IL RAGIONAMENTO DIAGNOSTICO NELLA...

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UNIVERSITÀ CATTOLICA del SACRO CUORE Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” ‐ Roma 

Corso di Laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche Sedi di Roma e Torino 

SEMINARIO INTERSEDE – VII EDIZIONE – Roma 9‐10 maggio 2013 “ASSISTENZA INFERMIERISTICA CLINICA VERSUS CLINICA 

DELL’INFERMIERISTICA” Anno Accademico 2012/2013 

IL RAGIONAMENTO DIAGNOSTICO NELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA: 

REPORT DI UN’INDAGINE 

27/05/2013  1

Obiettivi 

Evidenziare : ‐i significati attribuiti al ragionamento diagnostico e al suo utilizzo 

‐le  credenze  che  la  professione  ha  interiorizzato  sulle  diagnosi infermieristiche e sul loro uso 

‐le  problematiche  che  sono  avvertite  nell’utilizzare  i  sistemi internazionali di classificazione diagnostica 

Confrontare: le  concezioni  degli  infermieri  sull’utilizzo  del  ragionamento diagnostico con quello di altri professionisti sanitari

Gli obiettivi prefissati in seno all’indagine da condurre sono i seguenti: Evidenziare: ‐  i significati attribuiti al ragionamento diagnostico e al suo 

utilizzo; ‐  le credenze che la professione ha interiorizzato sulle diagnosi 

infermieristiche e sul loro uso; ‐  le problematiche che sono avvertite nell’utilizzare i sistemi 

internazionali di classificazione diagnostica. Confrontare: ‐  le concezioni degli infermieri sull’utilizzo del ragionamento 

diagnostico con quello di altri professionisti sanitari.

La  slide  presentata  riepiloga  i  passaggi  del  processo  di realizzazione 

dell’indagine esplorativa. 

I riquadri azzurri azzurri posizionati al centro indicano,   da un punto di 

vista metodologico,  quanto realizzato mentre i riquadri verdi verdi e 

gialli gialli  esplodono i risultati emersi

Primo elemento metodologico: il razionale dello studio condotto. 

Abbiamo fatto riferimento ad alcune riflessioni.

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Prima fra tutte, e sicuramente quella che nella storia della professione  infermieristica è maggiormente presente, corrisponde all’annoso binomio tra assistenza al paziente e attività di cura, elemento che abbiamo scelto di focalizzare come una bilancia. Questo binomio comporta da un lato la risposta ai bisogni di 

assistenza infermieristica (BAI), se parliamo di assistenza al paziente, dall’altro un intervento tecnico, con riferimento all’attività di cura. 

La performance cui tendere nella professione infermieristica auspicherebbe un bilancio in pareggio tra le due componenti, così come è stata rappresentato nel disegno. Il continuo sbilanciamento lungo i due bracci, in effetti, negli anni passati ha lasciato adito a interpretazioni della attività infermieristica, anche per quanto ne 

riguarda l’utilità sociale, assai differenti.

Il ragionamento diagnostico è un’attività intellettuale 

appartenente a tutte le professioni che, partendo da una serie di informazioni, conduce a identificare i 

problemi oggetto di interesse. 

Nel campo dell’infermieristica, questo processo, partendo da problema di salute, progetto di vita, 

abitudini, trattamenti, reazioni e possibili esiti conduce 

alla  formulazione della diagnosi infermieristica, 

coincidente all’identificazione del bisogno di assistenza infermieristica.

Questo diviene il nostro interrogativo saliente. Cos’è il bisogno di assistenza infermieristica? 

Il riferimento teorico per noi è stato il testo di D. Manara, che ci orienta a delineare il bisogno di assistenza  infermieristica 

(diagnosi infermieristica) sulla base di un processo d’interpretazione   come 

“in continuo rimando tra quattro ambiti: situazionalità, alterità e storicità in capo al singolo e le 

evidenze odierne”. L’infermiere è parte integrante di questo processo in quanto, anche attraverso il proprio personale stile professionale, 

garantisce la  trasformazione di semplici dati in informazioni, attribuendo agli stessi significato. 

