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Francesco Lamendola
TRAVAGLIO INTERIORE E VISIONE SALVIFICA
NELLE CONFESSIONI DI S. AGOSTINO
Le «Confessioni» di S. Agostino sono una delle opere di più sconcertante modernità
che l'antichità ci abbia lasciato."
"Esse sono innanzitutto l'analisi del travaglio interiore che dopo una giovinezza
dissipata è sfociata nella conversione; il titolo stesso - «Confessiones», cioè
confessione dei peccati e lode a Dio- sottolinea il carattere ambivalente di questa
autobiografia: l'autore, nel ripercorrere il suo passato, si rivolge direttamente a Dio
per glorificarne la misericordia, che ha avuto ragione della sua protervia nel
peccare.
"Agostino stese le «Confessioni»nei primi anni del suo episcopato, tra il 397 e il 398.
Cioè molto dopo la conversione, che era avvenuta nel 386. Lo spunto gli venne dalla
necessità di rispondere a quanti lo criticavano per il suo passato manicheo, ma la
complessità dell'opera è tale che solo un motivo per più profondo può averla
ispirata. Egli stava entrando nell'età di mezzo re da un anno era assorbito dai nuovi
compiti richiesti dalla propria assunzione alla cattedra vescovile di Ippona.
L'ottimismo iniziale della sua conversione era scomparso di fronte alla difficoltà dei
compiti imposti dalla milizia cristiana. L'ideale ascetico di una vita da trascorrere
nella meditazione era stato accantonato e Agostino era diventato, come egli stesso
dichiara, un uomo «profondamente impaurito dal peso dei propri peccati». Le
diverse prospettive che gli si affacciavano, nel quadro di questo intenso travaglio
interiore, richiedevano perentoriamente un riesame di quella parte del proprio
passato che era culminata nella conversione. Ecco quindi il tono di ansioso
ripiegamento sui propri anni trascorsi e sulle possenti emozioni di allora, che le
necessità del presente hanno allontanato ma non distrutto e che ancora traspaiono al
di là dei nuovi sentimenti scaturiti dalla professione vescovile."
B. Gentili- E. Pasoli- M. Simonetti
«Storia della letteratura latina», Bari, 1979, p. 456
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Dei tredici capitoli che formano le Confessiones, composte verso il 397-98, i primi ove
costituiscono l'autobiografia vera e propria, culminante nella conversione e, qualche tempo dopo,
nella morte dell'amatissima madre Monica, che venne sepolta ad Ostia. Gli ultimi quattro sono, in
effetti, libri di filosofia, nei quali S. Agostino tocca alcuni dei temi più ardui del pensiero umano,
dal mistero della memoria, al mistero del tempo, alla creazione dal nulla, alla bontà divina. Si tratta
di un'opera fortemente strutturata ma, al tempo stesso, originalissima: si può dire che Agostino
abbia creato un nuovo genere letterario, che non esisteva nelle culture antiche (né in quella greca né
nella latina); e in quel genere il suo libro è rimasto insuperato, perché né il Secretum di Petrarca, né
le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, né altre opere moderne dello stesso genere l'hanno
uguagliata in potenza e vigore drammatico. Inoltre, così come nessun autore prima di Agostino
aveva scandagliato il mistero della propria anima con una tale profondità e sistematicità, con una
tale assoluto sforzo di sincerità e di verità, così nessuno è stato capace di fondere armoniosamente il
racconto autobiografico, e sia pure prevalentemente di una biografia interiore, con pagine di
altissima meditazione filosofica e spirituale.
N: B: Ci serviamo, per la citazione dei passi di S. Agostino, della traduzione di carlo Vitali nell'ormai classica edizione
delle Confessioni a cura di una fra i massimi conoscitori di questo Autore e dell'età sua, Christine Mohrmann (Milano,
Rizzoli, 1958, 1975).
LIBRO PRIMO
La prima parte del primo libro (capitoli I-V) è una parte a sé: si apre con una lode ed invocazione a
Dio, fra le più solenni e commoventi che mai siano state scritte, e prosegue con una riflessione sul
mistero del rapporto fra l'anima e Dio. In effetti, per Agostino Dio è nell'anima e l'anima in Dio; ma
Dio è anche presente in tutto l'Universo, che pure non lo può contenere, poiché Egli è infinito:
sgomenta solo il fatto di parlarne, eppure, guai a quelli che non parlano di Lui! L'uomo non è altro
che un continuo anelito verso il suo Creatore: anelito che sarebbe vano, se non venisse soccorso
dalla Sua infinita misericordia.
"Grande sei, o Signore, degno di somma lode; grande è la tua potenza, senza limiti la tua sapienza.
L'uomo vuol Cantare le tue lodi, l'uomo, particella della tua creazione, che porta seco il peso della
sua natura mortale, del suo peccato, la certezza che Tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, particella
della tua creazione, vuol cantare le tue lodi. Tu lo sproni, affinché gusti la gioia del lodarti, poiché
ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te. Dammi grazia, o
Signore, di conoscere appieno se prima ti si debba invocare o lodare; se la conoscenza di Te debba
precedere l'invocazione.
"Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per
un'altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma «Come si invocherà colui in cui non si
crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?» «Loderanno il Signore
coloro che lo cercano». Cercandolo, infatti, lo troveranno, e, trovatolo, lo loderanno.
"Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto
conoscere. Te chiama la fede che mi desti, la fede che mi inspirasti per il tuo Figliuolo incarnato,
per il ministero del tuo banditore."(…)
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"Forse che il non amarti è piccola calamità? Ahimé! Per la tua misericordia, mio Signore e mio
Dio, dimmi che cosa sei per me. Dillo all'anima mia: «Io sono la tua salvezza». Così, così dillo, che
io intenda. L'orecchio del mio cuore è qui, davanti a Te: aprilo e ripeti alla mia anima: «Io sono la
tua salvezza». Verrò correndo dietro tal voce e ti raggiungerò. Non nascondermela la tua faccia!
Morirò pur dio vederla, affinché io non muoia! Angusta casa è l'anima mia perché ti possa
accogliere: e Tu amplificala. Cade in rovina, e Tu riparala: lo confesso, lo so. Ma chi altri
potrebbe mondarla? A chi altri se non a Te alzerò la mia voce: «Purificami, Signore, dai miei
peccati occulti, e tieni lontano il tuo servo dai peccati altrui»."
Inizia il racconto della vita di s. Agostino, con uno sforzo supremo per strappare il ricordo dei
primissimi mesi di vita, quando le tenebre dell'inconsapevolezza offuscano le facoltà e la memoria
retrospettiva. Ma subito, fin da questa prima pagina autobiografica, vi è una netta prevalenza della
riflessione sul mistero di Dio, creatore sapiente di ogni essere vivente. Poi una domanda
inquietante: prima di nasce fui qualcosa, fui qualcuno? Domanda troppo ardua, e destinata a
rimanere senza risposta. Non resta che rendere gloria a Dio, che nella sua infinita bontà contiene
ogni cosa e la conduce all'esistenza (cap. VI). Questo andamento meditativo, che intreccia e
sovrappone continuamente i due piani del ricordo personale e della riflessione filosofica e teologica,
sarà caratteristico dell'intera opera.
Fin dalla più tenera infanzia, Agostino non trova nel bambino - e quindi in sé stesso bambino - che
miserie, capricci e tendenza alla prevaricazione: lacrime per ottenere qualcosa, volontà di colpire
con violenza chiunque gli si opponga. E tuttavia il tono prevalente non è di condanna o disprezzo
per le debolezze della natura umana, ma di confidente e stupita ammirazione per la generosità del
soccorso divino, della divina sapienza che volge al bene ogni cosa. Infine Agostino rinuncia a
tentare di ricostruire gli anni della primissima infanzia: che rapporto vi è tra essi e il presente, se il
ricordo di essi è totalmente caduto dalla memoria? Uno psicanalista freudiano non sarebbe
certamente d'accordo con una tale affermazione; e, poiché la cultura contemporanea è largamente
permeata di freudismo, ecco che le Confessioni entrano subito in urto con un aspetto importante
della odierna concezione della vita. Eppure avevamo parlato di assoluta modernità di quest'opera di
S. Agostino. In realtà, non c'è contraddizione: un'opera non è "moderna" perché asseconda tutte le
tendenze (e magari le mode) della cultura dei nostri giorni, ma perché rispecchia le inquietudini e il
senso di sdoppiamento dell'io che caratterizzano la modernità: quel duplice io che vuole, allo stesso
tempo, cose contrastanti, e che si sente lacerato e infelice perché ha smarrito il senso della propria
unità originaria.
Alla prima infanzia segue la puerizia, caratterizzata dalla pronuncia delle prime parole (cap. VIII),
dal gioco e dai primi castighi corporali, inflitti dal maestro - all'uso romano - perché il piccolo
Agostino amava la palla più dei libri (cap. IX). Qui l'Autore svolge una breve riflessione sulle
incongruenze dell'educazione, incentrata sulla retorica che insegna l'arte del parlare ornato, ma
somministra agli alunni vuote storielle mitologiche (cap. X). Guarito da una grave malattia,
Agostino viene preparato a ricevere il battesimo che, però, viene differito. Qui ci vengono presentati
i genitori: la madre, credente e tutta rivolta all'educazione cristiana del bambino; e il padre che, pur
essendo ancora pagano, lascia fare: figura secondaria, mentre a giganteggiare è, sin da ora, Monica,
presentata come esempio perfetto di madre cristiana (cap. XI). Crescendo, l'amore di Agostino per
lo studio non aumenta: gli adulti ve lo costringono, e fanno bene; ma il suo cuore è ribelle (cap.
XII). È pur vero che i metodi educativi dell'epoca, e specialmente l'assiduo insegnamento dei poemi
classici, allontanano da ciò che importa nella vita, che è essenzialmente scoprire e amare Dio: ma
proprio a quelle cose il piccolo Agostino si appassiona. S'incanta e sogna davanti alle peregrinazioni
di Enea nel Mediterraneo, leggendo l'Eneide di Virgilio; mentre detesta con tutte le sue forze la
matematica (cap. XIII).
Segue una acuta osservazioni pedagogica. Da piccolo, Agostino adorava la lettura di Virgilio tanto
quanto aborriva quella di Omero; probabilmente, egli osserva, per i bambini sarà la stessa cosa,
quando vengono costretti a studiare il latino, come lui lo era a studiare il greco (cap. XIV).
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"La difficoltà, proprio la difficoltà di imparare a fondo una lingua straniera aspergeva per così
dire di fiele la greca soavità di quei racconti fantastici. Non intendevo nessuna di quelle parole e
mi si stava addosso senza pietà, con gravi minacce e castighi, affinché le imparassi. Anche del
latino, da bambino, non ne conoscevo punte, eppure le appresi con la sola attenzione, senza paura
delle battiture, anzi fra le carezze delle nutrici, gli scherzi del sorriso, l'allegria dei compagni di
giuoco. Le imparai senza essere gravato dall'incubo di castighi, stimolato invece dal mio intimo ad
esprimere i miei concetti: il che non avrei potuto fare se non avessi preso familiarità con alquante
parole, non dai maestri, ma da tutti quelli che parlavano; e nelle loro orecchie alla mia volta io
partorivo quello che era in me.
"Di qui appare chiaro che ha maggiore efficacia, nell'apprendere, una curiosità volontaria che
non una costruzione intimidatoria…"
Dopo aver rivolto un'ardente preghiera a Dio, perché quanto di buono ha appreso nell'infanzia sia
ora volto al suo servizio (cap. XV), Agostino si scaglia di nuovo contro i metodi d'insegnamento
basati sulle opere classiche: da essi il fanciullo impara a vedere nelle divinità (Giove, Giunone, ecc.)
continui esempi di passioni sfrenate e carnali, ciò che lo allontana irrimediabilmente da una retta
comprensione del divino (cap. XVI). Egli non se la prende, si badi,, contro il contenuto di verità di
quelle storie: già Cicerone, più di quattro secoli prima, le aveva messe in ridicolo, affermando che
solo le vecchiette superstiziose vi prestavano ancora fede; ma contro il pernicioso influsso che
quegli esempi compiaciuti di libidine e di violenza non potevano non esercitare nell'ambito, di per
sé tanto delicato (perché non sorretto dalla capacità di giudizio critico) della vita morale del
fanciullo. Vano è anche, sul piano strettamente pedagogico, un insegnamento basato quasi
interamente su vane esercitazioni letterarie, dove si acquista la padronanza delle parole ma non
delle cose (cap. XXVII); e inutile è lo sfoggio della retorica che, per di più, allontana dalla
contemplazione della verità, ossia del divino (cap. XVIII).
Contro la tesi di una innata innocenza infantile, poi, l'Autore evidenzia in modo addirittura
impietoso le colpe e i difetti propri dell'infanzia. Rievocando la sua infanzia, difatti, egli trova che
pur di vincere nei giochi, non esitava a ricorrere all'inganno; e, se veniva scoperto, passava alle
mani: proprio lui che era così sollecito nel denunciare il comportamento scorretto degli altri.
Inganno, falsità, violenza, egoismo: ecco emergere tutti i difetti che, nel bambino, si notano di meno
che nell'adulto solo perché, pensiamo noi, si esercitano in una sfera meno "seria" e perché
generalmente vengono scusati dal non raggiunto possesso della ragione (cap. XIX).
"Codesta dunque l'innocenza infantile? No, Signore, no, mio Dio, essa non esiste. Perché queste
frodi che si cominciano con pedagoghi e maestri, o per noci, palline e passerotti, coll'andar degli
anni sono proprio le stesse che si tendono ai governatori, ai re, e che hanno per oggetto oro,
poderi, schiavi: così come la sferza cede il posto a castighi più gravi"
Da ultimo Agostino leva un rendimento di grazie a Dio, Signore e Creatore dell'universo, che attira
tutti gli esseri verso la verità che in Lui risiede.
