Rapsodia n°2

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Rapsodia è una rivista letteraria indipendente che raccoglie opere di autori emergenti edite e non per farle confluire in un progetto di promozione artistica dei contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia rifiuta uno schema fisso, mette insieme spunti sempre diversi tra loro per armonia e ritmo donando al tutto un sapore di laboratorio artistico e improvvisazione compositiva. Rapsodia si occupa di letteratura contemporanea. Oltre ai lavori degli autori emergenti saranno inseriti anche approfondimenti dedicati a noti autori contemporanei. Altri autori non contemporanei saranno trattati nella misura in cui il significato delle loro opere e della loro vita sia contestualizzabile nella contemporaneità. Rapsodia non ha un orientamento politico e una categorizzazione sociale, non appartiene a cricche o comitati d’affari. Rapsodia appartiene al pensiero libero ed è gratuita: non esistono rapsodi senza spettatori e Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi lettori. La redazione

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BRUCIA CON NOI

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COS’È RAPSODIA

Rapsodia è una rivista letteraria

indipendente che raccoglie opere di autori

emergenti edite e non per farle confluire in

un progetto di promozione artistica dei

contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia

rifiuta uno schema fisso, mette insieme

spunti sempre diversi tra loro per armonia e

ritmo donando al tutto un sapore di

laboratorio artistico e improvvisazione

compositiva.

Rapsodia si occupa di letteratura

contemporanea. Oltre ai lavori degli autori

emergenti saranno inseriti anche

approfondimenti dedicati a noti autori

contemporanei. Altri autori non

contemporanei saranno trattati nella misura

in cui il significato delle loro opere e della

loro vita sia contestualizzabile nella

contemporaneità.

Rapsodia non ha un orientamento politico e

una categorizzazione sociale, non appartiene

a cricche o comitati d’affari. Rapsodia

appartiene al pensiero libero ed è gratuita:

non esistono rapsodi senza spettatori e

Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi

lettori.

La redazione

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INDICE:

- ANDREA CORONA…………………………………………………p.4

- CLAUDIO LANDI…………………………………….…..…….p.10

- QASIR AL-QASIR (QUISILIO MIRAGLIA)………..p.14

- SALVATORE VALENTE…………………………………..….p.17

- CRISTIAN MEZZO………………………………………………p.23

- MIRKO ZITO……………………………………….…………….p.26

- FRANCESCO VERRENGIA…………..……………………..p.28

- VIVIEN POSTIGLIONE.…………………………………….p.31

- FABIO LASTRUCCI……………………………………………p.32

- ANTONIO PERRONE…….……………………………….…..p.39

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La poesia come melodia dell’ascolto e del silenzio.

Il «suono della quiete» tra Heidegger e Jabès

di Andrea Corona

Il Libro dell’ospitalità di Edmond Jabès si apre con queste

parole: «Entra – diceva –. Questo luogo è tutto a tua

disposizione» (E. Jabès, Libro dell’ospitalità, Milano, Cortina

1991, p. 7). L’invito rivolto allo straniero, ovvero al lettore, è

quello di approssimarsi non ad un luogo geografico, a un

palazzo o a una casa, bensì alla dimora della memoria e della

morte. E la formula ritornerà a più riprese nell’opera di Jabès,

dove la morte viene spesso indicata come una padrona di casa.

Così sarà in Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di

piccolo formato, allorquando si legge che «siamo ospiti della

morte, nostra padrona di casa. […] Oh, vita, volubile invitata.

Ad ogni vita la sua vocale, la sua velatura; alla morte, le sue

consonanti coesive» (E. Jabès, Uno straniero con, sotto il

braccio, un libro di piccolo formato, Milano, SE 1991, p. 14). In

cammino verso la morte, verrebbe da dire parafrasando Martin

Heidegger, per il quale «I mortali sono coloro che possono

esperire la morte come morte. L’animale non lo può. Ma anche il

parlare è precluso all’animale. Come per un lampo improvviso

balza qui allo sguardo il rapporto costitutivo tra morte e

linguaggio» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio,

Milano, Mursia 1990, p. 18).

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L’esperienza della morte, nella maniera di Jabès, si compie

attraverso il dialogo con la vita e, anzi, l’interrogazione della

vita stessa. Ma in Jabès l’interrogazione costituisce un limbo

fra il ricordo e l’oblio. In ciò, tentare una mediazione tra i

pensieri solitari e la propria coscienza significa far

risuonare le parole in quella che Heidegger identificava come

la più assoluta solitudine dei suoni. Ecco allora che «La verità

di Dio è nel silenzio. Bisogna diventare a nostra volta silenzio

per fonderci con essa» (E. Jabès, Libro della condivisione,

Milano, Cortina 1992, p. 15). Solitudine e silenzio sono, qui,

elementi essenziali perché consentono l’apertura a quel dialogo

non verbale, a quel dialogo interiore, che solo la chiusura in

se stessi e la quiete esteriore possono disvelare.

