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Rapsodia Anno 1 Numero 3
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Rapsodia Anno 1 Numero 3
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BRUCIA CON NOI
Rapsodia Anno 1 Numero 3
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COS’È RAPSODIA
Rapsodia è una rivista letteraria
indipendente che raccoglie opere di autori
emergenti edite e non per farle confluire in
un progetto di promozione artistica dei
contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia
rifiuta uno schema fisso, mette insieme
spunti sempre diversi tra loro per armonia e
ritmo donando al tutto un sapore di
laboratorio artistico e improvvisazione
compositiva.
Rapsodia si occupa di letteratura
contemporanea. Oltre ai lavori degli autori
emergenti saranno inseriti anche
approfondimenti dedicati a noti autori
contemporanei. Altri autori non
contemporanei saranno trattati nella misura
in cui il significato delle loro opere e della
loro vita sia contestualizzabile nella
contemporaneità.
Rapsodia non ha un orientamento politico e
una categorizzazione sociale, non appartiene
a cricche o comitati d’affari. Rapsodia
appartiene al pensiero libero ed è gratuita:
non esistono rapsodi senza spettatori e
Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi
lettori.
La redazione
Rapsodia Anno 1 Numero 3
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INDICE:
- ANDREA CORONA…………………………………………………p.4
- CLAUDIO LANDI…………………………………….…..…….p.14
- QASIR AL-QASIR (QUISILIO MIRAGLIA)………..p.16
- SALVATORE VALENTE…………………………………..….p.18
- DAVIDE PROIETTI……………………………………………p.23
- MIRKO ZITO……………………………………….…………….p.25
- FRANCESCO VERRENGIA…………..……………………..p.26
- MICHELA ZANARELLA..…………………………………….p.28
- SONIA SECCHI……..……………………………………………p.29
- ANTONIO PERRONE…….……………………………….…...p.35
- LUIGI MOGGIO……………………………………………….…p.38
- FRANCESCA SANTE……………………………………….….p.40
- VINCENZO BARONE LUMAGA………………………….…p.42
Rapsodia Anno 1 Numero 3
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LE TRE DONNE DI MASOCH
La performance art di Abramović, Galindo, Pane
Introduzione: la performance.
Scrive il filosofo francese Gilles Deleuze in “Sade, Masoch e il
loro linguaggio” (si tratta del primo capitolo de “Il freddo e il
crudele”) che il sadico opera secondo ordini e imposizioni, e ad
essere imposta è innanzitutto la sua indiscutibile volontà. È un
carnefice che non conosce la sua stessa tortura, né il linguaggio
delle sue vittime (non sa infatti cosa provano), e questo
sostanzialmente perché non vuole complici. Col masochista, invece,
non siamo di fronte a un carnefice che si impadronisce di una
vittima da cui trae godimento in misura inversamente
proporzionale al suo consenso e alla sua persuasione; ma siamo di
fronte a una vittima che cerca un carnefice, che ha bisogno di
formarlo, di persuaderlo, di stabilire con lui un patto per la
realizzazione della più strana delle imprese.
Ed è precisamente questo che i protagonisti di Masoch fanno:
modellare i complici in carnefici; ma è sempre “la vittima” a
parlare attraverso il suo carnefice. Il personaggio masochista è
infatti chi induce il suo partner, anche e soprattutto nel caso
di un personaggio solitamente non crudele, a colpirlo, ferirlo,
offenderlo, sino a plasmarlo, trasformandolo, nel suo “ideale
compagno di giochi”. Ma è chi subisce a condurre il gioco, a
fornire le armi al suo rivale, a farlo apparire sadico. Quella
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del masochista è così una richiesta, quasi una preghiera, di essere
torturato.
Analogamente, nella “performance art” di Marina Abramović e
della sua più accreditata erede, la guatemalteca Regina José
Galindo, non è raro assistere a scene di assoluta passività nelle
quali dei terzi “attori”, spesso intervenuti dal pubblico,
infieriscono sul corpo delle artiste con armi e arnesi di varia
natura, venendo in generale invitati da esse stesse a disporre
dei propri corpi come più desiderano, e senza che alle artiste sia
dato difendersi, opporre resistenza o semplicemente reagire. Si
pensi ad esempio a spettacoli come “Rhythm 0” della Abramović,
dove l’artista serba si abbandonò alla mercé del pubblico per una
durata di sei ore, dopo essersi sdraiata su un tavolo sul quale
erano posati degli strumenti “di piacere e di dolore”.
A questo punto ha ragione Deleuze quando afferma che il
masochismo non si lascia definire semplicemente come un sadismo
rivolto contro l’Io: il monito del masochista non si esaurisce
nella formula “io mi punisco”, ma va ben oltre, implica uno stadio
successivo, lo stadio passivo del “mi puniscono, mi picchiano”.
Nelle parole del filosofo: «Esiste dunque una proiezione
propriamente masochista in base alla quale una persona esterna
deve assumere il ruolo di soggetto».
Prima di approfondire il ruolo di questo soggetto, sarà utile
riprendere un brano dell’antropologo sociale Victor Turner, che
nel suo volume “Dal rito al teatro” chiarisce che il termine
performance «deriva dal medio inglese parfournen, poi
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parfourmen, che a sua volta viene dall’antico francese
parfournir, composto da par (completamente) e da fournir
(fornire): quindi la parola performance non rimanda
necessariamente alla connotazione strutturalista del
manifestare una forma, quanto piuttosto al senso processuale di
“portare a compimento” o “completare”». Dunque, non di forma
strutturale, ma di forma processuale si tratta. L’aspetto
interessante dell’analisi di Turner è dato dal profondo legame
che a suo giudizio intercorre tra la performance e il dramma, sia
scenico che sociale.
