Post on 10-Aug-2015
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA
FACOLTA’ DI PSICOLOGIA
LO SVILUPPO LINGUISTICO E LA COMPETENZA NARRATIVA IN ETA’ PRESCOLARE
Relatore:Chiar.ma Prof.ssa DOLORES ROLLO
Correlatore:Chiar.ma Prof.ssa ANNALISA PELOSI
Laureanda:FEDERICA SASSI
1
Anno accademico 2005-2006
miei genitoriA mio zio Carlo
1
....Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla
geografia, alla storia, all’aritmetica e alla grammatica. Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe
potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore (...) I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini
si stancano a spiegargli tutto ogni volta.
(Antoine De Saint-Exupery, « Il piccolo principe »)
1
RINGRAZIAMENTI
Non è facile ringraziare tutti quelli che in questi anni mi hanno aiutata ad
arrivare “fino a qui”.
Vorrei iniziare però dai miei genitori.. le persone più importanti nella mia
vita, che mi hanno sempre sostenuta e aiutata, anche quando sbagliavo...
senza di loro penso che non ce l’avrei mai fatta.
Grazie a Juri che in tutti questi anni ha sopportato le mie crisi “pre esame”.
Ringrazio le mie amiche, le miei dolci e grandi amiche.. Sara, Vale, Franci,
Cri, Eli D.,Truli, Ila e Eli L.... Senza la vostra amicizia la mia vita sarebbe
vuota.
Grazie al mio compagno di studio e grande amico Alex, che ha reso più
“sopportabili” le nostre giornate di studio.
Poi ringrazio mio zio Carlo.. senza di te non avrei mai iniziato questo
percorso. La mia tesi la dedico principalmente a te.. purtroppo non puoi
vedermi, non puoi vedere la mia felicità, il mio traguardo, ma so che se tu
fossi qui, saresti molto fiero della tua “Chicca”.
Un piccolo pensiero a mio nonno... questa mia laurea penso sarebbe stata la
sua gioia più grande.
Grazie alla “mia” Prof. Dolores Rollo per la sua disponibilità in ogni
momento.
Grazie a tutti i miei amici della “biblio” che hanno allietato le mie lunghe
giornate di studio.
Direi di non aver dimenticato nessuno..
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Indice dei contenuti
Prima parte
Quadro teorico di riferimento
Introduzione 15
Capitolo 1 Dalla comunicazione prima del linguaggio al
primo sviluppo linguistico
21
1.1 Lo sviluppo prelinguistico 21
1.1.1 Prima del linguaggio 23
1.1.2 Il gesto di indicare 25
1.2 Lo sviluppo lessicale 27
1.2.1 L’adulto può influenzare il bambino attraverso
il suo modo di parlare?
27
1.2.2 Ritmo di acquisizione 28
1.2.3 Stili di acquisizione 29
1.3 Lo sviluppo fonologico 31
1.4 Lo sviluppo semantico 33
1.5 Lo sviluppo morfosintattico 35
1.6 La valutazione dello sviluppo 40
1.6.1 La misura della complessità 40
1.6.2 L’età di acquisizione 42
1.6.3 I principali metodi di studio per la
valutazione dello sviluppo morfologico
43
1.7 Le competenze pragmatiche e la comunicazione
referenziale
45
1
1.7.1 La comunicazione referenziale 47
1.7.2 Produzione e comprensione 48
1.7.3 Valutazione delle abilità comunicative
referenziali
50
Capitolo 2 Il pensiero narrativo e l’attività del
raccontare
55
2.1 Pensiero narrativo vs pensiero paradigmatico 56
2.2 La competenza narrativa 57
2.2.1 Molteplicità di generi narrativi 57
2.2.2 Fattori che influenzano lo sviluppo della
competenza narrativa
61
2.2.3 Tante abilità per raccontare 62
2.2.4 La comprensione della soggettività 64
2.3 Intrecci possibili tra teoria della mente e
linguaggio
66
2.4 Leggere e raccontare insieme un libro illustrato 68
2.4.1 Bambini e adulti raccontano insieme 68
2.4.2 Bambini e coetanei: leggere e raccontare
insieme
71
2.5 Gioco simbolico: rapporti con la narrazione e il
linguaggio in età prescolare
73
Capitolo 3 Il lessico psicologico 77
3.1 I precursori delle conoscenze psicologiche 77
3.2 Le origini del lessico psicologico 78
3.3 Le componenti del lessico psicologico 79
3.4 Contesti comunicativi e lessico psicologico 80
1
Capitolo 4 La narrazione nei bambini con sviluppo
atipico
87
4.1 Aspetti strutturali della narrazione 90
4.2 Morfologia e complessità frasale 94
4.3 Cognizione ed emozione 97
Seconda parte
La ricerca
Capitolo 5 Sviluppo linguistico, competenza narrativa e
produzione di lessico psicologico
103
5.1 Metodo 104
5.1.1 Obbiettivi ed ipotesi della ricerca 104
5.1.2 Partecipanti 106
5.1.3 Disegno della ricerca 108
5.2 Le fasi della ricerca. Materiali e procedure 108
5.2.1 Fase 1-Il linguaggio 108
5.2.2 Fase 2-Narrazione di un libro illustrato 110
Capitolo 6 I risultati della ricerca 115
6.1 TVL e valutazione dello sviluppo linguistico 115
6.2 Produzione di lessico psicologico 121
6.3 La competenza narrativa nella produzione di
racconti
125
6.4 Il bambino DSL e il bambino Down 129
Capitolo 7 Discussione dei risultati 133
1
Bibliografia 139
Appendici:
- Libro illustrato impiegato nel corso della prima fase della ricerca
- Esempi di storie raccontate dai bambini
- Il Test di Valutazione del Linguaggio (Cianchetti, Sannio Fancello,
1997). Protocollo di valutazione.
2
PRIMA PARTE
QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO
2
2
Introduzione
Il linguaggio è un sistema comunicativo di straordinaria complessità (Camaioni, 2001).
Uno dei temi di maggior interesse per la psicologia dello sviluppo è il
linguaggio. La cultura entra nella mente individuale per mezzo del linguaggio
e grazie al linguaggio il sè individuale introduce elementi pluralistici. Il
bambino per imparare ad utilizzare il sistema linguistico deve:
Analizzare e segmentare i suoni linguistici che ascolta, così da poter
identificare i diversi costituenti della propria lingua materna (fonemi,
morfemi, parole, frasi).
Padroneggiare i diversi pattern articolatori necessari per produrre i
singoli fonemi e le sequenze di fonemi della propria lingua.
Acquisire e ampliare un vocabolario contenenente un numero
potenzialmente grande di voci lessicali e altrettanti significati.
Padroneggiare le regole morfologiche e sintattiche che permettono di
combinare morfemi e parole in frasi grammaticalmente corrette e
dotate di senso.
Utilizzare le diverse funzioni comunicative del linguaggio in funzione
del contesto e dell’interlocutore.
Padroneggiare le abilità necessarie a produrre un discorso, che ne
garantiscono la coerenza, l’organizzazione interna e l’adattamento
all’ascoltatore.
La creatività e l’arbitrarietà sono le due proprietà che rendono il linguaggio
unico e lo differenziano da altri sistemi comunicativi. La relazione tra suono
e significato è totalmente arbitraria: il significato deve necessariamente
essere appreso e trasmesso culturalmente.
Naturalmente lo studio dello sviluppo del linguaggio genera fin dall’inizio un
vivace dibattito teorico su alcuni temi fondamentali. In estrema sintesi i
2
principali approcci teorici allo sviluppo linguistico possono essere così
riassunti:
Maturazione versus apprendimento: secondo l’approccio
comportamentista, rappresentato da Skinner (1957) l’apprendimento
del linguaggio si spiega con gli stessi principi del condizionamento
operante. I bambini imparano a parlare in seguito ai rinforzi forniti dai
genitori, che intervengono correggendo le loro risposte inizialmente
scorrette. Il ruolo del bambino nell’apprendimento del linguaggio è
passivo, perciò vengono analizzate le influenze ambientali più che il
funzionamento cognitivo del bambino stesso. Chomsky (1959; 1965)
critica questo punto di vista, sostenendo che si tratta di un processo
attivo e creativo. Secondo Chomsky, Skinner non ha tenuto conto del
fatto che il bambino è capace di produrre e comprendere espressioni
nuove che non ha mai sentito in precedenza, inoltre, egli è in grado di
padroneggiare un sistema linguistico complesso a partire da una base
di informazioni incomplete e spesso scorrette. Tutti i discorsi che sente
dagli adulti infatti contengono molto spesso errori, omissioni, frasi
incomplete, esitazioni e ripetizioni. Chomsky ipotizza l’esistenza di un
dispositivo innato per l’acquisizione del linguaggio (LAD) che
corrisponde a una grammatica universale che contiene la descrizione
degli aspetti strutturali condivisi da tutte le lingue naturali.
Linguaggio e cognizione: secondo Chomsky il linguaggio nasce e si
sviluppa come un sistema autonomo, indipendente dal parallelo
sviluppo delle capacità cognitive e sociali. Inoltre egli sostiene che la
competenza linguistica preceda l’esecuzione. Piaget (1970) invece
propone una posizione per molti aspetti opposta e sostiene che vi sia
un rapporto di interdipendenza tra linguaggio e cognizione. Il
linguaggio non è come per Chomsky la maturazione di un dispositivo
innato, nè tanto meno il prodotto di una catena di condizionamenti, ma
2
è il naturale completamento dei processi cognitivi che caratterizzano lo
sviluppo sensomotorio (Piaget, 1970). Lo sviluppo cognitivo precede
sia ontogeneticamente che logicamente la comparsa del linguaggio, ed
è autonomo rispetto ad esso, mentre lo sviluppo del linguaggio deriva e
dipende dallo sviluppo cognitivo. Per Piaget l’esecuzione precede la
competenza. Il bambino impara facendo, e soltanto successivamente
capisce quello che fa.
Linguaggio e interazione sociale: Se Piaget vede lo sviluppo cognitivo
come relativamente autonomo e indipendente non solo dal linguaggio,
ma anche dall’interazione sociale, Vygotskij (1934), invece, ritiene che
la partecipazione del bambino ad un’ampia varietà di interazioni
sociali rappresenti un fattore primario per lo sviluppo cognitivo e
linguistico. Egli non attribuisce al pensiero una priorità rispetto al
linguaggio. Tra la sviluppo cognitivo e linguistico le interazioni sono
continue. Anche Bruner (1962) sostiene che qualsiasi processo
mentale, incluso il linguaggio, abbia un’origine sociale e che la
cognizione sia influenzata dalla cultura. L’autore sottolinea e
approfondisce l’importanza dell’adulto in interazione col bambino per
l’acquisizione del linguaggio.
Linguaggio e comunicazione: due sono gli approcci teorici che hanno
tentato di spiegare il rapporto tra linguaggio e comunicazione: quelli
strutturalisti e quelli funzionalisti. Secondo gli approcci strutturalisti il
linguaggio non serve per comunicare. In questo ambito vengono
analizzate le caratteristiche sintattiche, logiche e semantiche della
grammatica universale a prescindere dal contesto. Gli approcci
funzionalisti invece sostengono che vi sia una continuità tra
comunicazione prelinguistica e linguaggio. Pongono l’accento
sull’importanza del contesto linguistico e non.
Le prime espressioni verbali dei bambini ricevono un’analisi di tipo pragmatico, che si ispira alla nozione di atti linguistici proposta da Austin (1962) e Searle (1969). Alla
2
base c’è l’idea che “parlare è agire”, esercitare un’attività. L’azione di “dire qualcosa”, è già “fare qualcosa”. Mentre si dice qualcosa si eseguono simultaneamente 3 atti: l’atto locutorio è l’atto di dire qualcosa. È sia l’attività fisica necessaria alla produzione di un enunciato, sia la conoscenza e l’uso del codice grammaticale della lingua (emissione di un significato). L’atto perlocutorio è la produzione volontaria o involontaria di effetti o conseguenze sui sentimenti, pensieri e azioni dell’ascoltatore presente (raggiungimento di un dato effetto). L’atto illocutorio è l’esecuzione di un atto tra quelli che è convenzionalmente possibile compiere nel dire qualcosa (produzione di una certa forza convenzionale).
Innato e acquisito nello sviluppo linguistico: oltre a ciò che si è detto
in precedenza riguardo a questo argomento, è importante sottolineare
che le teorie che privilegiano la componente innata o acquisita non
sono poi così distanti fra di loro. Infatti si condivide l’idea che deve
essere presente nella specie umana qualche predisposizione per il
linguaggio. Non si potrebbe se no spiegare come mai alcune specie
animali pur possedendo capacità cognitive e sociali complesse non
riescano ad apprendere il linguaggio. Però, chiaramente la
predisposizione innata da sola non riesce a completare l’acquisizione
del linguaggio (Camaioni, 2001).
Dominio-specifico e dominio-generale nello sviluppo linguistico: chi
adotta una concezione dominio-generale, come ad esempio Piaget,
sostiene che il linguaggio non ha uno sviluppo autonomo, ma che
dipenda dall’organizzazione generale dell’intelligenza. Chi adotta una
concezione dominio-specifica, come Chomsky, ritiene che la
conoscenza grammaticale innata si applichi solo all’informazione
linguistica. Inoltre questa elaborazione avviene all’interno di un
modulo il quale opera in modo relativamente indipendente da altri.
Nelle pagine che seguono verranno trattati, seppur in modo incompleto, i
temi fondamentali dello sviluppo linguistico. Partendo dalla comunicazione
prelinguistica, si è cercato di delineare le principali tappe dell’evoluzione
lessicale, fonologica, semantica e morfosintattica, concludendo il percorso
con l’approfondimento di due tematiche estremamente rilevanti: la narrazione
e il lessico psicologico.
2
2
Capitolo 1
DALLA COMUNICAZIONE PRIMA DEL LINGUAGGIO AL
PRIMO SVILUPPO LINGUISTICO
1.1 Lo sviluppo prelinguistico
L’infante fin dai primi giorni di vita risulta essere non soltanto socialmente
responsivo, ma anche socialmente attivo. L’interazione faccia a faccia tra
2
madre e bambino appare caratterizzata fin dai primi mesi da sincronia,
contingenza, coordinazione e alternanza dei turni (Camaioni, 2001). Stern
(1985) ha utilizzato la metafora di “danza conversazionale” per descrivere
questi scambi diadici. È importante sottolineare come questi primi scambi tra
madre e bambino riguardano la diade stessa e non argomenti esterni la diade.
L’adulto in questo periodo tratta il bambino come un partener comunicativo
anche se non è ancora tale dal punto di vista intenzionale. La comunicazione
intenzionale infatti compare intorno ai 9-10 mesi circa.
Durante la prima metà del primo anno di vita il bambino riesce ad interagire
o solo con l’oggetto in assenza dell’adulto, o solo con l’adulto in assenza
dell’oggetto, ma non è ancora in grado di inserire l’attenzione per un
oggetto/evento durante l’interazione con l’adulto. Soltanto intorno alla metà
del primo anno il bambino comincia a guardare alternativamente l’adulto e
un oggetto/evento esterno che in quel momento attrae la sua attenzione.
L’interazione, perciò, da diadica diventa triadica, e l’oggetto/evento esterno
può diventare argomento di conversazione tra adulto e bambino. Compaiono
allora e diventano via via più frequenti, gli episodi di attenzione condivisa, in
cui il bambino e l’adulto guardano lo stesso oggetto/evento, ovvero
condividono un comune fuoco di attenzione esterno alla diade, mantenendo
al tempo stesso un coinvolgimento sociale reciproco (Camaioni, 2001).
Questo sviluppo attentivo del bambino, può essere ricondotto a tre fasi
principali:
- 8 mesi: il bambino è capace di seguire lo sguardo e il gesto di indicare
del genitore verso un oggetto soltanto quando la mano del genitore e
l’oggetto sono sullo stesso campo visivo;
- 12 mesi: il bambino è in grado di localizzare uno di due oggetti identici
usando la linea di sguardo del genitore. A questa età il bambino
“utilizza” la madre come riferimento sociale quando si trova in
presenza di situazioni o oggetti sconosciuti. Il bambino guarda la
2
madre per cercare di capire da lei come comportarsi, e in seguito si
comporta congruentemente alla reazione emotiva da lei avuta;
- tra i 10 e 13 mesi: il bambino comincia a dirigere attivamente
l’attenzione e il comportamento dell’adulto verso un evento esterno.
Camaioni, Volterra e Bates (1986) hanno individuato 2 fasi nello sviluppo
prelinguistico: una fase preintenzionale, in cui il bambino produce
comportamenti che assumono un valore significativo per l’adulto, ma che
non hanno ancora questo valore per il bambino, e una fase intenzionale in cui
il bambino produce consapevolmente comportamenti con valore di segnali, e
li produce al fine di soddisfare i propri scopi e bisogni.
La comparsa dell’intenzione comunicativa si fonda sulla capacità di
padroneggiare la nozione di agente (la capacità di riconoscere se stessi e gli
altri come agenti autonomi, in grado di attivarsi per soddisfare una varietà di
scopi). La nozione di agente implica la capacità di differenziare i mezzi dagli
scopi e di utilizzare intenzionalmente strumenti per raggiungere determinati
obbiettivi. Gli autori sopra citati indicano inoltre tre forme di uso di
strumenti:
- utilizzare un oggetto per raggiungerne un altro;
- utilizzare l’adulto come strumento per ottenere l’oggetto desiderato
(intenzione comunicativa richiestiva);
- utilizzare un oggetto come strumento per ottenere l’attenzione
dell’adulto (intenzione comunicativa dichiarativa).
Per quanto riguarda la funzione richiestiva il bambino intende influenzare il
comportamento dell’adulto e utilizzarlo al fine di raggiungere il proprio
scopo, obbiettivo. Per fare questo è sufficiente che egli formuli una
aspettativa circa l’efficacia dell’altra persona come strumento per
raggiungere i propri scopi. Invece per quanto riguarda la funzione
dichiarativa, il bambino intende influenzare lo stato interno dell’altra persona
3
e per fare ciò deve necessariamente rappresentarsi l’interlocutore come
dotato di atteggiamenti psicologici.
1.1.1 Prima del linguaggio
Prima dello sviluppo linguistico il bambino comunica agli adulti i propri
bisogni attraverso:
- il sorriso sociale
- suoni, vocalizzazioni e lallazioni
- gesti comunicativi
1. Il sorriso sociale
Possono essere individuate tre fasi nell’evoluzione del sorriso: a) il sorriso
endogeno che si manifesta in assenza di stimoli identificabili. Il neonato
sorride spontaneamente durante le fasi di sonno REM. b) il sorriso esogeno
compare intorno la fine del secondo mese ed è prodotto in risposta a stimoli
visivi o acustici per lo più il volto e la voce umani. c) il sorriso sociale
compare intorno ai 3-4 mesi di vita ed è prodotto come risposta specifica alle
persone familiari con le quali instaura uno scambio reciproco.
2. Suoni, vocalizzazioni e lallazioni
Nelle prime 2-3 settimane di vita il bambino produce soltanto suoni di natura
vegetativa e suoni strettamente legati al pianto. Col passare del tempo questi
suoni associati al pianto cominciano a essere prodotti quando il piccolo si
trova in uno stato di calma. Compaiono allora le prime reazioni circolari
vocaliche. In successione vediamo:
- tra i 2 e i 3 mesi compaiono le prime imitazioni vocaliche che
coinvolgono di solito il bambino e il genitore;
- tra i 2 e i 6 mesi compaiono e si stabilizzano i suoni vocalici;
- a 5 mesi compaiono i suoni consonantici;
3
- verso i 6-7 mesi compare la lallazione canonica (il bambino produce
sequenze consonante vocale con le stesse caratteristiche delle sillabe);
- verso i 10-12 mesi la maggior parte dei bambini produce strutture
sillabiche complesse e lunghe, la lallazione variata. Sempre a questa
età compaiono i primi suoni simili a parole o proto-parole, che
assumono un significato specifico solo quando vengono utilizzate in
contesti specifici.
Contrariamente a quanto sostenuto da Jakobson (1968), il quale ipotizzava
che vi fosse una ordine universale nell’acquisizione della fonologia e una
discontinuità tra lallazione e prime parole, le ricerche più recenti hanno
dimostrato come il bambino utilizzi nel formare le prime parole, gli schemi
fonetici già sperimentati nella lallazione. Inoltre vediamo come singoli
bambini possono divergere da un corso di sviluppo normale nell’acquisizione
della fonologia, sia a causa della particolare lingua che ascoltano sia a causa
della propria maturità fisica e mentale. I bambini differiscono tra loro sia nei
suoni che preferiscono produrre, ma anche nella stabilità di queste preferenze
e nell’organizzazione del proprio sistema fonologico.
3. Gesti comunicativi
I primi gesti che vengono utilizzati dal bambino intorno ai 9-12 mesi sono
quelli che vengono chiamati performativi o deittici (es. indicare, mostrare,
offrire, dare e richieste ritualizzate). Essi esprimono un’intenzione
comunicativa, e si riferiscono ad un oggetto/evento esterno, che si ricava
esclusivamente osservando il contesto. Questi gesti sono adeguati a
comunicare in modo efficace all’adulto l’obbiettivo del bambino, anche se
sono chiaramente inadeguati a raggiungere l’obbiettivo in modo diretto e
meccanico. Sono accompagnati dallo sguardo diretto al destinatario del gesto;
altre volte invece il bambino guarda alternativamente il destinatario e il
referente. I gesti deittici possono avere sia una funzione richiestiva che
dichiarativa.
3
Oltre ai gesti performativi possiamo osservare intorno ai 12 mesi di età la
comparsa dei gesti referenziali o rappresentativi. A differenza dei precedenti,
non soltanto esprimono un’intenzione comunicativa, ma rappresentano anche
un referente specifico, il loro significato cioè non varia in conseguenza del
variare del contesto. Con la comparsa dei gesti referenziali, compaiono anche
le prime parole, le quali sono inizialmente molto legate a situazioni
specifiche e soltanto man mano si decontestualizzano. Nel momento in cui il
linguaggio verbale si consolida, e il vocabolario raggiunge le 50 parole, l’uso
dei gesti referenziali diminuisce gradualmente fin quasi a scomparire.
1.1.2 Il gesto di indicare
Il gesto di indicare compare intorno agli 8-16 mesi; è universale, in quanto
diffuso in tutte le culture ed è uno dei mezzi più efficaci per comunicare in
assenza del linguaggio. I gesti di indicare sono solitamente accompagnati
dallo sguardo del bambino verso il destinatario. Questo controllo visivo verso
l’interlocutore si evolve con l’età, infatti mentre a 12 mesi i bambini
guardano il destinatario dopo aver indicato il bersaglio, a 16 mesi il bambino
rivolge lo sguardo al partner prima di produrre il gesto. Crescendo il bambino
è in grado di guardare il partner più volte mentre indica. Parallelamente alla
comparsa del gesto di indicare, il bambino sviluppa la capacità di
comprendere l’indicare eseguito dagli altri:
- fino a 9 mesi il bambino non comprende il gesto della madre; egli
risponde guardando alternativamente il dito della madre e ciò che ella
ha indicato;
- verso i 12 mesi il bambino è in grado di orientare la propria attenzione
verso gli oggetti indicati dall’adulto, solo però se questi rientrano nel
proprio campo visivo, ovvero se non sono alle sue spalle;
- a 18 mesi il bambino è in grado di orientarsi anche verso gli oggetti
che si trovano alle sue spalle.
3
Anche se produzione e comprensione compaiono più o meno nello stesso
periodo, non è stata identificata una chiara relazione fra di esse.
Il gesto di indicare viene usato dai bambini con due diverse intenzioni
comunicative: una richiestiva, per richiedere un oggetto desiderato e una
dichiarativa, per condividere con l’interlocutore l’interesse o l’attenzione su
un evento esterno.
È stato proposto da diversi studiosi che il gesto di indicare con funzione
dichiarativa costituisca un precursore della teoria della mente (Perucchini,
1997). La capacità di spiegare in termini mentalistici il proprio e altrui
comportamento viene acquisita dal bambino intorno ai tre anni di età, quando
egli padroneggia la cosiddetta teoria della mente. Secondo Camaioni (1995 a;
1997; Tomasello e Camaioni 1997) quando il bambino indica un evento o un
oggetto nell’ambiente circostante, egli intende influenzare l’atteggiamento
psicologico dell’altro relativamente a quell’aspetto della realtà in particolare
il provare interesse o il condividere un’esperienza. Per fare ciò è necessario
che egli si rappresenti l’interlocutore come dotato di stati psicologici.
Diverse teorie sottolineano l’importanza del gesto di indicare nello sviluppo
del linguaggio, ipotizzando una continuità tra comunicazione gestuale e
verbale. I bambini che fanno un maggior uso del gesto di indicare sono quelli
che a 20 mesi risultano più avanzati nello sviluppo linguistico (Camaioni,
2001). Anche l’età di comparsa del gesto risulta correlare con lo sviluppo
linguistico. In uno studio di Desrochers, Morissette e Ricard (1995) i bambini
che producevano precocemente questo gesto (prima dei 12 mesi) hanno
ottenuto a 24 mesi punteggi più alti in una prova sulle capacità linguistiche e
percettive. Certo è necessario precisare che tali relazioni non risultano essere
un’associazione lineare del tipo causa- effetto.
1.2 Lo sviluppo lessicale
3
1.2.1 L’adulto può influenzare il bambino attraverso il suo modo di
parlare?
È stato evidenziato come il linguaggio dell’adulto verso i bambini sia molto
diverso da quello usato comunemente in una conversazione tra adulti, tanto
da evidenziare un particolare codice linguistico denominato motherese o
baby talk (BT). Si tratta di una versione semplificata della lingua materna
caratterizzata prevalentemente da frasi brevi, numerose ripetizioni e da un
tono esageratamente alto. La modalità di produzione è più lenta e fluente; le
parole vengono ripetute e pronunciate più chiaramente, e le pause nel
discorso sono lunghe. Le caratteristiche principali del BT sintetizzate in
tabella 1.