Se questa è l’impostazione teorica  la percezione nella pratica è che siano presenti alcune criticità nell’uso delle diagnosi 

infermieristiche.

Da questi elementi sono scaturite alcune riflessione critiche sull’uso delle 

Diagnosi infermieristiche secondo diverse coordinate. 

In primo luogo sulla natura delle stesse; in tal senso le considerazioni mosse sono essenzialmente: 

‐  l’appartenenza ad un’altra cultura, trasposto di una traduzione di provenienza anglosassone, con un vissuto assai diverso, quasi in antitesi rispetto a quella italiana; 

‐  la non riconducibilità al profilo professionale, affermando come infermieristiche problematiche che in realtà richiedono l’apporto di altre professioni; 

‐  perplessità nel parlare di problema collaborativo, non solo per quanto concerne la dicitura (che richiederebbe un cambiamento in problema di collaborazione) ma sul senso intrinseco di tale assunto; 

‐  la contraddittorietà nel concepire diagnosi da un lato ciò che è rischio (e dunque unicamente valutabile, non diagnosticabile) e dall’altro semplici constatazioni (partendo dal presupposto che la diagnosi non si vede ma si deduce).

In seconda istanza sull’utilità delle diagnosi infermieristiche. 

Più precisamente ci siamo domandati se le diagnosi servano per selezionare interventi  di cui l’infermiere diventa prescrittore. E se così fosse, dato il  proprio specifico  professionale, si apre il dibattito su cosa dovrebbe prescrivere l’infermiere.

In merito all’uso nella formazione delle diagnosi infermieristiche sono insorte alcune perplessità in merito all’uso che ne fa realmente lo studente. 

Anziché formulare le diagnosi per e sul paziente,  personalizzate e indicative del/i suo/i bisogno/i di  assistenza infermieristica, adatta i dati raccolti alla  diagnosi stessa, dimostrandone un uso strumentale e  meccanicistico. 

Infine, sull’uso operativo, ci si è posti la domanda se le diagnosi vengano effettivamente usate nella realtà operativa. Se così non fosse, perché alimentare per lo studente un sistema schizofrenico che prevede concetti e dinamiche differenti fra formazione teorica e tirocinio clinico?

Da queste riflessioni e da queste domande è nato il nostro sondaggio. 

Si è  optato per  costruire, in coerenza con il razionale,  quattro diversi ambiti di indagine.

•  In primo luogo si è cercato di cogliere  i significati attribuiti al ragionamento  diagnostico  e,  successivamente  (2°  ambito), articolare  ulteriormente  tale  comprensione  in  modo  più specifico sulle  diagnosi infermieristiche e sul loro utilizzo. 

•  Il  terzo  ambito  è  stato  l’identificare    se    sono  presenti problemi  nell’utilizzo  degli  attuali  sistemi  di  classificazione diagnostica (NANDA, Gordon, Carpenito) e, infine,   traslare le affermazioni  degli  infermieri  in  un  ottica  di  confronto  con quanto  sostenuto  dagli  altri  professionisti  sulla  tematica  del ragionamento diagnostico.

Per fare ciò sono stati quindi predisposti due questionari rivolti, Il primo  agli infermieri e il secondo  agli altri professionisti 

sanitari.

Quest’ultimo prevedeva la compilazione di alcuni dati anagrafici (come ad esempio sesso, anno di nascita ecc) e lavorativi (profilo professionale, anni di servizio ecc) che hanno permesso di qualificare il gruppo di partecipanti e di stratificare successivamente le risposte fornite. Le domande vere e proprie riguardavano invece l’importanza del ragionamento diagnostico nella propria professione, nell’esercizio professionale e nella professione infermieristica. Il questionario rivolto agli infermieri, maggiormente articolato, Prevedeva inoltre domande in merito a limiti e potenzialità di ragionamento diagnostico, diagnosi infermieristiche e sistemi di classificazioni e invitava a esprimere la necessità di approfondire o sperimentare le proprie conoscenze in merito.