Se nel dramma sociale ci sono degli “attori” la cui carica
emozionale-emotiva sfocia in una crisi, ovvero in una rottura
dei codici del normale funzionamento della società stessa; anche
nel dramma scenico, come nella vita, è possibile assistere ad atti
di violenza, pestaggi, e persino attentati alla vita dei
protagonisti.
Il subjectum e la teatralità: masochismo “formale”, “drammatico”
e “patetico”.
In “Dal contratto al rito” (ottavo capitolo de “Il freddo e il
crudele”), Deleuze sottolinea la funzione “storica” del masochismo,
nel senso di un masochismo che va al di là sia di quello meramente
fisico o materiale, che si presenta come un dato dei sensi, sia di
quello meramente morale, che si presenta come un dato del
sentimento. E quando il masochismo è capace di andare al di là
dei sensi e del sentimento, ecco che il masochista diventa un
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narratore, una figura che ci racconta una storia, come l’elemento
sovra-personale che lo anima.
E per scrivere una storia, il masochista si serve del proprio
corpo e della propria anima. In questo senso abbiamo un
masochismo formale, ancor prima di un qualsiasi masochismo fisico
o materiale; e un masochismo drammatico, ancor prima di un
qualsiasi masochismo morale o sentimentale. Da qui l’impressione
di passionalità e di “passione”, in senso cristiano (cristico,
cristologico), nel momento stesso in cui i sentimenti sono più
profondamente vissuti e le sensazioni più violentemente sentite.
In ciò, non si può non recuperare la poetica di un’altra artista,
Gina Pane, esponente francese della body art, la quale, in
riferimento alle sue “Passioni” e catarsi, ha più volte dichiarato
che il suo scopo è quello di mostrare la ferita in quanto memoria
del corpo, e mostrare il corpo in quanto simbolo della fragilità
del tessuto sociale e memoria dell’elemento immateriale che lo
anima.
Il masochismo diviene allora “narrazione” e “scrittura” di una
storia, e più precisamente di un dramma (e qui la posizione di
Deleuze confluisce con quella di Turner), che quando viene scritto
col proprio corpo è sempre più formale che materiale, e quando
viene narrato dalla propria anima è sempre più drammatico che
sentimentale.
Nel caso specifico di queste artiste, a causa dell’utilizzo e anzi
dell’abuso del proprio corpo e del proprio sangue, i sentimenti
sono realmente – non solo scenicamente – vissuti in modo più
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profondo, e le passioni e le sensazioni sono realmente sentite in
modo più violento.
E, come visto, talvolta ciò è possibile solo se prima della
performance si è riusciti a persuadere il pubblico, dopo avergli
descritto accuratamente quale dovrà essere il suo compito e dopo
aver stipulato con lui un patto o, come direbbe Masoch, un
contratto. Il paradosso è che oltre al narratore, all’artista-
protagonista, c’è un altro protagonista, un altro soggetto che,
nell’accezione di un subiectus, ovvero di un “paziente” (perché si
badi: ancor prima di essere un eroe baldo e trionfante, il
“soggetto” è innanzitutto un subiectus che “sta sotto e patisce”),
è altrettanto “vero”, e che è identificabile appunto con il
pubblico, la cui sofferenza, la cui passione, il cui pathos, la cui
catarsi, è forte quanto quello degli attori del dramma.
Perché, se è vero che il performance artist si configura come un
narratore che racconta una storia, è altrettanto vero che senza
degli spettatori non ci sarebbe nessuno a cui narrarla. Pertanto,
una parte cospicua dell’elemento sovra-personale che anima la
figura del narratore è identificabile nello stesso pubblico degli
spettacoli, capace di “animare la storia” in più di un modo.
Da un lato, ci sono quegli spettatori che, in quanto dilaniati
dallo strazio, sono forse ancor più protagonisti e masochisti di
chi subisce i colpi: il realismo, la passione, e nella fattispecie
la drammaticità delle azioni e l’ambiguità su cui esse giocano,
costituiscono spesso una vera sofferenza per chi assiste a questi
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spettacoli dal vivo. E pathos più strazio portano a un nuovo tipo
di masochismo che si potrebbe definire come il più patetico.
D’altro canto, oltre a quello più impressionabile, che interviene
per salvare l’artista da situazioni estreme – come asfissia,
ipotermia, ustioni, pestaggi – vi è un’altra frangia di pubblico
che, al contrario, esprime il suo gradimento in misura
direttamente proporzionale alla vista della violenza e del
sangue.
Ma in realtà la differenza non è poi così marcata: anche chi si
impressiona, infatti, sa a che tipo di spettacolo va ad assistere;
dunque se ne deduce che ama, masochisticamente, provocare se
stesso in questo modo (nel senso, stavolta, del primo stadio di
masochismo: il sadismo rivolto contro l’Io).
Ecco allora che se l’attore scrive una storia col proprio corpo e
la narra con la propria anima, il pubblico, che agisce, reagisce e
patisce, non si limita a un ascolto passivo e ad uno sguardo
voyeurista, ma diventa esso stesso un personaggio, quando non un
soggetto – competente? performante? – del dramma.