Tabella 1.1 - Il baby talk:caratteristiche linguistiche
Caratteristiche fonologiche - pronuncia chiara- toni più alti- intonazione accentuata- linguaggio più lento- pause più lunghe
Caratteristiche sintattiche - articolazione delle parole più breve- frasi ben costruite- poche preposizioni subordinate
Caratteristiche semantiche - limitata gamma di vocabolario- linguaggio simile a quello dei
bambini- riferimento principalmente al qui e
oraCaratteristiche pragmatiche - enunciati più direttivi
- maggior uso di domande- maggior utilizzo di strumenti di
attenzione- ripetizione delle espressioni del
bambino Fonte: Rollo, 2006
L’utilizzo del BT in numerose culture (Ferguson, 1977) ha portato a ritenere
che il modo in cui si parla ai bambini piccoli rappresenta una condizione
necessaria e universalmente disponibile. Alcune ricerche hanno rilevato la
mancanza in diverse culture di un codice linguistico adattato alle capacità
3
comunicative del bambino. Ciò falsifica l’ipotesi di universalità del BT,
poichè i bambini imparano a parlare con facilità e rapidità anche in assenza di
un linguaggio semplificato (Lieven, 1994). In una comunità Maya Quichè del
Guatemala è stato rilevato che le madri quando parlano ai loro bambini
tendono ad abbassare la voce. Infatti secondo le regole sociali le donne
devono alzare la voce con un interlocutore di status sociale più elevato e
abbassarla con un interlocutore di status sociale basso. Inoltre, considerando i
bambini creature vulnerabili e bisognose di tranquillità, le madri oltre a
rivolgersi loro con un tono sommesso, non li sollecitano a partecipare
attivamente alla conversazione (Pye, 1986).
1.2.2 Ritmo di acquisizione
Si è cercato di stabile quali caratteristiche del linguaggio materno, che
rientrano nell’ordine della semplificazione, possono facilitare l’acquisizione
del linguaggio (Camaioni, 2001). Si possono distinguere 2 differenti
posizioni: la prima di Furrow, Nelson e Benedict (1979) che attribuiscono un
ruolo causale alle caratteristiche del linguaggio meterno, soprattutto quelle
che ne determinano la semplicità sintattica, e la seconda di Newport,
Gleitman e Gleitman (1977) che ritengono che il BT abbia un ruolo soltanto
marginale e circoscritto a influenzare la velocità con cui il bambino apprende
alcune componenti morfosintattiche del linguaggio. Attraverso il primo
studio è stato rilevato che gli indici di complessità linguistica nelle madri
correlano negativamente con il livello di sviluppo del bambino. In uno studio
successivo, i medesimi autori, concludono che non è tanto la semplicità
sintattica del discorso materno a favorire lo sviluppo linguistico nel bambino,
ma il ricevere un input caratterizzato dalla più ampia varietà di produzioni
linguistiche. Oggi vi è comunque accordo tra gli studiosi (di entrambe le
posizioni) nel ritenere che occorre parlare di input in termini di condizioni
che possono facilitare lo sviluppo linguistico, lasciando un ampio spazio sia
3
alla eventuale variabilità degli effetti dovuti alle diverse esperienze di tipo
socioculturale che il bambino sperimenta, sia alle particolari competenze già
acquisite dal bambino che lo mettono in grado di valersi di tali esperienze
(Snow, 1989). Diversi studi hanno evidenziato come enunciati materni con
funzione di controllo correlino con uno sviluppo linguistico più lento nel
bambino (Nelson, 1973; Yoder e Kaiser, 1989). Hampson e Nelson (1993)
hanno evidenziato che uno stile comunicativo didattico favorisce lo sviluppo
linguistico. In ogni caso tutti questi studi hanno contribuito a enfatizzare il
ruolo attivo del bambino nel processo di apprendimento del linguaggio
avvalorando una visione bidirezionale della relazione tra le caratteristiche del
linguaggio parlato al bambino e le competenze di cui il bambino già dispone
(Yoder e Kaiser, 1989).
1.2.3 Stili di acquisizione
Possono essere individuati due diversi stili di acquisizione, uno referenziale e
l’altro espressivo. Lo studio di Katherine Nelson (1973) ha rilevato che i due
stili corrispondono a come le madri utilizzano il linguaggio a seconda cioè,
che svolga una funzione prevalentemente di descrizione della realtà
(referenziale) oppure di controllo del comportamento del bambino
(espressivo). Le madri dei bambini espressivi tendono a coinvolgere i
bambini in giochi e routine sociali facendo più frequentemente riferimento
alle persone, mentre le madri dei bambini referenziali fanno soprattutto
commenti su oggetti (Furrow e Nelson, 1984). Analizzando le prime 50
parole prodotte da diciotto bambini americani, ha trovato che la proporzione
di nomi sul vocabolario complessivo variava considerevolmente. Per la
maggioranza del suo campione (10 bambini) i nomi rappresentavano più del
50% delle parole prodotte mentre la minoranza sviluppava un vocabolario
diverso, che includeva soprattutto pronomi, nomi propri e formule usate per
regolare l’interazione sociale. Questi due stile sono riconducibile a quello
3
referenziale e espressivo individuato nelle madri. La Nelson ha seguito
longitudinalmente il campione fino a due anni e mezzo di età, trovando che i
bambini referenziali avevano uno sviluppo lessicale più rapido, mentre i
bambini espressivi acquisivano le prime dieci frasi più rapidamente del
gruppo referenziale, erano cioè più precoci nello sviluppo sintattico
(Camaioni, 2001). Nella seguente tabella vengono riportate le differenze
semantiche, pragmatiche, fonologiche e linguistiche che possono essere
riscontrate nei due stili:
Tabella 1.2 – Stile referenziale e stile espressivo
Referenziale Espressivo
Semantica: Alta proporzione di nomi nelle
prime 50 parole Utilizzo di parole singole nel primo
linguaggio Imita nomi di oggetti Maggiore varietà lessicale Utilizzo di elementi dotati di
significato Elevato uso di aggettivi Uso decontestualizzato di nomi Rapida crescita del vocabolario
Pragmatica: Orientato verso gli oggetti Uso prevalente di intenzione
dichiarativa Scarsa varietà di atti linguistici Approccio riflessivo alla soluzione
dei problemi
Fonologia: Buona articolazione e intelligibilità Orientato verso la parola Pronuncia costante nell’uso della
stessa parola
Variabili demografiche: Genere femminile Primogenito Livello socioeconomico alto
Semantica: Bassa proporzione di nomi nelle
prime 50 parole Utilizzo di formule nel primo
linguaggio Imita in modo non selettivo Minore varietà lessicale Utilizzo di suoni senza significato Scarso uso di aggettivi Uso contestualizzato di nomi Lenta crescita del vocabolario
Pragmatica: Orientato verso le persone Uso prevalente di intenzione
richiestiva Alta varietà di atti linguistici Approccio impulsivo alla soluzione
dei problemi
Fonologia: Scarsa articolazione e intelligibilità Orientato verso l’intonazione Pronuncia variabile nell’uso della
stessa parola
Variabili demografiche: Genere maschile Secondogenito Livello socioeconomico basso
Fonte: Camaioni, 2001
3
È stato evidenziato da Hampson e Nelson (1993) che l’uso di nomi da parte
delle madri dei bambini non espressivi a 13 mesi correla positivamente con la
lunghezza dell’enunciato del bambino a 20 mesi, così come l’uso di
descrizioni e di ripetizioni delle espressioni del bambino che includono
almeno un nome. Nei bambini espressivi è stata rilevata soltanto una
correlazione positiva tra l’uso materno di ripetizioni che includono almeno un
nome e la lunghezza dell’enunciato del bambino. Camaioni e Longobardi
(1997) esaminando 15 bambini italiani a 16 e 20 mesi hanno rilevato che
l’83% di questi bambini acquisisce un lessico ben bilanciato, che include
elementi sia referenziali che espressivi.
1.3 Lo sviluppo fonologico
La produzione delle prime parole segna il passaggio dalla comunicazione
verbale gestuale prelinguistica al linguaggio vero e proprio. Esiste una
continuità tra lallazione e prima produzione di parole; infatti intorno ai 9-10
mesi la maggior parte dei bambini produce alcuni suoni simili a parole che
vengono definiti protoparole. Queste protoparole hanno una forma fonetica
idiosincratica ma assumono una funzione comunicativa specifica sulla base
del contesto in cui vengono di solito utilizzate (Camaioni, 2001). Solitamente
le prime parole compaiono intorno agli 11-13 mesi e inizialmente come le
protoparole risultano altamente contestualizzate. Ad esempio il bambino
utilizza la parola ciao solo quando gioca con il telefono, ma in seguito impara
ad utilizzarla anche per salutare. Sono state individuate tre categorie a cui
possono essere ricondotte le prime parole dei bambini:
- nomi di oggetti
- parole funzionali (che servono a regolare l’interazione sociale e a
codificare relazioni tra eventi)
- persone familiari
3
Per quanto riguarda il significato che possono assumere le prime parole del
bambino sono stati individuati tre filoni di ricerca: un primo filone di ricerca
sostiene che il significato implicito nella parola singola corrisponde ad una
frase completa (olofrase) (Antinucci e Parisi 1973; Bloom 1973; Bowerman
1973). Greenfield e Smith (1976) assumono una posizione simile alla
precedente e fanno una distinzione tra significato referenziale (che
corrisponde a ciò che la parola denota da sola) e significato combinatorio
(che corrisponde a ciò che la parola può denotare in combinazione con gli
elementi offerti dal contesto). Questo primo filone ha dimostrato come il
bambino riesca a comunicare efficacemente pur pronunciando una sola
parola grazie al contesto cui fa riferimento e alle azioni o gesti che
accompagnano le parole. Un secondo filone di ricerca (Bruner, 1975;
Camaioni, Volterra e Bates, 1986; Bates et al., 1979) fa una distinzione fra
uso referenziale e non referenziale delle parole. Il bambino all’inizio usa
suoni onomatopeici e parole semplicemente per accompagnare i propri
schemi di azione (ad es. ciao mentre fa finta di telefonare) e in questi casi la
parola non si sostituisce ancora allo schema rappresentandolo, ad esempio
per anticiparlo o evocarlo (uso non referenziale). In seguito il bambino
progredisce gradualmente verso un uso referenziale, cioè comincia a produrre
quelle stesse o nuove parole per denotare oggetti, persone o eventi,
indipendentemente dagli schemi di azione ai quali le parole erano
inizialmente associate (Camaioni, 2001). Il terzo filone di ricerca sottolinea
l’importanza dei giochi sociali, che sono sequenze interattive tra bambino e
genitore, nella costruzione e condivisione di significati. Sia la capacità del
bambino di partecipare attivamente al gioco, sia la capacità della madre di
adattare i propri interventi verbali al tipo di interazione in corso e al tipo di
partecipazione del bambino, sono fattori che possono influenzare il ritmo di
acquisizione delle prime parole del bambino. Per quanto riguarda la
comprensione vediamo come questa sia più precoce rispetto la produzione. A
4
8-10 mesi i bambini italiani comprendono in media 30 parole diverse, e verso
i 18 mesi ne comprendono circa 215 (Caselli, 1995). In tutti i bambini
esaminati perciò le parole comprese sono maggiori di quelle prodotte. Tra i
19 e i 30 mesi il vocabolario del bambino aumenta sia in produzione che
comprensione.
Nel vocabolario del bambino si possono distinguere due fasi nel secondo
anno di vita: a) una fase iniziale (12-16 mesi circa) in cui l’ampiezza del
vocabolario si aggira intorno alle 50 parole, b) e una fase successiva (17-24
mesi circa) in cui ritroviamo una vera e propria esplosione del vocabolario
(Goldfield e Reznick, 1990). In questa fase il ritmo di espansione del
vocabolario è di 5 o più nuove parole a settimana (fino anche a 40). Alla fine
di questo periodo il vocabolario complessivo è di circa 300 parole, ma può
raggiungere anche le 600 parole. La maggior parte degli studiosi oggi ritiene
che l’esplosione del vocabolario non sia una tappa universale e sempre
presente.
1.4 Lo sviluppo semantico
Il significato delle parole riflette la categorizzazione della realtà che il
bambino padroneggia in un dato momento del suo sviluppo, ovvero le
categorie di oggetti, eventi e persone, e i concetti che le rappresentano
(Camaioni, 2001). Il bambino associa al significato della parola aspetti della
realtà diversi sia qualitativamente che quantitativamente da quelli che vi
associa l’adulto. Possono essere individuati tre tipi di errori commessi dai
bambini nelle prime fasi di sviluppo lessicale:
errori di sovraestensione (il bambino chiama cane qualsiasi animale a
quattro zampe)
errori di sottoestensione (il bambino usa il nome bambola per riferirsi
esclusivamente alla sua bambola preferita)
4
errori di sovrapposizione (il bambino usa “aprire” in riferimento non
soltanto all’azione di aprire la porta, ma anche all’azione di accendere
la luce o sbottonarsi il vestito).
A quale tipo di somiglianze fanno riferimento i bambini per identificare
categorie di oggetti, eventi o relazioni? Riguardo a questo quesito ci sono
parecchie divergenze tra gli studiosi. Secondo alcuni (Clark, 1973), il
bambino costruisce il significato delle parole sulla base delle somiglianze
percettive, mentre secondo altri (Nelson, 1974) sulla base delle somiglianze
funzionali (l’uso degli oggetti e le loro proprietà dinamiche). La Nelson pone
al centro della sua teoria il concetto di nucleo funzionale. Secondo questa,
all’inizio l’oggetto viene conosciuto attraverso l’azione che compie o
l’azione che si compie su di esso. In seguito, grazie all’interazione con
l’oggetto integrerà al nucleo funzionale i suoi attributi percettivi. In realtà nel
costruire i primi significati delle parole i bambini possono utilizzare entrambe
le categorizzazioni. In genere si osserva uno spostamento da criteri di tipo
funzionale a criteri di tipo percettivo-formale. In studi successivi la Nelson ha
proposto che la prima forma di rappresentazione della realtà e dell’esperienza
consiste nella rappresentazione di eventi o script. Un altro aspetto importante
nella costruzione del sistema semantico riguarda i diversi livelli di generalità
a cui gli oggetti possono essere categorizzati e quindi nominati. I bambini
solitamente imparano prima i nomi che si trovano ad un livello-base di
generalità, e solo in seguito imparano nomi più specifici, più generali e
astratti. Perciò vediamo come il sistema semantico del bambino è molto
diverso da quello dell’adulto. Saranno necessari diversi anni perchè questi
coincidano.
1.5 Lo sviluppo morfosintattico
In concomitanza con l’aumento dell’ampiezza del vocabolario (fine del
secondo anno di vita), compaiono anche le prime combinazioni di due o più
4
parole. Secondo un approccio innatista (Chomsky, 1981; Hymas, 1986), lo
sviluppo lessicale e morfosintattico sono processi indipendenti e distinti tra
loro. Al contrario secondo un approccio costruttivista si ipotizza che ci sia
continuità tra i due. Alcuni studiosi sostengono che lo sviluppo lessicale sia
un prerequisito necessario per un successivo sviluppo sintattico (relazione
causale e temporale). Altri, invece, ritengono che lo sviluppo lessicale e
sintattico procedano parallelamente e siano riconducibili a un più generale
sviluppo cognitivo. Caselli (1995) ha trovato, sulla base di dati ricavati da un
questionario compilato dai genitori, che con un vocabolario inferiore alle 100
parole, i bambini non sono in grado di combinare insieme due o più parole. I
bambini che possiedono poche parole tendono ad utilizzare nei loro discorsi
frasi fatte, formule, mentre i bambini con un ricco vocabolario sono in grado
di utilizzare le stesse parole in diverse combinazioni. Caselli e Casadio
(1993) hanno rilevato attraverso i lori studi (questionario compilato dai
genitori) che la capacità combinatoria risulta collegata all’ampiezza globale
del lessico, ma non a specifiche categorie di parole. D’Odorico e Carubbi
(1997) hanno trovato che l’associazione tra capacità lessicale e capacità
sintattica è più forte a 16 che a 20 mesi perchè con lo sviluppo possono
entrare in gioco altri fattori oltre all’espansione del vocabolario che spiegano
la comparsa di enunciati più complessi.
Nel periodo tra gli 11-12 mesi (comparsa delle prime parole) e i 18-20 mesi
(comparsa delle prime combinazioni) il bambino utilizza forme transizionali
che corrispondono a ciò che Dore, Franklin, Miller e Ramer (1976) chiamano
“qualcosa di più di una parola e qualcosa di meno della sintassi” (Camaioni,
2001). Queste forme transizionali sono:
Associazione di una parola singola con un gesto deittico o referenziale:
ad esempio indica un bicchiere dicendo acqua. In questo modo riesce
ad esprimere una relazione complessa tra due elementi.
4
Ripetizioni verticali e ripetizioni orizzontali (Scollon, 1976;
Veneziano, Sinclair e Berthoud, 1990): il bambino ripete la stessa
parola riferita allo stesso elemento del contesto in diversi turni
conversazionali o nel medesimo turno.
Combinazione di una singola parola con un suono senza significato.
Parole concatenate: due o più parole significanti che vengono
pronunciate in rapida successione, in cui ogni parola si riferisce a un
diverso elemento del contesto.
Formule: espressioni stereotipate, frasi fatte, utilizzate come se fossero
parole singole.
La maggioranza dei bambini produce, nel periodo di passaggio tra le parole
singole e gli enunciati complessi, almeno alcune di queste forme
transizionale. Nel campione esaminato da D’Odorico e Carubbi (1997) le
differenze individuali risultano consistenti, infatti un bambino che a 20 mesi
possiede un vocabolario limitato (47 parole) è in grado di compiere le forme
di combinazione più avanzate, mentre un bambino con un vocabolario di 413
parole non produce nessun tipo di combinazione.
Lo sviluppo morfologico e quello sintattico nell’acquisizione dell’italiano
sono strettamente collegati, infatti alcune informazioni sintattiche sono
trasmesse tramite le alterazioni morfologiche della parola (ad es. le diverse
terminazioni o flessioni del verbo permettono di esprimere informazioni
inerenti al significato del verbo stesso: le relazioni di persona, le categorie di
numero, le informazioni circa il tempo, il modo e l’aspetto dell’azione
espressa dal verbo). La morfologia viene suddivisa in morfologia libera e
morfologia legata. Gli elementi che rientrano nella morfologia libera sono gli
articoli, le proposizioni, i pronomi, le congiunzioni e i connettivi. Fanno parte
della morfologia legata tutti quegli elementi che non possono essere separati
dagli elementi lessicali cui si accompagnano, e che ne modificano forma e
significato: si tratta delle flessioni dei verbi, dei nomi e degli aggettivi. I
4
bambini tendono a omettere i funtori, cioè la morfologia libera. Per quanto
riguarda il suo apprendimento si riscontra una spiccata variabilità individuale
tra i bambini, sia circa all’ordine di comparsa dei diversi morfemi, sia
relativamente all’età in cui ciascuno li acquisisce. Inoltre è importante
stabilire quando considerare acquisita una certa forma. Solitamente ad un
prima comparsa segue un periodo in cui una determinata forma non si rileva
più, oppure è prodotta raramente, per ricomparire poi successivamente in
modo più stabile. Tenendo presenti queste difficoltà sono comunque state
ricavate alcune generalizzazioni:
Morfologia libera
Il primo articolo a comparire e il più frequentemente usato fino ai tre
anni è l’articolo determinativo femminile singolare “la”, mentre
l’articolo “il” sembra porre qualche problema in più (Nelli, 1998). Fino
al terzo anno di età le forme plurali “i” “le” e l’articolo determinativo
“lo/gli” sono molto rari. Gli articoli indeterminativi compaiono dopo
quelli determinativi ed hanno inizialmente funzione di numerali.
Per quanto riguarda i pronomi personali viene segnalato un uso
precoce (18-20 mesi) del possessivo di prima persona mio/mia
(Antelmi, 1997). Inoltre la prima persona “io” precede la seconda “tu”
e la terza “lui/lei” compare per ultima. Nelle forme plurali invece la
prima persona “noi” è seguita dalla terza “loro” e infine dalla seconda
“voi”.
Le preposizioni che compaiono per prime sono “con” e “a” (luogo)
(Nelli 1998; Antelmi 1997).
Morfologia legata
Tutte le ricerche dimostrano che i bambini non hanno problemi con il genere,
ma col numero: essi infatti tendono a usare maggiormente le forme singolari
piuttosto che quelle plurali. Le prime forme temporali dei verbi sono quelle
del presente indicativo, dell’imperativo, e del participio passato usato in
4
forma aggettivale (Devescovi e Pizzuto, 1996; Baumgartner, Devescovi e
D’amico, 2000). Le forme del passato compaiono prima del futuro (Calleri,
1990; Chini, 1994; Devescovi e Pizzuto, 1996).
Fino ai 3-4 anni di età gli errori più frequenti dei bambini sono quelli di
omissioni piuttosto che di sostituzione sia nella produzione spontanea che
nelle prove di ripetizione.
Per quanto riguarda la comprensione del discorso degli altri, uno dei
problemi che si è presentato è che non esiste una conoscenza codificata dei
fenomeni di comprensione del linguaggio, come per la produzione. Infatti,
mentre nello studio della produzione del linguaggio è possibile valutare il
linguaggio dei bambini confrontandolo alla descrizione della lingua adulta
contenuta nelle grammatiche, per lo studio della comprensione è necessario
confrontare di volta in volta le prestazioni dei bambini con quelle di adulti
osservati nelle medesime situazioni.
Un ulteriore problema che si presenta è il fatto di non poter studiare la
comprensione in un contesto spontaneo di comunicazione. Infatti è molto
difficile riuscire a controllare tutti gli aspetti di cui un soggetto può avvalersi
per l’interpretazione di un messaggio. Per questo motivo la costruzione di
paradigmi sperimentali appare maggiormente idonea, sia per circoscrivere
l’oggetto di indagine, sia per tenere sotto controllo le variabili coinvolte.
Tutti gli studi che prendono in considerazione la comprensione di strutture
sintattiche complesse evidenziano una generale difficoltà nella decodifica di
tali strutture. Chilosi e Cipriani (1995) hanno tracciato il profilo di sviluppo
della comprensione di strutture di diverso grado di complessità in bambini
dai 3 anni e mezzo agli 8:
Tabella 1.3 – Sviluppo della comprensione
età Tipo di struttura frase
4,6 Frasi locative La palla è sotto il tavolo
4
5 Frasi attive affermativeFrasi dative
La mamma pettina la bambola /La bambina si pettinaLa rondine porta il verme all’uccellino
5,6 Passive affermativeRelativePassive negative
La macchina è lavata dal bambinoLa guardia che ha il fucile ferma il ladroIl pianoforte non è suonato/La mela non è presa dalla bambina
6,6 Attive negative Il bambino non dorme
Fonte: Adattato da Chilosi e Cipriani (1995)
Anche nella comprensione è stata trovata una maggior difficoltà dei bambini
nel denominare gli aspetti della morfologia libera (articoli, pronomi,
preposizioni e connettivi frasali). Vengono elaborate più facilmente le
strutture morfologiche legate, quali il genere e il numero. Lo sviluppo della
comprensione delle preposizioni e dei connettivi interfrasali appare
ostacolato dalla polifunzionalità e dallo scarso spessore semantico di questi
funtori. Andamento evolutivo:
Preposizioni: maggiore facilità nel comprendere le preposizioni
semplici (a) rispetto a quelle articolate (alla). Difficoltà nel
decodificare le preposizioni di moto da/a luogo causata da una
imprecisa rappresentazione spazio-temporale dei referenti ed a una
inadeguata comprensione dei predicati andare e tornare. Le
preposizioni tra e fra sono comprese solo a 6-8 anni.
Negazione: fino a 4 anni il tipo di errore più comune è quello di
interpretare le frasi negative come se fossero affermative.
Congiunzioni coordinanti: l’utilizzo delle congiunzioni “e” ed “o”
appare stabilizzarsi intorno ai 3 anni.
Congiunzioni avversative: “invece” appare particolarmente difficile
per i bambini. Infatti interpretano le frasi come se le due azioni fossero
simultanee invece che mutualmente escludentesi.
Connettivo causale: “perchè” è ben compreso dai bambini già a 3 anni
e mezzo.
4
Connettivi temporali: “dopo” e “mentre”. La maggior parte dei
bambini tra i 4 e gli 8 anni commettono errori che evidenziano il fatto
che i soggetti processano solo una parte della struttura frasale .
Connettivo eccettuativo: “tranne”. Il 65% delle frasi contenenti questo
connettivo risultano ben comprese già a 5 anni.
È evidente che nelle comprensione di queste strutture entrano in gioco fattori
non soltanto linguistici, ma anche cognitivi e esperenziali. Aspetti quali la
tipicità degli eventi descritti nelle frasi (prima mangio e dopo vado a
dormire), la plausibilità delle azioni (sono i gatti che mangiano i topi) e il
succedersi degli eventi (mettersi a piangere avviene sempre dopo eventi
negativi come un litigio o una ferita) sono fattori che influenzano i processi
di decodifica linguistici (Camaioni, 2001).
1.6 La valutazione dello sviluppo
1.6.1 La misura della complessità
Un indice relativamente affidabile per lo studio della progressiva crescita
della complessità morfosintattica nella produzione linguistica è la Lunghezza
Media dell’Enunciato (LME) introdotta da Roger Brown (1973). Lo studioso
americano partendo dal presupposto che la produzione di un numero sempre
più ampio di elementi linguistici (morfemi e/o parole) comporti l’aumento
della lunghezza di un enunciato, riteneva che la complessità di una struttura
linguistica potesse essere valutata in base alla quantità, cioè al numero degli
elementi in essa contenuti. Un enunciato con un numero più elevato di
elementi può essere considerato più evoluto rispetto ad uno che ne contiene
un numero minore (Camaioni, 2001). Questa misura presenta dei vantaggi,
infatti la sua determinazione è abbastanza semplice anche se laboriosa
(occorre raccogliere un campione abbastanza ampio di linguaggio), e si tratta
di un indice chiaro, che permette una identificazione immediata del livello di
4
maturità linguistica del bambino. Oltre ai vantaggi però sono state rilevate
alcune difficoltà nell’utilizzo di questo metodo:
1- Un primo problema concerne la nozione stessa di enunciato, vi è una
difficoltà nello stabilire il confine dell’enunciato.
