Post on 24-May-2020
Ordine Avvocati Venezia FONDAZIONE FELICIANO
BENVENUTI
CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI”
UNIONE DELLE CAMERE PENALI DEL VENETO
SEMINARIO
LUCI ED OMBRE DELLA “RIFORMA ORLANDO”
(L. 23 giugno 2017, n. 103)
Presidenza Avv. Annamaria Marin
Presidente Camera Penale Veneziana
Introduzione Avv. Alessandro Rampinelli
Commissione Cultura
Relazioni Prof. Avv. Paolo Ferrua
già Professore Ordinario di Diritto Processuale Penale nell’Università di Torino Avvocato nel Foro di Torino
Avv. Alessandro Gamberini Avvocato nel Foro di Bologna
Docente di Diritto Penale nella Scuola Superiore di Studi Giuridici dell’Università di Bologna
Pres. Dott. Luca Marini Presidente di Sezione Penale nel Tribunale di Ferrara
Dibattito e repliche
venerdì 27 ottobre 2017 ore 15.00 – 19.00 Centro Cardinal G. Urbani
Via Visinoni n. 4/c – Zelarino (Venezia)
3 crediti formativi
Per iscrizioni, procedere attraverso il portale web: www.ffbve.it
Segreteria Organizzativa Camera Penale Veneziana S. Croce 430 Venezia
tel. 041.5209155 fax 041.5203106 e-mail segreteria@camerapenaleveneziana.it
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CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI”
Unione delle Camere Penali del Veneto
Seminario
LUCI ED OMBRE DELLA “RIFORMA ORLANDO”
(L.23 giugno 2017, n.103)
Venerdì 27 ottobre 2017
PRESENTAZIONE DEL PRESIDENTE AVV. ANNAMARIA
MARIN
Buon pomeriggio a tutti.
Devo dire subito che io mi aspetto moltissimo da questi Relatori, perché
quando ho visto la rosa di nomi che Alessandro Rampinelli e la
Commissione Studio ci hanno proposto, ho detto: “Che bello!”. Sarà un
bellissimo pomeriggio stare ad ascoltare tre Relatori che abbiamo già avuto
il piacere in tante occasioni di apprezzare per la loro capacità di entrare a
fondo sui temi che di volta in volta gli abbiamo proposto di esaminare e
che ci hanno aiutato ad affrontare collettivamente.
Va un ringraziamento particolare per la disponibilità a presenziare a un
nostro seminario, che ho definito bellissimo ancora prima di sentire le loro
relazioni proprio per la qualità dei nostri Relatori. Ringrazio Alessandro
Rampinelli, che è l’anima di questo pomeriggio, con alle spalle la squadra
della Commissione Studio della Camera Penale Veneziana.
L’introduzione del tema sarà fatta da Alessandro Rampinelli. Faccio solo
una velocissima considerazione iniziale. Tutti i colleghi sanno che le
Camere Penali sono state impegnate in un braccio di ferro con la Riforma
Orlando, in particolare con un’astensione che ha avuto caratteristiche
importanti come non è accaduto in altre occasioni, in particolare per taluni
aspetti della riforma quali, ad esempio, la famigerata partecipazione a
distanza dell’imputato al proprio processo. L’articolato della Riforma
Orlando è molto più ampio, “Luci e ombre” è un titolo che coglie nel
segno, perché ci sono anche delle novità positive, ci sono poi i decreti
delegati per l’attuazione di quelle parti mancanti della riforma che
dovrebbero dare un quadro organico più complessivo al nostro processo
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penale. Guardiamo con ottimismo alla nostra capacità di essere presenti
nelle varie fasi del processo, governando i nuovi strumenti che la Riforma
Orlando ci ha dato.
Grazie veramente di cuore ai Relatori, ai quali ho chiesto di intervenire
oggi due volte, contenendo, se possibile, la propria relazione iniziale, per
poi avere noi la gioia di sentirli intervenire sugli interventi degli altri
Relatori in quel dibattito che sicuramente le loro parole susciterà e che
sicuramente il tema della Riforma Orlando di per sé scaturisce.
Do quindi la parola ad Alessandro Rampinelli.
RELAZIONE INTRODUTTIVA DELL’AVV. ALESSANDRO
RAMPINELLI
Buon pomeriggio a tutti.
Siccome le leggi sono destinate ad essere applicate ai cittadini e non sono
solo un affare di magistrati, avvocati e professori universitari, io credo che,
se chiedeste a qualche passante di dirvi di cosa tratti la cosiddetta Riforma
Orlando, vi risponderebbe senza esitazione “La prescrizione e le
intercettazioni”, perché di questo e di quasi nient’altro si è parlato nei
mass-media e nel corso del dibattito politico intorno a questa riforma.
Quello che la “riforma Orlando” ha partorito in tema di prescrizione lo
spiegherà - credo - soprattutto l’Avvocato Gamberini; secondo me, ha
partorito una sorta di aborto, che servirà a poco o nulla.
Quanto alle intercettazioni, nelle legge c’è solo qualche norma
programmatica, perché ci si limita a prevedere dei criteri direttivi per una
futura delega legislativa.
In realtà, la Riforma Orlando ha toccato moltissimi istituti della procedura
penale, oltre che alcuni del diritto penale sostanziale.
Di fronte a un contenuto così variegato c’è sempre da parte del tecnico la
tendenza a verificare se esista una sorta di filo rosso che possa in qualche
modo unire, dal punto di vista logico-sistematico, queste novelle
legislative; o comunque la tendenza a cercare di far emergere una direttiva
di fondo.
Probabilmente sono istituti così variegati, così diversi tra loro, che
diventerebbe una perdita di tempo cercare questo filo rosso.
Forse qualche direttiva generale, però, si può scoprire.
Alcune di quest direttive di fondo sembrano oscillano tra garantismo - non
troppo marcato e qualche volta solo apparente - ed esigenze che qualcuno
ha detto di efficienza del processo, ma che, secondo me, sembrano più di
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efficienza della “macchina giustizia”, che è una cosa diversa dal processo
penale.
Una prima direttiva di fondo credo che possa essere colta nel tentativo di
sgravare la Corte di Cassazione almeno di una parte del suo lavoro.
Il primo esempio è, senza dubbio, fornito dalla riforma della disciplina
dell’archiviazione. Oggi non si può più presentare ricorso per cassazione
contro il provvedimento di archiviazione, che sia esso decreto od
ordinanza. E’ stato previsto, invece, un inedito reclamo al Tribunale in
composizione monocratica; dico inedito perché “reclamo” è espressione
che appartiene alla procedura civile e che non si era mai visto nel Codice
di Procedura Penale.
C’è da chiedersi innanzitutto se - e sembra di sì - questo reclamo sia
un’impugnazione; non è una domanda soltanto dogmatica, perché
rispondere affermativamente significherebbe che ad essa devono essere
applicati tutti i principi e le disposizioni in materia di impugnazione,
compresa, in astratto, quella nuova norma della forma dell’impugnazione
prevista dall’art. 581, pensata, come vedremo, soprattutto per appello, ma
in realtà dettata in generale per le impugnazioni.
Poi, c’è da chiedersi come funzioni questo reclamo - io voglio solo gettare
sul tappeto determinate questioni, non voglio fare di più - che sembra
essere un’impugnazione che introduce una sorta di giudizio solo
rescindente: se il giudice monocratico non conferma il provvedimento di
archiviazione o non lo dichiara inammissibile, la nuova norma dice che egli
annulla il provvedimento oggetto di reclamo e ordina la restituzione degli
atti al Giudice che ha emesso il provvedimento. Sembra quasi un
annullamento con rinvio, come quello che avrebbe potuto fare un giudice di
legittimità, ma questo è un giudice di merito.
Si tratta di capire quali siano allora i confini di questo potere di
annullamento, dovremmo ricavarli da una norma credo scritta malissimo,
come il nuovo art. 410 bis del codice di procedura penale, che sembra
scritto da un bambino.
Affiorano allora interrogativi non semplici: ad esempio, poniamo che il
giudice per le indagini preliminari abbia pretermesso totalmente di
considerare un’opposizione della persona offesa: evidentemente c’è la
violazione dell’art. 410 bis; dovrà in questo caso il tribunale in
composizione monocratica limitarsi ad accertarlo e annullare con rinvio?
Oppure potrà comunque prendere in considerazione l’opposizione, se la
considerasse immediatamente ed evidentemente inammissibile?
Ed ancora, poniamo invece che il provvedimento di archiviazione si sia
diffuso sull’inammissibilità dell’opposizione, rilevando, ad esempio, che
non c’erano i requisiti di pertinenza e di rilevanza degli elementi di prova
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addotti dalla persona offesa a sostegno dell’opposizione. E poniamo che il
tribunale monocratico, invece, reputando ammissibile in astratto
l’opposizione in quanto ritiene che sussistano questi requisiti, annulli il
provvedimento di archiviazione: così facendo emette una valutazione che
vincola il GIP al quale vengono restituiti gli atti?
Più di qualche dubbio, quindi, nasce da questa norma.
Ancora: in Cassazione non si poteva discutere sulla valutazione di
infondatezza della notizia di reato emessa dal GIP in sede di archiviazione
e pare che oggi non ne possa discutere neppure davanti al Tribunale in
composizione monocratica investito del reclamo. Qualcuno ha detto che è
stata un’occasione mancata aver devoluto a un giudice di merito questo
reclamo e non avergli poi consentito, almeno espressamente, di effettuare
una valutazione tipica della giurisdizione di merito quale quella circa la
fondatezza o meno della notizia di reato.
Un altro sintomo di questo tentativo di sgravare la Cassazione del proprio
lavoro è il nuovo, chiamiamolo, divieto di autoricorso: l’imputato o
l’indagato non possono più sottoscrivere e presentare personalmente il
ricorso per cassazione.
E’ la norma che a me ha fatto più arrabbiare e dannare.
Abbiamo un sistema in cui il protagonista, proprio a livello normativo, è
l’imputato o l’indagato; tutti i diritti, le facoltà, le garanzie, sono
innanzitutto date all’imputato e poi estese all’indagato. Si dice anche che il
difensore esercita queste facoltà e questi diritti in quanto attribuiti
all’imputato, a meno che a quest’ultimo non siano riservati personalmente.
Coerentemente, tutte le impugnazioni possono essere presentate
dall’imputato in quanto tale, e tuttavia si è giustificata adesso questa
limitazione dicendo che la Cassazione è stufa - questo è stato detto - di
dover dichiarare inammissibili i ricorsi che sono sottoscritti personalmente
dall’imputato, ma che in realtà sono scritti dal difensore di fiducia o
d’ufficio che non è ancora cassazionista e che quindi, si è detto, non è in
grado di scrivere bene i ricorsi e fa lavorare inutilmente la Cassazione.
Questo potrà essere un argomento.
Io vorrei non percorrere i profili più strettamente dogmatici, che lascio ai
Relatori, ma soltanto richiamare la vostra attenzione su quel che ha detto la
prima sentenza della Cassazione sul tema, dato che proprio qualche giorno
dopo l’entrata in vigore della nuova norma la Cassazione è intervenuta
perché ne ha avuto la possibilità, che è stata offerta da un ricorso
sottoscritto da un inquisito in materia di mandato d’arresto europeo, il
quale, rendendosi conto di presentare, in quanto sottoscritto personalmente,
un ricorso incompatibile con la nuova norma, ha sollevato subito il
problema di legittimità costituzionale, invocando come parametri il settimo
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comma dell’art. 111 e l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo.
Questi profili li lascio a chi li sa meglio di me, io vorrei solo richiamare la
vostra attenzione su un finale farisaico della sentenza della Cassazione.
All’inizio della motivazione la Cassazione spiega che c’era il problema di
sgravare la Cassazione dei ricorsi inammissibili e dice che questa è una
considerazione di fatto.
E’ vero, non c’è dubbio che la ratio della nuova norma si fonda su una
considerazione empirica ed è altrettanto vero che ci sono molti ricorsi
scritti da avvocati che non sono cassazionisti e fatti firmare dall’assistito.
Alla fine della sentenza la Cassazione, però, prende in esame una possibile
obiezione e cioè quella del povero imputato che ha il difensore d’ufficio
che non è cassazionista: che può fare questo povero diavolo?
Ebbene, dice la Cassazione che questa è un’osservazione in punto di fatto e
che, quindi, essa non può rilevare ai fini dell’esplorazione giuridica della
questione; ma dice anche la Cassazione: “Tutto sommato non lamentatevi,
perché abbiamo già trovato noi il rimedio; un anno fa con una sentenza
delle Sezioni Unite ‘Taysir’ abbiamo detto che il difensore che sia un
avvocato non cassazionista può nominare come sostituto processuale per la
sottoscrizione del ricorso un cassazionista: ecco il rimedio”.
Io dico che bisognerebbe essere più onesti con se stessi e con gli altri,
perché se il difensore d’ufficio non cassazionista si fa semplicemente
prestare la firma da un cassazionista, siamo al punto di prima, il ricorso l’ha
scritto un giovane Avvocato e l’ha solo firmato un cassazionista e il
problema rimane.
Se, invece, il cassazionista vuol fare veramente il suo mestiere, cioè
appropriarsi del ricorso, si fa dare il fascicolo, si studia le carte e redige il
ricorso, ed allora dovrà pur essere retribuito, non c’è mica nulla di male a
dirlo.
Ma torniamo così al punto di prima, perché parliamo di quel povero
diavolo del difeso d’ufficio che non aveva forse neanche i soldi per pagarsi
il difensore d’ufficio non cassazionista.
Consentitemi di dire che la nuova norma finisce per sembrare ispirata a un
criterio di censo.
Si è sgravata ancora la Cassazione, seppur solo in prima battuta, anche
dell’impugnazione contro la sentenza di non luogo a procedere: siamo
ritornati ai tempi ante Legge Pecorella - può darsi che non sia un male,
tornare indietro non sempre è un male.
Adesso viene riformulato l’art. 428, ricompare l’appello contro la sentenza
di non luogo a procedere, forse con un’eccezione, anche se credo che da un
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punto di vista statistico sarà pressoché irrilevante, perché già un criterio
direttivo della delega - tradotto adesso una norma della bozza del nuovo
decreto di riforma delle impugnazioni che è appena stata sfornata dal
Governo e credo stia aspettando il parere della Commissione parlamentare
- ha comunque sancito l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a
procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda
o con pena alternativa; è difficile trovare un caso di una contravvenzione
che finisca in udienza preliminare, ma questa forse è un’eccezione.
Non può più presentare ricorso per cassazione la parte civile in quanto tale.
Si è giustificata questa scelta dicendo che da questa sentenza di non luogo a
procedere, se si guarda all’art. 652, la parte civile danneggiata non riceve
alcuna limitazione e quindi non è il caso di lasciare ad essa la possibilità di
ricorrere per Cassazione”.
I sostenitori ad oltranza, tra i quali non mi annovero, dell’istituto della parte
civile nel processo penale potrebbero forse lamentare qualcosa, perchè
potrebbero dire che, nel momento in cui al danneggiato è consentito
l’esercizio dell’azione civile del processo penale, non consentirgli poi
all’interno di quel processo, in cui il danneggiato ha scelto di esercitare la
sua pretesa civilistica, l’impugnazione della sentenza di non luogo a
procedere potrebbe risultare contraddittorio.
In realtà, questo per la Corte di Cassazione è un decongestionamento solo
in prima battuta, perché poi contro la sentenza di non luogo a procedere
della Corte d’Appello si può fare ricorso per Cassazione, anche se questa
volta è stato ridotto il novero dei motivi: adesso si può andare in
Cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere emessa in sede
d’appello solo per i primi tre motivi del 606, le lettere a), b) e c), in buona
sostanza non si può più chiedere di censurare la manifesta illogicità o la
contraddittorietà della motivazione, probabilmente con una similitudine
rispetto alla nuova norma prevista per il giudizio di cognizione normale;:
esiste infatti anche un nuovo art. 608, comma 1 bis, sempre introdotto dalla
Riforma Orlando, in base al quale, se il Giudice d’appello conferma la
sentenza di proscioglimento, anche in questo caso il ricorso per cassazione
è limitato ai motivi delle prime tre lettere dell’art. 606.
Da qualcuno è stata vista una similitudine perché - si è osservato - di fronte
a una conferma di non luogo a procedere da parte della Corte d’Appello si
è di fronte, per così dire, ad una doppia conforme di non luogo a procedere.
Ancora, è stato devoluto alle Corti di Appello il rimedio della rescissione
del giudicato, che prima era attribuito alla Corte di Cassazione dal 625 ter,
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Anche questo è uno sgravio solo in prima battuta, perchè in Cassazione si
può ritornare in quanto l’istituto è stato spostato all’interno del corpus
normativo che disciplina la revisione.
Qui sarà interessante sentire cosa pensano i Relatori: forse questa è una
luce della Riforma Orlando, perché, trasportando nella disciplina della
divisione la rescissione, si è fatto poi richiamo anche a due norme in tema
di revisione, con la conseguenza che adesso si consente la possibilità di una
sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza di fronte
a una richiesta di rescissione che lamenti che l’imputato è rimasto assente
per tutta la durata del processo.
Ma accanto alla luce - è un interrogativo che pongo - c’è un’ombra, perché
sicuramente si può ora ricorrere per cassazione contro il provvedimento che
si pronuncia nel merito sulla rescissione. Però sembrerebbe che ci si sia
dimenticati di prevedere espressamente l’impugnabilità dell’ordinanza che
dichiari inammissibile l’istanza di rescissione, perché in tema di revisione
c’è una norma ad hoc che lo consente e che non è richiamata dal nuovo art.