Sono stati strutturati tre diversi tipi di quesiti. La maggior parte degli item prevedeva scale a differenziale semantico a 7  posizioni (da ‐3 a +3) posizionate tra due posizioni antitetiche. Una seconda tipologia indagava il grado di accordo/disaccordo, articolato su 5 posizioni (da completamente in disaccordo a completamente d’accordo). Infine alcuni quesiti invitavano semplicemente di dire si/no/non so rispetto a delle opzioni pre ‐ formulate.

L’iniziativa ha incontrato il favore del Centro Studi Professioni Sanitarie (CESPI), il quale ha collaborato non solo partecipando alla stesura dei questionari, ma curandone la versione informatizzata e mettendo a disposizione la propria piattaforma on line, ove sono risultati accessibili per tutto il mese di Marzo 2013. 

L’invio di numero due newsletters, a distanza di quindici giorni fra loro, ha sollecitato gli iscritti al sito alla compilazione e diffusione tramite appositi link.

L’analisi è stata realizzata con programma Excel e impostata su due livelli: •  un primo livello, in cui sono state calcolate frequenze assolute e 

relative con tabelle Pivot, media e deviazione standard; •  un secondo livello, in cui sono stati sviluppati test di 

significatività statistica mediante chi quadrato e prendendo come valido un p value pari a 0.05 e con successivo calcolo dell’OR. 

Nei quesiti predisposti secondo differenziale semantico l’analisi è stata condotta accorpando i valori negativi (‐3, ‐2 e ‐1) e positivi (1, 2 e 3) tralasciando il valore centrale (0) inteso come indecisione rispetto alle affermazioni antitetiche. La realizzazione di istogrammi e grafici a barre ha permesso di cogliere le oscillazioni delle risposte fornite e, qualora lo scarto fosse minimo o assente, di predisporre opportune stratificazioni di approfondimento.

Procediamo ora alla descrizione del campione.

Il gruppo di infermieri che ha partecipato al questionario è quasi 

totalmente femminile e afferisce perlopiù all’Italia Settentrionale, sicuramente in virtù della vicinanza anche spaziale al CESPI. 

La maggior parte dei partecipanti ha conseguito un diploma 

vecchio ordinamento e  un titolo di formazione post  base. 

L’87,26% lavora nell’ambito dell’assistenza e il 12,63% nella formazione (intesa come ambito lavorativo esclusivo).

Gli altri professionisti che hanno aderito al sondaggio 

afferiscono essenzialmente dall’area della riabilitazione e dalla professione ostetrica. I dati anagrafico lavorativi sono 

sovrapponibili a quelli presentati dagli infermieri, con una 

eccezione del titolo di studio, 55,70% DU e Laurea vs 44,30% 

diploma vecchio ordinamento.

Il primo ambito indagato concerne i 

significati attribuiti al ragionamento diagnostico.

Le risposte fornite da infermieri e altri professionisti sono risultate essenzialmente sovrapponibili, elemento che ci ha permesso di rappresentarle in un unico grafico a barre. Sommando le risposte emerge che: ‐  oltre il 90% dei partecipanti per entrambe le categorie (infermieri 

e altri professionisti) riconosce l’utilità del ragionamento diagnostico come dimostrazione dell’autonomia professionale; 

‐  oltre il 70% lo riconosce come dimostrazione della specificità culturale italiana; 

‐  l’80% una necessità presente nella pratica quotidiana; ‐  oltre il 90% dei partecipanti per entrambe le categorie (infermieri 

e altri professionisti) riconosce l’utilità del ragionamento diagnostico per la qualità delle decisioni operative;

Circa il 70% dei partecipanti per entrambe le categorie afferma la necessità di condividere il ragionamento diagnostico con l’equipe di lavoro,  segnale  importante di tensione ad una  visione multi professionale nell’assistenza alla persona.