LIBRO SECONDO
Amaro è il ricordo dell'adolescenza, anche se mitigato e addolcito dalla consapevolezza della
infinita grazia divina (cap. I).
"Voglio ricordare le turpitudini del mio passato e la corruzione carnale della mia vita; non già che
le ami, ma per amar Te, o mio Dio. Per amor del tuo amore mi accingo a rievocare il mio cammino
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nelle vie del peccato, ricordo pieno di amarezza, affinché Tu mi colmi della tua dolcezza, dolcezza
non fallace, dolcezza felice e sicura…"
La forza degli istinti ribolle nell'animo di Agostino giovinetto, la sua natura di africano sensuale ed
eccitabile lo sospinge versi i piaceri materiali della vita. Egli ha ben sintetizzato l'elemento
fondamentale della sua indole con la sua famosa frase: «Una sola cosa mi sorrideva: amare ed
essere amato». All'età di sedici anni, Agostino cade nella lussuria, nell'indifferenza degli adulti,
preoccupati solo di fare di lui un oratore elegante e di successo (cap. II).
In quell'anno lascia Madaura, dove aveva iniziato gli studi e ritorna dai suoi nella natia Tagaste, per
prepararsi a un soggiorno di studio a Cartagine, "suggerito più dall'ambizione che non dalle
possibilità economiche di mio padre, modesto cittadino di Tagaste". Il periodo trascorso in famiglia
nell'ozio temporaneo rinfocola le inquietudini e le disordinate passioni del ragazzo; il padre se ne
accorge, ma invece di impensierirsene, se ne compiace, "quasi già rallegrandosi dei nipoti futuri".
Nemmeno la madre, cristiana ancora piuttosto tiepida, mostra di preoccuparsene, ad esempio
suggerendogli di avviarsi al matrimonio (cap. III). Segue il racconto del famoso furto notturno delle
pere. Può sembrare - e a molti è sembrato - eccessivo il tono di esecrazione con cui Agostino
rievoca quell'episodio della sua adolescenza; ma abbiamo già visto che, per lui, i vizi e i difetti dei
piccoli non sono che l'anticamera di quelli, ben più terribili (e tuttavia idealmente analoghi) che
caratterizzano il mondo degli adulti. Inoltre, Agostino indugia con particolare contrizione su quel
furto di pere, in apparenza di poco conto, perché ne vuole sottolineare il carattere di assoluta
gratuità, in quanto non motivato nemmeno dalla tentazione della gola: si trattò, dunque - egli
conclude - di un atto malvagio per eccellenza, in quanto originato unicamente dal piacere di
infrangere la legge morale (cap. IV).
"Dopo aver protratto il gioco, secondo la nostra pessima usanza, fino a tarda ora nelle piazze, nel
cuor della notte la trista combriccola di noi ragazzacci si recò a scuotere quell'albero e a
depredarlo: e ne portammo via un gran carico, non per mangiarne a sazietà, se pur ne
assaggiammo, ma per darne in pasto persino ai maiali: nostro unico piacere fu di fare ciò che non
era lecito, perché ciò ci piaceva.
"Eccolo, il mio cuore, o Dio, ecco il mio cuore, ecco quel mio cuore che ti ha mosso a pietà dal
fondo dell'abisso. Ti dica ora questo mio cuore che cosa lo movesse ad essere cattivo senza alcun
vantaggio, a non avere una ragione di malizia se non la malizia stessa. Torbida malizia: ed io la
amai; amai la mia rovina, amai la mia caduta; non ciò per cui cadevo, ma proprio la caduta; io,
anima malvagia che mi sradicavo dal tuo fermo sostegno per la mia rovina, non correndo dietro ad
alcunché con disonestà, ma alla disonestà per se stessa."
L'episodio delle pere serve ad Agostino anche per sviluppare una riflessione di tipo quasi socratico,
e cioè che, nel fare il male - ossia nel peccato - l'anima cerca un bene, ma lo cerca sregolatamente e
nelle cose di infimo livello, ossia quelle materiali, distogliendosi dai veri beni e in particolare da
Dio, il Bene supremo (cap. V). Nel capitolo seguente Agostino sviluppa e approfondisce il concetto:
le passioni degli uomini li portano verso i beni di grado inferiore, ma quegli stessi beni, elevati alla
massima perfezione, sono tutti presenti in Dio: è in Lui, e soltanto in lui, che l'anima può infine
trovare quello che oscuramente cerca fra le ombre dei vaneggiamenti terreni, spegnendo quella sete
che intimamente lo divora, e che invano cerca di spegnere nella ricerca affannosa e degradante dei
piaceri materiali (cap. VI).
"Le carezze dei voluttuosi vogliono amore: ma nulla è più affettuoso del tuo amore, nulla si ama
più salutarmente della tua verità, bella e luminosa quant'altre mai.
"La curiosità sprona in apparenza all'acquisto della scienza: Tu sai tutto, in sommo grado. Persino
la ignoranza e la stoltezza si velano con il nome di semplicità e di innocenza, perché nulla si può
trovare più semplice di Te, e nulla più innocente di Te, come che al malvagio è di danno il suo
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stesso malfare. L'ignavia vorrebbe tendere alla tranquillità: e quale sicurezza di tranquillità fuor
che nel Signore? Il lusso vuole esser chiamato sufficienza e abbondanza; Tu sei la pienezza e la
sorgente inesauribile di soavità che non conoscono corruzione.
"La prodigalità prende le apparenze della liberalità; ma Tu possiedi tutto. La gelosia briga per
eccellere: chi più eccelso di Te? L'ira cerca la vendetta: e chi esercita la vendetta più giustamente
di Te? Il timore si inquieta per ogni avvenimento insolito e improvviso che incombe sulle cose
amate, si preoccupa della sicurezza: che cosa è insolita, improvvisa per Te? E chi può dividere da
Te ciò che ami? Dove, se non in Te, una salda sicurezza? La cupidigia si rattrista e si consuma per
la perdita delle cose che le davano gioia, perché vorrebbe che nulla potesse essere tolto a sé, come
a Te.
"In tale modo va fornicando l'anima quando, allontanandosi da Te, cerca fuori di Te obietti che
trova puri e limpidi solo ritornando a Te. Coloro che si allontanano da Te, che si ergono contro Te
tutti ti imitano disordinatamente. Però anche con codesta forma di imitazione vengono a
riconoscere che sei il creatore di tutta la natura e che perciò non esiste luogo in cui l'uomo possa
considerarsi in tutto separato da Te."
La grazia divina, riversandosi nell'anima, ha tuttavia il potere di far ravvedere gli uomini,
riconducendoli all'Amore che, solo, può appagare ogni loro desiderio (cap. VII). Poi, tornando a
riflettere sulle motivazioni di quel lontano furto di pere, Agostino rivede la sua precedente
affermazioni: non l'amore del male in sé lo spinse ad agire, ma il piacere di condividere quell'atto
con i suoi compagni: da solo, infatti, non l'avrebbe commesso (cap. VIII). Esiste, dunque, una
facoltà dell'anima che si definisce come perversa solidarietà nel male: è l'agire in gruppo (in branco,
come si usa dire oggi nel gergo giornalistico) che fa scattare la molla di molte azioni malvagie e
apparentemente gratuite. Nel gruppo, infatti, viene abolito il principale freno che ci trattiene, di
norma, dal commettere cattive azioni: il sentimento della vergogna (cap. IX).
Il secondo libro delle Confessioni, il più breve di tutti, si conclude quindi con una citazione dal
Vangelo di Matteo (XXV, 21): «entra nel gaudio del tuo Signore», perché solo in Lui si trova
quella gioia piena e pura che invano inseguiamo nei beni terreni.
LIBRO TERZO
Trasferitosi a Cartagine, il giovane Agostino dà sfogo senza ritegno alla sua morbosa ricerca
dell'amore, non rendendosi conto di essere affamato, in realtà, di un cibo completamente diverso, un
cibo spirituale( cap. I).
"Perciò l'anima mia era inferma, piagata, si gettava al di fuori, miseramente avida di sfregarsi al
contatto delle creature sensibili. Ma anch0'esse non le avrei amate se non avessero avuto anima.
"La dolcezza di amare e di essere amato era per me molto maggiore se andava unita al possesso
del corpo dell'amante. Inquinavo così la vena dell'amicizia con le lordure della concupiscenza, ne
offuscavo il candore con l'alito diabolico della concupiscenza, e, ciò non ostante, sozzo e disonesto
qual ero,, nella mia immensa vanità volevo apparire fine e di belle maniere.
"Ed andai a precipizio verso quell'amore di cui bramavo la catena."
Anche un'altra passione afferra il giovane provinciale inurbato, quella per gli spettacoli e
specialmente per il teatro (cap. II). A Cartagine prosegue brillantemente i suoi studi di retorica,
mosso dall'ambizione di diventare un grande avvocato; intanto, però, è attratto e anche un po'
spaventato dalla sfrenata turbolenza degli altri studenti, ai quali si unisce più per non sfigurare che
per intima convinzione (cap. III). Si tratta di una turbolenza così sfrenata che qualche anno,
divenuto insegnante, lo stesso Agostino deciderà di lasciare Cartagine per Roma, alla ricerca di un
ambiente più calmo e ordinato. Intanto legge l'Ortensio, opera di Cicerone andata disgraziatamente
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perduta, nella quale il grande oratore romano difendeva lo studio della filosofia contro l'avvocato
suo grande avversario, Ortensio appunto. Quel libro opera uno straordinario influsso sull'animo del
giovane studente di Tagaste, influsso che viene descritto con poche, ma efficaci e commosse parole
(cap. IV).
"Ebbene, quel libro cambiò la mia mentalità, cambiò anche il tono delle mie preghiere a Te,
Signore, cambiò radicalmente le mie aspirazioni e i miei desideri. Di colpo ogni sorta di vane
speranze rinvilì; con incredibile ardore di cuore presi a desiderare la sapienza imperitura: e già
incominciavo ad alzarmi per far ritorno a Te.(…)
"Come ardevo, mio Dio, come ardevo di spiccare il mio volo dalle cose terrene a Te! Non sapevo
quale fosse la tua azione su me: poiché «in Te risiede la sapienza».
Per contro, la lettura della Bibbia non produce dapprima, nel giovane africano, un'impressione
altrettanto favorevole: la durezza dello stile, a paragone dell'eleganza ciceroniana, lo allontana (cap.
V). A quell'epoca, ardente di una religiosità ancora confusa, Agostino si avvicina alla religione dei
manichei, di cui subisce profondamente l'influenza (da cui, per certi aspetti, non li libererà forse mai
del tutto, anche se condurrà poi una durissima polemica contro di essi). Tuttavia, per adesso, non ci
dà molti particolari di quella fase della sua vita; si diffonde invece a compiangere lo smarrimento
della sua anima, paragonandola al Figliuol prodigo della parabola evangelica (cap. VI). Poi ricorda
che, se per i manichei il Male è un principio sostanziale che si contrappone al Bene, in realtà esso
non è che una ignoranza del vero Bene, e non ha una consistenza propria: dottrina che avrebbe
sviluppato compiutamente più tardi e che ha dato luogo a infinite discussioni e polemiche. È un
fatto che Agostino, qui, per reazione al dualismo manicheo sembra essere più vicino alla concezione
neoplatonica che a quella cristiana ortodossa, secondo la quale l'esistenza di un polo negativo e
demonico, anche se non originario (come volevano i manichei), è parte integrante di una compiuta
prospettiva dogmatico-teologica. Del resto, vi sono stati studiosi (come Prosper Alfaric, nella sua
monografia su S. Agostino del 1918) che hanno negato che egli si sia convertito al cristianesimo nel
386 quanto piuttosto al neoplatonismo; e che solo in seguito egli sia passato definitivamente al
cristianesimo, ma solo perché vi ritrovava gli elementi essenziali insegnati nelle Enneadi di Plotino,
filosofo che continuò ad ammirare per tutta la vita. Sia come sia, non è questa la sede per
approfondire una questione di tanto peso; ci accontentiamo di avervi accennato, rimandando il
lettore desideroso di approfondire la questione agli studi specifici di Becker, di Scheel, di Thimme,
di Alfaric e del celebre Alfred Loisy.
In ogni modo, ad Agostino appare chiaro che i criteri della giustizia divina divergono da quelli della
giustizia umana, e di ciò non si può evitare di tener conto quando si affronta il problema del Male
da un punto di vista teologico (cap. VII). Tuttavia, se il giudizio umano - fuorviato dalle apparenze -
può errare nel giudicare ciò che gli appare una cattiva azione, e magari non essere tale agli occhi di
Dio, da ciò non deriva alcun relativismo etico. Esistono comunque delle azioni che sono
intrinsecamente peccaminose, quali - ad esempio - le pratiche dei sodomiti, davanti alle quali
Agostino non esita ad affermare che «anche se tutto il genere umano le commettesse, tutto il genere
umano sarebbe reo di codesto crimine» (cap. VIII): e questo, almeno, è un parlare chiaro.
"Ma quando Iddio comanda qualche cosa contraria ad usi o istituzioni di chicchessia, anche se
essa in quel determinato luogo non sia mai stata fatta, si deve fare; se è andata in disuso si deve
rinnovare; se non è mai stata stabilita si deve stabilire (…) Come infatti nella distribuzione dei
poteri nella società umana il potere più elevato ha diritto all'obbedienza del subordinato, così Dio
a quella di tutti."
E questo è un passo che sarebbe piaciuto (e quasi certamente è piaciuto) a Sören Kierkegaard, in
particolare al Kierkegaard di Timore e tremore, tutto preso dal mistero che emana dall'ordine
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assurdo (umanamente parlando) che Dio rivolge ad Abramo di sacrificare il suo unico, amatissimo
figlio Isacco, sul Monte Moriah.