Competence/Performance/Trance
È noto che, laddove subentri una perdita di conoscenza, l’attore
non ha più il controllo di sé e del proprio strumento, del proprio
corpo, e quindi delle proprie azioni. Regina Galindo e Marina
Abramović hanno in più occasioni manifestato un profondo
rammarico in merito a queste circostanze. Si tratta di fattori
che rientrano nel computo di quelle “varianti”, non calcolate e
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non calcolabili, ma preventivabili secondo una logica delle
supposizioni, di cui parla ancora Turner nel suo testo, e nella
fattispecie durante la sua interpretazione del testo di Barbara
Lex “Neurobiology of Ritual Trance”: «Il comportamento assumeva
quel carattere che i neurobiologi chiamano “ergotropico”. Secondo
la loro definizione, esso è caratterizzato da eccitazione,
intensificazione dell’attività e delle reazioni emotive. Non c’è
dubbio che se avessi posseduto gli strumenti tecnici di
misurazione avrei potuto scoprire negli “attori” scariche
simpatetiche accresciute quali aumento del ritmo cardiaco, della
pressione del sangue, della sudorazione, della dilatazione delle
pupille».
Il comportamento ergotropico, che in una certa misura riguarda
anche lo studio antropo-sociale dei tarantolati, è riscontrabile
anche in chi abbia un’esperienza di estasi mistica. In ciò,
performance come “Freeying The Body” di Marina Abramović – dove
l’artista, con la testa avvolta in una sciarpa, balla per otto ore
consecutive seguendo il ritmo frenetico di un tamburo africano
– o come le stesse performance di santificazione e di
“resurrezione della carne” di Gina Pane, implicano una
“competenza”, preliminare rispetto al fare della “performanza”,
che sfocia appunto nella ritual trance.
Per concludere: la legge di Masoch tra mito e rito
Tra il contratto e il mito, sostiene Deleuze, c’è un termine medio:
“la legge”, la quale, scaturita dal contratto, ci immerge nel rito.
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Il contratto del masochista ne rappresenta e ne esprime la sua
personale volontà; ma solo attraverso tale contratto la legge che
ne consegue subisce dei mutamenti che portano il masochista al
raggiungimento di un elemento impersonale, quello di un destino
espresso attraverso mito e rito.
Se pure il contratto ideato dal masochista ne rispecchia la sua
personale volontà, questa deve però fare i conti con il medio
della legge che si frappone tra la volontà e la rappresentazione
mitologico-ritualistica della Sofferenza e del Dolore
introducendo quei terzi elementi, quelle varianti, non calcolate
e non calcolabili, immaginabili – secondo una logica delle
supposizioni – ma tuttavia imprevedibili, che originano delle
performance personali e insieme impersonali che rievocano,
riattualizzandoli, i miti e i riti di ogni tempo. Il significato
del contratto di Masoch è infatti lo stesso di quello dei riti più
antichi. Deleuze può così arrivare a sostenere, e a ragione, che
il masochista instaura nel rito proprio ciò che è da sempre
contenuto ritualisticamente nel simbolismo del masochismo stesso.
In conclusione, performance come “Clausura” di Regina Galindo, o
come “Rhythm 5” di Marina Abramović, dove le artiste vengono
rispettivamente sepolte vive e asfissiate, danno luogo a dei riti
postmoderni che, narrando una duplice storia, personale e insieme
impersonale, moderna e insieme arcaica, si sviluppano in una
pratica che è al tempo stesso la più nuova e attuale e la più
vecchia e ancestrale. Analogamente, quando Gina Pane, come una
“Pietà” primitiva, lascia vedere il volto e il corpo
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esageratamente offeso da un’afflizione intollerabile, l’artista,
in tal modo, è come crocifissa alla luce del giorno, agli occhi di
tutti. Ed è in immagini come questa che è possibile scoprire le
radici profonde di spettacoli in cui si compiono gli stessi gesti
delle più antiche purificazioni. Se Regina Galindo denuncia
infine le ingiustizie sociali e culturali del suo Paese
incidendosi insulti su braccia e gambe, come in “Perra”, dove gli
insulti simboleggiano la discriminazione razziale e sessuale, o
facendo docce di sangue umano, come ne “El peso de la sangre”, è
per quegli stessi motivi di cui parlava in apertura Turner,
ovvero per «interrompere il normale flusso della vita sociale e
costringere un gruppo di persone a prendere coscienza del proprio
comportamento in relazione ai propri valori, e talvolta a mettere
persino in questione il valore di questi valori».
Andrea Corona
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HANNO MESSO LA BOMBA IN SALDO
Hanno messo la bomba in saldo
dicono sia vantaggioso procurarsela
si prevedono code al reparto giocattoli
lo dicono tutti i notiziari
lei è sullo scaffale in fondo
bella come non mai nella confezione speciale
edizione limitata
per l’occasione i grandi magazzini
offrono kit di sopravvivenza al fortunato acquirente
si dice non contenga il libretto d’istruzioni
a mio avviso l’errore è nell’apostrofo
sinceramente non saprei cosa farmene della bomba
figuriamoci del libretto
figuriamoci delle distruzioni
“la bomba è stata venduta a quel signore là”
la cassiera indica col dito
il signore col cappello che si allontana
con le sue bombe al guinzaglio
averne due è sempre meglio
poi ho saputo di una certa prelazione
per chi ne possedesse già una
sono convinto che un giorno
le restituirà al mittente
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la cassiera mi ha assicurato
che qualora accadesse
saremo tutti avvisati
ho lasciato i miei recapiti
ma ho avuto la sensazione
che non c’era alcun bisogno.
