzione di questa idea: difatti, detto forse in modo troppo semplicistico, Kaputt è un disco di synth-pop. Synth-pop che trae ispirazione sia da quello snobbettaro e alternative dell’ultimo decennio sia da quello patinato e danzereccio degli 80s, e tutto ciò tuttavia non basta a incasellare il disco: alle tendenze 80s e alle tendenze 00s si aggiungono quella predisposizione agli intermezzi/suite strumentali molto cara a Bejar e una certa attitudine cantautorale che si rispecchia soprattutto nelle liriche. Sotto quest’ultimo aspetto l’immaginario dell’opera è stato rinchiuso in uno scenario americano (post)apocalittico o comunque di assoluto degrado, che impoverisce notevolmente il ventaglio di atmosfere possibili; Kaputt si rivela ben presto un susseguirsi di canzoni intercambiabili tra loro, che hanno come minimo comun denominatore una ritmica puramente 80s, liquide pulsazioni di synth, interventi di fiati riverberati a fare da contrappunto e accompagnamento alla voce in ogni dove e – appunto – un’atmosfera sforzatamente epica. Il talento melodico è rimasto lo stesso e sue innegabili emanazioni sono, ad esempio, Chinatown, Kaputt, Downtown; tuttavia, i momenti di maggiore interesse, se non godibilità, sono certamente Suicide Demo For Kara Walker e Bay Of Pigs, dove la opprimente mentalità synth-pop si apre a apprezzabilissime digressioni strumentali.Chi appartiene alla schiera dei nostalgici degli 80s, insomma, avrà pane per i propri denti. Che

proiettati sullo sfondo. Già dai minuti iniziali dei quarantacinque che compongono l’album si scopre la verità: anche lui è stato contagiato dalla febbre dell’electro-pop. Firewall, la prima di dieci, apre con un recitativo, come da tradizione. A parlare è il musicista- predicatore Denny Brewer che, con il suo accento texano, infesterà molti altri brani, compresa l’incalzante Jejune Stars, farcita di citazioni religiose. Obrest dà il meglio di sé quando il ritmo rallenta: A Machine Spiritual ( People’s Key ) è la traccia simbolo dell’intero lavoro. Religione e synth continuano a essere la colonna portante anche in Triple Spiral che, in tutta la sua vivacità pop, rappresenta uno dei momenti meglio riusciti. Da qui il disco declina dolcemente. Ladder Song, la ballata piano e voce, ci prepara alla conclusiva One For Me, One For You pacifica e semplice filastrocca. Un unico pensiero turba chi ascolta nella tranquilla atmosfera degli ultimi minuti: la ricomparsa del predicatore. Brewer arriva puntuale con il suo farfugliante, e fortunatamente breve, sermone finale. E’ quasi passata una decade da quando, con Fevers & Mirrors, Bright Eyes promise di diventare uno di quelli il cui disco lo si aspetta con trepidazione. Questa sua ottava fatica minaccia di essere l’ultima e sarebbe davvero un peccato uscire di scena così.

6-comyn

Con quindici giorni di anteprima Bright Eyes pubblica interamente il suo nuovo disco su YouTube. Conor Obrest ci ospita nel suo caotico salotto, insieme ad altri amici, mentre i testi di People’s Key scorrono

Post-elettronica

AREA C Map Of Circular Thought[Preservation, 2011]

pièce meditative e contemplative nelle quali è facile perdersi per sognare, abbandonarsi tra le loro braccia tra ritmi minimali e melodie che arrivano dall’altissimo cielo, il rumore delle stelle, riprodotto tramite chitarre processate, organo, tastiere e drum machine, che richiamano alla mente i momenti più belli dei re dell’ambient UK Seefeel, i paesaggi astratti di questi ultimi sono vitalizzati dal nostro e non possiamo che innamorarci di un suono simile. Ecco allora che la linea passa dai Seefeel ai maestri del minimalismo, a Terry Riley e Steve Reich fino ad arrivare ai giorni nostri, a William Basinski e Philip Jeck. Così ci muoviamo dalla soffice avant-techno di Two’s ai pezzi più dilatati come Felt, Not Seen, che ci avvolge nel suo strato di candore e non ci rilascia più. Uno dei tanti apici di questo disco è la title-track che si muove da suoni indipendenti che si riuniscono in un tutt’uno cosmico, come un girino solo in mezzo all’acqua che scodinzolando ritorna nel suo gruppo. È un disco che ci consegna delle immagini, che ci fa sognare e allo stesso tempo riflettere su ciò che stiamo ascoltando, una soundtrack per l’infinito. Così, in punta di piedi, Carlson ci consegna un disco riflessivo, morbido, che va a colpire direttamente il cuore, è un disco di emozioni. Una delle cose più belle dell’anno.“Il naufragar m’è dolce in questo mar”

8 - matmo

Original-Jazz-Techno

MARGARET DYGAS How Do You Do[Powershovel Audio, 2010]

si affretti, però: l’inverno sta per finire, e Kaputt con la primavera non ha proprio nulla a spartire.

6- Samgah

6

Polacca di nascita, vissuta poi a cavallo tra Berlino e la California, Malgorzata Dygasiewczand esordisce sulla lunga distanza con How Do You Do ispirato al libro People Watching, manuale di zoologia surreale di Desmond Morris. Lavoro che si basa su battiti dall'oltretomba che segnano una linea continua che ci fanno chiamare tutto questo techno. Fin qui nulla di nuovo, ma è la bravura della nostra a creare ponti con il jazz tramite piano e batteria a rendere unico questo disco che crea quadri astratti e sperimentali. Si muove tra field recordings e delay, in un suono che si fa pian piano più concreto con l'ascolto e ci porta in terre dove a farla da padrone sono voci smembrate in salsa funk (Salutation), percussioni in controtempo (Veering Intention) fino a Pg. 21 un pezzo che cresce di minuto in minuto tra note di piano che si rincorrono ferocemente, battiti profondi ed ipnotici, tutto affogato in un'atmofera jazz trasfigurata. È techno? É avanguardia? È jazz? Ognuna delle ipotesi puo' essere seguita, l'importante è vivere in questa musica.

