UNIONE DELLE CAMERE PENALI DEL VENETO SEMINARIO LUCI … · CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO...

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Ordine Avvocati Venezia FONDAZIONE FELICIANO BENVENUTI CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI” UNIONE DELLE CAMERE PENALI DEL VENETO SEMINARIO LUCI ED OMBRE DELLA “RIFORMA ORLANDO” (L. 23 giugno 2017, n. 103) Presidenza Avv. Annamaria Marin Presidente Camera Penale Veneziana Introduzione Avv. Alessandro Rampinelli Commissione Cultura Relazioni Prof. Avv. Paolo Ferrua già Professore Ordinario di Diritto Processuale Penale nell’Università di Torino Avvocato nel Foro di Torino Avv. Alessandro Gamberini Avvocato nel Foro di Bologna Docente di Diritto Penale nella Scuola Superiore di Studi Giuridici dell’Università di Bologna Pres. Dott. Luca Marini Presidente di Sezione Penale nel Tribunale di Ferrara Dibattito e repliche venerdì 27 ottobre 2017 ore 15.00 – 19.00 Centro Cardinal G. Urbani Via Visinoni n. 4/c – Zelarino (Venezia) 3 crediti formativi Per iscrizioni, procedere attraverso il portale web: www.ffbve.it Segreteria Organizzativa Camera Penale Veneziana S. Croce 430 Venezia tel. 041.5209155 fax 041.5203106 e-mail [email protected]

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Ordine Avvocati Venezia FONDAZIONE FELICIANO

BENVENUTI

CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI”

UNIONE DELLE CAMERE PENALI DEL VENETO

SEMINARIO

LUCI ED OMBRE DELLA “RIFORMA ORLANDO”

(L. 23 giugno 2017, n. 103)

Presidenza Avv. Annamaria Marin

Presidente Camera Penale Veneziana

Introduzione Avv. Alessandro Rampinelli

Commissione Cultura

Relazioni Prof. Avv. Paolo Ferrua

già Professore Ordinario di Diritto Processuale Penale nell’Università di Torino Avvocato nel Foro di Torino

Avv. Alessandro Gamberini Avvocato nel Foro di Bologna

Docente di Diritto Penale nella Scuola Superiore di Studi Giuridici dell’Università di Bologna

Pres. Dott. Luca Marini Presidente di Sezione Penale nel Tribunale di Ferrara

Dibattito e repliche

venerdì 27 ottobre 2017 ore 15.00 – 19.00 Centro Cardinal G. Urbani

Via Visinoni n. 4/c – Zelarino (Venezia)

3 crediti formativi

Per iscrizioni, procedere attraverso il portale web: www.ffbve.it

Segreteria Organizzativa Camera Penale Veneziana S. Croce 430 Venezia

tel. 041.5209155 fax 041.5203106 e-mail [email protected]

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CAMERA PENALE VENEZIANA “ANTONIO POGNICI”

Unione delle Camere Penali del Veneto

Seminario

LUCI ED OMBRE DELLA “RIFORMA ORLANDO”

(L.23 giugno 2017, n.103)

Venerdì 27 ottobre 2017

PRESENTAZIONE DEL PRESIDENTE AVV. ANNAMARIA

MARIN

Buon pomeriggio a tutti.

Devo dire subito che io mi aspetto moltissimo da questi Relatori, perché

quando ho visto la rosa di nomi che Alessandro Rampinelli e la

Commissione Studio ci hanno proposto, ho detto: “Che bello!”. Sarà un

bellissimo pomeriggio stare ad ascoltare tre Relatori che abbiamo già avuto

il piacere in tante occasioni di apprezzare per la loro capacità di entrare a

fondo sui temi che di volta in volta gli abbiamo proposto di esaminare e

che ci hanno aiutato ad affrontare collettivamente.

Va un ringraziamento particolare per la disponibilità a presenziare a un

nostro seminario, che ho definito bellissimo ancora prima di sentire le loro

relazioni proprio per la qualità dei nostri Relatori. Ringrazio Alessandro

Rampinelli, che è l’anima di questo pomeriggio, con alle spalle la squadra

della Commissione Studio della Camera Penale Veneziana.

L’introduzione del tema sarà fatta da Alessandro Rampinelli. Faccio solo

una velocissima considerazione iniziale. Tutti i colleghi sanno che le

Camere Penali sono state impegnate in un braccio di ferro con la Riforma

Orlando, in particolare con un’astensione che ha avuto caratteristiche

importanti come non è accaduto in altre occasioni, in particolare per taluni

aspetti della riforma quali, ad esempio, la famigerata partecipazione a

distanza dell’imputato al proprio processo. L’articolato della Riforma

Orlando è molto più ampio, “Luci e ombre” è un titolo che coglie nel

segno, perché ci sono anche delle novità positive, ci sono poi i decreti

delegati per l’attuazione di quelle parti mancanti della riforma che

dovrebbero dare un quadro organico più complessivo al nostro processo

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penale. Guardiamo con ottimismo alla nostra capacità di essere presenti

nelle varie fasi del processo, governando i nuovi strumenti che la Riforma

Orlando ci ha dato.

Grazie veramente di cuore ai Relatori, ai quali ho chiesto di intervenire

oggi due volte, contenendo, se possibile, la propria relazione iniziale, per

poi avere noi la gioia di sentirli intervenire sugli interventi degli altri

Relatori in quel dibattito che sicuramente le loro parole susciterà e che

sicuramente il tema della Riforma Orlando di per sé scaturisce.

Do quindi la parola ad Alessandro Rampinelli.

RELAZIONE INTRODUTTIVA DELL’AVV. ALESSANDRO

RAMPINELLI

Buon pomeriggio a tutti.

Siccome le leggi sono destinate ad essere applicate ai cittadini e non sono

solo un affare di magistrati, avvocati e professori universitari, io credo che,

se chiedeste a qualche passante di dirvi di cosa tratti la cosiddetta Riforma

Orlando, vi risponderebbe senza esitazione “La prescrizione e le

intercettazioni”, perché di questo e di quasi nient’altro si è parlato nei

mass-media e nel corso del dibattito politico intorno a questa riforma.

Quello che la “riforma Orlando” ha partorito in tema di prescrizione lo

spiegherà - credo - soprattutto l’Avvocato Gamberini; secondo me, ha

partorito una sorta di aborto, che servirà a poco o nulla.

Quanto alle intercettazioni, nelle legge c’è solo qualche norma

programmatica, perché ci si limita a prevedere dei criteri direttivi per una

futura delega legislativa.

In realtà, la Riforma Orlando ha toccato moltissimi istituti della procedura

penale, oltre che alcuni del diritto penale sostanziale.

Di fronte a un contenuto così variegato c’è sempre da parte del tecnico la

tendenza a verificare se esista una sorta di filo rosso che possa in qualche

modo unire, dal punto di vista logico-sistematico, queste novelle

legislative; o comunque la tendenza a cercare di far emergere una direttiva

di fondo.

Probabilmente sono istituti così variegati, così diversi tra loro, che

diventerebbe una perdita di tempo cercare questo filo rosso.

Forse qualche direttiva generale, però, si può scoprire.

Alcune di quest direttive di fondo sembrano oscillano tra garantismo - non

troppo marcato e qualche volta solo apparente - ed esigenze che qualcuno

ha detto di efficienza del processo, ma che, secondo me, sembrano più di

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efficienza della “macchina giustizia”, che è una cosa diversa dal processo

penale.

Una prima direttiva di fondo credo che possa essere colta nel tentativo di

sgravare la Corte di Cassazione almeno di una parte del suo lavoro.

Il primo esempio è, senza dubbio, fornito dalla riforma della disciplina

dell’archiviazione. Oggi non si può più presentare ricorso per cassazione

contro il provvedimento di archiviazione, che sia esso decreto od

ordinanza. E’ stato previsto, invece, un inedito reclamo al Tribunale in

composizione monocratica; dico inedito perché “reclamo” è espressione

che appartiene alla procedura civile e che non si era mai visto nel Codice

di Procedura Penale.

C’è da chiedersi innanzitutto se - e sembra di sì - questo reclamo sia

un’impugnazione; non è una domanda soltanto dogmatica, perché

rispondere affermativamente significherebbe che ad essa devono essere

applicati tutti i principi e le disposizioni in materia di impugnazione,

compresa, in astratto, quella nuova norma della forma dell’impugnazione

prevista dall’art. 581, pensata, come vedremo, soprattutto per appello, ma

in realtà dettata in generale per le impugnazioni.

Poi, c’è da chiedersi come funzioni questo reclamo - io voglio solo gettare

sul tappeto determinate questioni, non voglio fare di più - che sembra

essere un’impugnazione che introduce una sorta di giudizio solo

rescindente: se il giudice monocratico non conferma il provvedimento di

archiviazione o non lo dichiara inammissibile, la nuova norma dice che egli

annulla il provvedimento oggetto di reclamo e ordina la restituzione degli

atti al Giudice che ha emesso il provvedimento. Sembra quasi un

annullamento con rinvio, come quello che avrebbe potuto fare un giudice di

legittimità, ma questo è un giudice di merito.

Si tratta di capire quali siano allora i confini di questo potere di

annullamento, dovremmo ricavarli da una norma credo scritta malissimo,

come il nuovo art. 410 bis del codice di procedura penale, che sembra

scritto da un bambino.

Affiorano allora interrogativi non semplici: ad esempio, poniamo che il

giudice per le indagini preliminari abbia pretermesso totalmente di

considerare un’opposizione della persona offesa: evidentemente c’è la

violazione dell’art. 410 bis; dovrà in questo caso il tribunale in

composizione monocratica limitarsi ad accertarlo e annullare con rinvio?

Oppure potrà comunque prendere in considerazione l’opposizione, se la

considerasse immediatamente ed evidentemente inammissibile?

Ed ancora, poniamo invece che il provvedimento di archiviazione si sia

diffuso sull’inammissibilità dell’opposizione, rilevando, ad esempio, che

non c’erano i requisiti di pertinenza e di rilevanza degli elementi di prova

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addotti dalla persona offesa a sostegno dell’opposizione. E poniamo che il

tribunale monocratico, invece, reputando ammissibile in astratto

l’opposizione in quanto ritiene che sussistano questi requisiti, annulli il

provvedimento di archiviazione: così facendo emette una valutazione che

vincola il GIP al quale vengono restituiti gli atti?

Più di qualche dubbio, quindi, nasce da questa norma.

Ancora: in Cassazione non si poteva discutere sulla valutazione di

infondatezza della notizia di reato emessa dal GIP in sede di archiviazione

e pare che oggi non ne possa discutere neppure davanti al Tribunale in

composizione monocratica investito del reclamo. Qualcuno ha detto che è

stata un’occasione mancata aver devoluto a un giudice di merito questo

reclamo e non avergli poi consentito, almeno espressamente, di effettuare

una valutazione tipica della giurisdizione di merito quale quella circa la

fondatezza o meno della notizia di reato.

Un altro sintomo di questo tentativo di sgravare la Cassazione del proprio

lavoro è il nuovo, chiamiamolo, divieto di autoricorso: l’imputato o

l’indagato non possono più sottoscrivere e presentare personalmente il

ricorso per cassazione.

E’ la norma che a me ha fatto più arrabbiare e dannare.

Abbiamo un sistema in cui il protagonista, proprio a livello normativo, è

l’imputato o l’indagato; tutti i diritti, le facoltà, le garanzie, sono

innanzitutto date all’imputato e poi estese all’indagato. Si dice anche che il

difensore esercita queste facoltà e questi diritti in quanto attribuiti

all’imputato, a meno che a quest’ultimo non siano riservati personalmente.

Coerentemente, tutte le impugnazioni possono essere presentate

dall’imputato in quanto tale, e tuttavia si è giustificata adesso questa

limitazione dicendo che la Cassazione è stufa - questo è stato detto - di

dover dichiarare inammissibili i ricorsi che sono sottoscritti personalmente

dall’imputato, ma che in realtà sono scritti dal difensore di fiducia o

d’ufficio che non è ancora cassazionista e che quindi, si è detto, non è in

grado di scrivere bene i ricorsi e fa lavorare inutilmente la Cassazione.

Questo potrà essere un argomento.

Io vorrei non percorrere i profili più strettamente dogmatici, che lascio ai

Relatori, ma soltanto richiamare la vostra attenzione su quel che ha detto la

prima sentenza della Cassazione sul tema, dato che proprio qualche giorno

dopo l’entrata in vigore della nuova norma la Cassazione è intervenuta

perché ne ha avuto la possibilità, che è stata offerta da un ricorso

sottoscritto da un inquisito in materia di mandato d’arresto europeo, il

quale, rendendosi conto di presentare, in quanto sottoscritto personalmente,

un ricorso incompatibile con la nuova norma, ha sollevato subito il

problema di legittimità costituzionale, invocando come parametri il settimo

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comma dell’art. 111 e l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti

dell’Uomo.

Questi profili li lascio a chi li sa meglio di me, io vorrei solo richiamare la

vostra attenzione su un finale farisaico della sentenza della Cassazione.

All’inizio della motivazione la Cassazione spiega che c’era il problema di

sgravare la Cassazione dei ricorsi inammissibili e dice che questa è una

considerazione di fatto.

E’ vero, non c’è dubbio che la ratio della nuova norma si fonda su una

considerazione empirica ed è altrettanto vero che ci sono molti ricorsi

scritti da avvocati che non sono cassazionisti e fatti firmare dall’assistito.

Alla fine della sentenza la Cassazione, però, prende in esame una possibile

obiezione e cioè quella del povero imputato che ha il difensore d’ufficio

che non è cassazionista: che può fare questo povero diavolo?

Ebbene, dice la Cassazione che questa è un’osservazione in punto di fatto e

che, quindi, essa non può rilevare ai fini dell’esplorazione giuridica della

questione; ma dice anche la Cassazione: “Tutto sommato non lamentatevi,

perché abbiamo già trovato noi il rimedio; un anno fa con una sentenza

delle Sezioni Unite ‘Taysir’ abbiamo detto che il difensore che sia un

avvocato non cassazionista può nominare come sostituto processuale per la

sottoscrizione del ricorso un cassazionista: ecco il rimedio”.

Io dico che bisognerebbe essere più onesti con se stessi e con gli altri,

perché se il difensore d’ufficio non cassazionista si fa semplicemente

prestare la firma da un cassazionista, siamo al punto di prima, il ricorso l’ha

scritto un giovane Avvocato e l’ha solo firmato un cassazionista e il

problema rimane.

Se, invece, il cassazionista vuol fare veramente il suo mestiere, cioè

appropriarsi del ricorso, si fa dare il fascicolo, si studia le carte e redige il

ricorso, ed allora dovrà pur essere retribuito, non c’è mica nulla di male a

dirlo.

Ma torniamo così al punto di prima, perché parliamo di quel povero

diavolo del difeso d’ufficio che non aveva forse neanche i soldi per pagarsi

il difensore d’ufficio non cassazionista.

Consentitemi di dire che la nuova norma finisce per sembrare ispirata a un

criterio di censo.

Si è sgravata ancora la Cassazione, seppur solo in prima battuta, anche

dell’impugnazione contro la sentenza di non luogo a procedere: siamo

ritornati ai tempi ante Legge Pecorella - può darsi che non sia un male,

tornare indietro non sempre è un male.

Adesso viene riformulato l’art. 428, ricompare l’appello contro la sentenza

di non luogo a procedere, forse con un’eccezione, anche se credo che da un

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punto di vista statistico sarà pressoché irrilevante, perché già un criterio

direttivo della delega - tradotto adesso una norma della bozza del nuovo

decreto di riforma delle impugnazioni che è appena stata sfornata dal

Governo e credo stia aspettando il parere della Commissione parlamentare

- ha comunque sancito l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a

procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda

o con pena alternativa; è difficile trovare un caso di una contravvenzione

che finisca in udienza preliminare, ma questa forse è un’eccezione.

Non può più presentare ricorso per cassazione la parte civile in quanto tale.

Si è giustificata questa scelta dicendo che da questa sentenza di non luogo a

procedere, se si guarda all’art. 652, la parte civile danneggiata non riceve

alcuna limitazione e quindi non è il caso di lasciare ad essa la possibilità di

ricorrere per Cassazione”.

I sostenitori ad oltranza, tra i quali non mi annovero, dell’istituto della parte

civile nel processo penale potrebbero forse lamentare qualcosa, perchè

potrebbero dire che, nel momento in cui al danneggiato è consentito

l’esercizio dell’azione civile del processo penale, non consentirgli poi

all’interno di quel processo, in cui il danneggiato ha scelto di esercitare la

sua pretesa civilistica, l’impugnazione della sentenza di non luogo a

procedere potrebbe risultare contraddittorio.

In realtà, questo per la Corte di Cassazione è un decongestionamento solo

in prima battuta, perché poi contro la sentenza di non luogo a procedere

della Corte d’Appello si può fare ricorso per Cassazione, anche se questa

volta è stato ridotto il novero dei motivi: adesso si può andare in

Cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere emessa in sede

d’appello solo per i primi tre motivi del 606, le lettere a), b) e c), in buona

sostanza non si può più chiedere di censurare la manifesta illogicità o la

contraddittorietà della motivazione, probabilmente con una similitudine

rispetto alla nuova norma prevista per il giudizio di cognizione normale;:

esiste infatti anche un nuovo art. 608, comma 1 bis, sempre introdotto dalla

Riforma Orlando, in base al quale, se il Giudice d’appello conferma la

sentenza di proscioglimento, anche in questo caso il ricorso per cassazione

è limitato ai motivi delle prime tre lettere dell’art. 606.

Da qualcuno è stata vista una similitudine perché - si è osservato - di fronte

a una conferma di non luogo a procedere da parte della Corte d’Appello si

è di fronte, per così dire, ad una doppia conforme di non luogo a procedere.