"Ciò vale anche per le colpe il cui movente è la deliberata volontà di fare il male agli altri o con
ingiustizia, o con violazione di diritti. E l'uno e l'altro può aver luogo sia per motivi di vendetta,
come fa l'avversario all'avversario, sia per cupidigia di un bene indebito, come il brigante con il
viaggiatore; sia per evitare un male, come si fa ad uno che ci è causa di timore; sia per invidia - il
misero verso il più fortunato o il bene arrivato verso colui che non vuole veder suo pari, oche si
contrista di veder tale, sia per il solo compiacimento del male altrui, come gli spettatori delle lotte
dei gladiatori, i motteggiatori, i mistificatori degli altri."
Vi sono poi dei peccati che sono tali solo in apparenza: Agostino ribadisce il concetto che il
giudizio umano è spesso inadeguato, ed erra sia quando condanna, sia quando loda, perché altro può
essere il giudizio di Dio, che sa vedere nel mistero dell'anima (cap. IX). Segue una ulteriore puntata
contro i manichei che, per la verità, ha più l'aria di un colpo basso: giocando un po' sul concetto
manicheo di "cibo spirituale" destinato a liberare la sostanza spirituale contenuta negli alimenti,
Agostino poco generosamente mette in caricatura questo aspetto delle loro credenze, deridendo ciò
in cui aveva creduto (cap. X).
Il terzo libro è chiuso da due episodi che creano un'atmosfera carica di attesa. Il primo è un sogno
della madre Monica che sembra chiaramente alludere a un cambiamento di vita da parte di suo
figlio, se non a una vera e propria conversione (cap. XI).
"Sognò infatti che se ne stava ritta in piedi su di un'assicella e che uno splendido giovane le veniva
incontro lieto e sorridente, mentre essa si consumava nella tristezza della desolazione. Egli le
chiese la cagione di quella sua mestizia e di quel suo piangere continuo; non che avesse bisogno di
sentirselo dire, ma come succede, per aver modo di dirle quanto voleva. Avendo ella risposto che
piangeva la mia rovina, egli volle che si riconfortasse, esortandola a ben notare ed a vedere che là
dove era ella mi trovavo anch'io. Ed ella riguardò e vide che io le stavo accanto sulla stessa
assicella."
Il secondo episodio riguarda la profezia di un vescovo, al quale Monica si era rivolta per
convincerlo ad avere un colloquio con Agostino nel quale confutare i suoi errori e allontanarlo, così,
dall'influenza dei manichei. Al che il sant'uomo rispose:«Lascia che se stia così; solo, prega il
Signore per lui; studiando, troverà da sé la natura e l'empietà di quegli errori». E aveva concluso
dicendole: «Vattene pure; così tu possa vivere a lungo, come è certo che il figlio di codeste lagrime
non può andar perduto».
LIBRO QUARTO
Il quarto libro si apre con l'inizio dell'insegnamento a Tagaste, ove Agostino è rientrato da
Cartagine. Continua a frequentare i manichei, anzi è divenuto "uditore": ora, quel periodo della sua
vita gli appare come una dolorosa serie di errori (cap. I).
"Per tutto il corso di quei nuove anni - dal diciannovesimo al ventottesimo - fui insieme sedotto e
seduttore, ingannato e ingannatore in ogni genere di passioni; pubblicamente con l'insegnamento
delle così dette scienze liberali, occultamente con la pratica di una falsa religione ;là superbo, qui
superstizioso, vano in entrambi i casi; da una parte correvo dietro al miraggio della gloria
popolare, fino agli applausi da palcoscenico;, fino alle gare poetiche, alle dispute per corone di
fieno ,alle insulsaggini di spettacoli, ad ogni sregolatezza di passioni; dall'altra, anelando di
purificarmi da quelle bassezze, ero tutto zelo nel portare ai così detti "Santi" ed "eletti" i cibi dai
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quali nell'officina del loro stomaco potessero fabbricarci angeli e dèi, mezzi della nostra
liberazione. E ci credevo, e compivo tali pratiche: io e gli amici con me o da me ingrulliti."
Inoltre, in quel periodo Agostino si lega con una donna, non maritalmente, tuttavia con costante
fedeltà e affetto, dalla quale avrà un figlio, Adeodato. Ricorda anche uno strano episodio, allorché
uno stregone gli offrì la vittoria in una gara di poesia da tenersi in una teatro, se avesse acconsentito
a praticare un rito di magia nera, nel quale sarebbero stati sacrificati degli esseri viventi. Egli aveva
rifiutato con orrore (cap. II); il fatto, ad ogni modo, ci dice quanto fossero diffuse le arti magiche
nel tardo Impero Romano, e quanto l'ambizione divorante di Agostino dove essere ben nota ai suoi
concittadini; altrimenti, quel personaggio non avrebbe osato rivolgersi a lui per offrirgli i suoi
sinistri servigi. Non rifiuta, invece, di affidarsi ai responsi degli astrologi, cui anzi ricorre volentieri;
solo più tardi l'autore delle Confessioni giungerà alla conclusione che il sapere dell'astrologia è vano
e fallace, poiché in contrasto con la libertà di scelta dell'uomo (cap. III). Notiamo di sfuggita che in
altro modo giudicherà l'astrologia il seguente millennio, durante il quale i massimi esponenti della
cultura, Dante compreso, crederanno fermamente all'influsso operato dagli astri sul cosiddetto
mondo sub-lunare; e tale sarà la convinzione prevalente fino a tutto il Rinascimento, non sentita in
contrasto con i dogmi del cristianesimo, ed insegnata presso diverse università europee.
Poi Agostino racconta il dolore provato per la perdita di un giovane, del quale ignoriamo anche il
nome, ma al quale si era legato di profonda (cap. IV); mentre per la morte del padre suo, Patrizio,
che alfine si era convertito alla religione della moglie, non dice una parola. Dopo aver riflettuto
sulla dolcezza che il pianto offre nei grandi dolori, ai quali offre un sollievo (cap. V), ricostruisce
quell'epoca della sua vita, osservando come lo avesse invaso un profondo smarrimento, mescolato a
un senso di estrema precarietà di ogni cosa umana, davanti alla cieca violenza della morte, nonché a
uno strano piacere nell'abbandonarsi alla disperazione.
"Ero infelice, ed infelice è sempre l'anima avviluppata dall'amore delle cose mortali; lacerata
quando le perde, sente la miseria da cui è affetta anche prima di perderle.. Tale ero io in quel
periodo di tempo; piangevo amarissimamente e nell'amarezza mi riconfortavo. Infelice, sì; eppure
quella misera mia vita mi era ancor più cara dell'amico; cambiarla, certo, avrei voluto, ma non
perdere lei piuttosto dell'amico, e non so se avrei acconsentito, anche per lui, a quello che si
racconta di Oreste e di Pilade, se pure è vero, che volevano morire l'uno per l'altro, insieme,
perché non vivere insieme per essi era peggio che morire. Ma non so quale sentimento in
opposizione di quello, era nato in me; un profondissimo tedio della vita e la paura della morte.
Quanto più lo amavo, tanto più lo odiavo e temevo come il più crudele nemico la morte che me lo
aveva rapito ,e mi pareva che essa dovesse portarsi via di colpo tutta l'umanità, posto che aveva
potuto portarsi via lui. Tale era il mio stato d'animo: e ben l'ho presente."
Per confortarsi di quella perdita, Agostino cerca l'amicizia di altri compagni (cap. VIII); indi scrive
una delle più alte pagine sul significato della vera amicizia, che consiste nell'amare l'altro non per se
stesso, ma in Dio (cap. IX). Ogni bene terreno, infatti, è caduco ed effimero: cercando le cose per se
stesse, anche le più belle, non si fa altro che inseguire il dolore; mentre è in Dio, creatore di ogni
bellezza terrena, che l'animo nostro può trovare ciò di cui veramente è assetato (cap. X). Dopo aver
rivolto una esortazione alla propria anima, perché rivolga tutta se stessa a Dio, sede della vera pace
e della perfetta letizia (cap. XI), Agostino afferma che l'amore dei bei corpi può rivolgerci dalla
bellezza materiale a quella spirituale e di lì, infine, alla Bellezza divina: un ragionamento di pretta
impronta platonica, e che certo sarebbe piaciuto - e forse piacque, se lo lesse - al S. Francesco del
Cantico delle creature. Con questa differenza, però, rispetto a Platone: che la bellezza materiale non
rimanda a un'Idea perfetta e totalmente separata dal mondo, ma che proprio nella bellezza delle cose
terrene noi possiamo percepire la presenza del divino, che non si ritrae da esse, ma vi permane in
tutto il suo fulgore. Il mondo, pertanto, non viene retrocesso a pallido e illusorio riflesso di una
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realtà trascendente, ma promosso al rango di luogo per eccellenza della ierofania, ossia della
rivelazione del sacro.
"Se ti piacciono i copri, trai motivo da essi per lodare Iddio, e riporta l'amore sul loro autore,
perché tu non gli dispiaccia negli esseri che piacciono a te. Se ti piacciono le anime, amale nel
Signore, perché anch'esse sono mutabili e solo fissandosi in lui acquistano stabilità; diversamente
sene andrebbero in rovina. Siano dunque amate in Lui, trascinane a Lui teco quante vuoi, e di'
loro: «Lui, lui amiamo: Egli ha fatto codeste creature, né è lontano perché, dopo averle fatte, non
si è ritirato da esse, ma, fatte da Lui, sono in Lui. Ecco dove egli sta: , ecco dove la verità si
insapora. È nel profondo del nostro cuore ma il cuore si è sbandato, lontano da lui. Ritornate al
cuore, prevaricatori; stringetevi a Lui che vi ha creati,. Tenetevi a Lui e avrete stabilità; riposate in
Lui e avrete riposo. Dove andate, dove andate per luoghi scoscesi? Il bene che voi amate viene da
Lui, e quanto si rapporta a Lui è buono, è dolce, ma può giustamente diventare amaro, se si
abbandona Lui e si ama disordinatamente quello che procede da Lui. Dove tende questo vostro
ostinato camminare per strade difficili e faticose? Non è là dove lo cercate il riposo. Cercate pure
quello che cercate; ma esso non è là dove lo cercate. Cercate la felicità della vita nelle regioni
della morte: non è là. Come potrebbe esservi vita felice dove non si trova nemmeno la vita?»."
Segue un passo stupendo sul mistero dell'Incarnazione, visto come l'evento salvifico che ha
riportato la vita nel regno della morte, ribadendo il carattere di trionfo della vita sulla morte che sta
al cuore del messaggio cristiano. Sono parole ispirate, che ricordano le pagine più potenti di san
paolo; e, infatti, culmina con una citazione dalla Prima lettera a Timoteo (I, 15).
"Egli, la vita nostra, è disceso quaggiù; si è preso la nostra morte, la uccise nella sovrabbondanza
della vita, e con voce di tuono ci gridò di ritornare di qui a Lui, in quel misterioso recesso da cui
prese le mosse per venire a noi nel grembo di una vergine, per la prima volta, dove si disposò con
Lui, la creatura umana, carne mortale ,destinata all'immortalità: e di là, «come sposo che esca dal
talamo, avanzò qual campione lieto di percorrere la sua via»."
Poi Agostino ci informa che, all'età di ventisei o ventisette anni, aveva composto un'operetta,
intitolata De puchro ed apto, che purtroppo è andata perduta (cap. XIII); e d'averla dedicata a un
celebre oratore di origine siriana da lui non personalmente conosciuto, tale Jerio, che dopo aver
primeggiato nell'eloquenza greca, aveva riportato altrettanti trionfi nell'uso di quella latina (cap.
XIV). Quanto al contenuto, l'autore delle Confessioni compie una piena autocritica, poiché in quel
libretto non era ancor giunto a distaccarsi da una concezione immanentistica dell'estetica (cap. XV).
Più in generale, Agostino lamenta che, a quell'epoca, egli stava facendo un cattivo uso della sua
intelligenza. A soli vent'anni aveva già letto e studiato le Categorie di Aristotele; e inoltre sai era
formato, senza difficoltà, una vasta cultura che spaziava dalla retorica, alla dialettica, alla
geometria, alla musica e alla matematica (circa quest'ultima, evidentemente, aveva superato
l'antipatia della fanciullezza); ma vagava ancora lontano dalla verità più importante, quella delle
cose divine (cap. XVI).
LIBRO QUINTO
Il quinto libro si apre con un inno di lode a Dio (cap. I) e prosegue con la riflessione che Egli è
sempre vicino a noi, anche quando noi crediamo di allontanarcene (cap. II). Quindi Agostino si
lancia in un duro atto di accusa contro la superbia e la cecità di quelli che allora si chiamavano
filosofi naturali e che noi, oggi, chiamiamo scienziati. Non è la loro scienza che viene condannata,
anzi, il Nostro ha parole di ammirazione per i risultati raggiunti dal loro sapere; ma è condannata la
loro pretesa di fondare una scienza autosufficienze, chiusa in sé stessa e resa superba dalle sue
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conquiste, senza riconoscere il legame necessario esistente fra Dio e il mondo. Si tratta di un passo
di notevole attualità, che il lettore moderno dovrebbe meditare alla luce degli effetti che il
predominio dell'apparato tecno-scientifico esercita sulle nostre vite e sui nostri modi di pensare; un
passo (come quello dell'Ulisse dantesco lanciato nel suo "folle volo" verso l'ignoto) che non si deve
leggere in un'ottica oscurantistica ma, al contrario, nella sua straordinaria forza profetica, come un
monito e un necessario grido di avvertimento.