629 bis, che estende alcune disposizioni della revisione.
E sappiamo bene che una declaratoria di inammissibilità in questa materia
non è un evento di infrequente accadimento.
Qualche altro sgravio del lavoro della Cassazione, anche se di natura
indiretta, deriva da quelle nuove norme che, pur trovando un loro specifica
ratio nei singoli istituti cui pertengono, pur sempre in ultima analisi hanno
limitato i casi di ricorribilità per cassazione.
Due li abbiamo già visti, quello del ricorso contro la sentenza di non luogo
a procedere emessa dalla Corte di Appello e quello contro la sentenza che
conferma il proscioglimento in primo grado.
Un altro è stato previsto in tema di ricorribilità per cassazione contro il
patteggiamento, perché adesso si può ricorrere solo per “motivi attinenti
all’espressione della volontà dell’imputato” - è senz’altro una mia
mancanza, ma non sono riuscito bene a capire a cosa abbiamo pensato con
questa locuzione normativa - per il “difetto di correlazione tra la richiesta e
la sentenza”, per l’“erronea qualificazione giuridica del fatto” e per
l’“illegalità della pena o della misura di sicurezza”.
Allora, riassumendo, una prima direttiva di fondo della “Riforma Orlando”
sembra essere quella di far lavorare meno la Cassazione, perché dicono che
lavori tantissimo e che perda un sacco di tempo ad occuparsi di ricorsi
inammissibili, per meglio dire di ricorsi che essa stessa ritiene
inammissibili.
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C’è poi la direttiva di fondo che potremmo definire un “laboratorio di
tentativi di codificazione del diritto vivente”.
La prima norma sintomatica di questa direttiva, norma molto importante, è
quella che, per intenderci, ha raccolto l’elaborazione giurisprudenziale già
sedimentata nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
e poi recepita nel nostro ordinamento con due sentenze delle Sezioni Unite,
le famose “Dasgupta” del 2016 e “Patarano” del 2017.
In buona sostanza, se il Pubblico Ministero appella la sentenza di
proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova
dichiarativa, la nuova norma stabilisce che “Il Giudice dispone la
rinnovazione dell’istruzione probatoria”.
Qui hanno codificato, però, il diritto vivente dicendo qualcosa di più e
qualcosa di meno di quello che aveva detto il diritto vivente.
Ad esempio, qualcuno ha detto che forse si è andati troppo in là, perché
anche recentemente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha precisato
che, anche se non si rinnova la prova prima di poter ribaltare l’esito
assolutorio del primo grado, non ci sarebbe violazione dell’art. 6 della
Convenzione se ed in quanto l’ordinamento interno assicuri comunque
adeguate garanzie contro le valutazioni della prova o le ricostruzioni dei
fatti arbitrari o irragionevoli.
Se dovessimo seguire questa precisazione della giurisprudenza della Corte
Europea, allora potremmo dire che forse, almeno nel diritto vivente del
nostro ordinamento giuridico, ci sono in qualche modo queste garanzie,
perché potrebbero essere reperite già in tutta la giurisprudenza che ha preso
l’abbrivio dalle Sezioni Unite “Andreotti”, cioè la giurisprudenza che
richiede un obbligo di motivazione rafforzata, particolarmente
approfondita, quando si tratta di ribaltare l’esito assolutorio.
Sotto un altro profilo, invece, è stato notato da alcuni commentatori che,
quando la giurisprudenza della Corte Europea e poi la nostra
giurisprudenza a Sezioni Unite hanno affermato questo principio che è
stato ora codificato, hanno fatto sempre riferimento alle prove decisive,
connotazione che mancherebbe nella nuova norma, e hanno detto che
“Decisiva non è solo la prova che appare immediatamente decisiva
nell’economia della motivazione della sentenza di primo grado, in quanto
deve ritenersi decisiva anche quella che sarebbe prospettata come tale dal
Pubblico Ministero appellante”, cioè quella prova che il Pubblico Ministero
ritiene decisiva e che invece la sentenza di primo grado, per assolvere
l’imputato, ha relegato ai confini della motivazione o magari proprio ha
trascurato.
Ma qui potremmo dire che forse le prove implicitamente decisive devono
esserci perché la Corte d’Appello le rinnovi per valutare se non si debba
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ribaltare l’esito assolutorio, perché, altrimenti, che si tratti o meno di prove
che sono decisive nell’economia della sentenza di primo grado o che siano
tali nella prospettazione del Pubblico Ministero appellante, è probabile che
la Corte debba fare una sorta di prova di resistenza, nel senso che, per
quanto il Giudice di primo grado abbia ritenuto che quella era una prova
decisiva ovvero che tale la abbia considerata il Pubblico Ministero
appellante, se la Corte di Appello la sottrae - com’è tipicamente avviene
nell’effettuazione della c.d. prova di resistenza - dal materiale probatorio e
il castello rimane su lo stesso, la conclusione è che evidentemente non si
trattava di una prova decisiva.
Si è posto un altro problema. La norma dice che la Corte d’Appello deve
disporre la rinnovazione dell’istruzione probatoria,e qualcuno ha detto:
anche se le doglianze del Pubblico Ministero appellante si appuntano su
una singola prova dichiarativa, una testimonianza, la norma sembra
imporre la rinnovazione dell’intera istruzione probatoria.
Su potrebbe replicare che è stata usata forse un’espressione un po’ troppo
amplificata, ma si dovrebbe intendere che, se devo rinnovare l’istruzione,
dovrò rinnovare la singola prova.
E’ anche vero, però, che dovrebbe esistere all’interno dell’accertamento
della responsabilità o non responsabilità un equilibrio tra prove a carico e
prove a discarico. Ora, se io mi metto a rinnovare quella prova a discarico
su cui si era fondata la sentenza di assoluzione e la rinnovo perché
evidentemente come Corte sono investita da un motivo di appello del
Pubblico Ministero che in me ha suggerito la necessità di guardare meglio,
se comincio a rompere un po’ l’equilibrio probabilmente dovrei cominciare
a riconsiderare anche l’attendibilità delle prove a carico, che evidentemente
nel nostro caso era stata negata o svalorizzata dal Giudice di primo grado.
Quindi, al di là dell’uso dell’espressione, bisognerà veramente vedere che
governo faranno le Corti d’Appello di questa nuova norma, che potrebbe
bloccare le Corti o comunque costringerle a un lavoro enorme, se si
dovesse cominciare a rimettere mano a tutta l’istruzione probatoria e
superare una volta per tutte, almeno in questi casi, la natura di controllo ex
actis che è propria dell’appello.
Un’altra annotazione: speriamo che questa riforma riesca a mettere un
punto fermo su quello che è stato un contrasto appena affiorato in
Cassazione, perché c’è una sentenza della Cassazione, che non riguarda la
nuova norma ma riguarda il diritto vivente codificato, che dice che tutto
questo discorso non si applicherebbe alle perizie ed agli esami dei
consulenti tecnici.
Onestamente io questa non l’ho proprio capita: pensiamo a processi come
quelli relativi alla colpa medica, dove spessissimo tutto o quasi ruota
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intorno a una perizia o a una consulenza e dove un appello contro una
sentenza assolutoria evidentemente non potrà che investire quella prova
dichiarativa.
Perché questa prova dichiarativa dovrebbe essere estraniata dal nuovo
principio?
Costituisce ancora un tentativo di codificazione del diritto vivente anche la
riforma dell’art. 581, che riguarda in generale la forma dell’impugnazione,
anche se è chiarissimo che l’occhio del Legislatore è rivolto soprattutto
all’appello.
Anche questa è una trasposizione normativa della sentenza delle Sezioni
Unite “Galtelli” del 2017, che ha richiesto anche la specificità estrinseca
dei motivi d’appello, in quanto afferma che l’appello è sì un’impugnazione
a critica libera, ma non nel senso che non ci possa essere nessuna
correlazione tra l’argomentare dell’appellante e le ragioni di fatto o in
diritto che sono state esposte nella sentenza di primo grado; deve esserci
una coerenza per cui l’appellante deve dire qualcosa che sia in connessione
funzionale e logica con quello che trova scritto nella sentenza.
Vale la pena ricordare un’ulteriore codificazione del diritto vivente attuata
dalla “Riforma Orlando”, anche si in questo caso sembra che si tratti del
frutto di una mens legislativa che non ha letto bene le sentenze o le ha lette
e non le ha capite, o forse le ha capite ed ha fatto finta di non capire, anche
se credo che questa terza ipotesi, tutto sommato la più benevola per la mens
legislativa, sia quella meno probabile.
Mi riferisco a quelle norme che in tema di giudizio abbreviato consentono
la rilevabilità solo delle nullità assolute e delle inutilizzabilità per divieti
probatori, ed a quella che preclude la proposizione in abbreviato della
questione di competenza per territorio.
Qui è una codificazione “a modo suo” del Legislatore, perché, in realtà, è
vero che, nell’ambito del giudizio abbreviato, la giurisprudenza aveva
fissato un principio per cui si potevano eccepire solo le nullità assolute e le
inutilizzabilità cosiddette patologiche, ma non è vero che aveva precluso
tout court la proponibilità della questione di incompetenza per territorio.
La sentenza delle SS. UU. “Forcelli” del 2012 aveva chiaramente definito il
regime dell’eccezione di incompetenza per territorio nel giudizio
abbreviato, distinguendo tra abbreviato tipico, ossia instaurato a seguito di
udienza preliminare, ed abbreviato atipico, ossia innestato su altri riti
speciali quali il giudizio immediato ed il procedimento per decreto.
Nel giudizio abbreviato atipico l’eccezione doveva ritenersi sempre
ammessa, mentre nel giudizio abbreviato tipico l’imputato deve sollevare la
questione in udienza preliminare in caso di rigetto, sarà legittimato a
reiterarla nel susseguente giudizio.
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La riforma Orlando, invece, esclude la proponibilità dell’eccezione di
incompetenza per territorio nel giudizio abbreviato tipico, segnando così un
passo indietro rispetto alla sentenza Forcelli.
Nel giudizio abbreviato atipico, invece, adotta soluzioni diversificate, non
si sa quanto consapevolmente.
In caso di abbreviato che si innesta sull’immediato richiesto dal PM,
l’imputato può proporre l’eccezione, ma deve farlo nella stessa richiesta di
abbreviato: qui la sentenza Forcelli è stata codificata.
Nel caso, invece, di abbreviato richiesto a seguito di decreto penale di
condanna, il richiamo secco operato nel 464, co. 1 al 438, co.6-bis sembra
precludere tout court all’imputato di eccepire l’incompetenza per territorio,
non essendo previsto che possa farlo neppure in sede di opposizione.
Se non si possono, come sembra che non si possano scorgere differenze
sostanziali tra le due ipotesi di abbreviato atipico, la diversità di disciplina
adottata nel caos del decreto penale di condanna sembra sollevare dubbi di
legittimità costituzionale.oponibilità della questione di “incompetenza per
territorio”.
Le Sezioni Unite “Forcelli” del 2012 avevano spiegato che nel giudizio
abbreviato tipico, quello a seguito dell’udienza preliminare per intenderci,
si deve proporre la questione di incompetenza per territorio al giudice
dell’udienza preliminare per poi, in caso di rigetto, evidentemente poterla
riproporre nel giudizio abbreviato successivamente incardinato.
La medesima sentenza, poi, aveva spiegato che nel giudizio abbreviato
atipico, quello che si innesta su altri riti speciali, la proponibilità della
questione era sempre consentita.
Il Legislatore, invece, ora dice che nei giudizi abbreviato tipico non si può
più sollevare la questione di incompetenza per territorio.
Invece, nei giudizi abbreviati atipici si può proporre l’eccezione, ma
bisogna farlo nella richiesta di giudizio abbreviato quando l’abbreviato si
innesta sul giudizio immediato richiesto dal P.M.; se, tuttavia, il giudizio
abbreviato si innesta nel procedimento di opposizione al decreto penale di
condanna, c’è un richiamo secco alla norma che preclude in termini
generali la proponibilità della questione di incompetenza per territorio.
Anche qua Dio solo sa perché l’eccezione non si potrebbe proporre
nell’opposizione al decreto penale di condanna.
Un’altra brevissima notazione sulle norme che stiamo esaminando.
E’ vero che era stata ammessa dalla giurisprudenza la rilevabilità delle
inutilizzabilità patologiche, ma, se non vado errato, il discorso della
giurisprudenza era più articolato, perché prevedeva due sottocategorie di
inutilizzabilità patologiche: quella per violazione di divieto probatorio e
quella delle cosiddette “prove incostituzionali”, cioè per la violazione di un
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diritto della persona costituzionalmente tutelato indipendentemente dal
fatto che nella legge processuale si trovi, esplicito o implicito, un divieto di
impiego a fini di prova dell’atto.
Dopodiché, però, la giurisprudenza aveva cominciato a erodere la categoria
dell’inutilizzabilità per divieti probatori, nel senso che quasi più niente
rilevava come inutilizzabilità per divieto probatorio e diventavano
eccepibili solo l’inutilizzabilità per violazione dei diritti costituzionalmente
tutelati.
Guarda caso, di quest’ultime, però, nella nuova norma non si parla, perché
essa si riferisce solo a inutilizzabilità patologiche per violazione di un
divieto probatorio, cioè a quella categoria che è già svuotata dalla
giurisprudenza della Cassazione.
Viene da dire che in questo caso è stato codificato un aborto.
Concludo ricordando le parole dette dal Prof. Ferrua qualche mese fa in
quest’aula, quando ci ha fatto l’onore di partecipare come Relatore al
convegno sulla preclusione processuale.
Mi ricordo bene che lei, Professore, disse: “Io sono stufo del diritto vivente
“che diverge dal diritto vivente”.
Adesso lei non deve più essere stufo, perché oggi è la giurisprudenza che
crea le norme ed il Legislatore le applica, non viceversa.
Ma siccome il Legislatore ha un unico modo di applicare le norme, cioè
scriverle, non c’è più divergenza tra diritto vivente e diritto vigente: quello
che la giurisprudenza dice, il Parlamento lo scrive.
Cioè - ed anche questa volta prendo a prestito una felice espressione del
Prof. Ferrua - il Legislatore fa il maggiordomo della giurisprudenza.
Grazie per la pazienza.
AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE
L’Avvocato Rampinelli ci ha abituato a un’introduzione che contiene
sempre numerosissime questioni e sollecitazioni agli interventi dei Relatori.
Nel pomeriggio di oggi il primo a intervenire sarà il Prof. Paolo Ferrua,
amico della Camera Penale Veneziana. Ci piace ascoltarlo, leggerlo,
sentiamo cosa ha da dirci su questo argomento. Grazie ancora per essere di
nuovo presente tra noi.
RELAZIONE DEL PROF. AVV. PAOLO FERRUA (I^ PARTE)
1. Grazie a voi per l’invito.
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Esprimendo un’opinione del tutto personale, credo che nella serie delle
ormai numerosissime leggi, che hanno variamente inciso sul codice di rito,
la riforma Orlando tocchi il punto di massima decadenza. Dico questo sia
dal punto di vista del metodo, sia dal punto di vista dei contenuti. Parlerò
prima dei contenuti, per soffermarmi poi sul metodo.
Non saprei dire se il peggio stia nel metodo o nei contenuti, ma so invece
quale sia la parte migliore; e, paradossalmente, questa sta – mi si perdoni la
frase sibillina che chiarirò in seguito – proprio dove si è ritenuto di tacere
in ordine ad alcune questioni che in teoria avrebbero dovuto essere
affrontate.
2. Iniziando dai contenuti, la prima disposizione che mi porta ad esprimere
l’auspicio di un’interpretazione creativa da parte della giurisprudenza –
cosa singolare per chi come me è decisamente critico verso questo genere
di interpretazioni - è l’art. quella sul dibattimento a distanza. In questa
materia due sono le innovazioni più significative. In base alla prima, la
partecipazione al dibattimento a distanza viene resa obbligatoria per
l’imputato detenuto per uno dei reati indicati nell’art. 51, comma 3 bis e
nell’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p., anche nei processi relativi a
reati per i quali sia in libertà (art. 146 bis, comma 1, c.p.p.). Scelta
eccepibile per il suo automatismo, slegato da qualsiasi verifica sulle gravi
ragioni di sicurezza o di ordine pubblico che ipoteticamente potrebbero
entrare in bilanciamento con l’inviolabile diritto di difesa, nel quale è
incluso anche il diritto dell’imputato a presenziare fisicamente all’udienza.
La nuova disciplina muove evidentemente dal presupposto, di dubbia
legittimità costituzionale, che, a comprimere quel diritto, sia sufficiente
anche il semplice risparmio dei costi connessi alla traduzione da una sede
all’altra (il c.d. turismo giudiziario).
Va ancora peggio con il successivo comma 1-quater del medesimo art. 146
bis c.p.p.: «Fuori dei casi previsti dai commi 1 e 1 bis, il giudice può
disporre con decreto motivato la partecipazione a distanza anche quando
sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare
complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero
quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in
stato di detenzione presso un istituto penitenziario». Dunque, sulla base di
parametri vaghi e sfuggenti, come le ragioni di sicurezza e le esigenze di
celerità processuale, la partecipazione a distanza potrà essere disposta per
qualsiasi reato anche quando l’imputato sia a piede libero.
Si stenta a credere che ad un imputato con piena libertà di circolazione
possa essere vietato l’ingresso nell’aula dove si svolge il suo processo; che
gli sia consentito di recarsi ovunque, ma non nel luogo dove si discute della
sua colpevolezza e della pena che può essere inflitta. Immagino il dialogo:
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“- Scusi, posso entrare?