Ancora, è stato devoluto alle Corti di Appello il rimedio della rescissione

del giudicato, che prima era attribuito alla Corte di Cassazione dal 625 ter,

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Anche questo è uno sgravio solo in prima battuta, perchè in Cassazione si

può ritornare in quanto l’istituto è stato spostato all’interno del corpus

normativo che disciplina la revisione.

Qui sarà interessante sentire cosa pensano i Relatori: forse questa è una

luce della Riforma Orlando, perché, trasportando nella disciplina della

divisione la rescissione, si è fatto poi richiamo anche a due norme in tema

di revisione, con la conseguenza che adesso si consente la possibilità di una

sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza di fronte

a una richiesta di rescissione che lamenti che l’imputato è rimasto assente

per tutta la durata del processo.

Ma accanto alla luce - è un interrogativo che pongo - c’è un’ombra, perché

sicuramente si può ora ricorrere per cassazione contro il provvedimento che

si pronuncia nel merito sulla rescissione. Però sembrerebbe che ci si sia

dimenticati di prevedere espressamente l’impugnabilità dell’ordinanza che

dichiari inammissibile l’istanza di rescissione, perché in tema di revisione

c’è una norma ad hoc che lo consente e che non è richiamata dal nuovo art.

629 bis, che estende alcune disposizioni della revisione.

E sappiamo bene che una declaratoria di inammissibilità in questa materia

non è un evento di infrequente accadimento.

Qualche altro sgravio del lavoro della Cassazione, anche se di natura

indiretta, deriva da quelle nuove norme che, pur trovando un loro specifica

ratio nei singoli istituti cui pertengono, pur sempre in ultima analisi hanno

limitato i casi di ricorribilità per cassazione.

Due li abbiamo già visti, quello del ricorso contro la sentenza di non luogo

a procedere emessa dalla Corte di Appello e quello contro la sentenza che

conferma il proscioglimento in primo grado.

Un altro è stato previsto in tema di ricorribilità per cassazione contro il

patteggiamento, perché adesso si può ricorrere solo per “motivi attinenti

all’espressione della volontà dell’imputato” - è senz’altro una mia

mancanza, ma non sono riuscito bene a capire a cosa abbiamo pensato con

questa locuzione normativa - per il “difetto di correlazione tra la richiesta e

la sentenza”, per l’“erronea qualificazione giuridica del fatto” e per

l’“illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

Allora, riassumendo, una prima direttiva di fondo della “Riforma Orlando”

sembra essere quella di far lavorare meno la Cassazione, perché dicono che

lavori tantissimo e che perda un sacco di tempo ad occuparsi di ricorsi

inammissibili, per meglio dire di ricorsi che essa stessa ritiene

inammissibili.

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C’è poi la direttiva di fondo che potremmo definire un “laboratorio di

tentativi di codificazione del diritto vivente”.

La prima norma sintomatica di questa direttiva, norma molto importante, è

quella che, per intenderci, ha raccolto l’elaborazione giurisprudenziale già

sedimentata nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

e poi recepita nel nostro ordinamento con due sentenze delle Sezioni Unite,

le famose “Dasgupta” del 2016 e “Patarano” del 2017.

In buona sostanza, se il Pubblico Ministero appella la sentenza di

proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova

dichiarativa, la nuova norma stabilisce che “Il Giudice dispone la

rinnovazione dell’istruzione probatoria”.

Qui hanno codificato, però, il diritto vivente dicendo qualcosa di più e

qualcosa di meno di quello che aveva detto il diritto vivente.

Ad esempio, qualcuno ha detto che forse si è andati troppo in là, perché

anche recentemente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha precisato

che, anche se non si rinnova la prova prima di poter ribaltare l’esito

assolutorio del primo grado, non ci sarebbe violazione dell’art. 6 della

Convenzione se ed in quanto l’ordinamento interno assicuri comunque

adeguate garanzie contro le valutazioni della prova o le ricostruzioni dei

fatti arbitrari o irragionevoli.

Se dovessimo seguire questa precisazione della giurisprudenza della Corte

Europea, allora potremmo dire che forse, almeno nel diritto vivente del

nostro ordinamento giuridico, ci sono in qualche modo queste garanzie,

perché potrebbero essere reperite già in tutta la giurisprudenza che ha preso

l’abbrivio dalle Sezioni Unite “Andreotti”, cioè la giurisprudenza che

richiede un obbligo di motivazione rafforzata, particolarmente

approfondita, quando si tratta di ribaltare l’esito assolutorio.

Sotto un altro profilo, invece, è stato notato da alcuni commentatori che,

quando la giurisprudenza della Corte Europea e poi la nostra

giurisprudenza a Sezioni Unite hanno affermato questo principio che è

stato ora codificato, hanno fatto sempre riferimento alle prove decisive,

connotazione che mancherebbe nella nuova norma, e hanno detto che

“Decisiva non è solo la prova che appare immediatamente decisiva

nell’economia della motivazione della sentenza di primo grado, in quanto

deve ritenersi decisiva anche quella che sarebbe prospettata come tale dal

Pubblico Ministero appellante”, cioè quella prova che il Pubblico Ministero

ritiene decisiva e che invece la sentenza di primo grado, per assolvere

l’imputato, ha relegato ai confini della motivazione o magari proprio ha

trascurato.

Ma qui potremmo dire che forse le prove implicitamente decisive devono

esserci perché la Corte d’Appello le rinnovi per valutare se non si debba

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ribaltare l’esito assolutorio, perché, altrimenti, che si tratti o meno di prove

che sono decisive nell’economia della sentenza di primo grado o che siano

tali nella prospettazione del Pubblico Ministero appellante, è probabile che

la Corte debba fare una sorta di prova di resistenza, nel senso che, per

quanto il Giudice di primo grado abbia ritenuto che quella era una prova

decisiva ovvero che tale la abbia considerata il Pubblico Ministero

appellante, se la Corte di Appello la sottrae - com’è tipicamente avviene

nell’effettuazione della c.d. prova di resistenza - dal materiale probatorio e

il castello rimane su lo stesso, la conclusione è che evidentemente non si

trattava di una prova decisiva.

Si è posto un altro problema. La norma dice che la Corte d’Appello deve

disporre la rinnovazione dell’istruzione probatoria,e qualcuno ha detto:

anche se le doglianze del Pubblico Ministero appellante si appuntano su

una singola prova dichiarativa, una testimonianza, la norma sembra

imporre la rinnovazione dell’intera istruzione probatoria.

Su potrebbe replicare che è stata usata forse un’espressione un po’ troppo

amplificata, ma si dovrebbe intendere che, se devo rinnovare l’istruzione,

dovrò rinnovare la singola prova.

E’ anche vero, però, che dovrebbe esistere all’interno dell’accertamento

della responsabilità o non responsabilità un equilibrio tra prove a carico e

prove a discarico. Ora, se io mi metto a rinnovare quella prova a discarico

su cui si era fondata la sentenza di assoluzione e la rinnovo perché

evidentemente come Corte sono investita da un motivo di appello del

Pubblico Ministero che in me ha suggerito la necessità di guardare meglio,

se comincio a rompere un po’ l’equilibrio probabilmente dovrei cominciare

a riconsiderare anche l’attendibilità delle prove a carico, che evidentemente

nel nostro caso era stata negata o svalorizzata dal Giudice di primo grado.

Quindi, al di là dell’uso dell’espressione, bisognerà veramente vedere che

governo faranno le Corti d’Appello di questa nuova norma, che potrebbe

bloccare le Corti o comunque costringerle a un lavoro enorme, se si

dovesse cominciare a rimettere mano a tutta l’istruzione probatoria e

superare una volta per tutte, almeno in questi casi, la natura di controllo ex

actis che è propria dell’appello.

Un’altra annotazione: speriamo che questa riforma riesca a mettere un

punto fermo su quello che è stato un contrasto appena affiorato in

Cassazione, perché c’è una sentenza della Cassazione, che non riguarda la

nuova norma ma riguarda il diritto vivente codificato, che dice che tutto

questo discorso non si applicherebbe alle perizie ed agli esami dei

consulenti tecnici.

Onestamente io questa non l’ho proprio capita: pensiamo a processi come

quelli relativi alla colpa medica, dove spessissimo tutto o quasi ruota

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intorno a una perizia o a una consulenza e dove un appello contro una

sentenza assolutoria evidentemente non potrà che investire quella prova

dichiarativa.

Perché questa prova dichiarativa dovrebbe essere estraniata dal nuovo

principio?

Costituisce ancora un tentativo di codificazione del diritto vivente anche la

riforma dell’art. 581, che riguarda in generale la forma dell’impugnazione,

anche se è chiarissimo che l’occhio del Legislatore è rivolto soprattutto

all’appello.

Anche questa è una trasposizione normativa della sentenza delle Sezioni

Unite “Galtelli” del 2017, che ha richiesto anche la specificità estrinseca

dei motivi d’appello, in quanto afferma che l’appello è sì un’impugnazione

a critica libera, ma non nel senso che non ci possa essere nessuna

correlazione tra l’argomentare dell’appellante e le ragioni di fatto o in

diritto che sono state esposte nella sentenza di primo grado; deve esserci

una coerenza per cui l’appellante deve dire qualcosa che sia in connessione

funzionale e logica con quello che trova scritto nella sentenza.

Vale la pena ricordare un’ulteriore codificazione del diritto vivente attuata

dalla “Riforma Orlando”, anche si in questo caso sembra che si tratti del

frutto di una mens legislativa che non ha letto bene le sentenze o le ha lette

e non le ha capite, o forse le ha capite ed ha fatto finta di non capire, anche

se credo che questa terza ipotesi, tutto sommato la più benevola per la mens

legislativa, sia quella meno probabile.

Mi riferisco a quelle norme che in tema di giudizio abbreviato consentono

la rilevabilità solo delle nullità assolute e delle inutilizzabilità per divieti

probatori, ed a quella che preclude la proposizione in abbreviato della

questione di competenza per territorio.

Qui è una codificazione “a modo suo” del Legislatore, perché, in realtà, è

vero che, nell’ambito del giudizio abbreviato, la giurisprudenza aveva

fissato un principio per cui si potevano eccepire solo le nullità assolute e le

inutilizzabilità cosiddette patologiche, ma non è vero che aveva precluso

tout court la proponibilità della questione di incompetenza per territorio.

La sentenza delle SS. UU. “Forcelli” del 2012 aveva chiaramente definito il

regime dell’eccezione di incompetenza per territorio nel giudizio

abbreviato, distinguendo tra abbreviato tipico, ossia instaurato a seguito di

udienza preliminare, ed abbreviato atipico, ossia innestato su altri riti

speciali quali il giudizio immediato ed il procedimento per decreto.

Nel giudizio abbreviato atipico l’eccezione doveva ritenersi sempre

ammessa, mentre nel giudizio abbreviato tipico l’imputato deve sollevare la

questione in udienza preliminare in caso di rigetto, sarà legittimato a

reiterarla nel susseguente giudizio.

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La riforma Orlando, invece, esclude la proponibilità dell’eccezione di

incompetenza per territorio nel giudizio abbreviato tipico, segnando così un

passo indietro rispetto alla sentenza Forcelli.

Nel giudizio abbreviato atipico, invece, adotta soluzioni diversificate, non

si sa quanto consapevolmente.

In caso di abbreviato che si innesta sull’immediato richiesto dal PM,

l’imputato può proporre l’eccezione, ma deve farlo nella stessa richiesta di

abbreviato: qui la sentenza Forcelli è stata codificata.

Nel caso, invece, di abbreviato richiesto a seguito di decreto penale di

condanna, il richiamo secco operato nel 464, co. 1 al 438, co.6-bis sembra

precludere tout court all’imputato di eccepire l’incompetenza per territorio,

non essendo previsto che possa farlo neppure in sede di opposizione.

Se non si possono, come sembra che non si possano scorgere differenze

sostanziali tra le due ipotesi di abbreviato atipico, la diversità di disciplina

adottata nel caos del decreto penale di condanna sembra sollevare dubbi di

legittimità costituzionale.oponibilità della questione di “incompetenza per

territorio”.

Le Sezioni Unite “Forcelli” del 2012 avevano spiegato che nel giudizio

abbreviato tipico, quello a seguito dell’udienza preliminare per intenderci,

si deve proporre la questione di incompetenza per territorio al giudice

dell’udienza preliminare per poi, in caso di rigetto, evidentemente poterla

riproporre nel giudizio abbreviato successivamente incardinato.

La medesima sentenza, poi, aveva spiegato che nel giudizio abbreviato

atipico, quello che si innesta su altri riti speciali, la proponibilità della

questione era sempre consentita.

Il Legislatore, invece, ora dice che nei giudizi abbreviato tipico non si può

più sollevare la questione di incompetenza per territorio.

Invece, nei giudizi abbreviati atipici si può proporre l’eccezione, ma

bisogna farlo nella richiesta di giudizio abbreviato quando l’abbreviato si

innesta sul giudizio immediato richiesto dal P.M.; se, tuttavia, il giudizio

abbreviato si innesta nel procedimento di opposizione al decreto penale di

condanna, c’è un richiamo secco alla norma che preclude in termini

generali la proponibilità della questione di incompetenza per territorio.

Anche qua Dio solo sa perché l’eccezione non si potrebbe proporre

nell’opposizione al decreto penale di condanna.

Un’altra brevissima notazione sulle norme che stiamo esaminando.

E’ vero che era stata ammessa dalla giurisprudenza la rilevabilità delle

inutilizzabilità patologiche, ma, se non vado errato, il discorso della

giurisprudenza era più articolato, perché prevedeva due sottocategorie di

inutilizzabilità patologiche: quella per violazione di divieto probatorio e

quella delle cosiddette “prove incostituzionali”, cioè per la violazione di un

12

diritto della persona costituzionalmente tutelato indipendentemente dal

fatto che nella legge processuale si trovi, esplicito o implicito, un divieto di

impiego a fini di prova dell’atto.

Dopodiché, però, la giurisprudenza aveva cominciato a erodere la categoria

dell’inutilizzabilità per divieti probatori, nel senso che quasi più niente

rilevava come inutilizzabilità per divieto probatorio e diventavano

eccepibili solo l’inutilizzabilità per violazione dei diritti costituzionalmente

tutelati.

Guarda caso, di quest’ultime, però, nella nuova norma non si parla, perché

essa si riferisce solo a inutilizzabilità patologiche per violazione di un

divieto probatorio, cioè a quella categoria che è già svuotata dalla

giurisprudenza della Cassazione.

Viene da dire che in questo caso è stato codificato un aborto.

Concludo ricordando le parole dette dal Prof. Ferrua qualche mese fa in

quest’aula, quando ci ha fatto l’onore di partecipare come Relatore al

convegno sulla preclusione processuale.

Mi ricordo bene che lei, Professore, disse: “Io sono stufo del diritto vivente

“che diverge dal diritto vivente”.

Adesso lei non deve più essere stufo, perché oggi è la giurisprudenza che

crea le norme ed il Legislatore le applica, non viceversa.

Ma siccome il Legislatore ha un unico modo di applicare le norme, cioè

scriverle, non c’è più divergenza tra diritto vivente e diritto vigente: quello

che la giurisprudenza dice, il Parlamento lo scrive.

Cioè - ed anche questa volta prendo a prestito una felice espressione del

Prof. Ferrua - il Legislatore fa il maggiordomo della giurisprudenza.

Grazie per la pazienza.

AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

L’Avvocato Rampinelli ci ha abituato a un’introduzione che contiene

sempre numerosissime questioni e sollecitazioni agli interventi dei Relatori.

Nel pomeriggio di oggi il primo a intervenire sarà il Prof. Paolo Ferrua,

amico della Camera Penale Veneziana. Ci piace ascoltarlo, leggerlo,

sentiamo cosa ha da dirci su questo argomento. Grazie ancora per essere di

nuovo presente tra noi.

RELAZIONE DEL PROF. AVV. PAOLO FERRUA (I^ PARTE)

1. Grazie a voi per l’invito.

13

Esprimendo un’opinione del tutto personale, credo che nella serie delle

ormai numerosissime leggi, che hanno variamente inciso sul codice di rito,

la riforma Orlando tocchi il punto di massima decadenza. Dico questo sia

dal punto di vista del metodo, sia dal punto di vista dei contenuti. Parlerò

prima dei contenuti, per soffermarmi poi sul metodo.

Non saprei dire se il peggio stia nel metodo o nei contenuti, ma so invece

quale sia la parte migliore; e, paradossalmente, questa sta – mi si perdoni la

frase sibillina che chiarirò in seguito – proprio dove si è ritenuto di tacere

in ordine ad alcune questioni che in teoria avrebbero dovuto essere

affrontate.

2. Iniziando dai contenuti, la prima disposizione che mi porta ad esprimere

l’auspicio di un’interpretazione creativa da parte della giurisprudenza –

cosa singolare per chi come me è decisamente critico verso questo genere

di interpretazioni - è l’art. quella sul dibattimento a distanza. In questa

materia due sono le innovazioni più significative. In base alla prima, la

partecipazione al dibattimento a distanza viene resa obbligatoria per

l’imputato detenuto per uno dei reati indicati nell’art. 51, comma 3 bis e

nell’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p., anche nei processi relativi a

reati per i quali sia in libertà (art. 146 bis, comma 1, c.p.p.). Scelta

eccepibile per il suo automatismo, slegato da qualsiasi verifica sulle gravi

ragioni di sicurezza o di ordine pubblico che ipoteticamente potrebbero

entrare in bilanciamento con l’inviolabile diritto di difesa, nel quale è

incluso anche il diritto dell’imputato a presenziare fisicamente all’udienza.

La nuova disciplina muove evidentemente dal presupposto, di dubbia

legittimità costituzionale, che, a comprimere quel diritto, sia sufficiente

anche il semplice risparmio dei costi connessi alla traduzione da una sede

all’altra (il c.d. turismo giudiziario).

