RAPSODIA N°4

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1 PER SEMPRE HALLOWEEN/LA CASA DELLA MORTE/SLEEPWALKER/SCORIE/ LA SPAGNOLA/OLTRE I MIEI OCCHI/CITTÁ CADAVERE/NUDA II/NUDI SPELLATI/CHE OSCURITÁ SIA/RICORDI/N.M.O./GENESI/GLI AMANTI BLU/LO SCOMMETTITORE/LA CONGIURA DEI SILENTI/RECRUDESCENZA/ ANTROPOCENE/LA NAUSEA

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Rapsodia è una rivista letteraria indipendente che raccoglie opere di autori emergenti edite e non per farle confluire in un progetto di promozione artistica dei contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia rifiuta uno schema fisso, mette insieme spunti sempre diversi tra loro per armonia e ritmo donando al tutto un sapore di laboratorio artistico e improvvisazione compositiva. Rapsodia si occupa di letteratura contemporanea. Oltre ai lavori degli autori emergenti saranno inseriti anche approfondimenti dedicati a noti autori contemporanei. Altri autori non contemporanei saranno trattati nella misura in cui il significato delle loro opere e della loro vita sia contestualizzabile nella contemporaneità. Rapsodia non ha un orientamento politico e una categorizzazione sociale, non appartiene a cricche o comitati d’affari. Rapsodia appartiene al pensiero libero ed è gratuita: non esistono rapsodi senza spettatori e Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi lettori. La redazione

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PER SEMPRE HALLOWEEN/LA CASA DELLA MORTE/SLEEPWALKER/SCORIE/LA SPAGNOLA/OLTRE I MIEI OCCHI/CITTÁ CADAVERE/NUDA II/NUDI SPELLATI/CHE OSCURITÁ SIA/RICORDI/N.M.O./GENESI/GLI AMANTI BLU/LO SCOMMETTITORE/LA

CONGIURA DEI SILENTI/RECRUDESCENZA/ANTROPOCENE/LA NAUSEA

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Copertina e illustrazioni: Junji Ito

Rapsodia - Rivista Letteraria IndipendenteAnno 1 - Numero 4 - Ottobre/Novembre 2014

Sito: www.rivistarapsodia.wordpress.comEmail: [email protected]: Claudio LandiComitato di Lettura: Andrea Corona, Quisilio Miraglia, Francesca Sante, Claudio Landi, Mirko ZitoRilettura: Claudio Landi - Francesca SanteImpaginazione e grafica: Claudio Landi - Francesca Sante

©Rapsodia Rivista Letteraria Indipendente e i suoi autori

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COS e RAPSODIA Rapsodia est una rivista letteraria indipendente che raccoglie opere di autori emergenti edite e non per farle confluire in un progetto di promozione arti-stica dei contenuti di ciascun elaborato. Rapsodia rifiuta uno schema fisso, mette insieme spunti sempre diversi tra loro per armonia e ritmo donando al

tutto un sapore di laboratorio artistico e improvvisazione compositiva.Rapsodia si occupa di letteratura contemporanea. Oltre ai lavori degli autori emergenti saranno inseriti anche approfondimenti dedicati a noti autori con-temporanei. Altri autori non contemporanei saranno trattati nella misura in cui il significato delle loro opere e della loro vita sia contestualizzabile nella contemporaneita Rapsodia non ha un orientamento politico e una catego-rizzazione sociale, non appartiene a cricche o comitati d affari. Rapsodia appartiene al pensiero libero ed est gratuita non esistono rapsodi senza

spettatori e Rapsodia non avrebbe significato senza i suoi lettori.La redazione

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INDICE

FRANCESCA SANTE7

QASIR AL-QASIR10

SERGIO ORICCI12

GRETA CIPRIANI16

MIRKO ZITO18

SILVANA DI GIROLAMO22

SONIA SECCHI26

5ANDREA CORONA

9CLAUDIO LANDI

11SALVATORE VALENTE

14VALERIO PEDINI

17FILIPPO SANTANIELLO

19DIEGO MAHT

28PEE GEE DANIEL

DAVID CHANCE FREGALE29

23FRANCESCO VERRENGIA

31SERENA ROSSIENRICO M. DI PALMA32

34JEAN PAUL SARTRE

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PER SEMPRE HALLOWEENLa mostrificazione della vita da Foucault a Dumoulié

1. Il controllo capillare, innanzitutto. Ovvero, il “biopotere”.

In un volumetto del 2011 su “Foucault e le nuove forme del potere”, Stefano Rodotà ha scritto che «Non parliamo più soltanto di una società dell’informazione o di una società della conoscenza, ma di una società della comunicazione, caratterizzata appunto da ininterrotti flussi informativi nei quali tutti siamo continuamente immersi. Siamo, insieme, destinatari e produttori di comu-nicazioni. E sono proprio le informazioni direttamente prodotte da ciascuno di noi a renderci più controllabili e più governabili».

Presidente dell’Autorità garante per la Privacy dal 1997 al 2005, Rodotà sottolinea come il suddetto flusso informativo sia legato ai gesti comuni della vita ordinaria: da un badge che registra la nostra entrata e la nostra uscita dal luogo di lavoro alla carta di credito che indica dove ci trovavamo in un preciso momento e quali acquisti abbiamo fatto (rivelando, quindi, non solo la nostra localizzazione ma anche i nostri gusti e la nostra disponibilità finanziaria); dal telepass dell’autostrada che immortala le tappe dei nostri spostamenti agli accessi ad internet che rivelano la ‘rete’ delle nostre preferenze; dai messaggi di posta elettronica alle telefonate col telefono fisso o mobile, fino alla nostra attività sui social network, che mostrano le nostre relazioni personali.

E tutto ciò, per riprendere le tesi di Foucault sul controllo della vita dell’individuo, scandita in tutte le sue fasi, finisce per renderci dei soggetti esposti a un diffuso e invasivo «biopotere» che si impadronisce della nostra sfera quotidiana in ogni sua manifesta-zione e che si dirama, oltre che attraverso il potere medico-scientifico, anche e soprattutto grazie al potere del mercato.

2. Foucault e Arendt, biopotere e potere “oikonomico”

In riferimento al potere del mercato, ha rilevato il Collettivo 33 (gruppo di filosofi napoletani autore, nel 1997, del saggio “Per l’emancipazione. Critica della normalità”) che i nostri tempi registrano un’immanenza della sovranità all’economia e viceversa, in quanto «Nell’economico agisce un’istanza di sovranità e nella sovranità un’istanza di calcolo. L’economico ha bisogno della sovranità – il politico – per funzionare e la sovranità si esercita per “calcolare” la società».

Ma qual è l’esito di questo gioco? Il diffondersi degli enunciati economici nei discorsi politici, e la corrispondenza tra funzionari del Capitale e funzionari politici, hanno portato a una lingua depoliticizzante che sembra far ritorno a qualcosa di antico quanto può esserlo la figura del pater

familias, del responsabile del governo della casa, dell’oikos e, quindi, a quel responsabile dell’oikonomia che esercitava un potere e un controllo dispotico sui membri stessi dell’oikos.

Ha dunque ragione Hannah Arendt quando afferma che l’attuale dominio dell’economia non è che l’estensione mondiale del go-verno della casa: con l’estendersi della comunità domestica e delle attività economiche al dominio pubblico, infatti, «la gestione della casa e tutte le faccende che rientravano precedentemente nella sfera familiare sono diventate una questione collettiva».

La cosiddetta globalizzazione assume perciò un significato ontologico: la comunità domestica si è estesa su tutta la terra, com-portando come diretta conseguenza l’esposizione della “nuda vita” al mondo intero e ad un pater ormai impersonale e il loca-lizzabile. In ciò, basti pensare al Grande Fratello, in tutte le sue declinazioni, e soprattutto al ben noto sistema di sorveglianza “panottico” di Foucault e di Bentham.

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3. “Fascismo soft” e godimento, virtuale mediatico e mostrificazione della vita.

C’è un famoso aforisma di Adorno, per cui, quando il godimento si emancipa dal valore di scambio, viene giudicato come sov-versivo. Lo psicanalista parigino Jacques Lacan, negli stessi anni, osserverà che «il godimento è interdetto a colui che parla, in quanto tale». Azzardiamo dunque un’ipotesi: il godimento in quanto tale può essere interpretato come una denuncia di quel “fascismo soft” analizzato in tempi più recenti da Camille Dumoulié?

A detta della saggista francese, al furore delle masse del “fascismo hard”, il “fascismo soft” ha sostituito: a) il ritorno del furore dei media, e b) l’aggressività nei confronti degli individui che scelgono un godimento non canalizzato e non canalizzabile nei flussi di mercato.

Che il fascismo soft si definisca in base al controllo dei godimenti significa in sostanza, per dirla con Dumoulié, che l’immagine pubblicitaria, onnipresente, ha già realizzato ciò che essa propone al nostro desiderio: una vita ricca di colori, di gioia, di origi-nalità; ma si tratta pur sempre una vita virtuale.

Una vita virtuale che, nondimeno, ha come diretta conseguenza nel reale «Un’umanità trasformata in fantasmi che attraversano la vita come in un permanente Halloween, ridotta allo stato di corpi stravolti e vampirizzati dalle stesse immagini che devono imitare». Tale è l’operazione del virtuale mediatico sul mondo: esso vampirizza la vita anticipando il godimento. E, nel fare ciò, l’attualizzazione del virtuale si configura come la messa a morte del godimento stesso: «si gode per voi, si è già goduto. Non avete più nulla da desiderare».

Quello che si sta manifestando sullo sfondo è, in definitiva, uno scenario di crisi e di declino del pensiero critico. E la domanda, a questo punto, non può essere che una: quale via d’uscita dalla “zombificazione” universale?

Ebbene, concludiamo dicendo che una possibile resistenza nei confronti di questa “mostrificazione”, che coincide col controllo mediatico dei godimenti, sembra rintracciabile in ciò che Léon Bloy ha identificato come «il Desiderio dei poveri»: ovvero il desiderio, ancora umano, che risiede in quel soggetto che desidera veramente e che è escluso, o si esclude, dal godimento com-merciale. Un desiderio, direbbe Deleuze, “impercettibile”, ma reso tale perché “proprio” e privato. Già lontano, dunque, dalla mondializzazione della casa e dall’anonimato di massa.

