CURIOSANDO NELL'ARTE CONTEMPORANEA...mutante con il mutare dello spirito dell’osservatore visto...

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CURIOSANDO NELL'ARTE CONTEMPORANEA

DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO

LA CONCEZIONE GIAPPONESE DELL'ARTE

IL MINIMALISMO

La concezione giapponese dell'arte

Alla fine dell’800, il “giapponismo” divenne di moda in Occidente e le xilografie di Hokusai e Hiroshige furono, a quei tempi, parte attiva nel liberare la pittura occidentale dell’epoca dalle sue tradizioni e avviarla alla modernità. In Giappone non esiste una “estetica” branca autonoma della filosofia come esiste qui in occidente, almeno dalla metà del ‘700.

In Giappone esistono concetti estetici originari che si possono far risalire ai periodi antichi, pur non essendo stati, a quel tempo, oggetto di studi sistematici. Ciò è avvenuto perché questi concetti tradizionali erano così integrati alla quotidianità e alla vita di tutti i giorni, da risultare addirittura scontati. In tal modo si comprende come l’estetica venga vissuta dai giapponesi non come una scienza separata e a sé stante, ma come un codice della sensibilità comune non separabile dalla vita.

Il fiore di ciliegio è amato e ammirato non perché sia bello nel senso in cui si intende la bellezza in occidente, ma perché è fragile e la sua bellezza è labile.

Un qualsiasi oggetto che mostri nelle crepe e nelle incrinature il passare del tempo è considerato bello, dal momento che mostra i segni della deperibilità come segno dell’impermanenza ( 無常 , mujo) alla base del concetto orientale di bellezza.

Si può dunque affermare che estetica ed etica nella visione giapponese sono legate perché nel perseguire una Via ( 道 , michi), come ad esempio la Via del tè, la perfezione formale è condizione per il raggiungimento della perfezione etica e mentre si persegue il miglioramento della forma si ottiene l’approfondimento etico e viceversa.Due i nuclei fondamentali per la comprensione, seppure superficiale, dell’atteggiamento artistico del Giappone: la Via del tè e la rappresentazione del vuoto nella concezione taoista.

Il pensiero nell’Oriente antico: Laozi, Zhuangzi, Confucio.

Occorre premettere che per poter riferire non solo dell’estetica giapponese, ma dei modelli di comportamento di questo popolo, bisogna innanzitutto fare riferimento alla visione cinese del mondo.

Laozi ( 老子 ,Roshi) è vissuto in epoca di poco precedente a Confucio nel IV – V sec. a.C..

La leggenda vuole sia nato da una vergine (quante coincidenze!). Lasciò un’opera fondamentale nella filosofia orientale: il Tao Te Ching formato da cinquemila ideogrammi e sviluppò il concetto di Tao che può essere sintetizzato in una massima :

La Via è la natura.

Questo sarà il punto centrale per le meditazioni dei filosofi successivi, in particolare Confucio. Altro pilastro della meditazione di Laozi è l’azione senza azione ( 無為 , mui) consistente nella prescrizione di non porsi obiettivi irraggiungibili o comunque troppo lontani per le proprie forze.Questo concetto di Vuoto sarà, per la nostra analisi, molto importante e ampiamente ripreso in seguito.

Il pensiero nell’Oriente antico: Laozi, Zhuangzi, Confucio.

Occorre premettere che per poter riferire non solo dell’estetica giapponese, ma dei modelli di comportamento di questo popolo, bisogna innanzitutto fare riferimento alla visione cinese del mondo.

Laozi ( 老子 ,Roshi) è vissuto in epoca di poco precedente a Confucio nel IV – V sec. a.C..

La leggenda vuole sia nato da una vergine (quante coincidenze!). Lasciò un’opera fondamentale nella filosofia orientale: il Tao Te Ching formato da cinquemila ideogrammi e sviluppò il concetto di Tao che può essere sintetizzato in una massima :

La Via è la natura.

Questo sarà il punto centrale per le meditazioni dei filosofi successivi, in particolare Confucio. Altro pilastro della meditazione di Laozi è l’azione senza azione ( 無為 , mui) consistente nella prescrizione di non porsi obiettivi irraggiungibili o comunque troppo lontani per le proprie forze.Questo concetto di Vuoto sarà, per la nostra analisi, molto importante e ampiamente ripreso in seguito.

Allievo di Laozi, Zhuangzi ( 荘子 , Soshi) ( 369 a.C. circa - 286 a.C. circa)

sostenne che la limitatezza della vita non consente di raggiungere l’illimitatezza della conoscenza.

Per questa ragione la percezione umana e il linguaggio che esprime conoscenza, non potranno mai essere assoluti, ma sempre legati ad una prospettiva personale delle cose. Non esistono dunque opinioni universalmente valide e vere e, pertanto,

anche la bellezza non è universale, ma soggettiva e relativa.

Confucio ( 孔子 , Koshi ) (551 – 479 a.C.)

fonda la sua filosofia sui due presupposti fondamentali del cinese antico.

Il primo consiste nel non ritenere l’uomo “altro” rispetto alla natura, ma connaturato ad essa e soggetto agli stessi cicli, agli stessi ritmi.

L’uomo orientale del tempo non riflette sull’origine del mondo poiché non ritiene esista una creazione dal nulla che generi l’ordine esistente, ma riflette sull’ordine del cosmo perché così gli appare la natura nella sua immanenza.

L’Uno è la Via, ma è un principio di unità e non un principio creatore.