Va ancora peggio con il successivo comma 1-quater del medesimo art. 146

bis c.p.p.: «Fuori dei casi previsti dai commi 1 e 1 bis, il giudice può

disporre con decreto motivato la partecipazione a distanza anche quando

sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare

complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero

quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in

stato di detenzione presso un istituto penitenziario». Dunque, sulla base di

parametri vaghi e sfuggenti, come le ragioni di sicurezza e le esigenze di

celerità processuale, la partecipazione a distanza potrà essere disposta per

qualsiasi reato anche quando l’imputato sia a piede libero.

Si stenta a credere che ad un imputato con piena libertà di circolazione

possa essere vietato l’ingresso nell’aula dove si svolge il suo processo; che

gli sia consentito di recarsi ovunque, ma non nel luogo dove si discute della

sua colpevolezza e della pena che può essere inflitta. Immagino il dialogo:

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“- Scusi, posso entrare?

- No, tu no!

- Ma perché? È il mio processo e sono in stato di libertà …

- Vi sono ragioni di sicurezza e non possiamo perdere tempo: leggiti l’art.

146-bis comma 1-quater c.p.p.

- Ma il ‘giusto processo’ di cui parla la Costituzione?

- Appunto, stai ad una giusta distanza e collegati in via telematica.

Altrimenti vai a teatro, a cinema, ma qui no!”

Il conflitto con le garanzie costituzionali è così palese che verosimilmente

la disposizione non sarà mai applicata nei riguardi di imputati a piede

libero; ma è sconvolgente che si sia potuto concepirla, negando, per la

prima volta che io sappia, ad un imputato a piede libero di partecipare al

proprio processo.

3. Il nuovo testo dell’art. 438, relativo al giudizio abbreviato, esordisce con

un’iperbole: «La richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza

preliminare determina la sanatoria delle nullità, sempre che non siano

assolute, e la non rilevabilità delle inutilizzabilità salvo quelle derivanti

dalla violazione di un divieto probatorio. Essa preclude altresì ogni

questione sulla competenza». Benché la ‘sanatoria’ e la ‘non rilevabilità’

ivi previste siano direttamente collegate alla richiesta di giudizio

abbreviato, è evidente che l’effetto si realizza solo in quanto la richiesta sia

accolta, ossia disposto l’abbreviato. Sarebbe derisoria la sanatoria delle

nullità o delle inutilizzabilità per il fatto stesso della richiesta di abbreviato,

indipendentemente dal suo esito.

Ma, prescindendo da questa improprietà, la clausola relativa alla sanatoria

delle “inutilizzabilità” apre un netto divario tra ciò che presumibilmente si

intendeva dire e ciò che in realtà si è detto. Gli artefici della disposizione

intendevano, con ogni probabilità, riproporre la nota distinzione tra

inutilizzabilità ‘fisiologiche’, ossia connesse all’irrilevanza probatoria degli

atti compiuti nell’indagine preliminare in assenza di contraddittorio, e le

inutilizzabilità ‘patologiche’, derivanti dalla violazione delle regole

previste per la valida assunzione delle prove. Le prime non rilevabili,

avendo l’imputato stesso con la richiesta di abbreviato rinunciato al

contraddittorio nella formazione della prova. Le seconde, invece, rilevabili

in ogni stato e grado del processo, in coerenza con l’esclusione della

sanatoria per le nullità assolute. Supponendo che tale fosse l’intenzione,

sarebbe stato preferibile tacere, essendo del tutto ovvio che le

inutilizzabilità degli atti di indagine attiene alla fase del dibattimento e non

del giudizio abbreviato, che si svolge allo stato degli atti

Sennonché la nuova legge parla di inutilizzabilità «derivanti dalla

violazione di un divieto probatorio», e la relativa categoria è ben più

15

ristretta rispetto a quella della inutilizzabilità ‘patologica’. Infatti, mentre

quest’ultima, purché espressamente prevista, deriva da qualsiasi violazione

delle regole probatorie, i divieti probatori, correttamente intesi, riguardano

solo le regole di esclusione, ossia le regole che negano l’ingresso nel

processo a prove ritenute inammissibili; prove che il giudice non ha il

potere di assumere e, come tali, destinate a restare giuridicamente

irrilevanti, tamquam non essent.

In presenza di divieti probatori l’inutilizzabilità è in re ipsa, nel senso che

quand’anche non fosse espressamente comminata, sarebbe comunque

conseguente all’acquisizione della prova inammissibile, essendo il giudice

privo del potere di assumerla (l’assenza del potere determina l’inesistenza

giuridica dell’atto eventualmente compiuto).

Diverso è il caso delle regole che disciplinano le modalità di assunzione

della prova. Queste non costituiscono divieti probatori in senso proprio,

neppure quando la loro violazione sia espressamente sanzionata da

inutilizzabilità o da nullità (in assenza delle quali tali regole sarebbero leges

minus quam perfectae, la cui violazione è fonte di semplice irregolarità,

restando tuttavia l’atto pienamente valido). Né si potrebbe replicare che il

divieto probatorio sia deducibile, per così dire a contrario, dalla regola che

positivamente prescrive certi adempimenti; se così fosse, ogni regola in

materia probatoria, anche la più insignificante, sarebbe convertibile in

divieto probatorio, tramite la sua formulazione negativa, con la

conseguenza di rendere superflua ogni previsione di nullità o

inutilizzabilità.

Ora, essendo dalla nuova legge dichiarate non rilevabili le inutilizzabilità,

salvo quelle derivanti da divieto probatorio, in base al dato testuale la

richiesta di giudizio abbreviato sortisce l’effetto di sanare tutte le

inutilizzabilità relative alle modalità di assunzione di prove, in sé

ammissibili perché non oggetto di un divieto probatorio. Ad esempio, in

materia di intercettazioni, sarebbe sempre rilevabile l’inutilizzabilità di

un’intercettazione disposta per reati che non la consentono e, come tale,

inammissibile ai sensi dell’art. 266 c.p.p. (Limiti di ammissibilità); non

sarebbe, invece, rilevabile l’inutilizzabilità derivante dalla violazione delle

regole contemplate negli artt. 267 (Presupposti e forme del provvedimento)

e 268, commi 1 e 3, c.p.p. (Esecuzione delle operazioni). Esito palesemente

irrazionale rispetto all’esplicita esclusione di qualsiasi sanatoria per le

nullità assolute.

Può darsi - ed è in qualche modo auspicabile - che la giurisprudenza, sulla

base di un argomento a fortiori, rimedi alla contraddizione, estendendo il

concetto di divieto probatorio sino ad includervi ogni violazione di regola

sanzionata da inutilizzabilità, portandolo così a coincidere con l’intera

16

inutilizzabilità patologica; soluzione alternativa a quella più complessa e

laboriosa della questione di legittimità costituzionale per palese contrasto

con il principio di ragionevolezza. Resta, tuttavia, deplorevole la grave

disfunzione di linguaggio del legislatore, incapace di esprimere

correttamente le sue scelte, anche quando queste risultano, almeno nelle

intenzioni, condivisibili.

4. Poche parole sulle modifiche introdotte agli artt. 407 e 412 c.p.p. in tema

di durata massima delle indagini preliminari e di avocazione da parte della

Procura generale presso la Corte d’Appello. Come noto, sin dall’entrata in

vigore del codice 1988 Franco Cordero ha sostenuto che l’intera disciplina

dei termini per le indagini preliminari sarebbe del tutto estranea alla logica

di un processo accusatorio, riflettendo, invece, un garantismo formalistico,

tipico del sistema inquisitorio; tesi senza dubbio coerente con un ideale

processo accusatorio, caratterizzato da indagini prive di rilevanza

probatoria e da un rapido passaggio al dibattimento. Tuttavia, considerato

che nel sistema vigente l’indagine, appesantita da notevoli formalismi, può

spesso protrarsi a lungo e ad assumere valore probatorio a vari effetti

(procedimenti speciali, misure cautelari e, entro certi limiti, dibattimento),

la scelta di fissare dei termini di durata massima appare in qualche modo

giustificata.

La logica, tuttavia, vorrebbe che entro quei termini non solo le indagini

fossero concluse, ma altresì assunte le determinazioni del pubblico

ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di

archiviazione. Viceversa, nella nuova disciplina, dalla scadenza del termine

di durata massima delle indagini e, comunque, dalla scadenza dei termini di

cui all’art. 415 bis c.p.p. decorrono nuovi termini per le scelte del pubblico

ministero; il mancato esercizio di quelle scelte determina l’avocazione delle

indagini da parte del Procuratore generale presso la Corte d’Appello, a

seguito della quale, a loro volta, decorrono altri termini per le richieste.

Il comma 3 bis dell’art. 407 c.p.p. stabilisce, infatti, che «il pubblico

ministero è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione

entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata

delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415-

bis»; termine che su richiesta del pubblico ministero procedente può essere

prorogato per non più di tre mesi dal procuratore generale presso la corte di

appello nel caso di notizie di reato che rendano particolarmente complesse

le investigazioni. Per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), n. 1), 3) e

4) il termine sale a quindici mesi, mentre nulla è detto in ordine alla

possibilità di una sua proroga. Ove il pubblico ministero non eserciti

l’azione penale o non richieda l’archiviazione entro i termini previsti, il

procuratore generale presso la Corte d’Appello «dispone con decreto

17

motivato l’avocazione delle indagini preliminari»; a seguito della quale

«svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste

entro trenta giorni dal decreto di avocazione».

Ora che, ad indagini ormai concluse, debbano esser concessi termini così

ampi al solo fine di meditare sull’alternativa tra esercizio dell’azione

penale o richiesta di archiviazione appare davvero incongruo e poco

compatibile con l’obbligo della legge di assicurare la durata ragionevole

del processo. L’esperienza insegna che i termini massimi concessi per

svolgere determinati adempimenti finiscono quasi sempre per divenire

anche i termini minimi, essendo naturale la tendenza a sfruttarli per intero,

sino all’ultimo momento utile.

Non è chiaro, inoltre, se nel loro decorso sia o no concesso al pubblico

ministero di svolgere ancora indagini. Stando al dato testuale si direbbe di

no, essendo ormai esauriti i relativi termini; e, nondimeno, appare singolare

che il pubblico ministero debba restare inerte a fronte di qualsiasi esigenza

investigativa, influente sulle scelte per l’esercizio o no dell’azione penale

(dal sequestro di cose pertinenti al reato all’ascolto di persone informate dei

fatti).

Resta da stabilire se questa sequenza di termini, la cui scadenza genera

nuovi termini con un meccanismo di ritorno quasi ossessivo, riesca davvero

ad adempiere una funzione acceleratoria della fase delle indagini

preliminari; o se, per la menzionata tendenza dei tempi massimi a

stabilizzarsi come minimi, non finisca addirittura per decelerare quello che

sarebbe il normale decorso del procedimento in assenza di ogni termine.

5. Qualche rilievo sulla specificità dei motivi di impugnazione. Come noto,

con sentenza 27 ottobre 2016, n. 8825 le Sezioni Unite hanno affermato

che «l’appello al pari del ricorso per cassazione è inammissibile per difetto

di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e

argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a

fondamento della sentenza impugnata». Una decisione per certi versi

‘creativa’ nella parte in cui vincola la parte ad indicare nei motivi di

appello, a pena di inammissibilità, «le proposizioni argomentative

sottoposte a censura», enucleandole dalla sentenza impugnata: alla diade

contemplata dal codice vigente (motivi specifici, indicazione dei punti della

sentenza impugnata: art. 581 c.p.p.), subentra in via giurisprudenziale una

triade, perché si aggiunge l’obbligo di individuare le singole

argomentazioni da sottoporre a critica.

La riforma Orlando si propone di ratificare quest’indirizzo, agendo su due

fronti: i requisiti della sentenza e la forma dell’impugnazione. Il contenuto

della sentenza viene più analiticamente articolato dalla lettera e) dell’art.

546 c.p.p. con l’esplicita imposizione di obblighi motivazionali in rapporto:

18

(a) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono

all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica, (b) alla punibilità e alla

determinazione della pena ... e della misura di sicurezza, (c) alla

responsabilità civile derivante da reato, (d) all’accertamento dei fatti dai

quali dipende l’applicazione di norme processuali.

Apparentemente la ridefinizione adempie ad una funzione garantistica ma,

considerato che nella sostanza la struttura della motivazione non muta, si

comprende come la più dettagliata descrizione sia, almeno nelle intenzioni,

funzionale ad accrescere gli oneri dell’impugnante sotto il profilo della

specificità dei motivi. A quest’ultimo riguardo, infatti, l’art. 581 c.p.p.

subisce una quadruplice modifica con la quale: (a) si introduce

superfluamente una sanzione di inammissibilità già prevista dall’art. 591

c.p.p.; (b) si precisa che l’enunciazione del contenuto dell’impugnazione

deve essere «specifica»; (c) si aggiunge l’obbligo di indicare le «prove

delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o

erronea valutazione»; (d) si precisa che l’enunciazione delle richieste si

estende anche a quelle «istruttorie».

Ebbene, nonostante il palese fine di ratificare fedelmente l’indirizzo già

espresso delle Sezioni unite, non si può dire che il legislatore sia riuscito

nel suo intento. Infatti la riforma, a dispetto delle molteplici clausole volte

ad appesantire l’onere dell’impugnante, tace sull’unica condizione che

occorreva esplicitare per recepire quella giurisprudenza: ossia l’obbligo

dell’impugnante di enucleare dal contenuto della sentenza le singole

argomentazioni da sottoporre a critica. Nessun dubbio che la

giurisprudenza consoliderà il proprio orientamento nel senso indicato dalle

Sezioni unite; ma, ancora una volta, il linguaggio legislativo rivela tutta la

sua inefficienza.

L’espresso richiamo dell’art. 546 lettera e) c.p.p. all’obbligo di indicare

nella sentenza i “risultati acquisiti” e i “criteri di valutazione della prova

adottati” parrebbe finalizzato ad accrescere il contenuto della motivazione

e, quindi, le garanzie per l’imputato. Ma, considerato che tale obbligo è già

puntualmente menzionato dall’art. 192 c.p.p., si può ragionevolmente

sospettare che la funzione reale sia diversa; ossia, quella di atomizzare, di

frantumare i “punti” della sentenza, fino a farli coincidere di fatto con le

singole argomentazioni del giudice, costringendo per questa via

l’impugnazione a indicarle nei temini imposti dalla decisione della Sezioni

Unite.

Piuttosto insidiosa si rivela la disposizione secondo cui «l'impugnazione si

propone […] con l'enunciazione specifica, a pena di inammissibilità […] b)

delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o

l'omessa o erronea valutazione» (art. 581 c.p.p.). Letteralmente intesa, la

19

clausola implicherebbe l’impossibilità - in caso di mancata deduzione nei

motivi di appello - di eccepire nel corso del giudizio di secondo grado che

la condanna regge su una prova giuridicamente inesistente (ad esempio,

una perizia di cui non vi sia traccia in atti); conclusione palesemente

inaccettabile davanti alla quale si è, ancora una volta, indotti ad auspicare

la sua correzione in via giurisprudenziale. Incerti appaiono, inoltre, i

rapporti tra questa disposizione e l’art. 129 c.p.p. Le cause di non

punibilità, ivi contemplate, possono essere dichiarate dal giudice, anche

d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento; ma non è chiaro se tale

potere sia esercitabile anche quando la non punibilità derivi dal

riconoscimento di un vizio che la parte, a pena di inammissibilità, avrebbe

dovuto denunciare nei motivi di impugnazione, quale «l’inesistenza,

l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione» di una prova.

6. Rinnovazione del dibattimento in appello. Anche il nuovo comma 3 bis

dell’art. 603 c.p.p. è volto a recepire la giurisprudenza, questa volta della

Corte europea dei diritti dell’uomo. Con una serie di pronunce la Corte di

Strasburgo ha censurato alcune condanne disposte in grado di appello a

seguito di una diversa valutazione sull’attendibilità della prova dichiarativa,

affermando la necessità in simili casi di una rinnovazione dell’istruttoria

dibattimentale, ai sensi dell’art. 6 par. 1 CEDU; e, come sempre ha

formulato le sue conclusioni, tenendo conto dell’intero svolgimento del

processo e del pregiudizio in concreto subito dall’imputato, con la

conseguenza che riesce difficile estrarre da queste decisioni massime

generali, incondizionatamente valide.

Per garantire la conformità della disciplina codicistica alla giurisprudenza

europea la riforma Orlando interviene sull’art. 603 c.p.p., aggiungendo il

nuovo comma 3-bis: «Nel caso di appello del pubblico ministero contro

una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della

prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione

dibattimentale». L’intervento del legislatore era probabilmente opportuno,

sebbene in via interpretativa la Cassazione avesse ritenuto il testo dell’art.

603 c.p.p. conciliabile con i principi della giurisprudenza europea: nulla

vietava, infatti, di ricomprendere nella già prevista rinnovazione per

impossibilità di decidere allo stato degli atti o per assoluta necessità anche

l’ipotesi di una diversa valutazione della prova dichiarativa (art. 603,

commi 1 e 3, c.p.p.).

La nuova disciplina, tuttavia, lascia aperti alcuni interrogativi. Primo. L’art.

603 c.p.p. parla genericamente di rinnovazione del dibattimento, senza

precisare se questa debba essere totale o parziale: ma, stando alla

giurisprudenza europea, parrebbe ragionevole limitarla all’assunzione della

prova diversamente valutata. Secondo. Se il pubblico ministero nei motivi

20

di appello non ha presentato la richiesta di rinnovazione della prova

dichiarativa, l’appello dovrà ritenersi inammissibile ai sensi del nuovo testo

dell’art. 581, lett. c), c.p.p. che, a pena di inammissibilità, esige

l’enunciazione specifica delle «richieste anche istruttorie»? A stretto rigore

sì, ma la circostanza che il giudice sia autorizzato a disporre d’ufficio la

rinnovazione può favorire la risposta negativa.

