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c’è un tempo per

il lavoro

Anno XV n. 2 - dicembre 2007

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Lavorare significa in “soldoni” investire la mia libertà e il mio tempo per conquistare autonomia e diventare capace di assumere responsabilità scelte da me…

Per fare questo mi accorgo che è necessario un primo lavoro, un lavoro che sta al principio: devo prendere in mano me stesso, devo decidere a quale vita voglio dare il mio consenso, per quale opera sono disposto a consumare le mie risorse e le mie energie.

Il mio primo lavoro è quello di discernere quali talenti ho rice-vuto in dono, chi voglio essere, chi posso diventare. Mi rendo conto che il discernimento non può nascere allo specchio, in

modo narcisistico: può avvenire solo nel dialogo con Colui che mi ha voluto e con la storia alla quale appartengo.

Il primo lavoro è dunque la ricerca della mia vocazione, del mio modo di essere relazione viva con il Signore, con gli altri, con tutte le creature.

L’intuizione della mia vocazione mi aiuta a chiarire di quale amore ho bisogno: ed è proprio il bisogno di un amore che mi spinge e mi sostiene nel confronto duro con i fatti della vita lavorativa.

La vita lavorativa concreta è quella che mi fa presentare cento curriculum a cui pochissimi si degnano di rispondere; mi fa sognare che prendano me e invece la spunta un raccomandato; mi fa accettare all’inizio un lavoro lontano da casa per seicen-tocinquanta euro al mese…

Ci vuole un amore che accenda il cuore e all’intelligenza per entrare nel mondo del lavoro, per restarci e non diventare mai un cane che sopravvive sulla pelle di altri cani.

Se accetto di essere chiamato a vivere una storia d’amore in mezzo ai fatti della mia vita, allora riuscirò a vivere tutti i lavori che farò come occasioni per realizzare la mia vocazione, il mio primo lavoro.

V edendo le folle Gesù ne ebbe compassione, perché erano stanche e scoraggiate, come pecore che non hanno un pastore. Allora disse ai discepoli: «La messe da raccogliere

è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone del campo perché mandi operai a raccogliere la sua messe». (Vangelo di Matteo, cap. 9,37)

Buon lavoro!

Quale rapporto c’è tra il mio lavoro e la

mia vocazione?Per amore di chi sto

lavorando?

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il tempo libero

C’è un tempo perIl lavoro

Fra Marcello

È sempre stato il mio dubbio: 5 anni di ele-mentari, 3 anni di medie, 5 anni di superiori (che ormai al giorno d’oggi sono il minimo indispensabile)… e poi?Vieni posto davanti ad una scelta: università o mondo del lavoro?Nel mio caso mi sono sempre detto che dopo le superiori sarei andato sicuramente al lavoro anche perchè avevo la possibilità di lavorare nell’azienda di famiglia e la cosa mi garbava parecchio, e infatti così è stato...Ecco allora che Marco, di 19 anni di Lumezzane, comincia a lavorare il 29 agosto 2005, in un mondo che non c’entra niente con gli studi che ha fatto (infatti ho studiato informatica e lavoro in meccanica), ma ugualmente pieno di voglia di fare!E oggi sono ancora qui, a 21 anni, in questo mondo del lavoro, vedendo tutti i giorni le stesse persone e facendo tutti i giorni le stesse cose.Nonostante questo,t la voglia di fare e di sperimentare non mi manca perchè mi sono reso conto che, se si riesce a tenere viva questa voglia, ogni giorno si percor-re un cammino di crescita personale che non avrà mai fine. Ogni giorno si impara qualcosa di nuovo e si ha la possibilità di mettersi alla prova.È una sfida continua, che permette ad

ognuno di essere utile agli altri, nel suo piccolo... Nel mio caso tutto ciò mi affascina ancora di più: dove lavoro sono il più giovane e le responsabilità di cui vengo sono chiamato a farmi carico mi fanno capire che gente si fida di me. Ogni giorno mi viene proposta la possibilità per maturare: sarebbe stupido lasciarsi scappare una opportunità del genere!Molto affascinante sul posto di lavoro è anche il rapporto con le altre persone che possono avere mentalità completamente diverse dalle tue. Ogni giorno ti trovi di fronte ad uno scambio continuo di idee e di punti di vista, più o meno seri, e anche questo può essere visto come una possibilità di crescita a livello personale,

oltre che per quanto riguarda l’aspetto della conversazione.Nonostante poi io viva la giornata di lavoro chiuso in un capannone, mi piace viaggiare con la fantasia e pensare che, oltre i muri dell’edificio, dopo il suono della sirena, mi aspetti un

mondo che tutti i giorni ha qualcosa da farmi scoprire e che è in continuo cambia-mento.Così facendo, si tiene sempre un occhio puntato verso il futuro, cercando di immaginare cosa ci aspetta domani e cosa possiamo fare noi giorno per giorno perché quel domani possa essere sempre migliore!

Dove lavoro sono il più giovane e le responsabilità di cui vengo sono chiamato a farmi carico mi fanno capire che gente si fida di me.

Passo la giornata di lavoro chiuso in un capannone, ma amo viaggiare con la fantasia e pensare che, oltre i muri dell’edificio, dopo il suono della sirena, ci sia tutto un mondo che mi aspetta con qualcosa da scoprire ogni giorno e che è in continuo cambiamento.

Marco, 21 anni

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…e dopo la scuola?