"I superbi non Ti trovano, anche se la loro perspicace curiosità è riuscita a contare le stelle e
l'arena, a misurare le plaghe del cielo, a seguire la via degli astri. Con la forza dell'intelligenza e
dell'intuizione che Tu donasti loro essi compiono tali ricerche; e fecero scoperte, e annunziarono
molti anni prima le eclissi del sole e della luna, indicandone il giorno, l'ora, se totali o parziali: i
loro calcoli non li hanno tratti in errore: avvenne proprio come avevano preannunciato. Misero in
iscritto le leggi trovate che si studiano anche oggi, e da esse si può fare il calcolo in quale anno, in
quale mese dell'anno, in quale giorno del mese, in quale ora del giorno e in quale misura
avverranno le eclissi della luna o del sole: e tutto si verificherà a puntino. Quelli che non hanno
simili cognizioni rimangono meravigliati, quasi instupiditi; i dotti ne gioiscono, si gonfiano
d'orgoglio; la stolta superbia li allontana ed eclissa loro la Tua gran luce: vedono in anticipo
l'oscuramento del sole e non vedono il loro ,proprio e presente, perché non si domandano
piamente donde venga l'intelligenza che li guida in codeste scoperte; e anche se arrivano a capire
che Tu sei il creatore, non si affidano a Te per la conservazione del tuo operato; non vogliono
sacrificare a Te il loro 'io', né annientare i loro infatuamenti svolazzanti a guisa d'uccelli, le loro
investigazioni che a guisa di pesci scendono nelle vie segrete degli abissi, né la loro lussuria che li
fa simili alle bestie irragionevoli: affinché Tu, fuoco divoratore, riduca in cenere le loro passioni di
morte per ricrearli ad una vita eterna."
Agostino trae la conclusione che la scienza umana è vana, se non è accompagnata da un giusto
rapporto fra l'uomo e Dio; insensato è colui che «sa misurare i cieli e contare le stelle e pesare gli
elementi, ma poi trascura Te che a tutto hai prestabilito misura, numero e peso» (cap. IV).
Dopo aver deplorato gli errori della dottrina di Mani nella scienza astronomica (cap. V), il Nostro
rievoca il suo incontro con il vescovo manicheo Fausto, che descrive come uomo garbato e ottimo
parlatore, ma non più profondo né più veridico quanto alla sostanza del suo insegnamento (cap. VI).
Agostino, peraltro, gli riconosce volentieri alcune buone qualità, prima fra tutte l'umiltà: infatti,
quando gli sottopone i suoi calcoli matematici che contrastavano con la dottrina manichea, Fausto
non vuole addentrarsi in tale materia, ammettendo la sua inadeguatezza a livello scientifico: non era
come quegli altri "venditori di fumo", ma un uomo retto, purtroppo invischiato nell'errore della sua
religione (cap. VII).
È a questo punto che Agostino, retore promettente e seguace già in crisi del manicheismo, decide di
partire da Cartagine per recarsi a Roma, spinto a un tale passo non dalla speranza di maggiori
guadagni o di una fama più vasta, ma dal desiderio di sottrarsi alla turbolenza degli studenti della
metropoli africana, per lavorare in un ambiente più calmo e sereno (cap. VIII). Siamo nel 383 e la
partenza avviene di nascosto dalla madre Monica; su di essa, crediamo, influisce anche la delusione
profonda riportata dall'incontro con Fausto, dal quale sperava di veder sciolti i suoi dubbi crescenti.
È come se, tagliandosi i ponti alle spalle e gettandosi a capofitto in una nuova vita, egli stia
cercando inconsciamente una nuova certezza cui aggrapparsi, qualche cosa in cui credere
fermamente dopo aver fatto il vuoto delle sue precedenti sicurezze.
Il viaggio non sembra compiersi sotto una buona stella: appena giunto a Roma, Agostino è colpito
da una grave malattia che lo spinge sull'orlo della morte; né si preoccupa, come invece aveva fatto,
in analoghe circostanze da bambino, di ricevere il battesimo. Ma Dio non vuole che giunga la sua
ora prima che lui sia riuscito a trovarLo, né che la povera Monica riceva una così dolorosa ferita,
prima di aver avuto la gioia di vedere il figlio tornare alla vera religione (cap. IX). Durante la
malattia, il Nostro si è consolato pensando, d'accordo con la dottrina manichea, che non l'uomo
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pecca con la sua libera volontà, ma un qualche cosa d'oscuro che si trova dentro di lui, e in qualche
modo da lui distinto; sicché, se morisse, la sua anima potrebbe affrontare il gran passo libera da
ogni peccato. Eppure la dottrina manichea, ormai, non era più in grado di soddisfarlo, e proprio per
il dualismo in essa esplicitamente affermato (cap. X).
"Mi pareva sconveniente in modo assoluto credere che Tu avessi l'aspetto di un corpo umano,
limitato e definito da contorni materiali come le nostre membra. E siccome quando volevo pensare
alla divinità non riuscivo che a fissarmi su masse corporee - a mio modo di vedere non esisteva
altro che non fosse tale -, ero tratto all'inevitabile errore da questa principalissima e quasi unica
ragione.
"Di qui la mia idea fissa che anche il male fosse una sostanza di quello stesso tipo, e avesse una
sua massa oscura e informe, in parte densa, ed era la terra, in parte tenue e sottile, come un corpo
aereo: a detta loro, uno spirito maligno che va strisciando su quella terra. E poiché il mio
sentimento religioso, di qualsiasi natura fosse, mi costringeva ad ammettere che un Dio buono non
poteva aver creato una natura cattiva, mettevo le due masse in opposizione tra loro, infinite
entrambe ma la cattiva in forma più angusta, la buona più ampia; pestilenziale premessa da cui
derivavano blasfeme conseguenze."
Certo, ricordando che una delle ragioni che spingono Agostino a scrivere le Confessioni sono
proprio le critiche malevole di quanti non sono disposti a perdonargli facilmente il suo passato di
manicheo militante, si può comprendere ora la sua insistenza nel prendere radicalmente le distanze
dalla loro dottrina; salvo poi, quando sarà nel pieno fervore della polemica contro l'ottimismo
antropologico propugnato dal pelagianesimo, ricadere in una visione assai cupa dell'umanità,
"massa dannata" che nulla potrebbe, con le sue sole forze, per innalzarsi verso la luce della grazia.
Comunque, egli descrive con sincerità questa fase di trapasso della sua vita, quando ondeggiava fra
le dottrine manichee, che sempre meno soddisfacevano le esigenze della sua anima, e quelle
cattoliche, verso le quali lo trattenevano ancora numerosi dubbi e pregiudizi (cap. XI).
La situazione del giovane insegnante, appena giunto nella vecchia capitale dell'Impero, non è delle
migliori; oltretutto, vive nel timore di essere truffato dai suoi discepoli, secondo le sregolate
consuetudini del tempo (cap. XII). Così, quando un anno dopo - nel384 - viene messo a concorso un
posto di docente di retorica a Milano, egli ricorre ai buoni uffici del praefectus Urbi, Simmaco - un
pagano convinto -, e lo ottiene; il viaggio nella nuova capitale, peraltro (Milano era la capitale
dell'Occidente dai tempi della tetrarchia dioclezianea), gli offre l'opportunità di avvicinare per la
prima volta la figura carismatica del vescovo cattolico di quella città, S. Ambrogio, energico
oppositore delle tendenze filo-ariane della corte occidentale. Agostino, peraltro, in un primo
momento è attratto dalla sua eloquenza, più che dai contenuti della sua predicazione; ma almeno è
inizio di avvicinamento al cristianesimo (cap. XIII). In quel momento, per una esigenza di onestà
intellettuale, egli decide di staccarsi dai manichei; non è ancora l'inizio della conversione, quanto un
temporaneo rifugio nello scetticismo allora prevalente nella scuola accademica, ove raccogliersi in
sé stesso, in attesa di ulteriori decisioni. (cap. XIV).
LIBRO SESTO
È ormai l'anno 385: Monica, rimasta vedova, raggiunge il figlio a Milano per stargli vicino e per
sostenerlo nel cammino verso la fede. (cap. I). La religiosità della madre è così pura e docile alla
guida spirituale di Ambrogio, che egli sene compiace più volte col figlio (cap. II). Agostino,
nonostante i cordiali rapporti instauratisi col vescovo di Milano, vorrebbe rivolgersi a lui per avere
chiarimenti dottrinali, ma ne è impedito dal pochissimo tempo che quegli ha a disposizione, preso
com'è dai mille impegni pratici relativi alla gestione della sua diocesi (cap. III). Lo trattiene anche
una sporta di orgoglio, poiché gli pesa dover ammettere di aver seguito per tanti anni le dottrine dei
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manichei, che ora giudica quantomeno incerte (cap. IV). In compenso si dedica con rinnovata
energia allo studio delle Sacre Scritture; e, se essa gli avevano fatto un tempo una cattiva
impressione per la loro oscurità, ora la lettura gli riesce molto più facile e persuasiva, tanto che
cadono in lui una serie di radicati pregiudizi (cap. V). Intanto continua a riflettere sulla patetica
ricerca della felicità, che gli uomini conducono inseguendo beni fallaci e, in particolare, il successo,
cui li spingono l'ambizione e il desiderio di onori. Infatti, poco dopo aver pronunciato il panegirico
in onore dell'imperatore Valentiniano II (allora quattordicenne, e per questo, probabilmente, "pieno
di falsità", come lo definisce ora, nelle Confessioni, il suo autore), Agostino osserva un mendicante
ubriaco che pare aver raggiunto quella pace dell'animo cui vanamente le persone sapienti aspirano
in tutto il corso della propria vita; episodio del tutto secondario, ma che lo lascia a lungo pensieroso
(cap. VI).
A Milano egli ha presso di sé due buoni amici, Nebridio e il giovane Alipio, un suo ex studente dei
tempi di Cartagine; e sappiamo quanto valore abbia per Agostino il sentimento dell'amicizia;
vorremmo dire che, nell'antichità latina, solo in Cicerone ne troviamo un senso altrettanto forte,
come di un nutrimento vitale dell'anima. Alipio rimane così impressionato da un discorso del suo
vecchio insegnante, che decide di rinunciare per sempre ad assistere agli spettacoli del circo, dei
quali era un grande appassionato (cap. VII): vivido esempio di quella riforma dei costumi, operata
dalla nuova morale d'ispirazione cristiana, che culminerà, ai primi del V secolo, con l'abolizione
definitiva dei ludi gladiatori per opera di un editto dell'imperatore Onorio. Uno scrittore
contemporaneo, l'americano Lewis Mumford, nel suo libro La condizione dell'uomo, ha scritto
pagine esemplari circa lo sfrenato sadismo, la morbosa eccitazione sessuale e la forte carica anti-
educativa cui gli spettacoli del circo avevano assuefatto le masse romane. Non è quindi cosa di poco
conto la dissuasione dal parteciparvi che la visione del mondo propria del cristianesimo ha operato
sulle plebi urbane della tarda romanità, raggiungendo quell'obiettivo che solo poche menti
illuminate, come Seneca, avevano vagheggiato a suo tempo: bonificare la palude delle passioni più
basse e violente, a favore di una concezione della persona umana basata sulla sua intrinseca dignità
e sul suo fine trascendente.
Famosa, e degna di un grande scrittore, è la pagina in cui Agostino descrive il meccanismo
psicologico mediante il quale una persona mite e di indole profondamente buona, come il giovane
Alipio, era stata presa e inconsapevolmente trascinata a una vera e propria forma di dipendenza dai
sanguinosi spettacoli dell'anfiteatro (cap. VIII).
"(…) Alipio mi aveva preceduto a Roma per studiare il Diritto; ed ivi fu travolto contro ogni
credenza e in una misura incredibile dalla passione per gli spettacoli dei gladiatori. Ne aveva
avuto dapprima disgusto e odio; ma alcuni amici e compagni di studio un giorno tornando dal
pranzo imbattutisi in lui, per quanto opponesse forte resistenza, con amichevole prepotenza, lo
trascinarono nell'anfiteatro: era un giorno di quegli spettacoli crudeli e malvagi. Egli badava a
dire: «Forse che trascinando e costringendo il mio corpo a rimanere in quel luogo credete di poter
costringere anche il mio animo ed i miei occhi a quello spettacolo? Vi sarò, ma come un assente, ed
avrò vittoria di voi e di esso». Ma non ostante questa affermazione, gli amici lo trascinarono seco,
forse anche punti dal desiderio di fare la prova della sua forza d'animo.
"Quando vi arrivarono e trovarono modo di mettersi a sedere, tutto già respirava inumana voluttà.
Alipio, chiuse le porte degli occhi, inibì al suo animo di prender parte a quegli orrori. E almeno
avesse chiuso anche le orecchie! Ad un certo istante del combattimento un immenso urlio del
popolo lo fece sussultare: vinto dalla curiosità e come pronto, di qualunque cosa si trattasse, a
disprezzare ed a vincere anche la vista, aperse gli occhi e l'anima sua fu colpita da una ferita più
grave di quella ricevuta nel corpo dal gladiatore che per un istante aveva voluto guardare: e cadde
ben più miseramente di quelli la cui caduta aveva provocato tale clamore: entrò nelle sue orecchie
gli fece sbarrare gli occhi, sicché si formasse una breccia attraverso la quale fosse ferito e
abbattuto quell'animo più temerario che forte, tanto più debole in quanto cercava in sé stesso la
forza che avrebbe dovuto cercare in Te. Vedere quel sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt'uno: non
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ne distolse gli occhi, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella
lotta criminale, ebbro di sanguinario piacere. Non era più quello che era venuto, ma uno della
plebaglia tra cui era venuto e degno compare di quelli che ve lo avevano condotto. che più!
Guardo, gridò, si entusiasmò; se ne venne via portando seco una febbre che lo spinse a tornarvi
non solo con quelli che ve lo avevano trascinato, ma primo di essi, trascinatore di altri.