Abbiamo poi provato a traslare la tematica del ragionamento diagnostico nel più concreto esercizio professionale.

I risultati sono stati organizzati secondo tre istogrammi, a seconda che le domande fossero state fornite da: ‐  infermieri; ‐  altri professionisti sulla propria professione; ‐  altri professionisti sulla professione infermieristica. 

Nelle colonne rosse sono state fatte convergere le risposte che sostenevano l’inesistenza o la semplice occasionalità del ragionamento diagnostico nella pratica clinica. Le colonne blu rappresentano coloro che sostengono l’abitualità del ragionamento diagnostico nella pratica clinica. La colonna centrale verde chiaro indica infine coloro che si sono detti indecisi.

Le risposte fornite dagli infermieri assumono maggiormente, rispetto alle domande precedenti, il valore 0, che indica appunto indecisione rispetto al quesito; in linea di massima vi è comunque il riconoscimento di una certa abitualità del ragionamento diagnostico nella pratica clinica. 

Gli altri professionisti, invece, riconoscono in maniera assai più netta di adoperarlo nella pratica clinica. Se si chiede a questi ultimi di esprimersi sull’uso del ragionamento diagnostico da parte degli infermieri, il riconoscimento che ne consegue è superiore rispetto a quello riferito dagli infermieri stessi.

Agli infermieri è stato inoltre chiesto di esprimere se il 

ragionamento diagnostico sia poco o molto sviluppato nel 

contesto formativo, più precisamente nella formazione teorica da un lato e nel tirocinio clinico dall’altro. A un primo sguardo 

potremmo affermare che i partecipanti ritengono buono lo 

sviluppo nella formazione teorica, mentre si dicono indecisi 

rispetto al tirocinio clinico. Data però la scarsa oscillazione che emerge tra le colonne dei 

due istogrammi si è proceduto ad approfondire l’elemento 

emerso.

Le risposte sono state stratificate rispetto all’ambito lavorativo, ovvero a seconda del lavorare nella formazione o nell’assistenza, 

ottenendo una relazione statisticamente significativa. 

Come emerge chiaramente dagli istogrammi proposti, chi lavora in formazione ritiene che il ragionamento diagnostico sia molto 

sviluppato nella formazione teorica (OR = 0,24), mentre chi 

lavora in assistenza ne ha un percepito molto inferiore.

Questo elemento può essere letto secondo due diverse prospettive: •  quella degli infermieri che lavorano in formazione, consci e 

fautori della presenza del ragionamento diagnostico nella formazione degli studenti; 

•  quella di coloro che lavorano nell’assistenza, che non riescono ad averne riscontro nel momento in cui entrano a contatto con gli studenti. 

Come possiamo interpretare queste affermazioni? La professione infermieristica ha da sempre avvertito la dicotomia tra formazione teorica e pratica clinica, dualismo insolito per una professione intellettuale i cui connotati fondanti sono racchiusi tra il patrimonio delle conoscenze scientifiche e la loro applicazione nei contesti operativi e di tirocinio.

Possiamo pensare che alla base ci sia unmancato riconoscimento sociale del ruolo dell’infermiere che lo rende,  a volte succube di professioni maggiormente pregnanti sui bisogni dei cittadini e, più spesso,  attore di atti tecnici piuttosto che intellettuali. 

Gli infermieri percepiscono importante il ragionamento diagnostico per l’affermazione dell’autonomia professionale ma hanno difficoltà a individuare il bisogno di assistenza infermieristica; “e quello che non si capisce bene, si enuncia ancora meno e le parole per dirlo non vengono”.

Passiamo ora ai risultati meritatamente al secondo ambito di indagine: l’utilizzo delle diagnosi infermieristiche e dei sistemi 

di 

classificazione.

In merito all’utilizzo delle diagnosi infermieristiche, 

•  oltre il 70% degli infermieri ritiene che queste costituiscano la dovuta formalizzazione di un processo di comprensione e, 

•  oltre il 60% reputa evidente tale elemento nella pianificazione assistenziale.