Bob Jagendorf, the bpp,

realtà, conoscenze. Che fa guadagnare denaro (certo), ma anche dignità, impegno, responsabilità; dimostrazione di cavarsela e di essere capaci.Storie al lavoro diverse, diversi romanzi lavorativi quelli che scrivono ragazze e ragazzi coetanei, a volte anche conterranei. Tracciate tra sopravvivenza e coltivazione di sé. E non di rado passando da una dimensione all’altra. Anche nel giro di pochi anni.È importante che il lavoro sia un luogo di incontro, che abbiano importanza le per-sone, che ci si rifletta su. Che “sorvegliamo” chi stiamo diventando mentre lavoriamo in quel modo, che guardiamo cosa vien fuori di noi, cosa stiamo coltivando delle nostre capacità, dei nostri affetti, dei nostri valori.Bisogna che parliamo del lavoro che fac-ciamo, delle esperienze e dei luoghi del lavoro nostro. Per vedere se c’è rispetto, se c’è attenzione; per capire se è per le

Lavorare è un bisogno, e un desiderio. Lavorare è un bisogno per molti ragazzi e molte ragazze che vivono nella fatica delle famiglie, nella necessità delle condizioni precarie del presente. Un bisogno da sod-disfare per poter aprire un qualsiasi futuro. Ragazzi e ragazze delle nostre regioni della disoccupazione; e di un mondo della povertà lontano-vicino. Lavorare è un bisogno che si fa sogno, che costa viaggi e adattamenti, che obbliga a durezze e, spesso, ad asservimenti. Lavorare allora stanca la vita e prova l’esistenza.Lavorare è un desiderio quando il lavoro c’è, e ci sono capacità coltivate per coglierlo, magari per sceglierlo. E lo si cerca presto, anche mentre si studia, per trovare un poco d’autonomia, e per avere un con-fronto con la vita reale, con gli adulti. Per capire di sé quel che la scuola non fa capire, quel che non riesce a fare sperimentare. Lavorare è un desiderio che si fa incontro,

coltivare e riscattare

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Con il lavoro che si fanno vivere

famiglie e si crescono figli;

attraverso il lavoro si costruisce la giustizia o si appoggia

l’illegalità; nel lavoro si

rispettano gli altri e si serba in dignità se stessi

(la salute, la sicurezza).

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persone o se le persone le usa come cose. Se è luogo di giustizia e cooperazione tra uomini o non lo è. Per capire come si usa l’intelligenza e la capacità: se per cose fatte bene, utili, e per servizi resi con cura alle persone; oppure se solo per vendere, per approfittare, per furbizie piccole o grandi.Che persona sto diventando lavorando così? Cosa coltivo di me? e delle relazioni con gli altri? con quelli a cui voglio bene? Che convivenza sto costruendo con il mio lavoro? Cosa consegno ai più piccoli?Sono domande importanti, da conservare mentre costruiamo le nostre “storie lavora-tive”. Anche nei momenti difficili, quando non possiamo che accettare quel che c’è: per non appiattirci, per guardare avanti e prepararci a qualche novità.È col lavoro che si è giusti o si appoggia l’illegalità, è nel lavoro che si rispettano gli altri e si serba in dignità se stessi (la salute, la sicurezza); è col lavoro che si fan vivere famiglie e si crescono figli. È nel lavoro che si vive il gusto di creare o di essere bravi; o che si vive la dedizione, l’offerta della fatica per avere rispetto, libertà, cura dei cari.Certo oggi il lavoro ti chiede spesso di

lottare con altri per superarli; di obbedire soltanto; di non essere mai un po’ certo del futuro. Il lavoro è anche tensione e freddezza. Può anche portare, in certe situazioni, a un certo disimpegno morale, nella pressione della produttività, del gregarismo, del bisogno. Diventa un luogo di resistenza umana e morale, allora.Un giovane perito agrario calabrese, che lavora con la moglie in una cooperativa che produce frutta e verdura su terreni confiscati alla criminalità organizzata, diceva pochi mesi fa a un gruppo di giovani sindacalisti e aclisti del nord scesi a incontrare i coetanei del sud:

“È più certo il futuro? Forse no: dipende da quanto ci difenderà la comunità nazionale dalle pressioni e dalle minacce che ricevia-mo; e da quanto sapremo essere bravi sul lavoro per stare sul mercato. Farò carriera e diventerò ricco? Certamente no, se carriera e ricchezza sono una “cosa mia”. Ma io e Nunzia avremo una bella storia da raccon-tare ai nostri figli: fatta di fatica – tanta – e di sogni buoni. Il lavoro non può essere solo un ricatto, o la spinta alla fuga! Deve poter essere coltivazione, e riscatto di una terra!” Iv

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Lavorare: un bisogno da soddisfare per aprirsi a un qualsiasi futuro, contro la

disoccupazione e un mondo di povertà mai troppo lontano; un desiderio da cercare per trovare un po’ di autonomia, per “toccare con mano” la vita reale e che si

fa incontro, realtà, conoscenze, che fa

guadagnare denaro, ma

apre alla dignità, all’impegno, alla

responsabilità.

Dio non ha fatto tutte le cose; alcune le dobbiamo fare noi. Buona parte del nostro tempo lo spendiamo per svolgere un lavoro che ci permetta di vivere e di collaborare con gli altri all’edificazione di un mondo migliore. Lavorare è la naturale risposta ad un Creatore che, dando vita all’universo, ha voluto porsi anche un limite: il settimo giorno si è sdraiato su un letto di nuvole e ha chiesto all’uomo di dargli una mano per portare a termine il suo progetto. Leggiamo nella riflessione pastorale sulla chiesa e sul mondo: «Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia esercitano il proprio lavoro in modo tale da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che con il loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia» (GS 1426).

