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La vita
Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, nella Sabina
(oggi press’a poco L’Aquila), nell’86 a.C., da famiglia facoltosa
che però non aveva mai dato magistrati allo stato (homo novus,
perciò).
Compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi
cominciarono presto a gravitare verso la politica. Si legò
inizialmente ai populares: tribuno della plebe, condusse una
campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e
Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo subì la vendetta degli
aristocratici: nel 50 venne espulso dal senato per indegnità
morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combatté dalla partedi Cesare, e fu riammesso nel senato dopo la vittoria di quest’ul-
timo: la sua carriera ripartì rapida.
Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare nominò
Sallustio governatore della provincia di Africa nova. Sallustio
dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità; al ritorno dalla
provincia venne colpito da un’accusa di malversazione Per
evitargli la condanna e la nuova espulsione dal senato,
probabilmente Cesare lo consigliò di ritirarsi una volta per tutte
dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che Sallustio si
dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella
sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e ilPincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), facendo si che restasse
incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.
La monografia storica come genere letterario
Sallustio è autore di due monografie storiche. Ad ambedue le
sue monografie antepone proemi di una certa estensione, nei
quali si sforza di giustificare il fatto di essersi ritirato dalla vita
politica, dedicandosi alla composizione di opere storiche.
Sallustio alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga
inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce unsignificato “autonomo”: per Sallustio la storiografia resta infatti
strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore
funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo
politico.
I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio
sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi
che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società.
Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali
che avvelenano la vita politica romana. Ma la cosa più
importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a
configurarsi come indagine sulla crisi. Ciò serve a dare contodell’impianto monografico delle sue due prime opere storiche,
che costituiva una novità quasi totale nella storiografia romana.
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Sallustio
L’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a
delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo
sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il
Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il
delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità finora ignota allo
stato romano; il Bellum Iugurthinum affronta direttamente,
attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito
dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato, e
insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares.
La congiura di Catilina e il timore dei ceti subalterni
Catilina, la cui “congiura” Cicerone console aveva represso
nel 63, aveva intravisto la possibilità di coalizzare una sorta di
“blocco sociale” avverso al regime senatorio: il proletariato
urbano, i ceti poveri di alcune zone dell’Italia, i membri
indebitati dell’aristocrazia, forse masse più o meno ampie dischiavi.
Dopo il proemio (1-4), Sallustio muove dal ritratto di
Catilina: la personalità di questo aristocratico corrotto è messa a
fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi
romani, dovuta allo stesso accrescersi della potenza dell’Impero
e al dilagare del lusso e delle ricchezze. Approfittando di questa
degradazione morale, Catilina raggruppa intorno a sé personaggi
che per i motivi più diversi, per sfuggire alla miseria o ai
tribunali, auspicano un cambiamento di regime (5-18). La
nobilitas, che grazie ad alcune indiscrezioni comincia a
subodorare il complotto, sotto l’effetto dei timori da essosuscitati decide di affidare il consolato ad Antonio e ad un homo
novus, Cicerone. Catilina continua i suoi preparativi,
estendendoli a tutta l’Italia. Grazie a un proprio accolito,
Manlio, raduna a Fiesole un esercito composto in larga parte di
disperati e gente piombata nella miseria (18-25). Catilina,
sconfitto nelle elezioni consolari, compie alcuni attentati alla
vita di Cicerone, che vanno a vuoto. Cicerone ottiene dal senato
i pieni poteri per soffocare la ribellione; l’8 novembre del 63
accusa apertamente Catilina in senato ( I catilinaria). Catilina
fugge da Roma, e va a raggiungere Manlio e il suo esercito; il
senato dichiara entrambi nemici pubblici (26-36). A questo punto Sallustio introduce un excursus sui motivi della
degenerazione della vita politica e sulle condizioni che hanno
favorito l’attività di Catilina (37-39). La narrazione riprende con
le varie vicende grazie alle quali Cicerone arriva ad avere in
mano le prove tangibili del complotto. Cicerone fa incarcerare i
complici di Catilina rimasti in città, e il senato si riunisce per
deliberare sulla loro sorte. Dopo che Decimo Giunio Silano si è
pronunciato per la condanna a morte, si contrappongono i
discorsi di Cesare e di Catone il Giovane: il primo chiede una
pena più mite, il secondo ribadisce con vigore la necessità della
condanna a morte (40-52). Dopo averne riportato i discorsi,Sallustio introduce un parallelo tra Cesare e Catone, due
personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli grandi
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uomini del tempo (53-54). I complici di Catilina vengono
giustiziati. Catilina, a capo della sua armata, tenta di rifugiarsi
nella Gallia Transalpina, ma viene intercettato dall’esercito
regolare e costretto al combattimento nei pressi di Pistoia
(gennaio 62). L’armata ribelle viene annientata, e lo stesso
Catilina, dopo avere combattuto valorosamente, trova la morte
nella battaglia (55-61).
Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva del resto
nel pericolo catilinario uno dei sintomi della ben più grave
malattia di cui soffriva la società romana; ad essa lo storico,
interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus, quasi
all’inizio del Bellum Catilinae. Si tratta della cosiddetta
“archeologia”, che, con ispirazione tucididea, traccia una rapida
storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è
individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale -
con la cessazione del metus hostilis, il timore verso i nemici
esterni che in precedenza aveva mantenuto salda e compatta lacollettività cittadina - Sallustio fa incominciare il deterioramento
della moralità romana. In questo processo di degenerazione, il
“democratico” Sallustio attribuisce un ruolo di rilievo alla figura
del dittatore aristocratico Cornelio Silla, al cui esempio si
ispirano gli individui della risma di Catilina: lo storico insiste
infatti sull’orrore delle proscrizioni sillane, in cui Catilina si era
tristemente distinto all’inizio della sua carriera.
Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera, denuncia
la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va
dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e
Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti inlotta, i populares e i fautori del senato: da un lato demagoghi che
con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per
farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro aristocratici
che si fanno velo della dignità del senato, ma combattono in
realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio
vede un legame organico fra la faziosità dei partiti contrapposti e
il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità”
diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente
al riparo da quel pericolo. La condanna del “regime dei partiti” è
in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone
in Cesare; da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non
diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps:
un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi dello stato
ristabilendo l’ordine nella res publica, rinsaldando la concordia
fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un senato
ampliato con uomini nuovi provenienti dalla élite di tutta l’Italia.
La divergenza principale dell’ideale di Sallustio dalla politica
effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la
funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio -
anche qui non troppo diversamente da Cicerone - sarà stato
disgustato dall’“inquinamento” del senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari.
Questa impostazione generale spiega la parziale
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deformazione che nel Bellum Catilinae Sallustio ha compiuto
del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni
contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna
esplicita della sua politica come capo dei populares. Sallustio
stacca il fenomeno catilinario dalla politica sana
dell’opposizione antiaristocratica e indica nella corruzione della
gioventù la causa prima della congiura. Nel riferire la seduta del
senato in cui viene decisa la condanna a morte dei complici di
Catilina, Sallustio fa pronunciare a Cesare un discorso che, per
sconsigliare la condanna a morte, fa largo appello a
considerazioni legalitarie; il discorso “rifatto” da Sallustio non è,
a quanto pare, una sostanziale falsificazione: ma l’insistenza
sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nel
discorso effettivamente tenuto da Cesare in quell’occasione, è
soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi
anni, quale ce la mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico
di Sallustio. La preoccupazione per l’ordine e la legalitàconteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne:
mostrandola operante nel pensiero di Cesare fino dal 63,
Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità
della sua linea politica.
Immediatamente dopo la narrazione della seduta del senato,
Sallustio delinea i ritratti di Catone e di Cesare, che in
quell’occasione avevano dato pareri opposti. L’idea del
confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la
polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in
Utica. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una
riflessione serena, che approda a una sorta di ideale“conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si
sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia,
misericordia, e dall’altro sulla infaticabile energia che sorregge
la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono invece
quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas,
innocentia, ecc. Differenziando i mores dei due personaggi,
Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo
stato romano, anzi nelle loro virtù individuava virtù
complementari; in particolare, nei principi etico-politici
affermati da Catone, Sallustio - al di là dei dissensi sul ruolo del
ceto nobiliare cui Catone dava voce - riconosceva unfondamento irrinunciabile della res publica.