Abbiamo chiesto ai partecipanti al questionario se i sistemi di classificazione siano indispensabili nell’utilizzo delle diagnosi infermieristiche o piuttosto costituiscano una gabbia concettuale difficilmente adattabile alla realtà. Come è possibile osservare dall’istogramma, le colonne rosse contengono il maggior 

numero di risposte (55%): ciò significa che i partecipanti ritengono i sistemi di classificazione necessari nell’utilizzo delle diagnosi infermieristiche. Tuttavia la limitata oscillazione di valore tra le colonne delle varie risposte ne ha richiesto approfondimento.

È stata predisposta nuovamente una stratificazione rispetto 

all’ambito lavorativo. Quanto emerge è ben rappresentato dai grafici per cui chi lavora 

in formazione ritiene i sistemi di classificazione indispensabili 

(OR = 2,23) mentre chi lavora in assistenza tende a considerare 

gli stessi elementi come una gabbia concettuale.

L’utilizzo degli attuali sistemi di classificazione, nonostante gli 

attuali limiti, viene riferito perlopiù come indispensabile: nelle colonne rosse, infatti, confluisce nuovamente un maggior 

numero di risposte rispetto a quelle di colore blu. 

Ancora una volta, però, le risposte fornite mostrano uno scarto 

minimo fra loro, in particolare tra quelle a favore (rosse) e quelle che riferiscono indecisione in merito (verde chiaro).

Ancora una volta la variabile ambito lavorativo ha prodotto una 

differenza statisticamente significativa. 

Ancora una volta chi lavora in formazione afferma l’indispensabilità dei sistemi di classificazione, in opposizione a chi lavora in 

assistenza che li ritiene a tratti confondenti (OR = 5,54).

Questo risultato può dar luogo a diverse interpretazioni. Quella decisamente più emblematica è ben rappresentata dalla immagine, piuttosto frequente, dello studente che durante il tirocinio  adopera in maniera letterale la diagnosi infermieristica, cercando di adeguare il paziente a quest’ultima, anziché procedere partendo dalla conoscenza della sua situazione individuale. Il vissuto degli infermieri che lavorano nell’ambito assistenziale, in tal senso, potrebbe rispecchiare una difficoltà nel giungere realmente a una personalizzazione dell’assistenza, data la rigidità dello strumento a disposizione.

Inoltre è opportuno ricordare che le classificazioni diagnostiche in Italia sorgono negli anni ’70 come importazione delle linee di pensiero americane. Le traduzioni letterarie che sono state fatte on sono applicabili nel contesto infermieristico italiano per almeno due motivi: •  le differenze semantiche di interpretazione del lessico utilizzato 

per la traduzione che risulta a volte, di difficile interpretazione; •  la non completa corrispondenza del sistema di regolamentazione 

italiano con quello americano. 

Questi due elementi comportano una difficoltà e una forte contraddizione, poiché i futuri infermieri a cui viene insegnato l’utilizzo delle attuali classificazioni diagnostiche, non trovano oggi in tirocinio, e domani nell’operatività, le condizioni per la loro reale applicabilità. Il professionista infermiere cresce culturalmente riconoscendo la potenzialità della classificazione diagnostica ma parallelamente ne percepisce la difficile concretezza.

Negli ultimi 20 anni la professione è stata spesso educata e formata all’utilizzo delle classificazioni diagnostiche in modo abbastanza acritico; questo fatto che ha determinato una sottovalutazione del sostegno formativo al ragionamento diagnostico come metodo di induzione, deduzione e inferenza. Questo ha prodotto in molti  la sensazione di una “gabbia concettuale” pur  ritenendola importante perché l’unica conosciuta e perché potenzialmente utile come strumento di crescita professionale. Per tutti questi presupposti gli attuali sistemi di classificazione parrebbero non essere in linea con la personalizzazione dell’assistenza, mentre sembrerebbero servire molto bene a un esercizio teorico che ben si addice all’area della didattica, dove le simulazioni non prevedono la presenza della persona assistita.