Per quanto non corrisponda sempre ai no-stri desideri o agli studi che abbiamo fatto, il lavoro è una mano che diamo anche a noi stessi. L’uomo ha bisogno di lavorare

perché «è soggetto intelligente, capace di progettare e operare creativamente» e «mentre produce cose utili, sviluppa anche la sua umanità» (CA 1115) e «perfeziona se stesso» (GS 1428). Per questo la società riconosce il lavoro come un bene fon-damentale, a cui ogni uomo ha diritto in quanto persona. Il lavoro però non ci serve solo per sviluppare le nostre capacità, ma anche per diventare fratelli degli altri uomini. Proprio attraverso il lavoro, nel quale l’umanità è chiamata a collaborare e a condividere le risorse del creato, si può costruire gradualmente il bene dell’intera società.

Il tempo del lavoro è buono nella misura in cui edifica noi stessi e la fraternità umana. Purtroppo lungo i secoli l’organiz-zazione sociale dell’economia ha sempre

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SIGLE

CCC: Catechismo della Chiesa CattolicaGS: Gaudium et Spes, Costituzione pastorale

sulla chiesa nel mondo contemporaneoCA: Catechismo degli adulti, La verità vi farà

liberi, CEISRC: Sollicitudus Rei Socialis

una mano a Dio

Come uomini, abbiamo il dovere di onorare il tempo del lavoro con

dignità e serietà; come

cristiani, abbiamo la

responsabilità di trasformare

il tempo del lavoro in

un vangelo vissuto, in

una discreta testimonianza

del regno di Dio in mezzo

agli uomini.

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determinato vere e proprie «strutture di peccato» (SRC 36), di ingiustizia e di sfruttamento, all’interno delle quali l’uomo è stato ridotto a puro strumento di produzione. La nostra attuale economia, con il suo eccezionale sviluppo scientifico e tecnico, non sfugge certamente a questo pericolo, determinando una vera e propria sperequazione della ricchezza (cf GS 1535). È inoltre tipico dei nostri giorni un preoccupante condizionamento al tempo dedicato al lavoro, che diventa sempre più un tempo senza libertà e senza stabilità.

Oggi il tempo lasciato libero dal lavoro è cresciuto notevolmente dal punto di vista quantitativo. Ciò è di per sé molto positivo perché «il tempo libero risponde a un bisogno profondo della persona[…] in quanto espressione di creatività, conviviali-tà e spiritualità» (CA 1118). Purtroppo la logica della produzione e del profitto riesce a invadere anche il tempo libero e soffoca la creatività personale. Così ci scopriamo incapaci di avere un tempo per pregare, per leggere, per coltivare la nostra formazione culturale, per contem-

plare la natura, per stare con gli amici oppure per regalare un po’ dei nostri sor-risi a chi non ne ha. Ci manca il tempo per le cose più belle e preziose, e anche il tempo libero diventa un tempo perduto, di cui andare alla ricerca. Un tempo che ha bisogno di essere ulterior-mente liberato dalle passioni inutili. Forse stiamo sbagliando qualcosa: il Signore ci ha chiesto soltanto una mano, non tutte e due!

Il tempo del lavoro manca poi di stabilità, in modo particolare nel mondo giovanile. Abbiamo definito ‘precariato’ la condizione di chi è costretto a lavorare immerso in una duplice insicurezza: da un lato la mancanza di una continuità nella parte-cipazione al mercato del lavoro, dall’altro la mancanza di un reddito adeguato per poter progettare la propria vita presente e futura. Il fenomeno del precariato non dice soltanto una trasformazione radicale che la nostra società sta vivendo. Segnala anche un pericoloso slittamento dell’uomo verso la periferia del sistema economico. Non è più attorno all’uomo e alle sue esigenze fondamentali che il mondo del lavoro si struttura. Al contrario l’uomo sperimen-ta la sensazione di essere soltanto un ingranaggio provvisorio e sottovalutato, all’interno di una grandiosa macchina che produce una felicità assurda, a cui tutti collaborano, ma che nessuno in fondo riesce a godere!

Il lavoro è un tempo necessario, impor-tante. Come uomini abbiamo il dovere di onorarlo con dignità e serietà. Come

cristiani avvertiamo una supplementare responsabilità: trasformare il tempo del lavoro in un vangelo vissuto, in una discreta testimonianza del regno di Dio in mezzo agli uomini. Nella misura in cui scegliamo di non rinunciare ad alcuni criteri di giu-stizia e di equità, noi diamo una mano a Dio a creare e a salvare il mondo.

Senza fondamentalismi, ma anche senza facili compromessi. Umilmente. fr

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A volte si sente parlare di quanto sia pesante lavorare e di come sia bello il tempo libero: durante la settimana si lavora sperando che arrivi il weekend; durante l’anno si lavora sperando che arrivino le ferie e durante la vita si lavora sperando che arrivi il tempo di andare in pensione… In realtà questo sentimento di fronte al lavoro ha radici antiche. Infatti, nelle culture precristiane il lavoro era una realtà degli schiavi. L’uomo libero non doveva lavorare ma “oziare”, dandosi nei casi più nobili filosofia e alle arti. In corrisponden-za a questo però si vede nel nostro tempo, nell’era industriale e postindustriale, anche tanta gente che “vive per il lavoro”, il quale diviene come un idolo al quale immolare la propria vita. Al lavoro, alla carriera e al successo molto spesso si arriva a sacrifi-care anche gli affetti più importanti. In definitiva, si deve dire che oggi convivono un po’ tutti e due questi atteggiamenti: il lavoro come idolo ed il lavoro come alienazione. Che cosa dice la fede cristiana a questo proposito? Da una parte Gesù Cristo ha innanzitutto santificato il lavoro, in quanto egli stesso ha voluto essere un lavoratore. Inoltre egli ha definito Dio Padre come l’eterno lavoratore: Colui che opera sempre (Gv 5,17). In tal modo è stato posto fine ad ogni concezione del lavoro contro l’uomo. Se l’eterno Padre è colui che opera sem-pre e se il figlio Gesù ha lavorato come carpentiere, allora l’operare da parte dell’uomo assume un valore grandissimo agli occhi di Dio. Ma cosa vuol dire lavorare? Il lavoro si può definire come l’energia che l’uomo investe per la trasformazione positiva della realtà affinché essa diventi sempre più conforme all’ideale. Ad esempio: l’uomo ha il bisogno di nutrirsi. Per rispondere a questo bisogno