Claudio Landi
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METROPOLITHANATOS II
ridesto all’alba dei fiori di ruggine
ho letto bene le istruzioni:
- [come] rubare l’anima di un anno! (?)
ma la strega tabaccocaffè
se la ride
sul davanzale dello IERI
una questione di ordine -
diceva
ma ho ordinato che tacesse
nel silenzio grigioscuro
ché del resto
è già l’ora di sguazzare
nei fiumi d’asfalto
in fondo alla notte
le feste elettriche
sassofoneggiano fino all’ossessione;
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meccaniche la lingua e le labbra e i denti
zampettano su e giù nella monotonia
di un istante
dita pallide/ossute servono
liquorume lubrificante sinapsi e…
DADA-dadà:
la dolce brodaglia dell’eternità!
Qasir al-
Qasir
(Quisilio
Miraglia)
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STUDENTESSA DEL CAZZO
“Professore, questo esame mi serve e mi serve subito.” avrò ripetuto
almeno quattro volte a quello stronzo di assistente. “Guardi, lo posso
immaginare, ma non posso proprio darglielo. Mi dispiace.”. Mi allunga
la mano per salutarmi, ma la rifiuto incazzata. Gli ho sbattuto le
tette sotto al naso per mezz’ora e si è anche permesso di bocciarmi. Che
stronzo, non mi ha guardata in faccia per un secondo. Mi giro e mi
abbasso per prendere la borsa, mostrandogli il culo. Mentre sto per
andarmene mi richiama “signorina Do Chiso. Signorina Do Chiso, venga
un attimo qui, per favore.”. Eccolo qua, il culo fa sempre effetto, un
altro esame sul libretto. “Che c’è, professore?” “Non posso darle l’esame,
ma abbiamo un appello per i fuoricorso tra dieci giorni. Posso vedere
di inserirla in qualche modo nell’elenco. Intanto, però, venga in
dipartimento oggi stesso, così vediamo di focalizzarci sulle cose
importanti da fare per farle avere questo esame.”. Figlio di puttana,
neanche vuole darmi l’esame. Però è stato gentile. Sarà frocio? “Va
bene, professore, ci vediamo oggi.” “Ci conto.”.
Nel pomeriggio, il dipartimento di chimica organica, in particolare
l’ufficio del professor Molina, è pieno di facce viste quella mattina
stessa all’esame. Tutti bocciati da lui, tutti con una seconda
possibilità tra dieci giorni. Certo, chiamare “ufficio” una stanzetta
con una piccola scrivania di alluminio e piena di armadietti dei prof
ordinari, mi sembra troppo. “Sapete tutti per quale motivo vi ho fatti
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venire.”. Certo che lo sappiamo, stronzo. “Io ho piacere di aiutarvi,
però mi aspetto che almeno le cose essenziali dell’esame le sappiate.”.
Ma quante perdite di tempo. “Insomma, siamo in una facoltà di chimica
e l’esame di chimica organica è molto importante.”. Ogni professore di
ogni materia di ogni facoltà dice queste cose. Bah, forse questo ha
ragione. Mentre parla, cercando di darsi un tono – per quanto uno di
cinquantacinque anni che fa l’assistente universitario possa averne –
entrano ed escono, senza salutare o chiedere permesso, i proprietari
degli armadietti che occupano il suo ufficio. I presenti cercano di
trattenersi, d’altra parte il professor Molina gli sta dando
un’opportunità extra. Ma nessuno riesce a non ridere quando si
affaccia alla porta il titolare della cattedra di chimica organica in
persona, che gli dice “Molina, passa da me quando ti liberi, porta un
po’ di caffè.”. Deve essere triste, a cinquantacinque anni, essere ancora
lo schiavetto del professore ordinario, nonostante una laurea, un
dottorato e un posto all’università. Una piccola vendetta per tutti i
bocciati di quel giorno. Rosso in viso, Molina tenta di continuare
“allora, ragazzi, cerchiamo di essere rapidi. Segnatevi questi
argomenti e, da qui a dieci giorni, ci vedremo due o tre volte per
ripeterli insieme.”. Molto disponibile, il prof. Mi fa quasi pena per
la sua condizione. Tutti salutano e vanno via, uno alla volta. Mi
avvicino per salutarlo e ringraziarlo e mi fa “signorina Do Chiso,
cercavo giusto lei. Mi fa piacere che sia venuta. Aspetti qui, le devo
dire una cosa.” “Va bene, professore.”. Cosa vorrà dirmi, adesso? Non ci
voleva, rischio di fare tardi e Bracco mi aspetta a casa sua. Oggi
finalmente non ci sono i genitori e possiamo recuperare le due
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settimane senza fare sesso appena passate. Maledetto esame. “Vado a
vedere cosa vuole il professore e torno. Si sieda pure.”.
Che fregatura. Sola, in questo ufficio di merda, mentre Bracco è a casa
che mi aspetta col suo cazzo duro pronto a... Oddio! mi sa che è veramente
troppo tempo che non facciamo niente. Che tristezza questo ufficio, fa
caldo, non c’è neanche un ventilatore. Mi sembra quasi di soffocare, e
ci sto solo da mezz’ora. Chissà come si sente Molina a starci da una
vita. Dio Santo! non ha neanche una vera libreria, è solo un armadietto
senza le ante. Che pena.
“Eccomi, signorina Do Chiso. Scusi l’attesa, ma il professore doveva
farmi sapere una cosa importante.”. Come no, aspettava con ansia il suo
caffè pomeridiano. “Si figuri, professore. Cosa doveva dirmi? Sa, avrei
un po’ di fretta.”. “La questione è semplice, ma non piacevole, signorina
Do Chiso. Ho dato appuntamento per due o tre volte ai suoi colleghi,
ma lei dovrà venire tutti i giorni, a causa della sua scarsa
preparazione.”. Figlio di puttana, vuole proprio farmi incazzare.