Terzo. Cosa si intende per “motivi attinenti alla valutazione della prova

dichiarativa”? Sicuramente la rinnovazione si impone sia che la diversa

valutazione riguardi l’attendibilità del testimone, sia che attenga

all’interpretazione, al significato delle sue parole, ossia a ciò che ha inteso

dire, sia ancora che concerna altri elementi di contorno, ritenuti dai diversi

giudici ora in sintonia ora in opposizione con la testimonianza.

Diverso è il caso in cui il giudice d’appello, pur concordando con quello di

primo grado sull’attendibilità e sul significato da attribuire alle parole del

testimone, diverga sulle inferenze che dalla deposizione si possono trarre

rispetto ad altri fatti (sia sul fatto principale sia su fatti secondari): ad

esempio, valutando la dichiarazione di un teste che affermava che

l’imputato fosse con lui in un certo luogo tre ore prima del delitto, il

giudice assolve l’imputato, ritenendo impossibile coprire il tragitto da un

luogo all’altro in quel tempo al contrario, il giudice d’appello lo condanna,

sul presupposto che le prove d’accusa siano del tutto compatibili con la

testimonianza sull’alibi, essendo ben possibile percorrere in meno di tre

ore quella distanza. Qui la diversa valutazione non riguarda la prova

dichiarativa, ma l’inferenza di tipo critico indiziario che collega la prova

dichiarativa, ormai valutata e assunta come provata, con altri fatti da

provare: la rinnovazione non parrebbe, dunque, imposta dall’art. 603 c.p.p.;

né si vede quale vantaggio ne potrebbe derivare, data l’assenza di

divergenze tra i due giudici sull’attendibilità e sull’interpretazione delle

parole del testimone. Ovviamente resta aperta la possibilità di

rinnovazione, ai sensi dell’art. 603, commi l e 3, c.p.p., per impossibilità di

decidere allo stato degli atti o per assoluta necessità.

Quarto. Un interrogativo di carattere più generale riguarda la possibile

alternativa a questa riforma. Considerate le perplessità che suscita la

condanna disposta per la prima volta in sede d’appello, a fronte della quale

non resta che il ricorso in cassazione, i numerosi problemi applicativi che

nascono dalla rinnovazione del dibattimento e, infine, la difficoltà di trarre

precise indicazioni al riguardo dalla giurisprudenza della Corte europea,

come sempre piuttosto ondivaga, è naturale chiedersi se non sarebbe assai

più razionale prevedere l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.

Una scelta che si porrebbe in piena sintonia con l’art. 14, par. 5 del Patto

internazionale sui diritti civili e politici, dove si garantisce all’imputato il

21

diritto al riesame della colpevolezza contro ogni condanna; e, al tempo

stesso, non lascerebbe indifeso il pubblico ministero di fronte ad eventuali

gravi ingiustizie, a rimediare alle quali può in gran parte giovare il ricorso

per cassazione, ormai esperibile anche per il contrasto della sentenza

impugnata con gli atti del processo.

Si obietterà che la Corte costituzionale con sentenza. n. 26 del 2007 ha

dichiarato illegittima l’inappellabilità del proscioglimento già disposta dalla

legge Pecorella. Ma, in realtà, la decisione fu fortemente influenzata da

alcune scelte poco coerenti di quella legge e dal contesto, anche politico, in

cui essa si collocava; una più organica riforma potrebbe oggi superare il

vaglio di legittimità costituzionale.

7. Dicevo che il merito della riforma Orlando è stato quello di tacere dove

avrebbe dovuto legiferare. Perché dico questo? Perché ci sono almeno due

articoli del nostro codice che sicuramente meriterebbero un intervento

legislativo, in quanto non conformi alla Convenzione europea dei diritti

dell’uomo come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Il primo è l’art. 521

c.p.p., secondo cui «nella sentenza il giudice può dare al fatto una

definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione». Tutti

sanno che questa disposizione dovrebbe essere riformata, a partire dalla

sentenza della Corte europea che ha censurato il mutamento di qualifica

giuridica operato a sorpresa dalla Corte di cassazione nel caso Drassich.

Sennonché, pur essendo palese l’esigenza di una riforma dell’art. 521

c.p.p., nessuno è in grado di dire quale sarebbe il testo di legge conforme ai

principi della giurisprudenza europea. La Corte di Strasburgo, infatti, non

ha chiarito se per il rispetto della Convenzione occorra che: a) il diverso

nomen iuris sia contestato limitatamente all’ipotesi in cui abbia determinato

in concreto anche un mutamento del fatto, ferma restando la possibile

autonomia dei due profili; b) il diverso nomen iuris sia sempre contestato,

sul presupposto che ogni modifica della qualifica giuridica implichi

necessariamente un mutamento del fatto, essendo inscindibili fatto e diritto;

c) il diverso nomen iuris sia sempre contestato, anche quando resti

immutato il fatto.

Si può, dunque, comprendere e, anzi, definire saggia la scelta del

legislatore di astenersi dall’intervenire sul testo dell’art. 521 c.p.p., sino a

quando la Corte europea non definirà con sufficiente precisione a quali

condizioni sia subordinato il mutamento di qualifica giuridica.

Analogo discorso vale per l’art. 649 c.p.p. relativo al ne bis in idem. Nella

disposizione riguarda solo il rapporto tra più processi penali per il

medesimo fatto, mentre la Corte europea ha ritenuto che il ne bis in idem

operi ogni qualvolta la nuova sanzione per il medesimo fatto abbia natura

sostanzialmente penale, anche se formalmente qualificata come puramente

22

amministrativa o disciplinare. Ma i criteri indicati dalla Corte, per decifrare

il carattere penale della sanzione, restano piuttosto sfuggenti, (la

salvaguardia «di interessi generali della società, normalmente tutelati dal

diritto penale», l’effetto particolarmente afflittivo delle sanzioni previste e

il loro carattere preventivo-repressivo anziché meramente riparatorio).

Non solo. Con un brusco mutamento di prospettiva la Corte europea nella

sentenza A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016 la Corte europea ha

ritenuto inoperante il ne bis in idem quando tra i due processi vi sia un non

meglio definito rapporto di stretta connessione. Un criterio, a mio avviso,

semplicemente assurdo, perché non si vede in qual modo debba influire sul

ne bis in idem la più o meno stretta connessione tra i processi. Al punto che

Francesco Viganò, pur grande sostenitore della giurisprudenza delle due

Corti europee, si è spinto ad ipotizzare che possa avere influito sulla

decisione la maggiore arrendevolezza verso la giurisprudenza europea

mostrata dalla Norvegia; la quale, a differenza dell’Italia, non ha mai

invocato ‘controlimiti’ all’applicazione della Convenzione europea e, più in

generale, del diritto sovranazionale. Può anche darsi che sia così: ma, a

questo punto, non va neppure escluso che persino il nome dell’imputato

assuma rilevanza sull’esito della decisione.

Altrettanto incerta la nozione di ‘medesimo fatto’ nella giurisprudenza

europea. Il solo dato sicuro è che la giurisprudenza europea intende il fatto

in senso naturalistico e non giuridico, nonostante l’art. 4 Prot. n. 7 alla

CEDU parli di ‘infraction’. Al di là di questo, resta dubbio se l’identità del

fatto debba misurarsi solo alla stregua dell’azione o anche dell’evento e del

nesso di causalità. La Corte costituzionale ritiene che la medesimezza del

fatto implichi la coincidenza della triade formata da condotta, nesso causale

ed evento; ma è significativo che, per avvalorare questa prospettiva alla

luce della giurisprudenza europea, sia costretta a ricorrere ad elementi

vaghi ed evanescenti quali gli ‘indizi’ (sic) che si ricaverebbero dall’esame

delle sentenze di Strasburgo. La realtà è che il giudizio della Corte europea

è informato a criteri di equità, assai difficilmente formalizzabili in principi:

questi, seppure espressi, lo sono in una forma embrionale, provvisoria,

soggetta a successive rettifiche, ridefinizioni e, talora, capovolgimenti. Al

punto che, ad elencare i principi a base del giudizio della Corte, se ne

dovrebbe individuare uno diverso per ogni caso sottoposto al suo esame.

Potremmo definire la Corte di Strasburgo come un Re Mida con la variante

che tutto ciò che tocca diventa incerto, vago, spesso indecifrabile.

Un ultimo rilievo. La circostanza che la Corte costituzionale includa fra gli

elementi, su cui si misura l’identità del fatto, anche l’evento ha come

conseguenza la possibilità di consentire un nuovo processo nel caso della

cd progressione criminosa: mutando l’evento, sarebbe dunque possibile

23

processare per omicidio (colposo o doloso) il condannato o l’assolto per le

lesioni (colpose o dolose); e così per il reato consumato chi sia stato

giudicato per il reato tentato. È una prospettiva che lascia assai perplessi a

fronte dell’art. 649 c.p.p. dove espressamente si afferma che il fatto resta il

medesimo anche se «diversamente considerato per il titolo per il grado o

per le circostanze»: mentre con il ‘titolo’ si allude alla qualifica giuridica,

con ‘grado’ ci si riferisce al passaggio dal reato tentato a quello consumato,

il che dovrebbe essere sufficiente a ritenere operante il ne bis in idem nelle

situazioni appena menzionate.

Grazie.

AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

Grazie al Prof. Ferrua, adesso ci ha parlato dei contenuti della Riforma

Orlando, in termini non certamente lusinghieri, poi attendiamo il suo

intervento anche sul metodo che ha caratterizzato la riforma stessa.

Adesso la parola va all’Avvocato Alessandro Gamberini, del Foro di

Bologna, docente di Diritto Penale nella Scuola Superiore di Studi

Giuridici dell’Università di Bologna, che dovrebbe introdurci nella parte

sostanziale della Riforma Orlando.

RELAZIONE DEL PROF. AVV. ALESSANDRO GAMBERINI (I^

PARTE)

Grazie dell’invito, perché mi consente di apprendere molte riflessioni dalle

due relazioni sulla parte processuale che ho testè ascoltato.

E’stato giusto che precedessero la relazione sulla parte sostanziale perché

sono passati molti anni dal momento in cui si diceva che il diritto

processuale era ancillare e strumentare a quello sostanziale, oggi è divenuto

il protagonista del diritto penale, non solo per gli evidenti risvolti che ha il

processo penale sulla libertà e sullo status delle persone, ma anche perché è

attraverso il diritto processuale che si modellano anche gli istituti di diritto

sostanziale.

Rispetto alle parti sostanziali, devo dire che il titolo “Luci ed ombre”

andrebbe completamente modificato, perché la “notte dei principi” ha

presieduto alle scelte del legislatore.

In primo luogo l’aumento delle pene.

Mi riferisco in particolare all’aumento delle sanzioni, uno strumento da

sempre considerato inefficace, sia a fini di prevenzione generale, tanto più

24

a fini di prevenzione speciale. E’ un percorso che il legislatore attua

solitamente per ragioni di legittimazione politica, legato ai fenomeni di

percezione dell'insicurezza su cui vuole intervenire, che proietta sulla

produzione di una normativa simbolica che provoca gravi guasti

all'equilibrio del tessuto ordinamentale.

Parlo in primo luogo degli inasprimenti previsti dagli artt. 5, 6, 7, 8, 9 della

legge. Oltre all'aumento sul solito delitto antimafia, che costituisce una

cifra sempre significativa di questo tipo di leggi “sicurezza” - cioè il 416 ter

“scambio elettorale politico mafioso” - si interviene infatti sui delitti contro

il patrimonio: in particolare rispetto al furto in abitazione e al furto con

strappo, norme già incise da precedenti decreti proprio rispetto al quadro

edittale della pena, con un aggravio sanzionatorio totalmente squilibrato. E’

stato fatto rilevare dai primi commentatori che il furto con strappo finisce

per avere una cornice edittale paragonabile a quella della rapina, superiore

a quello di alcuni delitti contro l’incolumità pubblica.

Si rivalorizzano le aggravanti previste dall'art.625, raddoppiando il minimo

della pena della fattispecie aggravata del furto, che, come è noto, è la

fattispecie di furto, visto che le circostanze in questione coprono pressochè

l’intera gamma delle ipotesi di furto che possano realizzarsi in concreto.

Se si aggiunge che, per alcune aggravanti, e stato previsto il divieto di

bilanciamento ai sensi dell’art.69 si ha la contezza di un legislatore che

ripropone la centralità dei delitti contro il patrimonio come oggetto di

tutela, che caratterizzava il codice Rocco prima della riforma del 1974.

Un divieto di bilanciamento particolarmente grave perché impedisce al

giudice di apprezzare il disvalore concreto del fatto rispetto al suo autore,

creando presunzioni di pericolosità più volte censurate dalla nostra Corte

Costituzionale (da ultimo si veda Corte Cost.105/2014).

Un legislatore che sconta dunque, come effetto delle sue scelte, rispetto alla

platea dei tipi di autore di questi reati, una presenza di persone detenute nei

prossimi anni ben più significativa dell’attuale.

Quello che si delinea, più in generale, è una situazione che provoca un

ulteriore slittamento del sistema del cd doppio binario dell’intervento

penale: mi riferisco alla distinzione tra fenomenologie penalistiche che

comportano carcere e fenomenologie penalistiche che comportano sanzioni

più stigmatizzanti, più ineffettive, più simboliche, confinando nel primo

corno la disciplina della criminalità organizzata, terroristica e mafiosa.

In realtà il modello penale sostanziale e anche processuale, sperimentato

per la criminalità organizzata - pensiamo sul piano processuale all’utilizzo

del del virus informatico nell’ambito delle intercettazioni ambientali - ha

finito per contagiare e per attrarre progressivamente nuovi pezzi della

legislazione ordinaria, che prima valevano a disciplinare forme di

25

criminalità o di devianza solo eventualmente plurisoggettive o comunque

non meritevoli di questa forma di appesantimento sanzionatorio. Questo è

stato ben visibile ed è ben visibile anche in questa occasione, rispetto a

materie, prima fra tutte la corruzione, divenuta una sorta di archetipo

esemplare della criminalità che va in qualche modo combattuta e assimilata

a fenomeni mafiosi (in tal senso la sua recente attrazione nelle misure di

prevenzione antimafia).

Del resto, che la riforma non abbia alcuna base nella trama dei principi

costituzionali, che delineano una gerarchia di tutela dei beni è ben visibile

anche sul versante opposto rispetto a un istituto, che pur si propone sul

versante deflattivo del processo e della pena, mi riferisco al nuovo art.162

ter.

L’estinzione del reato per condotte riparatorie.

Ne parlo in forma più analitica, perché pone molti interrogativi applicativi.

La prima osservazione generale che occorre fare è che, coniugando questo

istituto con la legge delega, che prevede l’introduzione della procedibilità a

querela per tutti i delitti puniti fino a 4 anni contro il patrimonio e contro la

persona, salve alcune eccezioni, siamo di fronte a un’area applicativa

rilevante dell’istituto.

In questo caso l’obbiettivo viene (vorrebbe essere) raggiunto a scapito del

rispetto dei principi costituzionali in materia di gerarchia dei beni: le scelte

operate sulla penalità dovrebbero percorrere un itinerario che tiene conto

del significato della tutela.

Non è pensabile che si proceda disinvoltamente alla monetizzazione, come

avviene in questo caso, del bene dell’incolumità delle persone, di fatto

sguarnendo il presidio penale nella materia.

L’istituto viene disegnato ricopiandolo letteralmente dalla prima parte

dell’art. 62, n. 6, dall’attenuante del risarcimento del danno, e insiste sul

modello già sperimentato, sopratutto in virtù dell’art. 35 della disciplina

del giudice di pace, che consente di far cessare il conflitto intervenendo in

forma compositiva e facendo venir meno l’azione penale.

L'art.163 bis è disegnato un po’ diversamente rispetto all’art. 35, perché da

un lato riproduce sul piano letterale la dizione del 62, n. 6, cioè presuppone

non solo il risarcimento, ma “l’integralità” del risarcimento; dall'altro non

detta alcun criterio regolativo della scelta del giudice, mentre l’istituto

delineato nell’ambito del Giudice di Pace prevede espressamente che la

condotta riparatoria debba essere idonea a soddisfare l’esigenza di

“prevenzione e riprovazione del reato”, pur nell’ambito di una

giurisdizione, che procede per equità. Apparentemente dunque il

riferimento dell'art. 163 bis è meramente civilistico e determina una serie di

26

problemi rispetto all’apprezzamento del giudice e alle conseguenze che ne

derivano.

D’altro canto l’istituto non ha in mente una giustizia compositiva e di

riconciliazione tra l’autore e la vittima del reato: essendo i reati procedibili

a querela la riconciliazione tra le parti si realizza con la remissione di

querela. Il funzionamento dell’istituto si avrà proprio quando permane un

conflitto tra l’istanza punitiva e le pretese della parte offesa che è stata

violata da un lato e l’offerta dell’imputato dall’altro.

L'offerta risarcitoria può essere fatto fino all’apertura del dibattimento,

dando ulteriori termini se il soggetto dimostri che non ha potuto provvedere

entro questa fase al risarcimento e alla restituzione.

Rispetto a questo conflitto il giudice può intervenire anche in limine litis,

“sentite le parti e la parte offesa”. Nulla vieta che sia sollecitato il GIP

anche durante le indagini preliminari, ma i risvolti processuali dell'istituto

sono lasciati in ombra . Nulla si dice sulla modalità con cui debbono venire

ascoltate le parti, se il giudice del dibattimento potrà, al solo fine di

valutare il danno, acquisire il fascicolo del pubblico ministero, essendo

difficile ipotizzare che una valutazione sia pur sommaria, ma non

arbitraria, rinunci a percorrere i sentieri della ricostruzione dei fatti

avvenuta durante le indagini, per soppesarne la gravità.