Andrea CORONA

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LA CASA DELLAMORTEannotazioni post-mortem intorno a

“La poesia come melodia del l ’ascolto e del s i lenzio .I l «suono del la quiete» tra Heidegger e Jabès”

di Andrea Corona (Rapsodia n°2)

Ho trovato la casa della mortein un paesaggio cubista,nascosta tra pini e templidi bellezza pieni. La pioggia ha intonato un vecchio accordo

piangendotra le erbe screpolate

giurava fede all’azzurro.Ho cominciato il mio viaggio col suo ricordo

E Ho trovato la casa della mortein un paesaggio impressionista,

nascosta si confessava.Commossa ne fu la vita.

In questo momento in cui le montagne sembrano spruzzate di rosa, e le nuvole, sembrano spruzzate di rosa, adesso – e ci sono le rondini, cazzo, che non avevo visto prima – proprio adesso il mio frutto si mostra, distrutto. Mi vergogno.

Ho trovato la casa della mortenell’opera di Pechino,tra stridii e chuànquì

suonava il gongmentre il sole tramontava per ore

cercando di spezzare l’orizzonte.Ho cominciato il mio viaggio col suo ricordo.

Ricordavo di un cielo di cirri contentidi esser parte di quel font

E

[Sei tu la musica, sei tu la musica e tutte le parole che la musica non dice]

Ho raggiunto la casa della Morte.Davanti,come un taglio,sprofondava la Vita.Mi s’impigliano le ciglia eresto ferita.Straziato ne fu il laico che la sacralità aveva smarrita. Francesca SANTE

Ho trovato la casa della mortenella serenità del primitivismonella sua compatta trasparenza.

Resto qui nascostae posticipare l’eternità

sempre di un po’.Posso continuare.

(No, questa non te la dico, è troppo bella.)

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SC

OR

IE

Claudio LANDI

giganteafona

mi divori puntuale

ancora una volta

e io devo amarti

e dovrò farlo ancora

tu che sputi in aria palazzi-suicidio

nel battere sordo di lavori in corso

1300 km/h di sola

morte

coi proventi di ogni marmitta

avvinghiati a pareti ferraglia

in nero qualunque graduato micamale

di unità abitative

è l’incenso urbano

mostruosa piccola notte di città

che guadagna spazio e narcotizza

che non conosci

almeno prima che faccia scuro

come se scuro già non fosse

SOTTO IL TAPPETO

SIAMO SOLO POLVERE

MESSA DA PARTE

NELL’ATTESA LUGUBRE DELL’ASPIRAZIONE

un geranio nasce dall’antenna

innaf ato dallo sbuff o

di un bus da primacorsa

e ti illudi

che sia tutto fi nito

di nuove genti del posto

narici ossute

ma delle quali ne giuri la presenza

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staccarsi dall’abitudinedal cordone ombelicalesmantellare le barrieremasticare la placenta e poi vagare– ecco come fare -per il continente asiaticocalpestando terra e mareper l’America Centrale opiù in qua dell’Equatoresenza il peso della mortee le noie dell’avereche coltivano i tumulti neltorpore delle serequando il vento suda l’afae cerchi a vuoto di dormireo una febbrile insonnia la fa in barba aquelle oreè inutile resistere, c’è poco da aspettarelascia stareormai il silenzio conia un imperativoche è l’unico rumore;è il momento di partire

ma al termine del giro, proprio all’ultimo gettonetra certezze a luci rossegirotondi esistenziali e un’orchestra dipercossecomprendi che la vita è un’amaraincomprensione, una gran contraddizioneche ti ingoia a colpi di valzerper ruttarti poi nel vuoto

sorseggiando un alka-seltzer.

in attesa sui binari, cuore in spalla enelle tasche poco o nienteaffacciarsi al mondo un po’ alla voltacon la faccia dell’infante saltando dentro ai treni sconosciutiper la meta inesistente, in pantaloni giàmacchiati delle gioie di una passantedalla lingua intraprendente, della schieradi chi mente quando afferma: “sei importante!”ma così ce ne son tante

nella migliore delle ipotesinient’affatto sorprendentepasseggere tutte quante in questoviaggio devastantein cui l’amore è roba acidaper il poeta inconcludenteche gode nel dolore di un giocodeludenteè roba per l’acrobata sul filo traballanteper tenercisi a distanza non esiste repellente;

Qasir AL-QASIR

SLEEPWALKER

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Mi presento al solito bar quella nottePronto a prendere da bere e due mignotte.

Solo che quella la conosco, quella già me la sono fatta,Quella ha il naso lungo, quell’altra è brutta

E quindi mi rassegno ad una notte senza donneConsolandomi con un’intera bottiglia di Moët et Chandon.

All’improvviso, sulla porta, una visione:Una donna dalle sembianze d’un puttanone.

Sopra presenta enormi tette,Sotto due belle chiappe strette,

Gambe lunghe e tacco alto,Il viso incorniciato da un biondo casco corto,

Le labbra che ti ispirano un pompinoE un abito da sera rosso valentino.

Mi si siede accanto e ordina da bereMentre io, incantato da quel belvedere,Non volendo reagisco in un momento

Trasformando il mio cazzo in un blocco di cementoAccavallo le gambe e cerco di coprire

Ma lei è esperta e abile a capire“Mi chiamano Lola, molto piacere”

“Onorato, Luca Pitone, trombettiere”E forse spinto dall’imbarazzo,

Non potendo nascondere il mio cazzo,Scendo dallo sgabello, allargo una gamba

E dico “vedessi com’è grande il resto della tromba”Si avvicina lentamente e me lo tocca,

Mi infila agevolmente la lingua in bocca,Appoggia sullo sgabello il piede col taccoScoprendosi l’inguine grazie allo spacco.

Non resisto e infilo una manoSvelando, purtroppo, lo spiacevole arcano:

Quel suo bellissimo abito rossoCopriva perfettamente un cazzo così grosso.

Ritraggo la mano in un istante,Allontano la lingua dal suo dente

E guardo con occhi spalancatiQuell’essere mitologico in abiti griffati.

Però, detto onestamente,Quell’immagine senza pene era eccitante.

Mi era diventato duro in poco tempoVedendo soltanto il suo caschetto biondo

Le sue labbra carnose, il suo seno perfettoE quell’abito rosso che le avvolgeva il culetto.

E allora sai che c’è di nuovo?Non mi importa che tu sia uomo.

Per favore, mia bellissima LolaCaccia le tette e fammi una spagnola.

LA S

PA

GN

OLA

Salvatore VALENTE

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Di solito non mi giro neanche quando mi urlano qualcosa per strada. Capita spesso, e ormai quasi non ci faccio caso. In quell’occasione però mi voltai, perché ero curiosa di scoprire a chi appartenesse quella voce. Così diversa, così sgradevole. L’uomo che mi aveva appena definita bella – anzi, bella bella bella bella – era seduto per terra. Più che seduto, abbandonato. Troppi capelli, barba non fatta. Più vecchio di me, almeno a giudicare dall’aspetto. Occhi nervosi, labbra spaccate. E qualche dente buttato a caso in bocca, in mezzo a tanti spazi vuoti.

bella bella bella bella

Ripeté ancora. Poi rise. Appariva sporco, fuori e dentro. Erano i suoi pensieri a esserlo. Ci misi un po’ per distogliere lo sguardo dalla sua faccia scura, bruciata. Da lì in avanti le immagini si fecero confuse. Un cappello con qualche moneta dentro, un mozzicone di sigaretta tra le dita. E due moncherini che sbattevano sul cartone. Mozziconi anche loro, ma di gambe. Sentii una cosa salire nello stomaco. Una cosa che avrei voluto rimandare giù, e che invece mi arrivò in gola. E che subito dopo scese davvero, ma più in basso di quanto avrei voluto. Durò un attimo, magari due. Mi prese alla sprovvista, mi lasciò incollata a terra. Appena fui di nuovo capace di muovermi, ricominciai a camminare. Fino all’uscita del sottopassaggio, senza voltarmi.

OLTRE I MIEI OCCHITornai il giorno dopo. Mi ero inventata una scusa per ripassare di là. E adesso che c’ero, speravo di incontrarlo ancora. E speravo anche che non ci fosse. Mi avvicinavo, e i pensieri si accavallavano. Ma uno era gigantesco, impossibile da ignorare: dovevo avere qualcosa che non andava. Nella testa. Mentre attraversavo l’ultimo corridoio, pensai che potesse venirmi un infarto. Le orecchie stavano per esplodere. Girai l’angolo e lo vidi al suo posto. Poco più avanti c’era la carrozzina, ripiegata su se stessa. Lui aveva le mani tese, e ripete-va la sua litania. Qualcosa che aveva a che fare con quanto sarebbe stato grato a chiunque gli avesse allungato una moneta. Mi fermai a osservarlo. La maggior parte della gente lo evitava, qualcuno gli regalava uno sguardo compassionevole. Altri lasciavano cadere un euro o due nel cappello delle offerte. Ascoltai con attenzione ogni parola del mendicante. Non sentii neanche un timido apprezzamen-to, nonostante di donne ne passassero molte. Mi feci coraggio e mi avvicinai.

bella bella bellissima quanto sei bella

Tirai fuori dalla borsa una banconota da cinque euro e la poggiai nel cappello. Lui mi prese la mano mentre lo facevo. Senza violenza, in modo tenero. La accarezzò, io lo lasciai fare. Avrei voluto accarezzarlo anche io, soprattutto sulle gambe, proprio sul punto in cui erano state amputate, appena sopra il ginocchio. Invece tirai via il braccio, e iniziai ad allontanarmi a passo svelto. Mi girai un paio di volte prima che l’uomo uscisse dal mio campo visivo. Lo vidi allungarsi verso di me, come a volermi acchiappare. Sentivo la pelle scottare. Mi infilai nel bagno pubblico del sottopassaggio, mi chiusi dentro e mi masturbai.

La sera, tornata a casa, lo feci di nuovo. Stavolta nel mio letto, pensando ancora a quell’uomo. Cercai di riflettere sulla situazione in modo razionale. Presi in considerazione tutte le possibilità. Potevo far finta di ignorare le mie pulsioni, ma c’erano. Potevo coprirle sot-to metri di altri pensieri, ma sarebbero rimaste lì. Provai a immaginarci insieme. A cena fuori. L’avrei presentato ai miei amici? L’avrei mai portato dai miei genitori? Una relazione con lui. O con uno come lui. Non si poteva fare. Mi ero già spinta troppo oltre. Giurai a me stessa che non si sarebbe ripetuto.