8- matmo

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Lo-fi

DANIEL JOHNSTON Songs Of Pain[Kranky, 1981]

Neo Gothic/Avant-Folk

NICO Desertshore[Reprise Records, 1970]

Post rock

BARK PSYCHOSIS Hex[Circa, 1994]

ROVISTANDO IN SOFFITTA

DANIEL JOHNSTONDaniel Dale Johnston è un cantante e pittore statunitense, nato a Sacramento nel 1961. Debutta, appena ventenne, nel 1981 con Songs of Pain, inciso con un organetto e un modesto mangianastri da 50$; dopo un periodo difficile in cui abbandona la scuola d’arte e lavora in un luna park itinerante come venditore di pop-corn (pur continuando a scrivere e incidere materiale), pubblica nel 1983 due dei suoi migliori dischi, Yip/Jump Music e Hi, How Are You?. Tuttavia, il vero e proprio capolavoro di Johnston esce nel 1988, It’s Spooky, realizzato collaborazione con Jad Fair. Seguono poi 1990, Artistic Vice, Fun e, infine, dopo un periodo di crisi, Fear yourself, Discovered Covered, e Lost And Found.

Si è preso un bell’impegno il buon Matmo con il suo post rock a puntate. Si sa, quello è un calderone in cui bolle un po’ di tutto, un minestrone di cui spesso risulta difficile

Qualche giorno fa Lou Reed ha ufficializzato le otto date italiane del suo prossimo tour (tra cui una presenza eccezionale al nostro Pistoia Blues). Storico militante dei Velvet Underground, nel 1967 aprì con la sua voce, sulle note di Sunday Morning, un album memorabile: rivoluzionario già a partire dalla copertina (la famosa banana di Andy Warhol), impressionante per numero di intuizioni musicali, The Velvet Underground and Nico è unanimemente considerato una delle opere più importanti e influenti della storia del rock.Faceva allora parte dell’ensemble newyorkese, oltre a John Cale e alla sua viola, l’attrice e cantante tedesca Christa Päffgen, aka Nico, femme fatale e musa ispiratrice di Warhol.Se in quel disco si era distinta per dolcezza e delicatezza di espressione, seppur viziata da un’ombra di tristezza, nella carriera solista successiva all’abbandono del gruppo Nico accentuerà il suo lato più desolante e introspettivo, portando agli estremi i suoi istinti più tenebrosi. Un vero e proprio capolavoro è in questo senso Desertshore (1970), prodotto da Cale, che svela definitivamente Nico nei panni di funerea chanteuse dell’angoscia. I suoni cupi e sinistri (resi dall’inusuale utilizzo di un harmonium indiano) accompagnano, in un’atmosfera da danza macabra neogotica, l’apatica voce di Christa Päffgen, unico punto di riferimento in mezzo a continue suggestioni inquietanti.Ogni cosa, nelle lande deserte di Nico, sembra destinata a decadere: Desertshore fa a pezzi il classicismo per sublimare i suoni più strazianti concepibili, rivestendo il tutto di un fascino misterioso. La splendida, torturata voce di Christa penetra nelle ipnotiche vertigini di Janitor of Lunacy, nelle sperimentazioni sinfoniche di Adshied, nell’improvvisa quiete pianistica di Afraid, ma è solo quando le melodie si delineano nel modo più straniante e tenebroso possibile che nasce il gioiello conclusivo, che ha tutto il sapore di un congedo dal mondo: All That is My Own è un capolavoro di perdizione, è la summa dell’intera, tormentata, figura di Nico.

Non so bene come faccia a vivere, è una continua lotta tra me e me. È un dramma sentirmi come aliena a me stessa. Non ho alcun riferimento per capire chi io sia.

- zorba

distinguere gli ingredienti, ma nonostante ciò al nostro fondatore, sempre all’altezza delle sue ambizioni, rendiamo pieno merito del suo lavoro, un lavoro che sarebbe da studiare più che da leggere. Purtroppo lo spazio è quello che è, come tiene sempre a ricordare, e allora capita che qualcosa possa essere tralasciato, vedi Hex. Ma Hex è un urto, un impatto che non vuole essere sorvolato e, in effetti, sarebbe davvero un peccato dimenticarsi di una delle gemme più raffinate che il post rock ci abbia lasciato. Un urto, sì, e non solo per la storia del rock, ma anche per chi, al primo approccio, rimarrà sbigottito di fronte alla sua carica spaesante. Quella dei Bark Psychosis è un’armonia sempre al limite della consonanza, in bilico tra frastuoni cerebrali e stasi riflessive, tra follia claustrofobica e (in)capacità di ascolto, tra rumore e silenzio. Basti pensare a Eyes and Smiles Damaged, probabilmente il pezzo più straordinario dell’intero album, al suo inizio in sordina, con gli echi delle chitarre che s’intrecciano lontanissimi con il raid appena sfiorato e la voce sussurrata di Graham Sutton, al sublime ponte strumentale che introduce l’irruzione della tromba, e poco dopo del silenzio, totale, fino al riaffiorare di quei rumori che in realtà non ci avevano mai lasciati. Rumori che caricano l’aria di sofferenza con un crescendo tormentato, il quale non riesce a sfociare se non in un ulteriore lamento, quello delle trombe che ritornano più graffianti ed esasperate che mai. Sutton inizia a gridare, a urlare a squarciagola la disperazione dell’incomunicabilità, ma la bolgia lo sovrasta, la sua voce è distorta, irriconoscibile, anche quando, ancora una volta, ripiomba il silenzio che lo lascia più solo che mai. Poi tutto di dissolve, come sempre. E’ una musica in potenza, quella di Hex, mutevole quanto noi, quanto i nostri stati d’animo, in continua ricerca di un po’ di chiarezza, di un po’ di luce tra tanto buio. Una musica che va di pari passo con le emozioni e che per questo rifiuta ogni sorta di struttura. Una musica sfrenata, sregolata se vogliamo, ma autentica e capace di parlarci con sincerità ineffabile. Davvero le parole servono a poco. Andate su in soffitta, rovistate.