In tal caso però se il giudice formula una valutazione pregnante, ma

reiettiva della richiesta, può produrre un’incompatibilità a proseguire nel

giudizio (incidendo negativamente sulla finalità deflattiva proclamata).

Nulla vieta peraltro che il Giudice consideri l’offerta adeguata anche

all’esito o lungo il corso del procedimento di primo grado (dovendosi

ritenere implicito, trattandosi di una nuova causa estintiva, il richiamo

all’art. 129 del codice di rito sull’obbligo di immediata declaratoria),

sempre che la riparazione sia avvenuta nei termini previsti.

Si tratta di comprendere se questa riparazione prosciughi l’azione civile.

La risposta non è semplice.

Da un lato la lettera della disposizione, con un richiamo espresso

all’integralità del risarcimento, sembrerebbe fare propendere per una

soluzione affermativa, dall'altro occorre misurarsi con la ratio dell'istituto

rispetto alla sua collocazione sistemica e con i precedenti giurisprudenziali

relativi all'applicazione dell'istituto del giudice di pace, al quale abbiamo

fatto cenno.

Rispetto a quest'ultima disciplina le Sezioni Unite ( vedi S.U del 23 aprile

2015 n. 3386) hanno ritenuto inammissibile l’appello della parte civile

rispetto a una sentenza che aveva apprezzato in modo non adeguato il

risarcimento sull’assunto che rimanga aperta la possibilità di esperire

un’azione civile, rivendicando la necessità di un interpretazione

27

costituzionalmente orientata dell'istituto, che tenga conto della necessità di

non escludere l'imputato con minore capienza economica. Profilo risolto

positivamente nell'art.62 n.6, rispetto alla concessione dell’attenuante,

laddove si ricollega la diminuzione di pena anche alla condotta di chi si sia

comunque “adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o

attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. D'altro canto la

disciplina del giudice di pace significativamente parla di risarcimento,

senza aggiungervi la parola “interamente”, che compare invece come detto

nel nuovo art. 162 ter, e àncora la finalità dell'istituto espressamente a una

dimensione penalistica, cioè ad un'esigenza retributiva e prognostica (vedi

Cass. Sez.5, 24.13.2005 n.14070 a conferma di Cass. Sez 4, 09.12.2003

n.1152) che escludono che la pronuncia esaurisca il suo significato nella

dimensione civilistica del danno, di cui si sottolinea l'inevitabile

sommarietà di valutazione.

Sul versante sistemico la collocazione della norma nell'ambito di altre

cause estintive del reato e della pena (oblazione e sospensione

condizionale) potrebbe fare pensare che anche questo nuovo istituto non

possa sottrarsi alle valutazioni prognostiche favorevoli dalle quali

dipendono gli istituti che lo contornano. La lettera dell'art. 162 bis non

lascia però al giudice alcuna discrezionalità perché la causa estintiva si

ricollega automaticamente al presupposto: l'integrale risarcimento

civilistico avvenuto prima dell'apertura del dibattimento.

Difficile ritenere che il giudice possa negarlo all'aggressore seriale capiente

e possa concederlo all'aggressore incapiente.

In tal senso l'istituto pone seri problemi di costituzionalità in ordine a una

sua ragionevole applicazione che tenga conto, da un lato, di un criterio di

uguaglianza sostanziale e, dall'altro, di un profilo costituzionale dell'illecito

penale nel quale anche l'esigenza di prevenzione speciale si appunta sul

modello disegnato dall'art. 27 primo e terzo comma della Costituzione. Un

modello che non pare in alcun modo rispettato da una causa estintiva di tal

fatta considerando anche l'eterogeneità del bene in gioco di cui si

sguarnisce la tutela, o, meglio, la si monetizza.

Siamo in un Paese singolare. Quando è emersa dalle cronache giudiziarie

una prima applicazione di tale disposizione - una sentenza del Gup di

Torino che ha liquidato una somma piuttosto bassa per un reato di stalking,

suscitando le ire funeste della vittima, che ha trovato ampio spazio

mediatico, il Ministro di Giustizia si è meravigliato e ha subito invocato la

riforma della riforma.

D'altro canto se mai si ritenesse che l'istituto, forzando la ratio e il dato

letterale, conduca a ritenere inevitabile la sopravvivenza di un'azione civile

ben si comprende come si creerebbe solo un gioco di vasi comunicanti: alla

28

deflazione penalistica corrisponderebbe un’inflazione della giurisdizione

civile.

Ultima osservazione in tema di “integralità” del risarcimento: va

ricompreso certamente anche il pagamento delle spese legali perchè la

giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. sez V, 7 marzo 2013 n.21112 ) lo

aveva negato rispetto al giudice di pace, ma sul presupposto che si tratta di

una fase e di una giurisdizione nella quale la presenza del difensore non è

necessaria, diversamente da quello che accade davanti alla giurisdizione

ordinaria.

La riforma della prescrizione

Terzo punto su cui è intervenuto il legislatore riguarda una norma di

carattere sostanziale (rimasta fortunatamente tale) quello della prescrizione.

L’ordinanza della Corte Costituzionale ( 24/2017 di remissione alla CGCE)

che ha mantenuto la sua giurisprudenza consolidata, attivando un contro

limite rispetto alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso Taricco, ha

impedito una deriva manifestatasi nell’immediatezza anche con una prima

sentenza della Suprema Corte ( ) che l'aveva direttamente fatta sua. Una

scelta diversa avrebbe dato spazio alla possibilità da parte dei giudici di

merito di disattendere i termini prescrizionali previsti dalla legge, ogni qual

volta non consentivano di poter perseguire efficacemente una certa

tipologia di reati a tutela di beni per i quali fosse obbligatoria, per la

normativa sovranazionale, la predisposizione di norme efficaci e dissuasive

(senza neppure passare attraverso la Corte Costituzionale) .

Si è così evitata una babele di decisioni che avrebbe inciso profondamente

sul principio di legalità.

La motivazione della sentenza è molto significativa e importante alla luce

anche del principio di tassatività che la Corte ha di nuovo rivalorizzato in

maniera molto significativa.

D'altro canto io penso che la prescrizione vada difesa perché è incivile un

Paese che non rapporta la limitata durata della vita a termini ragionevoli

per procedere penalmente nei confronti degli accusati, comparati alla

gravità dei fatti che loro vengono attribuiti (e ben si può richiamare quanto

si ricava dal sistema costituzionale e dalle norme che mettono la persona al

centro della tutela).

Il vecchio Codice Rocco, pur con un’ispirazione autoritaria, aveva

predisposto una disciplina frutto di un tecnicismo più raffinato di quello

che governa le novelle nella nostra materia, indicando i termini di

prescrizione per fasce di gravità dei reati.

La riforma del 2005 frantumando il meccanismo e riportandolo alle cornici

edittali dei singoli reati, riducendola in taluni casi in modo irragionevole

29

(ne era evidente l'ispirazione immunitaria che la modellava) ha provocato i

guasti ai quali assistiamo da alcuni anni: per allungare la prescrizione si

modificano le cornici edittali delle singole fattispecie a prescindere da ogni

plausibilità sanzionatoria.

Il legislatore attuale è intervenuto su due punti.

In particolare sul dies a quo della prescrizione in materia di delitti di cui i

minori siano vittime: stabilendo che la prescrizione decorra dal momento

del raggiungimento della maggiore età del minore. Badate, si tratta di una

norma frutto dell’applicazione di istanze sovranazionali, prima la

Convenzione di Istanbul ( art.58), poi la Convenzione di Lanzarote (art.33):

accordi internazionali a tutela dei minori che hanno modellato molti istituti

processuali, nel caso richiamando la necessità di dilatare l’effetto estintivo

del decorso del tempo.

Bisogna dire che la scelta appare ragionevole in astratto perché si può

pensare correttamente che l’apprezzamento che il minore faccia del

disvalore del fatto, e pertanto il disvelamento di quello che ha subito, possa

essere tardivo in dipendenza di una maggiore maturità. In concreto peraltro

l’allungamento dei termini prescrizionali avviene rispetto a reati che già li

prevedono molto ampi.

Il tema è sempre delicato, perché occorre raggiungere un equilibrio tra

l’esigenza di fare un processo in tempi ragionevoli - in tempi in cui si possa

acquisire ragionevolmente la prova d’accusa e anche di difesa - e l’esigenza

di punire reati gravi e odiosi. Rispetto al minore in particolare ci si può

sempre interrogare quanto la rielaborazione di una certa testimonianza

attraverso l’età evolutiva possa poi influenzarne la veridicità quando essa

affiori solo con la maggiore età. Siamo in una materia nella quale la prova

si forma abitualmente in incidenti probatori che costituiscono un pallido

simulacro del contraddittorio, e l’accusa invoca fatalmente già solo per

essere stata formulata la stigmatizzazione di colui che ne venga toccato. In

concreto dunque la divaricazione temporale tra il fatto e le potenziali

indagini rende molto difficile l’esercizio del diritto di difesa. Occorre

ricordare che la possibilità di cumulare la nuova disciplina, per questo tipo

di reati, agli effetti degli artt.157, 8c. e 158 può portare gli effetti estintivi a

40 anni.

Poi sono state state introdotte due ipotesi di sospensione.

La prima rispetto alle rogatorie la seconda in occasione delle impugnazioni

dei condannati in primo e in secondo grado.

Mi occupo della seconda in particolare: disciplina è semplice e risulta dalla

lettura della disposizione. La sospensione va dal deposito della sentenza di

condanna di primo grado fino al dispositivo della sentenza di condanna di

secondo grado, per un anno e mezzo, cui si aggiunge un ulteriore anno e

30

mezzo dal deposito della sentenza di condanna di secondo grado fino alla

lettura del dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione.

Ovviamente, in caso di annullamento e rinvio si delinea un’ulteriore

analoga sospensione.

Questa sospensione non ha luogo, invece, laddove nel grado successivo il

soggetto sia prosciolto. Il Giudice d’appello si troverà allora a dovere

tenere conto anche del possibile sopraggiungere della prescrizione sospesa

laddove intenda assolvere l’imputato, dovendo fare prevalere la causa

estintiva rispetto all’assoluzione ai sensi dell’art. 129: ma questo peraltro

non potrà che avvenire dopo avere preso funditus la decisione di assolvere,

con ciò svuotando peraltro il senso di tale prevalenza.

Si tratta, tra l’altro, di meccanismo ulteriormente complicato, essendo la

sospensione valida solo per coloro che sono condannati e non per eventuali

correi assolti. E dunque creando possibili (irragionevoli) disparità di

trattamento rispetto all’esito finale che potrebbe essere di proscioglimento

per intervenuta prescrizione per taluno dei correi (pensiamo a colui che

assolto in primo grado, a differenza dei coimputati, si trovi poi nella

condizione di essere condannato in appello con una prescrizione già

decorsa, perché non sospesa).

La cosa che più colpisce però di questa nuova disciplina della sospensione

sono gli effetti concreti che produrrà, alla luce dell’analisi statistica

dell’intervento della prescrizione effettuata nel 2016 dal Ministero di

Giustizia.

L’analisi statistica ci dice che il 56% delle prescrizioni avvengono durante

le indagini preliminari, cioè le fa il GIP su richiesta del P.M. contro noti

(c’è un 1% che riguarda gli ignoti che poco ci riguarda), poi c’è un 4%

dichiarate dal GUP durante l’udienza preliminare e un 18% dichiarate dal

Tribunale Ordinario. La prescrizione sulla quale incide questa normativa è

dunque un 20% del fenomeno.

Significative sono in particolare che la maggior parte delle prescrizioni

siano dichiarate in indagini, perché rende evidente come la patologia abbia

origine dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Non voglio affrontare questo tema complesso e delicatissimo, però non v’è

dubbio che molto si spiega con le scelte di investimento di risorse da parte

delle Procure e tanta parte viene occupata da una giurisdizione

“dell’affresco”, cioè una giurisdizione che fa sistema di ogni vicenda,

pretendendo di dipingere il quadro sociale complessivo nel quale i reati sui

quali si indaga sono inseriti: delegando sempre più la polizia giudiziaria ad

accertamenti su fenomeni e non su specifici fatti.

Come detto l’intervento sospensivo concerne l’Appello (19% delle

prescrizioni) e la fase di Cassazione (1%). Sconcertante quest’ultimo

31

intervento perché l’effetto sarà il trascinamento in avanti della durata dei

processi in quest’ultima fase, incidendo così sulla ragionevole durata, senza

che vi fosse un’impellenza derivante dai dati statistici. Anzi.

A questo meccanismo si accompagna per alcuni delitti, quelli di corruzione

in primis, ma anche l’art. 640 bis del Codice Penale, un raddoppio dei

termini della prescrizione lunga, nel caso di interruzione (non è più un

quarto, ma la metà). Ancora una volta il criterio che ha orientato la scelta

poggia sull’allarme sociale che focalizza su questi delitti un’attenzione

mediatica esasperata anche dallo scontro politico. Ne risulta una disciplina

che presenta margini di irragionevolezza sui quali potrebbe essere invocato

un intervento del Giudice delle leggi.

Due osservazioni processuali.

La prima osservazione la faccio con riferimento alla impugnazione del

P.M. della sentenza di proscioglimento che deve accompagnarsi a una

richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale l’impugnazione si

fonda su una prova dichiarativa.

C’è il problema sulla decisività della prova perchè l’input europeo (dalla

Dan c.Moldavia in poi) è stato quello di privilegiare il Giudice che

apprende oralmente la prova, ma con riferimento alla prova decisiva.

Nella riforma di decisività non si parla, ma si può forse pensare che,

ortopedicamente si possa giungere alla stessa soluzione in ordine alla

decisività. Ma la riforma pone un grande problema sulla parità delle armi:

se il difensore impugna una sentenza di condanna fondata su una prova

dichiarativa (decisiva) dovrebbe avere lo stesso diritto che quella prova

dichiarativa sia riascoltata in sede d’appello.

Se assumiamo che appartiene al fondamento epistemologico del

contraddittorio che il Giudice che giudica e decide sulla condanna o sul

proscioglimento ascolti direttamente la prova fondante, se dichiarativa,

perché negare al difensore questo diritto? Una norma di questo tipo è

incostituzionale, e non avrei dubbi.

Poi valgono tutte le considerazioni che prima ho ascoltato sul fatto che

purtroppo pensare di trarre da delle sentenze che affrontano casi concreti

dei principi per delle applicazioni conformi, in questo caso addirittura dei

principi per una legislazione che si conforma a quelli, creando un insieme

di norme inevitabilmente contraddittorio, costituisce il grande tema del

rapporto con la giurisprudenza sovranazionale cogente.

Il nostro giudizio di appello è divenuto un terreno di battaglia e rischia di

travolgere la possibilità concreta di svolgere attendibilmente

l’impugnazione e la decisione conseguente : pensiamo alle Sezioni Unite

Patalano che impongono la rinnovazione anche nel giudizio anche quando

il giudice di primo grado non ha percepito direttamente la prova.

32

Una decisone che rischia di produrre effetti sconvolgenti nel sistema:

ascoltare soggetti sulle cui dichiarazioni l’imputato aveva rinunciato al

vaglio del contraddittorio. Cioè io scelgo il giudizio abbreviato perché

faccio una valutazione del quadro probatorio e dico: “Rinuncio al

contraddittorio e tu giudice mi giudichi sugli atti raccolti dal pubblico

ministero”. Se improvvisamente si delinea un contraddittorio anche

eventualmente a mio sfavore, questo viola le stesse ragioni fondanti della

scelta del rito – che è stato più volte legittimato anche dalla Corte Edu -

perchè mi viene tolto un grado di merito per vagliare la decisione e

l’ermeneutica della deposizione assunta in grado di appello. Una scelta

delle Sezioni Unite che considero inaccettabile e non condivisibile e voglio

credere sia rapidamente rivista.

Condivido le perplessità anche in materia di ricorso in Cassazione dalla

quali è stata escluso l’imputato senza difensore e il difensore non

cassazionista: in realtà ha ragione Alessandro Rampinelli che in tali casi

può valere comunque la firma del sostituto cassazionista rispetto a quella

del difensore che non abbia titolo.

Il tema è comunque delicato, perchè riguarda il diritto di difesa - non tanto

sulla base delle sentenze CEDU che, fermo restando il diritto che deve

avere l’imputato a sottoporre al giudizio di legittimità la questione, ha

lasciato ampio spazio alle legislazioni nazionali rispetto alle modalità con

cui può avvenire l’esercizio di questo diritto. Non credo che si possa trarre

dalla giurisprudenza della CEDU ragione per ritenere che la riforma violi

l’art. 6 della Cedu.

Però io pongo un problema socialmente apprezzabile: soprattutto per i

detenuti privi di avvocato, formalmente con un difensore di ufficio:

soggetti sotto protetti sui quali una riflessione maggiore andava fatta prima

di inoltrarsi in una soluzione quale adottata.

Da ultimo la specificità dell’impugnazione.

E’ vero che dal punto di vista normativo non cambia molto, stando agli

orientamenti giurisprudenziali: è comunque ipocrita dire che anche il

Giudice ha un obbligo di redazione specifica della sentenza secondo un

dettato che adesso è disciplinato normativamente, ma se il Giudice non

redige la sentenza in quel modo non c’è sanzione. Se un Giudice fa una

sentenza generica, non ordinata, non per punti, nessuno lo sanziona, al

difensore è riservata l’inammissibilità dell’impugnazione.

In realtà una norma non introduce nulla di nuovo, ma penso sia una di

quelle norme che può produrre, sempre nella logica dello sfoltimento, il

venir meno di quel favore dell’impugnazione che pure la giurisprudenza di

Cassazione aveva sempre delineato. Grazie.