“Professore, si potrebbe anche, ma se poi devo venire e rischiare di
non passare l’esame, di non andare a colpo sicuro, eviterei. Mi presento
direttamente al prossimo appello.” “Questo dipende da lei, signorina.
Non ha detto che le serviva questo esame?” “Sì, per la borsa di studio.”
“E allora veniamoci incontro.” e mentre lo dice, alle mie spalle,
allunga una mano all’interno della scollatura e mi tocca una tetta.
Non riesco a reagire, dico solo “professore, ma cosa fa?” “Signorina Do
Chiso, per l’esame lei dovrà venire tutti i giorni, in modo da procedere
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ad un ripasso approfondito.”. Continua ad accarezzarmi il seno, i
capezzoli diventano duri. Maledetti quindici giorni di astinenza pre-
esame. “Professore, non so se me la sento.” “Pensi alla borsa di studio
e a quanto farebbe comodo un ottimo voto all’esame di chimica organica
in una facoltà di chimica.”.
Fanculo Bracco, fanculo l’etica e la morale, fanculo lo studio. Ma
allora è davvero così facile come dicevano? Il porco mi tira fuori la
tetta dalla scollatura, fa il giro della sedia e si mette davanti a me,
piazzandomi il pacco in faccia. “Cominciamo a vedere se sa già qualcosa,
signorina Do Chiso. Il suo voto dipenderà dal suo impegno in questi
dieci giorni.”. Tira fuori l’uccello, già molto duro – potere delle mie
tette – e lo mette a due centimetri dal mio naso. Tiro fuori la lingua
e con la punta comincio a stuzzicargli la cappella. Il porco mi afferra
la testa e mi spinge in avanti, costringendomi a prenderlo in bocca
fino ai tre quarti. In ogni caso, al di là della situazione, è un bel
cazzo. Almeno spero che ci sia un po’ di divertimento anche per me, in
questi dieci giorni. Mentre glielo succhio, si sfila la fede e la mette
nel taschino della giacca. Io penso a Bracco e comincio ad aiutarmi con
la mano destra, mentre con la sinistra gli accarezzo le palle gonfie.
“Saranno dieci giorni piacevolmente intensi, signorina Do Chiso. – mi
dice ansimando – Da domani voglio studiarla per bene, da ogni
angolazione.”. Mi afferra i capelli e mi allontana di qualche
centimetro dalla punta del cazzo. Quando mi accorgo che sta per
schizzarmi il suo seme sulla faccia, capisco che lui continuerà ad avere
queste piccole soddisfazioni sessuali con ragazze più giovani di lui di
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almeno trent’anni. Ma tutte noi, andando avanti con coerenza, avremo
soddisfazioni ben più grandi, senza nessun tipo di sforzo. Eviteremo
tutti i suoi sacrifici economici, intellettivi e sociali per arrivare
al suo posto. E tra qualche anno lo manderemo a prenderci il caffè,
dopo essere arrivate alla scrivania in mogano dell’ufficio di docente
ordinario su un tappeto rosso che lui e quelli come lui ci avranno
srotolato davanti. Ingrasseremo a pompini, ma dimagriremo in costose
palestre che loro non potranno mai permettersi. E tra soli dieci
giorni, su un libretto della facoltà di chimica, ci sarà un ottimo voto
all’esame di chimica organica.
Salvatore Valente
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ALFABETO ANULARE
A come affettuosa anarchia
B bravi sedicenti ragazzi violenti hanno paura di
pacifici outsider presunti
C che bello quando taciti divieti di lavoro volano su
Destini di niente desensibilizzato dal tutto che
Emana stupide vibrazioni di chimica nullezza
Ficcati in testa può non esserci niente, nessuno
Garantisci per te e solo per te stesso intanto che
Hotel stupidi si dedicano al pensiero, ci saranno
Infiniti che si credono finiti e finiti che esplodono
di
Lumache
Minime
Nitriti
Opalescenti
Paura vietata
Quando cuori di puttana
Rideranno e
Saranno pronti a sorriderti se
T’inchini, ti sbucci le ginocchia ti batti, butti
Untuose
Vipere
Zero dai più sarai considerato se te stesso proverai
Ad essere
Davide Proietti
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NON C’È RAGIONE
Ci sono giorni in cui tutto ha un senso, in cui si nasce, si
muore, si vive e addio.
Ci sono giorni in cui sai dove sei, chi sei, perché, riesci a
seguire tutte le indicazioni, è impensabile perdersi, riconosci
la strada, i volti, la differenza tra un sorriso e una
bestemmia.
Poi ci sono quegli altri giorni. Quelli dove la luce ti acceca,
dove il buio ti stordisce, dove il gioco è guerra e la guerra
è gioco, dove i fiumi sono fatti di fuoco e l’alcol ha il sapore
dell’inchiostro.
Ci sono quei giorni in cui il cuore si confonde con un orologio
che segna l’ora sbagliata.
Ci sono giorni in cui sei suonatore o suonato.
Ci sono giorni che non puoi scegliere.
Poi ci sono giorni in cui non te ne frega un cazzo, e va bene
lo stesso.
Mirko Zito
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IL LAGO
Quel lago, già lo amo e già lo odio.
Quando lo vidi per la prima volta capii che il bagliore che
emanava offuscava il cupo senso di malinconia che portava con
se, intrinseco, nella profondità più remota dei suoi abissi, dove
non si trova nemmeno una minima forma di essere vivente.