Alla base del pensiero orientale sta dunque una sorta di materialismo organico che lega l’uomo alla natura.

Il secondo presupposto è che non esista un inizio e una fine delle cose ma, nell’ambito dell’unità spazio-temporale ( 宇宙 , uchu) che forma l’universo, avvenga il continuo movimento che costituisce il Tao, esito della armonica alternanza fra gli opposti del binomio yin e yang che determina la continua mutazione degli elementi.

Per Confucio la Grande Triade cielo–terra-uomo trova quindi nell’armonia del movimento degli opposti la ragione del suo equilibrio.

Di qui nasce la convinzione che la pittura di paesaggio cinese abbia un carattere religioso: la natura dei monti, degli alberi, dei fiumi è la stessa natura dell’uomo e, quindi, del pittore: tutto è formato dalla stessa sostanza e in armonico, continuo movimento.

Tutto ciò è stabilito in nome dell’armonia collettiva e della sintonia dell’uomo con sé stesso, con gli altri e con la natura e il cosmo.

E’ interessante notare come il confucianesimo superi la nozione individualistica dell’uomo propria del Taoismo antico ed evolva verso una concezione dell’uomo come essere sociale e relazionale.

Il concetto di vuoto, come si vedrà nel capitolo ad esso dedicato, viene invece valorizzato: non è più, infatti, solo lo spazio che consente meccanicisticamente l’azione degli opposti, ma diventa una possibilità per l’uomo, essere sociale, di agire fruendo del vuoto per rafforzare la sua ricerca di armonia. Se l’artista disegna su un foglio vuoto una nuvola, importante non sarà la nuvola, ma la sottolineatura che essa farà del vuoto rimasto, in cui la nuvola stessa potrà liberamente muoversi.

La natura concettuale dell’arte orientale

Poiché il Tao è unità dell’uomo con tutto l’universo, l’energia che l’artista assume dal Tao attraverso la sua dimensione fisica e attraverso la fisicità della sua opera è energia spirituale. Questa energia, insieme spirito vitale e influsso spirituale, è chiamata ki( 気 ). L’artista dovrà cercare non il bello (che in oriente non ha mai un ruolo autonomo dall’etica) ma la trasmissione alla sua opera del ki . Essendo il ki “soffio vitale” esso può essere reso attraverso la ricerca dell’armonia e del ritmo: solo in tal modo si potrà produrre arte e cioè vita. La pittura è la massima espressione di questa concezione vitalistica dell’arte. Questo è il motivo per cui in oriente non ci sarà mai alcuna separazione, come accadde in occidente presso i Greci, fra arti liberali e arti manuali. La pittura di paesaggio, che come si è visto è arte religiosa per eccellenza, matura proprio sullo sfondo taoista. Il Tao è vuoto, ma un vuoto che viene a prodursi poiché in esso tutto viene dissolto e rigenerato in un movimento continuo: si potrebbe dire che qui il vuoto è il contrario del nulla.

Il Tao ha dunque una dimensione puramente intellettiva e il movimento che in esso si esprime come oscillazione (se non vogliamo usare il termine occidentale dialettica che potrebbe portare a conclusioni errate) fra yin e yang è espresso con chiarezza proprio dalla pittura di paesaggio.

Valga come esempio la traduzione in cinese del termine “paesaggio”: sansui ( 山水画 , letteralmente montagna-acqua) che esprime l’insieme dei due opposti rappresentati attraverso immagini di montagna e acqua: alto e basso, solido e liquido, verticale e orizzontale ecc. E’ chiaro il moto che in questo dualismo è espresso: l’acqua che scende dal monte, il monte che sorge dalle acque, le nuvole che sovrastano la montagna e così via. Mentre “paesaggio” ha un senso di staticità, “montagna-acqua” dà la sensazione del processo in continuo divenire, mutante con il mutare dello spirito dell’osservatore visto che egli sarà libero di scegliere anche il punto di vista ritenuto più idoneo.

Infatti all’interno di una stessa opera coesistono più punti di fuga e mai la pittura orientale ha dovuto sottostare alla regola della prospettiva matematica che tanto ha influenzato la pittura occidentale.

E’ chiaro come a questo punto scompaiano tutti i dualismi dell’occidente e il “soffio vitale” del ki inglobi tutte le azioni e come il pittore e l’uomo non siano collocati di fronte alla natura, ma siano parte di essa.

Quindi il pittore che vuole dipingere un bambù dovrà prima farsi bambù egli stesso, assorbirne cioè il flusso vitale, purificandosi di ogni altra cosa, per creare in sé il vuoto necessario ad assorbire il ki del bambù per poterlo dipingere. Il pittore occidentale dipinge l’esterno da sé, il pittore orientale dipinge il proprio interno rigenerato. Ma veniamo all’esecuzione vera e propria dell’opera.

Ecco un elemento nuovo, completamente assente in occidente: il respiro guida il ritmo dell’operazione, mentre la mano deve essere educata a saper seguire questo ritmo e il polso deve essere così flessibile da saper dirigere la mano. Sono mano e polso a collegare gli strumenti al pensiero: mano, polso, pennello entrano nel processo di creazione dell’opera d’arte:

L’osservatore “di fronte” alla natura

Il termine che in giapponese potrebbe essere usato per tradurre l’italiano “natura” (dico potrebbe perché le due lingue sono così distanti fra loro che, salvo i termini riguardanti cose molto concrete e precise, difficilmente la traduzione può essere ritenuta perfettamente coincidente) è shizen( 自然 ) che significa “essere così come si è da sé” (per i Greci).