Inoltre, che al cospetto dell’ineffabile vengano meno ogni voce,

ogni parola, ogni nome è una tesi che rimanda di nuovo a una

concezione heideggeriana. Secondo il filosofo di Meßkirch,

infatti, il linguaggio come silenzio è più ‘originario’ del

linguaggio verbale. Heidegger lo chiamava «il suono della

quiete» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, p. 40),

ovvero la melodia del silenzio e dell’ascolto. E, proprio come

sarà per Jabès, anche secondo Heidegger in questo suono di

quiete ogni parola è di troppo: «Uno può parlare, parla senza

fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace,

non parla, e può, con il suo non parlare, dire» (p. 198). È

interessante rilevare come Heidegger applichi questo concetto

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proprio alla poesia, in quanto, una volta giunto nella dimora

dell’ineffabile, «Il poeta deve rinunciare alla pretesa che gli

venga sicuramente fornito su richiesta il nome per ciò che egli

ha posto come realmente essente. Il poeta deve rinunciare ad

avere in suo potere la parola» (p. 43). Parimenti, nelle immagini

di Jabès, lo spazio dell’apertura ai ricordi, alla vera

conoscenza e in generale a quanto vi sia di più decisivo,

corrisponde allo spazio bianco che delimita la pagina del Libro

ma al contempo traspare da essa:

Possa essere il silenzio nel riposo delle parole al di sopra

delle loro lotte sanguinose; perché, spesso, i vocaboli sono

archi, le parole sono frecce, luminose ed oscure. Il senso di

queste lotte? Una battaglia decisiva dove i vinti traditi dalla

ferita tracciano, curvandosi, la pagina di scrittura dedicata

dai vincitori all’eletto, che, senza saperlo, l’ha scatenata. Di

fatto, la battaglia ha luogo per affermare la supremazia del

verbo sull’uomo, del verbo sul verbo.

(E. Jabes, Il Libro delle interrogazioni, I, Genova, Marinetti,

1995, p. 56)

Dove conducono le interrogazioni di Jabès? L’impressione è che

non vi sia spazio per la conoscenza fattiva da parte dell’uomo,

la quale appare anzi superflua se non addirittura nociva. In

alcune pagine de Il Libro delle interrogazioni, infatti, il

poeta francese punta il dito contro coloro che, imprimendo alle

proprie riflessioni un’unica direzione, pensano solo per

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conoscere le cose del mondo e non quelle dello spirito: «pensi

per conoscere, ma non conosci neppure il tuo pensiero – aveva

scritto» (p. 69). Viceversa, l’uomo è propriamente se stesso

quando dimora nell’esperienza della Poesia. Lo dirà

esplicitamente Heidegger, quando affermerà che l’uomo

‘autentico’ è un uomo poetico. Ovvero: solo nella misura in cui

riesce a vivere, esistere e abitare il mondo in maniera poetica,

l’uomo è autenticamente se stesso. Vale allora la pena

menzionare la dottrina dell’abitare poetico: giacché quella che

Heidegger recupera è una concezione dell’esistenza che viaggia

di pari passo con quella della Poesia in senso ampio, «Il

poetare edifica l’essenza dell’abitare. Non solo abitare e

poetare non si escludono a vicenda. Essi sono anzi in una

connessione inscindibile, si richiedono reciprocamente. […] Il

poetare è la capacità fondamentale dell’abitare umano» (M.

Heidegger, «…poeticamente abita l’uomo…», in Saggi e discorsi,

Milano, Mursia 1991, p. 136).

Se l’uomo autentico è l’uomo poetico, simile all’esistenza

‘inautentica’ di Heidegger è l’esistenza descritta nel Libro

della sovversione non sospetta di Jabès, dove si scoprono

l’inconsistenza e la superbia dell’uomo, pretenzioso nelle sue

formulazioni su se stesso, sul mondo e su Dio. Emblematica, in

tal senso, una sentenza che non lascia scampo: «Dio è, di Dio,

il silenzio che tace» (E. Jabès, Libro della sovversione non

sospetta, Milano, Feltrinelli 1984, p. 31). E, dinanzi

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all’inesplicabile, il silenzio al quale invita Jabès è sovversivo

rispetto alla conoscenza: «Un suono – emesso da chi? – e poi

niente. Una parola – scritta da chi? – e poi bianco. Ascoltare

questo niente. Leggere questo bianco» (E. Jabès, Libro della

condivisione, p. 76).

Si ritorna ad Heidegger, dunque, per il quale al poeta manca

sempre la parola decisiva, quella parola che però, pur mancando,

non per questo si dissolve nel nulla. Il poetare ha appreso la

rinuncia e tuttavia, con la rinuncia, nulla ha perduto: «Il

poeta non abdica alla parola, ma canta nientemeno che il

mistero della parola da lui intuito [...]. Canta con tono

stupefatto, cioè poeticamente interrogante, il mistero della

parola» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, p. 46).