Mi affascinò, il sole si rispecchiava al suo interno come una
donna vanitosa ammira la sua bellezza prima del grande ballo, ed
io, come un maniaco, stavo ad osservarlo nel suo riflesso, intento
a scorgere la più intima nudità, a perlustrare ogni centimetro
del suo corpo per potermi gustare anche solo un piccolo frammento
del suo fascino;
Appena potei guardare nel profondo dell’anima di cotanta
bellezza, appena incrociai il suo sguardo vidi le tenebre, vidi
l’abisso, notai che quel corpo così perfetto era una maschera per
coprire l’assurdo, un velo che nascondeva l’orrore. Era Lucifero
travestito da Cherubino, era l’oscurità travestita di luce.
Ma io già lo amo, amo la bellezza di questo lago, amo il suo
travestimento, amo la bellezza esterna, la maschera, il velo, il
Cherubino, la luce. Lo amo e lo voglio amare, e allora mi ci
avvicino, si, voglio costeggiarlo, voglio assaporarlo; vado sul
lungo lago e passeggio, trovo una panchina e mi siedo di fianco a
lui ad osservare, lo ascolto, lo guardo, gli parlo, ma poi…mi
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blocco, il fiato mi manca, lo guardo nuovamente negli occhi, e il
lato oscuro risale in superficie. Sono immobile, con una sigaretta
stretta tra i denti, il volto tra le mani e la mente lucida.
Affronto il buio della luce, lo combatto, lo respingo, fino a poi
abbandonarmi ad esso e convivere con la consapevolezza che io
quel lago, lo amo e lo odio perché è luce di nuova speranza, ma
antitesi di quello che convenzionalmente io chiamo “casa”.
Francesco Verrengia
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COME ALBE A PRECIPIZIO
Il silenzio
sorveglia sensi smarriti
ancorati ad una mente
che diffida dei colori del tempo.
Tentennano formule di luce
come albe a precipizio
e in un gioco d'assenze
ruotano follie
confuse a meditazioni stanche.
Rauco lo sguardo
fugge dove il nero
annuncia bufera
dove il buio s'annida
a forme imperfette
di solitudine.
Michela Zanarella
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VICTOR COSANERA
Potrei ucciderti se colo volessi. Piccola cosa. Nera.
Potrei ucciderti se solo volessi. E poi cosa guarderei? Devi vivere
per me. Non devi morire. Non ora. Muoviti per me. Ancora. E
ancora.
Piccola cosa nera. Fragile. Sei così fragile. Così fragile che mi
fai paura.
E poi? E poi. Poi il silenzio. Solo il silenzio.
Sei un ragno. Solo un ragno. Ed io ti temo. Non potresti essere tu,
invece, a temermi? Io così grande e potente. Io ho il tuo respiro
chiuso nel pugno. Io. Padrone del tuo sangue. Temimi.
Eppure qualcosa di te mi fa tremare le gambe.
Hai i suoi occhi forse.
Ricordo. Grandi e dolci. Dolcissimi. Victor. Chiamava il mio nome
dalla finestra. La palla sporca di fango. Io la guardavo. Ero in
cortile. Giocavo.
Eppure i tuoi occhi. Mi fanno tremare. Eppure.
Tu. Piccola cosa nera. Ricordi quell'amore che non è più.
Tu. Ricordi. E vivi. Di lei.
*
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Victor! Victor! Papà deve dirti una cosa! Corri, lo sai che il vento
si porta via le parole.
La signora Fresia si asciugava le mani nel grembuile come faceva
sempre. Forse aveva appena finito di cucinare una torta. Un
pastccio di carne. Tramezzini al cetriolo. Forse. I suoi abbracci
sapevano di cucina e stoviglie pulite. Le mani secche come il
mattino.
Victor! Vieni!
Victor in cortile. Gli occhi sulla palla immersa nel fango. Una
pozzanghera. Profondissima.
Lui non ha gli amici. Lui ha i pali della luce. Contenitori di
pensieri. Ma alla mamma dice che si è divertito un mondo. Torna a
casa sudato. Corre inseguendo le nuvole. Torna a casa sporco.
Cerca tesori. Braccia che emergono dalla terra urlando.
Victor in cortile. Gli occhi sulla palla. Il risveglio. La voce
della madre. Calda.
*
Una sala d'attesa.
Victor. Sette anni. E giochi sparsi sul tappeto colorato. Disegni
di altri bambini.
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Pupazzi con la vagina e il pene. Che se li fai incontrare si
attaccano come calamite uno dentro l'altro. Gli assistenti sociali
li usano per ricostruire gli abusi. Raccontano attraverso il gioco
dicono.
Una donna con la pelle scura gli chiede raccontami.
Victor.
Occhi neri su cubi con le lettere.
Cosa vuol dire A-F-H-N?
A. Effe. Acca. Enne.
Lo sente tra i denti. Ora.
Aaaaaa. Eeeeffffffffeeeeee. Acccccaaa. Ennnneeee.
Raccontami Victor.
Aaaaa.
Sì.
Effffe.
Victor?
Dov'è la mia mamma?
La tua mamma non sta molto bene.
Dov'è la mia mamma?
La tua mamma.
*
Arrivo mamma!
Le scarpe fanno quel rumore delle scarpe nuove. Victor dice che le
scarpe piangono perché i piedi sono pesanti e non sono abituate. E
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sentono dolore. Ma poi si abituano. Perché tutti i corpi si
abituano al dolore.
Il tuo papà vuole vederti. Vai in soggiorno. Ha una sorpresa per
te.
Victor dice alle scarpe di smettere di piangere perché al papà
quel rumore non piace. Non gli piace essere disturbato perché il
papà lavora. E il papà lavora per fare felici Victor e la mamma.