lavora per rendere fertile la campagna. L’uomo ha il bisogno di una dimora e con la propria energia creativa costruisce abita-zioni sempre più belle in cui poter vivere come famiglia. Anche Dio stesso, nel suo eterno operare, porta a compimento il suo disegno su tutta la creazione: quello di fare di noi figli di Dio in Cristo. Di conseguenza, possiamo dire che il senso del cristiano del lavoro è quello, attraverso tutte le nostre quotidiane attività, di collaborare al grande disegno di Dio affinché venga il suo regno. Una osservazione finale: se il senso del nostro lavoro è la trasfigurazione di tutte le cose, allora il culmine di questo lavoro co-mune tra Dio e l’uomo (collaborazione) è la liturgia, in particolare l’Eucaristia, in cui la realtà creata viene trasformata dallo Spirito santo nel corpo e sangue di Cristo. In questo senso possiamo dire che il nostro lavoro ci è dato perché tutto il cosmo diventi come un perenne “rendi-mento di grazie”! Per questo motivo, cristianamente parlan-do, non c’è lavoro senza festa! Dall’equilibrio tra il lavoro e la festa, che ha il suo culmine nella domenica, si comprende il grado di civiltà di un popolo. Il giorno del Signore, infatti, relativizza il lavoro a Dio, impedisce la riduzione dell’uomo a schiavo e ci fa vivere tesi verso quel giorno in cui Gesù risorto con il suo amore sarà tutto in tutti.

fra Paolo Martinelli docente di teologia presso l’Università Gregoriana e presso l’Istituto Francescano di Spiritualità di Romafp.martinelli@virgilio.it

tra alienazione e idolatria

Cristianamente

parlando, non c’è

lavoro senza festa!

Dall’equilibrio

tra il lavoro e

la festa, che ha

il suo culmine

nella domenica,

si comprende il

grado di civiltà

di un popolo. Il

giorno del Signore,

infatti, relativizza

il lavoro a

Dio, impedisce

la riduzione

dell’uomo a

schiavo e ci fa

vivere tesi verso

quel giorno in cui

Gesù risorto con

il suo amore sarà

tutto in tutti.

t’importo? portami con te!

Due alternative forti ci presenta Gesù: “Volete essere miei discepoli? Vi va di continuare a seguirmi? Vi canta in cuore quel che canta nel mio? Avete intuito la bellezza, ma anche la durezza dell’im-pegno che vi chiedo? Vi rendete conto che chi vi ascolterà non farà il tifo per voi, ma vi farà la guerra? Avete percepito la forza dello spirito del male che lavora anche all’interno del santuario?” Molta gente lo seguiva. Possibile che abbiano capito bene che cosa spetta loro? Non è che si stanno illudendo che tutto filerà liscio e che la strada della vita sarà d’ora in avanti spedita, in discesa, tranquilla?Allora Gesù dice: se non “odiate” (la parola è forte, ancor più vera perché riportata da Luca, colui che ammorbidisce di più tra gli evangelisti. Non è il rude Marco che sembra faccia apposta per rendere il vangelo cru-do). Luca dice proprio: Se non odiate… Chi? Il padre, la madre, i figli, fratelli e sorelle, la vita. Non è l’odio che riempie purtroppo di cattiveria i nostri rapporti, che ci inietta gli occhi di sangue, ma l’assoluto distacco senza scusanti da ogni idolatria; non ci deve essere niente che occupa il nostro cuore e ne cancella Gesù. La sequela di Gesù non è un pressappoco, non può convivere con tutte le nostre scusanti, aggiustamenti, adattamenti. Non si tratta di adattarsi per sopravvivere, ma di scegliere decisamente per vivere. È una scelta d’amore e come tutte le scelte d’amore deve avere un eccesso di dedizione,

deve contenere la pazzia dell’innamorato, la pazzia dei Santi, come lo fu quella di san Francesco. Si colloca in quella zona della vita dove non c’è il calcolo. Qui l’unica strategia è la totalità, la dedizione assoluta, tagliar-si il ponte alle spalle, buttarsi nell’amore di Dio.Odiare la nostra vita non ha niente della sconfessione della bellezza di essa, non è rinunciare a vivere, ma sposare con tutta la generosità possibile la vita di Gesù. Accetta-re tutta quella raffica di cambiamenti necessari perché la nostra vita assomigli a quella di Gesù. Fatevi miei imita-tori come io lo sono di Cristo, introducete nella vostra vita il criterio del dono senza riserve, non continuate a tornare sui vostri passi, non tenetevi della vie di fuga. L’unica fuga è quella dal peccato, dal torpore, dagli aggiustamenti, dai compromessi; il resto è l’abbraccio forte di Dio.E l’altra alternativa:

“Porta la tua croce”. Il centro della vita di chi segue Cristo non è la sofferenza, la mestizia, la noia, la mortificazione o la rinuncia, non è una esaltazione del dolore per piacere a Dio, ma la croce come somma espressione di un amore deciso a offrire tutto, il segno dell’amore e del dono totale. È la sua strada, difficile, ma decisiva, capace di dare alla nostra vita la grinta necessaria per farne un dono totale. Non ci attira la croce come strumento di suppli-zio, ma quell’amore fino alla fine che si è consumato su quel legno. +