- No, tu no!
- Ma perché? È il mio processo e sono in stato di libertà …
- Vi sono ragioni di sicurezza e non possiamo perdere tempo: leggiti l’art.
146-bis comma 1-quater c.p.p.
- Ma il ‘giusto processo’ di cui parla la Costituzione?
- Appunto, stai ad una giusta distanza e collegati in via telematica.
Altrimenti vai a teatro, a cinema, ma qui no!”
Il conflitto con le garanzie costituzionali è così palese che verosimilmente
la disposizione non sarà mai applicata nei riguardi di imputati a piede
libero; ma è sconvolgente che si sia potuto concepirla, negando, per la
prima volta che io sappia, ad un imputato a piede libero di partecipare al
proprio processo.
3. Il nuovo testo dell’art. 438, relativo al giudizio abbreviato, esordisce con
un’iperbole: «La richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza
preliminare determina la sanatoria delle nullità, sempre che non siano
assolute, e la non rilevabilità delle inutilizzabilità salvo quelle derivanti
dalla violazione di un divieto probatorio. Essa preclude altresì ogni
questione sulla competenza». Benché la ‘sanatoria’ e la ‘non rilevabilità’
ivi previste siano direttamente collegate alla richiesta di giudizio
abbreviato, è evidente che l’effetto si realizza solo in quanto la richiesta sia
accolta, ossia disposto l’abbreviato. Sarebbe derisoria la sanatoria delle
nullità o delle inutilizzabilità per il fatto stesso della richiesta di abbreviato,
indipendentemente dal suo esito.
Ma, prescindendo da questa improprietà, la clausola relativa alla sanatoria
delle “inutilizzabilità” apre un netto divario tra ciò che presumibilmente si
intendeva dire e ciò che in realtà si è detto. Gli artefici della disposizione
intendevano, con ogni probabilità, riproporre la nota distinzione tra
inutilizzabilità ‘fisiologiche’, ossia connesse all’irrilevanza probatoria degli
atti compiuti nell’indagine preliminare in assenza di contraddittorio, e le
inutilizzabilità ‘patologiche’, derivanti dalla violazione delle regole
previste per la valida assunzione delle prove. Le prime non rilevabili,
avendo l’imputato stesso con la richiesta di abbreviato rinunciato al
contraddittorio nella formazione della prova. Le seconde, invece, rilevabili
in ogni stato e grado del processo, in coerenza con l’esclusione della
sanatoria per le nullità assolute. Supponendo che tale fosse l’intenzione,
sarebbe stato preferibile tacere, essendo del tutto ovvio che le
inutilizzabilità degli atti di indagine attiene alla fase del dibattimento e non
del giudizio abbreviato, che si svolge allo stato degli atti
Sennonché la nuova legge parla di inutilizzabilità «derivanti dalla
violazione di un divieto probatorio», e la relativa categoria è ben più
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ristretta rispetto a quella della inutilizzabilità ‘patologica’. Infatti, mentre
quest’ultima, purché espressamente prevista, deriva da qualsiasi violazione
delle regole probatorie, i divieti probatori, correttamente intesi, riguardano
solo le regole di esclusione, ossia le regole che negano l’ingresso nel
processo a prove ritenute inammissibili; prove che il giudice non ha il
potere di assumere e, come tali, destinate a restare giuridicamente
irrilevanti, tamquam non essent.
In presenza di divieti probatori l’inutilizzabilità è in re ipsa, nel senso che
quand’anche non fosse espressamente comminata, sarebbe comunque
conseguente all’acquisizione della prova inammissibile, essendo il giudice
privo del potere di assumerla (l’assenza del potere determina l’inesistenza
giuridica dell’atto eventualmente compiuto).
Diverso è il caso delle regole che disciplinano le modalità di assunzione
della prova. Queste non costituiscono divieti probatori in senso proprio,
neppure quando la loro violazione sia espressamente sanzionata da
inutilizzabilità o da nullità (in assenza delle quali tali regole sarebbero leges
minus quam perfectae, la cui violazione è fonte di semplice irregolarità,
restando tuttavia l’atto pienamente valido). Né si potrebbe replicare che il
divieto probatorio sia deducibile, per così dire a contrario, dalla regola che
positivamente prescrive certi adempimenti; se così fosse, ogni regola in
materia probatoria, anche la più insignificante, sarebbe convertibile in
divieto probatorio, tramite la sua formulazione negativa, con la
conseguenza di rendere superflua ogni previsione di nullità o
inutilizzabilità.
Ora, essendo dalla nuova legge dichiarate non rilevabili le inutilizzabilità,
salvo quelle derivanti da divieto probatorio, in base al dato testuale la
richiesta di giudizio abbreviato sortisce l’effetto di sanare tutte le
inutilizzabilità relative alle modalità di assunzione di prove, in sé
ammissibili perché non oggetto di un divieto probatorio. Ad esempio, in
materia di intercettazioni, sarebbe sempre rilevabile l’inutilizzabilità di
un’intercettazione disposta per reati che non la consentono e, come tale,
inammissibile ai sensi dell’art. 266 c.p.p. (Limiti di ammissibilità); non
sarebbe, invece, rilevabile l’inutilizzabilità derivante dalla violazione delle
regole contemplate negli artt. 267 (Presupposti e forme del provvedimento)
e 268, commi 1 e 3, c.p.p. (Esecuzione delle operazioni). Esito palesemente
irrazionale rispetto all’esplicita esclusione di qualsiasi sanatoria per le
nullità assolute.
Può darsi - ed è in qualche modo auspicabile - che la giurisprudenza, sulla
base di un argomento a fortiori, rimedi alla contraddizione, estendendo il
concetto di divieto probatorio sino ad includervi ogni violazione di regola
sanzionata da inutilizzabilità, portandolo così a coincidere con l’intera
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inutilizzabilità patologica; soluzione alternativa a quella più complessa e
laboriosa della questione di legittimità costituzionale per palese contrasto
con il principio di ragionevolezza. Resta, tuttavia, deplorevole la grave
disfunzione di linguaggio del legislatore, incapace di esprimere
correttamente le sue scelte, anche quando queste risultano, almeno nelle
intenzioni, condivisibili.
4. Poche parole sulle modifiche introdotte agli artt. 407 e 412 c.p.p. in tema
di durata massima delle indagini preliminari e di avocazione da parte della
Procura generale presso la Corte d’Appello. Come noto, sin dall’entrata in
vigore del codice 1988 Franco Cordero ha sostenuto che l’intera disciplina
dei termini per le indagini preliminari sarebbe del tutto estranea alla logica
di un processo accusatorio, riflettendo, invece, un garantismo formalistico,
tipico del sistema inquisitorio; tesi senza dubbio coerente con un ideale
processo accusatorio, caratterizzato da indagini prive di rilevanza
probatoria e da un rapido passaggio al dibattimento. Tuttavia, considerato
che nel sistema vigente l’indagine, appesantita da notevoli formalismi, può
spesso protrarsi a lungo e ad assumere valore probatorio a vari effetti
(procedimenti speciali, misure cautelari e, entro certi limiti, dibattimento),
la scelta di fissare dei termini di durata massima appare in qualche modo
giustificata.
La logica, tuttavia, vorrebbe che entro quei termini non solo le indagini
fossero concluse, ma altresì assunte le determinazioni del pubblico
ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di
archiviazione. Viceversa, nella nuova disciplina, dalla scadenza del termine
di durata massima delle indagini e, comunque, dalla scadenza dei termini di
cui all’art. 415 bis c.p.p. decorrono nuovi termini per le scelte del pubblico
ministero; il mancato esercizio di quelle scelte determina l’avocazione delle
indagini da parte del Procuratore generale presso la Corte d’Appello, a
seguito della quale, a loro volta, decorrono altri termini per le richieste.
Il comma 3 bis dell’art. 407 c.p.p. stabilisce, infatti, che «il pubblico
ministero è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione
entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata
delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415-
bis»; termine che su richiesta del pubblico ministero procedente può essere
prorogato per non più di tre mesi dal procuratore generale presso la corte di
appello nel caso di notizie di reato che rendano particolarmente complesse
le investigazioni. Per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), n. 1), 3) e
4) il termine sale a quindici mesi, mentre nulla è detto in ordine alla
possibilità di una sua proroga. Ove il pubblico ministero non eserciti
l’azione penale o non richieda l’archiviazione entro i termini previsti, il
procuratore generale presso la Corte d’Appello «dispone con decreto
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motivato l’avocazione delle indagini preliminari»; a seguito della quale
«svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste
entro trenta giorni dal decreto di avocazione».
Ora che, ad indagini ormai concluse, debbano esser concessi termini così
ampi al solo fine di meditare sull’alternativa tra esercizio dell’azione
penale o richiesta di archiviazione appare davvero incongruo e poco
compatibile con l’obbligo della legge di assicurare la durata ragionevole
del processo. L’esperienza insegna che i termini massimi concessi per
svolgere determinati adempimenti finiscono quasi sempre per divenire
anche i termini minimi, essendo naturale la tendenza a sfruttarli per intero,
sino all’ultimo momento utile.
Non è chiaro, inoltre, se nel loro decorso sia o no concesso al pubblico
ministero di svolgere ancora indagini. Stando al dato testuale si direbbe di
no, essendo ormai esauriti i relativi termini; e, nondimeno, appare singolare
che il pubblico ministero debba restare inerte a fronte di qualsiasi esigenza
investigativa, influente sulle scelte per l’esercizio o no dell’azione penale
(dal sequestro di cose pertinenti al reato all’ascolto di persone informate dei
fatti).
Resta da stabilire se questa sequenza di termini, la cui scadenza genera
nuovi termini con un meccanismo di ritorno quasi ossessivo, riesca davvero
ad adempiere una funzione acceleratoria della fase delle indagini
preliminari; o se, per la menzionata tendenza dei tempi massimi a
stabilizzarsi come minimi, non finisca addirittura per decelerare quello che
sarebbe il normale decorso del procedimento in assenza di ogni termine.
5. Qualche rilievo sulla specificità dei motivi di impugnazione. Come noto,
con sentenza 27 ottobre 2016, n. 8825 le Sezioni Unite hanno affermato
che «l’appello al pari del ricorso per cassazione è inammissibile per difetto
di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e
argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a
fondamento della sentenza impugnata». Una decisione per certi versi
‘creativa’ nella parte in cui vincola la parte ad indicare nei motivi di
appello, a pena di inammissibilità, «le proposizioni argomentative
sottoposte a censura», enucleandole dalla sentenza impugnata: alla diade
contemplata dal codice vigente (motivi specifici, indicazione dei punti della
sentenza impugnata: art. 581 c.p.p.), subentra in via giurisprudenziale una
triade, perché si aggiunge l’obbligo di individuare le singole
argomentazioni da sottoporre a critica.
La riforma Orlando si propone di ratificare quest’indirizzo, agendo su due
fronti: i requisiti della sentenza e la forma dell’impugnazione. Il contenuto
della sentenza viene più analiticamente articolato dalla lettera e) dell’art.
546 c.p.p. con l’esplicita imposizione di obblighi motivazionali in rapporto:
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(a) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono
all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica, (b) alla punibilità e alla
determinazione della pena ... e della misura di sicurezza, (c) alla
responsabilità civile derivante da reato, (d) all’accertamento dei fatti dai
quali dipende l’applicazione di norme processuali.
Apparentemente la ridefinizione adempie ad una funzione garantistica ma,
considerato che nella sostanza la struttura della motivazione non muta, si
comprende come la più dettagliata descrizione sia, almeno nelle intenzioni,
funzionale ad accrescere gli oneri dell’impugnante sotto il profilo della
specificità dei motivi. A quest’ultimo riguardo, infatti, l’art. 581 c.p.p.
subisce una quadruplice modifica con la quale: (a) si introduce
superfluamente una sanzione di inammissibilità già prevista dall’art. 591
c.p.p.; (b) si precisa che l’enunciazione del contenuto dell’impugnazione
deve essere «specifica»; (c) si aggiunge l’obbligo di indicare le «prove
delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o
erronea valutazione»; (d) si precisa che l’enunciazione delle richieste si
estende anche a quelle «istruttorie».
Ebbene, nonostante il palese fine di ratificare fedelmente l’indirizzo già
espresso delle Sezioni unite, non si può dire che il legislatore sia riuscito
nel suo intento. Infatti la riforma, a dispetto delle molteplici clausole volte
ad appesantire l’onere dell’impugnante, tace sull’unica condizione che
occorreva esplicitare per recepire quella giurisprudenza: ossia l’obbligo
dell’impugnante di enucleare dal contenuto della sentenza le singole
argomentazioni da sottoporre a critica. Nessun dubbio che la
giurisprudenza consoliderà il proprio orientamento nel senso indicato dalle
Sezioni unite; ma, ancora una volta, il linguaggio legislativo rivela tutta la
sua inefficienza.
L’espresso richiamo dell’art. 546 lettera e) c.p.p. all’obbligo di indicare
nella sentenza i “risultati acquisiti” e i “criteri di valutazione della prova
adottati” parrebbe finalizzato ad accrescere il contenuto della motivazione
e, quindi, le garanzie per l’imputato. Ma, considerato che tale obbligo è già
puntualmente menzionato dall’art. 192 c.p.p., si può ragionevolmente
sospettare che la funzione reale sia diversa; ossia, quella di atomizzare, di
frantumare i “punti” della sentenza, fino a farli coincidere di fatto con le
singole argomentazioni del giudice, costringendo per questa via
l’impugnazione a indicarle nei temini imposti dalla decisione della Sezioni
Unite.
Piuttosto insidiosa si rivela la disposizione secondo cui «l'impugnazione si
propone […] con l'enunciazione specifica, a pena di inammissibilità […] b)
delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o
l'omessa o erronea valutazione» (art. 581 c.p.p.). Letteralmente intesa, la
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clausola implicherebbe l’impossibilità - in caso di mancata deduzione nei
motivi di appello - di eccepire nel corso del giudizio di secondo grado che
la condanna regge su una prova giuridicamente inesistente (ad esempio,
una perizia di cui non vi sia traccia in atti); conclusione palesemente
inaccettabile davanti alla quale si è, ancora una volta, indotti ad auspicare
la sua correzione in via giurisprudenziale. Incerti appaiono, inoltre, i
rapporti tra questa disposizione e l’art. 129 c.p.p. Le cause di non
punibilità, ivi contemplate, possono essere dichiarate dal giudice, anche
d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento; ma non è chiaro se tale
potere sia esercitabile anche quando la non punibilità derivi dal
riconoscimento di un vizio che la parte, a pena di inammissibilità, avrebbe
dovuto denunciare nei motivi di impugnazione, quale «l’inesistenza,
l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione» di una prova.
6. Rinnovazione del dibattimento in appello. Anche il nuovo comma 3 bis
dell’art. 603 c.p.p. è volto a recepire la giurisprudenza, questa volta della
Corte europea dei diritti dell’uomo. Con una serie di pronunce la Corte di
Strasburgo ha censurato alcune condanne disposte in grado di appello a
seguito di una diversa valutazione sull’attendibilità della prova dichiarativa,
affermando la necessità in simili casi di una rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale, ai sensi dell’art. 6 par. 1 CEDU; e, come sempre ha
formulato le sue conclusioni, tenendo conto dell’intero svolgimento del
processo e del pregiudizio in concreto subito dall’imputato, con la
conseguenza che riesce difficile estrarre da queste decisioni massime
generali, incondizionatamente valide.
Per garantire la conformità della disciplina codicistica alla giurisprudenza
europea la riforma Orlando interviene sull’art. 603 c.p.p., aggiungendo il
nuovo comma 3-bis: «Nel caso di appello del pubblico ministero contro
una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della
prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale». L’intervento del legislatore era probabilmente opportuno,
sebbene in via interpretativa la Cassazione avesse ritenuto il testo dell’art.
603 c.p.p. conciliabile con i principi della giurisprudenza europea: nulla
vietava, infatti, di ricomprendere nella già prevista rinnovazione per
impossibilità di decidere allo stato degli atti o per assoluta necessità anche
l’ipotesi di una diversa valutazione della prova dichiarativa (art. 603,
commi 1 e 3, c.p.p.).
La nuova disciplina, tuttavia, lascia aperti alcuni interrogativi. Primo. L’art.
603 c.p.p. parla genericamente di rinnovazione del dibattimento, senza
precisare se questa debba essere totale o parziale: ma, stando alla
giurisprudenza europea, parrebbe ragionevole limitarla all’assunzione della
prova diversamente valutata. Secondo. Se il pubblico ministero nei motivi
20
di appello non ha presentato la richiesta di rinnovazione della prova
dichiarativa, l’appello dovrà ritenersi inammissibile ai sensi del nuovo testo
dell’art. 581, lett. c), c.p.p. che, a pena di inammissibilità, esige
l’enunciazione specifica delle «richieste anche istruttorie»? A stretto rigore
sì, ma la circostanza che il giudice sia autorizzato a disporre d’ufficio la
rinnovazione può favorire la risposta negativa.
Terzo. Cosa si intende per “motivi attinenti alla valutazione della prova
dichiarativa”? Sicuramente la rinnovazione si impone sia che la diversa
valutazione riguardi l’attendibilità del testimone, sia che attenga
all’interpretazione, al significato delle sue parole, ossia a ciò che ha inteso
dire, sia ancora che concerna altri elementi di contorno, ritenuti dai diversi
giudici ora in sintonia ora in opposizione con la testimonianza.