Per comprendere esattamente questa espressione occorre ricordare che nella concezione orientale la natura non è stata creata da un dio e non è nata dal nulla attraverso un qualsiasi atto creativo.

La natura (come per i Greci in occidente per i quali natura era “ciò che nessun Dio e nessun uomo fece”) è ciò che è, ed è essa stessa causa della sua propria nascita.

Al punto che nell’antichità del Giappone non esisteva neppure un termine che indicasse la natura, fino a quando non è stato importato dal cinese e il primo termine shizen indica proprio “da sé”, autonomamente, spontaneamente.

Quindi la parola natura non esisteva perché non esisteva l’esigenza di definirla essendo appunto “ciò che è” e null’altro. Siamo dunque lontani dall’idea occidentale di una creazione dal nulla da parte di un essere superiore nel corso di un processo avente un fine che è appunto la creazione dell’universo.

La deperibilità come ideale etico-estetico

Nella filosofia taoista: “il Tao è l’universo stesso: quell’eterno, inesauribile “divenire”, costantemente in

movimento”.

Dunque anche il Tao muta continuamente, essendo la Via a fare del mutamento l’essenza stessa della vita, dove giorno e notte si susseguono continuamente, perché quando muore l’uno comincia l’altra e poi di nuovo e così via, come la vita e la morte. Nulla è eterno e nulla dura per sempre, essendo la fine l’inizio del principio in una continua circolarità del tempo.

La deperibilità è pertanto l’essenza delle cose, fondamento di questo movimento continuo. Nulla di inalterabile potrebbe esistere, perché si opporrebbe ontologicamente all’azione di yin-yang, agente motore della legge cosmica del Tao. “Dobbiamo guardare i ciliegi soltanto se sono in fiore, […]? I giardini cosparsi di fiori appassiti sono ancora più degni di ammirazione.”

La labilità, la caducità costituiscono la transitorietà ( 無常 , mujo) attraverso cui la vita stessa acquista valore.

Tutto ciò che è vivo, come tutto ciò che è bello, è soggetto al continuo mutamento e, quindi, alla dissoluzione.

Qualsiasi cosa deve recare i segni visibili del trascorrere del tempo: una tazza non può non essere segnata da graffi e dall’usura se ha visto il passaggio di diverse cerimonie del tè, un bollitore deve avere le ammaccature che i tanti passaggi sul fuoco avranno certamente provocato.

Questi sono i segni della loro vita e della preziosità di ogni attimo trascorso e che trascorrerà. Il movimento e il mutamento, uniche realtà dello zen, senza deperibilità non esisterebbero. Come la tazza anche l’uomo è deperibile. Come la tazza recherà su di sé i segni del tempo che passa. Quanti più segni avrà, tanto più avrà vissuto e tanto più somiglierà al giardino cosparso di fiori appassiti e si avvicinerà all’ultimo dei suoi istanti quando lascerà posto a un nuovo essere che inizierà immediatamente il suo cammino di deperibilità.

L’eleganza del “ vento che scorre”

Affrontiamo ora un termine che, in origine, significava “vento che scorre”( 風流 ,fùryù ), mentre oggi significa piuttosto “elegante” “di buon gusto”, ma con numerose accezioni, visto che lo si usa anche per indicare la raffinatezza di un’esistenza staccata dai piaceri mondani e dal desiderio attraverso la pratica artistica e letteraria.

In questa situazione:“ lo spirito scorre attraverso la vita come il vento attraverso la natura.”

Questo termine è il fùryù con il quale oggi si tende ad indicare un atteggiamento di distacco dalla materialità e dalla mondanità fino all’ottenimento (ecco dove diviene atteggiamento estetico) di uno spazio bianco e vuoto. Su questo spazio nulla deve esservi di inutile: lo spazio vuoto esiste e dunque è, di per sé. Al più può essere sottolineato, rimarcato ad esempio sottolineandone lo spirito fùryù, con un elemento la cui bellezza sia fuggevole, momentanea, che compaia ed immediatamente svanisca.

Un classico momento fùryù è la poesia haiku, che è poesia di natura, brevissima, ma lascia un tempo in sospensione perdurante anche dopo la sua fine.

Spazio vuoto e tempo sospeso sono la raffinatezza dell’Assoluto nell’arte, come nel notissimo haiku di Matsuo Bashò:

Vecchio stagno

Una rana si tuffa

Suono dell’acqua

Quindi siamo di fronte ad una duplice e contemporanea azione: sia di distacco dal mondo e dalla materia e allo scioglimento di ogni legame con essi, sia di totale coinvolgimento nella dimensione artistica ed estetica. Per questi motivi, parlando di fùryù, si deve parlare di “estasi estetica”.

Per chiarire con un esempio inerente all’argomento di questa tesi, mi pare si

possa trovare ciò molto più in Mondrian o in Ives Klein che nell’arte dei secoli precedenti. Nell’haiku riportato occorre notare che:“L’autore qui non c’è più, o meglio: c’è come “recipiente” vuoto entro cui risuona solo il rapido tonfo della rana; c’è come specchio pulito su cui si rifrangono, nitide, le figure dell’evento.”

Ancora una volta tutto parte dal vuoto.

Il fascino della malinconia

Esiste un filtro attraverso il quale la vita si può spingere fino alla profondità delle cose dove sta la loro vera bellezza che è spirituale: questo è l’aware( 憐れ ).

