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LUCIANA MORASSI

PER UNA STORIA DI FAGAGNA TRA SETTE E OTTOCENTO

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Con il sostegno di

COMUNE di FAGAGNA

IL CAVALÎRECOMUSEO DELLA GENTE DI COLLINA

Con la collaborazione di: Alberto AsquiniElisabetta Brunello ZanittiDino PegoraroRenzo SchirattiElia TomaiValter Zucchiatti

© Corvino EdizioniProprietà letteraria riservatawww.corvinoedizioni.com

Giugno 2018Litostil® sas di Corvino Nicola e Michele & C.via G.A. Pilacorte, 233034 Fagagna (Udine)Tel. +39 0432 800640Fax +39 0432 801241www.litostil.com

ISBN: 978-88-6955-047-8

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Sindaco di Fagagna

Gian Paolo Gri 9 - 15

72-Il picolit del conte Fabio Asquini 16 - 22

78-Un’azienda friulana nel secolo XVIII 23 - 47

79-Strutture familiari in un comune dell’Italia settentrionale alla fine del XIX secolo 48 - 65

80-Innovazioni e costanti nella pratica testamentaria 66 - 81

83-Un nobile imprenditore nel Friuli del Settecento 82 - 107 85-Fabio Asquini e la Fagagna del Settecento 108 - 169

87-La fornace nell’economia agricola del Settecento 170 - 183

92-Un itinerario imprenditoriale 184 - 207

Liliana Cargnelutti 209 - 211

INDICE

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AbbreviazioniAAF Archivio Asquini di Fagagna,ACU Archivio Capitolare di Udine,ALV Archivio Liruti di Villafredda,APF Archivio Parrocchiale di Fagagna,ASSD Archivio Storico di San Daniele,ASU Archivio di Stato di Udine,ASV Archivio di Stato di Venezia,BCU Biblioteca Comunale V. Joppi di Udine,BMV Biblioteca Marciana di Venezia,BSU Biblioteca del Seminario di Udine,MCCV Museo Civico Correr di Venezia.

I testi sono ripresi senza ritocchi, ma formalmente (virgolette, rinvii nelle note) uniformati.Tacita la correzione di refusi (e lapsus) evidenti.

Un ringraziamento particolare a Renzo Schiratti per la cura prestata alla composizione del volume.Sono sue le foto che accompagnano i saggi: scorcidi paesaggio fino al primo piano della torba.

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Questo volume è una piccola antologia di una grande storia che racconta il ’700 a Fagagna e in Friuli e l’opera illuminata di Fabio Asquini.

La pubblicazione realizzata grazie all’interessamento del prof. Rienzo Pellegrini, il sostegno del Comune di Fagagna e dell’Ecomuseo della gente di collina “Il Cavalîr” e la preziosa collaborazione del Museo “Cjase Cocèl ”, ha un duplice scopo.

Da un lato vuole essere un tributo di riconoscenza verso una grande studiosa friulana, Luciana Morassi che ha dedicato la sua vita a un enorme lavoro scientifico di ricerca appassionata rivolto in gran parte alla Fagagna del Settecento.

Dall’altro, l’opera è una importante operazione di salvaguardia di un enorme patrimonio di studi e ricerche sparsi in tanti contributi di non facile reperibilità, che grazie a questa raccolta possono essere fruiti e disponibili ancora per gli studiosi di oggi e di sempre.

Questa iniziativa inoltre rientra nel grande progetto di costituire il “Centro studi Luciana Morassi” realizzato grazie alla cospicua donazione dei volumi della sua biblioteca scientifica al Museo di Cjase Cocel.

Un ringraziamento quindi a tutti coloro che hanno contribuito a quest’opera che sottolinea ancora una volta quel rapporto privilegiato che la professoressa Morassi ha avuto con la comunità di Fagagna.

Daniele Chiarvesio Sindaco di Fagagna

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Cjase Cocèl, il Museo della vita contadina di Fagagna, il 25 settembre 2015 ha inaugurato la nuova sala per conferenze, seminari, incontri, esposizioni tematiche, laboratori didattici. L’ha dedicata a Fabio Asquini, compaesano illustre e personaggio-chiave nella storia della trasformazione della civiltà agricola in Friuli; nella serata inaugurale è stato inevitabile raddoppiare la dedica e associare al suo nome quello di Luciana Morassi, scomparsa un mese prima, il 24 agosto.

Doppia memoria, obbligata; tanto più ora, che la ristampa dei suoi saggi dedicati a Fagagna accompagna il dono al museo della sezione storica ed economica della biblioteca della studiosa.