33

AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

Grazie all’Avvocato Gamberini.

Anche il Consigliere Luca Marini sicuramente ci aiuterà a sviscerare

l’argomento con altrettante riflessioni interessanti, velocemente gli passo la

parola: Luca Marini, Presidente della Sezione Penale del Tribunale di

Ferrara, grazie di essere intervenuto per l’ennesima volta a un nostro

seminario.

RELAZIONE DEL PRES. DOTT. LUCA MARINI (I^ PARTE)

Grazie sempre a voi che mi invitate con cortesia ai vostri convegni, ai quali

partecipo con nostalgia dei miei lunghi anni veneziani, per la verità avendo

fatto un po’ tutte le funzioni giurisdizionali qui al Tribunale di Venezia.

Devo dire che torno, partendo da una riflessione dell’Avvocato Rampinelli,

il quale ha detto: “Ma vi sembra positivo procedere a queste codificazioni

del diritto vivente?”. La risposta non può essere positiva o negativa, perché

in realtà questa tipologia di produzione normativa, di norme

contestualmente sostanziali e procedurali, ormai è un frutto acquisito più o

meno semestrale, e ve lo dico perché sono norme che potrebbero essere

positive se contenute in un disegno organico di riforma, ma assolutamente

molto negative se contenute in una struttura totalmente disorganica e

disarticolata. Il lato più negativo della Riforma Orlando è che forse è la più

disorganica, più disarticolata, più variegata serie di interventi normativi, in

parte immediatamente cogenti, in parte contenuti in leggi deleghe, ma

soprattutto che si occupa degli argomenti realmente più disparati, sempre

collegati a interventi normativi precedenti o a interventi giurisprudenziali

che vengono recepiti.

I ben più illustri Relatori che mi hanno preceduto hanno parlato veramente

di tutto, avete sentito, avete apprezzato l’estrema profondità e dettaglio

degli interventi sui vari punti qualificanti della riforma. Ma io vi ho

individuato una norma molto simpatica, della quale non si è parlato fino

adesso ma che interessa molti di voi, cari amici Avvocati: la norma relativa

alla nullità dell’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio che non

ha effetto se l’autorità che procede non riceve l’assenso del difensore

domiciliatario. Vi ci siete trovati tutti i giorni dozzine di volte. Perché è

stata introdotta questa norma del tutto a capocchia all’interno di un sistema

che si occupa di quasi tutto d’altro? Si parte da un simpatico convegno fatto

con voi, che avete avuto anche quella volta la bontà di invitarmi, relativo al

34

procedimento in assenza, quando abbiamo cominciato a studiare che cosa

volesse significare la norma dell’art. 420 bis e quando l’imputato andava

considerato assente e non irreperibile, e siccome il 420 bis diceva, molto

sinteticamente, che, salvo quanto previsto da, eccetera, “il Giudice procede

in assenza dell’imputato che nel corso del procedimento abbia eletto

domicilio”, ecco che siccome tutti gli agenti di Polizia Giudiziaria hanno i

loro formulario prestampato quando fermano il soggetto per la guida in

stato di ebbrezza, per la resistenza, per l’oltraggio, per qualunque reato di

strada che possiate immaginare, e gli fanno firmare il moduletto in cui c’è

scritto tutto prestampato, lui lo firma e basta, che elegge domicilio presso il

difensore d’ufficio, a volte mettono il nome e a volte no. Poi, certo - mi

ricordo ne abbiamo parlato a lungo - dice: “Ma io posso rifiutare l’elezione

di domicilio”; certo, tu hai rifiutato l’elezione di domicilio però lui il

domicilio l’ha eletto e siccome il 420 bis dice “l’imputato che ha eletto

domicilio”, il domicilio era comunque eletto. Dopo, alcuni Tribunali, alcuni

orientamenti giurisprudenziali, hanno cominciato a dire che è inefficace,

però il Legislatore ha ritenuto che questi orientamenti, forse tutti legittimi,

avessero bisogno di un intervento normativo ed ecco qui il comma 4 bis del

162, che ha risolto: “Non ha effetto se l’Autorità che procede non riceve

l’assenso”. Se non ha effetto, allora forse non è un’elezione di domicilio e

forse il processo dovrebbe essere sospeso, con tutte le conseguenze che la

normativa del processo per gli irreperibili ha prodotto. Su questo non

abbiamo ancora uno sviluppo particolarmente preciso. Credo che con

questa indicazione più che risolvere un problema, questa norma ne abbia

creato un altro. Ma è una delle tante problematiche del normativa della

Riforma Orlando. E’ una normativa che incide su una massa magmatica di

gestione dei processi penali che non è che ha effetto soltanto su tutti i

processi dal 4 di agosto, quando è entrata in vigore la riforma, in poi,

perché, a parte che buona parte della riforma dovrà iniziare ad essere

applicata mano a mano se verranno adottate le leggi deleghe, ma c’è tutto il

pregresso. Prima gli illustri Relatori hanno indicato alcune problematiche e

alcuni interventi abbastanza incomprensibili, e sono d’accordo: per

esempio, quello sulle proroghe dell’attività di indagine; dice: “Ma perché

questi termini così lunghi? In fondo per i processi semplici che bisogno

c’è?”. Ma noi non abbiamo a che fare con un modello astratto di intervento

normativo su un ufficio giudiziario che ha solo i processi che sono stati

iscritti a ruolo dal 4 agosto, ormai l’intervento sul processo penale italiano

è come un intervento del Ministero delle Finanze sul debito pubblico, ogni

anno è in aumento, non facciamoci prendere in giro da qualche statistica

che espone cifre ottimistiche di lievi riduzioni che se poi leggete

attentamente sono lievi riduzioni per segmenti, sono lievemente ridotti i

35

processi pendenti in Appello, oppure sono lievemente ridotti i processi

pendenti in Cassazione, sono sempre in aumento li processi pendenti

davanti al Giudice di Primo Grado, quelli sempre. Tutto questo rinvia poi a

delle problematicità che riguardano l’ordinamento giudiziario e i rapporti

tra le diverse tipologie di uffici e le modalità con cui gli uffici si rapportano

tra di loro, perché non è un caso che siano stati dati quei termini ai

Sostituti Procuratori.

Due giorni fa è intervenuto un importante atto normativo secondario, di cui

i giornali non hanno minimamente parlato ma che per il mondo giudiziario

italiano una rivoluzione copernicana, che è la nuova riforma organica

dell’istituto delle Procure della Repubblica, che ha varato il Consiglio

Superiore della Magistratura, erano anni che si aspettava questo intervento

di normazione secondaria; adesso vedremo come andrà, ma ridisegna i

confini, i rapporti tra il Procuratore Capo, gli Aggiunti, i Sostituti, le

modalità di assegnazione dei fascicoli, le modalità di determinazione delle

aree specialistiche di intervento, tutte situazioni che a fascicoli zero

sarebbero bellissime da applicare, magari con una lettura

costituzionalmente orientata, come si diceva una volta, ma di fronte al

debito pubblico dei fascicoli pendenti rischia l’ennesima impasse, se il

Legislatore non avesse in questo caso un po’ pietosamente tenuto conto

della situazione di fatto e allora, un po’ facendo finta di accorciare i termini

da 6 mesi a 3 mesi e un po’ concedendo proroghe, ecco come si spiega la

nuova normazione relativa ai termini delle indagini.

La riforma si occupa di mille problemi alcuni dei quali io ho valutato nella

pratica giurisdizionale quotidiana anche positivamente. Le condotte

riparatorie che determinano il non luogo a procedere, per esempio; ne ha

parlato diffusamente l’Avvocato Gamberini e faccio solo due osservazioni

sul punto. Non è figlio soltanto delle norme che sono state citate, è forse

figlio più diretto, da un lato, dell’intervento normativo organico che fu fatto

sulla 231/01, che è stata la prima struttura di riforma a natura codicistica,

perché è il Codice relativo alla fattispecie che determina la responsabilità

amministrativa degli enti ed è stato il primo complesso organico di norme

in cui la presenza di condotte riparatorie comportava, in linea generale, cioè

per qualunque tipologia di imputazione degli enti, l’esclusione delle

sanzioni più gravi e l’applicazione soltanto delle sanzioni pecuniarie,

l’esclusione di determinate misure cautelari coercitive, e così via. Da

questo si è poi passati timidamente anche alle fattispecie penali vere e

proprie: un modello di creazione veramente più giurisprudenziale che

sostanziale è l’oltraggio. Il resuscitato art. 341 bis, che era stato dichiarato

incostituzionale e poi era sparito, poi non si è capito per quali urgenti e

impellenti necessità di ordine pubblico è stato reintrodotto, è stato però

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reintrodotto con la dizione che se l’imputato procede alla riparazione

integrale, sia nei confronti dell’agente oltraggiato sia del corpo di Polizia

Giudiziaria al quale appartiene, non se ne fa nulla, stretta di mano,

arrivederci, siamo tutti felici. In questo caso mancava la dizione normativa:

se il corpo di Polizia Municipale non risponde mai - cosa che accade

regolarmente, perché i Carabinieri rispondono abbastanza, la Questura

quando gli va, la Polizia Municipale mai - la giurisprudenza si è sostituita

al Legislatore e ha detto che in questo caso decide il Giudice e,

francamente, finora non ho trovato segni in Cassazione contrari a questo

orientamento consolidato, talmente consolidato che l’hanno introdotto con

una clausola di tipo generale. E’ sicuramente già interessante che l’istituto

della improcedibilità del reato a seguito di condotte riparatorie si possa

applicare attualmente per tutti i reati procedibili a querela, inclusi

certamente gli atti persecutori (perché non si capisce perché dovrebbero

essere esclusi gli atti persecutori solo perché la remissione di querela deve

essere processuale e non pre-processuale, con buona pace delle polemiche

giornalistiche), è già interessante che sia applicabile a queste tipologie di

reati e già ho trovato un certo consenso applicativo tra le Parti, devo dire

finora non conflittuale, per cui non ho mai dovuto esercitare né i miei

colleghi nel mio Tribunale hanno dovuto esercitare i poteri ufficiosi di

valutazione circa l’esaustività delle condotte riparatorie offerte: le parti si

sono messe d’accordo, forse ingolositi gli imputati e, tutto sommato,

affrante dopo anni di attesa le parti offese, a fronte magari di pochi e scarsi

benefici ma almeno pratici, anziché poi, dopo una condanna dell’autore del

reato, andare a cercare di recuperare qualcosa nei suoi confronti in sede

civilistica successiva al processo penale.

La parte più interessante sarà l’estensione dei reati a procedibilità a querela.

Da notizie giornalistiche si era appreso che se ne sarebbe dovuto occupare

il Consiglio dei Ministri di oggi. Non ho trovato tracce, perché si sono

occupati di banche e di altre questioni, comunque è imminente l’articolato,

è definito, quindi si tratta di una settimana al massimo due. Cosa dice la

norma relativa all’estensione della procedibilità a querela? Riguarda tutti i

reati contro la persona punibili fino a 4 anni, con l’eccezione della violenza

privata, e questa eccezione non l’ho mai capita ma comunque tant’è, non

dobbiamo capire cosa dice il Legislatore ma dobbiamo interpretare e

applicare, la norma è questa. E poi si dice: “Tutti i reati contro il

patrimonio”, non c’è più il limite dei 4 anni, con delle esclusioni

specifiche: persona offesa incapace per età, per infermità, se ricorrono le

circostanze aggravanti, effetto speciale. Quindi sono diverse, a questo

punto, le possibilità di eccezioni previste, ma ciò nonostante la platea

diventa molto, molto allargata. In questo caso l’intervento delle condotte

37

riparatorie collegate, coordinate con la possibilità che ha il Giudice di

valutare la congruità dell’offerta risarcitoria, nonostante il dissenso della

persona offesa, è sicuramente un elemento di possibilità di deflazione che

nel debito pubblico dei processi penali italiani è sicuramente importante.

Anche in questo caso è singolare notare come nello stesso corpus

normativo ci sono norme favorevoli all’apertura dei poteri di

discrezionalità del Giudice nel concedere o meno determinati benefici, e

poi ci sono norme assolutamente restrittive che dubitano delle possibilità

del Giudice di ampliare i suoi poteri di intervento. Questo è figlio forse

anche un po’ del dibattito che abbiamo sempre avuto in questi anni tra

l’Avvocatura, la Magistratura, i Pubblici Ministeri, non sappiamo deciderci

a dare una risposta organica perché ormai siamo usciti dalla logica

codicistica, siamo intervenuti nella logica degli interventi penali speciali,

sia procedurali che sostanziali, ormai siamo alle pezze. Non voglio

nemmeno ricordare l’ormai defunto Codice di Procedura Penale dell’89,

che è stato talmente rappezzato che non è neanche più un patchwork, ma

abbiamo perfino smesso di cercare di riformarlo organicamente e lo

facciamo con queste tipologie di interventi che vanno a coprire un tampone

là, un tampone qua, di un istituto piuttosto che un altro.

Abbiamo parlato delle condotte risarcitorie, dell’aumento della

procedibilità a querela, e ce ne sono mille veramente, i termini delle

indagini li abbiamo accennati, sulla problematica dell’appello non mi

permetto di intervenire. Pensiamo al giudizio abbreviato, per esempio o

all’intervento sul procedimento di archiviazione: questa strana introduzione

di un nuovo rito, l’impugnazione del decreto di archiviazione, decreto del

Giudice delle indagini preliminari, viene impugnato davanti al Giudice

Monocratico; sarà necessaria in tutti i Tribunali italiani una variazione

tabellare per indicare negli uffici di una certa rilevanza quale sia il Giudice

predeterminato per legge che deve occuparsi dell’opposizione

all’archiviazione contro quell’altro del GIP, comunque, per carità, una

questione tabellare si può fare, dove l’unico potere di questo Giudice

Monocratico è, nel caso di accoglimento, quello di restituire gli atti al GIP,

perché la norma dice soltanto: o il Giudice del reclamo respinge il ricorso e

conferma il provvedimento, quindi l’archiviazione resta archiviazione, o

accoglie il ricorso, ma non è che accoglie il ricorso e quindi prende le

decisioni, no: facciamo questo passaggio tipo baseball, piglia, rimanda la

palla in campo, ritorna al Giudice e con la tempistica e i numeri di tutto

questo andare e tornare di processi per definizione non urgenti, perché se è

stata chiesta l’archiviazione sarà stata anche opposta, avrà anche avuto

ragione il ricorrente a opporre, ma siamo in un campo che nella gestione

ordinaria - e adesso vi parlerò della problematica della gestione dei processi

38

prescrivendi nei rapporti con la Corte d’Appello - della massa dei processi

che viaggiano dalla Procura fino agli appelli tutto quello che sono richieste

di archiviazione sono considerate di default non urgenti, da qualunque tipo

di normazione secondaria che voi troviate in qualunque ufficio giudiziario

italiano. Quindi immaginate la tempistica, anche in caso di accoglimento e

restituzione al GIP: i tempi di prescrizione arriveranno ben prima

dell’eventuale giudizio di merito di primo grado e quindi rientrerebbero in

quella statistica opportunamente citata dall’Avvocato Gamberini che il 50 e

passa percento si prescrivono ancora nella fase delle indagini preliminari.

Una norma del genere non ho capito la necessità di introdurla, questa sorta

di teatrino del passaggio avanti e indietro, ma certamente non è nel senso

dell’accelerazione delle trattazioni dei procedimenti.

Dicevo, prescrizioni: state tranquilli, non ho intenzione di fare contrappunti

alla disciplina sulla bizzarria di queste forme di sospensione della

prescrizione. Un senso ce l’hanno, perché prima dell’introduzione di questa

normativa non è che gli uffici giudiziari non si fossero occupati della

problematica grave di questi processi che occupano risorse, sfiancano le

statistiche degli uffici e poi finiscono nel nulla magari dopo molti anni.

Emblematica, la cito perché siamo fuori dal mio attuale distretto, la

circolare che suscitò un vespaio al Consiglio Superiore della Magistratura,

che però poi l’approvò, del Presidente della Corte d’Appello di Bologna -

l’Avvocato Gamberini la conoscerà bene - una circolare che era ricognitiva

dello stato degli atti e che diceva semplicemente questo: “Cari Tribunali,

non azzardatevi neanche lontanamente a trasmettere alla Corte d’Appello

sentenze che si riferiscano a procedimenti che all’atto dell’esercizio

dell’azione penale, quindi con trasmissioni all’organo giudicante di primo

grado, siano a meno di 18 mesi dalla prescrizione, perché sappiate che io

non li voglio proprio vedere. Non azzardatevi a fare la solita sentenza un

giorno prima della perenzione del termine di prescrizione per dopo

scaricare la statistica della prescrizione sulla Corte d’Appello ricevente,

perché qui è ora di finirla”. So che ve ne ho già parlato anche in incontri

precedenti. Questo riguarda anche la gestione in generale della carriera

della Magistratura; oggi la prescrizione è temuta molto meno, in passato

era temutissima perché il Magistrato individuato come responsabile della

prescrizione di un procedimento correva perfino guai seri, molti anni

addietro, adesso magari guai meno seri, però possibili ritardi nelle

valutazioni della progressione, e siccome la valutazione della progressione

comporta anche un ritardo negli aumenti stipendiali, ci sono molti che ci

badano a questa tipologia di problematiche che ne derivano. Insomma, la

prescrizione non piace a nessuno. Non piace soprattutto ai dirigenti degli

uffici di prime cure che devono essere valutati magari per promozioni, che

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adesso sapete sono regolate da una normazione secondaria particolarmente

complessa, che è quella relativa agli incarichi direttivi e semidirettivi. In

soldoni, i Procuratori della Repubblica non vogliono avere questi fascicoli

tra i piedi nei loro uffici e non vedono l’ora di liberarsene, ma devono

aspettare l’esito delle indagini, le indagini sono complicate, l’abbiamo visto

prima, se la stessa Riforma Orlando è stata lì sostanzialmente a dilatare le

possibilità dei Sostituti di continuare a indagare. Quindi tenderebbero a

liberarsene mandando agli uffici di primo grado. Nel mio distretto attuale i

Tribunali hanno detto: “Nossignore, perché se tu me li mandi quando

mancano meno di 18 mesi dalla prescrizione nei termini ordinari io non te

li prendo, perché la Corte d’Appello non vuole che io faccia la sentenza,

perché poi finisce che la prescrizione ricade sulla Corte d’Appello”. Quindi

cosa hanno fatto alcuni Tribunali del mio distretto? Semplicemente non

hanno fissato i processi. Siamo arrivati al caso limite di un Tribunale che

non menzionerò, ma il dato è corretto, in cui vi erano cinquemila richieste

di fissazione di procedimenti monocratici di primo grado che il Presidente

della Sezione Penale semplicemente ha preso e ha messo in un cassetto

dicendo: “Io non te li fisso perché hai impiegato troppo tempo a fare le

indagini”.

