EzraP_byAlessandroGiuli

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Poesia

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La vita omerica di Ezra Pound, poeta,

prigioniero e stella silenziosa

Documentario inedito su Sky Arte HD –

a 130 anni dalla nascita

di Alessandro Giuli | 30 Ottobre 2015

ore 10:03

Per togliersi la vita

bisogna possederne

una, esistere, e così

non è per tanta parte

degli umani. Ombre.

Ezra Pound, lui sì che

avrebbe potuto: ne

aveva diritto, ma

preferì il silenzio d’un

canto interiore. Bello

fin da giovane di una

bellezza tragica come

certe lontananze al

crepuscolo, e ancora

più bello nella “gabbia

del gorilla” in quel

campo di

concentramento

vicino Pisa, dove fu

rinchiuso per tre

settimane dagli

americani alla fine

della Seconda guerra

mondiale, prima

d’essere immerso per

dodici anni nel

precipizio del

manicomio criminale

di St. Elizabeths

(accusa: alto

tradimento per via dei

suoi 300 fascistissimi

discorsi alla radio

dell’Eiar). Venerando

e biancheggiante di

suprema, barbuta,

ieratica bellezza,

infine, nell’ultimo

miglio dell’esistenza,

quello del ritorno in

Italia, liberato nel

1958, inquieto e muto

fino alla morte del

primo novembre

1972. Di Ezra Pound,

poeta del Novecento,

anzi poeta che è il

Novecento, sappiamo

tutto, o forse

crediamo. Ma è così?

Ho appena finito di

vedere il

documentario inedito

che verrà trasmesso

stasera su Sky Arte

HD, alle 20.15, “Ezra

Pound - Poeta”, in

occasione dei 130

anni dalla sua

nascita: dura 45

minuti ed è sufficiente

a capire, compatire e

onorare la memoria

insopprimibile di un

“viadotto verso

l’onestà”, come lo

definisce, arieggiando

parole sue, la figlia

Mary de Rachewiltz,

intervistata assieme

al nipote Sigfried, al

filosofo Massimo

Cacciari, allo scrittore

Pietrangelo

Buttafuoco e a pochi

preziosi altri, in una

narrazione che

culmina in un

frammento

d’intervista ottenuta

da Pier Paolo Pasolini

nel 1968, estremo e

inattuale omaggio a

una grandezza che

sgomenta.

Ma ricominciamo

daccapo. Il

documentario di cui

scrivo andrebbe

mostrato in ogni

scuola italiana, con

l’obiettivo, sì, di non

dimenticare che

Pound fu “un vero

americano” (Sigfried),

un vero “mussoliniano

senza benefici”

(Cacciari), un vero

poeta (chi

negherebbe?). Ma

andrebbe diffuso

sopra tutto per

conoscere e

condividere l’unità di

misura dell’ultimo

secolo che mirò alla

totalità, e fu perciò

totalitario.

Discendente di

giudici, ladri di cavalli

e poeti, statunitense

per natura e italiano

per essenza dantesca,

confuciano per

vocazione universale,

perché “la poesia fu in

lui la chiave per

schiudere la porta

d’oriente”

(Buttafuoco),

ineluttabile ma non

definitivo romitaggio

dell’anima, Pound

crebbe come un

diamante solitario e

tale volle restare,

anche quando a

circondarlo erano

figure come Picasso,

Tzara, Cocteau,

Hemingway, la sua

famiglia (la diafana

Mary su tutti, ancora

eterea mentre apre

alla tivù gli scrigni

poundiani di

Brunnenburg), i suoi

camerati di prigionia

(Raimondo Vianello,

Enrico Maria Salerno,

Ugo Tognazzi, Walter

Chiari). Dei suoi

Cantos,

quarantennale poema

epico-esoterico,

appare ormai ultronea

ogni aggettivazione:

“Opera epocale e

teologia poetica”, dice

Cacciari orgoglioso

del legame equoreo

tra Pound e Venezia;

manifesto

programmatico di

“una integrazione

totale tra mondo

sociale e natura”

fondata sull’armonia

del suono cosmico,

secondo il biografo

David Moody; e così

via.

Di Pound resta vivo

l’esempio, giusto o no

che sia, sbagliato

perché sconfitto o

sconfitto perché

sbagliato, centrato

com’era nella

teomachia tra lavoro

e sfruttamento, tra

umanesimo e usura

(parola di confine che

serba in sé i valori

d’uso e di consumo),

nella ricerca di “una

terza via tra l’ateo

materialismo

comunista e il

capitalismo usuraio”

(Cacciari). Durante i

giorni della pena,

della spropositata

prigionia, Pound

scrisse: “Dopo un

mese nelle celle della

morte un uomo / non

ammetterà gabbie per

le belve”. Fu anche

belva, come noi oggi,

Pound? E come fece,

lui, poca favilla d’una

sì alta fiamma, a non

ammattire mentre lo

sentenziavano pazzo?

Una traccia esiste,

suggerisce il nipote

Sigfried: l’ironia,

l’arma degli indifesi e

dei sapienti. “They

don’t get irony”,

saettava il poeta

contro i suoi

persecutori, gli

ammiratori feticisti,

gli inquilini del

privilegio e

dell’ignoranza. E

intanto la sua poesia

stillava da un intimo

ronzare d’api,

cantilena soffusa,

soliloquio fra gli astri.

Il suo silenzio è stato

una grande voce,

medita Vittorugo

Contino, che l’ha

immortalato accanto

a un timidissimo

Pasolini. E quel

silenzio è la condanna

di chi non sa

ascoltarlo.