Dobbiamo a Luciana Morassi non soltanto molti contributi di ricerca fondamentali per la ricostruzione della figura di Fabio Asquini e del contesto in cui egli operò nel secondo Settecento (le iniziative della Società di agricoltura pratica e poi della Nuova Olanda, in particolare); le dobbiamo anche il merito di aver collocato alcuni di quei saggi su riviste di storia e demografia storica di grande rilievo nazionale e internazionale («Quaderni storici», ad esempio; «Genus», «Economia e storia»), così che quelle figure e quegli eventi della Fagagna del Settecento sono divenuti uno dei punti obbligati nelle triangolazioni comparative che hanno permesso alla storiografia del secondo Novecento, al livello più alto, di modificare la visione dei problemi connessi in Europa con la transizione dalla società preindustriale, di antico regime, alla contemporaneità. Un primo passo per rileggere in maniera corretta questi saggi, per ripensare la letterale immersione della Morassi nelle carte fagagnesi e la sua capacità di pensarle e collocarle su orizzonti ampi, consiste nel richiamare ragioni e modi che portarono lei e una nuova generazione di ricercatori interessati al Friuli, a prendersi a cuore vicende e figure come quelle dell’Asquini: nella convinzione che si trattava di esperienze fondamentali per la comprensione degli aspetti complessi e contraddittori del Friuli della tarda età moderna e dentro i processi di transizione che esse cercavano di favorire.

La scelta di mettere la lente sul Friuli del Settecento e, più in generale, sul Friuli di antico regime maturò mezzo secolo fa (nei tardi anni Sessanta e negli

LUCIANA MORASSI, FAGAGNA, ASQUINI E CJASE COCÈL

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anni Settanta) nell’Università di Trieste. Lì si verificò una singolare coincidenza interdisciplinare intorno a un obiettivo polemico.

Posso condensarlo in una battuta. A metà degli anni Sessanta del Novecento il testo di riferimento per chi si occupasse di storia friulana era ancora quello di Pio Paschini: le 870 pagine della II edizione («rifatta» e riedita nel 1953) della sua Storia del Friuli. Si trattava di una storia del Friuli dalle «origini» al 1797 (una storia e un modello storiografico alle spalle) tutta centrata su fatti e figure istituzionali, su vicende politiche, giurisdizionali, militari, diplomatiche, militari; una perfetta storia dello strato sociale (sottilissimo) rappresentato dalle classi dirigenti, con attenzione particolare alle istituzioni ecclesiastiche.

Come poteva essere che, dentro quel blocco di 870 pagine, solo 40 facciate fossero dedicate agli ultimi due secoli e mezzo, al Friuli da metà Cinquecento a tutto il Settecento? Due secoli e mezzo di quasi nulla? Un Friuli stagnante, inerte, marginale, «sonnacchioso» (come lo definisce lo stesso Paschini)? Eppure tutti studiavamo che, nel quadro europeo, proprio in quel periodo germinavano, crescevano, ribollivano i germi rivoluzionari della modernità, dal metodo scientifico alla rivoluzione filosofica, dagli sviluppi del colonialismo (anche il mais, il tabacco e la patata, certo) alla rivoluzione industriale, dalla Controriforma all’abolizione del tribunale del Sant’Ufficio, al riformismo, all’illuminismo, al lento imporsi dei nuovi valori della società borghese.

No; non potevamo digerire il Friuli «sonnacchioso» di Paschini, e neppure il modello storiografico su cui si appoggiava. Tanto più che nella storiografia friulana del dopo-Paschini si rendeva evidente uno sviluppo che aveva già portato a una divaricazione che ci sembrava netta. Su un fronte, c’era già il Medioevo ben più mosso e articolato che leggevamo nelle pagine di Carlo Guido Mor, c’erano la contro-storia religiosa di Guglielmo Biasutti e le fonti non consuete che reggevano Vita di popolo di Gaetano Perusini; su un fronte diverso, a sostegno di un movimento autonomistico che guardava il Friuli con occhiali modello-Volkspartei, si era sviluppata una storiografia di matrice clericale (dalla Cuintristorie vigorosamente antiveneziana di don Marchetti alla Storia del Friuli di don Menis, passando per don Placereani e don Londero) che vedeva e propagandava con forza l’idea di una etnogenesi del Friuli che aveva il suo fulcro e il suo compimento nella prima età patriarchina (quella del patriarcato ghibellino che guardava oltralpe, verso Nord, verso il mondo germanico), così che nel basso Medioevo il Friuli e la friulanità si sarebbero presentati come entità già definite e compiute.