Di fronte a queste problematiche della gestione del processo quotidiano

penale italiano, una riforma disorganica come la Riforma Orlando può dare

risposte positive o negative, ma certamente non incide su quella che è

l’aspettativa principale di noi operatori pratici e cioè avere finalmente la

possibilità di poterci confrontare con un sistema organico processuale, cosa

che fino a questo momento risulta alquanto utopica. Certo, torneremmo

indietro rispetto a quella che era stata la serie di successioni di varie

Commissioni ministeriali, che adesso sono passate di moda, che hanno

affrontato sia il processo penale che il diritto penale sostanziale, all’esito di

tutte le quali era sempre stato accompagnato un disegno di legge di

depenalizzazione organica e un’invocazione ormai disperata di amnistia,

perché è l’unico modo per liberarsi del debito pubblico processuale. Sul

debito pubblico non possiamo schioccare le date dicendo: “Non lo

paghiamo più”, però fino al 1985 si faceva un’amnistia ogni 5 anni, poi

sono passate di moda, adesso creano problemi di ordine pubblico. Però se

vogliamo ripartire da zero con un processo penale che aspiriamo a far

funzionare, un’amnistia radicale di tutti i processetti sarebbe assolutamente

indispensabile e tutte le riforme del Codice la avevano ipotizzata, quanto

meno nella forma della depenalizzazione. Ora la politica non ci consente né

le amnistie né le depenalizzazioni e allora il povero Ministro Orlando si è

inventato l’estensione della procedibilità a querela e le condotte riparatorie:

sono istituti positivi, perché se non possiamo fare in un modo cerchiamo di

40

ridurre le pendenze dall’altro, ma è solo una riduzione di pendenze, perché

lo zoccolo duro resta e sono milioni di processi penali pendenti. Il nostro

sistema non se lo può permettere, non possiamo più permetterci

l’obbligatorietà dell’azione penale, questo è il dato di fatto di fondo che

tutti fanno finta di non voler affrontare. Si dice sempre: “Ma

l’obbligatorietà è meno affrontabile però abbiamo cercato di farvi fronte in

qualche modo con i vari istituti”. Mi viene da rispondere al problema della

Legge Pecorella: io ero in Procura della Repubblica quando fu introdotta e

devo dire che a noi fece anche piacere, dicemmo: “Così finalmente

possiamo fare a meno di occuparci degli appelli sulle assoluzioni”. Fu una

certa liberazione, anche perché un Sostituto Procuratore, caro Prof. Ferrua,

già di suo tempo di occuparsi delle impugnazioni altrui ne ha ben poco,

figuriamoci delle impugnazioni anche delle assoluzioni. Ovviamente i capi

premono, le persone offese di più, e quindi il problema è politico, è stata

reintrodotta, giusto e sbagliato che sia, però è un dato di fatto con cui

dobbiamo ancora confrontarci, è stato reintrodotto l’appello contro

l’assoluzione da parte del Pubblico Ministero, al momento teniamocelo.

Però vi posso assicurare che culturalmente non era stata una rivoluzione

così radicale, solo alcune frange hanno gridato allo scandalo, secondo me

di scandaloso non c’era assolutamente nulla.

L’altra normazione che doveva andare oggi al Consiglio dei Ministri era

quella sulle intercettazioni telefoniche, la Riforma Orlando ne tratta forse

più marginalmente. C’era un disegno di legge a parte, un decreto

legislativo, è pronto ormai anche quello, ne riparleremo penso a lungo

quando il Governo lo varerà, ma lo varerà a breve. Quindi stiamo attenti

che il confronto quotidiano anche su questo aspetto delle indagini

preliminari sarà un confronto con il quale dovremo fare assolutamente i

conti.

Io direi che da un punto di vista dogmatico vi aspettate di più dagli

interventi del Prof. Ferrua e dell’Avvocato Gamberini. Quindi mi riservo

qualche contrappunto successivo e vi ringrazio della cortese attenzione.

AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

A questo punto ritorniamo al Prof. Ferrua, col quale siamo in credito del

suo intervento sul metodo della Riforma Orlando.

RELAZIONE DEL PROF. AVV. PAOLO FERRUA (II^ PARTE)

41

La disfunzione del linguaggio legislativo, divenuto sempre più oscuro,

indecifrabile, talvolta contraddittorio – di cui si è visto un esempio con la

riforma Orlando - genera inevitabilmente interpretazioni ‘creative’, in

quanto prive di solida base testuale. Altrettanto può accadere in presenza di

scelte palesemente ingiuste o inadeguate: la tentazione di rimediarvi in via

giurisprudenziale, senza passare attraverso la via più complessa della

questione di legittimità costituzionale, è indubbiamente forte. Naturalmente

il giudice si guarderà bene dall’ammettere il carattere creativo della sua

scelta che sarà sempre mascherata sotto l’alibi della interpretazione.

A sua volta il diffondersi di interpretazioni creative scoraggia l’impegno

del legislatore alla chiarezza dei suoi testi, sul presupposto che sarà

comunque la giurisprudenza a determinarne, più o meno arbitrariamente, il

significato; e in questo dissennato intreccio tra disfunzioni del legislatore e

interpretazioni creative è difficile stabilire se all’origine vi siano le prime o

le seconde.

Spinte contestatrici verso la soggezione del giudice alla sola legge e

interpretazioni creative si sono periodicamente presentate nella storia. Ma,

mentre in passato si manifestavano essenzialmente come reazione a

supposte inadeguatezze o ingiustizie della legge, oggi si direbbero piuttosto

animate dalla diretta e autonoma rivendicazione di una funzione

nomopoietica per l’interprete: il che rende il fenomeno assai più complesso

e meno dominabile.

Dall’idea ingenua e utopica del giudice-bocca della legge, che va

semplicemente applicata e non interpretata, si è giunti dopo un lungo

percorso all’opposta idea di un diritto giurisprudenziale svincolato dalla

legge o, comunque, rispetto al quale la legge ha solo un valore

programmatico di orientamento, di semplice punto di partenza per un

autonomo percorso argomentativo. Dallo slogan illuminista ‘c'è solo la

legge, non ci sono interpretazioni' si naviga a vele spiegate verso quello

post-moderno, di derivazione nietzschiana 'non c'è la legge, ci sono solo

interpretazioni'.

Il risultato è una profonda alterazione del fisiologico rapporto tra il diritto

“vigente”, rappresentato dalla legislazione, e il diritto “vivente”, espresso

dalla giurisprudenza. Il diritto vivente che, in regime di soggezione del

giudice alla legge, dovrebbe riflettere il diritto vigente e tradurne il

significato nella singola controversia, si è da esso progressivamente

emancipato, per diventarne il tiranno, anzi il sicario. Al punto che, per

riprendere forza ed effettività, il diritto vigente è ormai spesso costretto ad

allinearsi alla giurisprudenza, a inseguire e ratificare il diritto vivente, a

volte maldestramente come accade con la riforma Orlando. Cedant leges

togae: in queste parole si potrebbe riassumere il capovolgimento di rapporti

42

tra legislazione e giurisdizione. Non c’è da stupirsi allora se il ministro

Orlando auspica che le procure della repubblica vogliano assumersi la

‘paternità’ della riforma sulle intercettazioni.

Figure improprie di legislatore se ne trovano facilmente nella storia.

Ricordo un periodo in cui nei processi interveniva l’avvocato-legislatore. Il

parlamentare-avvocato sosteneva una certa tesi di fronte al giudice; questi

la respingeva perché contraddetta dalla legge; ma nei giorni successivi

l’eccezione difensiva si trasformava in un disegno di legge. Ora è tempo

del giudice-legislatore. La legge appare inadeguata, ma, anziché auspicare

la sua riforma o sollevare questione di legittimità costituzionale, la si

‘corregge’ con un’interpretazione creativa.

Bisogna, d’altro canto, ammettere che il potere nomopoietico della

giurisprudenza riceve autorevoli incoraggiamenti da parte di illustri autori.

Cito, ad esempio, qualche passo di Paolo Grossi in un suo recente scritto

sul diritto postmoderno (pubblicato in Percorsi giuridici della post-

modernità, a cura di Roberto E. Kostoris, Il Mulino, Bologna, 2016, 40 s.):

«Dovremmo toglierci di dosso quella veste strettissima dell’esegesi che la

modernità ci ha buttato sulle spalle rendendoci servi della legge.

Dovremmo smettere di gloriarci di questa servitù, che ci impedisce di

svolgere il ruolo che ci viene attualmente richiesto: che non è il ruolo di

esegeti, bensì di interpreti inventori». «Inventori - precisa in nota l’illustre

A. - nel senso (suggerito dall’invenire latino) che vo ripetendo con

insistenza in questi ultimi anni: di cercatori di un ordine giuridico riposto,

non appariscente ma esistente: che va trovato, individuato, definito

tecnicamente».

Immagino che Grossi si riferisca soprattutto al diritto civile. Ma, trasferita

nel settore penale, è una prospettiva che può entrare in forte tensione con il

principio di stretta legalità che dovrebbe dominare questa materia. Credo

che la diffidenza verso la soggezione del giudice alla sola legge derivi da

un’idea ingenua di questo principio, inteso come schiavitù verso la lettera

della legge, come automatismo nell’applicazione della legge, non mediato

da un’attività interpretativa, secondo un brutale slogan del tipo, ‘la legge

non si interpreta, ma si applica’. Una prospettiva che nessuno oggi potrebbe

ragionevolmente sostenere e a cui, anche in passato, ben pochi devono

avere seriamente creduto. Se correttamente si intende la soggezione alla

legge come impegno interpretativo che, avendo come punto di partenza la

lettera del testo, individua con un’argomentazione sistematica il suo

plausibile significato in rapporto al thema decidendum, non v’è ragione di

deplorare la ‘servitù’ rispetto alla legge

Altro esempio. In un articolo apparso sulla Rivista di diritto penale

contemporaneo del 6 febbraio 2017, il Presidente della Cassazione

43

Giovanni Canzio afferma: «Poi c’è il linguaggio del Legislatore, che non è

mai stato del tutto prescrittivo ma che oggi è molto meno prescrittivo di un

tempo. Quel linguaggio è divenuto sempre più descrittivo e

programmatico». Non so, in verità, se questo sia detto in termini critici o

nella logica della condivisione. Concordo, però, sul fatto che il linguaggio

del legislatore stia perdendo progressivamente la sua efficacia prescrittiva.

Questa sta, purtroppo, a significare che la legge non è più legge; o meglio

si è trasformata in un testo su cui l’interprete può liberamente esercitarsi

alla ricerca del senso più conforme ai propri valori.

Aggiunge ancora Canzio. «Ormai una forma attenuata di stare decisis ci

avvicina ai sistemi di common law. La dicotomia classica basata sulla

diversa forza del precedente vincolo - vincolativo in common law e solo

persuasivo in civil law - mostra oggi la corda». Anche questo è vero. Ma è

un male, dal mio punto di vista, perché lo stesso principio di diritto fissato

dalla Cassazione non dovrebbe vincolare oltre i limiti segnati dal singolo

processo. Naturalmente l’interpretazione dei giudici di legittimità sarà

tenuta nel massimo conto; ma, ove esistano buone ragioni per ritenerla

errato, non si vede perché un giudice non possa disattenderla, motivando il

suo dissenso.

Va detto che una decisa spinta nella direzione qui criticata risale alle

sentenze gemelle della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007),

secondo le quali la Convenzione europea va applicata «come interpretata

dalla Corte europea»; in altri termini, le interpretazioni della Convenzione

europea, che i giudici di Strasburgo enunciano nella motivazione delle loro

pronunce, sarebbero vincolanti. Questo assunto non contraddice solo il

principio di soggezione alla sola legge, in forza del quale il giudice deve

ricevere solo «dalla legge l’indicazione circa le regole da applicare nel

giudizio» (così la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015);

vanifica anche la fondamentale distinzione tra motivazione e dispositivo.

Le decisioni di ogni organo giurisdizionale vincolano rispetto a ciò che

accertano, vale a dire rispetto a ciò che risulta dal dispositivo, che è, per

l’appunto, un comando o un enunciato performativo volto a risolvere la

singola controversia, a ‘imporre’ la parola del diritto (‘condanno’,

‘assolvo’, ‘dichiaro violato l’art. 6 della Convenzione europea’, ecc.). La

motivazione non ‘impone’ nulla, esprime le ragioni del decidere, il

percorso argomentativo seguito dal giudice in fatto e in diritto, condizione

necessaria perché la sentenza non risulti solo manifestazione di un ‘potere’,

ma anche frutto di un ‘sapere’. Tuttavia, come ogni attività puramente

conoscitiva, la motivazione non possiede alcuna forza vincolante: gli

argomenti e le ragioni non costituiscono comandi, valgono solo in forza

della loro persuasività. Per una elementare regola logica, prima ancora che

44

giuridica – purtroppo ignorata dalle sentenze ‘gemelle’ - non si può

trasformare un esercizio di ragione in un comando. Le ragioni convincono,

gli ordini vincolano.

Questo, naturalmente, non esclude che la motivazione possa svolgere una

funzione ‘interpretativa’ del comando racchiuso nel dispositivo,

chiarendone il significato, quando questo appaia dubbio; né che il

dispositivo possa richiamare per relationem una frase della motivazione,

integrando in tal modo il contenuto del comando. Ma, in entrambi i casi,

l’effetto vincolante deriva unicamente dal dispositivo il cui senso viene

ricostruito in sede interpretativa: non una sillaba della motivazione può

essere convertita in un comando, se non nella stretta misura in cui il

dispositivo l’abbia implicitamente o espressamente recepita. Le ragioni

espresse nella motivazione corrispondono a opinioni e convinzioni più o

meno solide, più o meno determinate nei contorni; e, sino a che il giudice

non le traduce in comandi o in categoriche asserzioni attraverso il fiat del

dispositivo, non possono assumere efficacia vincolante; così come, in una

legge o in un codice, la relazione illustrativa, pur di grande utilità a fini

interpretativi, è priva della forza prescrittiva, riservata solo al testo delle

singole disposizioni.

Vengo alle conclusioni. Il dilemma che si apre a questo punto è chiaro.

Assecondare o semplicemente non opporsi alla deriva del diritto vigente,

ormai ridotto ad una funzione più programmatica che prescrittiva,

equivarrebbe a spostare l’asse della legalità dalla legge alla giurisprudenza;

soluzione quasi auspicata da chi ritiene inevitabile la supplenza della

magistratura a fronte di un potere legislativo privo di una visione organica

e spesso incline ad assecondare istanze populistiche ed emotive. Ma la

tutela della legalità e della insopprimibile esigenza di certezza del diritto

non può certo realizzarsi spontaneamente attraverso uniformi indirizzi

giurisprudenziali. Si finirebbe allora per attribuire alla Corte di cassazione

un potere di interpretazione vincolante analogo a quello riconosciuto alla

Corte europea; e un preciso segnale in questo senso è già contenuto il

nuovo testo dell’art. 618 c.p.p. dove, a seguito della riforma ‘Orlando’, si

obbliga la singola sezione, che non condivida «il principio di diritto

enunciato dalle Sezioni unite», a rimettere «a queste ultime, con ordinanza,

la decisione del ricorso».

Dal mio punto di vista il rimedio sarebbe peggiore del male. Consentire che

il diritto vivente, pur dotato della massima autorevolezza, possa de facto

modificare il diritto vigente equivarrebbe a vanificare definitivamente il

principio della soggezione del giudice alla sola legge. L’interpretazione

della legge si convertirebbe di fatto in un vero e proprio potere

nomopoietico, concentrato in una sede verticistica, slegata da qualsiasi

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rappresentatività; il vincolo ai dicta dei giudici di legittimità ridurrebbe

sensibilmente lo spazio del contraddittorio sulle questioni di diritto e si

sopprimerebbe quella preziosa dialettica con i giudici di merito che può

indurre la Cassazione a rivedere e perfezionare i propri indirizzi. Il minimo

che a questo punto si dovrebbe pretendere è di trasformare la Cassazione in

un organo elettivo, collocato presso il Parlamento.