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Molta gente accompagnava Gesù durante il suo viaggio. Egli si rivolse a loro e disse: “Se qualcuno viene con me e non ama me più del padre e della madre, della moglie e dei figli, dei fratelli e delle sorelle, anzi, se non mi ama più di se stesso, non può essere mio discepolo. Chi mi segue senza portare la sua croce non può essere mio discepolo”.(Lc 14,25-27)

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tra alienazione e idolatria

Mantenuto. Stona questo aggettivo accanto all’aureola

del Patrono d’Italia. Ma è così. Per tutta la sua giovinezza, probabilmen-

te senza del tutto rendersene conto, il futuro Poverello d’Assisi vive una vita vizia-ta e spensierata, a cui genitori compiacenti non fanno mancare nulla: feste e banchetti, cavalli e armature, vestiti morbidi e cibo raffinato. Gli danno tutto. Anzi, di più. Dentro il film “Fratello Sole e sorella Luna” di Franco Zeffirelli c’è una scena, a mio parere, straordinaria. Riproduce l’impatto di Francesco con il volto oscuro dell’attività commerciale di suo padre, cioè quel lavoro che gli procura tale tenore di vita. Un Francesco giovane, ben nutrito e vestito di pelliccia, capita più o meno casualmente nel fondaco di famiglia dove decine di ope-rai – uomini e donne, ma perfino vecchi e bambini – stanno filando, cardando lana e tingendo stoffe, in condizioni disumane. Un grande magazzino sotterraneo, malsano e poco illuminato, dove girano urla, pianto di neonati, ordini, ferocia. Appena Francesco viene riconosciuto, c’è un attimo di silenzio; poi un operaio intona una cantilenante benedizione per il padrone e la sua famiglia, una nenia via via da tutti salmodiata, in

modo ritmato e rabbioso, che trasuda disprezzo e non devozione: “Il Signore benedica, andalì e andalù, il padrone e la sua sposa, andalì e andalù…”. E lui, il figlio del padrone, si ritrova a visitare i suoi dipendenti, la loro miseria, il loro sfrutta-mento, accompagnato proprio da quella rabbia cantata, travestita di preghiera.

del lavorare

di Francesco

Gesù ha lavorato per tutta la sua vita;

Francesco ha scelto di vivere secondo il modello del Vangelo. Come il Maestro. Nulla di più.

Finché arriva davanti a un anziano, malato e stanco, che sta tingendo della lana, con le mani contorte dall’artrosi. Il vecchio si spaventa, ma Francesco, ormai in lacrime, lo abbraccia, lo fa sedere per riposare e bacia quelle mani distrutte dalla malattia e dal lavoro, quel lavoro sottopagato e umi-liante che a un viziato e perditempo come lui, procura ogni tipo di ricchezza. Non sarà più lui. Forse è questo l’incontro con il lebbroso che gli cambia la vita. Comincerà, tra l’altro, a lavorare. Diverse occupazioni e

attività.Commerciante. Dopo aver tentato più volte la carriera militare e aver miseramente fallito, il nostro aveva, in verità, cominciato a dedicarsi a qualche cosina. Seguendo le orme paterne, si era rivelato un affarista nato. Viaggiava, com-prava e vendeva. E guadagnava. Tantissimo. Unica pecca: non

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dava valore al denaro… È verso la fine di questo periodo, che si imbatte – nei vicoli bui della non tutta splendida Assisi – in sfruttati e miserabili, malati e mendicanti: prime conseguenze della nuova impren-ditoria commerciale, a cui la sua famiglia appartiene.Muratore. È il primo lavoro, del Francesco che ha rotto con il padre e ha iniziato un cammino di conversione. Le sue mani delicate, che solo il denaro aveva sporcate, cominciano a distruggersi su sassi, pietre e calcina. Un riparatore di chiesette diroccate.

“Va’, Francesco, e ripara la mia casa” gli aveva chiesto il Crocifisso a San Damiano; e lui obbedisce, si inventa muratore, mendica pietre promettendo ricompense, incurante degli insulti di chi lo ritiene pazzo, ingrato, di chi vede in questo muratorello da strapazzo, l’ennesimo colpo di testa del ricco perdigiorno…Infermiere. È l’altro lavoro del nuovo Francesco. Vinta la naturale avversione per i lebbrosi, li abbraccia continuamente mettendosi ogni giorno al loro servizio. “Il Signore mi condusse fra di loro e con essi usai misericordia. E l’amarezza fu mutata in dolcezza di corpo e di anima” (Test 2-3). Qui il lavoro si tinge di contatto umano: piaghe da lavare, bende da cambiare, disperazione da consolare, con dedizione e vicinanza… Contadino. È il lavoro a cui si dedica insieme ai primi frati che il Signore gli ha donato. Aiutavano i contadini e in cambio ricevevano di che vivere. Mai denaro però. Solo un po’ di cibo da condividere con i leb-brosi che continuavano a curare. Doppio lavoro quindi, di giorno nei campi e di sera i malati. “I poveri li avrete sempre con voi…” aveva detto Gesù.Mendicante. Quando non ricevono compenso per il lavoro compiuto, i frati possono ricorrere all’elemosina, la mensa del Signore (Test 26). Un altro lavoro, forse il più umiliante, per l’ex-viveur più invidiato d’Assisi. Ma anche quello che meglio ti apre alla riconoscenza, alla fiducia nella Provvi-denza: “Guardate gli uccelli dei cieli… i gigli dei prati…”.