Poi Agostino si diffonde nei particolari di una accusa di furto, dalla quale Alipio esce scagionato
quasi per miracolo, episodio che serve a mostrare tutto il candore e l'ingenuità di questo suo amico
(cap. IX). Più significativo l'episodio in cui Alipio, prima di trasferirsi da Roma a Milano, sfida le
ire di un potente senatore che vorrebbe il placet ad una azione illegale del comes sacrarum
largitionum, del quale Alipio è appunto il segretario. Ci viene presentato anche l'altro amico
carissimo di Agostino nel periodo milanese della sua vita, Nebridio, col quale divide i travagli
spirituali di una ricerca sempre più intensa e angosciosa della verità (cap. IX). Il passo seguente, nel
quale Agostino descrive i travagli della sua anima lacerata fra le vecchie certezze manichee, ormai
quasi del tutto crollate, e l'aspirazione a una più intima e profonda verità, è anch'esso giustamente
famoso come esempio delle capacità d'introspezione psicologica dell'Autore (cap. X); sicuramente è
una delle pagine che più avranno ispirato Francesco Petrarca nella composizione del Secretum, non
solo per lo stile ma anche per l'andamento dialogico tutto interiorizzato, fra Agostino e l'anima sua
insistentemente interrogata (cap. XI).
Agostino, all'epoca, progetta di contrarre matrimonio; non con la madre di Adeodato, che è stata
allontanata, ma con un'altra fanciulla; è convinto di non poter vivere lontano dall'amplesso
femminile, perché ignora che la forza della castità non viene dalla volontà umana, ma dal rivolgersi
dell'anima a Dio (cap. XII). È specialmente Monica che si dà da fare per concludere il
fidanzamento, convinta che sia per il bene del figlio, e la scelta cade su una giovinetta cui mancano
ancora due anni per raggiungere l'età del matrimonio (cap. XIII). Intorno ad Agostino si è formato
un gruppo di amici, una decina di persone unite da comunanza di ideali e stile di vita che, per un
momento, accarezzano l'idea di mettere le finanze in comune e ritirarsi dal mondo, dandosi a vita
comunitaria; ma il progetto sfuma per la difficoltà di conciliarlo con lo stato matrimoniale di alcuni
di essi, prima ancora di essere tradotto in pratica (cap. XIV).
Quanto ad Agostino, i due ani di attesa prima delle nozze gli sono troppo gravosi ed egli si prende
un'amante, vinto dalla debolezza della carne: di tutti questi particolari ci parla con estrema
franchezza, in un modo che non ha esempi nella letteratura classica, neanche nel genere epistolare
(cap. XV).
"E intanto i miei peccati andavano moltiplicandosi; strappata dal mio fianco come un ostacolo al
matrimonio, la donna che mi era stata compagna di vita, il mio cuore, che le era molto legato,
rimase straziato come da una ferita e dava sangue. Ella era ritornata in Africa facendo voto a Te
di rinunziare per sempre all'uomo, e mi aveva lasciato il figliolo naturale che io avevo avuto da lei.
"Ed io, miserabile, che non riuscivo ad imitare una donna, insofferente dell'attesa, poiché solo fra
due anni avrei avuto quella che avevo richiesto, ed ero non tanto attaccato all'idea del matrimonio
quanto schiavo dei miei sensi, me ne procurai un'altra, non già come moglie, per alimentare, quasi,
l'infermità della mia anima, per trascinarmela ininterrotta o aggravata dalla custodia di una
ostinata abitudine fino alla conquista della sposa. Ma la ferita inflitta dallo strappo precedente non
si rimarginava, anzi, dopo bruciori e dolori acutissimi incancreniva; poi il dolore divenne quasi più
cupo ma più disperato."
Il libro si chiude con un inno di lode al Dio della misericordia e con la commossa rievocazione delle
fervorose discussioni con Alipio e Nebridio circa l'immortalità dell'anima e il destino ultimo
dell'essere umano (cap. XVI).
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CAPITOLO SETTIMO
Il libro settimo si apre con il ricordo di come Agostino immaginava la divinità: immaginazione
ancora mista di elementi vagamente panteistici, come se Dio fosse contenuto nelle varie parti
dell'Universo (cap. I). Dopo aver nuovamente deprecato l'assurdità della concezione manichea della
divinità (cap. II), egli ricorda che la sua mente, allora, si travagliava soprattutto intorno alle cause
del male, dato che Dio è il Sommo Bene e che non esiste un principio delle tenebre a Lui
contrapposto, che giaccia sul suo stesso piano ontologico (cap. III).
"E mi studiavo di veder chiaro quello che mi si ripeteva: essere nel libero arbitrio la causa del
male che facciamo, , nella rettitudine del tuo giudizio la causa del male che dobbiamo sopportare:
ma quel veder chiaro non mi riusciva facile: e se tentavo di spingere la mia mente fuori dell'abisso,
mi vi sprofondavo di nuovo: e a tentoni rinnovati seguivano rinnovate cadute. Mi teneva però
sollevato verso la tua luce la certezza di avere una volontà, forte come quella della mia esistenza.
"Così dunque sapevo con sicurezza che, quando volevo o non volevo qualche cosa, ero proprio io
che volevo o non volevo: e già affiorava in me l'idea che qui stava la causa del mio peccato: e
sentivo anche che il fare qualche cosa a mio malgrado era piuttosto patire che agire: questo non lo
chiamavo una colpa, bensì un castigo, ed ero tratto a confessare senz'altro che ero colpito
giustamente, sapendo Te giusto.
"Ma di nuovo mi domandavo: «Chi mi ha fatto? Non fu il mio Dio, che non solo è buono, ma è la
Bontà stessa? Donde, allora, in me il volere il male, il non volere in me il bene? Forse perché ci
fosse materia a un giusto castigo? Chi ha posto in me, chi ha fatto di me un semenzaio di amarezza,
se io tutto quanto sono l'opera del mio dolcissimo Signore? Se il diavolo ne è il responsabile, donde
viene il diavolo stesso? Che se anche lui il traviamento della volontà ha trasformato da buon
Angelo in demonio, donde venne anche in lui quel malvolere per cui diventò diavolo, se l'angelica
natura tutta quanta fu creata da un creatore ottimo?"
Pur tormentato da tali dubbi, Agostino ha raggiunto almeno un punto fermo: l'incorruttibilità di Dio,
che, essendo il Bene supremo, sfugge a ogni forma di corruzione (cap. IV). Ma il problema del male
continua a riempirlo di dubbi ed incertezze.
"Ma io mi domandavo: «Eccolo, il Signore: eco tutto quello che Iddio ha creato: e Iddio è buono,
immensamente più grande di tutte queste cose; ed essendo buono, le ha create buone, ed ecco, vedi
come le abbraccia, come le riempie. E allora dove sta il male, donde e per dove si è strisciato fin
qui? Quale la sua radice, quale i il suo seme? O forse non esiste nemmeno? Ma allora perché
dovremmo temere quello che non esiste o guardarcene?"
Poi Agostino ci narra di come abbia abbandonato definitivamente la credenza nell'astrologia, dopo
che un amico di nome Firmino, venuto da lui per farsi fare l'oroscopo (cosa che il Nostro esegue,
pur avvertendolo essere quelle pratiche vano: segno, comunque, che all'astrologia doveva aver
creduto quanto basta per saperla praticare), gli narra il caso della sua nascita. Nello stesso momento
in cui egli è nato, è nato anche il figlio di una schiava dell'amico di suo padre: dunque, dovrebbero
avere lo stesso destino; invece l'uno è cresciuto da gran signore, l'altro è rimasto schiavo e figlio di
schiavi. E lo stesso avviene per i gemelli: sono questi i fatti e i ragionamenti che hanno distolto per
sempre Agostino dalla credenza nell'astrologia (cap. VI).
L'apparente insolubilità del problema del male, comunque, procura ad Agostino momenti di estrema
difficoltà intellettuale e spirituale, tanto da spingerlo a citare il Salmo XXXVII, 9 sgg.: «i ruggiti del
mio cuore dolorante arrivavano tutti al tuo orecchio, il mio desiderio ti era chiaro, ma la luce dei
miei occhi non era meco» (cap. VII). Dio, però, non è lontano dall'anima angosciata di Agostino, e
già si prepara a soccorrerlo (cap. VIII):
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Segue una curiosa confutazione della dottrina neoplatonica quasi per mezzo delle stesse parole con
cui inizia il Vangelo di Giovanni, relative al mistero dell'Incarnazione: «Al principio era il Verbo, e
il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio…» (cap. IX). Probabilmente Agostino sceglie questa
strana linea di attacco per meglio stigmatizzare la superbia della filosofia pagana, che vede nel
mistero dell'Incarnazione una intollerabile umiliazione del Figlio di Dio, giungendo così a eliminare
per absurdum la dottrina della Redenzione; forse anche ad essi va riferita la pagina precedente
(libro quinto, capitolo terzo) in cui si era scagliato contro i filosofi "gonfi di superbia".
Così, pur venendo da una formazione culturale sostanzialmente pagana e imbevuta di
neoplatonismo, grazie alla lettura della Bibbia e specialmente delle Epistole di S. Paolo, finalmente
Agostino giunge ad acquisire la prima intuizione dell'essenza spirituale di Dio, primo significativo
passo avanti nella sua febbrile ricerca religiosa (cap. X). Da lì, egli perviene a comprendere la
natura del rapporto che lega le cose terrene al loro Creatore(cap. XI).
"Volsi allora il mio pensiero a tutte le cose che sono sotto di Te e vidi che esse hanno l'esistenza,
ma non in senso assoluto; non hanno l'esistenza, pure non in senso assoluto. L'hanno, in quanto
sono opera tua; non l'hanno, in quanto non sono quello che sei tu. Esiste nel vero senso della
parola solo ciò che immutabilmente permane."
Ed ecco che anche la natura del male comincia a chiarirsi alla mente del Nostro: proprio quel
problema che più di ogni altro lo ha affaticato e messo in seria difficoltà.
"Ormai mi risultava anche evidente che le cose soggette a corruzione hanno un certo grado di
bontà; esse infatti non si corromperebbero se fossero il sommo bene, ma anche non potrebbero
corrompersi se non avessero qualche bontà: insomma se fossero il bene perfetto sarebbero
incorruttibili, se non fissero in parte buone, non ci sarebbe l'elemento della corruzione.
"La corruzione porta seco un danno, e, se non c'è perdita di bene, non c'è danno. Dunque, o la
corruzione non nuoce, il che è una contraddizione, o è certissimo che tutto ciò che si corrompe
subisce diminuzione di bene. Se poi le cose ne saranno private del tutto,, non esisteranno nemmeno:
perché, se esistono e non possono subire oltre privazione di bene, saranno migliori di prima,
sfuggite ormai alla corruzione. Ora, quale peggiore assurdo di dire che con la perdita di tutto il
bene sono diventate migliori?
"La totale privazione del bene dunque significa inesistenza, e, viceversa, l'esistenza suppone il
bene.
"Ma allora tutto ciò che esiste è buono, e il male, quel male di cui cercavo l'origine, non è sostanza,
perché se fosse sostanza sarebbe un ben: o sostanza incorruttibile, e sarebbe un grande bene; o
corruttibile, e quindi buona in quanto può perdere bontà.
"Così mi apparve con chiarezza che Tu hai fatto tutte le cose buone e che inoltre non esistono
sostanze che non siano state fatte da Te. Ma non le facesti tutte uguali, perciò in quanto esistono
sono tutte buone, e, nel loro complesso, ottime perché il nostro Dio «ha creato tutto in
perfezione»."
Tutto il creato, allora, canta le lodi di Dio (cap. XIII), e «non hanno la mente sana coloro ai quali
non piace qualche parte della tua creazione»: com'è appunto il caso dei manichei, che nel mondo
vedono il principio del Male (cap. XIV). Bellissimo, e di grande profondità teologica, è il brano in
cui Agostino descrive le cose come esistenti nello spazio e nel tempo, quasi raccolte nella mano di
Dio (cap. XV).
"Mi rivolsi poi a considerare le altre cose e vidi che da Te hanno il loro essere e in Te la loro
limitazione, non come in un luogo, ma molto diversamente, poiché Tu le racchiudi tutte nella verità,
come in una mano, e, in quanto esistono, sono tutte vere, né si ha falsità se non quando si crede
che esista ciò che non esiste.
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"E vidi pure che le cose non solo si accordano ciascuna con il proprio luogo, ma anche con il
proprio tempo, e che Tu, il solo Eterno, non hai incominciato ad operare dopo incalcolabili periodi
di tempo, perché i periodi di tutti i tempi, i passati e i futuri, non andrebbero e non verrebbero, se
Tu non operassi, eternamente stabile."
Tutte le cose, dunque, sono tanto più in armonia, quanto più si avvicinano al loro Creatore; e tanto
più in contrasto, quanto più se ne allontanano. Il Male non ha una vera consistenza ontologica, è
solo il frutto di un allontanamento della volontà da Dio; e Agostino lo chiarisce con una immagine
plastica dalla notevole forza drammatica (cap. XVI).
"Mi domandai che cosa fosse la malvagità: e trovai non una sostanza, ma il traviamento della
volontà dalla somma sostanza, da Te, o Dio, volontà ripiegantesi su ciò che vi è di più basso,
gonfiata al di fuori sotto la spinta delle sue interiora."
Questa tendenza delle cose a trovare in Dio la loro perfezione e a derivare la loro imperfezione
dall'allontanamento da Lui determina l'eterno conflitto tra la carne e lo spirito (cap. XVII). Si noti
peraltro che tutta questa parte, teologicamente molto bella ed efficace, è di pretto stampo
neoplatonico, tanto che potrebbe essere stata scritta benissimo da un Ammonio Sacca, da un Plotino
o da un Giamblico.
Quel che ancora tiene Agostino lontano dalla rivelazione piena della verità, è ancora l'orgoglio
intellettuale che gl'impedisce di essere umile: e solo con l'umiltà è possibile trovare Dio (cap.