Victor va verso il soggiorno parlando con le scarpe.
Papà?
Silenzio.
Papà?
Silenzio.
Papà sono qui.
Victor, il papà non vuole dirti nulla. Vuole solo che tu lo
guardi.
La poltrona del soggiorno. Quella di papà.
Papà ci legge il giornale e ci beve il caffè. Ogni tanto Victor gli
sale sulle gambe e papà lo fa trottare.
Victor. In piedi davanti a un padre che è una candela sciolta. La
testa sul petto e i palmi al cielo.
Sangue sulla camicia. Sporco. Come la palla nel fango.
Guarda cos'ha fatto la mamma! Ora papà riposa felice. La mamma
l'ha fatto per noi. Papà non riusciva più a dormire.
Victor non parla. Guarda il papà. Immobile.
Victor non parla. Respira.
La mamma sorride.
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Sorride.
Sorride.
La mamma sorride. E non ha più lo stesso odore.
*
Potrei ucciderti se solo volessi. Piccola cosa. Nera.
La verità è che io ti temo.
La mamma mi chiama.
Ora devo andare.
Potresti uccidermi. Se solo volessi.
La mamma mi chiama. Ora devo andare.
*
Victor?
Silenzio.
Gli occhi appesi alla finestra.
Dov'è la mamma?
Victor?
Gli occhi appesi alla finestra.
Victor urla.
Sonia Secchi
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‘O SCRITTORE
(libera interpretazione da Bukowski, So you wantto be a writer)
Embè… e tu vulisse fa ‘o scrittore?
Si nun te scoppia ‘a rinto
a dispiett ‘e tutte cose e tutte quante
lieve mane.
Si nun te ven r’ ‘o core e ‘dda ‘e cerevelle e ‘dda vocca
e ‘dda ‘o stommaco
lieve mane.
Si te n’ea sta assittat’ tre quart r’ore
annanz’ ‘o computèr
o tutt stuort ngopp a nu foglio
pe ccercà ‘e pparole
lieve mane.
Si ‘o ffaje p’ ‘e sorde
o p’addivintà nu vip
lieve mane.
Si ‘o ffaje pe te chiavà ‘e femmene
lieve mane.
Si ea scrivere ciente vote semp’ ‘a stessa cosa
lieve mane.
Si te sfastirie sul’ a ce penzà
lieve mane.
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Si bbuò scrivere comme a Fabbio Volo
o comme a me, o comme a coccherun ate
lieve mane.
Si ea aspettà ca te iesce a fore
comme a nu ruggito ‘e nu lione
allor aspiett. Nun ghì ‘e pressa.
E si nun t’iesce
lieve mane.
Si primma l’ea fa leggere a mugliereta
o ‘a nnammurata toja
o ‘o guagliuncell
o a patet o a mammet o a coccherun ate
nun è ‘o mument.
Nun fa comm a tanta scrittore
nun fa comm a tanta sciem
ca ‘ngapa a lloro so scrittore
nun fa ‘o strunz.
‘O munn sta chin ‘e sciem comm a tte.
Lieve mane, stamm a sentì
ca si nun t’iesce ‘a rint all’anema comm a nu razz
e tu nun siente ca putisse ascì pazz
o perdere ‘a capa e penzà ‘e t’accirere
lieve mane.
C’adda sta ‘o ffuoco rint’ ‘o pietto tuoje
‘a sinò lieve mane.
Quanne arrivarrà ‘o mument
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e si è chelle ca fa pe tte
sta sicur ca te vene
e nun se ferme cchiù
fine a quanno nun ce muore
o fine a quanno nun t’accire.
Nun ce stanne ati mmanere
t’ ‘o ddico comme a nu frate.
Ce simme passate tutte quant.
Antonio Perrone
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CARTINA, TABACCO E FILTRO
Cartina tabacco filtro,
ci passo la lingua umida
per assemblare il tutto
come colla
come poesia
come una stanza illuminata da una fioca lampada fatta a mano.
L’accendo,
qualche boccata ed è finita
come un respiro
una poesia
milioni di vite.
Cartina tabacco e filtro
è tutto quel che mi serve
per aspirare ancora qualche attimo di vita
prima che accendano la miccia
e mi esploda tutto in faccia.
Intanto che ci passo la lingua
qualcuno continua a coltivare banconote nel proprio giardino
credendo che siano tutto.
Poveri sciocchi,
ancora non sanno che è solo carta,
basterebbe quest’accendino per svalutarla.
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Sono troppo pigro per occuparmene,
lascio che siano le loro stesse azioni a far riflettere
un giorno
forse
mai.
Cartina tabacco e filtro,
un modo come un altro per far passare il tempo
in attesa che smetta di piovere là fuori
e magari anche qui dentro.
Luigi Moggio
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PIGMALIONE NON ARRIVERÀ MAI AL PUNTO G
o l'incontro tra un ritratto e una scrutatrice.
Si agitavano immobili
Ognuno nascosto dentro i propri sguardi
Agivano da soli
Ritratto - Quale gesto è chiave delle tue labbra?
Rive molli morse da soffocato riguardo,
Il mio cuore è già in naufragio
Immobile il resto.
Scrutatrice – Osserva la gente
Senza aspettare nessuno.
Il suo sguardo mi tocca,
Non coglie, non mente; interroga.
Una cornice apparente
Impedisce alla verità di dissimularsi
Mobile il resto.
Ritratto – In che modo approdare nei tuoi silenzi?
Vivo in eterno maledetto dal ricatto del tempo.
Guardarti è un antidoto,
Un’immagine
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Che mi riempie senza tregua.