Lavoravo con le mie mani e voglio lavorare e voglio che i miei frati lavorino: afferma Francesco nel suo Testamento (24). Tenuto conto che questo scritto è un capolavoro di essenzialità (si fatica a essere ridondanti se sorella Morte è vicina) si può dire che il lavoro era diventato per l’ex-mantenuto, l’ex-viziato, l’ex-re delle feste di Assisi, qualche cosa di fondamen-tale. Perché? Certo, non più per sete di guadagno, visto che rifiuta il denaro. Per vergogna, rimpianto, necessità? Un po’ di tutto questo, forse. Ma soprattutto, perché Gesù aveva lavorato per tutta la sua vita e Francesco aveva scelto di vivere secondo il modello del Vangelo. Come il Maestro, dunque. Nulla di più.

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Pittore: Umberto Gambawww.umbertogamba.it

Francesco mantenuto, commerciante, muratore, infermiere, contadino, mendicante… perché?

Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica; questa è stata la ricompensa di tutte le mie fatiche.

(Qoelet 2,10)

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C’è Da FaReC’è da fare, c’è da fare… sembra quasi di poter rivedere con lo sguardo della memoria il caporeparto del povero Chaplin nel film “Tempi moderni” mentre lo esortava ad essere sempre più veloce su quel nastro da catena di montaggio…lavorare, sbrigarsi,

produrre, fare…ma l’essere? Non che le due cose siano disgiunte, anzi, ma forse azzardiamo delle separazioni sempre troppo affrettate e po-co ragionate… ”quello che faccio per vivere è altra cosa da quello che in realtà sono e vorrei fare…ho dei sogni, progetti che non si sposano con il lavoro che sto facendo ma aspetto tempi migliori”… e quali tempi migliori, il paradiso? Si spera che lì di lavoro ce ne sia poco e che tutto il resto sia solo e unicamente piacere.. ma allora perché non farlo diventare già ora un piacere questo “benedetto” lavoro? Ben inteso, il lavoro è fatica, e non solo fatica fisica: è responsabilità, è soddisfazione, è realizzazione, è iniziare per continuare o magari ricominciare tutto da capo, è perseveranza, ingegno, volontà e mille altre cose ancora… cose tutte che però non solo mi impegnano la giornata ma soprattutto riempiono il mio essere, fanno sì che alla fine di una giornata di lavoro possa dire a me stesso: ecco, anche oggi hai messo da parte il tuo gruzzolo di esperienza, hai fatto fruttare le tue capacità, hai meritato fiducia e dimostrato autonomia e responsabilità perché c’è sempre qualcosa da fare dentro di noi.

E c’è di più: è inu-tile parlare e fare finta di guardare senza poi muovere un dito quando invece attorno a noi c’è ancora un mezzo mondo da cambiare…queste capacità che ci siamo trovati per le mani o che a fatica ci siamo costruiti sono lì proprio perché le sappiamo far fruttare, a bene nostro e degli altri, perché insieme riusciamo a fare qualcosa di più grande, qualcosa di importante, perché con il nostro

“benedetto” lavoro possiamo contri-buire con il nostro

verso alla poesia divina della creazione.. c’è da fare, fratelli, c’è da fare un mondo, il Nostro…

C’è da fareTesto e musica: Gatto PanceriGIORGIA,,Come Thelma e Louise 1995

C’è da fare, c’è da fareC’è sempre qualcosa da fareC’è da fare, c’è da fareC’è sempre qualcosa da fare e da rifareC’è da fare, c’è da fareC’è da far da mangiare per un mondo affamatoC’è da fare, c’è da fareC’è sempre qualcosa da fare dentro di noiC’è da fare andare avanti la baraccaAggiustare qualche cosa che si spaccaE quando poi pioveràUn secchio qui e un altro làContro l’umiditàÈ inutile parlare fare finta di guardareC’è da fare, c’è da fareC’è sempre qualcosa da fare e da rifareC’è da fare, c’è da fareC’è da fare un casino anche contro il destinoC’è da fare, da cambiareC’è sempre qualcosa da fare e tu lo saiLa mattina c’è da riordinare il lettoE rimetter molti sogni nel cassettoChe siamo sempre a metàPerché qualcosa non vaCi vuole più volontàArrangiarsi, ingegnarsiLavorare e poi stancarsiPer liberarsi: c’è da fare saiQualcosa di importanteC’è da fareQualcosa di più grandeC’è da rifare...Ci sarebbe da cambiare mezzo mondoDare a tutto un senso molto più profondoCol sole in faccia si saChe gran fatica saràContro l’ariditàÈ inutile parlare, fare finta di guardareC’è da fare, c’è da fareQualche volta sbagliare, dover ricominciareC’è da fare, c’è da fareC’è da fare da mangiare per un mondo affamatoC’è da fare, da rifareC’è sempre qualcosa da fare e tu lo saiC’è da fare qualcosa di importante

C’è da fareÈ inutile parlare, fare fintaDi guardare quando

... c’è da fare saiQualcosa di importanteQualcosa di più grandeQualcosa di importanteQualcosa di più grande

Mi chiamo Debora e sono una Suora Operaia. Che nome strano, vero? Dicono che fa pensare alle api operaie… ma un bel vestitino a ri-ghe gialle e nere non ce l’abbiamo…Don Arcangelo Tadini, che ci ha

“inventate” all’inizio del 1900, ci ha detto: “Siate il buon lievito che fa fermentare tutta la pasta!”, e ci ha mandate nel mondo operaio, per condividere il lavoro e la vita di ogni uomo, e lì, dove l’uomo lavora, imitare Cristo, che “ha lavorato con mani d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo!”. Da qualche mese vivo a Roma, dove ho trovato lavoro per un’impresa di pulizie. Un’occa-sione inattesa, un dono grande, di cui sono riconoscente a Dio, pensando alla difficoltà di trovare un lavoro oggi, a Roma.La giornata inizia molto presto: alle 5,45 sono già per strada, per andare a prendere l’autobus. La città si sta svegliando: non pensavo che così tanta gente fosse già pronta per iniziare il lavoro! È “il popolo delle 6,00 del mattino”, i nostri fratelli lavoratori: autobus pieni di uomini e donne, che forse sono partiti da casa molto prima di me. Sull’autobus le signore (che sono pettegole ovunque) stanno chiac-chierando tra loro, o discutendo di lavoro (naturalmente mai troppo in positivo!). Anch’io mi metto a