Se per il filosofo tedesco il nome al cospetto della

trascendenza è come un tesoro che il poeta non potrà mai

custodire nella sua terra (cfr. p. 44), ecco che non resta che

dare ascolto alla poesia: «Se ascoltiamo la Poesia come canto,

allora ci lasceremo dire [...] ciò che è degno di essere pensato

attorno al poetico» (p. 186). E se per Heidegger la parola negata

al poeta non si dissolve nell’inerte insignificanza del niente

(cfr. p. 45), nel caso di Jabès l’ascolto muto, passando per la più

profonda oscurità, conduce a una nuova parola: il Verbo che

compie una faglia e che si compie attraverso un «percorso della

sovversione al dialogo, fessura da cui sgorga la vita, dove si

infiltra la morte» (E. Jabès, Libro della condivisione, p. 67). E

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il nuovo Verbo di Jabés ricorda molto l’esito di quel ‘cammino

verso il linguaggio’ che porta pienezza e appagamento: «Si

appaga così l’esigenza del poeta di essere sicuro del suo dire.

[…] Il poetare del poetico è compiuto: è giunto al traguardo ed

è perfetto» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pp.

177-178). Ecco finalmente che, non più separate – ma, a ben

vedere, non lo sono mai state – vita e morte ritagliano da se

stesse quello spazio di esistenza autentica dalla quale si può

scorgere, in un’unica immagine, ciò che è ombra e ciò che è luce,

ciò che è silenzio e ciò che è dialogo, ciò che è pagina bianca e

ciò che è scrittura.

Andrea Corona

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L’ANTICAMERA DEL CIOCCHEFFÙ

sempre

appena il sole infuoca l’ultimo sbadiglio

l’uomo si ritrova solo nel pastoso quotidiano

i culi sono ormai tutti ingrassati

mentre ingrassano i vestiti di ieri

scatoloni in sottoscala ragnatelanti

quello che volevo dirti è lì

sul secondo fornello a sinistra

quello che uso per il caffè

anche se inadatto al caffè

ma la mia è scaramanzia

da quando dimenticai il gas acceso

nell’anticamera del Cioccheffù

sul primo fornello a destra

quello per il caffè

anche se non lo uso per il caffè

-ma qui cosa c’è scritto?

-devo assolutamente ritrovare i miei occhiali.

Claudio Landi

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IL CROCEFISSO CON GLI STRASS

sento

la voce di mia madre

da dentro la caldaia

e ora un battito prepotente

balza dalle mattonelle

della parete del bagno

cade dal soffitto

la bava di un giaguaro

appollaiato sul lampadario

mi macchia il naso di blu

mentre l’anaconda si tuffa

nella pasta e fagioli

vedo me in mezzo a tutto questo

osservato-assordato-sbavato-privato

con in mano un crocefisso con gli strass

tutte queste cose

non sono vere

bugie ha appena detto la tv

come tutte le poesie.

Claudio Landi

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METROPOLITHANATOS I

nel gorgoglìo sclerotico metropolitano

guardo dietro lo scheletro primordiale

d’ogniddove

sopra gli spettri lucidi del verbo

dentro il senso sepolto dalla pelle

al di qua della materia pulsante

dove la mollezza delle ore s’innerva e

si distende a passo di lancetta

dove il sanguinare sempiterno ristagna

nella fanghiglia acida del tempo.

ammuffisce il giorno

la città spalanca le cosce;

tra il misticare delle insalate urbane

ascolto il canto sommesso delle luci

al neon

lo sferragliare degli ultimi tram si

trascina dietro nuovi rancori.

teofania dell’acciaio vivo

nient’altro che ferraglia?!

ferro e asfalto

non li senti gracchiare sotto

le piante dei piedi?

non grattare via lo sporco

è l’unica cosa che conta

Qasir Al-Qasir (Quisilio Miraglia)

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haiQ

risveglio al cianuro

un sole pallido brucia tra le tende;

perfino il caffè ha il sapore dell’imbroglio

Qasir Al-Qasir (Quisilio Miraglia)

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IL TURISTA

consigliate le seguenti canzoni in sottofondo:

prima parte - http://youtu.be/whiJhvxChsc

seconda parte - http://youtu.be/CEsFei2uCkc

terza parte - http://youtu.be/U7p6oOZAxUA

La sella sembra diventare sempre più dura e a lui fa

male il culo. Dovrà interrompere il viaggio che lo

stava portando lontano da casa per qualche giorno.