Diverso è il caso in cui il giudice d’appello, pur concordando con quello di
primo grado sull’attendibilità e sul significato da attribuire alle parole del
testimone, diverga sulle inferenze che dalla deposizione si possono trarre
rispetto ad altri fatti (sia sul fatto principale sia su fatti secondari): ad
esempio, valutando la dichiarazione di un teste che affermava che
l’imputato fosse con lui in un certo luogo tre ore prima del delitto, il
giudice assolve l’imputato, ritenendo impossibile coprire il tragitto da un
luogo all’altro in quel tempo al contrario, il giudice d’appello lo condanna,
sul presupposto che le prove d’accusa siano del tutto compatibili con la
testimonianza sull’alibi, essendo ben possibile percorrere in meno di tre
ore quella distanza. Qui la diversa valutazione non riguarda la prova
dichiarativa, ma l’inferenza di tipo critico indiziario che collega la prova
dichiarativa, ormai valutata e assunta come provata, con altri fatti da
provare: la rinnovazione non parrebbe, dunque, imposta dall’art. 603 c.p.p.;
né si vede quale vantaggio ne potrebbe derivare, data l’assenza di
divergenze tra i due giudici sull’attendibilità e sull’interpretazione delle
parole del testimone. Ovviamente resta aperta la possibilità di
rinnovazione, ai sensi dell’art. 603, commi l e 3, c.p.p., per impossibilità di
decidere allo stato degli atti o per assoluta necessità.
Quarto. Un interrogativo di carattere più generale riguarda la possibile
alternativa a questa riforma. Considerate le perplessità che suscita la
condanna disposta per la prima volta in sede d’appello, a fronte della quale
non resta che il ricorso in cassazione, i numerosi problemi applicativi che
nascono dalla rinnovazione del dibattimento e, infine, la difficoltà di trarre
precise indicazioni al riguardo dalla giurisprudenza della Corte europea,
come sempre piuttosto ondivaga, è naturale chiedersi se non sarebbe assai
più razionale prevedere l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.
Una scelta che si porrebbe in piena sintonia con l’art. 14, par. 5 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici, dove si garantisce all’imputato il
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diritto al riesame della colpevolezza contro ogni condanna; e, al tempo
stesso, non lascerebbe indifeso il pubblico ministero di fronte ad eventuali
gravi ingiustizie, a rimediare alle quali può in gran parte giovare il ricorso
per cassazione, ormai esperibile anche per il contrasto della sentenza
impugnata con gli atti del processo.
Si obietterà che la Corte costituzionale con sentenza. n. 26 del 2007 ha
dichiarato illegittima l’inappellabilità del proscioglimento già disposta dalla
legge Pecorella. Ma, in realtà, la decisione fu fortemente influenzata da
alcune scelte poco coerenti di quella legge e dal contesto, anche politico, in
cui essa si collocava; una più organica riforma potrebbe oggi superare il
vaglio di legittimità costituzionale.
7. Dicevo che il merito della riforma Orlando è stato quello di tacere dove
avrebbe dovuto legiferare. Perché dico questo? Perché ci sono almeno due
articoli del nostro codice che sicuramente meriterebbero un intervento
legislativo, in quanto non conformi alla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Il primo è l’art. 521
c.p.p., secondo cui «nella sentenza il giudice può dare al fatto una
definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione». Tutti
sanno che questa disposizione dovrebbe essere riformata, a partire dalla
sentenza della Corte europea che ha censurato il mutamento di qualifica
giuridica operato a sorpresa dalla Corte di cassazione nel caso Drassich.
Sennonché, pur essendo palese l’esigenza di una riforma dell’art. 521
c.p.p., nessuno è in grado di dire quale sarebbe il testo di legge conforme ai
principi della giurisprudenza europea. La Corte di Strasburgo, infatti, non
ha chiarito se per il rispetto della Convenzione occorra che: a) il diverso
nomen iuris sia contestato limitatamente all’ipotesi in cui abbia determinato
in concreto anche un mutamento del fatto, ferma restando la possibile
autonomia dei due profili; b) il diverso nomen iuris sia sempre contestato,
sul presupposto che ogni modifica della qualifica giuridica implichi
necessariamente un mutamento del fatto, essendo inscindibili fatto e diritto;
c) il diverso nomen iuris sia sempre contestato, anche quando resti
immutato il fatto.
Si può, dunque, comprendere e, anzi, definire saggia la scelta del
legislatore di astenersi dall’intervenire sul testo dell’art. 521 c.p.p., sino a
quando la Corte europea non definirà con sufficiente precisione a quali
condizioni sia subordinato il mutamento di qualifica giuridica.
Analogo discorso vale per l’art. 649 c.p.p. relativo al ne bis in idem. Nella
disposizione riguarda solo il rapporto tra più processi penali per il
medesimo fatto, mentre la Corte europea ha ritenuto che il ne bis in idem
operi ogni qualvolta la nuova sanzione per il medesimo fatto abbia natura
sostanzialmente penale, anche se formalmente qualificata come puramente
22
amministrativa o disciplinare. Ma i criteri indicati dalla Corte, per decifrare
il carattere penale della sanzione, restano piuttosto sfuggenti, (la
salvaguardia «di interessi generali della società, normalmente tutelati dal
diritto penale», l’effetto particolarmente afflittivo delle sanzioni previste e
il loro carattere preventivo-repressivo anziché meramente riparatorio).
Non solo. Con un brusco mutamento di prospettiva la Corte europea nella
sentenza A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016 la Corte europea ha
ritenuto inoperante il ne bis in idem quando tra i due processi vi sia un non
meglio definito rapporto di stretta connessione. Un criterio, a mio avviso,
semplicemente assurdo, perché non si vede in qual modo debba influire sul
ne bis in idem la più o meno stretta connessione tra i processi. Al punto che
Francesco Viganò, pur grande sostenitore della giurisprudenza delle due
Corti europee, si è spinto ad ipotizzare che possa avere influito sulla
decisione la maggiore arrendevolezza verso la giurisprudenza europea
mostrata dalla Norvegia; la quale, a differenza dell’Italia, non ha mai
invocato ‘controlimiti’ all’applicazione della Convenzione europea e, più in
generale, del diritto sovranazionale. Può anche darsi che sia così: ma, a
questo punto, non va neppure escluso che persino il nome dell’imputato
assuma rilevanza sull’esito della decisione.
Altrettanto incerta la nozione di ‘medesimo fatto’ nella giurisprudenza
europea. Il solo dato sicuro è che la giurisprudenza europea intende il fatto
in senso naturalistico e non giuridico, nonostante l’art. 4 Prot. n. 7 alla
CEDU parli di ‘infraction’. Al di là di questo, resta dubbio se l’identità del
fatto debba misurarsi solo alla stregua dell’azione o anche dell’evento e del
nesso di causalità. La Corte costituzionale ritiene che la medesimezza del
fatto implichi la coincidenza della triade formata da condotta, nesso causale
ed evento; ma è significativo che, per avvalorare questa prospettiva alla
luce della giurisprudenza europea, sia costretta a ricorrere ad elementi
vaghi ed evanescenti quali gli ‘indizi’ (sic) che si ricaverebbero dall’esame
delle sentenze di Strasburgo. La realtà è che il giudizio della Corte europea
è informato a criteri di equità, assai difficilmente formalizzabili in principi:
questi, seppure espressi, lo sono in una forma embrionale, provvisoria,
soggetta a successive rettifiche, ridefinizioni e, talora, capovolgimenti. Al
punto che, ad elencare i principi a base del giudizio della Corte, se ne
dovrebbe individuare uno diverso per ogni caso sottoposto al suo esame.
Potremmo definire la Corte di Strasburgo come un Re Mida con la variante
che tutto ciò che tocca diventa incerto, vago, spesso indecifrabile.
Un ultimo rilievo. La circostanza che la Corte costituzionale includa fra gli
elementi, su cui si misura l’identità del fatto, anche l’evento ha come
conseguenza la possibilità di consentire un nuovo processo nel caso della
cd progressione criminosa: mutando l’evento, sarebbe dunque possibile
23
processare per omicidio (colposo o doloso) il condannato o l’assolto per le
lesioni (colpose o dolose); e così per il reato consumato chi sia stato
giudicato per il reato tentato. È una prospettiva che lascia assai perplessi a
fronte dell’art. 649 c.p.p. dove espressamente si afferma che il fatto resta il
medesimo anche se «diversamente considerato per il titolo per il grado o
per le circostanze»: mentre con il ‘titolo’ si allude alla qualifica giuridica,
con ‘grado’ ci si riferisce al passaggio dal reato tentato a quello consumato,
il che dovrebbe essere sufficiente a ritenere operante il ne bis in idem nelle
situazioni appena menzionate.
Grazie.
AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE
Grazie al Prof. Ferrua, adesso ci ha parlato dei contenuti della Riforma
Orlando, in termini non certamente lusinghieri, poi attendiamo il suo
intervento anche sul metodo che ha caratterizzato la riforma stessa.
Adesso la parola va all’Avvocato Alessandro Gamberini, del Foro di
Bologna, docente di Diritto Penale nella Scuola Superiore di Studi
Giuridici dell’Università di Bologna, che dovrebbe introdurci nella parte
sostanziale della Riforma Orlando.
RELAZIONE DEL PROF. AVV. ALESSANDRO GAMBERINI (I^
PARTE)
Grazie dell’invito, perché mi consente di apprendere molte riflessioni dalle
due relazioni sulla parte processuale che ho testè ascoltato.
E’stato giusto che precedessero la relazione sulla parte sostanziale perché
sono passati molti anni dal momento in cui si diceva che il diritto
processuale era ancillare e strumentare a quello sostanziale, oggi è divenuto
il protagonista del diritto penale, non solo per gli evidenti risvolti che ha il
processo penale sulla libertà e sullo status delle persone, ma anche perché è
attraverso il diritto processuale che si modellano anche gli istituti di diritto
sostanziale.
Rispetto alle parti sostanziali, devo dire che il titolo “Luci ed ombre”
andrebbe completamente modificato, perché la “notte dei principi” ha
presieduto alle scelte del legislatore.
In primo luogo l’aumento delle pene.
Mi riferisco in particolare all’aumento delle sanzioni, uno strumento da
sempre considerato inefficace, sia a fini di prevenzione generale, tanto più
24
a fini di prevenzione speciale. E’ un percorso che il legislatore attua
solitamente per ragioni di legittimazione politica, legato ai fenomeni di
percezione dell'insicurezza su cui vuole intervenire, che proietta sulla
produzione di una normativa simbolica che provoca gravi guasti
all'equilibrio del tessuto ordinamentale.
Parlo in primo luogo degli inasprimenti previsti dagli artt. 5, 6, 7, 8, 9 della
legge. Oltre all'aumento sul solito delitto antimafia, che costituisce una
cifra sempre significativa di questo tipo di leggi “sicurezza” - cioè il 416 ter
“scambio elettorale politico mafioso” - si interviene infatti sui delitti contro
il patrimonio: in particolare rispetto al furto in abitazione e al furto con
strappo, norme già incise da precedenti decreti proprio rispetto al quadro
edittale della pena, con un aggravio sanzionatorio totalmente squilibrato. E’
stato fatto rilevare dai primi commentatori che il furto con strappo finisce
per avere una cornice edittale paragonabile a quella della rapina, superiore
a quello di alcuni delitti contro l’incolumità pubblica.
Si rivalorizzano le aggravanti previste dall'art.625, raddoppiando il minimo
della pena della fattispecie aggravata del furto, che, come è noto, è la
fattispecie di furto, visto che le circostanze in questione coprono pressochè
l’intera gamma delle ipotesi di furto che possano realizzarsi in concreto.
Se si aggiunge che, per alcune aggravanti, e stato previsto il divieto di
bilanciamento ai sensi dell’art.69 si ha la contezza di un legislatore che
ripropone la centralità dei delitti contro il patrimonio come oggetto di
tutela, che caratterizzava il codice Rocco prima della riforma del 1974.
Un divieto di bilanciamento particolarmente grave perché impedisce al
giudice di apprezzare il disvalore concreto del fatto rispetto al suo autore,
creando presunzioni di pericolosità più volte censurate dalla nostra Corte
Costituzionale (da ultimo si veda Corte Cost.105/2014).
Un legislatore che sconta dunque, come effetto delle sue scelte, rispetto alla
platea dei tipi di autore di questi reati, una presenza di persone detenute nei
prossimi anni ben più significativa dell’attuale.
Quello che si delinea, più in generale, è una situazione che provoca un
ulteriore slittamento del sistema del cd doppio binario dell’intervento
penale: mi riferisco alla distinzione tra fenomenologie penalistiche che
comportano carcere e fenomenologie penalistiche che comportano sanzioni
più stigmatizzanti, più ineffettive, più simboliche, confinando nel primo
corno la disciplina della criminalità organizzata, terroristica e mafiosa.
In realtà il modello penale sostanziale e anche processuale, sperimentato
per la criminalità organizzata - pensiamo sul piano processuale all’utilizzo
del del virus informatico nell’ambito delle intercettazioni ambientali - ha
finito per contagiare e per attrarre progressivamente nuovi pezzi della
legislazione ordinaria, che prima valevano a disciplinare forme di
25
criminalità o di devianza solo eventualmente plurisoggettive o comunque
non meritevoli di questa forma di appesantimento sanzionatorio. Questo è
stato ben visibile ed è ben visibile anche in questa occasione, rispetto a
materie, prima fra tutte la corruzione, divenuta una sorta di archetipo
esemplare della criminalità che va in qualche modo combattuta e assimilata
a fenomeni mafiosi (in tal senso la sua recente attrazione nelle misure di
prevenzione antimafia).
Del resto, che la riforma non abbia alcuna base nella trama dei principi
costituzionali, che delineano una gerarchia di tutela dei beni è ben visibile
anche sul versante opposto rispetto a un istituto, che pur si propone sul
versante deflattivo del processo e della pena, mi riferisco al nuovo art.162
ter.
L’estinzione del reato per condotte riparatorie.
Ne parlo in forma più analitica, perché pone molti interrogativi applicativi.
La prima osservazione generale che occorre fare è che, coniugando questo
istituto con la legge delega, che prevede l’introduzione della procedibilità a
querela per tutti i delitti puniti fino a 4 anni contro il patrimonio e contro la
persona, salve alcune eccezioni, siamo di fronte a un’area applicativa
rilevante dell’istituto.
In questo caso l’obbiettivo viene (vorrebbe essere) raggiunto a scapito del
rispetto dei principi costituzionali in materia di gerarchia dei beni: le scelte
operate sulla penalità dovrebbero percorrere un itinerario che tiene conto
del significato della tutela.
Non è pensabile che si proceda disinvoltamente alla monetizzazione, come
avviene in questo caso, del bene dell’incolumità delle persone, di fatto
sguarnendo il presidio penale nella materia.
L’istituto viene disegnato ricopiandolo letteralmente dalla prima parte
dell’art. 62, n. 6, dall’attenuante del risarcimento del danno, e insiste sul
modello già sperimentato, sopratutto in virtù dell’art. 35 della disciplina
del giudice di pace, che consente di far cessare il conflitto intervenendo in
forma compositiva e facendo venir meno l’azione penale.
L'art.163 bis è disegnato un po’ diversamente rispetto all’art. 35, perché da
un lato riproduce sul piano letterale la dizione del 62, n. 6, cioè presuppone
non solo il risarcimento, ma “l’integralità” del risarcimento; dall'altro non
detta alcun criterio regolativo della scelta del giudice, mentre l’istituto
delineato nell’ambito del Giudice di Pace prevede espressamente che la
condotta riparatoria debba essere idonea a soddisfare l’esigenza di
“prevenzione e riprovazione del reato”, pur nell’ambito di una
giurisdizione, che procede per equità. Apparentemente dunque il
riferimento dell'art. 163 bis è meramente civilistico e determina una serie di
26
problemi rispetto all’apprezzamento del giudice e alle conseguenze che ne
derivano.
D’altro canto l’istituto non ha in mente una giustizia compositiva e di
riconciliazione tra l’autore e la vittima del reato: essendo i reati procedibili
a querela la riconciliazione tra le parti si realizza con la remissione di
querela. Il funzionamento dell’istituto si avrà proprio quando permane un
conflitto tra l’istanza punitiva e le pretese della parte offesa che è stata
violata da un lato e l’offerta dell’imputato dall’altro.
L'offerta risarcitoria può essere fatto fino all’apertura del dibattimento,
dando ulteriori termini se il soggetto dimostri che non ha potuto provvedere
entro questa fase al risarcimento e alla restituzione.
Rispetto a questo conflitto il giudice può intervenire anche in limine litis,
“sentite le parti e la parte offesa”. Nulla vieta che sia sollecitato il GIP
anche durante le indagini preliminari, ma i risvolti processuali dell'istituto
sono lasciati in ombra . Nulla si dice sulla modalità con cui debbono venire
ascoltate le parti, se il giudice del dibattimento potrà, al solo fine di
valutare il danno, acquisire il fascicolo del pubblico ministero, essendo
difficile ipotizzare che una valutazione sia pur sommaria, ma non
arbitraria, rinunci a percorrere i sentieri della ricostruzione dei fatti
avvenuta durante le indagini, per soppesarne la gravità.
In tal caso però se il giudice formula una valutazione pregnante, ma
reiettiva della richiesta, può produrre un’incompatibilità a proseguire nel
giudizio (incidendo negativamente sulla finalità deflattiva proclamata).
Nulla vieta peraltro che il Giudice consideri l’offerta adeguata anche
all’esito o lungo il corso del procedimento di primo grado (dovendosi
ritenere implicito, trattandosi di una nuova causa estintiva, il richiamo
all’art. 129 del codice di rito sull’obbligo di immediata declaratoria),
sempre che la riparazione sia avvenuta nei termini previsti.