“spettegolare” un po’ con Maria: inizio il rosario e prego per tutti i lavoratori che incontro, per i miei

colleghi, per tutte le mie sorelle, per le terre di missione, per i giovani...Penso spesso alla missione, ma mi accorgo che il Signore mi ha dato la grazia di “raggiungere” tanti popoli e di vivere la mis-sione anche qui, in modo un po’ particolare: lavoro con Siril, dello Sri Lanka, che ha una bellis-sima bimba e aspetta il rinnovo il permesso di soggiorno; condivido le fatiche di Helena, rumena, che lavora per aiutare il figlio a pagarsi gli studi; ho conosciuto Varda, del Marocco e fatto amicizia con Elisa,

Daniela, Barbara, Laura... romane “de Roma”! Tante vite, spesso sfruttate, in un lavoro faticoso e umile, condiviso con gente sem-plice... Qui, posso contemplare il volto di Gesù nel volto di tante persone; posso toccare l’umanità, spesso povera e umiliata, della gente con cui lavoro e in essa sfiorare la divinità di Cristo, che ancora oggi si fa uomo per noi… Fare le pulizie è un lavoro pesante, con orari e ritmi faticosi. Non è sempre facile trovare il senso di ciò che faccio: pulire uffici e bagni, alzarsi presto al mattino, spostarsi con la Metro o in autobus... tutti fanno queste stesse cose... DOV’È LA DIFFERENZA?! È la domanda che spesso mi faccio e che mi

aiuta a camminare, tornando continuamente alla Fonte della mia consacrazione e missione... Così mi lascio “scuotere” dal mio Signore, che mi chiede quel “DI PIÙ” che fa la differenza, che è mettere lui al primo posto… Mentre lavoro, penso a Nazaret: al lavoro semplice e casalingo di Maria, alla bottega di Giuseppe, alla fatica di Gesù per imparare il mestiere di falegname… Lì trovo l’amore di Dio che riempie tutte le cose, piccole o grandi, impor-tanti o insignificanti; ritrovo i

piccoli gesti del quotidiano umile e normale, ripetitivo e a volte monotono: lascio che Gesù lo riempia dell’amore di Dio, rendendo nobile e santa ogni cosa; che dia senso

a tutto e trasformi la banalità in eternità, facendo della set-timana di lavoro non solo una parentesi tra una domenica e l’altra, ma un tempo prezioso in cui anch’io posso contribuire a costruire la storia della salvezza. Mi ha detto di non vergognarmi di fare le pulizie, o qualunque altro lavoro umile: ogni mestiere è importante se lo vivo con lui che, prima di noi, si è sporcato le mani nella bottega di Nazaret. Nel lavoro Gesù mi mostra i segni della sua presenza: un sorriso, un gesto di attenzione, la pazienza di chi insegna un mestiere, la precisione e la cura nelle piccole cose, la sorpresa di aver costruito qualcosa con le proprie mani…

operaia a Nazaret Dove il Dio-con-noi riempie tutto di amore

“In qualunque posizione si trovi, l’uomo può, volendolo, diventare

santo!” (don Arcangelo Tadini)

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sr. D

ebor

a

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Ho 23 anni e lavoro come educatrice in una casa di riposo per anziani. Fino a pochi anni fa non credevo che questo sarebbe stato il mio futuro, anzi! Infatti mi ero iscritta alla facoltà di lingue e sognavo di lavorare in una casa editrice. Ma qualcosa non girava per il verso giusto, sentivo che stavo buttando via il mio tempo e le mie energie. Così ho cominciato faticosamente e cercare di capire cosa non andava, a cercare di immaginarmi fra 10 anni… e più ci pensavo meno mi vedevo dietro a una scrivania. Ci ho messo un po’ di tempo, ma poi tutto ha cominciato a diventare più chiaro: qualcuno mi aveva sussurrato all’orecchio la strada da prendere.Così mi sono iscritta a scienze dell’educa-zione e ora lavoro in una casa di riposo. Mi rendo conto che il mio è un lavoro un po’ strano, che visto dall’esterno può sembrare deprimente e forse senza senso. Molte volte mi sono sentita chiedere:

“Ma che cosa fai fare a quei vecchietti?” o “Perché sprechi la tua intelligenza in questo tipo di lavoro? Non ti avrebbe reso di più diventare medico, avvocato, ingegnere?”. Beh, in termini economici forse sì, ma in termini umani assolutamente no!È vero, non sempre è facile avere a che fare con persone anziane, magari inferme, de-menti, depresse. Si rischia di farsi travolgere dalla loro sofferenza, dalla loro solitudine, e mantenere il giusto distacco è un’impresa da equilibrista. Eppure quando vado al la-voro sono felice, ho voglia di parlare con loro, di ascoltarli, anche se magari già so cosa mi racconteranno. Perché? Non è facile da spiegare. Mi piace pensare che li sto accompagnando negli ultimi anni della loro vita, che sto permettendo loro

di vivere in maniera dignitosa e il più possibile attiva il tempo che resta. Ma mi rendo anche conto che loro mi danno molto di più di quanto io potrò mai offri-re loro! Sono persone che hanno bisogno di tutto, di qualcuno che li vesta, che dia loro da mangiare, che li aiuti a camminare, ma sono soprattutto persone che hanno tutto da dare! Mi stanno insegnando il valore del tempo, della pazienza, dell’ascol-to sincero, della determinazione. Mi stanno insegnando che di fronte a situazioni che la nostra mente non può comprendere, può trovare spazio solo la fede, quella semplice e piena di speranza. Mi stanno insegnando che per quanto ci affatichiamo ad accumu-lare ricchezze e potere, alla fine contano davvero solo i legami che siamo riusciti a curare nel tempo.Lavorare con le persone mi ha permesso di mettermi in gioco, di scoprire i miei punti di forza e i miei limiti. E soprattutto mi ha permesso di comprendere che solo aprendomi all’altro, magari malato, fragile e diverso, posso crescere e impegnarmi per cambiare almeno un po’ certe situazioni.