Nel mese successivo cercai di vivere come avevo fatto prima di quell’incontro. Era difcile, perché avevo conosciuto una nuova me. Se tenere a freno il desiderio era ancora possibile di giorno, l’inconscio invece non mi concedeva tregua. Mi svegliavo durante la notte sudata, eccitata. Sognavo lui, e ogni mattina dovevo combattere con la voglia di correre a incontrarlo.

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Dopo qualche altra settimana, mi resi conto di stare sempre peggio. Ero una donna di trentacinque anni, con uno splendido lavoro e una bella casa. Avevo anche diversi corteggiatori, per quanto la definizione risultasse – in quel momento più che mai – del tutto anacronistica. Ma ero sola, disperatamente sola. Perché mi disgustava l’idea che qualcuno potesse conoscermi davvero. Che potes-se anche soltanto intravedere oltre i miei occhi un riflesso dei miei desideri. Così cercai di cambiarli, quei desideri. Di scacciare via il mio chiodo fisso. E per farlo, non trovai niente di meglio che utilizzare un altro chiodo.

Carlo è un bravo ragazzo, stiamo insieme da circa un anno. Ha tutto quello che una donna potrebbe desiderare. Due occhi, un naso, una bocca. Due braccia e due gambe. Non facciamo molto spesso l’amore, e lui non se ne lamenta mai. Quando lo guardo noto sempre qualcosa di troppo, qualcosa che preferirei non ci fosse. Le poche volte che gli permetto di scopare, chiudo gli occhi e penso al mendicante del sottopassaggio. In questo modo ogni tanto riesco a venire. Lui viene sempre, invece, anche abbastanza veloce-mente. Usciamo un sacco, però. E ci divertiamo. Andiamo al cinema, a fare shopping, a vedere mostre d’arte e spettacoli teatrali. È una persona con cui è facile stare, ed è capace di essere molto dolce. Mi accompagna ovunque, mi sta sempre accanto con il sor-riso. Oggi lo porto nel sottopassaggio. Non è la prima volta. Mi chiedo se abbia mai sospettato qualcosa, se sia mai stato attraversato da un dubbio. O anche soltanto da una sensazione. Poi mi dico di no. Carlo è troppo convenzionale, di una normalità pulita, per nien-te artefatta. Non ce ne sono in giro molti, di esseri umani come lui. Almeno credo. Perché siamo in tanti a nascondere un segreto.

Gli stringo la mano più forte, quasi gliela stritolo. Lui fa una faccia sorpresa, ma solo per un istante. Poi torna a sorridere come al solito e ricambia la stretta, per farmi sentire che c’è. E io lo sento, lo so che è vicino, ma lo sguardo e i pensieri sono proiettati più avanti, oltre le curve e i negozi. Sono con Carlo, con le dita intrecciate alle sue, ma penso a un altro uomo. Come quando lui fa l’amore, e io sogno di essere altrove.

Ci avviciniamo, e a me sembra già di avvertire il suo odore. Di sentire le monete che suonano nel cappello, e la voce roca che prega i passanti. Finalmente giriamo l’angolo, e la mia mano suda dentro quella di Carlo e stringe ancora, e penso che forse sto facendo male al tizio che mi sta a fianco, ed è l’ultima volta che mi preoccupo per lui. Perché da quel momento in avanti non si tratta più di sentire ma di vedere, non è più una speranza o una voglia o un forse o un magari. È un adesso ed è lì. Accelero il passo e noto che si è tagliato la barba e i capelli. Sta bene, appare più giovane e più pulito. Sembra diverso ma poi abbasso gli occhi e le gambe non sono ricresciute, e allora capisco che è lui e subito è nello stomaco, poi tra le cosce, e lo sento anche in bocca perché mi pare che la saliva abbia cambiato sapore e sia calda e densa più di quanto lo sia mai stata. Gli sono di fronte e mi sento nervosa. Mi fermo, mi attacco a Carlo e lo costringo ad aprire le labbra. Resto lì a baciarlo e a sbavargli addosso davanti all’altro, e aspetto che chiuda gli occhi come fa sempre. Lo sento teso, ma si abbandona a me, perché mi ama. Guardo al di là della sua spalla, fisso l’uomo seduto dietro l’abbraccio. Mentre muovo la lingua sento la sua – sua di chi? – spingere contro la mia. Il mendicante ci vede, e mi sembra che rida. Ma sono sicura che anche lui, come me, ha gli occhi pieni di lacrime.

Sergio ORICCI

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Nell’immobilità – esplode- il fuoco fatuoE scrosciano vermi sull’asfalto osseo:

gemme di catrame invadono il vaso del cosmo:e Pandora arde nel suo delirio.

Chi-chi-chi-chi-chis-s-s-s-sono-tutti quelli che circumnavigano il granello spaziale alla vana ricerca del paradiso celestiale?

Sarcofaghi ammufti si erigono intorno al cranio-cuspidaleE il cervello

Diviene dolce budinoAmato da bambini grassi-con stomaci sacchiformi,

dove il nero del tempo viene risucchiatodalla gravità del fato:

il buco nero istiga morte…e morte è sempre clemente!

Allora buh!Bau!

Wrong!FRUm!

Trum!Czac!

Ta-ta-ta-ta- tam!

Il bulbo oculare scruta la vastità sociale, e tutto si riduce a granello di sabbiaInfilato nelle mutande di metallo:

intruso-intruso-acchiappare l’intruso, non farlo arrivare al punto exstremo della vita, non dire che intruso essere vivo, [renderlo morto prima ancora che nasca!

Ancor prima che una formica nasca,la regina saprà già se sarà micro,medium o macro, saprà già se sarà operaia o soldato,in definitiva una formica sa sempre se un’altra formica sarà schiava oppure schiava,

eppure tutte le formiche sono felici di esserlo!

Al che i consimili pregano, mentre la Terra si ritraeE resta solo un focolare

VUOTO!

Valerio PEDINI

CITTÁCADAVERE

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Ho sparso il tuo sapere

al fuoco e al vento,

con enormi fiamme il segreto della carne,

con un sofo la poesia del tuo respiro.

Ho navigato sul tuo corpo

trattenendo l’ancora,

un canto di sirena mi ha confuso l’anima.

Tu eri un’isola perfetta,

più feconda delle madri.

Ho pronunciato alfabeti,

denunciato stelle, astri,

ma nulla s’imprimeva sul tuo viso,

disegnato rotte, confini,

ma la geometria del tuo nome

mi è oscura quanto la retta

che si diparte dalle tue gambe distese.

NU

DA

II

Greta CIPRIANI

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Nudi, spellatiMi venivi a trovare e mi sfamavi con la tua carne perché chiunque dà da mangiare a un cane se glielo chiedi.Mi studiavi.I tuoi occhi erano stretticome certi taglietti che ci si fa con la carta.Era bello al buio.La lavatrice non faceva rumore e non mi rendevo conto quando finiva il ciclo.I miei vestiti incoloresapevano di quello che saremmo diventati ed era inutile stenderli al sole. Ricordi quando abbiamo bruciato le fragole?Ci agitavamo sul letto nudi, spellatie il tempo ci è sfuggito dalle mani. Sapevi che sarebbe andata così

sapevi che ero troppo giovane per non trovarmi beneda un’altra parte.

Filippo SANTANIELLO

NUDI SPELLATI

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C’era l’odio.

Lo ricordo bene.

Era il sapore godurioso di un rossetto slavato.

Era perverso orgasmo con la prostituta di turno che conosceva troppo bene l’antico mestiere o i desideri della tua carne.

Era il cuore del nemico con insalata e olive e una vecchia bottiglia di vino rosso.

Era lava di fuoco sotto la neve.

Era il sangue del figlio di un dio legato alla croce.

Erano occhi di lei che non riuscivano a non vederti con un’altra.

Era la tomba di quel genitore di cui avevi dimenticato il nome.

Era sangue e fuoco e merda e piscio e fango e lacrime e dio e anima e vento e piog-gia, e luce che affoga in un pozzo, e alcol sulle ferite, e apocalisse e peste e rabbia… e rabbia… e rabbia…

E un bicchiere sempre pieno ma mai fino all’orlo.

Mirko ZITO

CHE OS

CU

RIT

Á SIA

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Le lucine colorate provenienti dal softto del bar si muovono libere e incontrollate sul mio viso e mi accecano leggermente. I miei occhi le seguono curiose e li guidano fino alle scale che portano a questo piano ed a lei.Il suo corpo, fasciato da un jeans stretto e una canottiera rossa, è eccitante al solo osservalo e qualcuno dentro di me s’apre nel vederla sorridere comparsa da quelle luci.Non so perché sono qui, ma il mio cuore mi dice che lei è importante ed è il motivo del mio presente.“Tutto bene?”“No”“Perché?”“Ogni giorno perdo qualcosa. Informazioni, ricordi, capacitàSto morendo, giusto?”“Sì, mi spiace. Tumore al cervello, quarto stadio. Mi spiace, Diego.”“Mi chiamo così?”“Sì, ti ricordi di me?”“Adele, primo amore. Giusto?”Ancora una volta solo un sorriso, si siede e niente può più distrarmi.I veloci scambi di battute e gli sguardi rendono tutto così ovvio da sembrare recitato, l’ennesima replica di qualcosa già visto e vissuto.Siamo stati insieme, forse, o comunque per me qualcosa c’è stato. Forse è stata mia, ma ora di sicuro non lo è più.Il mutismo si protrae e mi infastidisce, vorrei mettergli fine eppure ogni cosa sembra essere già detta. Ci saranno sicuramente stati momenti del genere in passato, cosa facevo per mettere fine a questa tortura?“Ti guardavi intorno e poi dicevi qualcosa di stupido, sperando io ridessi”“Mi leggi nel pensiero?”“Primo amore, no?”

Dio, io amo questa donna.Non posso fare a meno di pensare a quanto sia bella, ogni cosa in lei sembra essere stata strutturata con pre-meditazione.L’oscurità profonda dei suoi occhi fa pendant con la sua pelle spettrale. E’ uno spettacolo.Qualsiasi sia stato il motivo per cui ci siamo lasciati, sono colpevole di non aver fatto di tutto per averla ri-portata da me.

“Ti deciderai a svelarmi il perché?”