Non ci soddisfacevano né il modello storiografico istituzionale di Paschini, tanto meno queste filiazioni, più ideologiche che documentarie, che mettevano al

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centro della storia friulana la piccola teocrazia medievale aquileiese dei patriarchi-signori feudali. Affacciandoci alla ricerca con altri modelli e altri maestri, noi cercavamo e vedevamo altro. Non ci convinceva un concetto di identità sostantiva invece che processuale (una friulanità già compiuta, invece dell’idea di un Friuli in continuo farsi, entro un gioco complesso di relazioni sempre nuove). Ci interessava poco lo strato di superficie della classe dirigente; volevamo arrivare allo strato profondo della società friulana: la struttura economico-sociale, le relazioni di dominanza e subalternità, il lavoro, la cultura degli artigiani, dei contadini, delle donne; meno monsignori di curia e più clero di paese e il contraltare della fede e della religiosità popolare; meno giurisdicenti, e più tessers, cramars, contrabbandieri e rivolte contadine; e, ancora, i processi di migrazione (da e verso il Friuli) e i fili dei saperi tecnici, delle innovazioni, dei commerci, delle idee, i solchi profondi in un immaginario collettivo aperto e mutante, il complesso sistema di relazioni riflesso nei fenomeni linguistici. Tanto per capirci con un esempio e riassumere con un solo richiamo: nel 1966 erano usciti I benandanti di Carlo Ginzburg e dieci anni dopo Il formaggio e i vermi; grandi lezioni su aspetti della storia friulana allora radicalmente inediti. Anche noi vedevamo il Friuli della modernità nella testa degli eretici, non in quella degli inquisitori e dei controformisti.

Messa in questi termini, ciò che maturava a Trieste – legandosi per molti fili a progetti di ricerca convergenti che maturavano nella nuova università di Udine, in quelle di Padova, Venezia, Lubiana, Bologna e Firenze, soprattutto – potrebbe avere l’aria di una prospettiva opposta, ma non meno ideologica di quella dei fautori del patriarcato; e un po’ è vero: peccati di gioventù. È iniziata subito però un’attenta e rigorosa ricerca d’archivio, con la ricognizione sistematica di fonti in gran parte inedite e l’applicazione di nuove metodologie di organizzazione, analisi e interpretazione dei dati. Lentamente, si è sedimentata una rivoluzione non da poco, relativamente all’archeologia e alla storia antica, alla storia medievale del Friuli (la scuola di Giovanni Tabacco e poi di Paolo Cammarosano), alla storia religiosa (la scuola di Giovanni Miccoli), alla storia letteraria e linguistica (la scuola di Giuseppe Petronio, Maria Luisa Altieri Biagi, la sociolinguistica di Giuseppe Francescato), alla storia economica e alla demografia storica (la scuola di Carlo Poni: ecco Luciana Morassi), alla storia sociale, all’antropologia culturale e storica del Friuli.

Sul finire degli anni Settanta – c’erano di mezzo anche il dopo-terremoto, il desiderio di contribuire a una ricostruzione che non fosse soltanto materiale, il definirsi di un «caso Friuli» (per dirla con la formula di Carlo Tullio Altan, approdato nel frattempo anch’egli all’Università di Trieste) di rilievo nazionale – si cementò un buon gruppo interdisciplinare. L’editore Grillo fu il riferimento per le prime

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iniziative editoriali: nel 1979 il volume Storia regionale contemporanea. Guida alla ricerca (per l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia), poi (1980) la fondazione del Centro Studi Regionali e l’avvio di «Metodi e ricerche. Rivista di studi regionali»; poco dopo, stretto il legame operativo con l’editore Mario Casamassima, la definizione del progetto di una collana di studi storici diretta da Giovanni Miccoli (titolo della collana di «studi e testi», «Storia della società friulana»; primo volume edito nel 1983: Nobili castellani, comunità, sottani di Furio Bianco).

Iniziative derivate da lunghe discussioni; il progetto, le ragioni, i problemi, il metodo, la definizione in particolare di come si dovesse intendere il concetto di «regionale», restano fissate nelle note finali preparate nel 1982 da G. Miccoli a conclusione degli incontri del gruppo largamente informale di ricercatori: Per una storia della società friulana. Problemi di impostazione e costruzione. Considerazioni preliminari.