2- Un secondo elemento di discussione riguarda la base su cui calcolare la
LME: ci si chiede se sia più corretto utilizzare come unità di computo
le parole o i morfemi. Per quanto riguarda la lingua italiana grazie agli
studi più recenti si ritiene più appropriato l’utilizzo delle parole.
3- Si è visto come l’esame della LME rilevi regolarità quantitative, ma
non cambiamenti qualitativi che intervengono a livello frasale.
4- Alcuni studiosi ritengono che la LME sia una misura appropriata per
esaminare lo sviluppo nei primi tre anni di vita, mentre si rivela
inadeguata a età più avanzate (Bowerman 1973; Bates, Bretherton e
Snyder 1988).
Sarebbe perciò utile individuare ulteriori indici che possano rendere
maggiormente conto delle trasformazioni qualitative di tipo strutturale.
Sembrerebbe interessante la proposta di Halliday (1989) che propone di
utilizzare come misura della complessità sintattica il concetto di densità
lessicale. L’indice di complessità è ottenuto rapportando le voci lessicali e
sintattiche non alle singole parole ma alle clausole. La clausola è intesa come
unità grammaticale nella quale costrutti semantici di tipo diverso sono uniti e
integrati in tutt’uno. Un testo parlato sarebbe non un succedersi di frasi bensì
un concatenarsi di clausole connesse, da relazioni di tipo ipotattico e
paratattico (Camaioni, 2001).
1.6.2 L’età di acquisizione
Un altro problema riguarda il riconoscimento dell’acquisizione di una certa
forma linguistica. Dai vari studi è stato dimostrato che la comparsa di una
certa forma nel linguaggio di un bambino non corrisponde ad un suo uso
4
sistematico e articolato nel periodo immediatamente successivo.
Baumgartner, Devescovi e D’Amico (2000), in un loro studio hanno
osservato che Giulia, una bambina di 21 mesi, produce tre volte il pronome
libero di prima persona con funzione di soggetto io, in una situazione di
contrapposizione con la madre. Successivamente però il pronome non viene
più utilizzato. Ricompare solo appropriatamente a 28-29 mesi in diversi
contesti e in diverse forme (io/me). Per valutare se un bambino ha acquisito
un determinato morfema è necessario verificare se viene prodotto in tutti i
contesti linguistici in cui, secondo la regola della lingua che il bambino sta
apprendendo la sua produzione è obbligatoria (contesto d’uso obbligatorio).
L’utilizzo del pronome da parte della piccola Giulia non può essere
considerato produttivo perchè è ridotto ad una sola forma in un solo contesto.
Pizzuto e Caselli (1992; 1993; 1994) nelle loro ricerche hanno perciò
considerato come punto di acquisizione l’utilizzo appropriato di uno
specifico morfema nel 90% dei contesti in cui è necessario. Però il concetto
di obbligatorietà di una forma non è sempre applicabile a tutte le forme
morfologiche: in italiano la morfologia legata è sempre obbligatoria, ma per
quanto riguarda i pronomi e le preposizioni lo status di obbligatorietà è molto
diverso. Infatti è possibile omettere i pronomi soggetto, e per quanto riguarda
le preposizioni Cipriani, Chilosi, Bottari e Pfanner (1993) osservano che,
specialmente nelle prime produzioni linguistiche, è difficile identificare i
contesti obbligatori a prescindere dai contesti di risposta e dai casi in cui una
preposizione viene effettivamente prodotta (Camaioni, 2001). Per molte
forme, inoltre, i contesti obbligatori risultano assai limitati. Per tutti questi
motivi è stato introdotto un ulteriore criterio: quello di includere nella
valutazione della produttività di una forma solo le osservazioni in cui nella
produzione del bambino compaiono almeno cinque contesti obbligatori.
Questi autori hanno perciò ritenuto che l’acquisizione coincida con la
frequenza d’uso del 75%. Vediamo perciò che se anche alcuni morfemi
5
compaiono assai precocemente, solo un numero limitato viene utilizzato in
modo produttivo prima dei tre anni. Nel seguente paragrafo verranno trattati i
metodi principali per la valutazione dello sviluppo morfologico.
1.6.3 I principali metodi di studio per la valutazione dello sviluppo
morfologico
In estrema sintesi i principali test impiegati per la valutazione del
linguaggio nell'infanzia sono (Rollo, 2006):
Studi diaristici: sono studi di casi singoli o di campioni molti ristretti
di bambini all’interno dell’ambiente familiare (limite della scarsa
generalizzabilità dei risultati).
Metodi indiretti di osservazione attraverso questionari ai genitori
(limite della staticità, difficoltà nel descrivere i processi):
- test del primo linguaggio (12-36 mesi) di Axia, Condini, Ramponi (1994);
- Questionario sullo sviluppo comunicativo e linguistico nel secondo anno di vita di
Camaioni, Caselli, Volterra, Luchenti (1992);
- Il primo vocabolario del bambino: gesti e parole (8-17 mesi); parole e frasi (18-30
mesi) di Caselli e Casadio (1995).
Prove di imitazione o ripetizione: si assume che il modo in cui il
bambino ripete una frase e i cambiamenti che opera rispetto al modello
originale, forniscano delle informazioni sul processamento della frase
stessa. La prova si presenta sottoforma di gioco (ad esempio
utilizzando un pupazzo che funge da ricevente nelle frasi del bambino)
oppure di narrazione del materiale illustrato. In alcune prove si chiede
al bambino di ripetere un determinato modello (un suono, una parola,
una frase). In altre prove si stimola la produzione attraverso la
presentazione di stimoli opportunamente predisposti.
Test di ripetizione frasi: si chiede al bambino di riprodurre frasi-
stimolo proposte dall’esaminatore. Le frasi sono presentate in ordine
crescente per complessità. La competenza del bambino è ricavata dal
5
numero di frasi che riesce a ripetere correttamente. Le frasi scorrette
vanno interpretate in base all’elemento della frase colpito dall’errore e
al tipo di frase che risulta dalla riproduzione scorretta.
Prove di produzione elicitata: si invita il bambino a denominare o
descrivere oggetti/persone reali o rappresentati in figure. Più figure in
sequenza possono essere utilizzate per provocare la produzione di
storie e cioè di frasi connesse tra loro. La produzione di storie può
essere stimolata anche scegliendo personaggi e oggetti emblematici e
invitando i bambini ad inventare una storia. Questa prova permette di
ottenere un linguaggio più spontaneo e valutare oltre all’abilità
strettamente linguistica di strutturare e connettere frasi, anche la
capacità di costruire e strutturare il discorso.
Dopo la prima infanzia e, soprattutto dopo la fase considerata cruciale per il
primo sviluppo linguistico (fino ai 24-30 mesi) si utilizzano strumenti in cui
il “ruolo di protagonista” spetta al bambino. I principali test sono:
Questionario sullo sviluppo comunicativo e linguistico nel secondo
anno di vita (QSCL) (Camaioni et al. 1992): prevede la valutazione
dell’uso di vocalizzi, gesti comunicativi, parole e frasi.
Scala di valutazione (Cipriani et al. 1993): valuta l’organizzazione
morfosintattica.
Primo vocabolario del bambino (PVB) (Caselli e Casadio 1995):
valuta la comprensione del linguaggio.
Questionario sull’uso del gesto di indicare nel bambino (QPOINT)
(Perrucchini e Camaioni, 1999): valuta l’uso del gesto di indicare con
funzione richiestiva o dichiarativa.
Schema di codifica delle prime combinazioni di gesti e parole
(Cipriani et al, 1996): indaga il ruolo che viene svolto dai gesti nelle
combinazioni di più parole.
5
Peabody Picture Vocabolary Test-R (P.P.V.T.R) (Dunn e Dunn, 1981):
il test misura un importante aspetto del linguaggio orale, il linguaggio
recettivo, ed è assai diffuso come misura dello sviluppo del bambino
anche a livello prescolare in quanto non richiede la lettura di singole
parole e richiede una risposta di tipo gestuale.
Test di valutazione del linguaggio (TVL) (Cianchetti e Sannio
Fancello, 1997): valuta il linguaggio dei bambini dai due anni e mezzo
fino ai sei anni. Consente un’indagine plurisettoriale rapida e completa,
comprendendo gli aspetti strutturali e funzionali principali della
capacità linguistica nella sua duplice dimensione di comprensione e
produzione.
1.7 Le competenze pragmatiche e la comunicazione referenziale
La pragmatica è la relazione tra lingua e contesto grammaticalizzante o
codificate nella struttura della lingua. Lingua intesa come modo di agire e
interagire, come strumento del quale i parlanti si servono nei concreti contesti
comunicativi, per compiere azioni per stabilire rapporti per influenzare i
comportamenti. Il contesto è il mondo sociale e psicologico in cui chi parla
opera in un dato momento. La competenza pragmatica è:
la capacità di produrre un enunciato comunicativo che veicoli una
determinata azione comunicativa;
la capacità di riconoscere l’azione comunicativa portata a termine da
un determinato enunciato;
abilità di compiere inferenze sui presupposti dell’interazione e di
collegare gli enunciati al contesto verbale e non verbale della loro
produzione;
conoscenza degli aspetti del contesto rilevanti per il significato degli
enunciati:
ruolo e status dei partecipanti
5
localizzazione spaziale e temporale delle entità rilevanti
mediatori (lingua scritta e orale)
livello di formalità richiesto dalla situazione
argomento del discorso
Il linguaggio viene visto come lo strumento del processo di socializzazione e
come l’oggetto del processo di socializzazione. I bambini comprendono i
contesti sociali attraverso l’esposizione ad eventi sociali, ma soprattutto
attraverso la partecipazione ad eventi ed attività verbalmente caratterizzati.
Gli aspetti più rilevanti della competenza pragmatica sono:
Richiamare l’attenzione dell’iterlocutore:
- Sguardo ed espressioni facciali
- Contatto fisico
- Strategie verbali
Alternanza dei turni:
- Abilità di discriminare i segnali linguistici e prosodici che nella conversazione
indicano quando il turno può passare da un parlante all’altro
- Abilità di inserirsi nella conversazione in modo contingente e rilevante
Scambiare informazioni pertinenti
- Necessità della comprensione del contesto linguistico ed extralinguistico
Permettere all’ascoltatore di identificare ciò di cui si parla
- Abilità di produrre enunciati intellegibili dal punto di vista articolatorio e a cui
l’interlocutore sappia assegnare un significato
Il bambino comincia ad acquisire precocemente la capacità di utilizzare
adeguatamente il linguaggio nelle diverse situazioni comunicative. Già a un
anno il bambino impara a rivestire un ruolo comunicativo complementare a
quello dell’adulto. L’uso di strategie verbali e non verbali per sollecitare
l’attenzione dell’interlocutore e dare inizio ad uno scambio comunicativo
emerge nel secondo anno di vita. Sempre in questo periodo ripetono il
proprio enunciato se si accorgono di non essere compresi e poco dopo
segnalano ad un coetaneo la mancanza di comprensione. Precocemente (2°-
5
3° anno) in situazione note i bambini partecipano a dialoghi alternando i
turni, rispettando la stabilità tematica e fornendo informazioni nuove. A 4-5
anni sanno argomentare la propria posizione in una disputa e semplificare il
proprio linguaggio parlando con un bambino più piccolo. Lo sviluppo
prosegue con una progressiva decontestualizzazione del discorso e di un
migliore uso delle presupposizioni relative agli interlocutori (comunicazione
referenziale). (Rollo, 2006)
1.7.1 La comunicazione referenziale
La comunicazione referenziale si riferisce alla capacità di utilizzare il
linguaggio per scopi comunicativi. L’atto di referenza è efficace quando il
messaggio prodotto dal parlante è chiaro, completo e informativo per
l’ascoltatore che così identifica l’oggetto o l’evento a cui il messaggio si
riferisce. Durante la vita quotidiana con interlocutori e contesti familiari
difficilmente il bambino sperimenta le difficoltà del “capire” e del “farsi
capire”. Infatti vi è un’ ampia condivisione dei significati e delle conoscenze
che permette la riuscita dello scambio comunicativo. Questo naturalmente
non succede quando il bambino entra in ambienti nuovi, contesti istituzionali
come la scuola. La conversazione tra insegnanti e allievi non avviene in un
contesto facilitante e supportivo come nell’ambiente familiare; inoltre il
contesto raramente è diadico, ma per lo più poliadico. Perciò la
comunicazione referenziale, ovvero la capacità di riferirsi verbalmente ad un
oggetto o evento esterno così da identificarlo rispetto alle possibili
alternative, implica sia l’abilità di formulare i propri messaggi nel modo più
chiaro possibile, sia l’abilità di riconoscere quando i messaggi ricevuti non
sono chiari e occorre chiedere informazioni aggiuntive (Camaioni, 2001).
Fino ai 7-8 anni i bambini tendono a produrre messaggi ridondanti piuttosto
che informativi, ovvero descrivono anche particolari inutili che non servono
per identificare il referente. I bambini diventano parlanti efficaci prima di
5
ascoltatori efficaci; solamente intorno a 10-11 anni raggiungono posizioni
simili in entrambe le competenze (Camaioni, Ercolani e Lloyd 1995 a; 1995
b; 1998; Lloyd, Camaioni e Ercolani 1995). Per l’acquisizione di una buona
capacità di comunicazione referenziale intervengono diverse abilità:
Abilità percettive: differenziare gli attributi del referente da quelle del
non referente.
Abilità discriminative: identificare somiglianze e differenze tra
referente e non referente.
Abilità di memoria: ricordare gli attributi criteriali per poi codificarli
verbalmente.
Abilità linguistiche: codificare gli attributi criteriali.
1.7.2 Produzione e comprensione
Secondo alcuni autori (Higgins, 1981) farsi capire e capire sono due attività
indipendenti. Il comportamento del bambino che non capisce è spesso
sottovalutato dagli adulti, che lo giustificano dicendo frasi del tipo “capisce,
ma fa finta di no”. Queste reazioni degli adulti possono rendere difficile per il
bambino il compito di migliorare la propria comprensione verbale.
Solitamente i bambini al di sotto dei 7-8 anni tendono a prendere per buoni i
messaggi ambigui anzichè chiedere ulteriori informazioni. Sembra che non si
rendano conto nè che i messaggi verbali possono essere ambigui, nè che
l’ambiguità può causare il fallimento della comunicazione. Diversi autori
hanno mostrato che la tendenza ad agire, piuttosto che a sospendere l’azione,
sulla base di descrizioni e istruzioni ambigue, non implica necessariamente
che il bambino non si renda conto che c’è qualcosa che non va nel
messaggio. Probabilmente la consapevolezza c’è, ma non c’è la capacità di
risolverla. I bambini riescono a risolvere gradualmente le difficoltà di
comprensione solo nel momento in cui si rendono conto che i messaggi
possono essere problematici, da qualsiasi fonte derivino. Diventano
5
consapevoli del fatto che ciò che viene detto non corrisponde
necessariamente a ciò che si voleva dire, consapevoli della necessità di
recuperare l’informazione incompleta, ad esempio adottando strategie
riparatorie come le domande di chiarimento. La crescita delle capacità
metacognitive e metacomunicative, tra i 7 e gli 11 anni, spiega l’aumento del
numero dei messaggi ambigui che vengono identificati e risolti (dal 30% al
70%) (Llyod, Mann e Peers, 1998). Per quanto riguarda la produzione
sappiamo che i bambini tra i 4-5 anni e fino ai 7-8 anni forniscono prestazioni
piuttosto scarse nei compiti di comunicazione referenziale; producono
messaggi che risultano completamente informativi ma che presentano
numerose ambiguità. Chiaramente l’informatività dei messaggi varia in
funzione della semplicità/complessità del referente da descrivere. Ad
esempio in età prescolare i bambini forniscono descrizioni abbastanza
informative di figure geometriche che variano per una sola caratteristica, ma
le descrizioni diventano ambigue se le stesse figure variano tra loro per due o
tre caratteristiche (Whitehurst e Sonnenschein, 1978). Inoltre i bambini
producono messaggi maggiormente informativi se si riferiscono a figure
familiari che variano per un numero limitato di attributi (Camaioni e
Ercolani, 1987). A 9 anni comunque è stato trovato che i bambini sono in
grado di descrivere figure familiari inserite in insiemi che variano per due o
tre attributi senza ambiguità o incertezza.
1.7.3 Valutazione delle abilità comunicative referenziali
Compiti sperimentali: per studiare lo sviluppo della comunicazione
referenziale in età scolare e prescolare è stato ampiamente utilizzato un
compito sperimentale di Krauss e Glucksberg (1969). Nella versione
classica di questo compito, due bambini seduti ai lati opposti di un
tavolo e separati visivamente da uno schermo opaco, devono
comunicare verbalmente circa l’identità di figure insolite. La presenza
di uno schermo opaco interposto tra parlante e ascoltatore li vincola ad
5
utilizzare il solo canale verbale e inibisce il ricorso sia agli indici visivi
sia alla comunicazione non verbale. La consegna al bambino che funge
da “parlante” è di descrivere una serie di figure in modo che il suo
interlocutore possa identificare la figura bersaglio di volta in volta
descritta all’interno della propria serie, che comprende le stesse figure
ma disposte in ordine diverso. Il bambino che funge da “ascoltatore”
riceve diversi tipi di messaggi, sia informativi che ambigui; la
consegna è quella di identificare la figura che corrisponde al
messaggio, e dunque quando il messaggio è ambiguo, egli deve
riconoscerne e risolverne l’ambiguità. In caso di comunicazione
perfettamente riuscita, la serie di figure scelte dall’ascoltatore sarà, alla
fine del compito, del tutto identica alla serie descritta dal parlante
(Camaioni, 2001). Sono state mosse diverse critiche a questo compito,
come l’utilizzo di figure astratte e senza senso che hanno portato in un
secondo momento all’utilizzo di figure familiari (Camaioni e Ercolani,
1987; 1990). Inoltre secondo alcuni autori non sono stati presi in esami
alcuni aspetti molto importanti della comunicazione quotidiana come
le abilità conversazionali e di negoziazione. Anche se, va ricordato che
il compito intende misurare, sia in condizioni di produzione che di
comprensione, la capacità di valutare l’informazione verbale e non la
capacità comunicativa in generale.
Prove standardizzate: attraverso una Prova di comunicazione
referenziale (Camaioni, Ercolani e Lloyd, 1995 a; 1995b) è possibile
valutare la capacità del bambino di mettere in relazione messaggio,
significato e referente. Questa prova è rivolta a soggetti in età
evolutiva. Misura la capacità del soggetto di produrre messaggi
completamente informativi e la sua capacità di comprendere i
messaggi che ascolta. È una prova da somministrare individualmente,
oggettiva, accompagnata da una manuale per l’attribuzione di punteggi
5
e valutazioni. Anche in questo caso il soggetto e l’esaminatore sono
posti l’uno di fronte all’altro separati da uno schermo opaco. La prova
si compone di 30 item, corrispondenti ad altrettante tavole raccolte in
un quaderno, nelle quali sono presenti una serie di figure disegnate e
colorate:
- 13 item valutano la capacità del soggetto come “parlante” di produrre
messaggi informativi;
- 13 item valutano la capacità del soggetto come “ascoltatore” di
rispondere a messaggi inadeguati risolvendone l’ambiguità;
- 3 item valutano la capacità del soggetto come “ascoltatore” di
rispondere a messaggi adeguati, cioè completamente formativi.
In ciascuna tavola le figure differiscono per una, due o tre dimensioni,
quali la forma, il colore, la grandezza, la quantità, la relazione spaziale,
il cambiamento di stato.
figura 1.1 - Il bambino in questo caso deve descrivere la figura incorniciata
5
figura 1.2 - Il bambino deve individuare l’albero scelto dallo sperimentatore
La somministrazione della prova dura in media venti minuti. Il ruolo
dell’esaminatore è particolarmente importante perchè egli funge da
partner comunicativo o interlocutore del bambino. La Prova di
comunicazione referenziale può essere applicata sia in campo educativo
che scolastico. Può fornire agli insegnanti e agli psicologi scolastici uno
strumento adatto a valutare le abilità di comunicazione verbale, sul piano
sia della produzione che della comprensione. In campo clinico fornisce un
valido aiuto diagnostico, utile a valutare la natura di difficoltà e carenze
comunicative che possono insorgere in soggetti a rischio .
6
6
Capitolo 2
IL PENSIERO NARRATIVO E L’ATTIVITA’ DEL
RACCONTARE
Si ipotizza che alla base di qualunque tentativo di dare un senso
all’esperienza umana ci sia un particolare tipo di pensiero e che esso guidi
anche la produzione e comprensione di testi narrativi (Camaioni, 2001). Fin
da bambini siamo immersi nel mondo nella narrazione: non solo fiabe e
favole, ma anche racconti di esperienze di vita quotidiana, racconti
autobiografici. Le narrazioni di qualsiasi tipo ci accompagnano tutta la vita.
Le storie compaiono così precocemente nell’esperienza comunicativa del
6
bambino, che alcuni autori, in particolare Bruner (1986;1990), hanno
avanzato l’ipotesi che vi sia una predisposizione innata negli esseri umani a
organizzare il pensiero in forma di narrazione. La finalità del pensiero
narrativo è la comprensione e interpretazione dell’esperienza umana.
Secondo Bruner (1986) durante l’interpretazione degli eventi, vengono messe
in collegamento le azioni e i comportamenti delle singole persone con i loro
desideri, credenze, emozioni e valori.
La funzione del narrare è universale, cioè è un modo universale di
organizzare e dare senso all’esperienza, ma le sue realizzazioni sono
culturalmente determinate. Per Bruner (1990) la comunicazione narrativa
svolge un ruolo rilevante per l’acquisizione del linguaggio e ipotizza che il
linguaggio venga acquisito per riferirsi alla propria esperienza soggettiva e
intersoggettiva: esso rivela tutto il suo potere conoscitivo e comunicativo nei
contesti significativi in cui la diade madre-bambino coopera per il
raggiungimento di uno scopo comune (Camaioni, 2001). Il bambino
costruisce le sue conoscenze sulla realtà sociale attraverso i propri e altrui
racconti, ma non solo; costruisce anche la propria identità individuale sociale.
2.1 Pensiero narrativo vs pensiero paradigmatico
Per Bruner (1986; 1991) come detto in precedenza, il pensiero narrativo è
alla base della capacità tipicamente umana di narrare, che in senso
qualitativo, si contrappone e si collega a quello logico-scientifico e
paradigmatico. Il pensiero paradigmatico, come evidenzia Bruner nei suoi
lavori (Bruner e Lucariello, 1989; Levorato, 2000; Smorti, 1994, 1997)
appare tipico del ragionamento scientifico nel suo orientamento verticale-
gerarchico che connette oggetti e/o eventi al di fuori del contesto, procedendo
per falsificazioni e generalizzazioni verso la definizione di leggi “estensive”
(Rollo, 2006). Ricorrendo al pensiero paradigmatico, si cerca di mettere in
relazione il caso particolare a leggi generali. Il pensiero narrativo invece è
tipico del ragionamento quotidiano, che facendosi influenzare dal contesto,
6
organizza oggetti e/o eventi in senso orizzontale di coerenza. Lo scopo del
pensiero narrativo è quello di “narrare” storie e non di verificare teorie. Le
storie narrate non sono generali, ma specifiche e sensibili alle variazioni del
contesto; non sono paradigmatiche, ma sintagmatiche, “nel senso che l’asse
del suo linguaggio è orizzontale e riguarda tutte le possibili opzioni
sintattiche per concatenare le parole o le frasi tra loro” (Smorti, 1994). Il
pensiero narrativo può essere definito come “clinico” e ideografico essendo
basato su singoli casi di eventi. Non cerca leggi universali e normative. Il
pensiero paradigmatico si organizza in concetti o categorie, mentre il
pensiero narrativo ruota attorno a temi o collezioni (Rollo, 2006). In un caso
si parlerà di rappresentazione categoriale, nell’altra di rappresentazione
schematica (Mandler, 1984). Sono anche diverse le strategie utilizzate per
organizzare gli eventi: strategie che coesistono e interagiscono in età adulta,
si collocano una di seguito all’altra nel corso dello sviluppo. Gli adulti, non
abbandonano i primi modo utilizzati dai bambini per classificare gli eventi
(copioni), ma vengono integrati in sistemi concettuali più elaborati, che
implicano la coesistenza di modi diversi di classificare, ora prevalentemente
narrativi, ora prevalentemente paradigmatici (Rollo, Pinelli, Perini, 2002).
Mentre l’adulto generalizza le leggi anche ai propri casi (chiamando cane
anche Fido), il bambino narra le routine della sua giornata generalizzando il
racconto a tutti i casi che incontra (tutti i cani si chiamano come il suo). I due
modi di pensare sono presenti nell’individuo e nella realtà e difficilmente
possono essere discriminati l’uno dall’altro, perchè spesso agiscono insieme e
vengono attivati a turno in base agli aspetti del contesto che prevalgono
(Rollo, 2006)
2.2 La competenza narrativa
2.2.1 Molteplicità di generi narrativi
6
Anche se tutti i racconti e le storie sono il risultato di una struttura di pensiero
comune, la forma di ciascuna di esse può variare a seconda del tipo di
episodio a cui fanno riferimento (Baumgartner e Devescovi, 2002). Sono stati
individuati tre generi narrativi: gli script, le narrazioni di eventi personale e il
racconto di storie fantastiche.