Tira forte le redini. Il cavallo sbuffa, impenna, fa

un po' di capricci e si ferma. Scende, si abbassa il

fazzoletto rosso dal viso, si infila un sigaro in bocca

e lo accende. Non ricorda neanche come e quando ha

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imparato a cavalcare, a fumare o a fare tutte le cose

che sa fare. E sa fare un sacco di cose, tutte in

maniera mediocre, però. Non eccelle in niente. In ogni

campo, senza neanche cercare troppo né troppo lontano,

trova sempre qualcuno migliore di lui. Avanza a

piccoli passi e ogni volta che mette a terra il pesante

stivale si alza una nuvola di terra, sabbia e polvere.

Si ferma a gambe larghe, forse per avere più equilibrio

dopo quello che ha bevuto. Con una mano solleva la

falda del cappello che gli stava sugli occhi, con

l'altra si arriccia un baffo. Scruta da destra a

sinistra il panorama deserto che gli sta davanti, senza

ruotare la testa, solo spostando gli occhi ormai

abituati al sole di mezzogiorno. Quando la pupilla

raggiunge l'estremo sinistro dell'occhio, prende tra le

dita il sigaro, gira la testa verso destra e sputa a

terra un paio di volte. Brutto vizio. Si strappa il

fazzoletto dal collo per tamponare la fronte sudata,

che resta asciutta solo per due o tre secondi. Prende

un sorso di whisky scadente dalla sua borraccia per

calmare la sete. Sputa la metà di quello che si era

buttato in gola, un po' per rispetto del vecchio

compagno morto, un po' perché il whisky fa schifo. Ma

un vero uomo non si lamenta e beve whisky e lui cerca

di apparire come un vero uomo. Vede un bel culo sulla

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destra. Le fa segno col pugno chiuso di chiavare. Lei

lo guarda schifato e scappa via. Avanzando nota

un'immagine familiare sulla strada davanti a sé.

Compie i classici dieci passi che lo separano dal

potenziale duellante e, quando gli arriva di fronte,

si rende conto di stare davanti alla sua immagine

riflessa in uno specchio. Era abituato a guardarsi allo

specchio, prima. Non più da quando la vita lo aveva

imbruttito nell'aspetto, rappresentazione fedele del

suo animo. Si toglie il cappello e si ammira a lungo,

cercando di riconoscere, in quel riflesso, ciò che era

una volta, o almeno una piccola parte. Ma i capelli

hanno ormai abbandonato le tempie, disegnandogli una

M in testa. La barba è perlopiù colorata di bianco e

la pelle sottostante è talmente secca che sembra avere

la forfora sui baffi. Il rossore delle guance ha

lasciato il posto ad un giallo epatite affatto bello a

vedere, affatto confortante a pensarci. Gli occhi sono

diventati strabici per la stanchezza e per le lacrime

e per la stanchezza delle lacrime, forse. Il sigaro che

ha in bocca è giunto alla fine, quasi gli brucia le

labbra, ma quello almeno si può cambiare. Lo sputa a

terra, con un po' di dispiacere, perché era l'unica cosa

che aveva riconosciuto in quello specchio. Si volta e

comincia a camminare, scandendo i passi come se fosse

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accompagnato da un tamburo che batte ogni volta che

il tacco si poggia sulla terra secca. Al decimo passo

si ferma e si rigira, guardando negli occhi e a

distanza quell'immagine che non somiglia ai suoi

ricordi. Le campane, che non si capisce da dove

arrivino in mezzo a quel deserto, suonano mezzogiorno,

lentamente, quasi come a prolungare l'attesa, come se

non ci fosse un meccanismo che impone la precisa

regolarità dei rintocchi, ma qualcuno si divertisse a

far passare sempre più tempo tra un DON e l'altro. Li

conta. Uno. Due. Tre. Ma a lui interessa solo l'ultimo.

Come sempre. Al decimo inizia a tremare. Come sempre.

All'undicesimo pensa di mollare e fuggire. Come sempre.

Ma, come sempre, il dodicesimo arriva e lui si dimostra

coraggioso agli altri solo perché non ha avuto il tempo

di mostrarsi codardo. Estrae la pistola e spara. E,

prima che possa terminare, l'eco del BANG e del

dodicesimo DON è coperto dal rumore di vetro in

frantumi. Si avvicina allo specchio, abbassa gli occhi

e si rende conto del risultato. Adesso lo strabismo è

riflesso da cento specchi, le tempie nude da duecento

specchi, l'ittero da trecento specchi. Socchiude gli

occhi e alza lo sguardo. C'è un palco di legno poco più

in là, come quelli su cui saliva quando ancora si

guardava con piacere allo specchio. Si avvia

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lentamente in quella direzione e intanto la sua mente