- visjo

trent’anni di Songs of Pain, struggente album d’esordio di Daniel Johnston, non vi parlerà invece nessuno. Mojo non leverà gli Who dalla copertina, Pitchfork non cambierà la sua logica idiota e Mollica non sprecherà superlativi sulle tv di casa nostra. Un po’ perché nessuno ha idea di quando sia davvero uscito in quel fatidico ‘81, un po’ perché si tratta di uno dei dischi più sfigati della storia della musica. Daniel era appena ventenne e già malato di depressione quando iniziò a distribuire presso amici e conoscenti una cassetta registrata alla bene e meglio nella propria cameretta, una raccolta di filastrocche strimpellate su una tastiera giocattolo e cantate con la voce spezzata di un adolescente ironico e disincantato. Dotato di un talento infinito e multiforme, fin da bambino era stato baciato dalla malinconia. La mamma strillava e le ragazze non se lo filavano: questa è la colonna sonora di quel periodo lì, prima di una sequela di ricoveri e tentati suicidi, tanti psicofarmaci e tante canzoni. Le nostre preferenze vanno su Never Relaxed, cronistoria delle tribolazioni di un ansioso, e Lazy, inno alla pigrizia e alla procrastinazione nel quale tutti ci riconosciamo. Le melodie imprendibili e i testi comicissimi di questa deliziosa raccolta – ristampata in cd di recente – hanno negli anni conquistato Mike Watt e Kurt Cobain, Tom Waits e il povero Sparklehorse, e tante sono state le cover e i tributi. Questa, piena di fruscii e imperfezioni, è di sicuro la forma migliore per l’arte di Daniel Johnston. Buon anniversario, amico.

- bobi raspati

Ci sono anniversari e anniversari. Alcuni si portano dietro tonnellate di carta di giornale, chilometri di pellicola e fanno parlare per s e t t i m a n e . D e i

NICONome d’arte di Christa Päffgen, Nico è certamete una delle più rilevanti icone musicali (e non solo) della seconda metà del Novecento; inizialmente modella a Parigi per Coco Chanel, poi attrice ed infine cantante, è ricordata dai più come membro (seppur per un breve periodo) dei Velvet Underground. Nel 1967 partecipa infatti al primo lavoro di Lou Reed e soci, The Velvet Underground & Nico, come cantante solista; sebbene l’album di debutto sia diventato una delle pietre miliari del rock, la difficile e turbolenta convivenza tra Nico e V.U termina poco dopo, con l’abbandono della cantante e la scelta di intraprendere una carriera solista, di cui Desertshore (1970) rappresenta il momento più alto. Muore a Ibiza nel 1988 per un’emorragia celebrale causata da una caduta dalla bicicletta.

7

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FAN-TA-ZEE-AHparte prima: Mickey Mouse sul palco dell’orchestra

DEEP INSIDE

Sono pochissime, tanto per cominciare, nella storia del cinema, le opere che vantino un curriculum vitae come quello di Fantasia: la nascita travagliata e distribuita nell’arco di quattro anni di ripensamenti, a cui dette l’avvio la volontà da parte di Disney di rilanciare la figura di Topolino con un cortometraggio per la serie “Silly Simphonies” (quello che diventerà poi “The Sorcerer’s Apprentice); l’assoluta rivoluzione, forse non compresa immediatamente da Disney, apportata con esso al cinema d’animazione (e al sonoro nel cinema in generale), solo pochi anni dopo averlo di fatto inventato; l’accoglienza unanimemente positiva da parte della critica e, all’opposto, il rinnegamento da parte dello stesso Disney, che nel 1942 dichiara “Fantasia è stato un errore”; le decine di riedizioni di cui è stato vittima; il sequel, che perderà irrimediabilmente l’aura magica del predecessore; tutto concorre a fargli occupare un posto di assoluto rilievo nella storia della settima arte. In virtù anche di questa sua unicità, di che cosa

si compone di, appunto, fantasie. Fantasie distribuite in otto parti, demoniache, floreali, mitologiche, astratte ma sempre e comunque meravigliosamente infantili (nell’accezione positiva). Fantasia l’avrebbe potuto pensare solo un bambino, che non può rendersi conto della genialità delle sue primitive creazioni mentali o, in alternativa, la Disney, che di questa genialità non cessa di darci testimonianza.Prima parte: quella che da bambini tutti avremmo considerata una parte “noiosissima, di quelle dove c’è la gente vera che parla”, una piccola introduzione insomma, dove si spiega il concetto intorno al quale ruota l’opera. Poi ka-boom, sullo schermo si susseguono paesaggi psichedelicamente astratti, ondeggii di corde, puri sfoghi immaginativi geometrici e ageometrici (Bach) che, prendendo le mosse dall’orchestra, propongono un esempio di ciò che “potrebbe passare per la testa di qualcuno seduto ascoltando il pezzo”, vero esempio di “musica assoluta” (parole del presentatore): un esperimento, che, forse non ardito quanto

rubato il cappello magico al padrone, allaga involontariamente la stanza per intervento di ramazze da lui stesso animate (per non dover fare il lavoro lui stesso) e, nel frattempo, sogna di essere un abilissimo mago capace di controllare gli elementi. Con Topolino come protagonista speciale, quello che è uno dei frammenti più narrativi dell’opera (per il carattere stesso del pezzo di Dukas) non poteva che riuscire bene; nonostante la presenza del topastro, però, permane una certa atmosfera di inquietudine e di paura, legata alla sequenza del sogno (meravigliosa) e all’idea delle scope animate e del loro avanzare inesorabile. Il merito della fama dell’episodio non è comunque da attribuire tutto alla presenza di Topolino. L’Apprendista Stregone, infatti, riesce, conservando la struttura della narrazione, a fondere in un’unità più inscindibile che nel resto del film musica e immagini: racchiude, insomma, il concetto primo di Fantasia, è l’archetipo su cui tutta l’opera si fonda. All’atto pratico, questa armonia perfetta si traduce in una godibilità