Gli script sono narrazioni di azioni di rotine, sono rappresentazioni
schematiche di eventi sociali che vengono apprese molto precocemente.
Bambino di cinque anni: “Va bene. Allora per primo andiamo nei ristoranti di sera e noi,
ehm, noi e noi andiamo e aspettiamo per un pò, e poi arriva il cameriere e ci dà quella
piccola cosa dove ci sono i piatti, e poi aspettiamo per un pò, una mezz’ora o un pò di
minuti o qualcosa del genere, e ehm, poi arriva la nostra pizza o qualcosa d’altro, e ehm
(interruzione)... (L’adulto dice: “Così poi arriva il cibo...”) Poi la mangiamo e ehm, poi
quando abbiamo finito di mangiare l’insalata che ordiniamo, dobbiamo mangiare la
nostra pizza quando è pronta, perchè ci danno l’insalata prima che la pizza sia pronta.
Così poi quando abbiamo finito tutta la pizza e tutta la nostra insalata ce ne andiamo”.
(Nelson, 1981, p. 103)
“Il bambino percepisce e partecipa agli eventi e costruisce delle
rappresentazioni mentali relative alle azioni, agli agenti e agli oggetti
qualificanti, oltre che alle relazioni spaziali e temporali tra di essi” (Levorato,
1988, p. 245). La presenza di questa rappresentazione è dimostrata dalla
capacità dei bambini di imitare, in una situazione di gioco simbolico
sequenze di azioni familiari (qualora queste sequenze siano presentate
nell’ordine cronologico giusto) già intorno ai due anni. A tre anni poi sono
capaci di riprodurre anche linguisticamente script molto semplici.
Naturalmente con l’aumentare dell’età e dell’esperienza aumentano il numero
e la complessità delle situazioni a cui i bambini sanno fare riferimento.
McCabe e Peterson (1991) e Katherine Nelson e i suoi collaboratori (1989)
hanno dimostrato che le principali differenze fra le narrazioni di script di
bambini in età prescolare e quelle di bambini in età scolare non risiedono
6
tanto nel numero di informazioni contenute, quanto nel tipo di elementi
strutturali presenti e nella flessibilità con cui i bambini sanno fare riferimento
alla sequenza canonica di eventi: tra i sei e gli otto anni i bambini diventano
sempre più capaci di esplicitare i legami temporali e causali, aggiungere
informazioni opzionali ed esprimere chiaramente una conclusione. Inoltre se
si richiede di rievocare verbalmente uno script in cui alcune azioni sono state
presentate in ordine casuale, mentre i bambini in età prescolare omettono di
rievocare le azioni incongruenti secondo l’ordine canonico, quelli in età
scolare sono in grado di inserirle in qualche modo nelle loro narrazioni
(Baumgartner e Devescovi 2002). Inoltre, gli script dei più bambini piccoli
sono molto più legati alle esperienze personali.
Le narrazioni di esperienze personali si basano sul ricordo di esperienze
singolari e specifiche che si sono determinate in un dato momento, di cui si è
avuta un’esperienza personale. Già a due anni e mezzo, i bambini nelle
conversazioni con gli adulti sono in grado di ricordare e riferire esperienze
accadute precedentemente (Hudson e Shapiro, 1991). Intorno ai quattro e
cinque anni aumenta considerevolmente la capacità di fornire una
conclusione al racconto; invece quello di arricchirlo di una “coda” che dia
coerenza all’intero episodio o lo colleghi al presente emerge solo intorno agli
otto anni (Peterson e McCabe, 1983).
Le conoscenze a cui si rifanno questi due generi narrativi, gli script e le
narrazioni di eventi personali, sono parzialmente diverse: generali per gli
script ed episodiche e specifiche per le narrazioni personali. Chiaramente
queste due conoscenze si intersecano fra di loro; infatti durante la narrazione
di episodi personali verranno menzionati aspetti di routine. Inoltre le
narrazione personali, al contrario degli script non sono legate ad un preciso
ordine cronologico. Secondo Labov e Waletzky (1967) contengono alcuni
elementi distintivi che le distinguono dagli altri generi narrativi:
- l’introduzione
6
- la presenza di un riassunto
- alcune informazioni di carattere generale che costituiscono lo sfondo
- gli eventi salienti
- una valutazione del narratore su ciò che è accaduto
- la risoluzione
- talvolta una coda che collega l’episodio passato al presente
Il racconto di storie di fantasia viene acquisita dal bambino gradualmente nel
corso dello sviluppo, perchè è un’attività-abilità complessa. Implica infatti
l’acquisizione di diversi tipi di conoscenze e abilità: la capacità di riferirsi a
luoghi, personaggi, tempi che non hanno relazione con la situazione attuale e
di rappresentarsi mentalmente eventi diversi, la conoscenza delle interazioni
sociali, il tenere in considerazione il punto di vista dell’ascoltatore, la
conoscenza della struttura tipica delle storie e la capacità di collegare gli
eventi principali con quelli secondari. La difficoltà nel bambino è passare dal
“conoscere al raccontare” (Hudson e Shapiro, 1991). Gli autori concordano
nell’individuare cinque elementi fondamentali che costituiscono una storia
(Rumelhart, 1975; Kintsch, 1974; Mandler, 1984; Stein e Glenn, 1982):
1- l’inizio formale (“c’era una volta”) e l’introduzione del contesto e dei
personaggi;
2- l’evento iniziale semplice o complesso che spinge il protagonista a
prefiggersi il raggiungimento di uno scopo;
3- i tentativi dei personaggi di raggiungere uno scopo e gli impedimenti
e/o gli aiuti esterni;
4- la risoluzione del problema o il raggiungimento dello scopo
5- le conseguenze e la conclusione, che spesso è anch’essa formale (“e
vissero a lungo felici e contenti”).
Il racconto di storie fantastiche riveste una grande importanza nelle culture
orali perchè permette di trasmettere conoscenze, valori e insegnamenti morali
di una specifica cultura. Il linguaggio utilizzato risulta essere altamente
6
decontestualizzato, cioè non fa riferimento nè ad esperienze personali nè ad
azioni e oggetti concreti come invece avviene per altre forme narrative. I
racconti fantastici risultano essere il luogo privilegiato per l’osservazione
dello sviluppo linguistico e socio-cognitivo dei bambini. Attraverso le
rielaborazioni narrative dei bambini e le spiegazioni che le accompagnano è
possibile comprendere e descrivere il mondo della mente infantile, il modo in
cui il bambino si rappresenta e interpreta la conoscenza sociale. I bambini di
quattro anni sono in grado di rievocare una storia che hanno sentito
raccontare rispettando l’intreccio narrativo (Mandler, 1984), ma non sono
ancora capaci di strutturare in modo coerente una storia di fantasia. Molti
autori ritengono che le prime storie raccontate dai bambini contengono una
serie di azioni collegate temporalmente. Anche se in età prescolare le storie
raccontate possono assumere una struttura e una fisionomia ben definita,
difficilmente contengono riferimenti agli scopi, motivazioni e reazioni
emotive dei personaggi, che compaiono solo intorno agli otto anni. Bisogna
però notare che, se anche le storie non sono ancora ben formate, i bambini
più piccoli sanno utilizzare alcuni mezzi formali che distinguono una storia di
fantasia come l’introduzione (c’era una volta) o le conclusioni (e vissero a
lungo felici e contenti) e l’uso del tempo passato o addirittura remoto,
utilizzato da gran parte dei bambini solo in queste situazioni.
2.2.2 Fattori che influenzano lo sviluppo della competenza narrativa
Sono stati individuati numerosi e diversi fattori che possono influenzare lo
sviluppo della competenza narrative. I più evidenti sono:
età: chiaramente più il bambino cresce e più riesce a padroneggiare le
forme linguistiche della narrazione;
diversi generi narrativi: anche i diversi generi narrativi influenzano i
processi di sviluppo. Infatti le capacità narrative si manifestano più
precocemente nelle narrazioni di eventi personali e di routine che sono
6
presenti già al terzo anno di età, mentre le narrazioni fantastiche
sembrano arrivare ad un livello di elaborazione soddisfacente solo in
età scolare;
fattori culturali: l’esposizione a diversi generi narrativi può essere
legata al contesto culturale di appartenenza. In uno studio statunitense
(1983) è stato trovato che i bambini appartenenti a comunità bianche
con un reddito medio fanno maggiormente esperienza di narrazioni di
eventi realmente accaduti, mentre i bambini di comunità afroamericane
a basso reddito ascoltano per lo più narrazioni personali;
modalità di interazione con la madre e/o con gli educatori: Nelson
(1991) ha mostrato che le madri che utilizzavano domande poco
direttive e cercavano di fornire ulteriori informazioni a ciò che il
bambino diceva, stimolavano narrazioni maggiormente articolate e ben
formate.
Lo sviluppo delle competenze narrative è legato non solo all’aumentare
dell’età e delle abilità linguistiche (come è naturale aspettarsi), ma anche al
tipo e alla quantità di esperienze quotidiane legate alla narrazione, come si
vedrà a proposito dell’interazione adulto-bambino durante la lettura.
2.2.3 Tante abilità per raccontare
Solitamente, per analizzare le storie narrate dai bambini in età prescolare, si
rileva la presenza di tre elementi che rendono la storia del bambino efficace
dal punto di vista linguistico e comunicativo: complessità strutturale,
coesione e coerenza.
Gli espedienti linguistici che servono a garantire la coesione delle storie
seguono una storia parallela al progressivo strutturarsi dello schema delle
storie, e consistono in pronomi, connettivi causali e temporali, proposizioni
subordinate e tutto ciò che permette di unire le singole frasi per rendere l’idea
di una totalità unitaria (Rollo, 2006). Naturalmente anche il rispetto di altre
6
regole quali quelle morfologiche e grammaticali, e l’utilizzo di congiunzioni
e avverbi, permette di ottenere una narrazione linguisticamente coesa.
La complessità strutturale fa riferimento al chi, cosa, quando, dove e come,
cioè fa riferimento agli elementi costitutivi della storia. Per formare storie che
possano essere definite ben strutturate occorre che le informazioni presenti
facciano riferimento a :
inizio o introduzione con definizione di personaggi, ambientazione e
problema;
svolgimento o complicazione del problema;
soluzione del problema e conclusione.
La presenza, assenza o combinazione di questi elementi costitutivi definisce
la complessità strutturale, che è stata ordinata in cinque livelli (Spiniello e
Pinto, 1994):
non storia: descrizione o elencazione di eventi, fatti, oggetti, aspetti del
paesaggio discontinuità dei personaggi e mancanza di una conclusione;
abbozzo di storia: varie combinazioni degli elementi costitutivi in cui
però mancano sempre parti importanti quali il problema e/o la
soluzione e/o lo svolgimento;
storia incompleta: presenza di molti elementi strutturali, ma assenza
costante dello svolgimento;
storia essenziale: mancanza di elementi strutturali non essenziali, ad
esempio l’ambientazione;
storia completa: presenza di tutti gli elementi costitutivi, di cui solo il
titolo è considerato opzionale.
Per quanto riguarda la coerenza, il contenuto della storia per essere tale deve
rispettare lo schema inizio-ambientazione-problema-soluzione-fine (Hudson,
Shapiro, 1991). Chiaramente una storia può essere coesa dal punto di vista
strutturale, ma non da quello linguistico, oppure può essere coesa ma non
coerente perchè alcune componenti strutturali sono omesse. I bambini più
7
piccoli difficilmente riescono a produrre storie che siano
contemporaneamente coese e coerenti. Ma anche in questo caso la
performance di narrazione dipende dal tipo di compito: se la storia è il
resoconto di un’esperienza reale, i bambini già a quattro anni mostrano una
coerenza narrativa migliore, rispetto a quando viene chiesto loro di
raccontare storie verosimili senza alcun supporto figurale. L’aspetto della
coerenza può essere ricondotto alle massime conversazionali di Grice (1975):
Quantità: si riferisce alla quantità di informazioni fornite e si scompone
in “da un contributo tanto informativo quanto richiesto”; “non dare un
contributo più informativo di quanto richiesto”.
Qualità: “Tenta di dare un contributo che sia vero” scomposto in “non
dire ciò che credi essere falso”; “non dire ciò per cui non hai prove
adeguate”.
Relazione: prescrive che la comunicazione sia rilevante “sii
pertinente”.
Modo: si riferisce a come si dice ciò che viene detto, “sii perspicuo”, si
specifica in “evita le oscurità di espressioni”; “evita l’ambiguità”; “sii
breve”; “sii ordinato nell’esposizione”.
Attraverso l’identità di referenza la coerenza si manifesta intorno ai tre anni:
il vedere sempre lo stesso personaggio che fa cose diverse. Solo tra i tre e i
quattro anni all’identità si aggiunge la scoperta di relazioni causali o
temporali tra eventi.
2.2.4 La comprensione della soggettività
Nei testi narrativi sono presenti due componenti o scenari: quello delle azioni
e quello della coscienza (Bruner, 1991). Il primo si riferisce all’aspetto
cronachistico della narrazione (il livello dei fatti ed eventi, le azioni, gli
ambienti); il secondo riguarda le emozioni, gli affetti, le credenze e i valori
dei personaggi. In età evolutiva è più facile comprendere e rievocare la
7
sequenza delle azioni piuttosto che lo scenario della coscienza perchè gli stati
interni del personaggio non sempre sono esplicitati, e dunque per essere
ricostruiti necessitano di processi inferenziali, e perchè la conoscenza della
psiche è il risultato di un processo evolutivo piuttosto lungo e complesso.
Gli studi evolutivi sulla conoscenza degli stati interni soggettivi riguardano la
comprensione delle emozioni e la rappresentazione e degli stati mentali
altrui, di ciò che l’altro conosce, sa, percepisce, crede: nella letteratura ci si
riferisce a questo insieme di conoscenze con l’espressione “teoria della
mente”, che designa la concezione che gli individui hanno circa gli stati
mentali propri e altrui (Camaioni, 1995 a). Intorno ai tre anni il bambino è in
grado di differenziare il mondo fisico da quello mentale, ed è in grado di
cogliere la relazione tra le azioni umane e i desideri sottostanti. È intorno ai
tre quattro anni che si sviluppa una teoria della mente che mette in relazione
causale i desideri, le credenze, i comportamenti e le emozioni (almeno le più
semplici quali felicità, rabbia e tristezza) (Stein e Levine, 1990). A quattro
anni il bambino è in grado di tener distinte le proprie conoscenze da quelle
degli altri. Ora può capire come gli altri compiano delle azioni sulla base di
credenze erronee (Perner, Leekman e Wimmer, 1987). Inoltre il piccolo
lettore capisce che le sue conoscenze circa i pensieri, le emozioni e le
aspettative dei personaggi non sempre sono le stesse del personaggio. Tra i
cinque e gli otto anni, grazie all’evoluzione della competenza emotiva, il
bambino riconosce ed attribuisce agli altri emozioni complesse quali la
vergogna, l’orgoglio, il senso di colpa. A tre anni i bambini leggendo una
storia non comprendono che un personaggio mascherato conserva la propria
identità. Solo intorno ai cinque anni si sviluppa questa comprensione (Keil,
1989). I testi narrativi costituiscono uno strumento potente per la
comprensione della psiche umana e rappresentano una parte importante e
significativa del materiale che tutti, non solo in età evolutiva, abbiamo a
disposizione per costruire una teoria della mente (Camaioni, 2001). Nei
7
lettori si manifesta la voglia, il desiderio di comprendere i personaggi grazie
a uno stato emotivo che è innato nella specie umana: l’empatia che consente
di provare uno stato d’animo analogo a quello osservato in qualcun altro.
L’emozione del personaggio “contagia” il soggetto e tale vissuto emotivo
attiva la ricerca di indizi per comprendere perchè nel personaggio si sia
sviluppata quell’emozione, e quali eventi l’abbiano causata. Nel corso dello
sviluppo l’empatia assume diverse forme: all’inizio funziona per contagio
senza nessuna mediazione cognitiva; deriva da una forma automatica di
riconoscimento. In seguito grazie allo sviluppo cognitivo vi è una
modificazione qualitativa della natura della risposta empatica. Il lettore è in
grado di elaborare lo stato interno dell’altro, anche senza che vi corrisponda
un’espressione emotiva manifesta. Chiaramente questo processo evolutivo
non impedisce di provare ancora le forme più primitive di empatia: adulti che
assistono ad una scena commovente atteggiano il volto a tristezza senza
rendersene conto. L’empatia oltre ad aumentare il piacere, migliora la
comprensione: è un fattore fondamentale per la conoscenza e comprensione
della soggettività, non solo degli altri ma anche della propria.
2.3 Intrecci possibili tra teoria della mente e linguaggio
In letteratura sono disponibili diversi studi attraverso i quali si è cercato di
indagare, seppur partendo da prospettive teoriche differenti, questa
interconnessione. È stato dimostrato che la prestazione nei compiti di falsa
credenza si accompagna direttamente a diversi aspetti dell’abilità linguistica.
L’accessibilità a livelli crescenti di complessità linguistica delle domande di
verifica sottoposte ai bambini procederebbe di pari passo con il livello della
loro prestazione mentalistica (Astington e Jenkins, 1995; Bartsch e Wellman,
1995). Jenkins e Astington (1996) hanno riscontrato una correlazione molto
significativa tra l’utilizzo della teoria della mente, testato attraverso la
somministrazione di quattro prove di falsa credenza, e il livello di maturità
7
semantica e sintattica, accertato attraverso il Test dello sviluppo del
linguaggio precoce (TELD, Test of Early Language Development).
Complessivamente si ritiene che la comparsa nel linguaggio del bambino di
termini quali “volere”, “desiderare”, “pensare”, “conoscere” ecc.. corrisponda
a un segnale molto importante che testimonia un avanzamento nella
comprensione degli stati mentali propri e altrui (cfr. Bartsch e Wellman,
1995; Shatz, Wellman e Silber, 1983). D’altra parte la plausibilità di questo
legame appare quasi ovvia se si guarda allo sviluppo del bambino e agli
eventi che popolano la sua quotidianità (Marchetti e Massaro 2002). I
discorsi dei genitori rivolti ai figli “parlano” di desideri, emozioni, intenzioni
e credenze. Il bambino è soggetto a una considerevole esposizione al mondo
mentale. La ricerca recente tende a ritenere veritiero il rapporto di
interdipendenza tra abilità linguistiche e teoria della mente, evidenziando il
ruolo delle narrazioni come strumento utile per valutare le competenze
mentalistiche del bambino (Charman e Shmueli-Goetz, 1998). Secondo
Astington e Jenkins (1995) il rapporto tra linguaggio e teoria della mente può
essere riassunto in quattro punti fondamentali:
1- l’acquisizione della teoria della mente precederebbe quella del
linguaggio, fornendogli una base su cui strutturarsi.
2- Il legame tra teoria della mente e linguaggio è di tipo indiretto. Il
linguaggio faciliterebbe l’interazione sociale, favorendo di
conseguenza lo sviluppo della cognizione sociale. Il bambino essendo
esposto continuamente a vissuti sociali, verrebbe progressivamente
sollecitato a spiegare il comportamento delle persone attraverso
l’utilizzo di una teoria della mente. Si può parlare di una prospettiva
“socio-costruttivista” dove lo sviluppo delle abilità mentalistiche è
mediato dagli scambi comunicativi che si verificano all’interno della
famiglia (Dunn et al., 1991; Dunn, 1993, 2000; Peterson, Siegal,
1995).
7
3- I bambini entrerebbero in possesso della capacità di ricondurre il
comportamento a presupposti mentalistici prima di quanto non sia stato
rilevato fino a questo momento. La presenza di questa competenza
precoce sarebbe offuscata dalla complessità linguistica e dalle
specifiche pragmatiche che solitamente contraddistinguono il
linguaggio utilizzato durante la somministrazione delle prove. La
competenza linguistica e il fattore conversazionale – vera e propria
variabile indipendente – influenzerebbero in maniera significativa la
performance dei bambini (Siegal e Beattie, 1991; Siegal e Peterson,
1994).
4- Dipendenza molto stretta della teoria della mente dal linguaggio:
sarebbe in altre parole lo sviluppo del linguaggio a garantire il
bambino nell’acquisizione di una competenza mentalistica.
2.4 Leggere e raccontare insieme un libro illustrato
2.4.1 Bambini e adulti raccontano insieme
La lettura comune di un libro illustrato non è solo un gioco, ma è anche una
situazione comunicativa, che permette di osservare e descrivere diverse
strategie di condivisione delle conoscenze (Bruner, 1983). Il libro viene
vissuto dal bambino come “oggetto” da leggere ancor prima di aver imparato
a leggere e a scrivere. La lettura del libro è una situazione che non soltanto
arricchisce le conoscenze del bambino, ma favorisce anche una
decontestualizzazione del pensiero/linguaggio. Le immagini essendo
percepibili ma non reali, facilitano il distacco dalla realtà, spostando
l’attenzione agli aspetti rappresentativi della realtà medesima. Le immagini
forniscono al bambino un supporto esterno ed esplicito all’elaborazione di un
racconto immaginario, che in seguito il bambino potrà costruire anche senza
l’aiuto delle figure. Per riuscire a “leggere” insieme ad un’altra persona
occorrono diverse abilità: saper riconoscere il momento opportuno per
7
inserirsi nel dialogo, saper prestare attenzione a ciò che sta comunicando
l’altro, essere motivati a parlare con l’altro e avere il desiderio di eliminare
ogni sorta di incomprensione e di difficoltà. Insomma l’attività di lettura di
un libro è un luogo privilegiato di negoziazione di significati. Le ricerche di
Bruner e collaboratori hanno mostrato che l’interazione che si stabilisce tra
adulto e bambino durante l’osservazione di figure è finalizzata a presentare al
bambino le parole che servono a denominare le figure stesse, e
successivamente, a verificare le conoscenze del bambino su di esse, che non
sono sempre uguali a quelle degli adulti (Baumgartner e Devescovi, 2002).
Gli adulti nello sforzo di farsi comprendere dai bambini forniscono
moltissime spiegazioni per collegare gli eventi della storia, per chiarire il
significato delle parole e/o per delucidare caratteristiche e funzioni degli
oggetti, personaggi, eventi di cui si parla e infine per identificare i particolari
della figura ritenuti rilevanti per denominare un oggetto, personaggio, evento
in una certa maniera (Barbieri e Devescovi, 1989). Inoltre rendono esplicite
le informazioni che non sono espresse chiaramente nei disegni, in modo da
fornire al bambino le conoscenze necessarie per comprendere il significato
delle singole figure e/o dell’intera storia.
Barbieri, Devescovi e Bonardi (1984) hanno individuato due modalità di
interazione verbale utilizzate da alcune madri e da alcune educatrici di asilo
nido quando raccontavano la storia dello scoiattolino infortunato:
Monologo: gli adulti ricostruivano la storia con un lungo monologo,
interrotto da richieste di attenzione e domande retoriche quando il bambino si
distraeva. Questa modalità veniva adottata dalle madri indipendentemente
dall’età del bambino e dalle educatrici coi bambini più piccoli.
A: (...) E allora, chi viene? Viene la mamma a prenderlo su? Un coniglio con una
sciarpa (indica la sciarpa)
B: Sciarpa, palla (indica il sasso vicino alla zampa).
A: Eh ha un piede rotto e gliel’hanno fasciato...
7
B: (batte le mani) oplà.
A: E gliel’hanno fasciato, hai visto che gliel’hanno fasciato il piede allo scoiattolo
(gira la pagina e indica la zampa fasciata dello scoiattolo). Guarda, Marco, tutto
fasciato come hanno fatto con te con il piedino. Ti ricordi che anche a te hanno
fasciato il piede? (gira la pagina) e poi arriva anche il coniglio che gli misura la
febbre allo scoiattolo (gira la pagina) e poi gli tira la fascia. Cosa fai, Marco, eh? Su,
mettiamo via questo (si riferisce al pallone che Marco tiene in mano). Me lo dai? Chi
è questo qua? (indica lo scoiattolo).
B: Scoiattolo.
A: Uno scoiattolo con il piede rotto.
(Barbieri, Devescovi e Bonardi, 1984)
Spesso l’adulto, alla fine del racconto riguarda il libro con il bambino
facendogli delle domande per verificare se veramente ha capito la storia.
Dialogo: l’adulto in questo caso stimola il bambino con domande, in modo
da renderlo partecipe alla costruzione della storia. Di conseguenza,
difficilmente la narrazione verrà seguita da ulteriori domande per verificare la
comprensione del bambino. Tale stile è adottato solo dalle educatrici con i
bambini più grandi.
A: Inciampa e cade per terra! Guarda! Patapumfete! (sottolinea il suono con un gesto
della mano che si abbassa bruscamente). Si fa male, secondo te, Linda lo scoiattolo?
B: (annuisce).
A: Sì, si fa male? Guardiamo se si fa male (gira la pagina). E dove lo porta?
B: Dalla sua mamma.
A: è la sua mamma questa? (indica il gufo).
B: Sì.
A: E che cos’ha in mano, che cosa sta facendo la sua mamma?
B: Non lo so.
A: Non lo sai? Guarda un pò che piedone che ha lo scoiattolino! Hai visto che
piedone ha? Che cosa gli è successo?
B: Si è fatto male alla gamba.
A: Oh si è fatto male alla gamba lo scoiattolino, e questa allora non è la sua mamma,
è il dottore, guarda che gli mette la fascia.
7
(Barbieri, Devescovi e Bonardi, 1984)
Gli studiosi si sono chiesti se l’utilizzo dell’una o dell’altra modalità fosse
legata all’età del bambino o a caratteristiche dell’adulto. Molinari (1989) ha
confrontato quattro gruppi di madri: casalinghe, insegnanti, operaie,
impiegate con diversi livelli di scolarità. I risultati hanno mostrato che a un
basso livello socioculturale corrisponde globalmente una produzione verbale
più ridotta e meno articolata. Le madri insegnanti producevano un numero di
spiegazioni maggiore a tutte le altre. Ma la scelta dello stile non dipendeva
dall’occupazione materna o dal livello socioculturale, ma da come le madri si
rappresentavano le capacità del loro bambino. Infatti facevano utilizzo di uno
stile narrativo quelle madri che gli attribuivano elevate capacità di
comprensione e di autonomia.