crea un processo in piena regola, con accusa, difesa,

giudice e giuria, tutti con la stessa faccia, la sua

faccia, quella buona, quella di qualche anno prima,

tranne l'imputato, che ha la faccia di quello specchio

che adesso è in mille pezzi. L'accusa parla bene,

l'imputato si sa difendere solo con la pistola, ma gli

altri sono troppi e hanno tutti la stessa faccia. Ne

butti a terra uno e ce n'è subito un altro. Arriva al

palco e inizia a salire. Sulla strada appaiono sei

suonatori abusivi che iniziano a suonare, mentre nella

sua testa il giudice emette il verdetto durante un

assolo di tromba. La voce riecheggia nel deserto

intorno al palco: L'IMPUTATO È RITENUTO COLPEVOLE DI

NON ASSOMIGLIARE, NEANCHE NELL'ASPETTO, A

QUELL'UOMO PIENO DI SPENSIERATEZZA, SOGNI,

SPERANZE E AMBIZIONI CHE ERA STATO. VIENE

CONDANNATO A MORTE PER IMPICCAGIONE. Accetta il

verdetto quando ormai è sul palco. La corda è già

pronta, ci infila la testa, la adatta al collo. Alza lo

sguardo e sotto al palco vede in lacrime tutti quelli,

pochi, che lo avevano accettato anche così, giallo,

strabico, stempiato e nervoso. Ma non può continuare a

farsi questo torto, non adesso che ha visto la

differenza, non adesso che il giudice ha deciso. La

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musica incalza, la tromba e il basso e il violino e il

resto degli strumenti sembrano spingerlo oltre. Prende

la pistola, spara alla leva. Le assi del palco, che ha

scoperto essere un patibolo, si aprono e lui sparisce,

fermandosi a venti centimetri dal suolo grazie alla

presa salda del suo collo. Si punta per un attimo la

pistola alla testa ma capisce che così sarebbe troppo

semplice e la getta via. I musicisti, qualcuno

soddisfatto, qualcuno indifferente, lasciano gli

strumenti e se ne vanno. Lui invece no. È ancora là,

immobile, appeso per il collo, in uno stato di morte

cosciente. E un figlio di una grandissima puttana gli

ha piazzato uno specchio di fronte, mentre, accanto a

lui, un tizio con la sua faccia, quella buona, quella

di qualche anno prima, gli ripete di continuo:

COLPEVOLE DI NON ASSOMIGLIARE, NEANCHE

NELL'ASPETTO, A QUELL'UOMO PIENO DI SPENSIERATEZZA,

SOGNI, SPERANZE E AMBIZIONI CHE ERA STATO.

Salvatore Valente

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IL DECLINO ANTICIPATO DELLA MEZZA ETÀ

Trappola, ennesima truffa. Che tutto l'universo sia un

gioco di ologrammi di alcuni dei burloni? Che il sangue

di Elea ce lo disse, che noi non ci credemmo. L'ultima

promessa non mantenuta riguarda gli anni della

potenza. Ci avevano spiegato il tempo, consuetudine. Ci

avevano insegnato ad amare i pranzi di natale, le uova

di pasqua dello zio importante. Ci avevano nascosto che

la madre ruba i parenti, che annulla progenie

agnatizia. Erano gli anni del finto intellettualismo,

della pretesa di eternità, gli anni in cui i capelli

erano lì, per forza, fino ai 30, almeno. Erano le

giornate di sole in cui la campanella delle 13 era la

libertà dell'erba, poi la libertà divenne prigione di

un divano rosso. Nei pomeriggio il vecchio Hank ci

prendeva le labbra e la lingua e i testicoli per le sue

emozioni trasudanti. C'era chi ipotizzava, chi non

voleva capire e chi faceva finta. Era proprio quel

tempo: in cui la virilità si misurava in centimetri,

ragione per cui le proprie ex fiamme non dovevano

andare con i conoscenti.

Evitavamo i confronti, evitavamo di non pensare alla

moneta.

Il delirio anticipato della mezza età ci raggiunse

senza sosta. Il sole batteva su una lastra di marmo che

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copriva un forno, una volta accompagnato dalla voce

della madre della madre. Nel ticchettio dell'orologio

di oggi, quella voce fantasma si ripete solo nella

mente. E il sangue, e le ginocchia e la bici sotto il

trattore, il fieno, l'arco di legno, la tenda coda di

cane puzzo di piscio di gatto. L'uovo viene a mancare

gli dei scherzano ancora, e viene meno anche la

promessa dei 30. Non c'è nemmeno Lei che incarna il

sommo.

La mezza età è a 20 anni, forse a 40 si muore, i denti

si fanno più gialli.

La mezza età è a 15, forse a 30 si muore. Ha smesso anche

il fumo di entrare.

La mezza età è a 10, forse, sono già morto.

Cristian Mezzo

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TRENTA DENARI

Gridavi in silenzio, giorno dopo giorno, gridavi al tuo

specchio, guardavi le tue grida, le smorfie del tuo

volto, la disperazione della verità.