Dalla transitorietà della bellezza e dalla sensibilità che la sa cogliere nasce il sentimento della malinconia che si accompagna alla consapevolezza della caducità e della fuggevolezza della vita.

Però questo sentimento di malinconia non è vissuto in modo negativo, con avvilimento o abbattimento, ma, al contrario, si accompagna al piacere per il raggiungimento di un elevato grado di spiritualità.

La sensazione che la bellezza non possa essere trattenuta, ma esperita solo nel suo divenire, rende ancora più prezioso ogni attimo, nella piena consapevolezza che esso è unico, diverso da quello che l’ha preceduto e da quello che lo seguirà.

La discrezione della normalità

Shibui( 渋い ), che letteralmente ha significato di “sapore aspro”, di “gusto astringente” significa però anche scabrosità, ruvidità e, per estensione, ha significato di rigoroso, austero (si pensi ai giardini zen).

Shibui è un termine spesso si riferito allo spirito con cui viene concepito l’interno di un’abitazione, dove il vuoto prevale sugli ornamenti e le decorazioni, per indurre all’introspezione, alla calma, alla quiete.

E’ il silenzio che avvolge il rito del tè ed è anche direttamente collegato all’idea di libertà proprio nel campo dell’arte. Infatti è shibui la bellezza che trasforma in artista lo spettatore perché si impegna a scoprire nell’opera d’arte la propria concezione di bellezza.

Ciò però si può ottenere solo se l’artista ha operato liberamente, senza ricercare né l’asimmetria né la simmetria, né la perfezione né l’imperfezione, cioè solo se ha svolto il proprio compito assolutamente libero da ogni legame e da ogni imposizione.

Shibui quindi, più estesamente, sono i comportamenti moderati, discreti, non appariscenti, alla ricerca di unità tra uomo e natura, in una parola “normali”.

Non è l’eccezionalità a creare la bellezza, ma la normalità, la consuetudine.

Quando ci troviamo di fronte al “non detto”, a ciò che resta nascosto dietro le cose, all’invisibile.

In questo ambito affrontiamo la “dimensione dell’arcano e dell’insondabile”, dell’imperscrutabile che il linguaggio non può descrivere ma lo spettatore può raggiungere attraverso “l’inconscio e l’immaginazione” in un dimensione di innumerevoli possibilità: il cielo è bello se è oscurato dalle nuvole, il paesaggio è affascinante se è parzialmente immerso nella nebbia, la luna che spunta è più suggestiva della luna piena.

Dunque shibui presume il non sé, l’essersi distaccati dal proprio ego, il dissolvimento dell’io.

Tutto ciò avviene con la pratica dell’arte attraverso cui si trasmette:

“ una bellezza tinta di un’emozione persistente, aristocratica, fastosa, delicata, elegante, derivata dai gusti estetici della letteratura” Naturalmente il filo conduttore è sempre lo stesso: sarà la bellezza del mu, dell’assenza, del vuoto, dell’evanescenza del fiore a far sì che si possa attendere, appunto nel mu, la fioritura di un nuovo fiore, diverso dal precedente e da quello che lo seguirà.

Il vuoto temporale

Il vuoto etico

E’ quella che comunemente è conosciuta come inattività attiva ed anche essa può essere compresa solo risalendo al concetto di vuoto.“La Via è costantemente inattiva, eppure non c’è niente che non si faccia.”

Il senso della frase contenuta nel Daodejing rimanda al concetto di spontaneità. Significa che chi agisce spontaneamente in realtà segue il Dao, il non – fare

del Dao (dal momento che il Dao non interviene mai direttamente perché non è l’origine di nulla, neanche delle azioni).

Questa è la manifestazione delle azioni superiori poiché nascono, appunto, spontaneamente e non in vista di un fine o in seguito alla prescrizione di una regola. Le azioni che nascono invece finalizzate o per seguire un precetto sono azioni non spontanee e dunque inferiori. E’ pertanto il vuoto di finalizzazione o di prescrizioni a consentire la spontaneità dell’azione superiore.

Il non – agire diventa così la condizione perché ogni cosa spontaneamente si faccia. Ma per praticare il non – agire, e cioè il vuoto “fuori” di noi, dobbiamo primo aver praticato il vuoto “dentro” di noi.

L’esempio che si porta è quello della finestra: perché una finestra possa esercitare la sua funzione di varco aperto sul vuoto è necessario che ci sia il vuoto dentro e fuori della stanza. In tal modo i due vuoti si fondono e si realizza spontaneamente un nuovo vuoto che consente un nuovo pieno.

La non-azione quindi è l’azione della spontaneità: significa lasciar agire il vuoto, permettendo che il pieno si realizzi per propria spontanea virtù.

IL MINIMALISMO

La minimal art è la principale tendenza che negli anni sessanta fu protagonista del radicale cambiamento del clima artistico, caratterizzata da un processo di riduzione della realtà agli elementi essenziali, dall' antiespressività, dall' impersonalità, dalla freddezza emozionale, dall'enfasi sull'oggettualità e fisicità dell'opera, dalla riduzione alle strutture elementari geometriche.

Si parla di "riduzione minimale", ma nel senso del contenuto artistico, relativamente a lavori dove entrano in gioco oggetti al limite indistinguibili dalla realtà quotidiana, oppure forme ed immagini con valenze anonime e impersonali, citando da un lato i ready-made di Duchamp, che sono un punto di riferimento fondamentale per quello che riguarda la componente concettuale di ogni operazione riduzionista.