2.4.2 Bambini e coetanei: leggere e raccontare insieme
In analogia con quanto descritto nell’interazione adulto-bambino,
Baumartner e Devescovi (2002) hanno identificato due stili di narrazione in
bambini di età compresa tra i tre ai cinque anni: monologo e dialogo. Nel
monologo un bambino assume il ruolo di narratore e l’altro si limita ad
ascoltare, comportandosi come eco del parlante:
Matteo e Manolo
Matteo tiene il libro aperto e Manolo, in piedi, alla sua destra guarda le figure che
Matteo indica con il libro, procedendo da destra verso sinistra.
Matteo: Allora ecco la casa, passava sotto il tetto, dopo andò, perchè i Babbo Natali,
vanno pure dentro la cantina (...). Dopo qua c’è una casa lunga, un palazzo con un...
Babbo Natale
Manolo: ...ale
Matteo: Con una slitta.
Manolo: tta.
Matteo: E c’è una bandiera.
7
Manolo: ra.
Matteo: Bevevano il latte (copre quasi del tutto il libro con le braccia e il busto
spostato in avanti).
Manolo: ...atte (si allunga verso il libro cercando di vederlo meglio).
Matteo: Qua poi il vestito di sopra lo metteva su una sedia, la slitta la fermava qua e
dopo qua c’era il cane cò Babbo Natale si faceva la doccia e pure (gira pagina) e qua
dopo Babbo Natale beveva beveva.
Manolo: ...va.
Matteo: E dopo mangiava, mangiava, diventava più grande, dopo si prepara e gli
veniva sonno (Manolo sbadiglia) dopo beveva beveva.
Manolo: ...va.
Matteo: Un pochino e dopo scendè se preparò e andava a portare i regali.
Manolo: Sì.
(Baumgartner e Devescovi, 2002).
L’imitazione dell’ultima parola detta o di parte di essa finisce col
rappresentare quasi un rituale. Scandisce il racconto e diventa necessaria al
punto tale che crea disorientamento nel narratore se viene a mancare.
Il secondo stile di narrazione, il dialogo, è caratterizzato invece da
un’alternaza di turni fra i bambini nel raccontare. Il libro diventa oggetto di
conversazione fra i bambini.
Giovanni e Luisa
Giovanni: Tiè, lo voi te (passa il libro a Luisa)
Luisa: (annuisce, prende il libro e inizia a sfogliarlo) Eh, qui non ci sta niente.
Giovanni: Aspetta, t’aiuto io, dà (gira una pagina del libro).
Luisa: Dà guarda che non sò monca.
Giovanni: Tiè (apre il libro e lo porge a Luisa).
Luisa: Non sò monca
Giovanni: Dillo, che ce sta? (indicando una figura).
Luisa: Babbo Natale che sta a dormì.
7
Queste osservazioni permettono di concludere che già a tre anni i bambini
sono in grado, collaborando con un coetaneo, di sperimentarsi nel racconto di
storie di fantasia a partire da un libro illustrato, anche in assenza dell’adulto.
La principale difficoltà di questo compito è rappresentata dal “mettersi
d’accordo” su come svolgerlo per arrivare a una interpretazione comune del
significato delle figure senza l’aiuto di un adulto (Baumgartner e Devescovi,
2002). Il conflitto rappresenta un tema di studio molto interessante perchè
permette di esaminare la capacità dei bambini di confrontarsi con il punto di
vista dell’altro. Secondo alcuni studiosi post-piagetiani, il conflitto implica
“una sottolineatura del problema” che porta a modificare le proprie visioni
creando nuove conoscenze. Durante la lettura, le ipotesi e spiegazioni che
vengono esposte da ciascun bambino possono essere in contrapposizione fra
loro, perciò l’elaborazione comune della storia va contrattata. Devono
giustificare e spigare il proprio comportamento e per fare questo i piccoli
lettori devono immaginare gli atteggiamenti e le conoscenze
dell’interlocutore, assumere il suo punto di vista, e fornirgli le informazioni
adatte per fargli cambiare opinione (Barbieri, 1989). I principali conflitti
possono essere ricondotti a tre aspetti principali: la collocazione del libro,
l’atto di voltare pagina e la scelta della figura da commentare. Le
giustificazioni che i bambini forniscono alle loro opposizioni denotano la
consapevolezza di una fondamentale regola conversazionale: le opposizioni
devono essere argomentate (Eisenberg e Gravey, 1982). Si può così
concludere che nell’interazione tra bambini conflitto e cooperazione, pur
avendo funzioni diverse sono ugualmente necessarie. Nei momenti di
accordo i bambini mettono insieme pezzi incompiuti del loro pensiero; nel
conflitto invece l’esigenza di convincere l’altro porta i bambini ad
argomentare e ad esplicitare maggiormente le proprie convinzioni, facendo
così progredire il ragionamento collettivo (Orsolini e Pontecorvo, 1989).
8
2.5 Gioco simbolico: rapporti con la narrazione e il linguaggio in età
prescolare
La maggior parte della letteratura che ha trattato il tema del gioco simbolico
ha fatto riferimento all’opera di Piaget. Egli esaminando i rapporti tra gioco e
linguaggio, sostiene che entrambi siano la manifestazione della più generale
abilità di rappresentare dei significati attraverso l’uso di significati. In altre
parole l’abilità di servirsi di simboli nel gioco e nel linguaggio deriva
dall’acquisizione di una generale funzione “semiotica”. Anche Vygotskij
attribuisce un ruolo predominante al gioco simbolico in età prescolare
evidenziandone il ruolo nello sviluppo cognitivo del bambino. Il gioco
permette la manipolazione dei significati, la creazione di una situazione
fittizia e la presenza di regole. È un sistema molto complesso di “linguaggio”,
in cui, attraverso i gesti viene comunicato il significato dei giocattoli. È molto
importante la somiglianza funzionale tra l’oggetto e quello che deve
rappresentare, ossia la possibilità di realizzare con tale oggetto il gesto
desiderato. Molto numerosi sono gli studi che si rifanno ai rapporti esistenti
tra gioco e linguaggio nei primi tre anni di vita. Meno numerosi sono quelli
che prendono come riferimento fasce di età più elevate, dai tre ai sei anni. Per
quanto concerne il primo periodo evolutivo, sono state riscontrate
corrispondenze tra il percorso evolutivo che porta dall’emergere del simbolo
ludico allo sviluppo delle attività di gioco simbolico con il percorso che
conduce dalle prime apparizioni di parole all’emergere delle prime fasi nella
produzione verbale dei bambini (Bates, Benigni, Bretherton, Camaioni e
Volterra, 1979). Altri studi hanno trovato che lo sviluppo della produzione di
abilità di gioco simbolico è collegata con la capacità di pronunciare
significati diversi attraverso il linguaggio e con la comprensione del
linguaggio; inoltre la comprensione dei gesti simbolici è in relazione con la
comprensione del linguaggio nel terzo anno di vita (Lyytinen, Poikkeus e
Laasko, 1997). Prendendo in considerazione la fascia di età che va dai tre ai
8
sei anni gli autori hanno evidenziato che il contesto di gioco è potenzialmente
molto interessante per lo studio del linguaggio nel periodo prescolare, visto
che il linguaggio permette l’organizzazione del gioco simbolico (Garvey e
Kramer, 1989). Garvey (1989, 1990) in alcuni suoi studi evidenzia come i
bambini utilizzino le più sofisticate competenze conversazionali e sociali in
loro possesso per costruire il gioco simbolico. In particolare specifica che tali
competenze vengono proprio apprese durante l’attività di gioco simbolico
sociale. Inoltre l’autrice mette in evidenza che il gioco simbolico sociale
viene realizzato prevalentemente attraverso scambi comunicativi, che il
linguaggio continua a svilupparsi durante il periodo prescolare e che una
volta comparso il gioco simbolico sociale, alcuni dei suoi costituenti
strutturali (trasformazioni simboliche, assunzioni di ruoli, pianificazione di
azioni, messaggi metacomunicativi) vengono rappresentati
fondamentalmente attraverso il linguaggio e continuano a trasformarsi nel
periodo prescolare. Alcuni autori (Farver, 1992; Garvey, 1982; Nelson e
Seidman, 1984) hanno messo in evidenza che in età prescolare la complessità
del linguaggio prodotto è in relazione con la complessità del gioco realizzato.
È stato riscontrato che il gioco simbolico costituisce non solo una situazione
favorevole per esercitare le abilità linguistiche emergenti, ma anche che nel
gioco i bambini usano forme linguistiche specifiche. Musatti e Orsolini
(1993) mostrano come i bambini italiani già a 4 anni utilizzano differenti
tempi verbali passati a seconda delle funzioni del gioco:
L’imperfetto viene utilizzato soprattutto nella fase di pianificazione,
per collocare l’attività in un contesto ludico;
Il passato prossimo viene utilizzato per riferirsi ad azioni passate.
Per quanto riguarda il rapporto tra gioco simbolico e narrazione è possibile
individuare due filoni di ricerca: il primo filone mette in evidenza il fatto che
il gioco simbolico è un contesto molto potente per lo sviluppo delle abilità
narrative. Galda (1984) ha evidenziato che la complessità e la struttura delle
8
storie dei bambini hanno uno sviluppo parallelo a quello del gioco
drammatico, per cui la situazione di gioco simbolico facilita la produzione di
narrazioni. Non è possibile però verificare quali siano le variabili che
determinano questa facilitazione. Pellegrini (1984) ha confontato le
narrazioni di alcuni bambini prodotte in diversi contesti, e ha evidenziato un
maggior utilizzo del linguaggio esplicito nelle situazioni di gioco simbolico;
Stone (1992) ha evidenziato che i bambini che giocano di più a giochi
simbolici di ruolo sono anche quelli che narrano di più. Infine Fein (1995)
rileva come nel gioco coi pupazzetti in miniatura il legame tra gioco e
narrazione di storie è particolarmente forte poichè nella costruzione del gioco
il bambino assume il ruolo di un narratore esterno. Il secondo filone si è
concentrato, sia a livello strutturale che di sviluppo, sull’esame dei
parallelismi e delle similitudini tra gioco simbolico e narrazione. Sachs,
Goldman e Chaillè (1984) hanno rilevato, in bambini tra i 2 e 5 anni, che i
più grandi riescono ad elaborare dei giochi con una trama inserendovi
un’ampia varietà di elementi narrativi. Pellegrini (1985 a; 1985 b) ha
analizzato la relazione esistente tra gioco simbolico e la produzione e
comprensione di un linguaggio decontestualizzato e narrativo, per poi
approfondirne l’organizzazione narrativa. È stato trovato che esiste una
considerevole relazione tra gioco e narrazione e che con l’età i bambini fanno
giochi meno dipendenti dal materiale a disposizione e più complessi da un
punto di vista narrativo; inoltre è impossibile determinare se alcune forme di
gioco richiedono la produzione di un linguaggio narrativo, o se, al contrario i
bambini che producono maggior linguaggio narrativo tendono a giocare di
più in modo simbolico. Anche Garvey (1990) ha rilevato la somiglianza e lo
sviluppo parallelo tra gioco simbolico e narrazione. Ambedue le attività
implicano l’autonomia dal contesto di produzione e inoltre sono
strutturalmente simili perchè sono composte da introduzione di personaggi,
ambientazione di una scena, sequenze ordinate di eventi, introduzione di
8
problemi e loro soluzione. Guttman e Frederiksen (1985) hanno sottolineato
come vi siano abilità cognitive simili associate alle due condizioni
considerate.
Capitolo 3
IL LESSICO PSICOLOGICO
3.1 I precursori delle conoscenze psicologiche
Con l’espressione “Teoria della Mente”, come specificato in precedenza, ci si
riferisce a una delle componenti che tipicamente contraddistinguono lo
sviluppo della mente umana, ovvero la sua caratteristica di attribuire a sé e
agli altri stati mentali quali desideri, intenzioni, pensieri e credenze e di
spiegare e prevedere i comportamenti sulla base di queste inferenze. Secondo
Camaioni (2001), si parla di “teoria” in quanto nel ragionare e parlare di noi
stessi e degli altri ci riferiamo costantemente a stati mentali quali desideri,
emozioni, intenzioni e credenze non direttamente osservabili. Così come non
siamo consapevoli di utilizzare una teoria della mente nello spiegare e
8
prevedere le azioni umane, allo stesso modo il bambino la acquisisce senza
esserne cosciente.
Nel corso del primo anno di vita il bambino impara a guardare dove guarda
l’adulto: il co-orientamento visivo apre la strada all’attenzione condivisa,
cioè la situazione in cui il bambini è in grado di alternare lo sguardo
dall’oggetto all’adulto e viceversa. Baron-Cohen (1991) nota che vi è una
differenza sostanziale tra comprendere l’atto di guardare qualcosa e
comprendere l’attenzione verso qualcosa: nel secondo caso il bambino si
rende conto che l’attenzione consiste nello stato mentale dell’interesse verso
l’oggetto, richiede cioè un processo rappresentazionale (Baumgartner e
Devescovi, 2002). Lo studioso sostiene che la condivisione dell’attenzione
costituisce un precursore della teoria della mente perchè comporta la
comprensione rappresentazionale delle persone come provviste di stati
interni. È presente nei bambini normalmente tra i 9 e i 13 mesi di età. Come
descritto nel primo capitolo, secondo Camaioni (1992; 1993) si possono
osservare le manifestazioni più evidenti della natura rappresentazionale dei
fenomeni di attenzione condivisa nelle prime forme di comunicazione
intenzionale, in particolare quando si richiama l’attenzione dell’interlocutore
su qualcosa. La persona non è lo scopo dell’intenzione comunicativa del
bambino, ma è solo un mezzo per raggiungere un oggetto che rappresenta lo
scopo del bambino. Verso la seconda metà del primo anno di vita invece
vediamo che il bambino si rivolge all’adulto per richiamare la sua attenzione
su qualcosa: lo scopo dell’atto comunicativo è l’adulto, l’attenzione
dell’adulto. La comparsa di questo tipo di intenzione comunicativa
(dichiarativa) segnala la comprensione che gli esseri umani hanno stati
mentali, quali l’attenzione, e che tali stati mentali possono essere influenzati
o condivisi.
3.2 Le origini del lessico psicologico
8
Bruner e Feldman in un recente studio (1993) affermano che l’identificazione
della mente degli altri e degli stati intenzionali avviene nel bambino per gradi
e deriva da processi transizionali tra adulto e bambino definiti in precedenza
da Bruner formati (1983).
La forma caratteristica di questi formati è di tipo narrativo: c’è uno stato iniziale canonico
iniziale di stabilità, seguito da qualche evento precipitante, cui segue il restauro della
condizione di partenza e infine una coda in cui si annuncia che il gioco è terminato.
L’architettura interna di ogni gioco del genere è definita dagli stati intenzionali dei
partecipanti, non meno che dagli oggetti usati (...). L’effetto per il bambino di questa
narrativizzazione dell’interazione sociale è di permettergli di costruire rappresentazioni
canoniche di come funzione, o meglio, di come dovrebbe funzionare il mondo delle
persone e delle cose (Bruner e Feldman, 1993, pag.88).
Sostengono cioè, che le prime forme di conoscenze del mondo delle persone
sono acquisite come prassi in occasioni interattive in cui il bambino è
protagonista. È importante considerare che nell’ambito di quella che Bruner
chiama “politica familiare”, alla quale il bambino partecipa, egli impara
velocemente che parlare delle interazioni vuol dire raccontarle in una forma
narrativa spesso altamente drammatizzata, che non è semplicemente esporre
un avvenimento, ma è anche spiegare l’azione raccontata e la propria
partecipazione in essa. Il bambino impara, che al di la di quanto è accaduto
realmente, ciò che è importante nei complicati giochi familiari, fatti di
conflitti e alleanze, è raccontare la storia “giusta”. Il narrare diventa non
semplicemente un atto espositivo ma anche un atto retorico perchè serve a
giustificare il proprio comportamento e ad influenzare quello degli altri.
Perciò, nelle interazioni interpersonali, i bambini attribuiscono e riconoscono
emozioni e intenzioni ai propri interlocutori, ma non solo, infatti sanno anche
manipolare utilizzando le parole e i racconti.
3.3 Le componenti del lessico psicologico
8
Di seguito verranno presentati una serie di termini a cui si fa riferimento
nell’analisi e nella codifica dei termini di stato mentale prodotti dai bambini
durante la narrazione scritta o orale, spontanea o elicitata dall’adulto.
Vengono esaminati i seguenti termini riferiti a stati interni:
Fisiologici: ad es. avere fame, avere sete, avere sonno.
Percettivi: ad es. guardare, vedere, sentire, odorare, sentir caldo, sentir
freddo.
Volitivi/Abilità: ad es. potere (essere capace di), sapere, provare, sperare,
volere, bravo.
Emotivi positivi: ad es. divertirsi, essere amici, voler bene, essere allegro,
simpatico.
Emotivi negativi: ad es. triste, aver paura, antipatico, infelice.
Cognitivi: ad es. conoscere, sapere, ricordare, venire in mente, capire,
dimenticare, far finta.
Comunicativi: ad es. dire, chiedere, raccontare, chiamare.
Giudizio morale: ad es. si deve, dovere (avere l’obbligo di), potere (avere il
permesso di), buono, cattivo.
3.4 Contesti comunicativi e lessico psicologico
Nella produzione linguistica spontanea si manifestano precocemente parole
che denotano emozioni, percezioni, sentimenti, desideri, pensieri e credenze.
Già nelle prime fasi dello sviluppo del linguaggio i bambini imparano a
chiamare le persone per nome ed a usare i pronomi di prima e seconda
persona. Questo utilizzo dimostra la capacità emergente nel bambino di
riconoscere se stesso e gli altri come persone specifiche, dotate di qualità e
caratteristiche psicologiche e implica pertanto una comprensione almeno
iniziale della distinzione sè-altro. La capacità di far riferimento agli stati
interni propri e altrui nel linguaggio viene considerata da diversi studiosi
come un indicatore dell’emergere di una “teoria della mente” nel secondo
8
anno di vita (Camaioni, 2001). Bretherton, McNew, Beeghly-Smith (1981)
grazie ad alcuni studi hanno dimostrato come la capacità di parlare di stati
interni compare nel secondo anno di vita e si consolida nel terzo. Solitamente
sono utilizzati più frequentemente quei termini che si riferiscono a stati
percettivi fisiologici e volitivi, mentre sono più rari quelli affettivi cognitivi e
morali. Tutti i termini vengono utilizzati per riferirsi a se stessi più che ad
altri. Vengono impiegati anche in riferimento ad eventi non presenti. Questo
uso decontestualizzato è molto importante perchè dimostra che il bambino
non si limita a riferirsi a ciò che accade nel contesto immediato. Vi è un
progressivo aumento del lessico psicologico tra i 20 e 28 mesi, passando da
una media di 8 a una media di 37 diversi termini prodotti. In uno studio di
Bartsch e Wellman (1995) che analizza la produzione spontanea di dieci
bambini di lingua inglese tra i due e i cinque anni, è stato travato che il
riferimento ai desideri (attraverso il verbo volere) è acquisito stabilmente
prima del secondo anno di vita, mentre il riferimento alle credenze (attraverso
i verbi “pensare e sapere”) è più tardo e compare intorno ai tre anni. Quando i
bambini utilizzano termini che si riferiscono a desideri o credenze, sono in
grado di distinguere i propri stati interni da quelli degli altri. Soltanto intorno
ai cinque anni riescono a parlare di stati cognitivi con la stessa frequenza con
cui si riferiscono agli stati volitivi (Camaioni, 2001). A conferma dell’ipotesi
di Wellman (1990) vediamo come prima i bambini cominciano col
padroneggiare una semplice psicologia del desiderio e solo in un secondo
momento cominciano ad elaborare una psicologia più complessa che
comprende sia i desideri che le credenze. In una ricerca di Camaioni e
Longobardi (1997) in cui erano coinvolti 21 bambini di madre lingua italiana
è stato trovato che a 20 mesi di età la maggior parte di questi bambini
producevano termini riconducibili a sensazioni e percezioni, sia proprie che
altrui. Venivano utilizzati verbi come “far nanna”, “avere fame”, “sentir
male”, “vedere”, “sentire”, “guardare”. Soltanto un terzo dei bambini parla di
8
emozioni sia positive (“contento”, “bello”, “caro”) che negative (“triste”,
“arrabbiato”, “schifo”). Ancora meno frequenti sono i termini prodotti in
relazione ai pensieri e agli stati cognitivi (“sapere”, “capire”, “per finta”). I
riferimenti a stati fisiologici rappresentano il 60% di tutti i termini prodotti,
mentre i riferimenti a stati cognitivi solo il 2%. Non si sono trovate differenze
significative tra i sessi e l’ordine di nascita sulla produzione del lessico
psicologico. In accordo con quello trovato da Bartsch e Wellaman (1995) il
riferimento a stati volitivi è assai più frequente del riferimento a stati
cognitivi. Inoltre sempre in accordo con gli studi precedenti, i bambini
utilizzano termini riferiti a stati interni con funzione di commento più che di
richiesta. Alcune ricerche documentano che le madri parlano di emozioni
nelle conversazioni in famiglia più con le figlie che con i figli. Infatti già a 24
mesi le bambine parlano più frequentemente di emozioni rispetto ai loro
coetanei maschi (Dunn, Bretherton e Munn 1987). Fivush (1989) ha trovato
che le madri rivolgono ai figli sia maschi che femmine la stessa quantità di
linguaggio sulle emozioni, ma con le figlie parlano sopratutto di emozioni
positive mentre coi figli si riferiscono allo stesso modo ad emozioni positive
e negative. In uno studio di Baumgartner e Devescovi (2002) sono state
raccolte storie (audioregistrate e integralmente trascritte) raccontate da 36
bambini di età compresa tra i 4 e 5 anni che sono state valutate attraverso due
parametri: uno relativo alla lunghezza della storia, espressa in clausole, e
l’altro riguardante la frequenza dei diversi tipi di riferimenti agli stati mentali,
e il rapporto tra questi ultimi e le spiegazioni. I bambini sono stati invitati a
raccontare la storia raffigurata nel libro dal titolo Frog,where are you? Erano
presenti due condizioni di interazione, una prima in cui era presente soltanto
un adulto al quale il bambino racconta la storia, e una seconda nella quale vi
sono due bambini che raccontano insieme la stessa storia, alla presenza di un
adulto che non si pone come interlocutore, ma che svolge semplicemente una
funzione di regolazione. La lunghezza della storia espressa in clausole
8
rappresenta una misura tradizionale della competenza linguistica e narrativa.
Infatti la clausola permette di confrontare fra loro racconti di diversa
lunghezza, che altrimenti non sarebbero confrontabili. La clausola è definita
una unità composta dal predicato più i suoi argomenti (es. “il ragazzino si
mette paura”, “il bambino dorme”, “il cervo sorrise”). La narrazione
(espresso dal numero di clausole contenute nei racconti) sembra essere
influenzata dalla situazione comunicativa. Infatti le storie raccontate dai
bambini da soli sono più lunghe di quelle raccontate con un coetaneo. Sulla
lunghezza delle storie potrebbero però incidere diversi fattori tra cui l’età: i
bambini osservati nel racconto individuale avevano un’età leggermente
superiore (5 anni e 6 mesi) di quelli in coppia (5 anni e 1 mese). Nelle storie
raccontate in coppia il linguaggio appare con molta evidenza strumento di
mediazione per la costruzione di una conoscenza condivisa, mentre
nell’interazione con l’adulto i bambini solo raramente si rivolgono
all’interlocutore con delle richieste esplicite di informazione. In sostanza
dove vi è asimmetria di relazione il bambino sembra sentirsi sottoposto a
giudizio. Spesso le figure che vengono scelte per essere commentate
dipendono fortemente da quello che ha appena osservato il compagno, sia per
confermarlo, sia per completarlo, o per esprimere un punto di vista diverso.