Si tratta di comprendere se questa riparazione prosciughi l’azione civile.
La risposta non è semplice.
Da un lato la lettera della disposizione, con un richiamo espresso
all’integralità del risarcimento, sembrerebbe fare propendere per una
soluzione affermativa, dall'altro occorre misurarsi con la ratio dell'istituto
rispetto alla sua collocazione sistemica e con i precedenti giurisprudenziali
relativi all'applicazione dell'istituto del giudice di pace, al quale abbiamo
fatto cenno.
Rispetto a quest'ultima disciplina le Sezioni Unite ( vedi S.U del 23 aprile
2015 n. 3386) hanno ritenuto inammissibile l’appello della parte civile
rispetto a una sentenza che aveva apprezzato in modo non adeguato il
risarcimento sull’assunto che rimanga aperta la possibilità di esperire
un’azione civile, rivendicando la necessità di un interpretazione
27
costituzionalmente orientata dell'istituto, che tenga conto della necessità di
non escludere l'imputato con minore capienza economica. Profilo risolto
positivamente nell'art.62 n.6, rispetto alla concessione dell’attenuante,
laddove si ricollega la diminuzione di pena anche alla condotta di chi si sia
comunque “adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o
attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. D'altro canto la
disciplina del giudice di pace significativamente parla di risarcimento,
senza aggiungervi la parola “interamente”, che compare invece come detto
nel nuovo art. 162 ter, e àncora la finalità dell'istituto espressamente a una
dimensione penalistica, cioè ad un'esigenza retributiva e prognostica (vedi
Cass. Sez.5, 24.13.2005 n.14070 a conferma di Cass. Sez 4, 09.12.2003
n.1152) che escludono che la pronuncia esaurisca il suo significato nella
dimensione civilistica del danno, di cui si sottolinea l'inevitabile
sommarietà di valutazione.
Sul versante sistemico la collocazione della norma nell'ambito di altre
cause estintive del reato e della pena (oblazione e sospensione
condizionale) potrebbe fare pensare che anche questo nuovo istituto non
possa sottrarsi alle valutazioni prognostiche favorevoli dalle quali
dipendono gli istituti che lo contornano. La lettera dell'art. 162 bis non
lascia però al giudice alcuna discrezionalità perché la causa estintiva si
ricollega automaticamente al presupposto: l'integrale risarcimento
civilistico avvenuto prima dell'apertura del dibattimento.
Difficile ritenere che il giudice possa negarlo all'aggressore seriale capiente
e possa concederlo all'aggressore incapiente.
In tal senso l'istituto pone seri problemi di costituzionalità in ordine a una
sua ragionevole applicazione che tenga conto, da un lato, di un criterio di
uguaglianza sostanziale e, dall'altro, di un profilo costituzionale dell'illecito
penale nel quale anche l'esigenza di prevenzione speciale si appunta sul
modello disegnato dall'art. 27 primo e terzo comma della Costituzione. Un
modello che non pare in alcun modo rispettato da una causa estintiva di tal
fatta considerando anche l'eterogeneità del bene in gioco di cui si
sguarnisce la tutela, o, meglio, la si monetizza.
Siamo in un Paese singolare. Quando è emersa dalle cronache giudiziarie
una prima applicazione di tale disposizione - una sentenza del Gup di
Torino che ha liquidato una somma piuttosto bassa per un reato di stalking,
suscitando le ire funeste della vittima, che ha trovato ampio spazio
mediatico, il Ministro di Giustizia si è meravigliato e ha subito invocato la
riforma della riforma.
D'altro canto se mai si ritenesse che l'istituto, forzando la ratio e il dato
letterale, conduca a ritenere inevitabile la sopravvivenza di un'azione civile
ben si comprende come si creerebbe solo un gioco di vasi comunicanti: alla
28
deflazione penalistica corrisponderebbe un’inflazione della giurisdizione
civile.
Ultima osservazione in tema di “integralità” del risarcimento: va
ricompreso certamente anche il pagamento delle spese legali perchè la
giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. sez V, 7 marzo 2013 n.21112 ) lo
aveva negato rispetto al giudice di pace, ma sul presupposto che si tratta di
una fase e di una giurisdizione nella quale la presenza del difensore non è
necessaria, diversamente da quello che accade davanti alla giurisdizione
ordinaria.
La riforma della prescrizione
Terzo punto su cui è intervenuto il legislatore riguarda una norma di
carattere sostanziale (rimasta fortunatamente tale) quello della prescrizione.
L’ordinanza della Corte Costituzionale ( 24/2017 di remissione alla CGCE)
che ha mantenuto la sua giurisprudenza consolidata, attivando un contro
limite rispetto alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso Taricco, ha
impedito una deriva manifestatasi nell’immediatezza anche con una prima
sentenza della Suprema Corte ( ) che l'aveva direttamente fatta sua. Una
scelta diversa avrebbe dato spazio alla possibilità da parte dei giudici di
merito di disattendere i termini prescrizionali previsti dalla legge, ogni qual
volta non consentivano di poter perseguire efficacemente una certa
tipologia di reati a tutela di beni per i quali fosse obbligatoria, per la
normativa sovranazionale, la predisposizione di norme efficaci e dissuasive
(senza neppure passare attraverso la Corte Costituzionale) .
Si è così evitata una babele di decisioni che avrebbe inciso profondamente
sul principio di legalità.
La motivazione della sentenza è molto significativa e importante alla luce
anche del principio di tassatività che la Corte ha di nuovo rivalorizzato in
maniera molto significativa.
D'altro canto io penso che la prescrizione vada difesa perché è incivile un
Paese che non rapporta la limitata durata della vita a termini ragionevoli
per procedere penalmente nei confronti degli accusati, comparati alla
gravità dei fatti che loro vengono attribuiti (e ben si può richiamare quanto
si ricava dal sistema costituzionale e dalle norme che mettono la persona al
centro della tutela).
Il vecchio Codice Rocco, pur con un’ispirazione autoritaria, aveva
predisposto una disciplina frutto di un tecnicismo più raffinato di quello
che governa le novelle nella nostra materia, indicando i termini di
prescrizione per fasce di gravità dei reati.
La riforma del 2005 frantumando il meccanismo e riportandolo alle cornici
edittali dei singoli reati, riducendola in taluni casi in modo irragionevole
29
(ne era evidente l'ispirazione immunitaria che la modellava) ha provocato i
guasti ai quali assistiamo da alcuni anni: per allungare la prescrizione si
modificano le cornici edittali delle singole fattispecie a prescindere da ogni
plausibilità sanzionatoria.
Il legislatore attuale è intervenuto su due punti.
In particolare sul dies a quo della prescrizione in materia di delitti di cui i
minori siano vittime: stabilendo che la prescrizione decorra dal momento
del raggiungimento della maggiore età del minore. Badate, si tratta di una
norma frutto dell’applicazione di istanze sovranazionali, prima la
Convenzione di Istanbul ( art.58), poi la Convenzione di Lanzarote (art.33):
accordi internazionali a tutela dei minori che hanno modellato molti istituti
processuali, nel caso richiamando la necessità di dilatare l’effetto estintivo
del decorso del tempo.
Bisogna dire che la scelta appare ragionevole in astratto perché si può
pensare correttamente che l’apprezzamento che il minore faccia del
disvalore del fatto, e pertanto il disvelamento di quello che ha subito, possa
essere tardivo in dipendenza di una maggiore maturità. In concreto peraltro
l’allungamento dei termini prescrizionali avviene rispetto a reati che già li
prevedono molto ampi.
Il tema è sempre delicato, perché occorre raggiungere un equilibrio tra
l’esigenza di fare un processo in tempi ragionevoli - in tempi in cui si possa
acquisire ragionevolmente la prova d’accusa e anche di difesa - e l’esigenza
di punire reati gravi e odiosi. Rispetto al minore in particolare ci si può
sempre interrogare quanto la rielaborazione di una certa testimonianza
attraverso l’età evolutiva possa poi influenzarne la veridicità quando essa
affiori solo con la maggiore età. Siamo in una materia nella quale la prova
si forma abitualmente in incidenti probatori che costituiscono un pallido
simulacro del contraddittorio, e l’accusa invoca fatalmente già solo per
essere stata formulata la stigmatizzazione di colui che ne venga toccato. In
concreto dunque la divaricazione temporale tra il fatto e le potenziali
indagini rende molto difficile l’esercizio del diritto di difesa. Occorre
ricordare che la possibilità di cumulare la nuova disciplina, per questo tipo
di reati, agli effetti degli artt.157, 8c. e 158 può portare gli effetti estintivi a
40 anni.
Poi sono state state introdotte due ipotesi di sospensione.
La prima rispetto alle rogatorie la seconda in occasione delle impugnazioni
dei condannati in primo e in secondo grado.
Mi occupo della seconda in particolare: disciplina è semplice e risulta dalla
lettura della disposizione. La sospensione va dal deposito della sentenza di
condanna di primo grado fino al dispositivo della sentenza di condanna di
secondo grado, per un anno e mezzo, cui si aggiunge un ulteriore anno e
30
mezzo dal deposito della sentenza di condanna di secondo grado fino alla
lettura del dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione.
Ovviamente, in caso di annullamento e rinvio si delinea un’ulteriore
analoga sospensione.
Questa sospensione non ha luogo, invece, laddove nel grado successivo il
soggetto sia prosciolto. Il Giudice d’appello si troverà allora a dovere
tenere conto anche del possibile sopraggiungere della prescrizione sospesa
laddove intenda assolvere l’imputato, dovendo fare prevalere la causa
estintiva rispetto all’assoluzione ai sensi dell’art. 129: ma questo peraltro
non potrà che avvenire dopo avere preso funditus la decisione di assolvere,
con ciò svuotando peraltro il senso di tale prevalenza.
Si tratta, tra l’altro, di meccanismo ulteriormente complicato, essendo la
sospensione valida solo per coloro che sono condannati e non per eventuali
correi assolti. E dunque creando possibili (irragionevoli) disparità di
trattamento rispetto all’esito finale che potrebbe essere di proscioglimento
per intervenuta prescrizione per taluno dei correi (pensiamo a colui che
assolto in primo grado, a differenza dei coimputati, si trovi poi nella
condizione di essere condannato in appello con una prescrizione già
decorsa, perché non sospesa).
La cosa che più colpisce però di questa nuova disciplina della sospensione
sono gli effetti concreti che produrrà, alla luce dell’analisi statistica
dell’intervento della prescrizione effettuata nel 2016 dal Ministero di
Giustizia.
L’analisi statistica ci dice che il 56% delle prescrizioni avvengono durante
le indagini preliminari, cioè le fa il GIP su richiesta del P.M. contro noti
(c’è un 1% che riguarda gli ignoti che poco ci riguarda), poi c’è un 4%
dichiarate dal GUP durante l’udienza preliminare e un 18% dichiarate dal
Tribunale Ordinario. La prescrizione sulla quale incide questa normativa è
dunque un 20% del fenomeno.
Significative sono in particolare che la maggior parte delle prescrizioni
siano dichiarate in indagini, perché rende evidente come la patologia abbia
origine dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Non voglio affrontare questo tema complesso e delicatissimo, però non v’è
dubbio che molto si spiega con le scelte di investimento di risorse da parte
delle Procure e tanta parte viene occupata da una giurisdizione
“dell’affresco”, cioè una giurisdizione che fa sistema di ogni vicenda,
pretendendo di dipingere il quadro sociale complessivo nel quale i reati sui
quali si indaga sono inseriti: delegando sempre più la polizia giudiziaria ad
accertamenti su fenomeni e non su specifici fatti.
Come detto l’intervento sospensivo concerne l’Appello (19% delle
prescrizioni) e la fase di Cassazione (1%). Sconcertante quest’ultimo
31
intervento perché l’effetto sarà il trascinamento in avanti della durata dei
processi in quest’ultima fase, incidendo così sulla ragionevole durata, senza
che vi fosse un’impellenza derivante dai dati statistici. Anzi.
A questo meccanismo si accompagna per alcuni delitti, quelli di corruzione
in primis, ma anche l’art. 640 bis del Codice Penale, un raddoppio dei
termini della prescrizione lunga, nel caso di interruzione (non è più un
quarto, ma la metà). Ancora una volta il criterio che ha orientato la scelta
poggia sull’allarme sociale che focalizza su questi delitti un’attenzione
mediatica esasperata anche dallo scontro politico. Ne risulta una disciplina
che presenta margini di irragionevolezza sui quali potrebbe essere invocato
un intervento del Giudice delle leggi.
Due osservazioni processuali.
La prima osservazione la faccio con riferimento alla impugnazione del
P.M. della sentenza di proscioglimento che deve accompagnarsi a una
richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale l’impugnazione si
fonda su una prova dichiarativa.
C’è il problema sulla decisività della prova perchè l’input europeo (dalla
Dan c.Moldavia in poi) è stato quello di privilegiare il Giudice che
apprende oralmente la prova, ma con riferimento alla prova decisiva.
Nella riforma di decisività non si parla, ma si può forse pensare che,
ortopedicamente si possa giungere alla stessa soluzione in ordine alla
decisività. Ma la riforma pone un grande problema sulla parità delle armi:
se il difensore impugna una sentenza di condanna fondata su una prova
dichiarativa (decisiva) dovrebbe avere lo stesso diritto che quella prova
dichiarativa sia riascoltata in sede d’appello.
Se assumiamo che appartiene al fondamento epistemologico del
contraddittorio che il Giudice che giudica e decide sulla condanna o sul
proscioglimento ascolti direttamente la prova fondante, se dichiarativa,
perché negare al difensore questo diritto? Una norma di questo tipo è
incostituzionale, e non avrei dubbi.
Poi valgono tutte le considerazioni che prima ho ascoltato sul fatto che
purtroppo pensare di trarre da delle sentenze che affrontano casi concreti
dei principi per delle applicazioni conformi, in questo caso addirittura dei
principi per una legislazione che si conforma a quelli, creando un insieme
di norme inevitabilmente contraddittorio, costituisce il grande tema del
rapporto con la giurisprudenza sovranazionale cogente.
Il nostro giudizio di appello è divenuto un terreno di battaglia e rischia di
travolgere la possibilità concreta di svolgere attendibilmente
l’impugnazione e la decisione conseguente : pensiamo alle Sezioni Unite
Patalano che impongono la rinnovazione anche nel giudizio anche quando
il giudice di primo grado non ha percepito direttamente la prova.
32
Una decisone che rischia di produrre effetti sconvolgenti nel sistema:
ascoltare soggetti sulle cui dichiarazioni l’imputato aveva rinunciato al
vaglio del contraddittorio. Cioè io scelgo il giudizio abbreviato perché
faccio una valutazione del quadro probatorio e dico: “Rinuncio al
contraddittorio e tu giudice mi giudichi sugli atti raccolti dal pubblico
ministero”. Se improvvisamente si delinea un contraddittorio anche
eventualmente a mio sfavore, questo viola le stesse ragioni fondanti della
scelta del rito – che è stato più volte legittimato anche dalla Corte Edu -
perchè mi viene tolto un grado di merito per vagliare la decisione e
l’ermeneutica della deposizione assunta in grado di appello. Una scelta
delle Sezioni Unite che considero inaccettabile e non condivisibile e voglio
credere sia rapidamente rivista.
Condivido le perplessità anche in materia di ricorso in Cassazione dalla
quali è stata escluso l’imputato senza difensore e il difensore non
cassazionista: in realtà ha ragione Alessandro Rampinelli che in tali casi
può valere comunque la firma del sostituto cassazionista rispetto a quella
del difensore che non abbia titolo.
Il tema è comunque delicato, perchè riguarda il diritto di difesa - non tanto
sulla base delle sentenze CEDU che, fermo restando il diritto che deve
avere l’imputato a sottoporre al giudizio di legittimità la questione, ha
lasciato ampio spazio alle legislazioni nazionali rispetto alle modalità con
cui può avvenire l’esercizio di questo diritto. Non credo che si possa trarre
dalla giurisprudenza della CEDU ragione per ritenere che la riforma violi
l’art. 6 della Cedu.
Però io pongo un problema socialmente apprezzabile: soprattutto per i
detenuti privi di avvocato, formalmente con un difensore di ufficio:
soggetti sotto protetti sui quali una riflessione maggiore andava fatta prima
di inoltrarsi in una soluzione quale adottata.
Da ultimo la specificità dell’impugnazione.
E’ vero che dal punto di vista normativo non cambia molto, stando agli
orientamenti giurisprudenziali: è comunque ipocrita dire che anche il
Giudice ha un obbligo di redazione specifica della sentenza secondo un
dettato che adesso è disciplinato normativamente, ma se il Giudice non
redige la sentenza in quel modo non c’è sanzione. Se un Giudice fa una
sentenza generica, non ordinata, non per punti, nessuno lo sanziona, al
difensore è riservata l’inammissibilità dell’impugnazione.
In realtà una norma non introduce nulla di nuovo, ma penso sia una di
quelle norme che può produrre, sempre nella logica dello sfoltimento, il
venir meno di quel favore dell’impugnazione che pure la giurisprudenza di
Cassazione aveva sempre delineato. Grazie.
33
AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE
Grazie all’Avvocato Gamberini.
Anche il Consigliere Luca Marini sicuramente ci aiuterà a sviscerare
l’argomento con altrettante riflessioni interessanti, velocemente gli passo la
parola: Luca Marini, Presidente della Sezione Penale del Tribunale di
Ferrara, grazie di essere intervenuto per l’ennesima volta a un nostro
seminario.