Contrastare questa deriva, rivendicando effettività al primato democratico

della legislazione e al principio della soggezione del giudice alla sola legge,

appare un compito assai difficile; quasi una sfida impossibile, perché

implica una condizione oggi del tutto assente, ossia l’impegno del

legislatore alla chiarezza e precisione del linguaggio e, quindi, al rispetto in

materia penale dei principi di stretta legalità e di tassatività. Ma è anche un

compito perfettamente ragionevole. Non è un buon metodo quello di

arrendersi ed accettare come inevitabile l’inefficienza di un potere

legislativo, che, per non assumere la responsabilità delle sue scelte, si

relega a suddito di quello giudiziario. Sino a che resta ferma la tripartizione

dei poteri, compito della magistratura non è di ‘revisionare’ o di

‘perfezionare’ le leggi, ma di ‘interpretarle’, tenendo conto dei rapporti di

gerarchia e di successione che si pongono tra le diverse fonti normative; le

disfunzioni di un potere non possono trovare il correttivo nelle disfunzioni

di un altro potere. Come giustamente osservato da Luigi Ferrajoli,

«nell’attuale dissesto della legalità non c’è nulla di naturale e di inevitabile,

essendo ben possibile una sua rifondazione che la scienza giuridica non può

non promuovere progettando, in attuazione del paradigma costituzionale, le

garanzie idonee a restituire alla legislazione capacità regolative».

Grazie.

RELAZIONE DEL PROF. AVV. ALESSANDRO GAMBERINI (II^

PARTE)

Il Prof. Ferrua ha aperto un capitolo che meriterebbe da solo ben altre

riflessioni, quindi non mi ci inoltrerò, se per non per fare osservare che lo

svanire della tipicità della fattispecie - che attiene sia al modo di

formulazione, sia al modo di interpretazione, sia all’aggancio a input

sovranazionali che mettono in tensione l'ordinata lettura del sistema

ordinamentale - va misurata rispetto alla dinamica del processo. Di fatto è

in particolare rispetto al Magistrato inquirente che si manifesta l'assenza di

tipicità. Ciò che è carente in fase di giudicante, lo è esponenzialmente

quando in una fase ancora magmatica del procedimento. Un potere dunque

di fatto sempre più sottratto alla sottomissione alla legge. I Magistrati

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vanno selezionati per concorso, ma non ho più la stessa convinzione

rispetto ai Pubblici Ministeri. L’iniziativa delle Camere Penali, che hanno

sottolineato la necessità della separazione delle carriere, è ormai del tutto

inadeguata e sotto il livello della questione che poneva il Prof. Ferrua.

Le conseguenze penose per i cittadini coinvolti nel processo penale si

svolgono (spesso esclusivamente) in via anticipata, comunque attraverso la

stigmatizzazione pubblica, quando non con l’esecuzione di misure

cautelari: il diritto penale ha perduto sul piano sostanziale il rispetto della

sua frammentazione, che era un principio di garanzia essenziale, come

diritto penale posto a tutela dei beni. La tutela è divenuta onnivora, capace

di utilizzare sotterraneamente l’analogia in malam partem pur di venire

incontro, secondo le cadenze di un populismo penale diffuso, alla domanda

indistinta che proviene o si assume provenga dalla società civile. Le scelte

sono divenute scelte di politica penale dietro la maschera vuota

dell'obbligatorietà dell'azione penale e dunque in fase di indagine non si

può più di fare affidamento su soggetti che non hanno nessuna

legittimazione per operare la scelta.

Apro un tema sul quale so benissimo quali sono i problemi, il rispetto

dell'autonomia, la possibilità di evitare che altre forme di selezione diano

luogo a sacche di immunità, ma questo mi pare il tema.

Una battuta sulla riparazione, di cui pure il nostro interlocutore dottor

Marini si proclama soddisfatto, perché ne coglie il significato deflattivo.

Il significato deflattivo c’è, figuriamoci, ma si può operare una deflazione

senza tener conto del significato della tutela, cioè senza tener conto che non

puoi deflazionare monetizzando la tutela della persona e dell’incolumità.

Possiamo creare un prepotente seriale impunito solo perché capiente?

Intendo dire che anche quando ci si inoltra nell’ambito della deflazione il

tema non sono solo i numeri, la gerarchia dei beni andrebbe rispettata.

In questo caso averla allargata non solo ai reati contro il patrimonio, per i

quali questa deflazione sarebbe fisiologica, ma ai reati contro la persona

viola un principio fondante anche un aspettativa sociale di giustizia. Non si

comprende tra l'altro perché in questo contesto sia stata esclusa la violenza

privata e gli stessi reato contro il patrimonio quando provocano danni di

rilevante entità: in quest'ultimo caso il pagamento ne sanerebbe comunque

gli effetti lesivi.

RELAZIONE DEL PRES. DOTT. LUCA MARINI (II^ PARTE)

Prima di fare un brevissimo contrappunto su alcuni spunti molto

interessanti che gli illustri Relatori hanno individuato, sfogliando ho

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trovato un’altra norma del pot-pourri, perché questa è una miniera, la

Riforma Orlando, e l’ho anche già applicata, per cui avrei dovuto

ricordarmene prima: l’art. 72 bis, che finalmente ha posto fine a quella

agonia dell’imputato che è sopravvenuto incapace, infermo di mente, che

ogni 6 mesi bisognava noiosamente rinviare, ripetere la perizia per far

accertare che non era in grado di seguire il processo. Finalmente, e questa è

una nota positiva, non posso che parlarne bene, dice: se viene finalmente

accertato che lo stato di incapacità mentale è irreversibile, il Giudice

pronuncia sentenza di non luogo a procedere e non se ne parli più. La

norma è bellissima, già ho sentito alcuni miei colleghi del Servizio

Antimafia Permanente Effettivo sostenere che però bisogna stare attenti

perché potrebbero esserci delle resurrezioni improvvise di malati più o

meno terminali che una volta che sono stati prosciolti improvvisamente

risorgono come Lazzaro dal proprio sepolcro, però questa mi sembra

veramente una critica maligna e maliziosa che non merita di contrastare

quello che è l’aspetto positivo di questo art. 72 bis.

Il valore del precedente giurisprudenziale, argomento affrontato dal Prof.

Ferrua, è uno degli argomenti più interessanti degli ultimi anni nella

giurisprudenza. Non parlo del merito, perché non a caso Canzio ha espresso

quel parere da neonominato Presidente della Suprema Corte, carica alla

quale tiene molto non soltanto per se stesso ma soprattutto per i significati

sostanziali che ne derivano nel rapporto tra la giurisprudenza della

Suprema Corte e le giurisdizioni, compresa la Cassazione. Non a caso sono

state introdotte queste norme che regolano i rapporti tra le Sezioni Semplici

e le Sezioni Unite, perché prima erano lasciate alla normazione secondaria

della Corte, adesso sono di norma primaria e quindi diventano vincolanti.

Ma i rapporti del Giudice di merito con giurisprudenza di Cassazione non

sono al momento esenti da normazioni, non primarie ma secondarie sì.

Esiste una norma del Codice Disciplinare, e voi sapete che il Codice

Disciplinare per i Magistrati adesso determina l’esercizio obbligatorio

dell’azione disciplinare, impone al Magistrato che dissente rispetto a

principi consolidati delle Sezioni Unite di motivare adeguatamente, se non

lo fa o se omette la motivazione si espone a procedimento disciplinare, e

questa mi sembra già una strada aperta verso l’introduzione del precedente

vincolante, perché io posso non aver motivato per inettitudine, per

ignoranza, per faciloneria, però sta di fatto che, francamente, mi sembra

una deroga al principio del fatto che il Giudice è soggetto soltanto alla

Legge ed è obbligato a motivare rispetto alla sua soggezione alla Legge,

non rispetto alla sua soggezione al precedente, sia pur autorevole, delle

Sezioni Unite. Questa, francamente, a proposito di creatività, mi sembra

una creatività piuttosto pesante. Ovviamente, l’azione disciplinare

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comporta tutta una serie di problematiche relative al carriera del singolo

Magistrato, che può darsi che lo porti a essere acquiescente per pavidità,

ma tutto sommato credo che la pavidità possa rientrare nella fisiologia del

comportamento umano, ma mi sembra più grave la previsione di una simile

rivoluzione copernicana delle gerarchie delle fonti decisionali che si è fatta

passare sotto traccia soltanto attraverso mere prassi applicative.

Con questo non voglio portare via altro tempo. Grazie.

AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

Noi avremmo finito il secondo giro, al quale mi fa piacere che i Relatori

abbiano acceduto di propria iniziativa, questo a dire che forse abbiamo

fatto la scelta giusta di fare anche il secondo per gli interventi.

Chiederei ai colleghi se ci sono questioni da proporre ai nostri Relatori.

DIBATTITO

Avv. Giorgio Bortolotto

Mi chiedo solo se un rimedio a questo indirizzo vincolante della

giurisprudenza non potrebbe essere una riforma dell’art. 106 della

Costituzione, cercando di aumentare il numero degli Avvocati che vanno a

far parte della Corte in maniera stabile. Questo mi stavo chiedendo.

Avv. Luigi Ravagnan

Io sono uno dei responsabili, anzi, mi sento responsabile per l’eliminazione

della Legge Pecorella, perché ho partecipato al giudizio dinnanzi alla Corte

Costituzionale sostenendo l’annullamento della legge. Di fronte a me, come

Avvocato e non come Giudice costituzionale, c’era il Prof. Frigo, ci siamo

battuti, e ritengo che fosse una brutta legge, scritta male e anche aggressiva

di beni fondamentali.

Una riflessione: attenzione nel riportare le norme ed ampliare la

procedibilità a querela di molti reati, la problematica delle condotte

riparatorie. E’ vero, il Legislatore è quel che è, però mi sembra che non

abbia sufficiente tutela comunque il danneggiato dal reato; cioè chi subisce

il reato è la vera e propria persona offesa/danneggiata e, tutto sommato,

anche, ovviamente, l’imputato innocente. Ci sono delle prassi e delle

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sistematicità evidenziate vieppiù da questa normativa che sono, ritengo,

molto, molto aggressive della libertà del cittadino.

Io ringrazio molto dell’altissimo livello della riflessione e auspico, nel mio

piccolo, non sono nulla, il ritorno alla legge, perché solamente il ritorno

alla legge ci sposta da ordinamenti come quelli evocati nazisti oppure al

vecchio diritto veneziano, anche quello interpretativo. Dobbiamo fuggirlo

come un grande male, perché solo la tassatività può dare tutela, a mio

avviso, sia all’imputato che alle vittime dei reati.

Grazie.

AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

Chi vuole rispondere?

PROF. AVV. PAOLO FERRUA

Quanto alla legge Pecorella, concordo sull’infelice clima politico in cui era

maturata così come su alcune sue incoerenze. Senza dubbio sussiste

l’esigenza di avere rimedi sia contro l’ingiusta condanna sia contro

l’ingiusta assoluzione. Nondimeno, essendo la prima ben più grave della

seconda, non pare irragionevole che contro la condanna sia prevista la

doppia garanzia dell’appello e del ricorso in cassazione e che, invece,

contro l’assoluzione sia consentito solo il ricorso; il quale, essendo ormai

esteso anche al raffronto tra gli atti del processo e la sentenza, dovrebbe

essere più che sufficiente a rimediare a gravi errori nell’assoluzione. Non

va, d’altronde, dimenticato che l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti

civili e politici garantisce all’imputato, in caso di condanna, il diritto al

riesame della colpevolezza, senza prevedere alcun simmetrico diritto al

pubblico ministero contro l’assoluzione.

La Corte costituzionale nella sentenza n. che ha dichiarato illegittima la

soppressione dell’appello avverso l’assoluzione è incorsa in una grave

contraddizione. Dapprima afferma che «l’eliminazione del potere di

appello del pubblico ministero non possa ritenersi compensata – per il

rispetto del principio di parità delle parti – dall’ampliamento dei motivi di

ricorso per cassazione, parallelamente operato dalla stessa legge n. 46 del

2006 (lettere d ed e dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., come sostituite

dall’art. 8 della legge): e ciò non soltanto perché tale ampliamento è sancito

a favore di entrambe le parti, e non del solo pubblico ministero; ma anche e

soprattutto perché – quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi

casi di ricorso – il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame

di merito, consentito dall’appello». Ma poco dopo, dovendo rendere conto

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dei rimedi concessi contro la condanna pronunciata in appello nei riguardi

dell’imputato già assolto in primo grado, sostiene che la semplice

previsione del ricorso in cassazione sarebbe, invece, sufficiente a garantire

il diritto al riesame previsto dal Patto internazionale. La disparità del metro

di valutazione non potrebbe essere più manifesta, specie nel contesto di un

giudizio volto a censurare ‘diseguaglianze’. Grazie.

Avv. Luigi Ravagnan

Vorrei dire una cosa molto rapidamente. E’ vera l’obiezione, ma ricordo

che l’Unione delle Camere Penali, il centro Marongiu, di cui

immeritatamente ho fatto parte per qualche anno, aveva proposto una

normazione in base alla quale, ove vi fosse stata una prospettiva di riforma

della sentenza di primo grado, la riedizione di un giudizio di primo grado.

PROF. AVV. PAOLO FERRUA

Era Nappi che lo proponeva.

Avv. Luigi Ravagnan

Esatto. Avevamo come Commissione elaborato anche un testo di sistema...

PROF. AVV. PAOLO FERRUA

Rescindente.

Avv. Luigi Ravagnan

Rescindente nuovo giudizio.

PROF. AVV. PAOLO FERRUA

L’unico guaio è che per passare da un’assoluzione a una condanna con quel

sistema ci vogliono cinque gradi!

Avv. Luigi Ravagnan

Ma c’è un problema ulteriore, che non è un problema, è una garanzia per

l’imputato: ci vuole una sentenza dove la prova d’accusa sia sicura oltre

ogni ragionevole dubbio. Ecco anche perché la possibilità di limitare la

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ricerca, per non modificare arbitrariamente un nuovo giudizio contro

l’imputato. Questo ci tenevo a dirlo.

Seconda osservazione e ho veramente finito. Il punto è questo: rendiamoci

conto, io spesso mi trovo ad assistere persone offese, ma anche imputati, e

lo sa bene il Presidente Marini. La persona offesa oggi si trova spesso ad

avere davanti reati punibili a querela, le condotte riparatorie vere o

presunte, davanti a un Giudice unico; evviva Dio, davanti a un Giudice

unico, con reati anche puniti fino a 10 anni, ma l’errore giudiziario, anche

contro la logica e la tutela della vittima del reato, vogliamo dire che c’è? E

allora evviva l’appello per tutti, un appello vero, perché a volte non c’è

altra tutela per la vittima, anche nei reati contro il patrimonio!

Grazie.

PRES. DOTT. LUCA MARINI

Intervengo un secondo su questo punto.

Ha ragione, secondo me, il Prof. Ferrua che in realtà il ricorso per

Cassazione adeguatamente parametrato ai criteri vigenti sarebbe

sufficiente, perché se è dubbia l’assoluzione o la condanna, il dubbio

permane.

Un mio simpatico collega, diciamo molto liberal in materia di consumo di

stupefacenti, si ostinava ad assolvere continuamente questi ragazzotti che si

coltivano la piantina di marijuana in casa, sotto il profilo che era destinato a

consumo personale. Ma è notorio che l’art. 75 non contempla la

coltivazione e quindi sistematicamente il P.M. faceva ricorso per

Cassazione e sistematicamente la Cassazione lo accoglieva, restituiva tutto.

Finché alla sesta o settima volta mi è arrivata una nota, girata per vie

gerarchiche, quindi a me direttamente, dal Presidente della Corte che mi

invitava a chiarire il comportamento di questo collega perché in sede di

rapporto valutativo sulla sua professionalità non fosse scritta una riga sul

perché questo si ostinava a infischiarsene della legge e degli orientamenti

giurisprudenziali consolidati. Questo unisce le due problematiche. Lui

creativo, cattiva la Cassazione che si è stufata di questi continui ricorsi.

Però la strada sul rispetto della Suprema Corte per via giurisprudenziale

resta drammaticamente aperta.

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AVV. ALESSANDRO GAMBERINI

Due battute su questo. Adesso non so se la presenza degli Avvocati in

Cassazione sarebbe taumaturgica, perché non sopravvalutiamo il nostro

ruolo, anche se sarebbe importante per portare il segno di una diversa

esperienza professionale e culturale. Devo dire, non conosco da questo

punto di vista la giurisprudenza del CSM, non so quante proposte

eventualmente fatte da Avvocati del libero Foro, da Professori universitari,

di far parte della Cassazione siano state respinte. Quindi non penso che

occorrerebbe modificare l’art. 106, considero oggi le modifiche

costituzionali pressoché impraticabili, visti gli equilibri di sistema. In realtà

se si modifica l’art. 106 occorrerebbe rimeditare il significato dell’accesso

alla carriera giudicante, dell’accesso alla carriera di Cassazione.

Una parola sola spendo a favore dell’abolizione dell’appello da parte del

Pubblico Ministero, ne sono profondamente convinto, nonostante che

abbia difeso nella mia esperienza professionale, com’è noto, spesso anche

vittime e associazioni delle vittime. L'attuale morfologia del giudizio di

appello, necessariamente modificato anche da orientamenti

giurisprudenziali di legittimità e sovranazionali, ne ha fatto un oggetto

strano: se non è più cartolare appesantisce sempre più i procedimenti

proponendo contraddittori tardivi e inadeguati finendo per stravolgere – è il

caso dell'appello di un proscioglimento pronunciato in un giudizio

abbreviato incondizionato - anche la scelta difensiva alla quale si sottrae

irragionevolmente un grado di giudizio se si segue la strada imboccata dal

giudice di legittimità per la quale sarebbe imposta comunque l'audizione

del teste.

Avv. Luigi Ravagnan

Solo l’appello della parte civile, però, spero, non quello dell’imputato .

AVV. ALESSANDRO GAMBERINI

Ma certo. No, io penso all’appello del Pubblico Ministero contro le

sentenze di proscioglimento, di cui si parlava prima. Sotto questo profilo la

parte civile può sempre trovare un’eventuale tutela in sede civile.

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AVV. ANNAMARIA MARIN - PRESIDENTE

Se non ci sono altri interventi, ringrazio per l’ennesima volta i nostri

Relatori, sperando di averli nuovamente nostri ospiti, e grazie ai colleghi.