Nel raccontare la storia i bambini non si sentono vincolati dalla successione
delle figure, infatti spesso iniziano il loro racconto dalla seconda (la fuga
della rana), oppure modificano l’ordine degli eventi indipendentemente dalla
loro sequenza logica. Per quanto riguarda la comprensione psicologica si è
visto le storie raccontate, pur essendo più brevi, contengono un numero
maggiore di termini psicologici. Nelle storie dei bambini raccontate a un
interlocutore adulto i termini più frequenti sono quelli che si riferiscono alle
percezioni o agli stati fisiologici ( è molto frequente il termine vedere). I
termini che si riferiscono ad emozioni e affetti rappresentano il 27,8%, a
desideri e intenzioni il 14,3%, a cognizioni il 4,3% e a percezioni e stati
9
fisiologici il 53,6%. Nei racconti in coppia vediamo che le espressioni di
desideri e intenzioni rappresentano il 12,4%, di cognizioni il 4,3%, di
percezioni e stati fisiologici il 28,9%, di doveri il 3% e di emozioni e affetti il
50,8%. Perciò i racconti con l’adulto sono orientati alla descrizione, mentre
quelli prodotti in coppia sono più interpretativi e valutativi. Nelle storie
raccontate dai coetanei in coppia le descrizioni del mondo interno dei
personaggi sono più articolate: le emozioni più frequentemente nominate dai
bambini sono sia positive (contentezza e felicità) che negative (tristezza e
rabbia). Sono frequenti anche i vocaboli che si riferiscono all’espressione di
emozioni (piangere, ridere) o affetti (abbracciare, leccare). Sono invece più
rari i termini che riguardano l’espressione di emozioni interpersonali (dare
fastidio, mettere paura, fare pace) mentre sono del tutto assenti i riferimenti a
emozioni di ordine cognitivo più complesso quali la sorpresa e la delusione,
che pure sono raffigurate chiaramente nella storia (Baumgartner e Devescovi
2002). Per identificare queste emozioni il bambino dovrebbe immaginare
anche la credenza originaria che le ha provocate e quindi deve essere in grado
di collegare due diverse rappresentazioni della realtà. Inoltre la sorpresa e la
delusione non sono associate in modo univoco a una determinata espressione
facciale. Nella lettura dei libri illustrati l’attribuzione di una particolare
emozione si basa su due diversi indici: l’espressione facciale dei personaggi
e la trama. Nei soggetti impiegati per questo studio l’utilizzo dell’espressione
facciale è la più frequente. Infatti nell’infanzia i bambini pensano che vi sia
corrispondenza tra ciò che una persona sente e la sua espressione facciale. I
bambini di cinque anni indipendentemente dall’interlocutore hanno delle
difficoltà ad utilizzare la trama come indice emotivo. La caratteristica più
importante dei racconti in coppia coi coetanei è che i bambini trattano e
accertano insieme le attribuzioni di stati emotivi ai vari personaggi, mentre
non discutono i riferimenti agli stati fisiologici o alle percezioni. In una
situazione scarsamente dialogica come quella con l’adulto il bambino si
9
limita ad ascoltare ed è poco motivato a rendere esplicita la propria
conoscenza. Come in tutta la letteratura anche questa ricerca dimostra come i
riferimenti agli stati cognitivi sono scarsi, sia nelle storie raccontate in coppia
che in quelle con l’adulto. Sono molto rari anche i riferimenti ai “giudizi
morali” e ai “doveri” in ambedue le situazioni di racconto. In conclusione si è
dimostrato che nel racconto di una storia di fantasia anche i bambini in età
prescolare utilizzano un lessico psicologico articolato, che implica la
rappresentazione dei personaggi come esseri caratterizzati da attività emotiva
e mentale: abbiamo inoltre osservato delle differenze nei racconti prodotti dai
bambini a seconda che vi fosse un interlocutore adulto o una coppia di
bambini, entrambi coinvolti nella narrazione. Tali differenze riguardano
soprattutto il contenuto e lo stile del racconto, più esteso e descrittivo nelle
storie raccontate all’adulto, più interpretativo e meno circostanziato nelle
storie raccontate tra bambini (Baumgartner e Devescovi 2002). Nelle storie
raccontate dai bambini coi loro coetanei, vengono spiegati soprattutto i
riferimenti a intenzioni, emozioni e giudizi morali. Le percezioni vengono
giustificate solo in minima parte. Con l’adulto invece, le spiegazioni più
frequenti riguardano lo stato fisiologico o percettivo, anche perchè sono i più
frequenti all’interno dei racconti. Nelle storie tra pari la percentuale di
riferimenti agli stati psicologici è di gran lunga maggiore rispetto alla
percentuale di spiegazioni rilevate nelle storie raccontate all’adulto. Questo
può essere interpretato in due modi:
La partecipazione di entrambi i bambini al racconto fa si che, per
sostenere la propria opinione, sia necessario convincere il compagno,
persuaderlo dell’utilità e sensatezza di quanto si è detto.
Inoltre la situazione dialogica stimola i bambini a esplicitare i nessi
che essi creano nella storia e a sforzarsi di dare consistenza psicologica
ai personaggi, spiegandone il comportamento o le cause degli stati
interni.
9
Con l’adulto la necessità di spiegare le proprie opinioni è ridotta al minimo,
perchè l’adulto tende ad accettare le opinioni del bambini senza opporsi. Può
semplicemente chiedere al bambino di ampliare ciò che ha detto, ma non si
oppone. In più l’adulto viene visto dal bambino come portatore di conoscenza
e quindi non vi è la necessità di convincerlo, perchè il bambino immagina che
il suo interlocutore conosca già la storia e ne sappia più di lui.
9
Capitolo 4
LA NARRAZIONE NEI BAMBINI CON SVILUPPO
ATIPICO
Molteplici ricerche, hanno indagato le abilità e la produzione narrativa in
bambini e adolescenti con sviluppo atipico dovuto a cause diverse e hanno
permesso di individuare più chiaramente il peso che le diverse componenti
cognitive, sociali e linguistiche hanno nel racconto di storie e hanno
contemporaneamente contribuito a definire il profilo di competenze e
difficoltà che può essere considerato caratteristico di ogni determinata
popolazione atipica.
Gli aspetti della produzione di storie indagati nello sviluppo atipico fanno
riferimento alle diverse aree di competenza sopraccitate.
9
Gli aspetti strutturali includono la lunghezza della narrazione prodotta
in termini di numero d’enunciati o di proposizioni; la strutturazione
della storia in episodi logicamente connessi e riportati nella sequenza
corretta.
Gli aspetti linguistici fanno riferimento alla complessità sintattica delle
proposizioni prodotte, alla presenza di errori morfosintattici e al
corretto uso dei connettivi.
Dal punto di vista emotivo-affettivo viene infine considerata la
produzione di enunciati in cui il narratore esprime il proprio punto di
vista sugli eventi narrati, riferisce le emozioni e gli stati mentali dei
protagonisti alla storia e coinvolge l’attenzione del proprio
interlocutore.
Nel presente capitolo sarà proposta la discussione di alcune tra le più
significative ricerche che negli ultimi 20 anni hanno indagato le competenze
narrative in bambini con sviluppo atipico nei quali si assiste ad una diversa
compromissione delle specifiche abilità implicate nella narrazione. In alcuni
casi i deficit o le difficoltà sembrano essere limitati alla competenza
linguistica -come nel caso dei disturbi specifici di linguaggio o della
balbuzie- in altri si situano prevalentemente a livello sociocognitivo -come
nel caso dell’autismo- in altri casi ancora si collocano a diversi livelli che
sembrano però essere compromessi in misura diversa come si rileva nei
ritardi mentali e nelle lesioni cerebrali. Lo studio di come la competenza
narrativa si manifesta in queste diverse condizioni atipiche offre utili
indicazioni rispetto al ruolo di diverse componenti cognitive nella produzione
linguistica e al loro processo di sviluppo (Pirchio, in press). Verranno prese
in considerazione le seguenti forme di sviluppo atipico:
La sindrome di Williams (SW) è una condizione genetica determinata da una
microdelezione sul braccio lungo del cromosoma 7 in corrispondenza del
gene che codifica per l’elastina. A questa condizione sono associate
9
particolari caratteristiche fisiche, disturbi di tipo medico e la presenza di
ritardo mentale, con un profilo neuropsicologico caratterizzato da abilità
maggiormente compromesse (abilità visuospaziali e visuo-costruttive) e da
altre relativamente preservate (tra le abilità linguistiche, ad esempio quelle
fonologiche), sebbene siano osservabili riguardevoli difficoltà anche a livello
verbale (Arnold, Yule e Martin, 1985; Bellugi, Marks, Bihrle e Sabo, 1988;
Crisco, Dobbs e Mulhern, 1988; MacDonald e Roy 1988; Gosh, Stading e
Pankau, 1994; Volterra, Capirci, Pezzini, Sabbadini e Vicari, 1996) e
comunicativo (Stojanovik, Perkins e Howard, 2001; Udwin e Yule, 1990).
Infine, gli individui con SW si caratterizzano per una marcata
ipersocievolezza (per una rassegna sulle caratteristiche della sindrome vedi
Capirci e Pirchio, 2004).
La sindrome di Down (SD) è una sindrome genetica piuttosto diffusa, che
costituisce la maggiore causa di ritardo mentale dovuta ad un’anomalia
cromosomica (trisomia 21). Lo sviluppo cognitivo dei bambini con SD
sembra seguire la stessa sequenza stadiale rilevata nei bambini con sviluppo
tipico, anche se ci sono dei domini più danneggiati (Contardi e Vicari, 1994;
Ferri e Spagnolo, 1989; Rondal, 1993) come il dominio delle abilità verbali
(si vedano gli studi di Caselli, Marchetti e Vicari, 1994; Miller, 1988; 1992;
le rassegne di Gunn, 1985; Chapman, 1995; McDonald, 1997; Rondal, 1993).
La sindrome di Turner (STU), anch’essa genetica e dovuta ad un’alterazione
cromosomica a carico del cromosoma X che si presenta solo in persone di
sesso femminile in una proporzione di 1 ogni 4000-8000 nascite. Non
comporta ritardo mentale ma sono rilevabili aree di forza e di debolezza nel
profilo neuropsicologico associato a questa sindrome. In particolare le
competenze dell’area linguistica sembrano superiori a quelle dell’area di
performance sebbene siano stati evidenziati problemi nella denominazione e
nella fluenza verbale (Temple, 1996).
9
Le lesioni cerebrali avvenute in età precoce rappresentano un importante campo di
ricerca per poter evidenziare come il sistema cognitivo si strutturi durante lo sviluppo
raggiungendo l’organizzazione definitiva osservabile nell’adulto. In particolare, le
ricerche hanno lo scopo di identificare l’esistenza e il livello di processi di plasticità
neurologica, che permetterebbe al sistema cerebrale di trasferire, in caso di lesioni in
una particolare area, le funzioni solitamente servite dalla zona danneggiata in altre aree.
I bambini colpiti da lesione cerebrale possono manifestare deficit in diverse
componenti nella competenza linguistica, deficit che possono perdurare anche a lungo
termine. Tuttavia, i risultati di molte ricerche che hanno indagato le abilità di bambini
con diversi tipi di lesione cerebrale, sembrano indicare l’eziologia, la localizzazione
della lesione e l’età in cui è occorsa come predittori del tipo e della gravità delle
difficoltà linguistiche.
L’autismo è un disturbo pervasivo dello sviluppo. Sulle cause e l’eziologia di
questo disturbo non esistono ancora dati certi. I bambini con autismo
manifestano un deficit selettivo nell’area del funzionamento sociocognitivo e
in particolare della teoria della mente, che determina una serie di difficoltà
relazionali, nell’interazione sociale e nella comprensione e produzione
linguistica.
Infine verranno presi in considerazione quei bambini che presentano un disturbo
specifico dello sviluppo che coinvolge unicamente l’area delle abilità linguistiche. Non
manifestano infatti altre difficoltà (sensoriali, cognitive, sociali, ecc..).
4.1 Aspetti strutturali della narrazione
Ci si riferisce a quegli aspetti e elementi che rendono una storia coesa e coerente. In
molte ricerche è stato chiesto ai bambini di raccontare una storia con il supporto di
immagini (ad es. la storia “Frog where are you?) (Mayer, 1969). Questo tipo di ricerca
9
valuta la capacità dell’individuo di creare una storia coerente. L’utilizzo di immagini
pesa limitatamente sulla capacità di memoria rispetto ad esempio alla richiesta di
raccontare una storia dopo averla ascoltata dall’adulto o dopo aver guardato un cartone
animato. Per quanto riguarda l’analisi strutturale della storia sono state prese in
considerazione: la lunghezza della storia in termini di clausole o proposizioni; il
numero o la proporzione di episodi inseriti nella narrazione; l’identificazione del tema
che sottende la trama. Facendo riferimento al modello di grammatica delle storie
proposto da Stein e Glenn (1979) è possibile identificare 8 episodi componenti la storia
che possono essere racchiusi in tre macrocategorie: la definizione o primo annuncio del
problema; gli episodi della ricerca e la risoluzione.
La produzione narrativa dei bambini con sviluppo atipico si caratterizza nel seguente
modo:
Gli studi condotti sulla narrazione nella SW hanno messo in luce alcune caratteristiche strutturali che li differenziano dai bambini con ST o con altri tipi di ritardo mentale o di disturbo dello sviluppo, oltre ad un uso peculiare di elementi funzionali e narrativi. Le narrazioni di adolescenti con SW sono, infatti, mediamente più lunghe di quelle prodotte da adolescenti con SD della stessa età mentale e cronologica, e corrispondenti invece a quelle prodotte da bambini con età mentale equivalente (Reilly, Klima e Bellugi, 1990). Tuttavia, ad un’età inferiore a 7 anni i bambini con SW tendono a produrre storie più corte rispetto ai bambini con ST con età mentale equivalente (Losh, Bellugi e Wulfeck, 2004). Una produzione narrativa quantitativamente superiore è stata rilevata anche in bambini e adolescenti italiani con SW che a un’età mentale sia di 3-4 anni sia di 5-6 anni producono storie più lunghe rispetto a quelle raccontate da bambini con ST con età mentale corrispondente (D’Amico, Devescovi e Tonucci, 2002). I risultati di queste diverse ricerche convergono nell’indicare una tendenza dei bambini con SW alla verbosità, tendenza che viene rilevata anche in ricerche sulla conversazione ordinaria (Udwin e Yule, 1990). Tuttavia, non sempre questa produzione è caratterizzata da adeguatezza: nelle narrazioni di bambini italiani infatti si riscontra una consistente produzione di proposizioni incoerenti rispetto alla storia narrata (D’Amico et al., 2002).
9
È stato osservato che le storie prodotte dai narratori con SW contengono sempre il setting con l’indicazione dell’ambiente e dei personaggi implicati nella storia, mentre nelle narrazioni dei bambini con SD di pari età mentale e cronologica, questo elemento è spesso mancante. Manca persino il riferimento all’elemento che sottende l’intera storia e cioè la ricerca della rana. I narratori italiani con SW mostrano una maggior proporzione di episodi raccontati rispetto a bambini con ST di pari età mentale. Questo però non sempre corrisponde ad una più adeguata produzione narrativa: infatti spesso gli episodi raccontati da bambini con SW sono slegati fra loro, come se il bambino non fosse in grado di percepire che tutti mirano a svolgere un’unica storia piuttosto che essere singole rappresentazioni di eventi indipendenti, o non riuscisse ad esprimere linguisticamente queste relazioni (D’Amico et al., 2002).
Il confronto delle narrazioni di bambini con SW con quelle di bambini con DSL e con ST con equivalente età cronologica rileva una loro produzione deficitaria delle diverse componenti e degli episodi della storia (Reilly, Losh, Bellugi e Wulfeck, 2004). Anche in questa ricerca sono state dimostrate le difficoltà dei bambini con SW e SD nell’integrare i singoli episodi narrati. I bambini con DSL e quelli con ST non mostrano difficoltà di questo tipo. Ciò porta alcuni autori a concludere che esiste una dissociazione tra l’acquisizione di forme linguistiche (che costituisce per definizione il deficit dei soggetti con DSL) e la possibilità di utilizzare strategicamente queste forme per trasmettere un contenuto tematicamente complesso (Reilly et al., 2004).
Anche le funzioni esecutive possono giocare un ruolo rilevante nella produzione narrativa.
Tale ruolo è stato indagato in bambine con STU somministrando loro tre compiti di narrazione che pongono un diverso carico sulle funzioni esecutive: una descrizione di immagine, la narrazione di quanto accaduto il giorno precedente (“storia di ieri”) e l’organizzazione di una festa di compleanno (Temple, 2002). Nella descrizione di immagini non si rileva alcuna differenza quantitativa tra le bambine con STU e bambine con ST appaiate per età cronologica. È stata invece rilevata una minor produzione in termini di numero di parole nelle altre due storie per le bambine con STU, minor produzione che si estende anche al numero di enunciati per la narrazione di quanto è successo il giorno prima. Questi risultati sembrano dimostrare che le abilità di produzione narrativa siano in parte legate al carico del compito sulle funzioni esecutive e alla natura delle richieste che il compito pone al narratore, che può spiegare le differenze riscontrate nelle due storie “di ieri” e della “festa di compleanno”.
Le caratteristiche strutturali delle storie risultano strettamente legate all’organizzazione e al livello di funzionamento cognitivo dell’individuo.
9
L’analisi della produzione narrativa di bambini con lesioni focali (LF) nell’emisfero destro o sinistro può fornire interessanti informazioni circa la relazione tra cervello e comportamento e circa le modalità e i vincoli di sviluppo di tale relazione. Studi che hanno indagato le abilità linguistiche e discorsive in bambini con lesione cerebrale rilevano risultati in parte contrastanti nel definire il grado di plasticità neurologica in età infantile e l’entità del deficit linguistico (Pirchio, in press). L’analisi delle caratteristiche strutturali delle narrazioni in bambini da 4 a 10 anni con lesioni cerebrali precoci ha mostrato una prestazione deficitaria rispetto a quella di bambini con ST della stessa età. I bambini con LF producono storie più corte, anche se già a 7 anni mostrano una abilità compresa nella normalità (Reilly, Bates, e Marchman, 1998). Ciò sembra fornire evidenze a supporto dell’esistenza di una importante plasticità neurologica in fasi precoci della vita dell’individuo. Sono tuttavia in contraddizione con i risultati ottenuti su bambini con lesioni cerebrali occorse oltre il primo anno di vita, che rispetto a coetanei con ST, questi bambini producono storie con un numero ridotto di proposizioni, una struttura episodica più povera in cui l’espressione dell’idea o tema centrale della storia è deficitaria (Chapman, Levin, Wanek, Weyrauch e Bufera, 1998). Questa difficoltà possono essere in parte ricondotte ad una più generale difficoltà non verbale nell’organizzazione sequenziale delle informazioni.
Allo scopo di individuare differenze interne alla popolazione con LF rispetto alla
produzione discorsiva e in particolare narrativa, Ewing-Cobbs, Brookshire, Scott e
Fletcher (1998) hanno analizzato le storie di Cappuccetto Rosso prodotte da bambini
con lesione cerebrale traumatica con o senza deficit linguistico nella fase sub-acuta del
recupero clinico. L’analisi strutturale ha mostrato differenze relative alla macrostruttura
della storia tra bambini con LF e disturbo del linguaggio e i due gruppi di controllo di
bambini con LF ma senza disturbo linguistico e di bambini con ST. Le storie prodotte
da bambini con LF associato a disturbo del linguaggio, sono più corte, con un minor
numero e una minor varietà di parole. Compaiono più frequentemente omissioni di
proposizioni centrali per la storia ed errori nella sequenza di tali proposizioni e
maggiori difficoltà nella corretta identificazione dei protagonisti della storia. Maggiori
difficoltà nell’uso dei marcatori di coesione globale. In questi bambini per cui la
1
lesione è occorsa tra 1 e 8 anni le variabile relative alla macrostruttura narrativa sono
più inficiate rispetto alle strutture frasali.
Le ricerche sulle lesioni cerebrali contribuiscono non poco a chiarire il modo
in cui competenze e funzioni si organizzano nelle strutture cerebrali e su
come questa organizzazione avviene nel corso dello sviluppo. Tuttavia, le
variabili in gioco sono molte: l’età al momento della lesione, la
localizzazione e l’eziologia della lesione hanno un ruolo nel determinare la
successiva acquisizione e l’uso del linguaggio, ruolo che va compreso meglio
nel futuro (Pirchio, in press).
4.2 Morfologia e complessità frasale
Raccontare una storia in modo adeguato vuol dire anche saper esprimere i
contenuti narrativi attraverso una struttura morfosintattica appropriata. Le
abilità di tipo grammaticale rivestono un certo interesse per l’analisi
narrativa. Sono stati analizzati i seguenti aspetti:
La complessità sintattica delle preposizioni e frasi di cui la narrazione
si compone (e il conseguente uso di specifici tipi di connettivo).
La presenza di errori grammaticali di omissione o di commissione.
Come si è visto precedentemente la possibilità di narrare storie coese e
coerenti potrebbe essere legata alle abilità morfosintattiche, in particolare alla
produzione di connettivi e strutture frasali in grado di rendere le relazioni
logiche tra gli eventi della storia. Perciò il confronto tra bambini che hanno
abilità cognitive e linguistiche diverse, mostrando profili eterogenei di
compromissione e preservazione può costituire un’importante fonte di
informazione. Di seguito verranno quindi analizzate le narrazioni prodotte da
bambini con disturbo specifico del linguaggio, con lesioni cerebrali o con
ritardo mentale rispetto alle caratteristiche morfosintattiche.
Sono stati ottenuti risultati in parte contrastanti. Alcune ricerche rilevano che
bambini con LF tra 4 e 10 anni commettono un maggior numero di errori
1
morfologici e producono una minor varietà e una minor quantità di strutture
frasali complesse. Tuttavia, queste difficoltà tenderebbero ad attenuarsi con
gli anni fino a scomparire nel corso dell’età scolare (Reilly et al., 1998). Al
contrario altre ricerche hanno mostrato che bambini con lesione cerebrale non
si differenziano da quelli con ST rispetto alla produzione sintattica e alla
produzione di elementi di coesione del testo, fornendo indicazioni
sull’efficacia dei processi di plasticità neurale (Chapman et al., 1998; Jordan,
Murdoch e Buttsworth, 1991). Questi risultati possono essere spiegati
operando una distinzione tra gli elementi di coesione del testo a livello della
frase da quelli che si esprimono a livello globale del testo (Pirchio, in press).
In questo modo, emergono infatti differenze importanti tra i bambini con LF
che hanno manifestato o meno un deficit linguistico nella fase acuta (Ewing-
Cobbs et al., 1998). Se non vengono riscontrate anomalie nell’uso di
meccanismi coesivi da parte di questi bambini con LF, tuttavia a livello della
coesione globale i bambini con deficit linguistico acuto mostrano livelli
inferiori di produzione e correttezza dei marcatori delle referenza e dei
marcatori lessicali.
Maggiormente chiaro è il caso dei bambini con DSL. I bambini con DSL
mostrano una prestazione piuttosto deficitaria in questo aspetto delle
narrazioni. Questo a causa della minor produzione di strutture sintattiche
complesse rispetto ai bambini con ST e anche a quelli con LF, che all’età di
10-12 anni mostrano una produzione normale. I bambini con DSL hanno
maggiori difficoltà anche nella produzione di errori fonologici sia rispetto ai
bambini con ST sia con LF. A 12 anni comunque queste differenze
diminuiscono e la prestazione dei bambini con DSL si discosta
significativamente solo da quella tipica. Queste difficoltà sembrano
connottarsi in senso principalmente quantitativo: dal punto di vista
qualitativo infatti non si riscontrano particolarità nel tipo di errori commessi
dai bambini con DSL o con LF (Reilly et al., 2004).
1
Anche i bambini con SW tendono a produrre strutture sintattiche complesse
ad un livello equivalente a quello dei bambini con DSL e quindi meno
frequentemente dei bambini con ST appaiati sia per età cronologica (Reilly et
al., 2004) sia per età mentale (D’Amico et al., 2002). Tuttavia, i bambini con
SW all’età di 10 anni, per quanto riguarda il repertorio di strutture sintattiche
complesse prodotte, pare raggiungano un livello corrispondente a quelli dei
bambini con ST. Inoltre quando vengono appaiati in base all’età mentale, i
bambini con SW producono una maggior proporzione di strutture
subordinate, a fronte di una maggior produzione di coordinate e focalizzate
da parte dei bambini con ST. Si osserva in questo caso una chiara
conseguenza dell’età cronologica legata alla scolarizzazione e comunque alla
maggior esperienza acquisita con il linguaggio, rispetto ai bambini tipici in
età prescolare. I bambini con SW, anche rispetto alla produzione
morfologica, misurata in termini di errori commessi, hanno una prestazione
deficitaria rispetto allo ST sia inglese (Reilly et al., 2004) sia in una lingua
morfologicamente articolata come l’italiano (D’Amico et al., 2002).
Prendendo in esame i bambini autistici, vediamo che le storie da loro
prodotte sono caratterizzate da un minor livello di complessità sintattica
rispetto a quelle dei bambini con ST appaiati per livello linguistico e sono
paragonabili a quelle di bambini con ritardo mentale (Capps, Losh e Thurber,
2000). Siccome la sintassi è uno degli elementi che collabora alla resa della
coesione globale e locale e alla messa in evidenza di situazioni importanti
della storia, la problematica rilevata in quest’area nei soggetti autistici
implica la produzione di storie potenzialmente meno coese e coerenti.
I risultati relativi alle caratteristiche morfosintattiche nelle narrazioni prodotte
da bambini con profili neuropsicologici diversi sembrano indicare da una
parte che la produzione morfosintattica può rimanere intatta anche a fronte di
gravi lesioni a carico della struttura cerebrale, come accade nelle lesioni
cerebrali. Dall’altra, questa competenza può incontrare problemi e difficoltà
1
sia in un contesto di ritardo mentale, che coinvolge quindi più domini
funzionali, sia in casi dove il deficit si colloca a livello socio-cognitivo come
nell’autismo, sia in casi in cui il solo dominio deficitario è quello linguistico,
come accade nel DSL. Inoltre, queste difficoltà potrebbero non essere
all’origine della produzione di storie poco coerenti e coese che si è verificata
ad esempio nei bambini con SW ma non in quelli con DSL (Pirchio, in
press).
4.3 Cognizione ed emozione
In questo paragrafo verranno prese in esame le caratteristiche della produzione
narrativa relative ai fattori emotivi e sociali, mettendo a confronto le storie raccontate
da bambini con sviluppo tipico, con sindrome di Williams e con Autismo. Come
abbiamo detto in precedenza, questi due disturbi dello sviluppo sono stati da alcuni
autori descritti come collocati ai due estremi di un continuum di abilità linguistiche e
sociali ed è quindi rilevante indagare come il diverso livello di competenza in queste
aree di comportamento si riflettano nella produzione di storie (Bellugi, et al., 1994).
Le produzioni narrative dei bambini con SW sono caratterizzate da un uso
particolare di strategie discorsive che hanno lo scopo di attirare e coinvolgere
l’ascoltatore nella narrazione e di trasmettere il tono affettivo ed emotivo
delle storia (Reilly et al. 1990; 2004; Losh, Bellugi, Reilly e Anderson, 2000;
D’Amico et al. 2002). I bambini ed adolescenti con SW producono una
quantità maggiore di espedienti prosodici, di suoni e onomatopee, o vere e
proprie strategie linguistiche rispetto ai bambini con SD e con ST con età
mentale equivalente (Reilly et al.,1990).