XVIII). Anche un altro punto gli impedisce di riconoscere la verità: le incertezze e gli errori che
continua a nutrire nei confronti del dogma dell'Incarnazione. Se il Figlio di Dio si è fatto uomo, in
quanto uomo è stato soggetto ad una natura mutevole, il che non si concilia in alcun modo con la
perfetta stabilità della natura divina: questo è il nodo che ancora non riesce a sciogliere, accettando
l'idea di Cristo che è al tempo stesso vero Dio e vero uomo (cap. XIX). D'altra parete, l'assidua
lettura dei testi neoplatonici lo ha ormai familiarizzato con l'idea di una verità incorporea, che si può
conoscere per mezzo delle cose create (cap. XX). Perciò, quando da esse procede ad immergersi
nella lettura di san paolo, la rivelazione gli appare ormai vicinissima; nelle lettere dell'Apostolo egli
ritrova tutte le verità che la filosofia greca ha insegnato, e in più l'esaltazione commossa della grazia
divina (cap. XXI).
LIBRO OTTAVO
Anche l'ottavo libro si apre con una preghiera a Dio, e, subito dopo, con il rammarico per il fatto
che le lusinghe della carne ha ritardato così a lungo il momento, per Agostino, di spiccare il volo
verso il porto felice della fede (cap. I).
Recatosi a trovare Simpliciano, padre spirituale del vescovo Ambrogio, Agostino gli narra il suo
travaglio interiore e gli dice di aver letto alcuni testi platonici, tradotti dal greco in latino da
Vittorino. Simpliciano se ne compiace, poiché li reputa quelli che più di tutti suggeriscono un'idea
esatta di Dio e del Verbo; poi, avendo conosciuto personalmente Vittorino, ne narra la conversione
al cristianesimo, avvenuta in tarda età; racconto che colpisce fortemente Agostino, che vi vede
un'analogia con la propria situazione, e che sarà - insieme ai colloqui con Nebridio e alla lettura di
S. Paolo, uno dei fattori decisivi della sua stessa conversione (cap. II).
"Come raccontò Simpliciano, egli leggeva la santa Scrittura, faceva studi accuratissimi e
approfonditi sulle opere degli autori cristiani, e diceva a Simpliciano, non in pubblico ma segreto e
amichevolmente: «Sappi che io sono ormai cristiano». E l'altro rispondeva: «Non potrò crederlo,
né ti conterò tra i cristiani, se non quando ti avrò veduto nella chiesa del Cristo». E quello,
motteggiando, diceva: «Son dunque i muri che fanno cristiani?», e ripeteva spesso di essere già
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cristiano, e Simpliciano replicava allo stesso modo, ma Vittorino ritornava sulla facezia dei muri.
In realtà egli aveva timore di inimicarsi quei suoi amici superbi adoratori di demoni, e si aspettava
che dalle vette della loro boria babilonica, come da cedri del Libano non ancora schiantati dal
Signore, sarebbero ruinate su di lui gravi inimicizie. Ma quando dalla assidua lettura aspirò come
da fauci aperte la fermezza, e temette di essere rinnegato da Cristo davanti ai santi angeli se
temeva di confessarlo davanti agli uomini, si riconobbe grandemente colpevole di arrossire dei
misteri d'umiltà del tuo Verbo e di non arrossire dei riti sacrileghi dei superbi demoni da lui,
superbo imitatore, accolti; cessò di vergognarsi di fronte alla vanità, arrossì di fronte alla verità, e
improvvisamente, senza che si potesse pensarlo, disse a Simpliciano, come questi narrava:
«Andiamo alla chiesa; voglio farmi cristiano». E quegli, che non capiva più in sé per la gioia, ve lo
accompagnò. Non appena istruito nelle prime verità di fede, Vittorino fece tosto richiesta di essere
rigenerato nel battesimo. Roma ne fu meravigliata, la chiesa esultante. I superbi fremevano
vedendolo, digrignavano i denti e se ne struggevano; ma il servo tuo aveva posta la speranza nel
Signore Iddio, e non si rivolgeva a guardare vanità e pazze menzogne.
"Quando poi giunse il momento della professione di fede - che a Roma gli aspiranti alla tua grazia
sogliono fare a un luogo eminente, davanti a tutto il popolo dei fedeli, con una formula fissa
imparata a memoria - i sacerdoti, diceva Simpliciano, avevano fatto la proposta a Vittorino di
recitarla in privato, come si usa per quelli che si prevedono esitanti per timidezza; egli però scelse
di confessare quello che faceva la sua salvezza alla presenza ella santa folla: quella salvezza
8disse) non si trova nella retorica insegnata da lui, eppure ne aveva fatto professione davanti a
tutti; tanto meno doveva vergognarsi di pronunziare le parole tue al cospetto del tuo gregge
mansueto, egli non temeva le turbe insensate nelle parole sue? Quando dunque salì per fare la
professione tutti quelli che lo conoscevano - e chi non lo conosceva? -, gli uni e gli altri si
passarono il suo nome, con non represse voci di compiacimento. E risuonò in tutte le bocche
esultanti un mormorio: «Vittorino, Vittorino…». Improvvise furono le voci di gioia al vederlo, ed
improvviso il silenzio per ascoltarlo. Egli fece la sua professione di fede sincera con mirabile
franchezza, e tutti avrebbero voluto rapirselo nel loro cuore. Se lo rapivano infatti nell'amore e
nella gioia: tali erano le mani di quei rapitori."
Certo, in questo brano famoso vi è un elemento che urta inevitabilmente la nostra sensibilità
moderna: l'equiparazione degli dei del paganesimo ai demoni, la demonizzazione della religione
della religione pagana morente. Tuttavia bisogna pensare che, se le varie religioni antiche avevano
potuto convivere pacificamente nell'Impero Romano, salvo poche eccezioni (come il culto druidico,
messo fuori legge dal Senato), il cristianesimo rappresentava un po' l'eccezione alla regola.
Perseguitato a più riprese dal potere statale nell'arco di due secoli e mezzo, ora che era stato
legalizzato e si era conquistato una posizione preminente presso le due corti, quella milanese di
Valentiniano II e quella costantinopolitana di Teodosio il Grande, era pressoché inevitabile che
ripagasse di pari intolleranza i suoi ex persecutori, mettendosi sulla via che avrebbe visto, nel 390,
la messa fuori legge di tutti i culti pagani, oltre che delle numerose eresie cristiane (prima fra tutte,
l'arianesimo).
Poi Agostino prosegue affermando che più grande è lo stato di peccato dell'anima, tanto maggiore
sarà la gioia per la sua conversione (concetto che verrà sviluppato da Alessandro Manzoni ne Il
cinque maggio); infatti la conversione di un personaggio famoso funge da esempio per molti, come
fu nel caso dello stesso S. Paolo (cap. IV). La narrazione della conversione di Vittorino rafforza in
lui il desiderio di imitare quel grande filosofo, ma l'abitudine al piacere dei sensi lo scoraggia e lo
mantiene esitante (cap. V).Un altro stimolo potente alla conversione, comunque, viene da un altro
amico africano, Ponticiano, personaggio insigne perché funzionario di corte ed anche cristiano
fervente. Durante una visita in casa di Agostino, scorge le Epistole di S. Paolo, se ne congratula col
padrone di casa e narra un commovente esempio di conversione verificatosi in sua presenza
quand'era presso Treviri, in Germania. Due suoi amici, per l'esempio di alcuni santi monaci, di
punto in bianco avevano deciso di darsi completamente a Dio; e le loro rispettive fidanzate,
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saputolo, avevano voluto fare altrettanto. Anche il racconto delle vicende del santo monaco
Antonio, ritiratosi in eremitaggio nel deserto, già famoso nella sua terra ma ignoto ad Agostino,
colpisce quest'ultimo profondamente (cap. VI).
Tutti questi stimoli e questi esempi provocano in Agostino uno stato di forte turbamento e
insoddisfazione di sé, inducendolo a un impietoso bilancio della sua vita spirituale (cap. VII); la sua
contraddizione interiore è così forte da indurlo, nel corso di un tempestoso colloquio con Alipio, a
mostrare fortissimi segni esteriori di agitazione (cap. VIII). Sente la propria volontà come
paralizzata: vorrebbe gettarsi nel grande passo, ma una forza potente lo trattiene: da ciò un'angustia,
uno scoraggiamento, una tensione sempre più acuta. Agostino, in questo brano, è stato
probabilmente lo scrittore che meglio di tutti, prima di Petrarca, ha messo in luce la scissione
dell'anima davanti all'angoscia della scelta; oseremmo dire che la sua modernità risiede in un clima
di tipo "esistenzialista" ante litteram, nel senso - a noi familiare dopo Kierkegaard - che ben
descrive lo stato di angoscia dovuto alla possibilità della scelta e al dilemma lacerante posto dalla
libertà (cap. IX).
"L'anima comanda al corpo ed è immediatamente obbedita: l'anima comanda a se stessa e trova
resistenza. L'anima comanda alla mano di muoversi, e tanta è la docilità che ordine ed esecuzione
sono quasi simultanei: eppure l'anima è anima e la mano è corpo. L'anima comanda che l'anima
voglia. Non si tratta di due cose diverse: e non ubbidisce. Donde codesta stranezza, e perché?
Comanda, ripeto, che voglia quella facoltà che, se non volesse, non comanderebbe: e il suo
comando non è eseguito.
"Il fatto è che non vuole in modo assoluto; quindi non comanda in modo assoluto. Comanda per
quel tanto che vuole, e non è obbedita per quel tanto che non vuole; poiché la volontà comanda un
atto volitivo, ma non uno qualunque, bensì quello corrispondente ad essa stessa; cioè, non
comanda, in tutta la sua pienezza, perciò l'esecuzione manca. Se comandasse in pieno, non darebbe
in realtà un ordine, perché già sarebbe in atto. Non c'è dunque stranezza in questo volere o non
volere parzialmente; ma è debolezza dell'anima che non sa sollevarsi del tutto, spinta in alto dalla
verità, gravata in basso dall'abitudine. Due sono perciò le volontà, entrambe incomplete: l'una ha
ciò che manca all'altra."
Si tratta, però - ribadisce con forza Agostino - di due volontà, non di due anime, come vorrebbero i
manichei; l'anima, infatti, è una sola, e liberamente sceglie il male o il bene (cap. X). Segue un altro
capitolo di profondo e "modernissimo" scavo psicologico, nel quale l'Autore rievoca lo stato
perennemente conflittuale in cui si trovava in quell'epoca della sua vita (cap. XI), merita di
riportarne almeno un passo.
"Così, sempre ammalato e tormentato, accusavo me stesso più acerbamente del solito,
ravvoltolandomi ancora nella mia fune, finché non si spezzasse completamente: era ormai ben
assottigliata, ma pure mi teneva legato. E tu, o Signore, segretamente mi facevi pressione nella tua
severità e misericordia, e mi battevi con doppia sferza, la paura e il timore, affinché non mi si
lasciasse andare di nuovo e perché quel legame che ancora mi avvinceva, , ormai sottile e liso,
invece di spezzarsi del tutto, non riprendesse consistenza per avvilupparmi più strettamente.
"Mi ripetevo nel mio interno: «Subito, subito; bisogna farlo subito»; e già le parole mi avviavano
alla decisione, quasi ci arrivavo; e non ci arrivavo; non ripiombavo nelle condizioni precedenti, ma
dopo un piccolo sforzo mi fermavo come per riprendere respiro. Nuovi tentativi; la meta si faceva
sempre meno, sempre meno distante; già la toccavo, la tenevo in pugno: e non vi ero giunto, e non
l'avevo toccata, non la tenevo ancora, irresoluto a morire alla morte, a risorgere alla vita. E più
poteva il peggio diventato abitudine del meglio a cui non ero avvezzo; e quell'istante decisivo che
avrebbe fatto di me un altro uomo mi incuteva un senso di spavento tanto più profondo quanto più
si avvicinava. Però, almeno, non mi respingeva indietro, , non mi faceva deviare; ero come in
bilico."
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Ed ecco, finalmente - siamo nel386 - la crisi interiore giunge al culmine e all'inevitabile
scioglimento: è la famosa scena del tolle et lege, che migliaia di studenti hanno letto e meditato, e
che conserva ancor oggi, a millesettecento anni di distanza, un suo fascino particolare e
assolutamente inconfondibile (cap. XII).
"Quando infine dalle misteriose profondità del cuore una severa meditazione ebbe spurgata ed
ammucchiata davanti alla mia visione interiore tutta quanta la mia miseria, scoppiò una fiera
procella apportatrice di un profluvio di pianto. E, per dare libero sfogo ad esso e ai singhiozzi che
lo accompagnavano, mi alzai e, poiché la perfetta solitudine mi pareva più adatta al bisogno di
piangere, mi allontanai da Alipio quel tanto che mi rendesse non grave la sua presenza.
"Così ero. Ed egli ne ebbe l'intuizione: credo anche di aver detto qualche cosa che tradiva nel
suono della voce il nodo del pianto; e così mi ero alzato. Egli rimase là dove eravamo stati seduti,
profondamente stupito. Io mi gettai a terra, non so come, sotto un albero di fico, lasciai libero
corso al pianto, che proruppe a guisa di torrente dagli occhi, accetto tuo sacrificio. E parlai, parlai
a lungo, non proprio con queste parole, ma certo con questi sentimenti: «E Tu,, Signore, fino a
quando? Quando, o Signore, avrà fine la tua collera? Oh, dimentica i miei peccati antichi!».
Sentivo di essere ancora legato. Mandavo gemiti imploranti pietà: «Fino a quando, fino a quando:
domani, domani? Perché non subito? Perché in questo stesso istante non finirla con la mia
vergogna?».
"Parlavo e piangevo, gonfio il cuore di amarissima contrizione. Ed ecco dalla casa vicina mi
giunge canterellata una voce - di bambino o di bambina, non so - che ripeteva a guisa di ritornello:
«Prendi, leggi; prendi, leggi». Di colpo, il volto si muta; e il mio pensiero va ricercando
attentamente se quella sia una delle cantilene che i fanciulli sogliono ripetere in qualche loro
giuoco; ma non rammento affatto di averla già udita. Frenai il corso delle lagrime, mi alzai, sicuro
che quella voce non era altro che un ordine del cielo di aprire il libro e di leggere il primo capitolo
che mi capitasse sotto gli occhi. Avevo poco prima sentito raccontare di Antonio che da una lettura
del vangelo a cui per caso assisteva, come se fosse stata indirizzata a lui personalmente, aveva
ricevuto l'invito: «Va', vendi tutto quello che hai, distribuisci ai poveri e avrai un tesoro nel cielo;
poi vieni e seguimi», che era stato istantaneamente convertito a Te da quella parola divina.