Il Minimalismo nelle arti plastiche

Dal punto di vista critico il termine minimalismo andrebbe applicato in senso stretto solo alle esperienze artistiche americane di questo tipo, ma viene normalmente utilizzato in senso più allargato, anche per definire l'insieme delle ricerche europee riduzionistiche e analitiche, in certi casi in anticipo rispetto a quelle oltreoceano.

Sono considerati come i protagonisti della Minimal Art americana Carl Andre, Dan Flavin, Donald Judd, Sol LeWitt, con sculture articolate per lo più in installazioni ambientali; dall'altro lato Frank Stella, Robert Ryman e, come precursori riconosciuti nel campo della pittura, Barnett Newman (quadri caratterizzati da grandi campiture di colore che si espandono in modo uniforme sulla superficie della tela, scandite soltanto da qualche banda verticale di altro colore, e Ad Reinhardt.

La situazione europea è più complessa e frazionata; si possono ricordare il francese Yves Klein e gli italiani Piero Manzoni, Francesco Lo Savio, Giulio Paolini, Giorgio Griffa, Gianni Piacentino, ed Enrico Castellani definito da Donald Judd in un articolo del 1966 come il padre del minimalismo.

I lavori sono costituiti da grandi volumi geometrici, da unità elementari primarie, monolitiche, con forme cubiche, rettangolari e simili, da elementi organizzati in strutture aperte e sequenze seriali; i materiali utilizzati sono di tipo industriale ed edilizio (pannelli di legno, lastre di metallo, formica, plexiglas, vetro, mattoni, travi, tubi fluorescenti al neon) strettamente connessi alla forma e ai colori che coincidono con quelli del materiale stesso oppure si riducono al bianco e al grigio; l'installazione degli elementi sul pavimento o sulle pareti è in diretto rapporto con lo spazio espositivo in modo da coinvolgerlo come componente stessa del lavoro artistico: all'assenza, o riduzione minimale delle relazioni interne, si contrappone l'esperienza delle relazioni esterne fra spazio e oggetti.

Spesso le opere sono realizzate attraverso procedimenti industriali, a scapito dell'artigianalità.

L'esecuzione è sottratta alla mano dell'artista e affidata alla precisione dello strumento meccanico.

Questa tendenza, che tanto ha influito sui cambiamenti dell’arte in occidente, è particolarmente interessante per gli scopi che questa tesi si prefigge.

Mi pare di poter anticipare che raccolga un numero notevole di elementi che, da un lato, si riallacciano direttamente alla filosofia Zen e che anche solo ad un primo sguardo sono facilmente individuabili.

Dall’altro lato, invece, sono presenti numerosi elementi di difformità che però, proprio per contraddizione, possono essere utili per meglio comprendere questa tendenza artistica. Lo scopo della tesi è difatti quello di porre in evidenza come le categorie filosofiche Zen siano preziose per comprendere l’arte contemporanea occidentale, anche quando, come in questo caso, la sintonia non sia a tutto tondo, ma da alcuni punti di vista si mostrino invece incompatibilità e antinomie.

Quando si parla di operazioni riduzioniste subito il pensiero si rivolge a Duchamp e ai suoi ready made anche, e forse soprattutto, per il rilievo concettuale che queste operazioni presentano. Ma oltre all’entrata in gioco di elementi e oggetti al limite indistinguibili dalla realtà di tutti i giorni, e quindi alla completa soppressione di tutto ciò che può avere un contenuto puramente ornamentale e decorativo, ci troviamo di fronte, in questo caso, alla completa separazione fra arte e vita, dove l’arte vive e si manifesta avendo per fine l’arte stessa e, conseguentemente, procede all’eliminazione di tutto ciò che è considerato come non essenziale a questo fine.

Il risultato di una simile concezione dell’arte non possono che essere: la riduzione dell’opera alle sue strutture geometriche fondamentali ed elementari, (prismi, coni, sfere ecc.), il rifiuto dell’espressività dell’opera, che viene così svuotata di tutti i possibili contenuti emotivi, la rinuncia all’espressività e la ricerca della freddezza e, in ultimo, la sottolineatura della fisicità dell’opera in quanto tale, di cui si deve solo percepire l’esistenza e null’altro.

Ormai il termine minimalismo ha allargato la sua base di influenza e viene utilizzato anche per descrivere esperienze non riallacciabili, in senso stretto, alle origini americane del fenomeno (origini peraltro messe in discussione dagli americani stessi in più occasioni).

Ad esempio nel filone minimalista compaiono tutte le esperienze sorte in ambito europeo e non solo riferentesi a teorie analitiche (nate queste proprio in Italia negli anni ’70 e di cui parlerò più dettagliatamente in seguito) o, comunque, riduzionistiche.

Per questo motivo il termine minimalismo diviene difficile da indagare, presentando fenomeni molto diversi tra di loro, alcuni anche difficilmente inseribili in questa tendenza.

Se però si tengono presenti le linee generali, sfuggendo alle rigide contrapposizioni formali e agli schematismi concettuali, non è difficile circoscrivere il campo di interesse.

Ancora come premessa aggiungerei che la Minimal Art appartiene prevalentemente al campo della scultura, ma proprio in questo contesto il senso della distinzione di scultura e pittura si indebolisce e la tecnica passa in secondo piano rispetto al contenuto che diventa prevalente.