l’Ave Maria di Franz Schubert.Condotte dal maestro Leopold Stokowski, queste esecuzioni godettero di particolare rilevanza in quanto furono le prime registrazioni multicanale (stereo) ad essere inserite in una pellicola: causa, questa, del cosiddetto Fantasound. Tra un frammento e l’altro, dettagliate informazioni sul brano e spiegazioni sulla rappresentazione datane dagli artisti. Tutta la qualità audio del mondo, però, non sarebbe bastata ai bambini e adulti di tutto il mondo (sì, è un film per famiglie senza essere per forza squallido): ciò che essi chiedevano alla Walt Disney Pictures (in piena Seconda Guerra Mondiale, non ancora “giunta” in America) erano, appunto, evasione e pure pictures, immagini. E furono accontentati. Dopo infiniti sopralluoghi, ricerche, studi e schizzi preparatori, quello che il calderone Disney rovesciò sugli spettatori andava al di là, se non di ogni, di molte aspettative. Tralasciando le scene di intermezzo che inquadrano orchestra, direttore e presentatore dei brani (eppure anche quelle sono in qualche modo cartoonesche), Fantasia

potrebbe sembrare (in fondo era già il 1940), denota comunque una volontà di sganciarsi dall’etichetta di film per bambini. Questi ultimi dopo 3 minuti di introduzione e 9 di astrattismo bachiano hanno già in mente di alzarsi e andarsene. Seconda Parte: in una foresta buia e incantata fate volteggiano tra i fiori, cospargendoli di polvere magica; di conseguenza funghi, petali (in forma di ballerine con tanto di tutù), pesci, fiori variopinti, foglie, cristalli di neve, sotto l’intervento delle fate, danzano in vari stili che rispecchiano i titoli delle varie parti della suite di Tchaicovsky in quello che è l’episodio dell’opera più splendido graficamente. Tutto giocato sulla somiglianza tra elementi della natura e umani, specie nell’accostamento del bulbo all’abito da ballerina, sembra dotato di una creatività inesauribile che trabocca dai confini dell’episodio. I bambini, intanto, hanno ripreso saldamente il posto a sedere e attendono con la gioiosa ansia propria solo di quella età il frammento successivo. Terza parte: l’apprendista di uno stregone,

si tratti lo sanno quasi tutti: “brani di musica classica accompagnati da cortometraggi tipicamente disneyani”, o viceversa “cortometraggi disney accompagnati da brani di musica classica” sono le diciture più comuni.Nel dettaglio, i brani sono: la Toccata e Fuga in Re Minore di J.S.Bach, parte de Lo Schiaccianoci di P.I.Tchaicovsky, L’Apprendista Stregone di Paul Dukas, la Sagra della Primavera di Igor Stravinsky, la Sinfonia Pastorale di Beethoven, la Danza delle Ore di Amilcare Ponchielli e, nello stesso cortometraggio, la Notte sul Monte Calvo di Modest Mussorgsky e

infinita dell’episodio, caratteristica che lo ha reso così leggendario: si è visto infatti come, per molti anni, Topolino rossovestito che lancia magie con indosso il cappello del mago sia stato uno dei simboli della Disney, perfetto emblema delle sue capacità creative che erano, fino a pochi decenni fa, senza rivali. I nostri ideali bambini (fanciulli interiori?), che avevamo lasciato in ansia, sono con gli occhi incollati allo schermo, tesi per le “paurose” disavventure di Topolino, pronti a prorompere in un grido liberatorio di sorpresa quando, appena dopo il finale d’episodio,

Mickey Mouse in persona, di cui si vede soltanto l’ombra, compie una a suo modo trionfale salita al palco dell’orchestra, per stringere la mano al direttore Stokovski (in silhouette anche lui).Il grande pubblico, che mai aveva visto qualcosa del genere, si meraviglia di quelle mani che si uniscono, di quelle poche parole (“Congratulations”, “I’ll be seein’ you”) che un personaggio disegnato osa per la prima volta scambiare con una persona in carne ed ossa, squarciando così il velo tra realtà reale e immaginata. Purtroppo, come vedremo anche nel prossimo frammento - sebbene in un contesto un po’ diverso - lo spazio è tiranno, e con il ricordo di un evento di tale importanza dobbiamo chiudere la prima parte dell’intervento su Fantasia (o sulla fantasia? A voi la scelta), che verrà ripreso sul prossimo numero: concluderò il racconto e mi proverò a fare un’analisi più – mio Dio – approfondita di quest’opera veramente fantastica.