“Il perché di cosa?”“Come mai hai scelto proprio questo posto?”“Non so, giuro”

Lei sorride, leggo dell’indulgenza nei suoi occhi, s’avvicina un po’ al mio viso e io le vado incontro.“Davvero, non ricordi?”Come pronunciasse qualcosa di magico, la mia memoria sembra annaspare nel riemergere da una lunga ap-nea.Il luogo è lo stesso, solo che la mia testa non era ancora così canuta e certi particolari erano decisamente di-versi. Qualche mobile, un odore diverso e quell’assenza della nostalgia dovuta al tempo passato.Nella forte luce dei ricordi, siamo allo stesso tavolino a parlare di noi.Lei è bellissima e io no.Indossa il suo vestito a poise, una volta glielo criticai e diventò l’abito da indossare quando era arrabbiata con me.Sorseggia un caffè, sembra ignorarmi mentre cerco di attirare la sua attenzione.Tutto è sordo in questa rievocazione, ma so di dire qualcosa di divertente perché lei finalmente ride, si scioglie e mi concede un bacio.Come l’amavo, come l’amo.Il perché ci siamo lasciati non è tornato su insieme alle altre cose, ancora giace sul fondo del mio cervello ed è lì che lo voglio.Mi basta vederle aggiustare un ciuffo di capelli o muovere lentamente il cucchiaino nella tazzina per capire che sapere di più potrebbe solo farmi soffrire.Lei è vita e io sto morendo.

RIC

OR

DI

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“Qui mi sono dichiarato, qui ho scoperto che era reciproco e sempre qui ci siamo dati il primo bacio”“Bravissimo, ci sei arrivato. Ora sai pure dirmi il motivo?”Il suo sguardo si muove e il suo sorriso si spegne un po’, nasconde il viso e io mi voltò a guardare cosa ha originato quella mutazione. Dietro di me, uno la sta fissando. E’ sempre stato così, come dargli torto, e ogni volta l’ho sempre odiato.“Che cazzo ti guardi, stronzo?!”“Molto romantico, tesoro. Ma non guardava me, guardava te”

Il ragazzo è terrorizzato ora, legge un menù al contrario e ci nasconde la faccia.A quanto pare, non è il solo. Finora sono stato così impegnato nella nostra conversazione da non rendermi dei loro bisbigli.Parlano sottovoce di me, mi danno del pazzo furioso. Tutto questo perché ho perso la pazienza per gelosia?

“Parla da solo da mezz’ora…”

I resti di conversazione trapassano le orecchie e fanno del male ad un cervello già malato.Ora la mia concentrazione è di nuovo su Adele, forse solo ora la sto veramente guardando.Se fosse una regina dei ghiacci, si spiegherebbe il suo rimanere così intatta come nei miei ricordi.Risparmio il fiato, se ho ragione lo sentirà ugualmente: Tu non esisti.

“Esatto”Oh merda…“Rilassati, non avere paura. Cosa ti ha detto il dottore? Le allucinazioni sono…”Tra le possibili degenerazioni che verranno.“Esatto, il quesito è…”Perché proprio te e perché qui? Sì, ora lo so.Finalmente ogni cosa mi è chiara, la consapevolezza è tornata fra le mie opzioni e sento di dover parlare prima che la malattia si porti via di nuovo tutto.“Aspetta, già che ci sei spiegami pure questa”L’immagine onirica tira fuori da chi sa dove una pistola, di quelle per il tiro a segno.Rivedendola, mi viene da piangere e ridò con una certa gioia.Lei mi guarda stupita e preoccupata.Tanto tempo fa, siamo andati al luna park per il tuo compleanno.Volevi un peluche, dopo vari tentativi fui costretto ad ammettere d’aver fallito miseramente.Alla fine, lo vincesti tu per me. Mi hai preso in giro per questo a lungo.Non chiedermi il perché, ma per me è il ricordo più bello di noi.“E cosa c’entra con noi?”

Quando ogni cosa era certa e l’esito incontrovertibile, provavo una grande paura.Prima ancora di morire, sapevo di poter perdere tutto.Sarei morto ignaro di ciò che ero stato, di ciò che avevo vissuto. Non volevo questo come finale.Così ho cominciato a cercarti e quando ti ho trovata ho scoperto che oramai eri un’altra donna.Ti sei sposata, hai dei figli e tuo marito non mi assomiglia minimamente a livello estetico.Niente da criticare, eh.Non volevo gettarti addosso i miei problemi, tornare dopo così tanto tempo solo per dirti di star morendo.Allora ti ho creata, afnché tu potessi farmi un ultimo favore.

“Quale favore?”

So di essere un egoista, amore mio, però non voglio andarmene perdendo ogni cosa di noi.I tuoi occhi, il sapore delle tue labbra o cosa provavo mentre mi toccavi.Perciò, per piacere, prendi il ricordo più bello che ho di noi e con quello uccidimi.Gli altri intorno a me urlano, per loro sono io a rivolgermi una pistola alla tempia destra.Cercano di fermarmi, chiamano aiuto. Li capisco, per loro è follia, non capiscono che è solo l’ultimo gesto di un grande amore.Non importa poi così tanto chi di noi preme veramente il grilletto, perché l’eternità in attesa subito dopo la passeremo insieme.

Diego MAHT

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Danzerò nel vuoto

Degli inutili e reietti

Scivolerò sugli avanzi

Di questo nuovo dis_ordine

Mi inabisserò tra le urla

Degli ultimi inascoltati

Precipiterò sull’ignoranza

Di armi intelligenti

Darò forma e valore

A chi non ha consistenza

Nello schema del

~ NEW ORDER ~

Ed infine danzerò

Sul tuo vuoto

Perché ogni mio passo

Scuota tutti i tuoi sensi

Assopiti da scie fantasma

Subliminati con note

Dal ritmo Oscurante

Afnché per te

Non suoni mai più

Nessuna sveglia

Lì io danzerò per te

Silvana DI GIROLAMO (Dinka)

_____________N_M_O_

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GENESI

…“come cazzo ti permetti di parlarmi così?”“come cazzo mi permetto? Io così parlo alle persone stupide che vogliono lanciare sentenze dall’alto della loro arroganza!!”“ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Mi stai dicendo che io non ti rispetto?”“e certo! Perché è cosi!!”“ che stronzo di merda che sei! Ti ho sempre detto che ti ho considerando un uomo con le palle!!”“ facile a dirsi, il difcile è dimostrare questo concetto nella quotidianità, prendendo in considerazione le opinioni altrui e non considerando la tua verità come la verità assoluta!”“Che significa dimostrarlo?”“Ecco appunto, non sai nemmeno come si fa!”“Ma io sono tuo padre!!!”“ Essere padre vuol dire essersi fatto una scopata, diventare padre vuol dire invece rispettare un figlio di 24 anni come uomo, e non più considerarlo inferiore solo per una questione di gradi familiari, ma tu essendo una persona ignorante e ancora peggio arrogante questo non lo capisci!!”Scattò allora in piedi, chiuse la finestra e si avvicinò a me con gli occhi pieni di sangue e con la gola ingrossata per le urla, in quel momento smisi di ascoltarlo..Mi ricordo solo dei suoi occhi che mi fulminavano, delle sue urla, tanto forti da sputare da per tutto mentre urlava; ricordo il disgusto della sua saliva umida sul mio viso, la sentivo, perché era più calda delle lacrime che fendevano le mie guance, ricordo la puzza di alcool, data dal vino e dalla grappa che aveva ingerito, ricordo tutto, ma non ascoltai quello che disse.

Dopo la sfuriata, decisi di chiudermi in me stesso e non proferir parola, decisi di trattarlo così come si trattano gli stupidi, igno-randolo. Quando finì di buttarmi addosso tanta rabbia, andò via, si andò a chiudere in camera da letto. Rimasi un momento da solo e lì realizzai, lì capii che mio padre mi considerava inferiore, non provava rispetto, e allora presi una decisione in quella giornata, decisi di intingere le mie lacrime in una miscela, decisi che le mie lacrime quel giorno potevano allungare qualche drink già annacquato di per sé, decisi, si decisi, perché in fondo quella giornata fu il battesimo dell’uomo che ora sono, e che per sempre sarò, decisi..e mi ritrovai per strada sotto un diluvio, senza ombrello, e con in dosso solo un giubbino di panno, che oramai si era inzuppato, ma non me ne accorsi, non feci caso alla pioggia. Vagai per non so più quanto tempo e mi ritrovai in una bettola, una bettola perfetta per festeggiare un battesimo del genere, una bettola dove c’erano poche persone, tutte intente a “festeggiare” chissà quale battesimo, un barista dalla faccia afflitta dai festeggiamenti altrui e che quotidianamente festeggiava il suo. Scelsi il tavolo più nascosto, anche se quello che preferivo era già occupato da un festaiolo e ordinai una bottiglia di vino, dei fogli e una penna. Di tutta risposta il barista mi disse che non aveva fogli o quaderni, e allora mi accontentai di un pezzo di cartone facente parte di una confezione di birra. Iniziai a bere, inizialmente solo un po’, perché fui preso dallo scrivere, scrivevo come non mai, parole di odio, di rabbia e frustrazione. Rilessi e cancellai, cancellai così vigorosamente che bucai il cartone; strappai via il pezzo logoro e mi fermai per un po’, decisi di accendermi una sigaretta e fumarla con gusto prima di riprendere a scrivere, ma mi accorsi che la bottiglia era quasi finita, e ne ordinai un’altra; quando la prima bottiglia fu ormai solo un ricordo e il pacchetto di sigarette si trovava ormai dimezzato, iniziai a vedere il bar più luminoso, la gente più felice, e guardando il mio riflesso sulla finestra con la condensa mi sentii illuminare.Decisi allora di riprendere a scrivere quelle parole di rabbia, decisi di scriverle tutte d’un fiato senza fermarmi, e allora prima di immergermi presi un altro bicchiere di vino e mi fumai un’altra sigaretta. Dopo aver riorganizzato le idee, mi resi conto che l’unica cosa che mi veniva in mente di scrivere era una poesia senza rime, e questo fu il risultato:

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Com’è dolce la vitaIntrisa di lacrime

E bagnata dalla pioggia.Com’è allegro l’uomoChe beve vino da solo

E realizza la beltà del mondoChiuso in un bar illuminato di rabbia.