Proveremo ad esaminare alcuni di questi artisti, suddivisi per area di provenienza, per trarne poi alcune conclusioni.

AD REINHARDT (1913-1967)Visse a Buffalo con la famiglia di immigrati ebrei russi e tedeschi, che presto si trasferì a

New York

Pittore del nero.

Dal 1931 al 1935 studiò Letteratura e Storia dell'arte alla Columbia University sotto l'ala del noto storico dell'arte Meyer Schapiro che lo introdusse all'attività politica di sinistra che manterrà anche in futuro.

Fin dalle prime opere, Reinhardt mostrò uno spiccato interesse per l'astrazione geometrica via via più distante da ogni riferimento alla realtà. Col passare del tempo, il suo stile divenne sempre più minimale, e sempre più scevro di tutto ciò che lui considerava estraneo all'arte. Nonostante venisse solitamente incluso tra gli esponenti dell'Espressionismo astratto, egli prese le distanze da essi, e divenne tra i più influenti artisti della successiva corrente del Minimalismo.

Il suo lavoro era sempre più caratterizzato dalla ricerca di un'assoluta forma di astrattismo

Considerava l'Espressionismo astratto una corrente troppo segnata dal biomorfismo, dall'abbondanza di allusioni emozionali e dal culto dell'ego.

In contrasto, egli andava cercando un'arte astratta che non contenesse richiami narrativi né emotivi e senza il minimo riferimento alla realtà.

Fu profondamente influenzato dall'arte e dalle teorie del pittore russo Kazimir Severinovič Malevič, fondatore del Suprematismo, il cui dipinto Quadrato nero del 1915 lo ispirò ad utilizzare campiture di colore coprente disposte in pattern geometrici come quadrati e rettangoli.

Questi esperimenti portarono alla creazione di tre serie di pitture monocromatiche, le Red Paintings, le Blue Paintings e, soprattutto, le Black Paintings, quadri apparentemente tutti neri, ma in realtà composti da lievissime sfumature intorno al nero.

Red painting

Red painting

Per creare gli effetti desiderati, Reinhardt sviluppò una sofisticata tecnica.

Travasava, infatti, l'olio dai pigmenti che sceglieva, per ricreare una finitura satinata molto delicata. In questo modo, le sue superfici, ora opache, riuscivano ad assorbire maggiormente la luce.

Tale tecnica, tuttavia, si rivelò particolarmente problematica e responsabile di diversi problemi di conservazione dei dipinti. Le loro superfici, infatti, sono così fini e la tecnica utilizzata così sofisticata, che la loro conservazione e gli eventuali restauri sono compiti particolarmente difficili e onerosi.

Number five (Red Wall) - 1952

Abstract painting blue - 1952

Blue painting 1952

Dalla concettualità di Newman, con grande indipendenza intellettuale intraprende una via personale che attua una estrema semplificazione del gesto e che fa presagire quale sarà lo sviluppo finale della sua pittura, campiture rigorose, geometrie severe, assolutismo riduttivo della forma.

Ed infatti, la conclusione a cui perviene Ad Reinhardt è sintetizzata in quelli che egli stesso ha chiamato dipinti definitivi, come quello presentato, tutti neri o sfondi neri con segni neri sovrapposti appena visibili, che egli ripeterà in molte versioni con una certa ossessività fino alla fine della vita, dove il monocromo esprime la volontaria, totale rinuncia al segno per una pittura basica, di "grado zero", dove la semplificazione arriva all'annullamento, dove anche il colore è abolito per non fornire tracce o connotazioni formali, risolvendo così definitivamente il conflitto tra immagine ed astrazione, tra opera e idea, tra visibile ed invisibile, tra tangibile ed intangibile.

Blue painting n. 4 - 1962

Vicino alla Color-Field Painting, come Mark Rothko, in un'idea di arte erede dell'Espressionismo astratto, ma austera ed impersonale, controllata ed intellettualistica, dalle superfici di colore piatto e bidimensionale a larghe stesure, Reinhardt dichiara:"Dipingere e ridipingere la stessa cosa ancora e dinuovo, ripetere e raffinare ancora e ancora l'unica forma uniforme......" (Ad Reinhardt, "Art as art", 1962), sintetizzando così il procedere del suo fare artistico.

Fuori di dubbio, Reinhardt è il principale anticipatore della Minimal Art e del Concettualismo proprio per quel coerente processo di riduzione e sottrazione di tutto ciò che convenzionalmente costituisce un quadro, che conduce oltre il limite della percettibilità e della comprensione fino a giungere alle soglie della scomparsa totale: l'immersione nel nero assoluto è una necessaria catarsi per addivenire alla ridefinizione del concetto stesso di arte, al di là delle sue implicazioni narrative, spettacolari, estetiche, tecniche, perché .....

“L'unica cosa da dire sull'arte è che è una cosa sola. L'arte è arte-in-quanto-arte e ogni altra cosa è qualunque altra cosa." (Ad Reinhardt, "Art as art", 1962)

Lo Studio

"Black Painting No. 34", 1964, un olio su tela oggi alla National Gallery of Art, Washington, è una pittura estrema, dove "Il nero realizza l'idea di un'arte assolutamente pura e "sublime" tautologicamente ripiegata su se stessa, scevra da contenuti narrativi ed emotivi", perché il nero non lascia spazio ad interpretazioni, ad ambiguità, è neutro nell'assorbire e nel rimandare, non è forma, non è colore, non è passione, è il vuoto, fisico e logico, matematico, è lo zero, un concetto ed un numero che la filosofia classica rifiutò a lungo e che rappresenta invece

"la nuova dimensione legata al ‘vuoto quantico’ ed alla ‘negatività’, elementi che sono alla base della grande ‘frattura’ delle arti, propria della seconda metà del XX

secolo." (Enrico Pedrini)

Black painting n. 34 - 1962

CARL ANDRE (1935 - )

Nelle sue opere utilizza materiali prefabbricati (mattoni, travi da costruzione, lastre metalliche) e mette in atto procedimenti di costruzione e combinazione primari e seriali ripetibili da chiunque in modo da annullare ogni differenza tra operatività artistica e intervento comune.