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Avevamo finito l’ultima volta parlando dei June Of 44, ripartiamo ora dai gruppi che più hanno seguito quella derivazione del post-rock, parliamo di due numi tutelari, che hanno riscosso anche grande successo di pubblico. Parliamo di Mogwai ed Explosions In The Sky. Partiamo dai primi. I Mogwai sono la risposta europea, precisamente scozzese, al dominio americano. Il gruppo si affaccia nel mondo musicale nel 1997, anno anche, del loro migliore disco. Dopo due mini viene dato alle stampre Young Team, disco ambizioso ma che vince tutte le sue scommesse. La base è il suono di Luoisville, di gruppi come i sopracitati June Of 44 e Slint, di questi ultimi però viene meno la freddezza e la cerebralità, fissando i loro canoni in canzoni lunghe e dilatate che si muovono secondo lo schema loud-quiet-loud ovvero improvvise deflagrazioni soniche seguite da momenti di calme e nuove esplosioni. Il disco in questione si puo’ riassumere nell’ultima traccia, Mogwai Fear Satan, 15 minuti di sali-scendi chitarristici su base tribale di batteria con melodia che viene ripetuta prima dalla chitarra, poi dalla tastiere e dal flauto e rappresenta l’apice del primo periodo dei Mogwai. Primo periodo che prosegue sulla stessa linea, creando lo stile canonico di post-rock. Le cose cambieranno a metà egli anni 2000 quando la band lavora più col “pop” (rigorosamente tra virgolette), cercando frasi orecchiabili ma non rinunciando comunque alle barriere chitarristiche, con vocoder e tastiere sempre più in primo piano.Dall’altra parte dell’oceano si muovevano gli Explosions In The Sky (da ora amichevolmente EITS). Il loro nome sembra una macabra profezia di quello successo nel settembre 2001, ancor di più sapendo che in un loro booklet si vede un aereo schiantarsi con una profezia degna di un chiromante “This Plane Will Crash Tomorrow”. Ma non bisogna fermarsi al nome della band nata nel 1999 ma approfondire la loro musica, epica, emotiva, tragica e selvaggia. Il loro primo disco ufficiale Those Who Tell the Truth Shall Die, Those Who Tell the Truth Shall Live Forever è un disco pieno di emozioni ed umori diversi che si snoda tra atmosfere languide ed esplosioni noise, come se i ragazzi del Texas riuscissero ad unire un’attitudine punk con la frangia più cerebrale del post-rock. Nascono così pezzi come Greet Death e Yasmin The Light, perfetti nei loro movimenti che alternano in maniera magistrale, con più precisione e con più passione il paradigma loud-quiet-loud. Il secondo disco The Earth Is Not A Dead Cold Place è anch’esso un gioiello, le coordinate sono sempre le stesse e raggiunge il suo apice, nonché uno degli apici del gruppo, in Memorial, nove minuti scarsi di sogno, la band qui attinge più alle atmosfere lente che a quelle più violente trovando l’apoteosi nei minuti finali. Leggero cambio di rotta nel successivo All of a Sudden I Miss Everyone che torna negli umori del primo disco. Ancora sali-scendi, ma la perizia tecnica del gruppo, la capacità di creare queste architetture, riesce a dare innovazioni importanti e a consacrare uno (il!) dei gruppi maggiori di questa fascia del post-rock. Un gruppo tra i più emotivi degli ultimi anni che ha, giustamente, conosciuto un grande successo di pubblico, soprattuto nell’utilizzo dei loro pezzi in colonne sonore.Facciamo un ulteriore salto e parliamo non di un gruppo, bensì di un’etichetta che ha creato un’estetica propria, derivante dal post-rock ma che lo supera, entriamo ora (e proseguiremo nei prossimi episodi), nella parte più sperimentale del post-rock che mixa elettronica ed atmosfere ambient, recupero del kraut-rock e il folk progressivo britannico, la psichedelia e la nuova elettroacustica. I punti di riferimento sono gli Spacemen 3 e i Pink Floyd pre-Dark Side Of The Moon, l’etichetta è la Kranky.Le band che hanno reso grande questa etichetta nata nel 1993 a Chicago (guarda un po’) sono i Godspeed You! Black Emperor, i Dadamah, gli Stars Of The Lid e soprattutto i Labradford. Proprio questi ultimi hanno inaugurato il catalogo Kranky, un duo formato da Mark Nelson e Carter Brown e che utilizza tastiere, chitarre, nastri e voce. Il primo disco Prazision è l’emblema del suono post-post dell’etichetta e si smuove tra l’isolazionismo dei Main e la komische dei Tangerine Dream con il kraut-rock che ogni tanto fa capolino. Con il disco successivo A Stable Reference il duo si allarga in favore del bassista Robert Donne che dona più ritmo al gruppo e smussa gli angoli rispetto al disco precedente (che resta però il loro capolavoro). Interessante che tra le tracce spunti talvolta il tema di Twin Peaks, tema che spunta anche nel loro terzo disco Labradford nell’ultima traccia, dove si appoggia il recitato di Nelson in un incanto post-bombardamento. Il prode Nelson ha anche un progetto solista dal nome Pan-American che prosegue il lavoro dei Labradford con atmosfere però meno rarefatte e che fanno l’occhiolino ai ritmi dub.I Godspeed You! Black Emperor, uno dei gruppi dal nome più originale, si danno ad una ricerca che unisce le colonne sonore di Morricone, con le colonne sonore di Badalamenti e il blues più riflessivo, creando una musica da viaggio interstellare. E così è nel loro primo disco, superato e doppiato poi dal loro capolavoro Lift Your Skinny Antennas To Heaven composto da quattro lunghe suite (peculiarità del gruppo, canzoni molto lunghe costruite in suite con uno schema quasi progressive) che si perdono tra feedback, musica classica, field recordings e toni da orchestra, il tutto grazie al grande numero di componenti del gruppo.Finiamo questa carrellata del catalogo Kranky parlando degli Stars Of The Lid (ci perdoni la psichedelia alata dei Dadamah e quella a tinte progressive dei Jessamine). Gli Stars Of The Lid, moniker indicante il tuo ”cinema personale, collocato tra l’occhio e la palpebra” , sono un duo formato dai chitarristi Adam Wiltzie e Brian McBride che hanno ridefinito le coordinate dell’ambient con viaggi interstellari al limite dell’isolazionismo e con il loro primo disco Music For Nitrous Oxide ci consegnano l’unica risposta possibile all’ambient post-Brian Eno mischiato con i Main e le atmosfere più diluite degli Spacemen 3. Con i dischi successivi e in particolare con The Ballasted Orchestra il suono migliora, gli interventi rumoristici diminuiscono, il suono si fa un mantello di droni, la durata aumenta in modo che il duo possa avere tutto il suo tempo per confezionare uno dei dischi migliori del catalogo Kranky. Trama presente in tutti i loro dischi è quella della musica cosiddetta classica/contemporanea di artisti come Arvo Part e Gorecky e Messiaen. Le atmosfere sono ancora bellissime in The Tired Sound Of... disco costruito a distanza dai due musicisti ma che sembra scritto da una coppia con il macbook sulla gambe sul letto tanto è la perfezione e l’amalgama del suono.