RELAZIONE DEL PRES. DOTT. LUCA MARINI (I^ PARTE)
Grazie sempre a voi che mi invitate con cortesia ai vostri convegni, ai quali
partecipo con nostalgia dei miei lunghi anni veneziani, per la verità avendo
fatto un po’ tutte le funzioni giurisdizionali qui al Tribunale di Venezia.
Devo dire che torno, partendo da una riflessione dell’Avvocato Rampinelli,
il quale ha detto: “Ma vi sembra positivo procedere a queste codificazioni
del diritto vivente?”. La risposta non può essere positiva o negativa, perché
in realtà questa tipologia di produzione normativa, di norme
contestualmente sostanziali e procedurali, ormai è un frutto acquisito più o
meno semestrale, e ve lo dico perché sono norme che potrebbero essere
positive se contenute in un disegno organico di riforma, ma assolutamente
molto negative se contenute in una struttura totalmente disorganica e
disarticolata. Il lato più negativo della Riforma Orlando è che forse è la più
disorganica, più disarticolata, più variegata serie di interventi normativi, in
parte immediatamente cogenti, in parte contenuti in leggi deleghe, ma
soprattutto che si occupa degli argomenti realmente più disparati, sempre
collegati a interventi normativi precedenti o a interventi giurisprudenziali
che vengono recepiti.
I ben più illustri Relatori che mi hanno preceduto hanno parlato veramente
di tutto, avete sentito, avete apprezzato l’estrema profondità e dettaglio
degli interventi sui vari punti qualificanti della riforma. Ma io vi ho
individuato una norma molto simpatica, della quale non si è parlato fino
adesso ma che interessa molti di voi, cari amici Avvocati: la norma relativa
alla nullità dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio che non
ha effetto se l’autorità che procede non riceve l’assenso del difensore
domiciliatario. Vi ci siete trovati tutti i giorni dozzine di volte. Perché è
stata introdotta questa norma del tutto a capocchia all’interno di un sistema
che si occupa di quasi tutto d’altro? Si parte da un simpatico convegno fatto
con voi, che avete avuto anche quella volta la bontà di invitarmi, relativo al
34
procedimento in assenza, quando abbiamo cominciato a studiare che cosa
volesse significare la norma dell’art. 420 bis e quando l’imputato andava
considerato assente e non irreperibile, e siccome il 420 bis diceva, molto
sinteticamente, che, salvo quanto previsto da, eccetera, “il Giudice procede
in assenza dell’imputato che nel corso del procedimento abbia eletto
domicilio”, ecco che siccome tutti gli agenti di Polizia Giudiziaria hanno i
loro formulario prestampato quando fermano il soggetto per la guida in
stato di ebbrezza, per la resistenza, per l’oltraggio, per qualunque reato di
strada che possiate immaginare, e gli fanno firmare il moduletto in cui c’è
scritto tutto prestampato, lui lo firma e basta, che elegge domicilio presso il
difensore d’ufficio, a volte mettono il nome e a volte no. Poi, certo - mi
ricordo ne abbiamo parlato a lungo - dice: “Ma io posso rifiutare l’elezione
di domicilio”; certo, tu hai rifiutato l’elezione di domicilio però lui il
domicilio l’ha eletto e siccome il 420 bis dice “l’imputato che ha eletto
domicilio”, il domicilio era comunque eletto. Dopo, alcuni Tribunali, alcuni
orientamenti giurisprudenziali, hanno cominciato a dire che è inefficace,
però il Legislatore ha ritenuto che questi orientamenti, forse tutti legittimi,
avessero bisogno di un intervento normativo ed ecco qui il comma 4 bis del
162, che ha risolto: “Non ha effetto se l’Autorità che procede non riceve
l’assenso”. Se non ha effetto, allora forse non è un’elezione di domicilio e
forse il processo dovrebbe essere sospeso, con tutte le conseguenze che la
normativa del processo per gli irreperibili ha prodotto. Su questo non
abbiamo ancora uno sviluppo particolarmente preciso. Credo che con
questa indicazione più che risolvere un problema, questa norma ne abbia
creato un altro. Ma è una delle tante problematiche del normativa della
Riforma Orlando. E’ una normativa che incide su una massa magmatica di
gestione dei processi penali che non è che ha effetto soltanto su tutti i
processi dal 4 di agosto, quando è entrata in vigore la riforma, in poi,
perché, a parte che buona parte della riforma dovrà iniziare ad essere
applicata mano a mano se verranno adottate le leggi deleghe, ma c’è tutto il
pregresso. Prima gli illustri Relatori hanno indicato alcune problematiche e
alcuni interventi abbastanza incomprensibili, e sono d’accordo: per
esempio, quello sulle proroghe dell’attività di indagine; dice: “Ma perché
questi termini così lunghi? In fondo per i processi semplici che bisogno
c’è?”. Ma noi non abbiamo a che fare con un modello astratto di intervento
normativo su un ufficio giudiziario che ha solo i processi che sono stati
iscritti a ruolo dal 4 agosto, ormai l’intervento sul processo penale italiano
è come un intervento del Ministero delle Finanze sul debito pubblico, ogni
anno è in aumento, non facciamoci prendere in giro da qualche statistica
che espone cifre ottimistiche di lievi riduzioni che se poi leggete
attentamente sono lievi riduzioni per segmenti, sono lievemente ridotti i
35
processi pendenti in Appello, oppure sono lievemente ridotti i processi
pendenti in Cassazione, sono sempre in aumento li processi pendenti
davanti al Giudice di Primo Grado, quelli sempre. Tutto questo rinvia poi a
delle problematicità che riguardano l’ordinamento giudiziario e i rapporti
tra le diverse tipologie di uffici e le modalità con cui gli uffici si rapportano
tra di loro, perché non è un caso che siano stati dati quei termini ai
Sostituti Procuratori.
Due giorni fa è intervenuto un importante atto normativo secondario, di cui
i giornali non hanno minimamente parlato ma che per il mondo giudiziario
italiano una rivoluzione copernicana, che è la nuova riforma organica
dell’istituto delle Procure della Repubblica, che ha varato il Consiglio
Superiore della Magistratura, erano anni che si aspettava questo intervento
di normazione secondaria; adesso vedremo come andrà, ma ridisegna i
confini, i rapporti tra il Procuratore Capo, gli Aggiunti, i Sostituti, le
modalità di assegnazione dei fascicoli, le modalità di determinazione delle
aree specialistiche di intervento, tutte situazioni che a fascicoli zero
sarebbero bellissime da applicare, magari con una lettura
costituzionalmente orientata, come si diceva una volta, ma di fronte al
debito pubblico dei fascicoli pendenti rischia l’ennesima impasse, se il
Legislatore non avesse in questo caso un po’ pietosamente tenuto conto
della situazione di fatto e allora, un po’ facendo finta di accorciare i termini
da 6 mesi a 3 mesi e un po’ concedendo proroghe, ecco come si spiega la
nuova normazione relativa ai termini delle indagini.
La riforma si occupa di mille problemi alcuni dei quali io ho valutato nella
pratica giurisdizionale quotidiana anche positivamente. Le condotte
riparatorie che determinano il non luogo a procedere, per esempio; ne ha
parlato diffusamente l’Avvocato Gamberini e faccio solo due osservazioni
sul punto. Non è figlio soltanto delle norme che sono state citate, è forse
figlio più diretto, da un lato, dell’intervento normativo organico che fu fatto
sulla 231/01, che è stata la prima struttura di riforma a natura codicistica,
perché è il Codice relativo alla fattispecie che determina la responsabilità
amministrativa degli enti ed è stato il primo complesso organico di norme
in cui la presenza di condotte riparatorie comportava, in linea generale, cioè
per qualunque tipologia di imputazione degli enti, l’esclusione delle
sanzioni più gravi e l’applicazione soltanto delle sanzioni pecuniarie,
l’esclusione di determinate misure cautelari coercitive, e così via. Da
questo si è poi passati timidamente anche alle fattispecie penali vere e
proprie: un modello di creazione veramente più giurisprudenziale che
sostanziale è l’oltraggio. Il resuscitato art. 341 bis, che era stato dichiarato
incostituzionale e poi era sparito, poi non si è capito per quali urgenti e
impellenti necessità di ordine pubblico è stato reintrodotto, è stato però
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reintrodotto con la dizione che se l’imputato procede alla riparazione
integrale, sia nei confronti dell’agente oltraggiato sia del corpo di Polizia
Giudiziaria al quale appartiene, non se ne fa nulla, stretta di mano,
arrivederci, siamo tutti felici. In questo caso mancava la dizione normativa:
se il corpo di Polizia Municipale non risponde mai - cosa che accade
regolarmente, perché i Carabinieri rispondono abbastanza, la Questura
quando gli va, la Polizia Municipale mai - la giurisprudenza si è sostituita
al Legislatore e ha detto che in questo caso decide il Giudice e,
francamente, finora non ho trovato segni in Cassazione contrari a questo
orientamento consolidato, talmente consolidato che l’hanno introdotto con
una clausola di tipo generale. E’ sicuramente già interessante che l’istituto
della improcedibilità del reato a seguito di condotte riparatorie si possa
applicare attualmente per tutti i reati procedibili a querela, inclusi
certamente gli atti persecutori (perché non si capisce perché dovrebbero
essere esclusi gli atti persecutori solo perché la remissione di querela deve
essere processuale e non pre-processuale, con buona pace delle polemiche
giornalistiche), è già interessante che sia applicabile a queste tipologie di
reati e già ho trovato un certo consenso applicativo tra le Parti, devo dire
finora non conflittuale, per cui non ho mai dovuto esercitare né i miei
colleghi nel mio Tribunale hanno dovuto esercitare i poteri ufficiosi di
valutazione circa l’esaustività delle condotte riparatorie offerte: le parti si
sono messe d’accordo, forse ingolositi gli imputati e, tutto sommato,
affrante dopo anni di attesa le parti offese, a fronte magari di pochi e scarsi
benefici ma almeno pratici, anziché poi, dopo una condanna dell’autore del
reato, andare a cercare di recuperare qualcosa nei suoi confronti in sede
civilistica successiva al processo penale.
La parte più interessante sarà l’estensione dei reati a procedibilità a querela.
Da notizie giornalistiche si era appreso che se ne sarebbe dovuto occupare
il Consiglio dei Ministri di oggi. Non ho trovato tracce, perché si sono
occupati di banche e di altre questioni, comunque è imminente l’articolato,
è definito, quindi si tratta di una settimana al massimo due. Cosa dice la
norma relativa all’estensione della procedibilità a querela? Riguarda tutti i
reati contro la persona punibili fino a 4 anni, con l’eccezione della violenza
privata, e questa eccezione non l’ho mai capita ma comunque tant’è, non
dobbiamo capire cosa dice il Legislatore ma dobbiamo interpretare e
applicare, la norma è questa. E poi si dice: “Tutti i reati contro il
patrimonio”, non c’è più il limite dei 4 anni, con delle esclusioni
specifiche: persona offesa incapace per età, per infermità, se ricorrono le
circostanze aggravanti, effetto speciale. Quindi sono diverse, a questo
punto, le possibilità di eccezioni previste, ma ciò nonostante la platea
diventa molto, molto allargata. In questo caso l’intervento delle condotte
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riparatorie collegate, coordinate con la possibilità che ha il Giudice di
valutare la congruità dell’offerta risarcitoria, nonostante il dissenso della
persona offesa, è sicuramente un elemento di possibilità di deflazione che
nel debito pubblico dei processi penali italiani è sicuramente importante.
Anche in questo caso è singolare notare come nello stesso corpus
normativo ci sono norme favorevoli all’apertura dei poteri di
discrezionalità del Giudice nel concedere o meno determinati benefici, e
poi ci sono norme assolutamente restrittive che dubitano delle possibilità
del Giudice di ampliare i suoi poteri di intervento. Questo è figlio forse
anche un po’ del dibattito che abbiamo sempre avuto in questi anni tra
l’Avvocatura, la Magistratura, i Pubblici Ministeri, non sappiamo deciderci
a dare una risposta organica perché ormai siamo usciti dalla logica
codicistica, siamo intervenuti nella logica degli interventi penali speciali,
sia procedurali che sostanziali, ormai siamo alle pezze. Non voglio
nemmeno ricordare l’ormai defunto Codice di Procedura Penale dell’89,
che è stato talmente rappezzato che non è neanche più un patchwork, ma
abbiamo perfino smesso di cercare di riformarlo organicamente e lo
facciamo con queste tipologie di interventi che vanno a coprire un tampone
là, un tampone qua, di un istituto piuttosto che un altro.
Abbiamo parlato delle condotte risarcitorie, dell’aumento della
procedibilità a querela, e ce ne sono mille veramente, i termini delle
indagini li abbiamo accennati, sulla problematica dell’appello non mi
permetto di intervenire. Pensiamo al giudizio abbreviato, per esempio o
all’intervento sul procedimento di archiviazione: questa strana introduzione
di un nuovo rito, l’impugnazione del decreto di archiviazione, decreto del
Giudice delle indagini preliminari, viene impugnato davanti al Giudice
Monocratico; sarà necessaria in tutti i Tribunali italiani una variazione
tabellare per indicare negli uffici di una certa rilevanza quale sia il Giudice
predeterminato per legge che deve occuparsi dell’opposizione
all’archiviazione contro quell’altro del GIP, comunque, per carità, una
questione tabellare si può fare, dove l’unico potere di questo Giudice
Monocratico è, nel caso di accoglimento, quello di restituire gli atti al GIP,
perché la norma dice soltanto: o il Giudice del reclamo respinge il ricorso e
conferma il provvedimento, quindi l’archiviazione resta archiviazione, o
accoglie il ricorso, ma non è che accoglie il ricorso e quindi prende le
decisioni, no: facciamo questo passaggio tipo baseball, piglia, rimanda la
palla in campo, ritorna al Giudice e con la tempistica e i numeri di tutto
questo andare e tornare di processi per definizione non urgenti, perché se è
stata chiesta l’archiviazione sarà stata anche opposta, avrà anche avuto
ragione il ricorrente a opporre, ma siamo in un campo che nella gestione
ordinaria - e adesso vi parlerò della problematica della gestione dei processi
38
prescrivendi nei rapporti con la Corte d’Appello - della massa dei processi
che viaggiano dalla Procura fino agli appelli tutto quello che sono richieste
di archiviazione sono considerate di default non urgenti, da qualunque tipo
di normazione secondaria che voi troviate in qualunque ufficio giudiziario
italiano. Quindi immaginate la tempistica, anche in caso di accoglimento e
restituzione al GIP: i tempi di prescrizione arriveranno ben prima
dell’eventuale giudizio di merito di primo grado e quindi rientrerebbero in
quella statistica opportunamente citata dall’Avvocato Gamberini che il 50 e
passa percento si prescrivono ancora nella fase delle indagini preliminari.
Una norma del genere non ho capito la necessità di introdurla, questa sorta
di teatrino del passaggio avanti e indietro, ma certamente non è nel senso
dell’accelerazione delle trattazioni dei procedimenti.
Dicevo, prescrizioni: state tranquilli, non ho intenzione di fare contrappunti
alla disciplina sulla bizzarria di queste forme di sospensione della
prescrizione. Un senso ce l’hanno, perché prima dell’introduzione di questa
normativa non è che gli uffici giudiziari non si fossero occupati della
problematica grave di questi processi che occupano risorse, sfiancano le
statistiche degli uffici e poi finiscono nel nulla magari dopo molti anni.
Emblematica, la cito perché siamo fuori dal mio attuale distretto, la
circolare che suscitò un vespaio al Consiglio Superiore della Magistratura,
che però poi l’approvò, del Presidente della Corte d’Appello di Bologna -
l’Avvocato Gamberini la conoscerà bene - una circolare che era ricognitiva
dello stato degli atti e che diceva semplicemente questo: “Cari Tribunali,
non azzardatevi neanche lontanamente a trasmettere alla Corte d’Appello
sentenze che si riferiscano a procedimenti che all’atto dell’esercizio
dell’azione penale, quindi con trasmissioni all’organo giudicante di primo
grado, siano a meno di 18 mesi dalla prescrizione, perché sappiate che io
non li voglio proprio vedere. Non azzardatevi a fare la solita sentenza un
giorno prima della perenzione del termine di prescrizione per dopo
scaricare la statistica della prescrizione sulla Corte d’Appello ricevente,
perché qui è ora di finirla”. So che ve ne ho già parlato anche in incontri
precedenti. Questo riguarda anche la gestione in generale della carriera
della Magistratura; oggi la prescrizione è temuta molto meno, in passato
era temutissima perché il Magistrato individuato come responsabile della
prescrizione di un procedimento correva perfino guai seri, molti anni
addietro, adesso magari guai meno seri, però possibili ritardi nelle
valutazioni della progressione, e siccome la valutazione della progressione
comporta anche un ritardo negli aumenti stipendiali, ci sono molti che ci
badano a questa tipologia di problematiche che ne derivano. Insomma, la
prescrizione non piace a nessuno. Non piace soprattutto ai dirigenti degli
uffici di prime cure che devono essere valutati magari per promozioni, che
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adesso sapete sono regolate da una normazione secondaria particolarmente
complessa, che è quella relativa agli incarichi direttivi e semidirettivi. In
soldoni, i Procuratori della Repubblica non vogliono avere questi fascicoli
tra i piedi nei loro uffici e non vedono l’ora di liberarsene, ma devono
aspettare l’esito delle indagini, le indagini sono complicate, l’abbiamo visto
prima, se la stessa Riforma Orlando è stata lì sostanzialmente a dilatare le
possibilità dei Sostituti di continuare a indagare. Quindi tenderebbero a
liberarsene mandando agli uffici di primo grado. Nel mio distretto attuale i
Tribunali hanno detto: “Nossignore, perché se tu me li mandi quando
mancano meno di 18 mesi dalla prescrizione nei termini ordinari io non te
li prendo, perché la Corte d’Appello non vuole che io faccia la sentenza,
perché poi finisce che la prescrizione ricade sulla Corte d’Appello”. Quindi
cosa hanno fatto alcuni Tribunali del mio distretto? Semplicemente non
hanno fissato i processi. Siamo arrivati al caso limite di un Tribunale che
non menzionerò, ma il dato è corretto, in cui vi erano cinquemila richieste
di fissazione di procedimenti monocratici di primo grado che il Presidente
della Sezione Penale semplicemente ha preso e ha messo in un cassetto
dicendo: “Io non te li fisso perché hai impiegato troppo tempo a fare le
indagini”.