Mi stanno insegnando il

valore del tempo, della pazienza,

dell’ascolto sincero, della

determinazione

Mi stanno insegnando che di fronte a situazioni

che la nostra mente non può

comprendere, può trovare spazio

solo la fede, quella semplice e piena di speranza

Mi stanno insegnando che

per quanto ci affatichiamo

ad accumulare ricchezze e potere,

alla fine contano davvero solo i

legami che siamo riusciti a curare

nel tempo

un lavoro fuori di testa?un lavoro fuori di testa?un lavoro fuori di testa?

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elisa

betta

, 23a

nni

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“L’Italia è una Repubblica demo-cratica, fondata sul lavoro”

– così la Costituzione Italiana. Così invece Carmelo Bene:

“…fondata sul lavoro: ogni volta che lo leggo pren-derei la Costituzione e la getterei dalla finestra”. Una provocazione, certo. Una provocazione che fonda le sue radici nella filosofia più alta ma che, qualche nuvola più in basso, rappresenta anche l’atteggiamento di molti giovani d’oggi. Secondo la carta costituzionale il lavoro – ancor prima che un diritto – co-stituisce il dovere attraverso il quale ciascun cittadino partecipa alla costruzione della società. Non sempre è stato così, però. Prima dell’avvento al potere dei pensieri borghesi o socialisti ad esempio, lavorare era considerato degradante. Il nobile non lavorava. Lavoravano soltanto le classi meno abbienti. Poi, come accennato, le trasformazioni storiche hanno condotto le società a una concezione “comu-nitaria” del lavoro. In epoca contemporanea, l’epoca del collasso dei pensieri collettivistici, si è infine passati a un’idea individualistica della dimensione lavorativa. I giovani italiani oggi non percepiscono più il lavoro come un mezzo per costruire la comunità ma come un mezzo di realizzazio-ne individuale, diretta o indiretta. C’è chi, nel lavoro, ricerca un luogo in cui esprimere le pro-prie inclinazioni e personalità, in cui sublimare le proprie aspirazioni e bisogni, e chi invece concepisce il lavoro esclusivamente come fonte di danaro per soddisfare bisogni che si stagliano al di fuori dell’ambiente lavorativo. La dimensione sociale si è persa. Spesso persino in ambiti come la cooperazione e il volontariato. Le cooperative del nuovo millennio dovendo scegliere tra un idealista e un professionista, assumono quest’ultimo. Perché il mercato ha le sue leggi. Se poi il professionista è anche idealista tanto meglio. Ogni tanto a me e ad altri appartenenti del

gruppo dei Giovani delle Acli di Bergamo, viene domandato

se riusciamo a trasmigrare nel mondo del lavoro gli ideali peculiari della nostra associazione di lavoratori. La risposta, realisticamente, è no. A parte, forse, un

atteggiamento che non rincorre la logica del “cane

mangia cane” (per fare carriera sulla pelle dei colleghi) che anima

la quasi totalità degli ambienti lavorativi – talvolta anche associazionistici. Ma gli aclisti, quando lavorano, sono soggetti come tutti alle impietose leggi di mercato nel senso che le subiscono. Sono soggetti a quella che Gilles Deleuze, filosofo francese, definiva “la macchina”. E alla macchina non si sfugge.

“On n’échappe pas”. Che fare, allora? Smettere di sognare? Di battersi nella speranza che le cose cambino? In “Se questo è un uomo”, Primo Levi si trova una mattina nella latrina dei campi di con-centramento. Dovrebbe effettuare, come da regolamento, le operazioni di pulizia personale. Ma si rifiuta: che senso ha lavarsi, senza sapone, al freddo, in un contesto come Auschwitz? Perché il suo compagno di prigionia Steinlauf è tanto sollecito a cospargersi di acqua e a stro-finarsi collo e spalle? In uno scambio di vedute, Steinlauf gli ricorda che non bisogna lavarsi per il regolamento, che se anche “il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare (…) che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa (…) ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con vigore perché è l’ultima: quella di negare il nostro consenso”. Per dignità e per quel senso di consapevolezza della propria qualità di uomo. Alla macchina non si sfugge, ma sarebbe un attentato alla dignità umana arrendersi, non tentare, di sfuggirle ugualmente, di rendere manifesto che non ha il nostro consenso, anche se la speranza di riuscirvi è fievole.

si può sfuggire alla macchina?

Fabio

Sarti

rani

elisa

betta

, 23a

nni

alla macchina

non si sfugge.

Ma sarebbe

un attentato

alla dignità

umana

arrendersi,

non tentare

di sfuggirle

ugualmente,

anche se la

speranza di

riuscirvi è

fievole...

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a questo numero hanno collaborato: Ivo Lizzola, fra Marcello, fra Paolo Martinelli, fra Paolo Giavarini, mons. Domenico Sigalini, fra Giorgio Rizzi, Marco, sr. Debora, Elisabetta, Fabio Sartirani.

Finito di stampare il 26 novembre 2007

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