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VIAGGI EXTRASONORI DARIO ARGENTO tremo, ergo sum

Nonno Dario, 71 anni a settembre, nonostante quel famoso volto quasi “gargamellesco” e una verve da coatto romano che i film di Verdone non si sognano neanche, è ancora, in questo nuovo secolo di nuove paure, uno dei registi italiani attualmente più riconosciuti e celebrati all’estero. Molti degli attuali registi del genere splatter affermano con grande tranquillità di essere stati più volte ispirati dalla sua opera e non si sono mai vergognati di inserire nei loro lavori citazione da film di Argento e di averlo più volte omaggiato. D’altro canto parliamo di un regista che, nello stesso periodo in cui Sergio Leone (per cui lavorò da giovane, tra il ’67 e il ‘69 al soggetto di C’era una volta il West) inventava lo “spaghetti western”, più umilmente e con molti meno mezzi tentava di italianizzare il thriller, riprendendo l’uso della soggettiva del maestro del brivido Alfred Hitchcock, riducendo i dialoghi all’essenza e soprattutto utilizzando inquadrature realistiche, nel loro essere imperfette e quasi al limite dell’amatoriale, che ricordano lo stile della “nouvelle vague”. L’uccello dalle piume di cristallo (1970) ci fa vivere la storia con gli occhi di una mente malata e la tensione è costante: può crescere senza limiti ma non si può quasi mai abbassarla. Lo spettatore non si può sentire al sicuro perché è perseguitato e torturato alla stessa maniera dei personaggi e deve credere di essere fissato e seguito: deve essere consapevole di avere paura. La paura non è un vento che prima o poi smette di soffiarti in faccia, è una compagna di vita che ti cammina dietro senza farsi vedere e che non ti fa sentire al sicuro neanche sotto il tetto di casa (Quattro mosche di velluto grigio, 1971) o quando ti addormenti. Ecco, la dimensione del sogno è un elemento fondante di molte pellicole di Argento che, come Buñuel e Dalì in Un chien andalou, costruisce le sue scene prendendo, come base di partenza, immagini ipnagogiche o oniriche. Ormai arrivato alla maturazione della sua poetica, Argento presenta il suo capolavoro visionario Profondo Rosso (1975), thriller di una suspense

presente e che dice alla macchina da presa dove guardare ad uno che non sembra neanche esistere, a Inferno (1980) si compie però l’involuzione di Dario Argento, il quale diventa ossessionato dal voler impressionare più visivamente che psicologicamente. Da qui avremo altri horror di buon impatto come Phenomena (1985) o thriller nostalgici degli anni ’70 come Tenebre (1982). Poi solo film di un regista che sembra essersi dimenticato come si fa ad essere Dario Argento: da La sindrome di Stendhal a La terza madre, una sequela di trame prevedibili e di scene che suscitano più il disgusto che lo spavento. Ma Argento è stato ed è tuttora uno dei maestri del brivido moderno insieme a Romero, Carpenter e Craven: una generazione di registi che non vuole solo sottoporre lo spettatore alla visione di omicidi l’uno più efferato dell’altro ma vuole fargli vivere intensamente anche i momenti che anticipano l’assassinio, facendogli sentire il respiro, l’affanno

ed il piacere, dovuto al delitto che sta per compiere, del killer. Ma il regista nostrano fa di più: dopo averti mostrato le efferatezze di una mente perversa, proprio quando l’antagonista sembra essere stato sconfitto e la macchina sembra essersi spenta, ecco il colpo di scena, spiazzante, un pugno, anzi, una coltellata allo stomaco che ti sveglia dall’illusione che l’incubo fosse già finito. Il finale del film ti lascerà con molte domande, ma almeno capirai che, come la pellicola è iniziata e si è conclusa con un brivido lungo la schiena, così sarà anche la tua vita. Perché anche quando tutto sarà terminato, tornerai a pensare a ciò che ti ha spaventato e avrai di nuovo paura.

La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso (Franz Kafka)

- king lizard

L’UNITÀ È SERVITALa trascorsa celebrazione dell’Unità nazionale ha rinsaldato il nostro amore per la patria, lasciando che le bandiere prendessero aria sui balconi ma, soprattutto, ci ha concesso la possibilità di fare quello che durante la settimana lavorativa più desidereremmo: un pranzo sostanzioso e saporito, in tutta calma. Dell’italico amore per il cibo tratta uno dei testi più celebri della nostra letteratura, al pari di Pinocchio o dei Promessi Sposi. In occasione della festa vale la pena riscoprirlo e, magari, mettersi ai fornelli.Nel 1891, a venti anni esatti da quella politica, un romagnolo che accoglieva in sé l’amore per la buona tavola e per la letteratura, portò avanti

Le ristampe sono state, e continuano ad essere, molto numerose: circa c e n t o t r e n t a . Riuscì persino, grazie al corretto italiano con cui fu scritto, a contribuire all’unificazione l i n g u i s t i c a della Nazione. Divenne un imprescindibile libro di studio nel settore, tradotto in decine di lingue. É paradossale che un manuale per cui l’unico

prerequisito richiesto è, come dice Artusi, “saper tenere in mano un mestolo” oggi sia uno dei testi sacri per qualsiasi grande chef del mondo.Leggendo, o meglio mangiando, si intraprende un viaggio che ci porta a riscoprire, attraverso le origini della cucina, anche le nostre. Lontano anni luce da qualsiasi tipo di cibo veloce, la narrazione artusiana si smarrisce volentieri su vicende personali, che rendono la lettura così piacevole. La vita dell’autore entra nelle ricette, lui stesso è garante e primo sperimentatore di ognuna di esse. Una sensazione simile a quando si riceve una ricetta da un amico, con trucchi e accorgimenti per migliorare il risultato. Di tutti gli aneddoti che farciscono, è il caso di dirlo, l’opera, uno dei più citati è quello che precede la ricetta della zuppa di verdure. Dopo aver cenato a Livorno, Pellegrino incolpò un minestrone di avergli causato dei dolori, che poi si rivelarono essere i primi sintomi del colera. La malattia non riuscì certo a placarne l’appetito. Secondo Artusi occorrono “passione, molta attenzione e l’avvezzarsi precisi” per la cucina che, come le altre arti, vuole il suo tempo e la sua dedizione. Il ritmo è scandito dal lento mantecare del risotto o dal certosino lavoro di pulizia delle acciughe. L’autore dimostra una serenità di spirito e un amore per la vita e le cose buone tipico di chi ha appena pranzato con gusto. Riguardo ad alcune ricette la tentazione di rivisitare in chiave moderna è forte ma, questo implica uno stravolgimento che danneggerebbe il piatto. Provando invece a prenderlo alla lettera, si scopre che, in molti casi, funziona ancora. Comunque, ciascuno troverà la ricetta del suo piatto preferito, secondo tradizione, e sarà libero di preferire la versione della nonna.