L'intenzione è quella di creare le condizioni per una rinnovata esperienza degli elementi costruttivi primari, sia per quanto riguarda la loro presenza fisica, sia per la loro collocazione nello spazio; ed è anche quella di definire il senso della scultura a partire da riflessioni su aspetti fondamentali quali la verticalità e l'orizzontalità, il peso e la gravità, il

rapporto tra forma e materia, lo spazio dell'opera come installazione site specific.

I primi lavori sono Exercise, piccole sculture in legno con variazioni sulle differenti tecniche di taglio; si rende poi conto che le travi di legno sono meglio in sé, senza interventi. Realizza così la Element Series, costruzioni dove grosse travi di legno, da una a quattro, vengono usate per combinazioni semplici che occupano lo spazio, che per lui consistono in dei veri e propri tagli nello spazio.

Statunitense, classe 1935, scultore e poeta, Carl Andre fa parte di quel gruppo di artisti che crearono o semplicemente rivisitarono la concezione intellettuale e minimale dell'espressione estetica, dando vita a opere basate su ripetizione, geometria elementare, uniformità di elementi.

Come esempio classico del minimalismo americano si fa riferimento di solito all'opera di Donald Judd, fatta di blocchi lucidi e perfetti accostati per terra o a parete; e ciò in parte somiglia ad alcuni lavori di Andre.

Ma in questo discusso personaggio, un po' hippy, un po' anarchico, un po' selvaggio (persino protagonista di un clamoroso caso giudiziario quando fu accusato dell'omicidio della moglie nel 1985), convive una natura diversa, dadaista, esplicitamente richiamata dai titoli delle oltre 200 poesie, dattiloscritte poesie dada, appunto, nel senso che assemblano parole e ripetizioni di parole senza connessione di significato.

Le dimensioni delle sculture sono espresse in metri e non in centimetri. In qualche caso possiamo camminarci sopra, sono lastre metalliche poggiate a terra a comporre semplici motivi a scacchiera; in altri casi ci camminiamo in mezzo, perché sono composizioni di oggetti poste sempre a diretto contatto del pavimento; in altri casi le vediamo a distanza, sulle pareti o negli angoli.

Sono blocchi di pietra, di cemento e di legno, accostati o raggruppati, disposti in apparente ordine/disordine, ma qui in queste proporzioni grandiose di spazio e di vuoto le scelte di Andre si rivelano con la massima precisione: non è banale ripetizione di oggetti minimali, ma una logica rarefazione di elementi singoli, che si compongono secondo regole spesso casuali.

Così dall'artista che sembrava un esponente di idee riduttive e logiche, traspare ed esce invece la natura esplosiva, irrazionale, dell'espressività.

Andre è passato, dagli anni 60 in poi, da una ricerca scultorea legata alla forma a una basata sulla struttura, per giungere all'idea di scultura come luogo, che va intesa come una scultura-architettura che si appropria del luogo in cui sorge.

Alcuni pezzi circolari a spirale ottenuti da lamine metalliche, disseminate sui pavimenti di cemento, scabri ed irregolari, delle vecchie aree di lavoro della stazione ferroviaria. Non poteva esserci destinazione migliore per questi oggetti;

"la mia opera non ha significato", ha detto lo stesso Andre, "non è che la presentazione di materiali nella forma più chiara che riesco a fare".

Nel 1966-67 installa Equivalents, otto strutture rettangolari, ciascuna con 120 mattoni in differenti combinazioni e Cuts, dove tutto il pavimento è ricoperto, salvo otto rettangoli vuoti, intesi come sculture negative.

Dal 1968 inizia a realizzare le sue sculture-pavimenti usando lastre quadrate standard di vari materiali; la scultura si presenta come "pura pavimentalità", come puro luogo-spazio; il fatto che il visitatore possa camminare sopra queste opere esalta una fruizione dell'arte in termini di diretta esperienza sensoriale.

Magnesium Square

DAN FLAVIN (1933 - 96)

Dopo aver realizzato quadri con lampadine elettriche sui bordi, a partire dal 1963, anno in cui colloca sul muro solo un tubo al neon in posizione diagonale (opera dedicata a Brancusi) esegue lavori luminosi fluorescenti che hanno tutti come elemento base tubi al neon a luce bianca o colorata di produzione industriale.

Le sue opere sono costituite da combinazioni semplici e seriali di tubi al neon che danno vita a installazioni di spazio-luce di fredda ma intensa suggestività.

Pink out of a corner to Jasper Johns - 1963

1971

Villa Giuseppe Pansa

Dan Flavin – Lucio Fontana – Ambienti Spaziali

WOLFGANG LAIB

Un artista individuale, che riguarderà il mondo, l’universo e anche la nostra propria esistenza.Dice Laib

“io stesso ho questo sogno da tutta la mia vita, da quando ho provato a diventare un medico,

accorgendomi molto presto che ciò significava occuparsi solo del corpo fisico, e che la nostra vita ed esistenza non potevano essere ridotti alla sola materia”.