Sulla base delle riflessioni critiche proposte all’inizio della 

presentazione sono state formulate alcune ipotesi su quelli che potrebbero essere i limiti delle attuali formulazioni 

diagnostiche. Tali ipotesi sono poi state sottoposte al vaglio dei 

partecipanti al questionario.

Una prima ipotesi era che le formulazioni diagnostiche fossero incompatibili con il sistema di regolamentazione professionale. Il 37,54% degli infermieri che hanno partecipato al questionario hanno riferito di non riscontrare tale incompatibilità . Il dato tuttavia più interessante è come la maggior parte dei partecipanti (45,85%) abbia affermato di non sapersi esprimere in merito.

Doverosa a questo punto una stratificazione del dato, che ha 

fatto emergere una relazione statisticamente significativa con il possedere o meno un titolo di formazione post base. In altre 

parole, chi ha conseguito un titolo di formazione post base ha 

una maggiore difficoltà a esprimersi sul sistema di 

regolamentazione professionale (OR = 0,38).

È stato inoltre chiesto di valutare se i seguenti elementi costituiscano un limite delle attuali formulazioni diagnostiche: ‐  Sovrapponibilità con constatazioni ‐  Sovrapponibilità con segni e sintomi ‐  Sovrapponibilità con valutazioni di rischio ‐  Confusività nell’assumere la dicitura problema collaborativo. Le colonne più alte sono quelle blu, elemento che indica come nessuno di questi elementi sia reputato un limite da parte dei partecipanti. Occorre però spostare l’attenzione anche alle colonne verdi chiaro: sempre almeno il 30% dei partecipanti abbia risposto “non so” ai quesiti presentati, elemento degno di approfondimento.

Ancora una volta lavorare in assistenza piuttosto che in 

formazione ha comportato una differenza. Più precisamente, 

stratificando le risposte, è emerso che coloro che affermano di non sapere afferiscono in percentuale maggiore alla formazione. 

Il grafico a barre mostra chiaramente che le colonne violetto dei 

“non so” sono di lunghezza maggiore per gli infermieri della 

formazione.

Gli infermieri che hanno un contatto continuo e duraturo con i pazienti sembrano sviluppare un pensiero riflessivo sulla professione meno vincolato ai “dogmi” insiti nella costante immersione nei “luoghi di cultura”. Il contatto con le emozioni che il paziente condivide con l’infermiere potrebbe creare fra i due una sintonia che nell’ambito formativo viene a mancare. Le capacità che sviluppa l’infermiere clinico potrebbero essere differenti da quelle dell’infermiere dedito alla formazione, possibile tassello di discrepanza tra formazione e pratica clinica.

Come già accennato in precedenza, l’utilizzo del ragionamento diagnostico non costituisce per il professionista un traguardo 

fine a se stesso, bensì un punto di partenza per ricerca e conseguimento continui del miglioramento. Le potenzialità derivanti dallo sviluppo del ragionamento diagnostico sono ampiamente riconosciute dagli infermieri. Oltre l’80% di questi afferma che tale elemento possa: •  sostenere una formazione mirata; •  selezionare interventi di cui l’infermiere diventa prescrittore; •  adottare un linguaggio appropriato superando le difficoltà 

interpretative connesse alle traduzioni internazionali; •  calcolare le dotazioni organiche sulla base di case mix 

infermieristici; •  sostenere ricerche e studi mirati; •  giustificare/pesare i costi assistenziale infermieristici.

Infine, è stato chiesto agli infermieri se percepissero la necessità di incrementare le proprie conoscenze sul ragionamento 

diagnostico, piuttosto che aver la possibilità di sperimentarsi in 

merito.

I risultati sono ampiamente a favore di una formazione e sperimentazione mirata del ragionamento diagnostico senza 

differenze di risposta in base ad ambito lavorativo, area 

geografica titolo di studio o formazione post base.

Concludiamo allora riassumendo le riflessioni emerse.