- comynfoto di Alessia Mazzucato

con successo l’unione culinaria. “Era l’Artusi di Forlimpopoli... cuoco, bizzarro, caro signore e molto benefico” lo ricorda nel 1905 lo scrittore Alfredo Panzini. Nel suo La scienza della cucina e l’arte del mangiar bene Pellegrino Artusi riunì settecentonovanta ricette di piatti tipici, provenienti da ciascuna delle regioni del Bel Paese.Si tratta di un’opera universalmente rivolta a chi mangia con gusto, divertente da leggere e interessante, anche per quelli che si tengono a debita distanza da mestoli e padelle. Il successo di pubblico raggiunto lo indicò, già dai primi anni, come testo gastronomico dell’Italia Unita.

mai più raggiunta dal regista e arricchito dalla paurosa colonna sonora rock progressive dei Goblin. Il passo dal thriller all’horror è comunque ormai valicato e d a l l ’a t te n z i o n e verso la perversione della psiche si passa all’interesse per il paranormale. Dal fiabesco Suspiria (1977), con un uso delle luci ormai giunto all’apice e con il passaggio da un antagonista

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L’imperatore in Giappone è considerato una prosecuzione divina, ma vederlo sugli schermi di tutto il mondo, con la faccia contrita dal lutto, ci fa capire davvero l’infinita inferiorità umana rispetto a ciò che la natura puo’ fare, quando vuole e come vuole. Visto che siamo una fanzine musicale e il Giappone è stato il paese dove il noise è nato, cresciuto e diventato adulto (nomi d’obbligo Merzbow, Melt-Banana, Otomo Yoshihide), dedichiamo spazio ai nostri beniamini e ai loro messaggi. Ecco quello che Shinji, batterista dei Boredoms, ha affidato al sito al sito foxydigitals: «Fortunately I am OK because I am living in Osaka, but now the damage situation is gradually clarified. Please help them. Volunteer’s acceptance has not been begun yet. We want to

send relief and condolence donation directly to people and north-east Japan’s music scene in future. Please send donation or organize benefits show in your town for them». I Melt-Banana rassicurano i fans tramite il loro myspace: «Hello! MELT-BANANA here. We are all fine in Tokyo. It was really really a big earthquake, and we felt big shake here too…. Hope everything will be OK soon». Lo stesso fanno i Mono tramite la loro pagina ufficiale su Facebook: «Dear Friends, we are all safe. But it was definitely one of the most powerful, longest earthquakes ever though. Many thanks for thinking of us during this crazy time». Makoto Kawabata degli Acid Mothers Temple parla su Twitter: «I’m ok. I was in the Shinkansen express train from Tokyo to Nagoya when it was happened. though the train

was stopped for 2 hours and 40 minutes, i could arrived at the venue Tokuzo in Nagoya just before the Acid Mothers Guru Guru and SWR’s show!». Anche David Grubbs, da anni in Giappone, fa sapere di stare bene. Si muovono anche gli aiuti umanitari e tra i concerti di beneficenza spicca quello di New York con Sean Lennon, Yoko Ono, John Zorn, Sonic Youth e Mike Patton. Detto che nessun musicista a noi caro sia tra i 20.000 morti spazzati via dalle macerie e che nessuno, per ora, abbia problemi di radiazioni, il circo della musica va avanti e così quello delle tragedie umane: forza Giappone, resisti! Buona primavera a tutti.

- matmo e bobi raspati

EDITORIALEcontinua dalla prima pagina

THE WRESTLER IN GONNELLAPrendete un film a caso sulla danza e spogliatelo delle finte carinerie, della leziosità del rosa confetto, dei cuoricini e delle nuvolette, del feticismo dei tutù e delle pirouettes, delle immagini rileccate, di tutti i cliché superficiali e ipocriti: alla fine avrete (o quasi, se non altro Aronofsky ci ha provato) Il Cigno Nero, quinto film del precedentemente citato regista del quale conoscerete molto probabilmente il celeberrimo Requiem for a Dream. Nel suo ultimo lavoro le scarpette di raso si trasformano in strumenti di tortura da piegare, tagliare, levigare perchè si adattino meglio ai poveri piedi scorticati delle ballerine, che vengono in esse imprigionati durante esercizi al limite dell’umano, con come conseguenze unghie lacerate e dita purulente. Le altre ragazze della compagnia diventano rivali, sciacalle invidiose e pettegole e Thomas Leroy, il direttore-coreografo, si trasforma in uno spietato seduttore, in un’esagerazione al negativo nella quale viene immersa la figura della candida Nina, la protagonista inizialmente ingenua e pura della vicenda che uscirà contaminata più degli altri da quell’ambiente duro e ostile. Il regista ripete sul corpo di Natalie Portman l’operazione sadica già effettuata sul Mickey Rourke del suo The Wrestler, Leone d’oro a Venezia. La faccia gonfia e pestata del lottatore, i suoi muscoli pompati e gonfiati da ogni ormone e ogni sostanza alterante possibile equivalgono specularmente alla schiena graffiata di Nina, ai lembi di pelle strappati, ai piedi martoriati e gonfi. Un bel giorno alla ragazza viene affidato il ruolo di prima ballerina in una rappresentazione rivista del Lago Dei Cigni, per la quale dovrà impersonare il ruolo della sua vita, l’immacolata protagonista Odette, la quale è stata trasformata in cigno dal malvagio Rothbart, ma anche la sua gemella cattiva, la sensuale e sfrontata Odile che nella favola di Čajkovskij cerca di ingannare il principe per sostituirsi a Odette. Nina è perfetta per il ruolo del cigno bianco ma manca di accattivanza e fascino per interpretare al meglio il cigno nero, realtà che la perseguita e la imprigiona in una spasmodica ricerca della perfezione dal finale tragico. Inizia così una lenta metamorfosi del personaggio, una