"Pertanto, tutto eccitato, ritornai là dove Alipio stava seduto, e dove avevo posto il volume
dell'Apostolo nell'atto di alzarmi. Lo afferrai, lo apersi, e, in silenzio, lessi il primo versetto che mi
cadde sotto gli occhi: «Non nella crapula e nell'ubriachezza, non nelle impudicizie del letto, non
nella discordia e nell'invidia. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo, e non prendetevi cura
della carne nelle concupiscenze» (Rom., XIII, 13-14). Non volli leggere altro, né altro occorreva.
Subito, appena finito il versetto, come per una luce rassicurante infusa nel mio spirito, tutte le
tenebre dell'incertezza scomparvero. Chiusi allora il libro, tenendovi il dito o non so quale altra
cosa come segno, e con volto ritornato sereno ormai del tutto, misi al corrente Alipio. Questi alla
sua volta mise me al corrente di quello che si stava svolgendo in lui, del che io non mi ero accorto,
in questo modo: volle vedere il brano che avevo letto, ed io glielo mostrai: ma egli pose mente
anche più in là di quello che io avevo letto e che ancora ignoravo. Seguivano queste parole. «Se poi
qualcuno è debole nella fede, porgetegli la mano». Queste egli applicò a se stesso, e me lo disse.
Ma un tale ammonimento servì a confermarlo in quella santa risoluzione che, del resto, era
pienamente conforme ai suoi costumi nei quali era tanto e da tanto tempo migliore di me: mi si unì,
così, senza alcuna esitazione e senza lotte interne.
"Rientriamo in casa, alla madre: gliene do l'annuncio; ella ne gioisce. Al racconto
particolareggiato, esulta come di un trionfo ed innalza benedizioni a Te, «che nel tuo operato vai
tanto oltre le nostre richieste e la nostra visuale»; vedeva bene che Tu le avevi concesso nei miei
riguardi assai più di quanto soleva chiederti tra gemiti e pianto. Mi avevi infatti così convertito a
Te, che io non pensavo più a cercarmi una moglie, né ad altre speranze mondane, saldo in quella
regola di fede in cui le ero stato mostrato da Te tanti anni prima. Tramutasti il suo dolore in una
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gioia ben più intensa di quella che aveva desiderato ,più dolce e più casta di quella che si sarebbe
potuta aspettare da nipoti nati dalla mia carne."
LIBRO NONO
Il libro nono si apre con un ringraziamento a Dio che ha atteso pazientemente Agostino fino a che
questi è stato in grado di scorgerne la luce; tutta l'opera, del resto, è pervasa da questo profondo
sentimento della vicinanza di Dio e della sua provvidenza infinitamente misericordiosa, che si
rivolge personalmente a ciascun essere umano e che, pur rispettandone la libertà morale, lo indirizza
in ogni maniera possibile verso la pace del ritorno a Lui (cap. I).
La conversione definitiva segna un radicale mutamento nella vita del Nostro. Tutti i suoi precedenti
progetti gli appaiono ormai superati dalla nuova, gioiosa realtà della fede, cui vuole dedicarsi
interamente, con quello slancio e con quell'ansia di assoluto che sempre aveva caratterizzato ilsuo
temperamento. Per prima cosa, decide perciò di rinunciare all'insegnamento: vuota gli appare la
retorica di cui si è finora nutrito, che chiama sdegnosamente "mercato di chiacchiere" e non
confacente alle sue nuove scelte di vita la professione d'insegnante (cap. II). In un certo senso, a
guidarlo non è solo la volontà di rompere con le cose profane per dedicarsi anima e corpo all'ideale
di vita cristiano, ma anche la decisione di rompere senza alcun margine di ambiguità con tutta la
cultura tradizionale di cui è imbevuto, e che riflette non solo la matrice pagana delle sue concezioni
(dalla mitologia alla letteratura, dall'arte alla scienza), ma anche l'esteriorità e la vanità di un
progetto di vita tutto incentrato sul successo mondano, sul cursus honorum, sull'ammirazione altrui.
Si tratta di far morire l'uomo vecchio e di far nascere l'uomo nuovo, per usare un linguaggio
paolino; e, per rendere ciò possibile, nessun compromesso con il precedente stile di vita può essere
tollerato. In un certo senso, quello che Agostino ha scoperto e deciso di vivere in prima persona è il
radicalismo evangelico: cioè l'ideale cristiano visto non già come una concezione che si aggiunge
alle altre, sia pure per sostituirle, ma come una globalità di indirizzi e di scelte, che rifiutano la
mediazione con il quietismo di una fede puramente esteriore, per incidere nella carne viva di un
rigoroso esercizio di coerenza.
Insieme alla madre e agli amici più cari Agostino si ritira in una villa appartenente a Verecondo
nell'agro di Cassiciaco (forse presso Varese, forse in Brianza), per trascorrervi un periodo isolato
dal mondo, in raccoglimento e in preghiera (cap. III). Si tratta di un ritiro estremamente fecondo dal
punto di vista dei progressi spirituali, durante il quale il Nostro si dedica intensamente alla lettura
delle Scritture, alla meditazione, al colloquio costante con Dio: l'anima tutta rapita nella nuova,
inebriante felicità, come l'innamorato che finalmente si è ricongiunto alla sua amata. È uno dei
capitoli più lunghi di tutte le Confessioni, e l'autore, come sempre, dimostra una magistrale capacità
di descrivere la mescolanza dei sentimenti e degli stati d'animo, come un cielo tempestoso subito
dopo la pioggia, quando si squarcia per lasciar filtrare la luce del sole (cap. IV).
Dopo aver rassegnato formalmente le dimissioni dalla scuola milanese in cui esercitava la
professione di docente (cap. V), Agostino abbandona il ritiro campestre e rientra in città,
accompagnato dall'inseparabile Alipio e dal figlio Adeodato, orami ragazzo quindicenne. Insieme al
figlio, riceve il battesimo dalle mani di S. Ambrogio, nella notte di pasqua (fra il24 e il25 aprile) del
387 (cap. VI). A Milano, è un momento difficile per i cattolici, poiché l'imperatrice Giustina, madre
di Valentiniano II e protettrice degli ariani, ha ingaggiato un duello serrato con il vescovo
Ambrogio. Tuttavia la massa dei milanesi rimane fedele all'ortodossia, e la sua fede è rinvigorita
dalla scoperta, compiuto da Ambrogio, delle reliquie dei due famosi santi martiri Gervasio e
Protasio (cap. VII).
Agostino ha deciso di ritornare in Africa, per ritirarsi a vita monastica; parte da Milano e orna a
Roma: ma ad Ostia, in attesa dell'imbarco, muore la madre Monica. Pagine affettuosissime sono
dedicate alla rievocazione dell'infanzia di lei, preludio a una delle parti più belle delle Confessioni.
(cap. VIII). Il figlio, infatti, tesse per lei uno dei più alti elogi che siano mai stati fatti alle virtù della
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propria madre, a cominciare da quelle di sposa fedele, paziente, capace di portare alla conversione
anche il focoso e forse rozzo marito (cap. IX). Poco prima ella morte di lei, madre e figlio hanno
conosciuto, insieme, un momento di vera e propria estasi religiosa, rievocato con mano sicura in un
celebre passo dell'opera.
"Quando già era vicino il giorno della sua dipartita - Tu lo conoscevi quel giorno, a noi rimaneva
ignoto -, avvenne, credo per occulta disposizione delle tue vie, che ci trovassimo soli, ella ed io,
affacciati ad una finestra aperta sul giardino interno della casa dove abitavamo presso Ostia, alle
foci del Tevere, e dove, lontani dal chiasso, dopo le fatiche del lungo viaggio, ci si rimetteva in
forze per la navigazione. Parlavamo tra noi soavissimamente, e, dimentichi del passato e volti
all'avvenire, ci domandavamo, sempre al cospetto della Verità, ossia di Te, quale sarà mai quella
vita eterna dei Beati, che «nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla
mente umana». La bocca del nostro cuore si apriva avida al fluire celeste della tua fonte, della
fonte di vita che è in Te, per esserne un poco, quanto era possibile alla nostra intelligenza, irrorati,
sì da riuscire a formarci un'idea di tanta sublimità.
"Giunti a una prima conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior
splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno
nominato, ci rivolgemmo con maggiore intensità d'affetto verso l'Ente in sé, ripercorrendo a poco a
poco tutte le creature materiali, fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle piovono la loro luce
sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nella
enumerazione, nell'ammirazione delle tue opere; e giungemmo al pensiero umano, e passammo
oltre, per raggiungere gli spazi della inesauribile ubertà ove Tu pasci eternamente Israele con il
cibo della verità, dove vita è la sapienza che dà l'essere a tutte le cose, alle passate e alle future ed
essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi, meglio, non esiste in lei un «fu»,
un «sarà», ma solo l'«è», perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all'eternità. Parliamo,
aneliamo ad essa, ed ecco, la sfiorammo un poco in uno slancio del cuore; e con un sospiro vi
lasciammo avvinte le «primizie dello spirito» (Rom., VIII, 23) per ridiscendere al suono delle nostre
voci, dove la parola ha inizio e dove si esaurisce. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo
Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (…)
"Questo dicevamo, anche se non in tal modo e non con tali parole; ma Tu, o Signore, sai pure che
in quel giorno, dopo quei discorsi, quando già questo mondo con tutti i suoi allettamenti era
diventato spregevole, ella disse: «Figlio, per conto mio nulla più mi attrae in questa vita. Che cosa
io mi faccia qui, perché ancora vi rimanga, non lo so : ogni mia speranza in questo mondo è
compiuta. Una cosa sola mi faceva desiderare si vivere ancora un poco: vederti cristiano cattolico
prima di morire. Iddio mi ha dato anche più del mio desiderio, perché ti vedo diventato suo
servitore, nel disprezzo della felicità terrena. Che faccio, qui?».
Scrive Augusto Serafini (nella sua Storia della letteratura latina, Torino, S.E.I., 1966, p. 445): «È
una pagina sublime, tra le più alte che occorrano nell'universa letteratura. Forse solo Dante nel
Paradiso è riuscito ad esprimere in modo così alto questo interiore innalzamento della creatura
verso il Creatore: questo riverbero della patria celeste».
Subito dopo, Monica si mette a letto con la febbre e, nel corso della malattia, chiede di essere
seppellita lì ad Ostia, e dopo otto giorni chiude gli occhi per sempre, assistita da Agostino e
dall'altro suo figlio, Navigio (cap. XI). Una immensa angoscia piomba sul cuore del Nostro, resa più
acuta dalla consapevolezza della commovente dedizione con cui sua madre lo aveva seguito, anche
se in parte mitigata dalla consolazione di saperla rasserenata dalla conversione di lui (cap. XII).
Nell'ultimo capitolo Agostino innalza per sua madre una bellissima preghiera, che è, anch'essa, una
delle pagine più notevoli della letteratura religiosa di tutti i tempi, della quale vogliamo riportare
almeno una parte (cap. XIII).
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"So che ella su sempre misericordiosa, rimettendo di tutto cuore i debiti ai suoi debitori: anche Tu
rimetti a lei i suoi, se ne contrasse qualcuno in tanti anni dopo l'acqua salutare. Condona, Signore,
condona, Te ne supplico: non venire a giudizio con lei: la misericordia prevalga sulla giustizia,
perché la Tua parola non inganna e Tu hai promesso misericordia ai misericordiosi. Fu dono tuo
se lo furono, e Tu usi pietà con chi ti piacque aver pietà, e misericordia con chi ti piacque esser
misericordioso.
"Io credo che Tu abbia già esaudito la mia preghiera: accetta ad ogni modo l'omaggio volontario
delle mie labbra, o Signore.
"Riposi dunque in pace con il marito: né prima né dopo di lui ebbe altro sposo, e a lui fu
sottomessa con pazienza, offrendone a Te il frutto per guadagnare a Te lui pure e Tu o mio Signore
e mio Dio, inspira ai tuoi servi, miei fratelli, ai tuoi figli, miei padroni a cui io servo con il cuore,
con la voce, con gli scritti, a tutti quelli che leggeranno queste pagine, inspira di ricordarsi davanti
al tuo altare della tua serva Monica e di Patrizio che fu suo sposo, per la carne dei quali Tu mi
facesti entrare in questa vita, come, non lo so. Ricordino con pio affetto coloro che furono miei
genitori in questa vita transeunte, che sono ora miei fratelli per la tua paternità comune nella
madre cattolica, e saranno concittadini miei nella Gerusalemme eterna a cui sospira il tuo popolo
pellegrinante dal momento della partenza a quello del ritorno; così che quanto ella per ultima cosa
richiese da me, le sia offerto con maggiore abbondanza, attraverso queste Confessioni, dalle
preghiere di molti che non dalle mie sole."
LIBRO DECIMO
Gli ultimi quattro libri delle Confessioni sono, praticamente, in parte di filosofia pura (il decimo e
l'undicesimo), in parte di esegesi biblica (il dodicesimo e il tredicesimo); il racconto autobiografico
è praticamente terminato. Sono anche molto più lunghi dei precedenti (il decimo, ad esempio,
comprende quarantatré capitoli), pertanto da qui in poi abbandoneremo il metodo seguito finora, di
analizzare ogni singolo capitolo, per trattare di questi quattro libri in generale.