Brucia il fuoco della gioiaAlimentato da combustibile alcolico

Mentre danzano nella mente le ombre del giorno passatoCome angeli in una paradiso aulico

Come diavoli dannati.

Brindo al mio battesimoBrindo alla saliva infuocata

Sputatami in faccia con tanta rabbia,brindo e sorridola saliva evapora

e mi ritrovo a ridere del futuro che verrà.

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Rilessi ancora il tutto, un paio di volte, trovai altre cose da cambiare, da correggere, ma non lo feci. Volevo lasciare intatta ogni singola parola nata da quella follia, come una firma indelebile, come un marchio a fuoco che indicasse la provenienza di cotanta follia dalla più remota regione della mia anima;Solo di una cosa rimasi impressionato: dove era finita la rabbia?E poi non ricordo più niente...

Mi risvegliai disteso sull’asfalto umido dei vialetto di servizio del bar, e d’istinto guardai l’orario, erano le due e venticinque del mattino, non so da quanto tempo ero fuori, perché non ricordo a che ora ero uscito da casa. La prima cosa che feci fu quella di guardare nelle tasche per controllare se avevo ancora il portafogli e i documenti, e con grande liberazione notai che non mancava nulla, ma avevo come la netta sensazione che mi mancasse qualcosa, e non sapevo cosa; era come se mi mancasse qualcosa di importante, era come se la mia anima fosse spirata verso l’ignoto mentre ero disteso, per non tornare più, avevo la sensazione di come quando si perde qualcosa di prezioso, di importante, come la foto della propria amata, come qualcosa che lega ad un passato, ed è l’ultimo stralcio concreto di un qualcosa di cui non si sia sicuri dell’esistenza. Improvvisamente capii, non avevo più il mio pezzo di cartone. Mi guardai intorno, non lo vedevo, guardai dietro una cassa di bottiglie vuote e niente, poi mi voltai e vidi il cassonetto: come una vagabondo che cerca del cibo, mi rimisi alla ricerca della mia anima scomparsa, mi sporcai tutto, e quando fui completamente logoro, sul fondo lurido del cassonetto trovai il mio tesoro. Era intatto, non aveva subito alterazioni, e la prima cosa che feci fu quella di leggerlo. Quando finii di leggere la quarta volta quello che avevo scritto mi ripiombò addosso la sensazione di mancanza, come un tir mi travolse, mi spinse nell’imbuto dell’incertezza, mi sentii nuovamente orfano di un qualcosa di importante.Girovagai tra le luci fioche della città, come una vagabondo, ma col concetto del vagabondaggio invertito, ossia io sapevo dove an-dare ma non sapevo più da dove venivo, avevo perso la certezza del passato, non avevo più nessuna foto di ragazze a dimostrarmi che era stato tutto reale, mi sentivo orfano di certezze per me oramai date per scontate, avevo perso la sicurezza del mio essere, o meglio di quello che ero stato. Quel Battesimo da me subìto, fu come un passaggio verso il nuovo con il crollo del vecchio, come se fossi arrivato in cima ad un grattacielo dopo che erano crollate le fondamenta, ero un uomo ora, ma avevo distrutto il bam-bino che ero stato. L’angoscia mi prese terribilmente per le palle, mi mancò la forza di proseguire nel mio cammino insensato, improvvisamente iniziai a correre, corsi forte, corsi a perdifiato, non per arrivare verso qualcosa ma per scappare più velocemente da qualcosa, o meglio da qualcuno, da me stesso, da quello che ero, e corsi per un bel po’ di tempo, fino a quando mi accasciai. Caddi con un tonfo sordo nel bel mezzo del parco e quando feci per pulirmi la faccia dalla breccia del vialetto, mi accorsi che stavo piangendo, piangevo lacrime amare, come quel bambino che fui.

Piangevo tanto, tanto da non vedere più nemmeno l’uomo che ero diventato.

Quando riuscii a rialzarmi mi sedetti su una panchina del parco e guardai il cielo, le nuvole cariche di pioggia danzavano ancora sotto i fendenti del vento, ma non minacciavano più la città. Le guardai danzare, le guardai con timore, come si guarda un demo-ne che danza, minaccioso e romantico nella sua completezza, che ti intima terrore, ti fa tremare, ma che attira e travolge.Guardai il demone, fissandolo negli occhi ntensamente. Quando mi accorsi che il cielo altro non era che lo specchio che rifletteva la mia immagine, guardai ancora il demone e mi accorsi che la creatura che mi tormentava era l’uomo che ero diventato, era la bestia che aveva ingerito il bambino che fui, che lo aveva distrutto, era il mostro verso il quale dovevo provare odio e che invece mi ammaliava e avvolgeva. Il mostro dal quale decisi che non dovevo farmi esorcizzare, ma dal quale mi dovevo fare avvolgere, per danzare fino alla fine della mia vita.

Francesco VERRENGIA

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Nel cuore di Guangzhou, nel quartiere di Huang Sha famoso per il mercato del pesce, si erge un alto grattacielo di novanta piani che gli abitanti più anziani chiamano “shìtou guàishòu”, cioè mostro di pietra. Il colosso è spuntato all’improvviso sulle teste di uomini e donne abituati a vivere in casupole al piano terra, ha preso manciate di famiglie di tutte le estrazioni sociali e se l’è infilate dentro dalle mille finestre sparse su tutto il gigantesco corpo.È al quarantunesimo piano del mostro che vive Li Ping con la sua famiglia. Di lui non si è mai saputo molto: era un ragazzo introverso, amava disegnare e aveva la pelle blu. I genitori lo amavano comunque moltissimo ma non potevano permettergli di uscire di casa altrimenti gli uomini bianchi lo avrebbero preso e portato via in un qualche laboratorio e l’avrebbero studiato da tutte le angolazioni domandandosi quale combinazione genetica avesse creato quell’affascinante disastro epidermico, i genitori si sarebbero disperati nel perdere il loro unico figlio e sarebbero diventati lo zimbello del quartiere. Quindi no, Li Ping non uscirai mai da queste mura. Per nessuna ragione. Troppo pericoloso.E così Li ping passa le giornate chiuso nella sua stanza a osservare il mondo dalla finestra di quel quarantunesimo piano che si affaccia sul mercato del pesce e dove le persone sono puntini senza verbo, minuscole macchie di colore che si fondono tra loro come molecole di un arcobaleno di cui non si riesce a distinguere i contorni. Osservava il mondo dalla televisione, dai giornali e disegnava, disegnava. Prendeva nota col suo tratto a matita di tutto ciò che vedeva creando nuove finestre da cui guardare una vita che sapeva non gli sarebbe appartenuta, da lontano, senza tristezza e con un pizzico di malinconia benigna che portava il colore della sua pelle. Blu.Come è successo ad ognuno di noi, anche a Li Ping toccò entrare dentro l’età della trasformazione dove ogni cosa terrena sem-bra non bastare più. L’adolescenza è un tunnel dopo il quale non per tutti brilla una luce in fondo, dipende dal modo in cui si percorre il buio e stretto percorso.E il corpo, sebbene ancora blu, non è più lo stesso, le notti sono insonni pervase da un formicolio che si fa strada dentro par-tendo dalla punta dei piedi, e disegnare non è più uno sfogo ma un desiderio ogni giorno più grande. Ogni giorno più irrag-giungibile. Quel pizzico di malinconia non più benigna che porta sempre il colore di quella pelle che ora pretende. Blu.Guardare il mondo dai soliti spiragli faceva male come mai prima perché tutto esprimeva una sola, sconosciuta parola: amore. Non sapeva esattamente cosa fosse quell’insieme di gesti né tanto meno se si chiamasse amore o meno. Semplicemente era qualcosa che ancora non era riuscito a cogliere completamente nell’osservazione del mondo fuori e capì che non tutto può essere solo osservato e raccontato, bensì alcune cose vanno vissute. Certo, aveva l’affetto dai genitori che mai mancavano di donargli un abbraccio o una qualsiasi altra dimostrazione di sentimento, ma non era lo stesso. Voleva cogliere il mistero di certi sguardi che sono carichi di parole senza voce, l’intimità del tocco di una donna, come nei film o nelle foto delle pubblicità dei profumi, sentire appagato quel moto del corpo, trovare risposte dentro un’altra esistenza.I soggetti dei suoi disegni cambiarono e i palazzi venivano sostituiti da occhi femminili, le persone lontane e minuscole sosti-tuite da seni, uomini e donne ora si abbracciavano e si baciavano e la notte era luogo di profonde riflessioni e scoperte. Fino al momento della grande decisione: uscire nel mondo fuori. Sarebbe stato un rischio, ma la causa valeva per Li Ping più di ogni altra cosa. Provare almeno ad essere felici, senza la pretesa di riuscirci, era la sua più grande consapevolezza. E così riempì lo zaino delle poche cose care che era riuscito a collezionare, si vestì facendo attenzione a coprire tutti i punti del corpo che ri-velavano il suo segreto e aprì la porta della sua stanza. Poi si fermò. Avrebbe quantomeno dovuto motivare la sua partenza ai genitori. Che cosa avrebbero pensato non vedendolo più senza neanche due righe scritte?

GLI AMANTIBLU

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Così andò alla scrivania a cercare carta e matita ma poi si arrestò di colpo e per la prima volta vide tutti i suoi disegni. Li vide davvero come non li aveva mai visti. Guardò i soggetti, tutti quegli uomini e quelle donne normali, con la pelle di un colore nor-male che si amavano apertamente, senza nascondersi, senza vergognarsi. Li Ping avrebbe davvero potuto vivere come loro, una volta uscito da quella porta? Certo, ci avrebbe provato, ma quanto pesa una delusione? E se davvero ci fosse riuscito avrebbe potuto mostrarsi pubblicamente col suo amore per mano senza farlo vergognare? Non lo preoccupavano nemmeno gli uomini bianchi quanto il timore di far soffrire e vergognare la persona che l’avrebbe amato.Buttò lo zaino sul letto e si spogliò lentamente fino rimanere completamente nudo. Si guardò allo specchio per un tempo infi-nito.Io sono Li Ping e ho la pelle blu.Prese un foglio e una matita del colore della sua pelle, delle sue malinconie buone o brutte che fossero e cominciò a disegnare.Non sarebbe mai uscito da quella stanza ma per la prima volta era riuscito a vivere l’amore senza viverlo, a trovare una compa-gna senza cercarla, soffrendo, certo, ma ora sapeva di aver trovato l’amore in una ragazza blu come lui che nel disegno sfiorava il suo viso dolcemente e che non l’avrebbe mai abbandonato.