contaminazione peccaminosa della donna la quale si districa in un vortice di pazzia e vizio che la sommergerà fino a controllarla. La parte di sé più nascosta, quella che ha tentato di celare per così tanto tempo e che ha finito per non riconoscere più come sua fa sentire, con prepotenza, la sua presenza e pretende la parte, il ruolo, che le compete fino a prendere il sopravvento e la ballerina “ nella morte trova la liberazione”, finalmente. L’artista deve quindi confondersi con il ruolo che gli è affidato per poterlo interpetrare al meglio, citando lo stesso Leroy “L’artista per raccontare se stesso, per essere grande, deve perdersi”. L’arte, quindi, non presuppone un’aggiunta, ma una perdita. Una perdita di sé che, dopo il dilaniamento interiore ed esteriore che c’è stato prima, si tramuta in un nulla incorporeo, dove tutto, però, sembra avere il giusto peso, il piacere puro dell’estasi dell’oblio incontaminato e assoluto. Uno stato che

presuppone, come già detto, l’annullamento di se stessi e la morte dell’artista, che il questo caso coincide con la morte del personaggio. L’impronta stilistica aronofskyana è quantomai evidente in questo suo ultimo lavoro: la solita camera all’inseguimento dei personaggi e le pulsazioni irregolari del montaggio ne sono la prova. Il procedimento di editing si è però notevolmente affinato nel corso degli anni (se confrontato con gli eccessi “videoclippari” di Pi: Il Teorema del Delirio e Requiem for a Dream) rendendo quindi il film particolare e attraente. Aronofsky è però scivolato sui dialoghi, un paio dei quali piuttosto banali. Il Cigno Nero è quindi un film che ha soddisfatto le aspettative, sorvolando quasi del tutto le ovvietà e concentrandosi in modo abbastanza approfondito sul dramma descritto, reso al meglio dalla recitazione di un’ottima Portman.

-zuma

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Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Jacopo Incani, AlessandroRuocco, Lorenzo Maffucci, Francesco Belliti.Grafica, impaginazione e web a cura di Francesco Gori.Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel marzo 2011.Per informazioni, critiche e consigli: [email protected]

AMICI CTONI ovvero di Nietzche contro WagnerRound II

“Questa volta non mi resta che pregarLa di leggere quest’opera come se non parlasse di Lei e come se non fosse mia. A vero dire non è bene parlare tra i viventi di un’opera nel modo che io ho osato, è qualcosa per gli inferi…”

Friedrich Nietzsche

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La sopra citata è una parte della lettera del 1876 scritta da Nietzsche a Wagner e sua moglie. I due si sono sempre riconosciuti come specchi incrinati di loro stessi. Hanno tutti e due perseguito lo stesso obiettivo ma con risultati diversi: uno con la musica, l’altro col silenzio. Uno con l’epos, l’altro col grugnito. Ma sta proprio qui la connessione: nell’opera della vita. L’opera totale è stata l’urgenza di entrambi. Il credere che l’artista fosse il materiale più nobile, se non addirittura l’unico, con cui creare un’opera. Ma la domanda è: e se fosse l’artista la vera opera d’arte? Wagner ha sempre sentito il bisogno di stregare, di ipnotizzare, di ghermire adepti e discepoli. Con la sua musica grandiosa sapeva dimostrare la propria essenza titanica. Un vero tedesco per vera musica. Ebbene sì, nobilitare l’uomo, convertire gli dei in peccatori; portare il senso di colpa, la misericordia, la concezione del bene. Ecco come si traspone in un’opera l’artista. Poi c’è chi non ha trasposto niente, proprio perché ha trasposto tutto e il suo contrario fino ad arrivare a deflagrare ogni cosa lasciando il nocciolo candido e silenzioso al riparo e ben nascosto, cosicché nessuno potesse vederlo, toccarlo, violarlo. Nel silenzio si coltiva il segreto, nel silenzio si lascia germogliare la verità.

Ma la verità dovrà pur essere manifesta se ne si è così convinti del suo esistere. Magari è solo un dogma, una fede… No, qui qualcuno ha visto coi propri occhi, qui qualcuno ha saputo, ha guardato la verità e ne è rimasto accecato. La più grande verità di tutte, che si presentifica in maniera lampante è la menzogna. Ecco la verità: la menzogna. Non esiste niente di più vero di ciò che si presenta e che inganna. Basta saper vedere qual è il volto di quella maschera. Capire che prima di esserci un viso dietro, vi è l’ipocrita davanti. Il velo di Maya doveva essere tolto. Già, ma quel velo non era meno vero di quello che vi stava dietro.

Quello che si palesa lascia la speranza che l’assenza sia ancor più profonda e più vera. E invece per Nietzsche non è andata così: oltre le sue pagine vi era il silenzio, oltre l’inchiostro vi era la pagina vuota, oltre la contraddizione il teorema, oltre la menzogna la verità. Nietzsche era vero, ma non si era mai visto come tale. Visto come menzognero, leone, distruttore, p r o v o c a t o r e , reazionario. Per vedersi vero doveva scegliere la cosa più vera che potesse fare: il silenzio Il mondo sotterraneo del segreto portato nel palmo di mano in superficie. L’Ade più luminoso che si

fosse mai visto.Se solo gli inferi possono parlare dell’opera, allora i viventi non possono farlo. Ma Nietzsche l’aveva vista la sua opera. Non poteva farci comunque niente: era un vivente. Poteva solo stare zitto. Lui era la sua opera, e non poteva parlare di sé. Già, è peccato glorificarsi. Si pecca di hybris, di bramosia e tracotanza nei confronti degli dei. L’uomo come Prometeo. Sconta il peccato di aver visto, e se ne sta appeso in compagnia della propria assenza. Dieci ultimi anni di vita passati in silenzio a grugnire lasciando il ricordo di sé. Lasciandolo a chi? A se stesso per poi dimenticarlo. Non vi è forma di memoria più grande dell’oblio, così come non vi è più grande verità della menzogna….. Ah no, invece esiste. Scusate.

Quella Nietzsche l’aveva trovata…

- gorot

Richard Wagner