Di fronte a queste problematiche della gestione del processo quotidiano
penale italiano, una riforma disorganica come la Riforma Orlando può dare
risposte positive o negative, ma certamente non incide su quella che è
l’aspettativa principale di noi operatori pratici e cioè avere finalmente la
possibilità di poterci confrontare con un sistema organico processuale, cosa
che fino a questo momento risulta alquanto utopica. Certo, torneremmo
indietro rispetto a quella che era stata la serie di successioni di varie
Commissioni ministeriali, che adesso sono passate di moda, che hanno
affrontato sia il processo penale che il diritto penale sostanziale, all’esito di
tutte le quali era sempre stato accompagnato un disegno di legge di
depenalizzazione organica e un’invocazione ormai disperata di amnistia,
perché è l’unico modo per liberarsi del debito pubblico processuale. Sul
debito pubblico non possiamo schioccare le date dicendo: “Non lo
paghiamo più”, però fino al 1985 si faceva un’amnistia ogni 5 anni, poi
sono passate di moda, adesso creano problemi di ordine pubblico. Però se
vogliamo ripartire da zero con un processo penale che aspiriamo a far
funzionare, un’amnistia radicale di tutti i processetti sarebbe assolutamente
indispensabile e tutte le riforme del Codice la avevano ipotizzata, quanto
meno nella forma della depenalizzazione. Ora la politica non ci consente né
le amnistie né le depenalizzazioni e allora il povero Ministro Orlando si è
inventato l’estensione della procedibilità a querela e le condotte riparatorie:
sono istituti positivi, perché se non possiamo fare in un modo cerchiamo di
40
ridurre le pendenze dall’altro, ma è solo una riduzione di pendenze, perché
lo zoccolo duro resta e sono milioni di processi penali pendenti. Il nostro
sistema non se lo può permettere, non possiamo più permetterci
l’obbligatorietà dell’azione penale, questo è il dato di fatto di fondo che
tutti fanno finta di non voler affrontare. Si dice sempre: “Ma
l’obbligatorietà è meno affrontabile però abbiamo cercato di farvi fronte in
qualche modo con i vari istituti”. Mi viene da rispondere al problema della
Legge Pecorella: io ero in Procura della Repubblica quando fu introdotta e
devo dire che a noi fece anche piacere, dicemmo: “Così finalmente
possiamo fare a meno di occuparci degli appelli sulle assoluzioni”. Fu una
certa liberazione, anche perché un Sostituto Procuratore, caro Prof. Ferrua,
già di suo tempo di occuparsi delle impugnazioni altrui ne ha ben poco,
figuriamoci delle impugnazioni anche delle assoluzioni. Ovviamente i capi
premono, le persone offese di più, e quindi il problema è politico, è stata
reintrodotta, giusto e sbagliato che sia, però è un dato di fatto con cui
dobbiamo ancora confrontarci, è stato reintrodotto l’appello contro
l’assoluzione da parte del Pubblico Ministero, al momento teniamocelo.
Però vi posso assicurare che culturalmente non era stata una rivoluzione
così radicale, solo alcune frange hanno gridato allo scandalo, secondo me
di scandaloso non c’era assolutamente nulla.
L’altra normazione che doveva andare oggi al Consiglio dei Ministri era
quella sulle intercettazioni telefoniche, la Riforma Orlando ne tratta forse
più marginalmente. C’era un disegno di legge a parte, un decreto
legislativo, è pronto ormai anche quello, ne riparleremo penso a lungo
quando il Governo lo varerà, ma lo varerà a breve. Quindi stiamo attenti
che il confronto quotidiano anche su questo aspetto delle indagini
preliminari sarà un confronto con il quale dovremo fare assolutamente i
conti.
Io direi che da un punto di vista dogmatico vi aspettate di più dagli
interventi del Prof. Ferrua e dell’Avvocato Gamberini. Quindi mi riservo
qualche contrappunto successivo e vi ringrazio della cortese attenzione.
AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE
A questo punto ritorniamo al Prof. Ferrua, col quale siamo in credito del
suo intervento sul metodo della Riforma Orlando.
RELAZIONE DEL PROF. AVV. PAOLO FERRUA (II^ PARTE)
41
La disfunzione del linguaggio legislativo, divenuto sempre più oscuro,
indecifrabile, talvolta contraddittorio – di cui si è visto un esempio con la
riforma Orlando - genera inevitabilmente interpretazioni ‘creative’, in
quanto prive di solida base testuale. Altrettanto può accadere in presenza di
scelte palesemente ingiuste o inadeguate: la tentazione di rimediarvi in via
giurisprudenziale, senza passare attraverso la via più complessa della
questione di legittimità costituzionale, è indubbiamente forte. Naturalmente
il giudice si guarderà bene dall’ammettere il carattere creativo della sua
scelta che sarà sempre mascherata sotto l’alibi della interpretazione.
A sua volta il diffondersi di interpretazioni creative scoraggia l’impegno
del legislatore alla chiarezza dei suoi testi, sul presupposto che sarà
comunque la giurisprudenza a determinarne, più o meno arbitrariamente, il
significato; e in questo dissennato intreccio tra disfunzioni del legislatore e
interpretazioni creative è difficile stabilire se all’origine vi siano le prime o
le seconde.
Spinte contestatrici verso la soggezione del giudice alla sola legge e
interpretazioni creative si sono periodicamente presentate nella storia. Ma,
mentre in passato si manifestavano essenzialmente come reazione a
supposte inadeguatezze o ingiustizie della legge, oggi si direbbero piuttosto
animate dalla diretta e autonoma rivendicazione di una funzione
nomopoietica per l’interprete: il che rende il fenomeno assai più complesso
e meno dominabile.
Dall’idea ingenua e utopica del giudice-bocca della legge, che va
semplicemente applicata e non interpretata, si è giunti dopo un lungo
percorso all’opposta idea di un diritto giurisprudenziale svincolato dalla
legge o, comunque, rispetto al quale la legge ha solo un valore
programmatico di orientamento, di semplice punto di partenza per un
autonomo percorso argomentativo. Dallo slogan illuminista ‘c'è solo la
legge, non ci sono interpretazioni' si naviga a vele spiegate verso quello
post-moderno, di derivazione nietzschiana 'non c'è la legge, ci sono solo
interpretazioni'.
Il risultato è una profonda alterazione del fisiologico rapporto tra il diritto
“vigente”, rappresentato dalla legislazione, e il diritto “vivente”, espresso
dalla giurisprudenza. Il diritto vivente che, in regime di soggezione del
giudice alla legge, dovrebbe riflettere il diritto vigente e tradurne il
significato nella singola controversia, si è da esso progressivamente
emancipato, per diventarne il tiranno, anzi il sicario. Al punto che, per
riprendere forza ed effettività, il diritto vigente è ormai spesso costretto ad
allinearsi alla giurisprudenza, a inseguire e ratificare il diritto vivente, a
volte maldestramente come accade con la riforma Orlando. Cedant leges
togae: in queste parole si potrebbe riassumere il capovolgimento di rapporti
42
tra legislazione e giurisdizione. Non c’è da stupirsi allora se il ministro
Orlando auspica che le procure della repubblica vogliano assumersi la
‘paternità’ della riforma sulle intercettazioni.
Figure improprie di legislatore se ne trovano facilmente nella storia.
Ricordo un periodo in cui nei processi interveniva l’avvocato-legislatore. Il
parlamentare-avvocato sosteneva una certa tesi di fronte al giudice; questi
la respingeva perché contraddetta dalla legge; ma nei giorni successivi
l’eccezione difensiva si trasformava in un disegno di legge. Ora è tempo
del giudice-legislatore. La legge appare inadeguata, ma, anziché auspicare
la sua riforma o sollevare questione di legittimità costituzionale, la si
‘corregge’ con un’interpretazione creativa.
Bisogna, d’altro canto, ammettere che il potere nomopoietico della
giurisprudenza riceve autorevoli incoraggiamenti da parte di illustri autori.
Cito, ad esempio, qualche passo di Paolo Grossi in un suo recente scritto
sul diritto postmoderno (pubblicato in Percorsi giuridici della post-
modernità, a cura di Roberto E. Kostoris, Il Mulino, Bologna, 2016, 40 s.):
«Dovremmo toglierci di dosso quella veste strettissima dell’esegesi che la
modernità ci ha buttato sulle spalle rendendoci servi della legge.
Dovremmo smettere di gloriarci di questa servitù, che ci impedisce di
svolgere il ruolo che ci viene attualmente richiesto: che non è il ruolo di
esegeti, bensì di interpreti inventori». «Inventori - precisa in nota l’illustre
A. - nel senso (suggerito dall’invenire latino) che vo ripetendo con
insistenza in questi ultimi anni: di cercatori di un ordine giuridico riposto,
non appariscente ma esistente: che va trovato, individuato, definito
tecnicamente».
Immagino che Grossi si riferisca soprattutto al diritto civile. Ma, trasferita
nel settore penale, è una prospettiva che può entrare in forte tensione con il
principio di stretta legalità che dovrebbe dominare questa materia. Credo
che la diffidenza verso la soggezione del giudice alla sola legge derivi da
un’idea ingenua di questo principio, inteso come schiavitù verso la lettera
della legge, come automatismo nell’applicazione della legge, non mediato
da un’attività interpretativa, secondo un brutale slogan del tipo, ‘la legge
non si interpreta, ma si applica’. Una prospettiva che nessuno oggi potrebbe
ragionevolmente sostenere e a cui, anche in passato, ben pochi devono
avere seriamente creduto. Se correttamente si intende la soggezione alla
legge come impegno interpretativo che, avendo come punto di partenza la
lettera del testo, individua con un’argomentazione sistematica il suo
plausibile significato in rapporto al thema decidendum, non v’è ragione di
deplorare la ‘servitù’ rispetto alla legge
Altro esempio. In un articolo apparso sulla Rivista di diritto penale
contemporaneo del 6 febbraio 2017, il Presidente della Cassazione
43
Giovanni Canzio afferma: «Poi c’è il linguaggio del Legislatore, che non è
mai stato del tutto prescrittivo ma che oggi è molto meno prescrittivo di un
tempo. Quel linguaggio è divenuto sempre più descrittivo e
programmatico». Non so, in verità, se questo sia detto in termini critici o
nella logica della condivisione. Concordo, però, sul fatto che il linguaggio
del legislatore stia perdendo progressivamente la sua efficacia prescrittiva.
Questa sta, purtroppo, a significare che la legge non è più legge; o meglio
si è trasformata in un testo su cui l’interprete può liberamente esercitarsi
alla ricerca del senso più conforme ai propri valori.
Aggiunge ancora Canzio. «Ormai una forma attenuata di stare decisis ci
avvicina ai sistemi di common law. La dicotomia classica basata sulla
diversa forza del precedente vincolo - vincolativo in common law e solo
persuasivo in civil law - mostra oggi la corda». Anche questo è vero. Ma è
un male, dal mio punto di vista, perché lo stesso principio di diritto fissato
dalla Cassazione non dovrebbe vincolare oltre i limiti segnati dal singolo
processo. Naturalmente l’interpretazione dei giudici di legittimità sarà
tenuta nel massimo conto; ma, ove esistano buone ragioni per ritenerla
errato, non si vede perché un giudice non possa disattenderla, motivando il
suo dissenso.
Va detto che una decisa spinta nella direzione qui criticata risale alle
sentenze gemelle della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007),
secondo le quali la Convenzione europea va applicata «come interpretata
dalla Corte europea»; in altri termini, le interpretazioni della Convenzione
europea, che i giudici di Strasburgo enunciano nella motivazione delle loro
pronunce, sarebbero vincolanti. Questo assunto non contraddice solo il
principio di soggezione alla sola legge, in forza del quale il giudice deve
ricevere solo «dalla legge l’indicazione circa le regole da applicare nel
giudizio» (così la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015);
vanifica anche la fondamentale distinzione tra motivazione e dispositivo.
Le decisioni di ogni organo giurisdizionale vincolano rispetto a ciò che
accertano, vale a dire rispetto a ciò che risulta dal dispositivo, che è, per
l’appunto, un comando o un enunciato performativo volto a risolvere la
singola controversia, a ‘imporre’ la parola del diritto (‘condanno’,
‘assolvo’, ‘dichiaro violato l’art. 6 della Convenzione europea’, ecc.). La
motivazione non ‘impone’ nulla, esprime le ragioni del decidere, il
percorso argomentativo seguito dal giudice in fatto e in diritto, condizione
necessaria perché la sentenza non risulti solo manifestazione di un ‘potere’,
ma anche frutto di un ‘sapere’. Tuttavia, come ogni attività puramente
conoscitiva, la motivazione non possiede alcuna forza vincolante: gli
argomenti e le ragioni non costituiscono comandi, valgono solo in forza
della loro persuasività. Per una elementare regola logica, prima ancora che
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giuridica – purtroppo ignorata dalle sentenze ‘gemelle’ - non si può
trasformare un esercizio di ragione in un comando. Le ragioni convincono,
gli ordini vincolano.
Questo, naturalmente, non esclude che la motivazione possa svolgere una
funzione ‘interpretativa’ del comando racchiuso nel dispositivo,
chiarendone il significato, quando questo appaia dubbio; né che il
dispositivo possa richiamare per relationem una frase della motivazione,
integrando in tal modo il contenuto del comando. Ma, in entrambi i casi,
l’effetto vincolante deriva unicamente dal dispositivo il cui senso viene
ricostruito in sede interpretativa: non una sillaba della motivazione può
essere convertita in un comando, se non nella stretta misura in cui il
dispositivo l’abbia implicitamente o espressamente recepita. Le ragioni
espresse nella motivazione corrispondono a opinioni e convinzioni più o
meno solide, più o meno determinate nei contorni; e, sino a che il giudice
non le traduce in comandi o in categoriche asserzioni attraverso il fiat del
dispositivo, non possono assumere efficacia vincolante; così come, in una
legge o in un codice, la relazione illustrativa, pur di grande utilità a fini
interpretativi, è priva della forza prescrittiva, riservata solo al testo delle
singole disposizioni.
Vengo alle conclusioni. Il dilemma che si apre a questo punto è chiaro.
Assecondare o semplicemente non opporsi alla deriva del diritto vigente,
ormai ridotto ad una funzione più programmatica che prescrittiva,
equivarrebbe a spostare l’asse della legalità dalla legge alla giurisprudenza;
soluzione quasi auspicata da chi ritiene inevitabile la supplenza della
magistratura a fronte di un potere legislativo privo di una visione organica
e spesso incline ad assecondare istanze populistiche ed emotive. Ma la
tutela della legalità e della insopprimibile esigenza di certezza del diritto
non può certo realizzarsi spontaneamente attraverso uniformi indirizzi
giurisprudenziali. Si finirebbe allora per attribuire alla Corte di cassazione
un potere di interpretazione vincolante analogo a quello riconosciuto alla
Corte europea; e un preciso segnale in questo senso è già contenuto il
nuovo testo dell’art. 618 c.p.p. dove, a seguito della riforma ‘Orlando’, si
obbliga la singola sezione, che non condivida «il principio di diritto
enunciato dalle Sezioni unite», a rimettere «a queste ultime, con ordinanza,
la decisione del ricorso».
Dal mio punto di vista il rimedio sarebbe peggiore del male. Consentire che
il diritto vivente, pur dotato della massima autorevolezza, possa de facto
modificare il diritto vigente equivarrebbe a vanificare definitivamente il
principio della soggezione del giudice alla sola legge. L’interpretazione
della legge si convertirebbe di fatto in un vero e proprio potere
nomopoietico, concentrato in una sede verticistica, slegata da qualsiasi
45
rappresentatività; il vincolo ai dicta dei giudici di legittimità ridurrebbe
sensibilmente lo spazio del contraddittorio sulle questioni di diritto e si
sopprimerebbe quella preziosa dialettica con i giudici di merito che può
indurre la Cassazione a rivedere e perfezionare i propri indirizzi. Il minimo
che a questo punto si dovrebbe pretendere è di trasformare la Cassazione in
un organo elettivo, collocato presso il Parlamento.