La stessa notte, dalla finestra del settantaseiesimo piano di un grattacielo di novanta piani nella città di Guangzhou, nel quartire di Huang Sha famoso per il mercato del pesce, una ragazza dalla pelle

blu guardava il cielo senza stelle e piangeva.

Sonia SECCHI

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L’ opera narrativa che qui Vi si va a offrire non intende in alcuna misura attestarsi a lavoro ori-

ginale quanto a contenuti e argomenti trattati, né tanto meno a prodigio letterario. Scorrendo

le seguenti pagine avvertiamo che non Vi imbatterete in sommi approdi dell’umano spirito o

in elaborate ricerche di carattere sperimentale. Ciò che al contrario qui di seguito ci si prefigge

di esporre resta la nuda verità dei fatti, quanto più spoglia di orpelli e abbellimenti possibile. Le

vicende qui di seguito narrate non costituiscono peraltro punto interesse per i corsi storici né

per quel che riguarda l’umano consorzio nel suo insieme eppure, nella loro ricorrente ferialità,

confidiamo siano capaci di rappresentare esperienze in qualche modo co-muni, oltre che a chi

scrive, alla più parte dei lettori.

L’ amore per la reale resa dei fatti è ciò che ci spinse ad inchiostrare le presenti risme e qualora

qualcuno debba supporre di rintracciare tra esse resoconti un po’ troppo fantasiosi per poter-

si attenere puntualmente a una verace cronaca degli avvenimenti, sappia che, appartenendo

molti degli eventi da qui in poi mostrati alla biografia personale di chi li redasse assai più di

tante altre peripezie altrove partorite dalla sua facoltà immaginativa, e avendolo essi provato e

sinceramente corroso nel profondo di animo e psiche, l’autore sottoscritto ha però preferito, al

risentimento cui tali reminiscenze lo avrebbero facilmente potuto condurre, l’impiego di uno

humour quanto più faceto e scanzonato, secondo il principio – che serva anche da monito a

chiunque si appresti a scrivere di un passato dolente! – per cui la miglior via per la rivincita

non è già il malanimo, bensì la lieta irrisione.

Pee Gee DANIEL

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www.edizionileucotea.it

LO SCOMMETTITOREBREVE INTRODUZIONE

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Ebenezer X era un uomo corpulento, dallo sguardo annoiato e tendenzialmente superbo. Non parlava mai. Ciò accadeva per il semplice fatto che la sua bocca veniva aperta per proferire verità inconfutabili, verità pesanti come grattacieli che l’uomo comu-ne difcilmente riusciva a sopportare. Una volta, una parola di Ebenezer X aveva distrutto un boschetto di querce nella contea di Charnwood, in Inghilterra; l’eco di quella stessa parola aveva provocato una guerra in una remota regione del Sud Africa, e detronizzato un piccolo imperatore aziendale da qualche parte in Romania. In Russia, dalle parti di Drovosna, alcuni bambini nascevano deformi a causa delle cose che aveva detto in seguito a una notte memorabile nella quale Ebenezer X si era ubriacato di Moskovskaya e aveva parlato per almeno sette minuti buoni, avvelenando la terra di un’assoluta quanto insopportabile verità. Molti lo cercavano per ucciderlo, in praticamente quattro continenti era già stato condannato a morte. Un siero di menzogna sarebbe stato sufciente, o era preferibile un colpo di cannone?

Malcolm Y era alto e robusto, ma il volto assai vacuo lo smagriva complessivamente. Non parlava mai. Quando lo faceva, lo fa-ceva con una voce sempre diversa, perché non aveva una voce sua che non fosse quella copiata e rubata ad altri esseri viventi. In tutto il mondo erano parecchi gli attori, i tenori, i bambini, gli oratori, i politici, i quali da un giorno all’altro si erano trovati muti perché derubati da Malcolm Y. Forse non sarebbe stato un gran danno se a questa disgrazia non fosse seguita in ogni individuo che era stato privato della voce un’altra spiacevole conseguenza: Malcolm Y, come una peste, toglieva qualcosa ma ne lasciava un’altra, nella fattispecie un cancro letale che aggrediva le corde vocali ormai inutilizzabili dei derubati e li uccideva nel giro di un anno. Non credo che Malcolm Y fosse a conoscenza di questo effetto collaterale, ma non ci è dato sapere se la cosa l’avrebbe scosso almeno un po’, dato che il soggetto in questione era completamente, irrefutabilmente pazzo, e incapace di provare senti-menti di rimorso o di compassione verso chicchessia.

Elijah Q era magro e slanciato, ma sommariamente un bell’uomo dagli occhi gentili. Non parlava mai. Se lo faceva, doveva scoprire le zanne che gli fuoriuscivano dalle gengive e tradire la propria natura non umana. In quei denti spiraliformi grondanti bava bluastra c’era tutto l’orrore di questo e di altri mondi, nei glifi incisi sull’avorio le bestemmie di una qualche dimensione infernale. Elijah Q teneva nascosta la sua identità col silenzio, ma talvolta un fatto, una persona, un pensiero suscitavano la sua ilarità e lui non si poteva trattenere. Si metteva a ridere. Quando lo faceva, chi era nei suoi pressi e assisteva allo spettacolo mo-struoso della sua dentatura moriva in preda a due o tre attacchi cardiaci di seguito. Benché non fosse proprio un essere malvagio, bisogna dire che questo faceva ridere Elijah Q ancora più forte e ancora più a lungo. La risata come strumento privilegiato per il genocidio, insomma.

Si incontrano ogni anno. Sono in cinque. Non restano in-sieme molto a lungo, mai. Si guardano, si studiano, e non dicono niente. Finché non girano su loro stessi e tornano nelle direzioni da cui sono venuti. La gente che ha potuto assistere a questo strano incontro l’ha definita

LA CONGIURADEI SILENTI

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Dimitri J era basso e tarchiato, ed era russo. Non parlava mai. Non conosceva nessuna lingua terrestre, né era in grado di im-pararne alcuna. Una forma di afasia particolarmente grave distorceva qualsivoglia concetto egli intendesse esprimere. Tutti ri-devano di lui quand’era piccolo, così Dimitri J si era cucito la bocca per non parlare mai più. L’odio gli si era accumulato dentro, perché lui gli impediva di uscire. Ora, secondo alcuni sedicenti scienziati che hanno studiato il caso di Dimitri J, qui abbiamo per le mani un caso inquietante: alcuni esami condotti di recente sul soggetto in questione (naturalmente con il suo consenso e previa minaccia, da parte dello stesso, di torture inflitte fino alla morte se la sua privacy non fosse stata rispettata), dimostrano che all’interno della sua gola si sta generando una specie di zona d’ombra, una macchia eterea nera come la pece che cresce di giorno in giorno. Uno degli scienziati ha perso molti strumenti del mestiere e infine il proprio dito indice nel tentativo di capire cosa si annidasse dentro Dimitri J. Ora, l’ipotesi più probabile, anche se agghiacciante, è che nella laringe di quest’uomo si stia formando, nessuno sa come né perché, un piccolo buco nero. Impossibile, dite? Dimitri J alza le spalle e continua per la sua strada; l’importante è tenere la bocca cucita.

Pablo K era bello e prestante, ma con un viso idiota e privo di pregi, in netto contrasto con il suo elevatissimo quoziente intellet-tivo. Non parlava mai. Non gli interessava farlo. La parola era fallace, il suo unico scopo era minimizzare o confondere la sempli-ce chiarezza del creato. Per questo egli aveva annullato dentro di sé l’uso del linguaggio comune, sforzandosi di cancellare meglio che poteva quel pezzo di memoria che presiedeva all’uso del verbo. Ci erano voluti anni, ma scavando a fondo era riuscito a lo-botomizzare quella regione di cervello adibita allo scopo; successivamente, aveva sgomberato del tutto quella stessa regione per poterla utilizzare in modo più appropriato. L’aveva riempita di nozioni matematiche, equazioni della vita. Adesso Pablo K poteva prevedere gli eventi sedendosi in un pub e calcolando le variabili necessarie, riducendo il mondo a un ammasso di numeri e di dogmi algebrici. Non sapeva – ahilui – che nella sua gola atrofizzata germogliava una muffa vischiosa e pestilenziale, Che un giorno sarebbe esplosa fuori in un eloquio senza senso o, peggio ancora, sensatissimo. La parola tanto odiata da Pablo K viveva tra i suoi denti, sotto la lingua, aspettando il momento in cui il padrone sarebbe stato debole e lei forte. Il Verbo non aveva fretta.

David Chance FRAGALE

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31Serena ROSSI

Stupravi ogni mia opaca speranza.

Con i tuoi battiti sordi.

Con le mie mani monche.

Il tanfo penetrante del tuo stridore barcollava sul disco rotto dei

miei pensieri stanchi.

Dentro, un grido immondo mi travolse.

Portami via! – implorai.

E mi scaraventò a terra con disperazione.

Resta lì! – vomitasti.

Marcimmo, scarnificati, a pochi passi da un’alba solitaria.

RECRUDESCENZA

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Antropoceneoscene cancrene di cemento

monumentoall’umana idiozia

gelosiadi gerarchie infernali

aziendalilupanari di sentimento

smarrimento del Memento(emolumento all’esistenza)

dipendenzadalla presenza di un dio

che ci ami e che metta radiciche incornici

le nostre debolezzein arazzi di leggerezze umane.

E poi le maceriedopo vent’anni di berlusconismo

il solipsismo dei selfiegli Elfi oscuri

in giungle di network l’omicidio

del tatto olfatto gustoil palinsesto

di canali su bibbie raschiatele prime serate

con nunzi apocalitticidi premi e di talenti

i fallimentidella gestione partitocratica

l’apatica nostalgiadi un mondo già allora malato.

Enrico M. DI PALMA

AN

TRO

PO

CE

NE

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QUELQUES AIMÉS DE de Jean Paul Sartre

LA NAUSÉEEXTRAITS

La Nausée est restée là-bas, dans la lumière jaune. Je suis heureux: ce froid est si pur, si pure cette nuit; ne suis je pas moi-même une vague d’air glacé? N’avoir ni sang, ni lymphe, ni chair. Couler dans ce long canal vers cette pâleur là-bas. N’être que du froid. Voilà des gens. Deux ombres. Qu’avaient-ils besoin de venir ici?