In una situazione opposta sembrano trovarsi i bambini con autismo. Il loro
deficit socio-cognitivo pare essere all’origine di abilità narrative
notevolmente compromesse rispetto alla comprensione della funzione
dell’attività narrativa, alla considerazione dei bisogni comunicativi
1
dell’interlocutore e, naturalmente, al riferimento alle emozioni e in generale
agli stati interni dei personaggi (Loveland, McEvoy, Tunali e Kelley, 1990;
Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985; Capps, Kehres e Sigman, 1998). Essendo
la narrazione costruita da eventi e da fatti il cui movente è riscontrabile nelle
reazioni interne dei personaggi e nelle loro intenzioni e credenze, il deficit
nella teoria della mente visibile nell’autismo può far si che la narrazione sia
un’attività discorsiva poco comprensibile, e quindi poco interessante, per i
soggetti facenti parte a questo gruppo. Da ciò può derivare la produzione di
storie più corte e con un inadeguato riferimento ai personaggi, ai loro stati
mentali e al movente delle loro azioni (Tager-Flusberg e Sullivan, 1995).
Pearlman-Avnion e Eviatar (2002) hanno trovato nei racconti di bambini con
SW e di bambini con autismo ad alto funzionamento cognitivo una
equivalente quantità di elementi informazionali (descrizione del contesto,
degli eventi della storia). Tali elementi sono comunque prodotti in quantità
minore rispetto a quelli prodotti dai bambini con ST. I due gruppi a sviluppo
atipico si differenziano invece rispetto alla presenza di elementi emozionali. I
bambini con SW infatti mostrano una produzione simile a quella dei bambini
con ST, mentre gli autistici raggiungono punteggi significativamente
inferiori. Risultati in parte discordanti sono stati ottenuti da uno studio in cui
sono state ritrovate nelle narrazioni di bambini con autismo o con ritardo
mentale le attribuzioni causali e i riferimenti a stati emotivi e cognitivi dei
personaggi (Capps et al., 2000): nelle storie raccontate dai bambini con ST un
quarto dei riferimenti a stati cognitivi o emotivi dei personaggi comprendono
anche un’attribuzione causale (ad es. il bambino è triste perchè ha perso la
sua rana), cosa che invece succede molto raramente sia nei bambini autistici
sia in con quelli con ritardo mentale. Questi si limitano infatti a fare
riferimento all’emozione senza ricavarne implicazioni per la trama delle
storie. Questo risultato è con ogni probabilità legato alla natura delle
attribuzioni causali prodotte dai bambini dei due gruppi atipici, che si
1
riferiscono principalmente ai comportamenti dei personaggi mentre nei
bambini con ST si riferiscono agli stati mentali dei protagonisti.
È importante notare che sebbene non ci siano differenze significative tra i
bambini autistici e quelli con ritardo mentale rispetto alla produzione di
aspetti cognitivi e emotivi della narrazione, è solo nel gruppo degli autistici
che questi aspetti risultano correlati alle abilità di teoria della mente.
1
1
SECONDA PARTE
LA RICERCA
1
Capitolo 5
SVILUPPO LINGUISTICO, COMPETENZA NARRATIVA E
PRODUZIONE DI LESSICO PSICOLOGICO
1
All’interno della nostra ricerca ci siamo posti alcuni quesiti fondamentali, che
verranno riportati di seguito, a cui cercheremo di rispondere, almeno
parzialmente:
Esistono differenze significative tra maschi e femmine nello sviluppo
linguistico, nella competenza comunicativa e nella produzione di
lessico psicologico?
Esistono differenze significative riconducibili all’età? Cioè vi sono
differenze tra il gruppo che include bambini dai 64 ai 67 mesi e quello
che include bambini dai 68 ai 75 mesi per quanto riguarda lo sviluppo
linguistico, competenza comunicativa e produzione di lessico
psicologico?
Quali sono i termini, riferiti a stati interni, più utilizzati dai bambini
durante la narrazione?
Esiste una relazione tra le abilità linguistiche generali, la produzione di
lessico psicologico dei bambini e la loro competenza narrativa, definita
come la produzione libera di una storia dotata delle caratteristiche
specifiche di questo tipo di testo (coesione, struttura, coerenza)?
Il titolo di studio della madre può influenzare lo sviluppo linguistico, la
competenza comunicativa e la produzione di lessico psicologico nel
bambino?
In sostanza, con la presente ricerca, a partire dalla verifica delle informazioni
e teorie già presenti in letteratura riportate nei precedenti capitoli, si vorrebbe
contribuire a tracciare una modalità utile per la descrizione e l’analisi del
discorso narrativo del bambino e per l’identificazione delle relazioni tra
narrazioni e sviluppo del linguaggio.
5.1 Metodo
5.1.1 Obbiettivi ed ipotesi della ricerca
1
Dalla serie di domande enunciate nel paragrafo precedente derivano gli
obbiettivi della ricerca che fanno riferimento a:
Differenze di genere e d’età nello sviluppo linguistico, competenza
comunicativa e produzione di lessico psicologico
Componenti del lessico psicologico più utilizzate dai bambini durante
la narrazione di storie
Relazione tra abilità linguistiche generali, produzione di lessico
psicologico e competenza narrativa
Possibile influenza del titolo di studio delle madri sullo sviluppo
linguistico, competenza narrativa e produzione di lessico psicologico
del bambino
Perciò le ipotesi conseguenti agli scopi possono essere così schematizzate:
1. Per quanto riguarda la prima ipotesi relativa alle differenze di genere ci
si aspetta che le femmine possiedano un maggior sviluppo linguistico,
una maggior ricchezza narrativa, e una maggior produzione di termini
psicologici. In quest’ultimo caso infatti, come specificato in
precedenza, alcune ricerche documentano che le madri parlano di
emozioni nelle conversazioni in famiglia più con le figlie che con i
figli. Infatti già a 24 mesi le bambine parlano più frequentemente di
emozioni rispetto ai loro coetanei maschi (Dunn, Bretherton e Munn,
1987). Fivush (1989) ha trovato che le madri rivolgono ai figli sia
maschi che femmine la stessa quantità di linguaggio sulle emozioni,
ma con le figlie parlano sopratutto di emozioni positive mentre coi figli
si riferiscono allo stesso modo ad emozioni positive e negative.
2. Prendendo in considerazione l’età, ci si aspetterebbe che i bambini più
grandi (dai 68 ai 75 mesi) abbiano uno sviluppo linguistico,
competenza narrativa e produzione di lessico psicologico maggiori di
quelli più piccoli (dai 64 ai 67 mesi).
1
3. Relativamente alla “qualità” del lessico riferito a stati interni, partendo
da una ricerca di Devescovi e Baumgartner (1996), ci si attenderebbe
che i termini più utilizzati dai bambini di 5 e 6 anni siano quelli riferiti
a cognizioni. Infatti nel loro studio si è visto come il cambiamento più
rilevante che si verifica tra i 3 e i 5 anni è rappresentato dall’aumento
dei riferimenti fatti dai bambini alle conoscenze/credenze. A 5 anni il
37,9 % del lessico psicologico si riferisce alla cognizione, mentre a 3
anni tali riferimenti costituiscono solo il 16%. In questo caso, infatti,
vengono utilizzati maggiormente termini riferiti a emozioni (35,14%).
Questi dati sono in accordo con l’ipotesi di Wellman (1990) di una
transizione da una primitiva “psicologia del desiderio” ad una più
avanzata “psicologia della credenza-desiderio”.
4. Esaminando la possibile relazione tra abilità linguistiche generali e
competenza narrativa ci si aspetta che la produzione di storie sia
supportata dalle abilità linguistiche generali, e che quindi i soggetti
abili dal punto di vista linguistico si dimostrino anche più competenti
nel racconto di storie. Al tempo stesso, i soggetti con minori
competenze linguistiche generali dovrebbero produrre storie meno
articolate e ricche. In uno studio di Accorti Gamannossi (2001) è stato
dimostrato che i bambini più abili dal punto di vista linguistico lo sono
anche nel compito di produzione di storie. Per il compito di
comprensione e esposizione di una storia ascoltata i risultati mostrano
come i parametri di struttura, coesione e coerenza usati per valutare le
abilità narrative indichino l’esistenza di una stretta relazione con i
punteggi ottenuti nel test di sviluppo del linguaggio (Accorti e
Gamannossi, 2001). Inoltre ci si chiede se esiste una correlazione tra
produzione di lessico psicologico e competenza narrativa, se le abilità
coinvolte e le conoscenze necessarie sono le stesse o sono diverse.
1
5. Infine prendendo in esame il titolo di studio delle madri, si ipotizza che
i bambini che hanno madri con un livello di studio più elevato sono
anche quelli che possiedono un maggior sviluppo linguistico e una
competenza narrativa più ricca. È stato inoltre ipotizzato che i bambini
con madri con un titolo di studio più basso utilizzino termini
psicologici maggiormente riferiti ad emozioni, mentre quelle con un
titolo di studio più elevato utilizzino un linguaggio più didattico
riferendosi maggiormente a cognizioni e percezioni, ricalcando le
differenze tra madri “espressive” e “referenziali” riportate in letteratura
da Nelson (1973).
5.1.2 Partecipanti
La ricerca è condotta con 23 bambini, di entrambi i sessi (14 maschi e 9
femmine), di età compresa tra i 64 e i 75 mesi. I bambini sono stati suddivisi
convenzionalmente in due gruppi: il primo gruppo comprende bambini dai 64
ai 67 mesi, mentre il secondo gruppo bambini dai 68 ai 75 mesi (vedi tabelle
5.1 e 5.2).
Tabella 5.1 – Composizione del campione per sesso.
Frequenza PercentualeValidi maschio 14 60,9
femmina 9 39,1Totale 23 100,0
Tabella 5.2 – Composizione del campione per età.
Frequenza PercentualeValidi da 64 a 67 mesi 11 47,8 da 68 a 75 mesi 12 52,2 Totale 23 100,0
1
Tutti i bambini frequentavano l’ultimo anno di una scuola materna in provincia di Reggio
Emilia, appartenevano ad un livello socio culturale medio, come sostenuto anche dal titolo
di studio di entrambi i genitori (vedi tabelle 5.3 e 5.4) e non avevano problemi specifici
del linguaggio, a parte due bambini (uno con sindrome di Down e l’altro con disturbo
specifico del linguaggio) che sono però stati analizzati separatamente in un secondo
momento.
Tabella 5.3 – Titolo di studio della madre
Frequenza Percentuale
Validi medie 7 30,4diploma 14 60,9laurea 2 8,7Totale 23 100,0
Tabella 5.4 – Titolo di studio del padre
Frequenza PercentualeValidi medie 10 43,5
diploma 9 39,1laurea 3 13,0Totale 23 100,0
5.1.3 Disegno della ricerca
Il disegno della ricerca è quasi-sperimentale, sia per la natura delle variabili
non completamente controllabili (ad esempio la narrazione) che per il tipo di
campionamento; è un disegno misto che prevede come variabili between l’età
dei bambini, il sesso e il titolo di studio delle madri, e come variabili within
1
le due fasi di cui si compone la ricerca, la prima in cui viene somministrato ai
bambini il Test di Valutazione del Linguaggio (TVL) e la seconda che
prevede la narrazione di un libro illustrato.
5.2 Le fasi della ricerca. Materiali e procedure
In sintesi la ricerca si è articolata in due momenti principali, di cui verranno descritti più in
dettaglio nelle prossime pagine i materiali impiegati, le procedure e i sistemi di codifica
utilizzati nell’analisi dei dati raccolti, mentre rimandiamo alle Appendici per
l’illustrazione particolareggiata dei materiali.
Fase 1. I bambini vengono sottoposti nel corso di un’unica seduta a prove
linguistiche individuali al fine di individuare lo sviluppo linguistico
raggiunto.
Fase 2. A distanza di qualche giorno i bambini sono invitati a raccontare una
storia con lo scopo di rilevare la loro competenza narrativa e la produzione di
lessico psicologico.
5.2.1 Fase 1-Il linguaggio
In un’aula della scuola materna, ciascun bambino è stato sottoposto
individualmente ad una seduta della durata di circa 20/30 minuti con il Test
di Valutazione del Linguaggio/TVL, Livello prescolare (Cianchetti e Sannio
Fancello, 1997). Il test valuta il linguaggio in bambini dai 2 anni e mezzo ai 6
anni, e indaga tutti i settori funzionali specifici del linguaggio ed è selettivo
per il linguaggio stesso, in quanto coinvolge il meno possibile funzioni
logiche extraverbali.
I parametri generali presi in considerazione sono:
Comprensione di parole e frasi
Ripetizione di frasi
Denominazione
Produzione spontanea su tema
1
Il test permette un’indagine plurisettoriale rapida e completa e include gli aspetti
strutturali e funzionali principali della capacità linguistica nella sua duplice dimensione di
comprensione e produzione. Implica infatti, sia prove in cui il bambino deve identificare
oggetti a partire dalla loro denominazione da parte dello sperimentatore che prove in cui
deve denominare lui stesso gli oggetti.
Si parte con la somministrazione di prove che riguardano la capacità di comprensione (Comprensione di parole e frasi), innanzitutto rivolta alla conoscenza lessicale (include termini relativi a oggetti, azioni, qualità) poi a elementi morfo-sintattici, con uso di frasi semplici o di modesta complessità. Alle classiche prove di ripetizione (Ripetizione frasi), che implicano la padronanza da parte del bambino, delle parole, delle loro variazioni morfo-grammaticali e della sintassi, oltre che la corretta percezione di sillabe e parole e la capacità di articolazione delle parole stesse, seguono prove di denominazione di oggetti e di azioni (Denominazione). In questo caso la capacità lessicale è provata rispetto alla capacità di rievocare una parola nota. Partendo poi da situazioni stimolo diverse, il bambino è invitato ad esprimersi in modo da analizzare il suo versante espressivo inerente agli aspetti fonologici, morfo-sintattici, e costruttivi della frase e del periodo (Produzione spontanea su tema). I parametri presi in considerazione in questa fase sono: correttezza fonologica e morfo-sintattica, costruzione della frase (collegamenti appropriati vs inappropriati), costruzione del periodo (subordinate vs principali), lunghezza media dell’enunciato (LME), totale delle parole prodotte e tipo di stile espresso durante la produzione spontanea. Di seguito, nella tabella 5.5, si presenta il piano del test, di cui in Appendice, viene riportato a titolo esemplificativo il Protocollo di valutazione completo
Tabella 5.5 – Indice delle prove del TVL
1- COMPRENSIONE DI PAROLE E FRASI
1.1 Parti del corpo e Oggetti
1.2 Figure di oggetti
1.3 Colori
1.4 Figure di oggetti secondo l’uso
1.5 Aggettivi
1.6 Frasi semplici designanti azioni
1.7 Frasi complesse designanti oggetti
1.8 Frasi con concetti spaziali e temporali
2- RIPETIZIONE DI FRASI
3- DENOMINAZIONE
3.1 Parti del corpo
3.2 Oggetti
3.3 Figure di oggetti
4- PRODUZIONE SPONTANEA SU TEMA
4.1 Descrizione di figure: persone e azioni
4.2 Parlare liberamente in relazione a due figure
4.3 Ripetere il racconto di una storia con l’aiuto di vignette
4.4 Descrizione di una sequenza di azioni
1
5.2.2 Fase 2- Narrazione di un libro illustrato
Ciascun bambino, in un’aula della scuola materna, è stato invitato, sempre
individualmente, a narrare una storia partendo da un libro illustato “Filippo e le farfalle” di
Hanne Turk (1986) presentato in Appendice. Le istruzioni che i bambini ricevevano erano
“Bene, ora guarda questo libretto e raccontami tu la storia”.
Dei racconti prodotti dai bambini si è valutata la produzione di lessico psicologico e la
competenza narrativa.
Per quanto riguarda il lessico psicologico, è stata utilizzata una tabella di riconoscimento e
codifica dei termini riconducibili a stati interni, derivata da Camaioni, Longobardi,
Bellagamba (1998) alla quale è stata aggiunta la categoria denominata “Stati
Comunicativi”. In tabella 5.6 si presenta la lista completa degli stati psicologici e dei
corrispondenti termini “ricercati” nelle narrazioni dei bambini.
Tabella 5.6- Termini riferiti a stati interni
Stati percettivi (n. 13) avvistare, fare attenzione a, fissare, guardare, osservare, riconoscere, sentire, sentir caldo, sentir freddo, sentir male, udire, vedere.
Stati emotivi positivi (n. 22) affascinare, affezionarsi, amare, avere coraggio, avere fiducia, farsi coraggio, far tenerezza, divertirsi, emozionarsi, essere amici, essere il preferito di, innamorarsi, piacere, sentirsi orgoglioso, tirar su d’animo, voler bene, allegro, contento, felice, fiero, simpatico, soddisfatto.
Stati emotivi negativi (n. 21) aver paura, arrabbiarsi, detestare, disperarsi, dispiacersi, esser geloso di, infuriarsi, invidiare, odiare, prendersela con, preoccuparsi, rimanerci male, sentirsi solo, spaventarsi, vendicarsi, vergognarsi, antipatico, infelice, povero
1
(=da commiserare), terrorizzato, tristeStati volitivi e di abilità (n. 25) avere intenzione di, cercare di, decidere,
desiderare, esaudire, esser dotato di, fare apposta, osare, ordinare, potere (=essere capace di), permettere, preferire, promettere, provare, rassegnarsi, rimpiangere, riuscire, scommettere, sapere (=essere capace di), sperare, tentare, vietare, volere, bravo, capace.
Stati cognitivi o epistemici (n. 39) accorgersi, aspettarsi, cascarci (=essere ingannato), capire, chiedersi, conoscere, constatare, credere, dimenticare, dirsi, escogitare, essere curioso, essere interessato, essere perplesso, essere sicuro o non sicuro di, è vero, è falso, fregare (=imbrogliare), ingannare, ignorare, indovinare, inventare, leggere nel pensiero, meravigliarsi, pensare, prevedere, rendersi conto, ritenere, ricordare, riflettere, sapere, sbalordirsi, scoprire, sembrare, sognare, sospettare, sorprendersi, venire in mente.
Stati di giudizio morale (n. 17) ammirare, approfittare, beffarsi di, bisogna (=si deve), consolare, dovere (=avere l’obbligo di), essere costretto, importare, pentirsi, perdonare, potere (=avere il permesso di), prendere in giro, ridere di, rispettare, sacrificarsi; buono, cattivo.
Stati comunicativi (n.4) dire, chiedere, raccontare, chiamare
Riferendoci invece alla competenza narrativa sono state analizzate la complessità
strutturale, la coesione e la coerenza.
La complessità strutturale fa riferimento al chi, cosa, quando, dove e come,
cioè fa riferimento agli elementi costitutivi della storia. Per formare storie che
possano essere definite ben strutturate occorre che le informazioni presenti
facciano riferimento a :
inizio o introduzione con definizione di personaggi, ambientazione e
problema;
1
svolgimento o complicazione del problema;
soluzione del problema e conclusione.
La presenza, assenza o combinazione di questi elementi costitutivi definisce la complessità
strutturale, che è stata ordinata in cinque livelli (Spiniello e Pinto, 1994):
non storia: descrizione o elencazione di eventi, fatti, oggetti, aspetti del
paesaggio discontinuità dei personaggi e mancanza di una conclusione
(punteggio 1);
abbozzo di storia: varie combinazioni degli elementi costitutivi in cui
però mancano sempre parti importanti quali il problema e/o la
soluzione e/o lo svolgimento (punteggio 2);
storia incompleta: presenza di molti elementi strutturali, ma assenza
costante dello svolgimento (punteggio 3);
storia essenziale: mancanza di elementi strutturali non essenziali, ad
esempio l’ambientazione (punteggio 4);
storia completa: presenza di tutti gli elementi costitutivi, di cui solo il
titolo è considerato opzionale (punteggio 6).
Per analizzare i livelli di coesione presenti nelle storie narrate dai bambini
sono state utilizzate le due tipologie di connettivi individuate da Halliday
Hasan (1976):
1. i connettivi causali, che indicano i rapporti causa-effetto esistenti tra
gli elementi della storia (ad esempio: quindi, allora, perchè, così, di
conseguenza, per cui, perciò, ecc..);
2. i connettivi temporali, che esprimono una scansione di ordine
cronologico all’interno della storia (ad esempio: c’era una volta,
quando, poi, mai, prima, alla fine, improvvisamente, da allora, in un
attimo, presto, sempre, dopo, nel frattempo, ecc..)
Due giudici indipendenti hanno valutato la coesione delle storie attraverso il
computo dei connettivi causali e temporali presenti in esse, corretti in
relazione alla lunghezza delle storie stesse attribuendo poi un punteggio
1
articolato per diversi livelli: la scarsa coesione indica l’uso di un solo
connettivo (punteggio 1); la coesione media indica l’uso di due-tre connettivi
(punteggio 2); l’elevata coesione indica la presenza di più di tre connettivi
(punteggio 3).
Per analizzare l’aspetto della coerenza, le storie sono state valutate da due
giudici indipendenti attraverso il computo delle incoerenze tra un enunciato
l’altro. Il numero di incoerenze, corretto per il numero complessivo degli
enunciati, è stato quindi ricondotto, sulla base della distribuzione
complessiva dei punteggi entro il campione, in tre categorie indicate come:
scarsa coerenza (punteggio 1); coerenza media (punteggio 2); coerenza
elevata (punteggio 3). Per tutti e tre i parametri utilizzati, l’accordo tra i
giudici è compreso tra l’85% e il 100%; i casi di disaccordo sono stati risolti
tramite discussione.
1
Capitolo 6
I RISULTATI DELLA RICERCA
La descrizione della ricerca presentata nel capitolo precedente avrà senza
dubbio comunicato la sensazione di trovarsi davanti ad un apporto composito
nel quale i fattori chiamati in causa sono diversi, come sono differenti gli
effetti e le interazioni di cui si cerca di indagare l’esistenza.
Partendo dai dati presenti in letteratura si è voluto indagare prima di tutto il
livello di sviluppo linguistico dei bambini attraverso l’utilizzo del TVL, per
poi passare allo studio della produzione di lessico psicologico e della
competenza narrativa con il supporto di un libro illustrato “Filippo e le
farfalle” di Hanne Turk (1986), cercando di individuare le possibili
correlazioni tra le diverse abilità citate e le possibili differenze tra maschi e
femmine, tra i bambini più piccoli (dai 64 ai 67 mesi) e quelli più grandi (dai
68 ai 75 mesi) e tra i bambini che hanno madri con diverso titolo di studio.
Non tutte le ipotesi che hanno ispirato il presente lavoro sono state
confermate, per alcune sono stati ottenuti dati facilmente interpretabili e
coerenti con la letteratura, per altri dati nuovi e diversi da quelli già
consolidati, che, comunque, ci pare possano essere interessanti per stimolare
ricerche future.
1
6.1 TVL e valutazione dello sviluppo linguistico
Attraverso la somministrazione del TVL si è voluto verificare il livello di
sviluppo linguistico dei bambini, se effettivamente si differenziano per
genere, età e titolo di studio dei genitori.
Il t di Student per campioni indipendenti sui punteggi grezzi relativi a tutti i
parametri mostra differenze significative per genere nelle categorie Colori,
Totale parole e Totale comprensione (Tabella 6.1).
Tabella 6.1 M, DS e t di Student per genere e categoria del linguaggio
indagate dal TVL
Categorie del
linguaggio
Genere M e DS t Sig.
Colori (grezzo) Maschio
Femmina
9.1667 (.83485)
9.7778 (.44096)
- 2,165 p=.045
Totale parole
(grezzo)
Maschio
Femmina
74.2500 (2.26134)
77.3333 (2.23607)
- 3,107 p=.006
Totale
comprensione
(grezzo)
Maschio
Femmina
107.5000 (3.26134)
111.3333 (3.64005)
- 2,537 p=.020
Anche se i punteggi ottenuti negli altri parametri non presentano una
differenza significativa si notano comunque differenze a favore del genere
femminile. Le scale del TVL con le differenze per genere sono state divise in
due grafici (figure 6.1 a e 6.1 b) per facilitare la lettura dei risultati.
Figura 6.1 a – Differenze di genere nello sviluppo linguistico
1
Figura 6.1 b – Differenze di genere nello sviluppo linguistico
Vediamo come le femmine ottengono punteggi maggiori anche se non
significativi in Parti del corpo e Oggetti, Figure di oggetti, Figure di oggetti
secondo l’uso, Aggettivi, Frasi complesse designanti oggetti, Totale frasi,
1
Comprensione totale, Figure di oggetti (Denominazione), Totale
denominazione, Fonologia, Morfosintassi, Costruzione frase, Stile,
Produzione spontanea parziale, Produzione spontanea totale. I maschi invece
ottengono punteggi leggermente più elevati in Frasi con concetti spazio
temporali e Ripetizione.
Per quanto riguarda l’età, le due categorie prese in esame (dai 64 ai 67 mesi e
dai 68 ai 75 mesi) non mostrano differenze significative nei risultati ottenuti
attraverso il t di Student sui punteggi grezzi relativi a tutti parametri che
compongono il TVL. Perciò i bambini più grandi non presentano uno
sviluppo linguistico maggiore rispetto ai più piccoli.
Benchè non vi siano differenze significative, notiamo comunque la presenza
di differenze a favore del gruppo dei “piccolo” che va dai 64 ai 67 mesi
(figura 6.2 a; 6.2 b). Si ipotizza che sia stato ottenuto questo risultato perchè
il gruppo dei bambini più piccoli è composto da una percentuale maggiore di
femmine (7 femmine e 4 maschi), che come abbiamo visto hanno ottenuto
punteggi maggiori nelle prove del test. E comunque le troppo piccole
differenze di età non ci permettono di fare ulteriori inferenze.