Anima organizzativa del gruppo fu Luciana Morassi. Era più matura e concreta di noi; veniva dal mondo del lavoro e dall’attività sindacale. Si era laureata, riprendendo gli studi, dopo aver messo le mani nelle carte ancora inesplorate della settecentesca Società di agricoltura pratica di Udine e in quelle dell’azienda di Fabio Asquini; aveva già tradotto la sua ricerca centrata su Fagagna in pubblicazioni importanti, di rilevanza nazionale. Coinvolse il gruppo, poco dopo, nel minuzioso lavoro di ricerca per l’esposizione e il catalogo dedicati nel 1984 al ruolo dei Savorgnan nelle vicende della Patria del Friuli; sviluppò un interesse sempre più marcato per la demografia storica (disciplina cardine, in quegli anni, per la sperimentazione di metodi quantitativi, per i processi di trasformazione teorici e metodologici di larghi settori della storiografia e dell’antropologia storica), organizzando a Trieste nel 1985 un memorabile convegno, insieme con Andrea Schiaffino e Marzio Barbagli.

Perché tanta attenzione per la Fagagna del Settecento? Perché lì era possibile incontrare le radici di un Friuli tutt’altro che «sonnacchioso», che si sarebbe trasformato e si sarebbe aperto alla modernità; una trasformazione radicata sulla concretezza della sperimentazione, dentro un conflitto sociale e culturale aspro che impedì allora la piena realizzazione delle idee innovative, rimandando il rinnovamento del Friuli di quasi un secolo (e con la Fagagna del secondo Ottocento ancora in prima fila).

Negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, nell’ambito della storiografia europea – ecco dove s’incastra la ricerca di Luciana Morassi – si discuteva molto sulla congruità dell’opposizione discriminante fra società preindustriale e società

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industriale. Etichette? La ricerca si spostava coerentemente sul terreno di mezzo: sui processi e sui meccanismi di transizione da una all’altra delle strutture economiche, tecniche, sociali, culturali complesse che stavano alle spalle di quelle etichette. Gli archivi – archivi di aziende e di imprese, soprattutto, sparsi in contesti molto diversi dell’Europa settecentesca – restituivano con sempre maggiore chiarezza i meccanismi di funzionamento di quello che fu prima etichettato come ‘protoindustralizzazione’ e si trovò definito come Verlagssystem e Kaufsystem: forme diverse di ‘industria a domicilio’ (prima dell’imporsi del sistema di fabbrica, che conteneva all’interno di edifici specifici l’intero ciclo di lavorazione), basate sull’incastro dell’attività manifatturiera all’interno dell’attività agricola; attività manifatturiera che si organizzava come attività accessoria supplementare al lavoro agricolo, con l’integrazione, nel caso, di manodopera esterna di basso livello (i processi di immigrazione non sono certo un caso limitato alla società contemporanea!).

Ecco l’interesse – come caso-studio esemplare, entro il contesto europeo – della Nuova Olanda, con l’intero suo ciclo (dall’estrazione della torba a rimediare alla carenza di combustibile; altro tema caldo della rivoluzione industriale) alle fornaci di terrecotte e maioliche; ma anche col suo essere parte di un ciclo interno più articolato: con la produzione agricola di pregio destinata alla commercializzazione (il picolit, soprattutto) a incastro nella produzione manifatturiera.

Ma si rileggano bene questi saggi su Fagagna; non in termini statici, ma di sviluppo progressivo dell’analisi e della riflessione. Penso all’attenzione via via marcata per i dati anagrafici, oppure all’attenzione per le situazioni conflittuali che le innovazioni introducevano, ponendo l’azienda Asquini in conflitto con la comunità (strutturalmente contadina) di Fagagna: davvero due mondi, due culture che convivevano e si contrapponevano, fino alle forme più aspre della protesta, al rifiuto dei nuovi e ultimi arrivati, al sabotaggio, ai furti campestri. A dirci di diffidare sempre delle etichette armonistiche e nostalgiche di civiltà o cultura contadina e di cultura popolare; ma anche di una storiografia che immagina e descrive le trasformazioni attraverso medaglioni agiografici di «protagonisti illustri».

Nello stesso orizzonte storiografico rinnovato, attento al terreno di mezzo fra vecchio e nuovo, alla complessità e al conflitto, s’inquadra anche l’interesse di Luciana Morassi e del gruppo di «Metodi e ricerche» per il fronte dell’attività tessile nel Settecento friulano. Ricordo il fastidio comune per un’iniziativa regionale che trasformava in agiografia la rinnovata attenzione per la figura imprenditoriale di Jacopo Linussio; i risultati innovativi della complessa ricerca su questo terreno si leggono nell’ultima sezione della monografia complessiva dedicata nel 1997