[…] Et qu’est-ce que je gagnerai au change? C’est toujours une ville: celle-ci est fendue par un fleuve, l’autre est bordée par la mer, à cela près elles se ressemblent. On choisit une terre pelée, stérile, et on y roule de grandes pierres creuses. Dans ces pierres, des odeurs sont captives, des odeurs plus lourdes que l’air. Quelquefois on les jette par la fenêtre dans les rues et elles y restent jusqu’à ce que les vents les aient déchirées. Par temps clair, les bruits entrent par un bout de la ville et sortent par l’autre bout, après avoir traversé tous les murs; d’autres fois, entre ces pierres que le soleil cuit, que le gel fend, ils tournent en rond.J’ai peur des villes. Mais il ne faut pas en sortir. Si on s’aventure trop loin, on rencontre le cercle de la Végétation. La Végétation a rampé pendant des kilomètres vers les villes. Elle attend. Quand la ville sera morte, la Végétation l’envahira, elle grimpera sur les pierres, elle les enserrera, les fouillera, les fera éclater de ses longues pinces noires; elle aveuglera les trous et laissera pendre partout des pattes vertes. Il faut rester dans les villes, tant qu’elles sont vivantes, il ne faut pas pénétrer seul sous cette grande chevelure qui est à leurs portes: il faut la laisser onduler et craquer sans témoins. Dans les villes, si l’on sait s’arranger, choisir les heures où les bêtes digèrent ou dorment, dans leurs trous, derrière des amoncelle-ments de détritus organiques, on ne rencontre guère que des minéraux, les moins effrayants des existants.[…] Ces petits bonshommes noirs que je distingue dans la rue Boulibet, dans une heure je serai l’un d’eux. Comme je me sens loin d’eux, du haut de cette colline. Il me semble que j’appartiens à une autre espèce. Ils sortent des bureaux, après leur journée de travail, ils regardent les maisons et les squares d’un air satisfait, ils pensent que c’est leur ville, une « belle cité bourgeoise ». Ils n’ont pas peur, ils se sentent chez eux. Ils n’ont jamais vu que l’eau apprivoisée qui coule des robinets, que la lumière qui jaillit des ampoules quand on appuie sur l’interrupteur, que les arbres métis, bâtards, qu’on soutient avec des fourches. Ils ont la preuve, cent fois par jour, que tout se fait par mécanisme, que le monde obéit à des lois fixes et immuables. Les corps abandonnés dans le vide tombent tous à la même vitesse, le jardin public est fermé tous les jours à seize heures en hiver, à dix-huit heures en été, le plomb fond à 335°, le dernier tramway part de l’Hôtel de Ville à vingt-trois heures cinq. Es sont paisibles, un peu moroses, ils pensent à Demain, c’est à dire, simplement, à un nouvel aujourd’hui; les villes ne disposent que d’une seule journée qui revient toute pareille à chaque matin. A peine la pomponne-t-on un peu, les dimanches.

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ALCUNI DA LA NAUSEAdi Jean Paul Sartre

ESTRATTI

La nausea è rimasta in basso, dentro una luce gialla. Sono felice: questo freddo è così puro, come pura è questa notte; non sono io stesso un’onda d’aria ghiacciata? Non avere né sangue, né linfa, né carne. Scorrere in questo lungo canale verso quel pallore lì in basso. Non essere altro che freddo. Ecco delle persone. Due ombre. Avevano bisogno d’arrivare sin qui?

[…] E che cosa guadagnerei in cambio? È sempre una città: quella è spaccata da un fiume, quell’altra è circondata dal mare, e quelle vicine si rassomigliano. Scegliamo una terra spoglia, sterile, e ci facciamo rotolare delle grandi pietre cave. In queste pietre, sono imprigionati odori, odori più pesanti dell’aria. A volte li gettiamo dalla finestra nelle strade e lì re-stano sino a che il vento non li sbrindella. Col bel tempo, i rumori entrano da un’estremità della città ed escono dall’altra, dopo aver attraversato tutte le mura; d’altronde è tra queste pietre che il sole cuoce, che il gelo fende, girando in tondo.Ho paura delle città. Ma non bisogna uscirne. Se ci avventuriamo troppo lontano, incontriamo il cerchio della Vegeta-zione. La Vegetazione ha strisciato per chilometri verso le città. Sa attendere. Quando la città sarà morta, allora la inva-derà, si inerpicherà sulle pietre, la stringerà, le frugherà dentro, la farà esplodere con le sue lunghe pinze nere; ne renderà ciechi i buchi e lascerà pendere ovunque le sue zampe verdi. Bisogna resistere nelle città sinché sono vive, non bisogna penetrare da soli questa grande criniera che è alle loro porte: bisogna lasciarla gonfiare e crollare senza testimoni. Nelle città, se sappiamo organizzarci, scegliere le ore in cui le bestie digeriscono o dormono nei loro buchi, dietro degli accu-muli di detriti organici, non incontriamo che dei minerali, i meno spaventosi tra gli esseri viventi. […]In un’ ora sarò uno di loro, uno di questi piccoli ometti neri che distinguo in via Boulibet. Come mi sento lontano da loro, dall’alto di questa collina. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie. Escono dagli ufci, dopo la loro giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con aria soddisfatta, pensano che è la loro città, una «bella città borghese». Non hanno paura, si sentono a casa. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che cola dai rubinetti, altro che la luce che balena nelle lampadine quando spingiamo sull’interruttore, mai altro che alberi meticci, bastardi, che vengono sostenuti da stecche. Cento volte al giorno, hanno la prova che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leg-gi fisse ed immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti alla stessa velocità, il giardino pubblico è chiuso tutti i giorni alle 16 in inverno e alle 18 in estate, il piombo fonde a 335°, l’ultimo tram parte dal Municipio alle 23.05. E sono pacifici, un po’ malinconici, pensano al domani, cioè, semplicemente, come ad un nuovo oggi; le città non dispongono che di una sola giornata che ritorna tutta uguale ogni mattino. A malapena si agghindano un po’, nelle domeniche.

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[…] Ça va, ça va...et ça ne finit jamais. C’est pis que le reste parce que je me sens responsable et complice. Par exemple, cette espèce de rumination douloureuse: j’existe, c’est moi qui l’entretiens. Moi. Le corps, ça vit tout seul, une fois que ça a commencé. Mais la pensée, c’est moi qui la continue, qui la déroule. J’existe. Je pense que j’existe. Oh! le long serpentin, ce sentiment d’exister – et je le déroule, tout doucement…Si je pouvais m’empêcher de penser! J’essaie, je réussis: il me semble que ma tête s’emplit de fumée…et voilà que ça recommence: «Fumée…ne pas penser…Je ne veux pas penser…Je pense que je ne veux pas penser. Il ne faut pas que je pense que je ne veux pas penser. Parce que c’est encore une pensée.» On n’en finira donc jamais? Ma pensée c’est moi: voilà pourquoi je ne peux pas m’arrêter. J’existe parce que je pense…et je ne peux pas m’empêcher de penser. En ce moment même – c’est affreux- si j’existe, c’est parce que j’ai horreur d’exister. C’est moi, c’est moi qui me tire du néant auquel j’a-spire: la haine, le dégoût d’exister, ce sont autant de manières de me faire exister, de m’enfoncer dans l’existence. Les pensées naissent par-derrière moi, comme un vertige, je les sens naître derrière ma tête…si je cède, elles vont venir là devant, entre mes yeux –et je cède toujours, la pensée grossit, grossit et la voilà, l’immense, qui me remplit tout entier et renouvelle mon existence.

[…] Cela peut arriver n’importe quand, tout de suite peut-être: les présages sont là. Par exemple, un père de famille en promenade verra venir à lui, à travers la rue, un chiffon rouge comme poussé par le vent. Et quand le chiffon sera tout près de lui, il verra que c’est un quartier de viande pourrie, maculé de poussière, qui se traîne en rampant, en sautillant, un bout de chair torturée qui se roule dans les ruisseaux en projetant par spasmes des jets de sang. Ou bien une mère regardera la joue de son enfant et lui demandera: «Qu’est-ce que tu as là, c’est un bouton?» et elle verra la chair se boufr, un peu, se crevasser, s’entrouvrir et, au fond de la crevasse, un troisième œil, un œil rieur apparaîtra. Ou bien ils sentiront de doux frôlements sur tout leur corps, comme les caresses que les joncs, dans les rivières, font aux nageurs. Et ils sauront que leurs vêtements sont devenus des choses vivantes. Et un autre trouvera qu’il y a quelque chose qui le gratte dans la bouche. Et il s’approchera d’une glace, ouvrira la bouche: et sa langue sera devenue un énorme mille-pattes tout vif, qui tricotera des pattes et lui raclera le palais. Il voudra le cracher, mais le mille-pattes, ce sera une partie de lui-même et il faudra qu’il l’arrache avec ses mains. Et des foules de choses apparaîtront pour lesquelles il faudra trouver des noms nouveaux, l’oeil de pierre, le grand bras tricorne, l’orteil-béquille, l’araignée mâchoire.

5 heures et demie.

Ça ne va pas! ça ne va pas du tout: je l’ai, la saleté, la Nausée. Et cette fois-ci, c’est nouveau: ça m’a pris dans un café. Les cafés étaient jusqu’ici mon seul refuge parce qu’ils sont pleins de monde et bien éclairés: il n’y aura même plus ça; quand je serai traqué dans ma chambre, je ne saurai plus où aller.

[...] Et celui qui se sera endormi dans son bon lit, dans sa douce chambre chaude se réveillera tout nu sur un sol bleuâtre, dans une forêt de verges bruissantes, dressées rouges et blanches vers le ciel comme les cheminées de Jouxtebouville, avec de grosses couilles à demi sorties de terre, velues et bulbeuses, comme des oignons. Et des oiseaux voletteront autour de ces verges et les picoreront de leurs becs et les feront saigner. Du sperme coulera lentement, doucement, de ces blessures, du sperme mêlé de sang, vitreux et tiède avec de petites bulles. Ou alors rien de tout cela n’arrivera, il ne se produira aucun changement appréciable, mais les gens, un matin, en ouvrant leurs persiennes, seront surpris par une espèce de sens affreux, lourdement posé sur les choses et qui aura l’air d’attendre. Rien que cela: mais pour peu que cela dure quelque temps, il y aura des suicides par centaines. Eh bien; oui! Que cela change un peu, pour voir, je ne demande pas mieux.