Ogni dannato giorno perdevi una persona; ogni dannato

giorno scoprivi una menzogna, uno schiaffo, una

coltellata al cuore.

Come si può sconfiggere una chimera così?

Come puoi combattere i tuoi stessi amici?

E preferivi ingannarti, ingoiare il veleno, perché è

più facile adorare un dio crudele che odiarlo: la tua

speranza è l’arma più forte del tuo nemico.

Andavi avanti, cercando la forza, quella che non

potevi trovare in tutti gli dei degli uomini, ma sapevi

che c’era un solo, unico, crudele modo per non lasciarti

ferire: strapparti via il cuore.

E allora sì! Sti cazzi! Lo facevi. L’ultimo sacrificio.

Ma poi cos’è che manca?

Credevi di aver pensato a tutto: niente dolore

significa felicità.

Col cazzo.

Come potevi provare felicità senza un cuore?

Come avresti mai potuto provare qualunque cosa che

non fosse un eterno vuoto?

Potevi affascinare, ma non essere affascinato.

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Potevi far innamorare, ma non potevi assaggiare il suo

tocco dolce e incandescente.

Questo è il dramma: se non puoi sentire uno schiaffo,

come potrai mai comprendere una carezza?

E infine scese la notte…

Mirko Zito

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IL FOGLIO BIANCO

Mi ritrovo qui a galleggiare nel fumo creato

dalla mia sigaretta, alla ricerca costante di

quelle maledette parole che si sono smarrite

nel labirinto della mia anima. Mi ritrovo

nuovamente a perdermi nel biancore di questo

foglio, a fissarlo, a cercare tra il disarmante

bianco i termini, le virgole, le consonanti e

le vocali che anche per un po’ voglio sentire

eterne. Fisso il bianco lattiginoso di questa

pagina e mi tremano le gambe, mi manca il

fiato, come se mi trovassi in mezzo ad un mare

di latte e all’orizzonte non si vedesse nemmeno

un filo di terra, né un approdo, né un faro e

nemmeno un porto. Naufrago tra le righe non

disegnate della mia pagina alla ricerca

dell’isola deserta.

La sigaretta si consuma, il motore è in avaria

e i remi sono l’unica speranza, li impugno e

inizio a remare forte, con grinta, andando

verso nord, o est? Non lo so dire, scelgo una

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direzione a caso e remo perché in fondo la

terra è tonda e prima o poi mi dovrò ritrovare

a bere del vino annacquato nella bettola più

lurida di un porto.

La sigaretta è finita, il fumo che annebbiava

la mia vista si è diradato, forse ora vedrò, si,

sicuramente riuscirò a scorgere in lontananza

un lembo di terra, una collinetta, un faro che

mi condurrà lontano da questo mare bianco. O

forse no?

Disperato, mi fermo a fissare il mare, così

candido, con qualche crespatura, fino a quando

alzo lo sguardo e mi ritrovo ad osservare il

cielo, azzurro, menomale! Un colore diverso dal

bianco oscuro.

Il cielo, così compatto e così discontinuo, di

tanto in tanto c’è qualche nuvola, altre volte

l’azzurro è interrotto dallo splendore del

sole.

Il cielo, ha degli appigli, dei limiti: “guarda

quel pezzo di cielo tra quella nuvola che

sembra un rinoceronte e quell’altra a forma di

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cuore!” ma poi riabbasso nuovamente lo sguardo,

e mi ritrovo a galleggiare con una barca su di

un mare bianco, denso, bello e disarmante nella

sua compattezza cromatica, che accoglie ed

erode. Sto iniziando ad imbarcare acqua, la

nave sta affondando.

I miei piedi sono zuppi di latte salato, il

bianco inonda la mia imbarcazione e sale

sempre più di livello, sto per annegare.

Il bianco ha avuto la meglio, questo foglio, per

questa volta, non sarà riempito.

Francesco Verrengia

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PARTENOPE

Giaci o Partenope

Nuda davanti alla tua patria

Con gli occhi accesi dal Sole

E celati dalla Luna

Cosparsa di brezza marina

Sei acquatica e selvatica

Bevi il sangue dei naviganti perduti

Il sangue dei migranti affogati

Di tutti quelli,nelle acque del Mediterraneo,caduti

Nutri il mare con le tue vene piene di sale

E della linfa vitale

Di Gea e Poseidone

Vivien Postiglione

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SPAZZOLE

Dopo ogni pasto, per misero che fosse, Armà mi fissava

soddisfatto, con l’aria compiaciuta di chi la sa lunga.

– Vieni, Moschillo che mò t'imparo la vita…

Era il momento in cui perle di saggezza e ruttoni gli

sorgevano alla bocca in pari misura.