Nel decimo libro, Agostino espone il cammino dell'anima per giungere fino a Dio; quindi analizza
le facoltà umane a partire dalla memoria, su cui scrive delle pagine memorabili; infine tratta delle
concupiscenze della carne (voluttà, intemperanza, odorato, udito, vista) e dello spirito (vana
curiosità, superbia, compiacimento della lode, orgoglio) e conclude sostenendo che è indispensabile
un mediatore tra l'infinità di Dio e la piccolezza umana, e che tale, unico mediatore è Gesù Cristo,
ossia il Verbo incarnato. Di particolare interesse, dal punto di vista psicologico e autobiografico,
sono i capitoli III e IV, nei quali Agostino spiega quali ragioni lo abbiano spinto a confessarsi agli
uomini: fornire un esempio di speranza nella infinita misericordia di Dio e mostrarsi con radicale
sincerità quale egli è veramente, senza nulla omettere, per soddisfare alla curiosità dei buoni e
confortarli con la testimonianza della bontà divina. Nel capitolo V egli si mostra consapevole
dell'estrema difficoltà dell'impresa, per il fatto che è cosa assai difficile perfino conoscere sé stessi;
concetto esposto con molta acutezza nel cap. V.
"Tu, invece, o Signore, porti giudizio su di me; se «nessun uomo sa ciò che riguarda l'uomo tranne
lo spirito che è dentro lui», e tuttavia vi è qualcosa dell'uomo che rimane ignorato anche dallo
spirito che è dentro lui, Tu, o Signore, suo fattore, ne conosci ogni particolare. Io, poi, pur
disprezzandomi davanti a Te e considerandomi terra e cenere, conosco però qualcosa di Te che
ignoro di me. Certo, la nostra visione di Te, ora, è «come in uno specchio e per enigmi, non ancora
a faccia a faccia» (Cor., XIII, 12); perciò fino a che me ne vo pellegrinando lontano da Te sono
presente più a me che a Te: so però che niente ti può contaminare, mentre non so proprio a quali
tentazioni io sia in grado di resistere e a quali no. Ma Tu sei di parola, e quindi nutro speranza che
non permetterai tentazioni che siano al di sopra delle nostre forze, ma ci manderai con la
tentazione la via d'uscirne, sì che ci sia possibile sostenerla.
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"Confesserò dunque quello che so di me: confesserò anche quello che non so: poiché quello che so
di me lo so dalla tua luce, quello di me che non conosco debbo ignorarlo sino a che le mie tenebre,
nella visione del Tuo volto, diventeranno «come luce di mezzogiorno».
Una sintetica ma chiara ed efficace valutazione complessiva del libro decimo è contenuta nel
Dizionario delle opere filosofiche (a cura di Franco Volpi, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2000,
pp. 7-9), e si deve alla penna di C. Mohrmann:
"Di particolare interesse è il libro X, in cui è analizzata la memoria, che viene concepita come un
ricettacolo in cui si trovano celati «i tesori delle innumerevoli immagini portate dalla percezione».
Per la precisione, la memoria contiene sia le immagini delle cose impresse nello spirito (ovvero le
immagini degli oggetti percepiti dai sensi, ma anche il ricordo di sé e i risultati delle operazioni di
composizione e di scomposizione delle immagini medesime), sia le cose stesse, irriducibili alle
immagini. La coscienza di sé si realizza nell'uomo in virtù della memoria, che unisce il passato al
presente e consente altresì, partendo dal presente, di progettare le azioni future: dunque, la
memoria colloca nella dimensione del presente tanto l'esperienza del passato quanto l'attesa
dell'avvenire. È la sua permanenza a rappresentare la condizione di ogni azione umana. Il suo
compito peculiare consiste, in ogni caso, nell'acquisizione del sapere intellettuale, nel quale
Agostino distingue l'elemento sensibile (per esempio un suono di cui la memoria conserva
l'immagine) e l'oggetto stesso del sapere, che non si apprende mediante i sensi e che, di
conseguenza, non può venire dall'esterno. I contenuti conoscitivi sono originariamente presenti nel
cuore e nella parte più oscura e remota della memoria: qui, si trovano in una condizione di
dispersione e di disordine. Attraverso la riflessione, la memoria li scopre, li ordina e li mette a
propria disposizione: è precisamente questo il sapere. L'analisi agostiniana della memoria si
colloca in una prospettiva teocentrica, in quanto costituisce una tappa della ricerca di Dio, che è
anche ricerca della vita felice. Il santo di Tagaste si domanda, infatti, se «se la vita felice si trovi
nella memoria, e risponde affermativamente, in quanto la vita felice per l'uomo consiste nel
godimento di Dio, e Dio si trova nella memoria."
Vi è dunque una progressione, nel movimento che l'anima compie per avvicinarsi a Dio, che parte
dalla percezione delle cose sensibili, le oltrepassa per giungere alla memoria e alle idee astratte
(compresi gli enti della matematica, ad esempio i numeri) e poi deve procedere ancora oltre: la
memoria, infatti - avverte Agostino - non è sufficiente per giungere alla contemplazione di Dio.
Pagine illuminanti ha scritto il Nostro a proposito di questo senso del limite delle facoltà
intellettuali nella ricerca del divino, e sulla necessità di ricordare quello che coi sensi abbiamo
smarrito, ma conservato nel ricordo; pagine nelle quali è evidente anche l'influsso del pensiero
neoplatonico (capp. XVII e XVIII). Ma la facoltà della memoria si collega direttamente con l'umana
aspirazione alla felicità; ma solo Dio è felicità, ed è anche verità; dunque, la felicità coincide col
raggiungimento della verità (capp. XX-XXIII). Iddio è nella memoria, ed è lì che lo possiamo
ritrovare in ogni momento, dopo averne avuto la rivelazione (cap. XXIV).
"Ecco quanto sono andato spaziando nella mia memoria, per cercarti, o Signore; e fuori di essa
non ti ho trovato, ché anzi non vi ho trovato nulla di Te che io non ricordassi dal momento in cui
imparai a riconoscerti. Da quel momento in cui cominciai a conoscerti, non ti ho mai dimenticato.
Dove ho trovato la verità, ho trovato anche il mio Dio, la verità stessa, e da quando la conobbi non
la dimenticai. Perciò Tu sei fisso nella mia memoria dal momento in cui ti ho conosciuto: ivi ti
trovo, quando mi ricordo di Te, quando cerco la mia gioia in Te.
"Queste sono le mie sante delizie, e tu me le hai donate quando, nella tua misericordia, riguardasti
la mia povertà."
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LIBRO UNDICESIMO
Gli ultimi tre libri delle Confessioni, dall'undicesimo al tredicesimo, svolgono una meditazione sul
primo libro del Genesi.
Nel libro undicesimo, dopo aver rivolto una preghiera a Dio perché ci conceda l'intelligenza delle
Sacre Scritture, svolge una riflessione approfondita sul primo versetto del Genesi, sulla parola
creatrice (cap. V) e sulla parola creata (cap. VI). La parola creatrice è il Verbo, e il Verbo è maestro
di verità e parla agli uomini (capp. VII-IX). Poi Agostino si chiede se la reazione implichi
mutamento, e risponde alla domanda in modo negativo, poiché essa si colloca al di fuori del tempo
(capp. X-XI). E alla domanda che cosa facesse Dio prima della creazione, con una buona dose di
coraggio intellettuale Agostino risponde che non faceva nulla: infatti, «se avesse fatto qualche cosa,
che cosa poteva essere se non una creatura?» (cap. XII). Viene quindi sviluppata la riflessione
filosofica sulla natura del tempo, che è una dimensione propria delle cose create (capp. XIII-XIV):
non si può dire, pertanto, che vi sia stato un tempo in cui Dio era inoperoso (prima della creazione),
perché Dio è fuori del tempo.
"Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne
chiede, non lo so; eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non
esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non
vi sarebbe un presente.
"Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non
esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre
presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente,
perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua
condizione all'esistenza è quella di cessare dall'esistere, se cioè non possiamo dire che in tanto il
tempo esiste in quanto tende a non esistere?"
Passato e futuro esistono (cap. XVII), ma si può misurare solo il presente (capp. XVI e XXI),
benché esso non abbia alcuna estensione, come del resto il punto geometrico
"Come si può però misurare il tempo presente che non ha estensione? Lo misuriamo appunto
quando passa: quando poi è passato, non si misura più, non essendovi una entità da misurare. Ma
quando lo misuriamo, donde viene, per dove passa, donde va? Donde? Ma dal futuro; per dove?
Ma nel presente; dove? Nel passato! Ossia: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha
spazio, in ciò che non esiste più."
Ricorriamo ancora all'aiuto di C. Mohrmann per delineare i tratti essenziali di questo undicesimo
libro delle Confessioni, nel quale Agostino ha svolto alcune delle più originali riflessioni che siano
mai state fatte sulla natura del tempo, unendo alla profondità e alla originalità una straordinaria
chiarezza espositiva e, non ultimo pregio, un profondo senso di umiltà di fronte al mistero della
realtà in cui siamo immersi, mistero di fronte al quale dobbiamo riconoscerci profondamente
ignoranti e ricorrere all'aiuto di Dio perché illumini la nostra intelligenza delle cose.
"nel libro XI, Agostino svolge una fondamentale analisi del tempo. Egli dimostra la necessità di far
ritorno dal tempo 'esterno', che costituisce l'orizzonte delle realtà sensibili, all'esperienza
temporale 'interna'. Il tempo si riduce, in sostanza, all'istante, che è insieme reale e irreale. Il
singolo istante può essere fissato e collegato con tutti gli altri soltanto se la coscienza, come
ricordo del , contemplazione del presente e attesa del futuro, si distende e contemporaneamente si
raccoglie in unità Il tempo è dunque fondamentalmente tempo interno, vale a dire 'distensione
dell'animo' («distensio animi»). Ora, il dispiegarsi nella molteplicità («distensio») presuppone la
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raccolta nell'unità («intentio»), e quest'ultima è possibile soltanto attraverso la relazione con
l'eternità («aeternitas»), mediata dalle idee."
LIBRO DODICESIMO
"Il tema del rapporto tra tempo ed eternità - prosegue C. Mohrmann - è il ponte per affrontare
quello della creazione, che viene trattato in forma esegetica nei due libri conclusivi, il XII e il XIII.
In particolare, Agostino cerca di chiarire i presupposti ontologici della creazione dal nulla
(«creatio ex nihilo»). Soltanto a Dio, nonché alla Sua parola, spetta il carattere dell'essere
(«esse»). A esso si contrappone il nulla («nihil»). Come va concepita, allora, la creazione? A
giudizio di Agostino, la si deve immaginare secondo una certa scansione: innanzitutto Dio ha
creato le forme ideali («formae») e in pari tempo la materia ,che è invece assenza di forma
(«informitas»). Le idee vanno considerate come qualcosa di vero e dunque di esistente, mentre la
materia,in quanto pura potenza, è un 'quasi niente' («paene nihil»). L'incorporarsi delle idee nella
materia genera quella realtà empirica , strutturalmente caratterizzata dalla contingenza e dalla
mutevolezza, che possiede uno statuto ontologico ambiguo. Tale realtà, infatti, può essere
caratterizzata come un «qualcosa-nulla»,o come ciò che «è-non è» ".
Ad ogni modo, per poter interpretare correttamente la Sacra Scrittura è necessario, secondo
Agostino, armarsi dello spirito di carità: «carità che nasce da un cuore puro, da una coscienza
retta, da sincerità di fede»(cap. XVIII). Non con orgoglio umano e con spirito di malizia, per
cogliere eventuali contraddizioni in chi cerca d'interpretarla, ma con umiltà e fiducia in Dio occorre
accostarsi alle Scritture: che, essendo il libro della Verità, parlano all'uomo a dispetto della
inadeguatezza del suo intelletto. In definitiva, la Bibbia parla solo a coloro che la leggono con
purezza di cuore e con giusta disposi<zione di spirito; altrimenti il significato profondo delle sue
parole rimane inaccessibile alla presunzione degli uomini.
LIBRO TREDICESIMO
Nell'ultimo libro delle Confessioni l'Autore commenta le varie fasi della creazione, sempre
seguendo il racconto del Genesi (attribuito a Mosé): la creazione della luce, lo Spirito sulle acque, il
firmamento, la separazione delle acque e della terra asciutta, gli astri del cielo, i frutti viventi della
erra e delle acque, l'anima vivente, l'uomo e l'ordine ricevuto da Dio di moltiplicarsi .Infine svolge
una riflessione sulla bontà che ha presieduto al mistero della creazione e sul riposo di Dio, a
creazione terminata.
In particolare, Agostino sottolinea il fatto che l'uomo è stato creato a immagine e somiglianza di
Dio, dunque come uomo spirituale (cap. (cap. XXII); che ogni cosa creata è intimamente buona,
perché pervasa dallo spirito di Dio (cap. XXXI); che l'intero Universo è retto da una profonda,
meravigliosa armonia (cap. XXXII).
L'ultimo capitolo, il XXXVIII, chiude le Confessioni con una toccante riflessione sul grande
mistero della vita eterna.
"Noi per ora vediamo le cose che Tu hai atte perché esistono; ma esse esistono perché Tu le vedi;
noi vediamo con i sensi che esistono, con la riflessione che sono buone. Tu invece le vedesti atte là
dove vedesti che erano da fare.
"Ed io in un tempo posteriore fui spinto al en fare, quando il mio core concepì dal tuo Spirito; ma
in un tempo precedente fui portato al male e ad abbandonar Te. Tu, però ,o Dio tutta bontà, non
cessasti mai di bene operare. Anch'io ho compiuto alcune opere buone, per dono della tua grazia,
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ma non sono eterne: dopo, io spero di trovare riposo nella tua grande virtù santificante. Tu, invece,
Bene a cui non occorre altro bene, sei in perenne quiete, perché Tu stesso sei la tua quiete. "Qual
uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo ad un angelo? Quale angelo ad un
uomo? A Te si chieda, in Te si cerchi, si batta alla tua porta: così, così ci sarà dato, così troveremo,
così ci verrà aperto."
Francesco Lamendola