[...] On en verra d’autres, alors, plongés brusquement dans la solitude. Des hommes tout seuls, entièrement seuls avec d’horribles monstruosités, courront par les rues, passeront lourdement devant moi, les yeux fixes, fuyant leurs maux et les emportant avec soi, la bouche ouverte, avec leur langue-insecte qui battra des ailes. Alors j’éclaterai de rire, même si mon corps est couvert de sales croûtes louches qui s’épanouissent en fleurs de chair, en violettes, en renoncules. Je m’adosserai à un mur et je leur crierai au passage: «Qu’avez-vous fait de votre science? Qu’avez-vous fait de votre humanisme? Où est votre dignité de roseau pensant?» Je n’aurai pas peur — ou du moins pas plus qu’en ce moment. Est-ce que ce ne sera pas toujours de l’existence, des variations sur l’existence? Tous ces yeux qui mangeront lentement un visage, ils seront de trop, sans doute, mais pas plus que les deux premiers. C’est de l’existence que j’ai peur.

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[...] E così via, e così via…non finisce mai. È peggio che il resto perché mi sento responsabile e complice. Per esempio, questa specie di ruminazione dolorosa: io esisto, sono io che la nutro. Io. Il corpo, vive da sé, una volta che ha cominciato. Ma il pensiero, sono io a farlo continuare, a evolverlo. Io esisto. Penso che esisto. Oh! la lunga serpentina, questo sentimento d’esistere – e io lo evolvo, delicatamente... se solo potessi impedirmi di pensare! Provo, riesco: mi sembra che la testa si sia riempita di fumo... ed eccola che ricomincia: «Fumo... Non pensare... Non voglio pensare...Penso che non voglio pensare. Non devo pensare che non voglio pensare. Perché continua ad essere un pensiero.» Non finiremo dunque mai? Ma il pensiero sono io: ecco perché non posso fermarmi. Esisto perché penso... e non posso impedirmi di pensare. In questo stesso momento – è orribile – se esisto è perché ho orrore del mio esistere. Sono io, sono io che mi traggo dal niente al quale aspiro: l’odio, il disgusto di esistere, sono altrettanti modi di farmi esistere, di sprofondare nell’esistenza. I pensieri mi nascono da dietro, come una vertigine, li sento nascere dietro la testa... se cedo, arrivano lì davanti, tra gli occhi – e cedo sempre, il pensiero cresce, cresce ed eccolo, immenso, che mi riempie tutto intero e rinnova la mia esistenza.

[…] Può capitare in ogni momento, anche subito forse: i presagi sono lì. Per esempio, un padre di famiglia che passeggia vedrà ar-rivare, attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando gli sarà vicinissimo, vedrà che è una fettina di carne marcia, sporca di polvere, che si trascina strisciando, annaspando, un pezzetto di carne torturata che si rotola nei rigagnoli proiet-tando spasmodicamente getti di sangue. Oppure una guarderà la guancia del suo bambino gli chiederà: « Cos’hai lì, un brufoletto? » e vedrà la carne gonfiarsi, un po’, screpolarsi, dilatarsi e, nel fondo della spaccatura, un terzo occhio, un occhio ridente apparirà. Oppure sentiranno dei leggeri fruscii su tutto il corpo, come le carezze che i giunchi fanno, nelle riviere, ai nuotatori. E avvertiranno i loro vestiti diventare qualcosa di vivo. E uno si accorgerà che c’è qualcosa che gli gratta in bocca. E s’avvicinerà ad uno specchio, aprirà la bocca: e la lingua gli sarà diventata un enorme mille-piedi vivo, che agiterà le zampette e gli raschierà il palato. Vorrà na-sconderlo, ma il mille-piedi, resterà una parte di se e dovrà strapparselo con le mani. E apparirà una massa di cose per le quali biso-gnerà trovare dei nuovi nomi, l’ochio di pietra, il grande braccio di tricorno, l’alluce a cavalletto, il ragno-mascella.

5 e mezzo.

Non va! Non va per niente: io la sento, la sporcizia, la Nausea. E questa volta, è diverso: m’ha preso al bar. I bar erano sino a questo momento il mio solo rifugio perché sono pieni di gente e ben illuminati: non ci sarà neanche più questo; quando sarò perseguitato in camera, non saprò più dove andare.

[...] E colui che si sarà addormentato nel suo buon letto, nella sua dolce camera calda si risveglierà tutto nudo su un suolo bluastro, in una foresta di peni rumoreggianti, rossi e bianchi, erti verso il cielo come i comignoli di Jouxtebouville, con dei grossi coglioni mezzi interrati, pelosi e gonfi, come cipolle. E uccelli svolazzeranno attorno queste verghe e picchietteranno col loro becco e le fa-ranno sanguinare. Dello sperma colerà lentamente, delicatamente da queste ferite, dello sperma mischiato a sangue, vitreo e tiepido con piccole bolle. Oppure nulla di tutto ciò succederà, non si produrrà alcun cambiamento apprezzabile, ma la gente, un mattino, aprendo le persiane, sarà sorpresa da una specie di sensazione orribile, pesantemente posata sulle cose e che avrà l’aria di attendere. Niente di più: ma dopo un po’ di tempo, ci saranno dei suicidi per alcuni. Eh bè; sì! Io non domando di meglio, che le cose cambino almeno un poco, per vedere.

[...] Ne vedremo altri, allora, bruscamente piombati nella solitudine. Uomini soli, completamente soli con terribili mostruosità, correranno per le strade, passeranno pesantemente davanti a me, con gli occhi fissi, fuggendo i loro mali e portandoseli con sé, con la bocca aperta, con la loro lingua-insetto che batterà le ali. Allora scoppierò a ridere, anche se il mio corpo sarà coperto di sporche croste sinistre che sbocceranno in fiori di carne, in violette, in ranuncoli. M’addosserò ad un muro e gli griderò al passaggio: «Che ne avete fatto della vostra scienza? Che ne avete fatto del vostro umanesimo? Dov’è andata a finire la vostra dignità di giunchi pen-santi?» Non avrò paura – o almeno non più che in questo momento. Non rimane sempre esistenza, una variazione dell’esistenza? Tutti questi occhi che mangeranno lentamente un viso, saranno di troppo, senza dubbio, ma non più che i due primi. È dell’esistenza che ho paura.

Consiglio d’ascolto: http://goo.gl/JAJrKC

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La Nausée n’est pas en moi: je la ressens là-bas sur le mur, sur les bretelles, partout autour de moi. Elle ne fait qu’un avec le café, c’est moi qui suis en elle.

La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in lei.

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ZUCCHERO DI CANNA (Poesie) di Claudio Landi (Cico-rivolta Edizioni, 2014)

Claudio Landi è nato a Gaeta nel 1989, vive a Mondragone in provincia di Ca-serta.

Dopo il diploma al Liceo Classico “Ago-stino Nifo” di Sessa Aurunca, ha conse-guito la laurea in Scienze Politiche pres-so la LUISS “Guido Carli” di Roma e la Laurea Magistrale in Relazioni e Istitu-zioni dell’Asia e dell’Africa presso l’Uni-versità di Napoli “L’Orientale”.

Fondatore del collettivo artistico “Menti Colorate” con il quale ha partecipato alla finale nazionale della biennale MArteli-ve, e Direttore creativo della rivista lette-raria indipendente “Rapsodia”.

“Zucchero di Canna” (Cicorivolta Edi-zioni, 2014) è la sua prima pubblicazio-ne.

ISBN: 9788899021016

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REBUS di Andrea Corona (Mi-lena Edizioni, 2014)

Andrea Corona è nato a Napoli nel 1982. A seguito della laurea in Filosofia, conseguita col massimo dei voti, presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, ha lavorato per la rivista di critica letteraria dell’ateneo “Lab/Or” e per la casa editri-ce Orientexpress, di cui è stato vicepresi-dente e per la quale ha organizzato con-corsi letterari in partnership con l’ateneo. Attualmente lavora per Milena Edizioni, per cui dirige la Collana di narrativa con-temporanea e la Collana di saggistica.È autore di un volume di semiotica, “Gio-chi ringhistici” (Kimerik 2009), vincitore della XXVIII Edizione del Premio In-ternazionale “Nuove Lettere” (categoria “Saggi editi”), e di un saggio sulla neuro-filosofia, “Neuro dunque sono” (Orien-texpress 2013), “Rebus” (Milena Edizioni 2014). È co-autore delle antologie “Scheg-ge di filosofia moderna” e “Parole, imma-gini e situazioni” (DeComporre 2014).È inoltre autore di numerosi saggi brevi di argomento filosofico e letterario ap-parsi su riviste nazionali e internaziona-li come “Alibi”, “DeComporre”, “Filosofi per caso”, “Il guastatore”, “Informaciòn Filosòfica”, “Lab/Or”, “Mosse di seppia”. Scrive infine per il web: articoli di este-tica, recensioni e racconti per le riviste online “Alieni Metropolitani”, “Arteg-giando”, “Clicknews”, “Never Speechless”, “Rapsodia” e “Temperamente”.

ISBN: 9788898377268ACQUISTALO SU: Milena Edizioni Store

LA RETROGUARDIA A PIEDI SCALZI (Poesie)di Francesca Sante (2014)

“Il punto è questo: la poesia - per quanto egoista nella genesi, per quanto narcisista nella presenza, per quanto arte solitaria per eccellenza - è un puro atto di gene-rosità. L’intento, riuscito o meno, è stato quello di creare delle parole autonome, pronte a donarsi libere, capaci di non ap-partenermi più per riversarsi nel cuore di un altro e dimorarvi.” (Postfazione a La Retroguardia).

Francesca Sante nasce a San Giovanni Rotondo nel 1993. Sin dall’infanzia ri-ceve premi e riconoscimenti nell’ambito dei concorsi letterari nazionali. Attual-mente studia al Dipartimento di Scienze della Formazione, Scienze Umane e Co-municazione Interculturale dell’Univer-sità degli Studi di Siena. Redattrice della Rivista Letteraria Indipendente Rapso-dia, si occupa anche dell’insegnamento dell’italiano a stranieri presso l’Associa-zione Culturale del Bangladesh di Arez-zo.

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LETTURECONSIGLIATE

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