Contrastare questa deriva, rivendicando effettività al primato democratico
della legislazione e al principio della soggezione del giudice alla sola legge,
appare un compito assai difficile; quasi una sfida impossibile, perché
implica una condizione oggi del tutto assente, ossia l’impegno del
legislatore alla chiarezza e precisione del linguaggio e, quindi, al rispetto in
materia penale dei principi di stretta legalità e di tassatività. Ma è anche un
compito perfettamente ragionevole. Non è un buon metodo quello di
arrendersi ed accettare come inevitabile l’inefficienza di un potere
legislativo, che, per non assumere la responsabilità delle sue scelte, si
relega a suddito di quello giudiziario. Sino a che resta ferma la tripartizione
dei poteri, compito della magistratura non è di ‘revisionare’ o di
‘perfezionare’ le leggi, ma di ‘interpretarle’, tenendo conto dei rapporti di
gerarchia e di successione che si pongono tra le diverse fonti normative; le
disfunzioni di un potere non possono trovare il correttivo nelle disfunzioni
di un altro potere. Come giustamente osservato da Luigi Ferrajoli,
«nell’attuale dissesto della legalità non c’è nulla di naturale e di inevitabile,
essendo ben possibile una sua rifondazione che la scienza giuridica non può
non promuovere progettando, in attuazione del paradigma costituzionale, le
garanzie idonee a restituire alla legislazione capacità regolative».
Grazie.
RELAZIONE DEL PROF. AVV. ALESSANDRO GAMBERINI (II^
PARTE)
Il Prof. Ferrua ha aperto un capitolo che meriterebbe da solo ben altre
riflessioni, quindi non mi ci inoltrerò, se per non per fare osservare che lo
svanire della tipicità della fattispecie - che attiene sia al modo di
formulazione, sia al modo di interpretazione, sia all’aggancio a input
sovranazionali che mettono in tensione l'ordinata lettura del sistema
ordinamentale - va misurata rispetto alla dinamica del processo. Di fatto è
in particolare rispetto al Magistrato inquirente che si manifesta l'assenza di
tipicità. Ciò che è carente in fase di giudicante, lo è esponenzialmente
quando in una fase ancora magmatica del procedimento. Un potere dunque
di fatto sempre più sottratto alla sottomissione alla legge. I Magistrati
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vanno selezionati per concorso, ma non ho più la stessa convinzione
rispetto ai Pubblici Ministeri. L’iniziativa delle Camere Penali, che hanno
sottolineato la necessità della separazione delle carriere, è ormai del tutto
inadeguata e sotto il livello della questione che poneva il Prof. Ferrua.
Le conseguenze penose per i cittadini coinvolti nel processo penale si
svolgono (spesso esclusivamente) in via anticipata, comunque attraverso la
stigmatizzazione pubblica, quando non con l’esecuzione di misure
cautelari: il diritto penale ha perduto sul piano sostanziale il rispetto della
sua frammentazione, che era un principio di garanzia essenziale, come
diritto penale posto a tutela dei beni. La tutela è divenuta onnivora, capace
di utilizzare sotterraneamente l’analogia in malam partem pur di venire
incontro, secondo le cadenze di un populismo penale diffuso, alla domanda
indistinta che proviene o si assume provenga dalla società civile. Le scelte
sono divenute scelte di politica penale dietro la maschera vuota
dell'obbligatorietà dell'azione penale e dunque in fase di indagine non si
può più di fare affidamento su soggetti che non hanno nessuna
legittimazione per operare la scelta.
Apro un tema sul quale so benissimo quali sono i problemi, il rispetto
dell'autonomia, la possibilità di evitare che altre forme di selezione diano
luogo a sacche di immunità, ma questo mi pare il tema.
Una battuta sulla riparazione, di cui pure il nostro interlocutore dottor
Marini si proclama soddisfatto, perché ne coglie il significato deflattivo.
Il significato deflattivo c’è, figuriamoci, ma si può operare una deflazione
senza tener conto del significato della tutela, cioè senza tener conto che non
puoi deflazionare monetizzando la tutela della persona e dell’incolumità.
Possiamo creare un prepotente seriale impunito solo perché capiente?
Intendo dire che anche quando ci si inoltra nell’ambito della deflazione il
tema non sono solo i numeri, la gerarchia dei beni andrebbe rispettata.
In questo caso averla allargata non solo ai reati contro il patrimonio, per i
quali questa deflazione sarebbe fisiologica, ma ai reati contro la persona
viola un principio fondante anche un aspettativa sociale di giustizia. Non si
comprende tra l'altro perché in questo contesto sia stata esclusa la violenza
privata e gli stessi reato contro il patrimonio quando provocano danni di
rilevante entità: in quest'ultimo caso il pagamento ne sanerebbe comunque
gli effetti lesivi.
RELAZIONE DEL PRES. DOTT. LUCA MARINI (II^ PARTE)
Prima di fare un brevissimo contrappunto su alcuni spunti molto
interessanti che gli illustri Relatori hanno individuato, sfogliando ho
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trovato un’altra norma del pot-pourri, perché questa è una miniera, la
Riforma Orlando, e l’ho anche già applicata, per cui avrei dovuto
ricordarmene prima: l’art. 72 bis, che finalmente ha posto fine a quella
agonia dell’imputato che è sopravvenuto incapace, infermo di mente, che
ogni 6 mesi bisognava noiosamente rinviare, ripetere la perizia per far
accertare che non era in grado di seguire il processo. Finalmente, e questa è
una nota positiva, non posso che parlarne bene, dice: se viene finalmente
accertato che lo stato di incapacità mentale è irreversibile, il Giudice
pronuncia sentenza di non luogo a procedere e non se ne parli più. La
norma è bellissima, già ho sentito alcuni miei colleghi del Servizio
Antimafia Permanente Effettivo sostenere che però bisogna stare attenti
perché potrebbero esserci delle resurrezioni improvvise di malati più o
meno terminali che una volta che sono stati prosciolti improvvisamente
risorgono come Lazzaro dal proprio sepolcro, però questa mi sembra
veramente una critica maligna e maliziosa che non merita di contrastare
quello che è l’aspetto positivo di questo art. 72 bis.
Il valore del precedente giurisprudenziale, argomento affrontato dal Prof.
Ferrua, è uno degli argomenti più interessanti degli ultimi anni nella
giurisprudenza. Non parlo del merito, perché non a caso Canzio ha espresso
quel parere da neonominato Presidente della Suprema Corte, carica alla
quale tiene molto non soltanto per se stesso ma soprattutto per i significati
sostanziali che ne derivano nel rapporto tra la giurisprudenza della
Suprema Corte e le giurisdizioni, compresa la Cassazione. Non a caso sono
state introdotte queste norme che regolano i rapporti tra le Sezioni Semplici
e le Sezioni Unite, perché prima erano lasciate alla normazione secondaria
della Corte, adesso sono di norma primaria e quindi diventano vincolanti.
Ma i rapporti del Giudice di merito con giurisprudenza di Cassazione non
sono al momento esenti da normazioni, non primarie ma secondarie sì.
Esiste una norma del Codice Disciplinare, e voi sapete che il Codice
Disciplinare per i Magistrati adesso determina l’esercizio obbligatorio
dell’azione disciplinare, impone al Magistrato che dissente rispetto a
principi consolidati delle Sezioni Unite di motivare adeguatamente, se non
lo fa o se omette la motivazione si espone a procedimento disciplinare, e
questa mi sembra già una strada aperta verso l’introduzione del precedente
vincolante, perché io posso non aver motivato per inettitudine, per
ignoranza, per faciloneria, però sta di fatto che, francamente, mi sembra
una deroga al principio del fatto che il Giudice è soggetto soltanto alla
Legge ed è obbligato a motivare rispetto alla sua soggezione alla Legge,
non rispetto alla sua soggezione al precedente, sia pur autorevole, delle
Sezioni Unite. Questa, francamente, a proposito di creatività, mi sembra
una creatività piuttosto pesante. Ovviamente, l’azione disciplinare
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comporta tutta una serie di problematiche relative al carriera del singolo
Magistrato, che può darsi che lo porti a essere acquiescente per pavidità,
ma tutto sommato credo che la pavidità possa rientrare nella fisiologia del
comportamento umano, ma mi sembra più grave la previsione di una simile
rivoluzione copernicana delle gerarchie delle fonti decisionali che si è fatta
passare sotto traccia soltanto attraverso mere prassi applicative.
Con questo non voglio portare via altro tempo. Grazie.
AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE
Noi avremmo finito il secondo giro, al quale mi fa piacere che i Relatori
abbiano acceduto di propria iniziativa, questo a dire che forse abbiamo
fatto la scelta giusta di fare anche il secondo per gli interventi.
Chiederei ai colleghi se ci sono questioni da proporre ai nostri Relatori.
DIBATTITO
Avv. Giorgio Bortolotto
Mi chiedo solo se un rimedio a questo indirizzo vincolante della
giurisprudenza non potrebbe essere una riforma dell’art. 106 della
Costituzione, cercando di aumentare il numero degli Avvocati che vanno a
far parte della Corte in maniera stabile. Questo mi stavo chiedendo.
Avv. Luigi Ravagnan
Io sono uno dei responsabili, anzi, mi sento responsabile per l’eliminazione
della Legge Pecorella, perché ho partecipato al giudizio dinnanzi alla Corte
Costituzionale sostenendo l’annullamento della legge. Di fronte a me, come
Avvocato e non come Giudice costituzionale, c’era il Prof. Frigo, ci siamo
battuti, e ritengo che fosse una brutta legge, scritta male e anche aggressiva
di beni fondamentali.
Una riflessione: attenzione nel riportare le norme ed ampliare la
procedibilità a querela di molti reati, la problematica delle condotte
riparatorie. E’ vero, il Legislatore è quel che è, però mi sembra che non
abbia sufficiente tutela comunque il danneggiato dal reato; cioè chi subisce
il reato è la vera e propria persona offesa/danneggiata e, tutto sommato,
anche, ovviamente, l’imputato innocente. Ci sono delle prassi e delle
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sistematicità evidenziate vieppiù da questa normativa che sono, ritengo,
molto, molto aggressive della libertà del cittadino.
Io ringrazio molto dell’altissimo livello della riflessione e auspico, nel mio
piccolo, non sono nulla, il ritorno alla legge, perché solamente il ritorno
alla legge ci sposta da ordinamenti come quelli evocati nazisti oppure al
vecchio diritto veneziano, anche quello interpretativo. Dobbiamo fuggirlo
come un grande male, perché solo la tassatività può dare tutela, a mio
avviso, sia all’imputato che alle vittime dei reati.
Grazie.
AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE
Chi vuole rispondere?
PROF. AVV. PAOLO FERRUA
Quanto alla legge Pecorella, concordo sull’infelice clima politico in cui era
maturata così come su alcune sue incoerenze. Senza dubbio sussiste
l’esigenza di avere rimedi sia contro l’ingiusta condanna sia contro
l’ingiusta assoluzione. Nondimeno, essendo la prima ben più grave della
seconda, non pare irragionevole che contro la condanna sia prevista la
doppia garanzia dell’appello e del ricorso in cassazione e che, invece,
contro l’assoluzione sia consentito solo il ricorso; il quale, essendo ormai
esteso anche al raffronto tra gli atti del processo e la sentenza, dovrebbe
essere più che sufficiente a rimediare a gravi errori nell’assoluzione. Non
va, d’altronde, dimenticato che l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti
civili e politici garantisce all’imputato, in caso di condanna, il diritto al
riesame della colpevolezza, senza prevedere alcun simmetrico diritto al
pubblico ministero contro l’assoluzione.
La Corte costituzionale nella sentenza n. che ha dichiarato illegittima la
soppressione dell’appello avverso l’assoluzione è incorsa in una grave
contraddizione. Dapprima afferma che «l’eliminazione del potere di
appello del pubblico ministero non possa ritenersi compensata – per il
rispetto del principio di parità delle parti – dall’ampliamento dei motivi di
ricorso per cassazione, parallelamente operato dalla stessa legge n. 46 del
2006 (lettere d ed e dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., come sostituite
dall’art. 8 della legge): e ciò non soltanto perché tale ampliamento è sancito
a favore di entrambe le parti, e non del solo pubblico ministero; ma anche e
soprattutto perché – quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi
casi di ricorso – il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame
di merito, consentito dall’appello». Ma poco dopo, dovendo rendere conto
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dei rimedi concessi contro la condanna pronunciata in appello nei riguardi
dell’imputato già assolto in primo grado, sostiene che la semplice
previsione del ricorso in cassazione sarebbe, invece, sufficiente a garantire
il diritto al riesame previsto dal Patto internazionale. La disparità del metro
di valutazione non potrebbe essere più manifesta, specie nel contesto di un
giudizio volto a censurare ‘diseguaglianze’. Grazie.
Avv. Luigi Ravagnan
Vorrei dire una cosa molto rapidamente. E’ vera l’obiezione, ma ricordo
che l’Unione delle Camere Penali, il centro Marongiu, di cui
immeritatamente ho fatto parte per qualche anno, aveva proposto una
normazione in base alla quale, ove vi fosse stata una prospettiva di riforma
della sentenza di primo grado, la riedizione di un giudizio di primo grado.
PROF. AVV. PAOLO FERRUA
Era Nappi che lo proponeva.
Avv. Luigi Ravagnan
Esatto. Avevamo come Commissione elaborato anche un testo di sistema...
PROF. AVV. PAOLO FERRUA
Rescindente.
Avv. Luigi Ravagnan
Rescindente nuovo giudizio.
PROF. AVV. PAOLO FERRUA
L’unico guaio è che per passare da un’assoluzione a una condanna con quel
sistema ci vogliono cinque gradi!
Avv. Luigi Ravagnan
Ma c’è un problema ulteriore, che non è un problema, è una garanzia per
l’imputato: ci vuole una sentenza dove la prova d’accusa sia sicura oltre
ogni ragionevole dubbio. Ecco anche perché la possibilità di limitare la
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ricerca, per non modificare arbitrariamente un nuovo giudizio contro
l’imputato. Questo ci tenevo a dirlo.
Seconda osservazione e ho veramente finito. Il punto è questo: rendiamoci
conto, io spesso mi trovo ad assistere persone offese, ma anche imputati, e
lo sa bene il Presidente Marini. La persona offesa oggi si trova spesso ad
avere davanti reati punibili a querela, le condotte riparatorie vere o
presunte, davanti a un Giudice unico; evviva Dio, davanti a un Giudice
unico, con reati anche puniti fino a 10 anni, ma l’errore giudiziario, anche
contro la logica e la tutela della vittima del reato, vogliamo dire che c’è? E
allora evviva l’appello per tutti, un appello vero, perché a volte non c’è
altra tutela per la vittima, anche nei reati contro il patrimonio!
Grazie.
PRES. DOTT. LUCA MARINI
Intervengo un secondo su questo punto.
Ha ragione, secondo me, il Prof. Ferrua che in realtà il ricorso per
Cassazione adeguatamente parametrato ai criteri vigenti sarebbe
sufficiente, perché se è dubbia l’assoluzione o la condanna, il dubbio
permane.
Un mio simpatico collega, diciamo molto liberal in materia di consumo di
stupefacenti, si ostinava ad assolvere continuamente questi ragazzotti che si
coltivano la piantina di marijuana in casa, sotto il profilo che era destinato a
consumo personale. Ma è notorio che l’art. 75 non contempla la
coltivazione e quindi sistematicamente il P.M. faceva ricorso per
Cassazione e sistematicamente la Cassazione lo accoglieva, restituiva tutto.
Finché alla sesta o settima volta mi è arrivata una nota, girata per vie
gerarchiche, quindi a me direttamente, dal Presidente della Corte che mi
invitava a chiarire il comportamento di questo collega perché in sede di
rapporto valutativo sulla sua professionalità non fosse scritta una riga sul
perché questo si ostinava a infischiarsene della legge e degli orientamenti
giurisprudenziali consolidati. Questo unisce le due problematiche. Lui
creativo, cattiva la Cassazione che si è stufata di questi continui ricorsi.
Però la strada sul rispetto della Suprema Corte per via giurisprudenziale
resta drammaticamente aperta.
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AVV. ALESSANDRO GAMBERINI
Due battute su questo. Adesso non so se la presenza degli Avvocati in
Cassazione sarebbe taumaturgica, perché non sopravvalutiamo il nostro
ruolo, anche se sarebbe importante per portare il segno di una diversa
esperienza professionale e culturale. Devo dire, non conosco da questo
punto di vista la giurisprudenza del CSM, non so quante proposte
eventualmente fatte da Avvocati del libero Foro, da Professori universitari,
di far parte della Cassazione siano state respinte. Quindi non penso che
occorrerebbe modificare l’art. 106, considero oggi le modifiche
costituzionali pressoché impraticabili, visti gli equilibri di sistema. In realtà
se si modifica l’art. 106 occorrerebbe rimeditare il significato dell’accesso
alla carriera giudicante, dell’accesso alla carriera di Cassazione.
Una parola sola spendo a favore dell’abolizione dell’appello da parte del
Pubblico Ministero, ne sono profondamente convinto, nonostante che
abbia difeso nella mia esperienza professionale, com’è noto, spesso anche
vittime e associazioni delle vittime. L'attuale morfologia del giudizio di
appello, necessariamente modificato anche da orientamenti
giurisprudenziali di legittimità e sovranazionali, ne ha fatto un oggetto
strano: se non è più cartolare appesantisce sempre più i procedimenti
proponendo contraddittori tardivi e inadeguati finendo per stravolgere – è il
caso dell'appello di un proscioglimento pronunciato in un giudizio
abbreviato incondizionato - anche la scelta difensiva alla quale si sottrae
irragionevolmente un grado di giudizio se si segue la strada imboccata dal
giudice di legittimità per la quale sarebbe imposta comunque l'audizione
del teste.
Avv. Luigi Ravagnan
Solo l’appello della parte civile, però, spero, non quello dell’imputato .
AVV. ALESSANDRO GAMBERINI
Ma certo. No, io penso all’appello del Pubblico Ministero contro le
sentenze di proscioglimento, di cui si parlava prima. Sotto questo profilo la
parte civile può sempre trovare un’eventuale tutela in sede civile.