Il polline rimanda all’inizio e alla creazione, le montagne di riso e lo Ziggurat di cera d’api(piramide a gradoni) al nutrimento e al legame del cielo con la terra, il fuoco alla fine, alla

distruzione e possibile rinnovamento del mondo, alla trasformazione del fisico, ad un nuovo ciclo, alla condizione del cambiamento.

Fondazione Merz - 2009

Fondazione Merz – Ziggurat e dettaglio - 2009

Non si può spiegare il cielo e il sole

Lugano 2017

DONALD JUDD

E' forse il più freddo e rigoroso degli artisti minimali.

Le sue opere sono strutture tridimensionali elementari geometriche, principalmente rettangolari, per lo più organizzate nello spazio come moduli seriali, in sequenze semplici

o in progressione geometrica, con una ritmata scansione tra pieni e i vuoti con una particolare accentuazione percettiva di questi ultimi, realizzate con materiali di tipo

industriale; colori, superfici e volumi sono strettamente connessi all'identità del lavoro in modo da rafforzare l'attenzione sull'oggettualità delle strutture, autonome e allo stesso

tempo coerenti alla logica unitaria dell'insieme.

Fondamentale è il rapporto a lungo studiato con lo spazio esterno. Giustificata è sia la scelta del tridimensionale, dato che Judd ritiene che non sia possibile annullare del tutto l'illusionismo spaziale, sia la decisione di far realizzare i lavori con procedimenti e tecniche industriali, per raggiungere la massima impersonalità e precisione nell'esecuzione.

A partire dal 1964 produce grandi scatole di ferro e altri metalli, come pezzi unici o sequenze installate orizzontali sul pavimento o verticali sul muro.

PITTURA ANALITICA

La nascita della pittura analitica risale alle istanze della fine del decennio precedente, volte alla salvaguardia della pittura come mezzo espressivo, da più parti considerata sulla via dell'estinzione, partendo tuttavia da una sua ridefinizione, se non addirittura da una strutturale rifondazione.

Analoghi programmi erano da tempo attivi negli ambienti artistici francesi e americani (Robert Ryman) e di altri Paesi europei. In Italia gli artisti sensibili a queste tematiche di rinnovamento si trovavano spaccati fra le spinte concettualistiche, con i cui esponenti condividevano gli intenti, e il retaggio minimalismo, alla quale erano accomunati dall'uso dei medesimi materiali e mezzi espressivi.

La pittura analitica nacque in quel contesto.

Robert Ryman

Robert Ryman

Robert Ryman

Robert Ryman

Robert Ryman

Robert Ryman

Robert Ryman

Robert Ryman

La pittura analitica si propose di condurre un'analisi delle componenti materiali della pittura (tela, cornice, materia, colore e segno) e del rapporto materiale che intercorre fra l'opera come oggetto fisico e il suo autore.

La pittura diventò quindi oggetto di indagine di se stessa e perse la referenzialità che la legava alla realtà (nella pittura figurativa), all'espressività (nella pittura astratta) e al significato sotteso (nell'arte concettuale). La riflessione sulla pittura da parte dell'artista divenne di conseguenza contestuale alla sua creazione, e l'espressione «Pittura-pittura» fu funzionale a sottolinearne l'assolutezza e l'essenza allo stato puro.

Nasce verso la fine degli anni Sessanta e fu identificata anche con questi altri nomi: Nuova Pittura, Fundamental Painting o Pura Pittura.

La pittura analitica esprime una voglia di ripartire da zero, usando in forma pura e portata alla massima semplicità una superficie e dei colori, con i quali l'artista dipinge per dipingere e nulla di più.

La Pittura Analitica può essere definita come "movimento-non movimento" a cui hanno preso parte, in maniera più o meno consapevole, una quarantina di artisti da tutta Italia (in particolare da Milano, Genova, Roma, Torino) che talvolta vi hanno aderito per fare un breve percorso, pronti ad abbandonare non appena sorgevano problemi.

Pertanto vi hanno aderito in diversi momenti: Giorgio Griffa, Marco Gastini, Claudio Verna, Elio Marchegiani Carmengloria Morales, Pino Pinelli.

Tutti artisti che non sempre hanno accettato di buon grado di essere riuniti sotto un’etichetta e che non si sono mai costituiti in un gruppo vero e proprio tanto da non sentirsi, come affermava Griffa nel 1980, «cavalli da scuderia, ma cani sciolti».

Quello che li accomunava era, semmai, un comune sentire, la volontà di reagire ai dettami sostenuti dall’Arte concettuale che, proponendo il definitivo abbandono di ogni finzione rappresentativa, considerava il mezzo della pittura come assolutamente superato.

Una reazione che partiva, non a caso, proprio dalla pittura a cui questi artisti si avvicinavano, come spiegava Claudio Verna nel lontano 1973, liberandola «dai suoi attributi tradizionali che sono i significati simbolici, autobiografici, letterari e metaforici», giungendo così ad applicare alla pittura quella stessa analiticità che gli artisti concettuali utilizzavano nell’indagare, da un punto di vista estetico, altri aspetti del reale.

GIORGIO GRIFFA

1977

1980

MARCO GASTINI

L'energia che unisce e si espande nel blu

CLAUDIO VERNA

RICHARD SERRA

In Quatar