Figura 6.2 a – Differenze nello sviluppo linguistico in relazione all’età
1
Figura 6.2 b – Differenze nello sviluppo linguistico in relazione all’età
Prendendo in esame la possibile influenza del titolo di studio della madre
sullo sviluppo linguistico dei bambini, vediamo (sempre attraverso t di
Student per campioni indipendenti) differenze significative nel parametro
Aggettivi a favore del titolo di studio “diploma, laurea”. Anche se non si
rilevano altre differenze significative è comunque possibile notare una
differenza per titolo di studio più elevato (diploma, laurea) come era naturale
attendersi (figura 6.3 a; figura 6.3 b).
Tabella 6.2 M, DS e t di Student per titolo di studio della madre e categoria
del linguaggio indagate dal TVL
Categorie del
linguaggio
Titolo di studio M e DS t Sig.
Aggettivi
(grezzo)
Medie
Diploma, laurea
16.6667 (1.21106)
18.0000 (1.30931)
- 2,149 p=.045
Figura 6.3 a – Differenze nello sviluppo linguistico in relazione al titolo di studio della
madre
1
Figura 6.3 b – Differenze nello sviluppo linguistico in relazione al titolo di studio della
madre
1
I bambini che hanno madri con un titolo di studio più elevato ottengono
risultati maggiori, anche se non significativi in Frasi semplici designanti
azioni, Totale parole, Totale frasi, Ripetizione, Figure di oggetti
(Denominazione), Totale denominazione, Fonologia, Morfosintassi, LME e
Produzione spontanea totale. Nei parametri rimanenti i bambini ottengono
più o meno i medesimi risultati indipendentemente dal titolo di studio della
madre.
6.2 Produzione di lessico psicologico
Attraverso la narrazione di un libro illustrato da parte dei bambini, è stato
possibile verificare quali termini riconducibili al lessico psicologico sono più
frequentemente utilizzati e, come analizzato precedentemente, se vi sono
differenze significative per genere, età e titolo di studio della madre.
La percentuale di produzione di ogni termine mentale è stata calcolata sul
totale dei termini riferiti agli stati psicologici
È stato riscontrato che i termini più utilizzati dai bambini sono quelli volitivi
(40%) (figuara 6.4)
Figura 6.4 Distribuzione dei termini riconducibili al lessico psicologico nella produzione
narrativa dei bambini
1
Questo risultato sembra essere in contraddizione con la nostra ipotesi iniziale
secondo la quale ci si aspettava che i termini più utilizzati dai bambini di 5 e
6 anni fossero quelli riferiti a cognizioni come rilevato da Devescovi e
Baumgartner (1996), anche se, come verrà riportato in seguito, la differenza
tra i termini cognitivi e volitivi è molto sottile.
Confrontando tra loro le percentuali di termini psicologici utilizzati dai
bambini, il test del Chi-quadrato ci mostra differenze significative rispetto
alle attese nelle categorie di termini cognitivi, morali, comunicativi e riferiti a
stati emotivi positivi (vedi tabella 6.1), evidentemente meno frequenti dei
termini volitivi, percettivi ed emotivi negativi.
Tabella 6.2 - Previsioni delle frequenze dei termini psicologici utilizzati
percettivi positivi negativi volitivi cognitivi morali comunicativi
Chi-
quadrato
df
Sig. Asint
8,095
12
.778
18.857
8
.016*
7.000
11
.799
7.66
13
.865
31.857
5
.001***
39.333
6
.001***
30.857
2
.001***
1
Prendendo in esame le differenze di genere, attraverso il test di Mann-
Whitney, non sono state riscontate differenze significative tra maschi e
femmine, anche se è stata riscontrata un differenza nella produzione di
lessico psicologico a favore del genere femminile. Si può notare come
avevamo ipotizzato all’inizio che, sebbene in modo non significativo, le
femmine producono un maggior numero di termini riconducibili a stati
psicologici e che in particolar modo producono un maggior numero di
termini riferiti a stati emotivi positivi visto che come citato da Fivush (1989)
le madri rivolgono ai figli sia maschi che femmine la stessa quantità di
linguaggio sulle emozioni, ma con le figlie parlano sopratutto di emozioni
positive mentre coi figli si riferiscono allo stesso modo ad emozioni positive
e negative.
Solo per quanto riguarda i termini riconducibili a emozioni negative e
cognizione, la produzione è a favore del genere maschile (nella figura 6.5
oltre alle percentuali di ciascuna categoria di termini psicologici sul totale dei
termini psicologici, riportiamo anche la percentuale di termini psicologici sul
totale delle parole usate dai bambini)
Figura 6.5 Differenze di genere nell’utilizzo del lessico psicologico
1
Prendendo in considerazione il titolo di studio delle madri siamo riusciti a
dimostrare attraverso l’applicazione del test di Mann Whitney (sul totale dei
termini mentele) le nostre ipotesi iniziali, secondo cui i bambini con madri
con un titolo di studio più basso utilizzano termini psicologici maggiormente
riferiti ad emozioni, mentre quelli con madri con un titolo di studio più
elevato utilizzano un linguaggio più didattico riferendosi maggiormente a
cognizioni e percezioni. Infatti notiamo che vi sono differenze significative
per quanto riguarda l’utilizzo di termini riferiti a stati percettivi, a favore di
bambini con madri che hanno un titolo di studio più elevato, e riferiti a stati
positivi, in questo caso a favore dei bambini con madri con un titolo di
studio più basso (tabella 6.3). Anche se non sono state riscontrate altre
differenze significative notiamo comunque che la produzione di termini
riferiti a stati negativi è maggiore nei bambini con madri con un titolo di
studio inferiore (medie), mentre in tutti gli altri casi abbiamo una maggior
produzione di termini da parte dei bambini con madri con un titolo di studio
più elevato (diploma, laurea) (figura 6.6)
Tabella 6.3 – Differenze nelle produzione di lessico psicologico in relazione al titolo di
studio della madre
percettivi positiviU di Mann-Whitney
16,500 19,000
W di Wilcoxon 37,500 139,000Z -2,233 -2,090Sig. Asint. a 2 code
,026 ,037
Significatività esatta [2*(Significatività a 1 coda)]
,023* ,045*
1
Figura 6.6 – Differenze nella produzione di lessico psicologico in relazione al titolo di
studio materno
Per quanto riguarda la variabile età non sono state riscontrate differenze
significative e non nella produzione di lessico psicologico. Questo molto
probabilmente è dato dal fatto che le età che rientrano nelle due categorie
considerate sono molto ravvicinate tra loro.
Attraverso l’utilizzo del test di Rho di Spearman abbiamo cercato di
verificare l’esistenza di possibili correlazioni tra lo sviluppo linguistico e la
produzione di lessico psicologico, senza ottenere però risultati
significativamente rilevanti.
6.3 La competenza narrativa nella produzione di racconti
Come specificato in precedenza lo studio della competenza narrativa prevede l’analisi
della complessità strutturale, della coesione e della coerenza. Anche in questo caso si sono
indagate le possibile differenze tra genere, età e titolo di studio della madre. Abbiamo poi
effettuato una correlazione tra la competenza narrativa, sviluppo linguistico e produzione
di lessico psicologico, ottenendo risultati interessanti. Per iniziare vediamo come non
1
siano state riscontrate differenze significative in nessuna delle tre variabili considerate
(genere, età, titolo di studio della madre) (vedi figure 6.7, 6.8, 6.9).
Figura 6.7 – Competenza narrativa e genere
Figura 6.8 - Competenza narrativa e età
1
Figura 6.9 – Competenza narrativa e titolo di studio della madre
Vediamo come le femmine ottengano risultati più elevati nelle variabili
struttura e coerenza, mentre i maschi nella coesione; i bambini dai 64 ai 67
mesi ottengono punteggi maggiori nella struttura mentre quelli dai 68 ai 75
mesi nella coerenza e coesione; infine i bambini con madri che hanno un
titolo di studio inferiore ottengono punteggi più elevati nella coesione,
mentre gli altri nella struttura e coerenza.
Mettendo poi in correlazione la competenza narrativa con lo sviluppo
linguistico e la produzione di lessico psicologico abbiamo ottenuto risultati
particolarmente significativi: attraverso il test Rho di Spearman si è visto
come la struttura correla chiaramente con la coerenza e con alcuni parametri
misurati dal TVL quali la Comprensione totale, la Fonologia, la
1
Morfosintassi, la Costruzione della frase e lo Stile. La coesione non presenta
correlazioni significative con nessuna delle variabili considerate. La coerenza
presenta correlazioni significative con la struttura, la Morfosintassi, la
Costruzione della frase e lo Stile (tabella 6.4 a, 6.4 b, 6.4c)
Tabella 6.4 a – Correlazione tra competenza narrativa e abilità linguistiche
generali
struttura coesione coerenza totcomprenRho di Spearman struttura Coefficiente
dicorrelazione
1.00 .167 .643* .569**
Sig. (2 code) . .468 .002 .007N 21 21 21 21
coesione Coefficiente dicorrelazione
.167 1.000 .361 - .260
Sig. (2 code) .468 . .163 .255N 21 21 21 21
coerenza Coefficiente dicorrelazione
.643** .316 1,000 .369
Sig. (2 code) .002 .163 . .100N 21 21 21 21
Tabella 6.4 b – Correlazione tra competenza narrativa e abilità linguistiche
generali
ripetizione totdenom fonologia morfosinRho di Spearman struttura Coefficiente
dicorrelazione
.287 .133 .587** .531*
Sig. (2 code) .208 .567 .005 .013N 21 21 21 21
coesione Coefficiente dicorrelazione
.140 - .113 .370 .369
Sig. (2 code) .545 .625 0.99 0.99N 21 21 21 21
coerenza Coefficiente dicorrelazione
.126 .094 .384 .459*
Sig. (2 code) .585 .686 .086 .036N 21 21 21 21
1
Tabella 6.4 c – Correlazione tra competenza narrativa e abilità linguistiche generali
costrfrase collai collsp LME stileRho di Spearman struttura Coefficiente
dicorrelazione
.680* .410 .214 - .018 .493*
Sig. (2 code) .001 .065 .351 .939 .023N 21 21 21 21 21
coesione Coefficiente dicorrelazione
.297 .370 - .019 .332 .273
Sig. (2 code) .191 .098 .936 .141 .231N 21 21 21 21 21
coerenza Coefficiente dicorrelazione
.637** .335 .218 - .033 .502*
Sig. (2 code) .002 .138 .343 .886 .020N 21 21 21 21 21
La correlazione positiva tra struttura e stile, e tra coerenza e stile dimostra
come all’aumentare della competenza stilistica la storia è più strutturata e
coerente. Stessa cosa per la correlazione tra struttura e comprensione totale:
più la trama della storia è strutturata maggiore è la comprensione di questa.
Partendo dalle nostre ipotesi iniziali perciò, le abilità linguistiche generali
correlano con la struttura e con la coerenza del racconto narrativo, ma non
con la coesione.
Dai risultati notiamo che non vi sono correlazioni significative tra
competenza narrativa e utilizzo di lessico psicologico. Questo potrebbe
dimostrare come evidentemente siano chiamate in causa abilità diverse: per la
competenza narrativa sono chiamate in causa abilità che si rifanno alla
conoscenza della struttura esplicita della storia, mentre per la produzione di
lessico psicologico è necessaria la conoscenza degli stati mentali propri e
altrui (teoria della mente). Gli aspetti quantitativi della competenza narrativa
non sono in relazione con la qualità della storia. Stessa spiegazione può
1
essere data alla mancanza di correlazione rilevata precedentemente tra
produzione di lessico psicologico e sviluppo linguistico generale.
Correlazione negativa interessante ma non significativa, è quella tra la
struttura e i termini riferiti a stati percettivi. Questo risultato dimostra che più
una storia ha una sua organizzazione strutturale e meno è necessario
utilizzare termini percettivi.
6.4 Il bambino DSL e il bambino Down
Come accennato precedentemente, nella nostra ricerca sono stati coinvolti
anche due bambini, uno con sindrome di Down e uno con disturbo specifico
del linguaggio che però sono stati “esclusi” dall’analisi complessiva dei
risultati. Dal momento che i due bambini sono stati sottoposti alle stesse
prove dei loro coetanei, somministrazione del TVL e lettura di un libro
illustrato, ci sembra opportuno introdurre qualche breve riflessione sulle loro
prestazioni sia rispetto allo sviluppo linguistico che alla narrazione.
Il bambino Down ha 86 mesi, mentre quello con disturbo specifico del
linguaggio 72 mesi.
Non conoscendo l’età mentale del bambino Down il profilo del TVL è stato
calcolato sui punteggi grezzi.
Nei seguenti grafici verrà riportato un confronto tra il bambino DSL e il
bambino con sindrome di Down per quanto riguarda i parametri analizzati dal
TVL (6.10), il lessico psicologico (6.11) e la competenza narrativa (6.12).
1
Figura 6.10 – Punteggi ottenuti nel TVL
6.11 – Produzione di lessico psicologico
6.12 – Competenza narrativa
1
Per quanto riguarda il bambino con sindrome di Down si evidenzia un ritardo
specifico nella produzione di parole, a cui supplisce con una ricca produzione
di gesti comunicativi. Il bambino con DSL invece produce un numero
maggiore di parole (108 contro le 46 del bambino Down). Analizzando i
diversi parametri calcolati col TVL (vedi grafico presentato il figura 6.10)
notiamo che i bambini ottengono punteggi simili nei parametri
Comprensione, Denominazione, Costruzione frase, Costruzione periodo a/i e
Ripetizione. Il bambino con DSL ottiene punteggi maggiori soprattutto in
Correttezza fonologica e Correttezza Morfosintattica.
Per quanto riguarda la produzione di lessico psicologico il bambino con
sindrome di Down non produce termini riconducibili a stati psicologici, se
non un unico termine volitivo. Invece, il bambino con DSL produce, sebben
in bassa percentuale, alcuni termini riconducibili a stati psicologici, in
specifico termini percettivi, volitivi e riconducibili a stati negativi. Nel
grafico 6.11 viene presentata la produzione dei termini mentali in
percentuale, cioè la produzione di ogni termine mentale è stata calcolata sul
totale dei termini mentali prodotti.
Analizzando la competenza narrativa vediamo come il bambino con DSL
produca storie maggiormente strutturate e coese rispetto al bambino con
sindrome di Down, mentre i due bambini ottengono punteggi simili nel
parametro coerenza (figura 6.12)
Anche in questo caso è possibile notare che il bambino che ha ottenuto
punteggi maggiori nel TVL è anche quello che presenta una maggior
competenza narrativa. Infatti il bambino DSL che ha ottenuto una miglior
prestazione nei parametri Correttezza fonologica e Correttezza
morfosintattica è anche quello che produce storie più strutturate e coese. C’è
da notare che in questo caso abbiamo una correlazione tra sviluppo
linguistico generale, struttura e coesione, mentre nei risultati ottenuti
precedentemente dal nostro campione vi era una correlazione tra sviluppo
13
linguistico generale, struttura e coerenza. Si può comunque concludere che
anche in questo caso lo sviluppo linguistico generale correla con la
competenza narrativa, cioè il bambino che presenta uno sviluppo linguistico
maggiore sarà anche quello con maggiori abilità narrative.
13
Capitolo 7
DISCUSSIONE DEI RISULTATI
Attraverso la narrazione di un brano è possibile cogliere il funzionamento di
numerosi processi psicologici. Innanzitutto vi si ritrovano implicati il
linguaggio, l’uso della memoria episodica e semantica e l’attivazione di
processi di problem solving; è inoltre coinvolta la sfera emotiva, tramite i
sentimenti empatici che possono svilupparsi verso i personaggi dei racconti.
Infine, le storie e in particolare quei testi che entrano a far parte della vita
quotidiana - come i discorsi, gli aneddoti, le autobiografie, che
contribuiscono alla strutturazione del Sè in un contesto sociale –
rappresentano un vero e proprio prodotto culturale attraverso il quale si
tramandano valori, conoscenze e principi educativi (Accorti Gamannossi,
2001).
Le abilità narrative in età evolutiva sono un argomento di notevole interesse.
Il periodo dei 5 anni è indicato dalla letteratura come particolarmente
significativo per il consolidamento della competenza narrativa, e al tempo
stesso però si è rilevata una scarsità di ricerche relative ai rapporti fra le
competenze narrative e le abilità linguistiche generali dei bambini in età
prescolare (Hudson e Shapiro, 1991; Karmiloff-Smith, 1986; Pinto, Bergamo
e Cioncolini, 1994).
All’interno del nostro studio, condotto su bambini dell’ultimo anno della
scuola dell’infanzia, abbiamo cercato di evidenziare quali legami
intercorrano tra le competenze linguistiche generali, le abilità narrative e la
produzione di lessico psicologico. Per quanto riguarda la produzione di
storie, i risultati mostrano come la struttura e la coerenza siano gli indicatori
maggiormente legati alle abilità linguistiche generali, mentre la coesione non
mostra alcuna relazione significativa. Perciò partendo dallo studio di Accorti
14
Gamannossi, vediamo che, anche nella nostra ricerca, i bambini più abili dal
punto di vista linguistico lo sono anche nel compito di produzione di storie
per ciò che riguarda l’organizzazione strutturale del testo e dal punto di vista
dell’uso di connettivi, mentre non sono state rilevate correlazioni
significative per quanto riguarda la coesione.
Questi dati confermerebbero le nostre aspettative: i bambini più abili dal
punto di vista linguistico generale lo sono anche nel compito di esposizione
della storia; analogamente i più scadenti nelle abilità linguistiche lo sono
anche in quelle narrative. Ciò può suggerire che a 5 anni la comprensione e
l’esposizione di una storia, sottendano abilità fortemente supportate da quelle
linguistiche generali.
Come riportato nell’articolo di Accorti Gamanossi (2001), visto lo stretto
legame rilevato, si potrebbe pensare all’esistenza di una relazione circolare
tra le due competenze e perciò attività didattiche mirate al potenziamento
delle abilità linguistiche potrebbero quindi portare anche a un miglioramento
in quelle narrative, e parallelamente, interventi specifici sulla comprensione
di storie avrebbero una ripercussione positiva sulle competenze linguistiche
di base.
Prendendo in esame il lessico psicologico, si è visto come, al contrario delle
nostre aspettative i termini più utilizzati dai bambini siano quelli riferiti a
stati volitivi. Ci si sarebbe aspettato infatti un maggior utilizzo di termini
cognitivi. Anche se c’è da precisare che la distinzione tra termini cognitivi e
volitivi è molto sottile, le due categorie presentano confini molto labili e i
termini che rientrano in una categoria potrebbero rientrare anche nell’altra.
Non sono state riscontrate correlazioni significative tra produzione di lessico
psicologico - abilità linguistiche generali, e tra produzione di lessico
psicologico - competenza narrativa. Ciò potrebbe essere un indice del fatto
che nella competenza narrativa sono chiamate in causa abilità che si rifanno
ad una sorta di metacognizione della storia, mentre per la produzione di
14
lessico psicologico è necessaria la conoscenza degli stati mentali propri e
altrui (teoria della mente). Ci troviamo di fonte a due diversi aspetti della
narrazione, una quantitativa (competenza narrativa) e l’altra qualitativa
(lessico psicologico).
Alla stessa motivazione può essere ricondotta la mancanza di correlazione tra
produzione di lessico psicologico e competenze linguistiche generali. Le
molteplici abilità coinvolte nella produzione di lessico psicologico non
possono essere tutte supportate dalle abilità linguistiche rilevate attraverso il
TVL.
Per quanto riguarda le possibile differenze di genere, età, titolo di studio della
madre nello sviluppo linguistico generale, competenza comunicativa e
produzione di lessico psicologico dei bambini, non sono state riscontrate
differenze particolarmente significative, se non per quel che riguarda i
parametri Totale parole, e Comprensione totale a favore del genere
femminile. Il genere femminile ha comunque ottenuto punteggi maggiori
anche se non significativi in gran parte delle prove del TVL e nella
produzione di lessico psicologico. Solo per quanto riguarda i termini
riconducibili a emozioni negative e cognizione, la produzione è a favore del
genere maschile.
Le femmine producono un maggior numero di termini riconducibili a stati
psicologici e che in particolar modo producono un maggior numero di
termini riferiti a stati emotivi positivi visto che come citato da Fivush (1989)
le madri rivolgono ai figli sia maschi che femmine la stessa quantità di
linguaggio sulle emozioni, ma con le figlie parlano sopratutto di emozioni
positive mentre coi figli si riferiscono allo stesso modo ad emozioni positive
e negative.
Prendendo in esame i due gruppi di età considerati (dai 64 ai 67 mesi e dai 68
ai 75) non sono state riscontrate differenze significative nelle diverse prove,
14
probabilmente a causa del fatto che le età considerate sono molto ravvicinate
tra loro, perciò la nostra suddivisione è stata più che altro arbitraria.
Non sono state riscontrate differenze significative nei bambini con madri con
diversi titoli di studio nelle prove del TVL se non nel parametro Aggettivi a
favore del titolo “diploma, laurea”. Sono stati comunque rilevati punteggi
maggiori a favore del titolo di studio più alto.
Prendendo in esame la produzione di lessico psicologico vediamo come le
madri con un titolo di studio più basso utilizzano termini psicologici
maggiormente riferiti ad emozioni, mentre quelle con un titolo di studio più
elevato utilizzano un linguaggio più didattico riferendosi maggiormente a
cognizioni e percezioni. Infatti notiamo che vi sono differenze significative
per quanto riguarda l’utilizzo di termini riferiti a stati percettivi, a favore
delle madri che hanno un titolo di studio più elevato, e riferiti a stati positivi,
in questo caso a favore delle madri con un titolo di studio più basso. Anche
se non sono state riscontrate altre differenze significative, la produzione di
termini riferiti a stati negativi è maggiore nelle madri con un titolo di studio
inferiore (medie), mentre in tutti gli altri casi abbiamo una maggior
produzione di termini da parte delle madri con un titolo di studio più elevato
(diploma, laurea). Probabilmente i bambini non sono stimolati da queste
madri a parlare di stati interni, probabilmente l’importante per queste madri è
che i loro bambini utilizzino descrizioni esplicite riconducibili a eventi ed
oggetti oggettivi, senza inferenze su quelli che possono essere gli stati interni
delle persone/personaggi. Sarebbe interessante somministrare alle educatrici
e alle madri un questionario che metta in evidenza quale sia per loro la storia
“migliore”, se quella descrittiva o se quella ricca di riferimenti a stati interni.
Per la competenza narrativa non sono state riscontrate differenze di genere,
età e titolo di studio della madre nelle tre variabili considerate (struttura,
coerenza e coesione).
14
Numerosi sono gli spunti, anche critici che derivano dai risultati di questo
lavoro, sia per gli approfondimenti teorici che per le implicazioni pratiche .
Della narrazione di racconti si sarebbe potuto studiare oltre che la
competenza dei bambini nella comprensione e esposizione di una storia
partendo da un libro illustrato, anche abilità narrative e lessico psicologico
nei compiti di produzione libera. Sarebbe interessante verificare l’effetto di
training mirati, attività didattiche mirate a favorire miglioramenti sensibili nei
bambini con maggior difficoltà.
14
14
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16
APPENDICE
16
16
Appendice 1: libro illustrato “Filippo e le farfalle”
16
17
17
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Appendice 2: alcuni esempi di storie raccontate dai bambini in riferimento
al libro “Filippo e le farfalle”
Maya, 64 mesi
Filippo aveva rotto il retino
e poi la la la aggiustato
poi è andato a cercare un bastone e ce l’ha attaccato
e Filippo è molto contento che lo ha riparato
e allora va nel prato a catturare le farfalle
poi si nasconde dietro un cespuglio
poi salta fuori, ma Filippo non le prende le farfalle
nel retino non c’è niente
e si ingarbuglia
poi ci prova di nuovo ma niente
e dopo lo rompe
si ingarbuglia nella testa e poi dopo lo rompe
Filippo è triste, guarda, proprio piange
Filippo pensa non bisogna catturare le farfalle
bisogna guardarle
e allora le guarda
si mette nel prato poi le guarda le farfalle
Marta, 64 mesi
C’era una volta un topolino
Io non mi ricordo il nome (io dico Filippo)
che si chiamava Filippo
e voleva catturare le farfalle
però il suo retino è rotto
e allora lui lo aggiusta
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e pensa adesso però mi metto solo un bastone nel buco
e va a prendere un bastone
lo infila nel retino
e adesso è pronto il retino
prova a vedere se è troppo basso o troppo in alto
e poi va in mezzo ai campi
guarda se ci sono le farfalle
ne vede due
e va fuori dal cespuglio
e poi
gli va incontro ma si ingarbuglia con le mani
allora prova ancora
ma lui non ci riesce
prova ancora ma si rompe il retino
allora lo guarda prova ad aggiustarlo ma non ci riesce
e si mette a piangere
però dopo pensa a una cosa e dice “Non c’è bisogno di catturarle basta solo
guardarle”
si sdraia nel prato per guardarle
Luca, 68 mesi
Un bel giorno un topolino, cioè Filippo voleva andare a caccia di farfalle
ma il suo retino era rotto
e allora aggiustò il retino e poi prese un bastone e ce lo attaccò
poi andò sul prato
sul prato
e si nascose dietro a un cespuglio
poi quando le farfalle arrivarono lui viene fuori per cercare di prenderle
ma non ci riuscì e si ingarbugliò le mani nel retino
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ci riprovò ma si ingarbugliò la testa nel retino e il bastone si ruppe
allora Filippo si mise a piangere
e poi capise come si faceva a vedere le farfalle
sdraiarsi sul prato e guardare le farfalle
Federico, 66 mesi
C’era uno che si chiamava Filippo
voleva andare a caccia di farfalle
ma invece il suo retino è rotto
però ancora lui non ci riesce
e poi con un bastone
attaccò il bastone
aggiustò il retino per andare a caccia di farfalle
e qui eh....... cercò di catturare le farfalle
con un salto saltò ma si... intorcigliò
e dopo lo stesso
si è attorcigliato
e si è rotto il retino
adesso è arrabbiato e non sa cosa fare
e dopo piange
allora non c’è bisogno di catturare le farfalle
c’è bisogno che si sdraiò e guardava le farfalle
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