Se mi sporgo vedo l’azzurro del Mediterraneo.
Scrutatrice – Tu, fuga assopita dalla morte,
In te dorme il tempo,
Lieve ed implacabile
Indugia eterna sulla tua bocca
La parola che ci separa.
Lo so, me lo dirai, domani,
Chissà, forse.
Francesca Sante
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HORUS
Ero nei guai. Tutti noi otto lo eravamo. Chiusi in quella stanza,
ciascuno dinanzi a un foglio bianco da riempire. Una storia, dovevo
trovare una storia… come se fosse facile! Eppure, era fondamentale
farlo. Se avessimo imparato a governare con strumenti razionali i
meccanismi che presiedevano alla nostra sfera immaginifica, se
fossimo riusciti a prendere consapevolezza di ciò che era frutto
della reale percezione della realtà, e cosa invece un elaborato
frutto esclusivo della nostra mente, le terribili allucinazioni di
cui soffrivamo avrebbero smesso di tormentarci. Era una terapia
sperimentale, ma per quasi tutti noi era davvero l’ultima speranza,
dove la scuola terapeutica ufficiale e gli psicofarmaci avevano
fallito. Proprio la settimana prima, mia moglie m’aveva trattenuto
a stento mentre stavo per tuffarmi dal balcone al quarto piano,
convinto di scavalcare una staccionata che si frapponeva fra me e
un verde pascolo. Mi tormentavo il cervello da dieci minuti ma
nulla ne usciva. Sbirciavo il mondo oltre la finestra, prestando
orecchio ai rumori della strada. La stanza non offriva tanti
appigli all’immaginazione. Bianche le pareti, noi seduti vicino ai
tavoli sparsi, a cercare di buttare giù due righe. Unica nota
caratteristica, alcuni papiri decorati, di quelli che si trovano su
qualsiasi bancarella degli africani. Horus, il dio dalla testa di
falco, con la sua regale tiara bianca, stava in piedi tra due
sconosciuti le cui sembianze ricordavano la maschera funeraria di
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Tutankhamon. Sì, avrebbe potuto immaginare una storia ambientata
in Egitto, qualcosa di esotico. Dalla strada giunse, inatteso tra i
rumori del traffico di città, un aspro verso d’uccello. Tornai a
fissare il papiro incorniciato. Uno degli uomini porgeva doni a
Horus, l’altro era rivolto verso una figura femminile. Iside,
probabilmente. Quanto avrei voluto conoscere quella scrittura
fatta di occhi, uccelli stilizzati e altre forme strane, per poter
capire la storia che il disegno illustrava.
Ma così non era, e per giunta la stanza si era fatta scura e a stento
riuscivo a distinguere i segni. Eppure, eravamo in pieno giorno.
Tuttavia, in quel momento mi accorsi di essere solo. Spariti tutti
gli altri, scomparsa la stanza con le pareti bianche. I geroglifici
tracciati prima sul papiro incorniciato erano ora dipinti sulla
parete di pietra. Scomparse anche le finestre, era in una larga
stanza che sembrava un sotterraneo, illuminata da poche fiaccole.
Nulla si udiva, tranne, a intermittenza, il verso d’uccello di prima,
senza che però potessi individuarne la provenienza. Non capivo cosa
mi ricordasse quel suono, poteva essere la voce di un falco?
Cominciavo a esserne spaventato, non prometteva nulla di buono.
Mentre lo cercavo con lo sguardo, in un angolo trovai un’apertura
nel muro. Poco più che una larga e profonda fessura nel muro, in
cui la paura mi spinse a infilarmi, graffiandomi il corpo contro
la pietra. Appena oltre, uno scuro cunicolo in cui mi inoltrai
spedito. Quasi subito distinsi un chiarore. Da lontano mi giunse
quel verso minaccioso e seppi ch'era già sulle mie tracce. Così corsi,
per quanto mi era possibile nell’oscurità, e man mano che il
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chiarore si avvicinava mi resi conto che il cunicolo sbucava nella
stanza in cui mi trovavo poco prima. Vedevo tutti gli altri ancora
intenti a scribacchiare su quel maledetto foglio come se nessuno
avesse notato la mia assenza. Il grido del falco si avvicinava, io
però ero sollevato, perché sapevo che rientrato nella stanza sarei
stato al sicuro. Scattai avanti con frenesia verso la fine del
cunicolo, ma invece di sbucare nella stanza bianca mi scontrai con
un muro invisibile, impattando con fracasso e dolore. Con la pelle
gelata per il contatto con la parete invisibile, osservai incredulo
gli altri. Ancora non sembravano scuotersi dal loro torpore,
nonostante il fracasso che avevo provocato. Il quel momento capii
che ciò contro cui premevo era il vetro che proteggeva il papiro
incorniciato, solo quel sottile strato di vetro che tuttavia io non
riuscivo a sfondare. Horus, il maledetto, mi aveva catturato, lo
sentivo avvicinarsi in volo nel buio lanciando il suo richiamo
famelico. Io aspettavo la morte premendo disperato contro il vetro
e urlando. Ma gli altri restavano pensosi sui loro fogli senza
accorgersi di nulla.
Vincenzo Barone Lumaga
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REDAZIONE
CLAUDIO LANDI
QASIR AL-QASIR (QUISILIO MIRAGLIA)
SALVATORE VALENTE
ANDREA CORONA
LUCIO ADRIANO PANTANI
MIRKO ZITO
DAVIDE PROIETTI
FRANCESCO VERRENGIA
CRISTIAN MEZZO
Tutte le illustrazioni a cura di Christopher Lee Donovan
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