91 

Riflessioni 

Dualismo tra 

formazione teo

rica e 

pratica clin

ica in 

merito al 

ragionamento 

diagnostico

 

Spaccatura tra am

bito 

formativo e di 

assistenza in merito al 

ragionamento 

diagnostico 

Rigidità formativa nell’insegnamento all’uso delle diagnosi 

Bisogno formativo e di sperimentazione diffuso 

Difficoltà a

 

comprendere

 le 

connotazi

oni del 

ragionamento

 

diagnostic

o nella 

pratica 

“Gabbia con

cettuale” 

Personalizzazione dell’assistenza 

Bisogno di as

sistenza 

infermieristic

a

Dal sondaggio è emerso un certo dualismo tra formazione teorica e pratica clinica in merito al ragionamento diagnostico. Ne consegue una difficoltà nel comprendere le connotazioni di tale elemento nella concretezza del esercizio professionale al 

letto del paziente e nel comprendere la vera natura del bisogno di assistenza infermieristica. Un secondo elemento è una vera e 

propria spaccatura tra ambito formativo e assistenza, in concezioni e opinioni, che fa di fatto tradurre le formulazioni diagnostiche odierne come gabbie concettuali che male si 

accompagnano alla necessità quanto mai attuale di personalizzare l’assistenza.

Coloro che lavorano in formazione hanno mostrato un approccio rigido all’argomento, poco avvezzo alla riflessione sul ragionamento diagnostico e maggiormente legato a idee preconcette. La tensione generale è verso un apprendimento nuovo e più solido del ragionamento diagnostico, sia nella formazione che nella pratica, che per rivelarsi duraturo 

dovrebbe essere meno legato agli odierni sistemi di classificazione e più ancorato allo specifico professionale infermieristico.

Questo risultato può dar luogo a diverse interpretazioni. Quella decisamente più emblematica è ben rappresentata dall’immagine, piuttosto frequente, dello studente che durante il tirocinio adopera in maniera letterale la diagnosi infermieristica, cercando adeguare il paziente a quest’ultima, anziché procedere partendo dalla conoscenza della sua situazione individuale. Il vissuto degli infermieri che lavorano nell’ambito assistenziale, in 

tal senso, potrebbe rispecchiare una difficoltà nel giungere realmente a una personalizzazione dell’assistenza, data la rigidità dello strumento a disposizione.

Inoltre è opportuno ricordare che le classificazioni diagnostiche in Italia sorgono negli anni ’70 come importazione delle linee di pensiero americane. Le traduzioni letterarie che sono state fatte non sono applicabili nel contesto infermieristico italiano per 

almeno due motivi: •  le differenze semantiche di interpretazione del lessico utilizzato 

per la traduzione che risulta a volte, di difficile interpretazione; •  la non completa corrispondenza del sistema di 

regolamentazione italiano con quello americano.

Questi due elementi comportano una difficoltà e una forte contraddizione, poiché i futuri infermieri a cui viene insegnato l’utilizzo delle attuali classificazioni diagnostiche, non trovano oggi in tirocinio, e domani nell’operatività, le condizioni per la loro reale applicabilità. Il professionista infermiere cresce culturalmente riconoscendo la potenzialità della classificazione diagnostica ma parallelamente ne percepisce la difficile concretezza.

Negli ultimi 20 anni la professione è stata spesso educata e formata all’utilizzo delle classificazioni diagnostiche in modo abbastanza acritico; questo fatto che ha determinato una sottovalutazione del sostegno formativo al ragionamento 

diagnostico come metodo di induzione, deduzione e inferenza. Questo ha prodotto in molti  la sensazione di una “gabbia concettuale” pur  ritenendola importante perché l’unica 

conosciuta e perché potenzialmente utile come strumento di crescita professionale. Per tutti questi presupposti gli attuali sistemi di classificazione parrebbero non essere in linea con la 

personalizzazione dell’assistenza, mentre sembrerebbero servire molto bene a un esercizio teorico che ben si addice all’area della didattica, dove le simulazioni non prevedono la presenza della 

persona assistita.