– Tu ragiona un poco: stai bene in salute, ringraziando

la Madonna, tieni la vista degli occhi, le cosce sono

buone. Dici che non ti manca niente? No. Quello che

veramente è fondamentale, Moschì, è l'orecchio. Chi

campa in strada come noi una cosa deve imparare: saper

ascoltare. Piglia mò questo rumore di passi. Ascoltalo

bene.

– Tacchi alti? – facevo io.

Lui mi prendeva a scappellotti. – Mannaggia a

Satanasso che non ti porta! Ma ci senti o non ci senti?

Fai più attenzione… senti il peso… l'urto del tacco,

l’eco. Ttumm ttumm, guarda come rimbomba, pare nà

fucilata… Questi qua sò stivaletti, Moschillo! Scarpa

da signori!

A quel punto si alzava e cominciava a lanciare la voce.

Nella discesa infangata di Pizzofalcone, il suo canto

rimbalzava sui muri insieme alle spazzole da

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lustrascarpe che cozzavano l'una contro l'altra. Era il

richiamo.

TA-TA' TA-TA' TA-TA'-TA'

– Buon giorno, Dottore mio illustrissimo! Una bella

lucidatina agli stivali? Non volete mica scendere a

Santa Lucia combinato così? Un signore come voi… Su,

ve li faccio uscire nuovi di zecca, venite, venite qua!

Per essere uno sporco individuo, Armà con la pulizia

ci sapeva fare. Lisciava il cliente, lo curava

spalmandolo di moine. Nel suo campo era un mago.

Sapeva distinguere e individuare tutti i tipi di

calzatura sentendole a distanza.

Scarpe da donna a tacco basso.

Scarponi da lavoratore (inutili).

Pianelle da negoziante.

Mocassini, zoccoletti. Scarpe da donna a tacco alto.

Stivali da uomo.

Scarpe da sbirro (importantissime queste).

Da quanto potessi ricordare, quel farabutto mi aveva

fatto da padre spiegandomi tutto l’indispensabile. E'

grazie a lui che avevo imparato a sfilare con destrezza

un portafogli. A non farmi imbrogliare col resto. A

giocare a carte. A mangiare a scrocco in qualche

bettola.

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Certo, la cosa più nobile che Armà mi avesse mai

insegnato era come produrre pernacchie con l'ascella.

Per uno come lui era già abbastanza.

In quei tempi, con la guerra in corso, bisognava

pensare solo ad arrangiarsi. Sopravvivere. Chi non

lavorava faceva il mercato nero. Chi aveva un corpo

prostituibile lo vendeva o s'industriava con quello di

moglie o figlia.

Talvolta vedevamo gente danarosa che bazzicava i bassi

alla ricerca di ragazzine o ragazzini a buon mercato.

Armà li disprezzava, salvo quando non s’interessavano

a me. Allora cambiava subito atteggiamento.

– Moschillo… quello ti sta guardando. Sì, quello là col

cappotto buono. Secondo me sta bene a soldi… e

sorridigli, fa il bravo…

Io lo deludevo rispondendo a sputazzate e male parole.

– Non sai campare, Moschillo, non conosci riconoscenza.

Mannaggia a Satanasso che non ti porta. – diceva

scuotendo la testa. Mi gonfiava di cinghiate e la cosa

finiva lì.

Rosicato dalla stizza scompariva per giorni. Lo vedevo

poi tornare pallido e scavato dopo averne combinata

qualcuna delle sue.

Era difficile andare per case. Non c’era niente da

rubare.

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Meglio chiese, cappelle votive. Cimiteri, anche.

Tornava portandosi un sacco pieno di roba misteriosa

che vendeva per quattro soldi a gente più brutta di

lui.

La notte parlava nel sonno, agitato e sudato.

Per prudenza mi tenevo alla larga.

Gli vedevo spuntare tra le dita un rosario e un

santino.

Quando riprendeva a dare la voce nei vicoli, potevo

stare tranquillo. Il peggio era passato. Lui pure si

distraeva.

La giornata tornava ad essere fatta di scarpe che

suonavano la loro Tammurriata sul selciato. Ci

avvolgevano ognuna col suo ritmo, ognuna con la sua

musica da saper interpretare.

Armà tornava filosofo. Dottore. Maestro di vita.

A fine autunno, la sera, vedevamo sparire l’ultima luce

fra i tetti, lasciando il posto al cerchio giallo dei

lampioni che mettevano malinconia. Era il momento

brutto in cui non passava quasi nessuno. Qualche

scugnizzo scalzo si inseguiva e le spazzole suonavano

a vuoto, chiamando nel nulla del tramonto un cliente

che non sarebbe mai arrivato.

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– Quanto la schifo quest’ora qua, Moschillo. Quest’ora

è la dannazione mia. Quant’è brutta non puoi avere

idea…

L’attesa segnava quei momenti.

Una specie di ansia si impossessava di Armà. Una ruga

in più, quasi un’unghiata, gli crepava la faccia.

La vidi infittirsi quella volta che, dentro Vico Nudo

a Toledo, si sentì lo scalpicciare fuori orario di un

passante.

– Cliente in arrivo. Spazzole e pezza, guagliò!

A primo ascolto, non sembrava essere il suono di

nessuna calzatura che conoscessimo. Il ritmo pareva

arrivare da una parte imprecisata, un’eco senza fonte.

Armà si guardò intorno, allarmato. Mandò me avanti a

cercare. Non c'era nessuno.

Poteva trattarsi di un rumore proveniente da altrove,

tipo persiane che sbatacchiano al vento. Vento non ce

n’era, però. Né persiane.

Allora ci accorgemmo della figura.

Era un tipo robusto, vestito con un bel cappotto nero

dal collo di astrakan. Una lobbia calcata in testa.

Dai tombini saliva una nebbiolina bassa che riempiva

la strada. Arrivava alla caviglia nascondendo del

tutto i piedi.

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Con quattro scappellotti Armà mi ordinò di tenere

pronti lo straccio e il grasso per il coppale.

– Questo è uno importante, Moschillo, – giù uno

scappellotto – ci dà una buona mancia. E

impietosiscilo, fai la faccia mesta. – Tirata di

orecchio.

Io mesto lo ero per davvero. Come non esserlo con

quella vita schifosa? Intanto il cliente era arrivato.

La faccia non si vedeva, affondata tra sciarpa,

cappotto e cappello. La nebbia si era pure alzata.

Puzzava di fogna.

Sistemando le spazzole, Armà parlava a raffica, sempre

più nervoso. – Allora, Signore mio bello, come le

facciamo queste scarpe nuove, lucide e ben ingrassate?

Vi passo pure certa pomata mia speciale per tenerle

scintillanti…

Il cliente, enigmatico, non rispondeva.

Avvicinatosi alla pedanina del poggiapiedi, non andò

a sedersi al suo posto sul trono, ma si mise di fianco

ad Armà che era inginocchiato per terra.

Posò il piede sulla battuta di ferro.

Io, che stavo dietro, vidi a malapena.

Non portava scarpa. Niente pianelle o stivali.

Armà si tirò in piedi, pallidissimo. Con movimenti

goffi mi mise in mano le spazzole.

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– Uh… questo cliente sbrigatelo tu, Moschì, che io

tengo da fare. Comportati bene, mi raccomando…

intrattienilo! Arraffato il barattolo coi soldi, scappò

per il vicolo.

Allora guardai. Quello che appariva sotto il risvolto

del pantalone era una caviglia nuda, coperta di pelo.

Alla sua estremità, uno zoccolo caprino.

Senza fretta, il cliente tornò a posare a terra il piede

e si mise a seguire Armà con passo cadenzato.

La paura non mi sfiorò nemmeno. Solo un pensiero.

Vedevo le due figure allontanarsi e c’era una cosa

importantissima da sapere. Una domanda

all’incontrario che si aggrappava alla gola.

– Senti, Armà! Ma poi tu… torni…?

La risata lenta e orribile salì infilandosi su per il

vicolo. Era il cliente, sembrava che avesse appena

sentito la battuta più comica del mondo.

Armà sparì dentro un portone. L’altro lo seguì.

Non li vidi più uscire.

Fabio Lastrucci

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SEI L’ODORE

Sei l’odore del caffè

e l’aroma del toscano

il sudore della mano che scrive da sola.

Sei lo spazio tra le parole

il silenzio degli a capo

l’attesa del punto fermo.

Sei il grigio della grafite

sei la sillaba sbiadita dal pollice distratto

sei le pieghe dell’ennesimo foglio A4

su cui scrivo prima di ricopiare.

Sei di resina, colla e glucosio

non sei di carne stasera.

Antonio Perrone

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REDAZIONE

CLAUDIO LANDI: Direttore, Guru e Spammer ufficiale.

L’IMPRONUNCIABILE Q.: Tracannatore pluridecorato di

superalcolici e buona musica.

SALVATORE VALENTE “El Polémico”: Provocatore ufficiale,

pugile da bar e bevitore da ring.

ANDREA CORONA: Supervisore Ufficiale e Guardiano della

Rivoluzione.

LUCIO ADRIANO PANTANI: Ayatollah e Chirurgo estetico di versi

e strofe.

MIRKO ZITO: Latin Lover e bassista bastardo nonché bevuto.

VIVIEN POSTIGLIONE: Musa Ispiratrice e sacerdotessa del

verso.

FRANCESCO VERRENGIA: Chitarra, tastiera, sorriso smagliante

e rima disarmante.

CRISTIAN MEZZO: poeta da sipario dal monologo magistrale,

ricercatore accurato di gadget da finto intellettuale.

In copertina illustrazione a cura di Ray Caesar

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