Indicando in Cesare e in Catone i più grandi romani
dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare
Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione del Bellum
Catilinae, la figura del console che si era trovato a reprimere la
congiura appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i
vanti che lo stesso Cicerone si era largamente prodigato. Il
Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi
grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa
il suo dovere pur non essendo un eroe, superando inquietudini e
debolezze.Attinge invece una sua grandezza, sia pure una grandezza
malefica, il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea
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un ritratto a tinte forti e contrastanti, sottolineandone da un lato
l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni
forma di depravazione. Il ritratto è dominato dall’esigenza
moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, Sallustio lo
giudica. Il moralismo di Sallustio è del resto coerente con il suo
moderatismo politico; indicando le cause del fenomeno
catilinario in una degenerazione morale che investe ormai
numerosi membri della classe dirigente, lo storico può evitare di
spingere lo sguardo più a fondo, fino a vedere in quel fenomeno
una conseguenza logica e necessaria della crisi: ciò, più che ad
una condanna, sarebbe stato quasi equivalente a una
giustificazione del movimento eversivo. Ma dai discorsi che
Catilina pronuncia nella monografia sallustiana affiorano più di
una volta - probabilmente al di là delle stesse intenzioni dello
storico - i motivi profondi della crisi che da tempo travaglia lo
stato romano: da una parte pochi potenti che monopolizzano
cariche politiche e ricchezze, sfruttando i popoli dominati,dall’altra una massa senza potere, coperta di debiti e priva di
vere prospettive future.
Il Bellum Iugurthinum: Sallustio e l’opposizione
antinobiliare
All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che
la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105) fu la prima
occasione in cui “si osò andare contro l’insolenza della nobiltà”.
In effetti, il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a
mettere in luce le responsabilità della classe dirigentearistocratica nella crisi dello stato romano.
Giugurta, dopo essersi impadronito col crimine del regno di
Numidia, aveva corrotto col denaro gli esponenti
dell’aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa, ed era
pertanto riuscito a concludere una pace vantaggiosa. Metello,
inviato in Africa, ottiene successi notevoli, ma non decisivi;
Mario, luogotenente di Metello, dopo lunghe insistenze ottiene
da questi il permesso di recarsi a Roma per presentare la
candidatura al consolato. Eletto console per il 107, riceve
l’incarico di portare a termine la guerra in Africa. Mario
modifica la composizione dell’esercito. La guerra in Africariprende con varie vicende; si conclude solo quando il re di
Mauritania, Bocco, tradisce Giugurta, suo precedente alleato, e
lo consegna ai Romani.
Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore
numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della
degenerazione della vita politica: l’opposizione antinobiliare, cui
Sallustio si riallaccia, rivendicava, contro la nobiltà corrotta, il
merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di
Roma. Come nella precedente monografia, Sallustio introduce al
centro dell’opera un excursus che indica nel “regime dei partiti”
(mos partium et factionum) la causa prima della dilacerazione edella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente
più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel Bellum
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Catilinae. Nella seconda monografia, il bersaglio principale di
Sallustio è la nobiltà, e dall’excursus traspare, per esempio, la
preoccupazione di non condannare la politica dei Gracchi in
maniera globale, bensì solo nei suoi eccessi.
Per certi aspetti, il quadro che emerge dal Bellum
Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la
nobiltà come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto,
Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole
a un impegno attivo nella guerra, l’ala più legata al mondo degli
affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.
Le linee direttive della politica dei populares sono
esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno
Memmio per protestare contro la politica inconcludente del
senato, e successivamente da Mario, quando quest’ultimo
convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue
i discorsi sono rappresentativi dei migliori valori etico-politici
espressi dalla “democrazia” romana nella sua lotta contro lanobiltà. Memmio invita il popolo alla riscossa contro
l’arroganza dei pauci, l’oligarchia dominante; enumera i mali
del regime aristocratico: il tradimento degli interessi della res
publica, la dilapidazione del denaro pubblico, la
monopolizzazione delle ricchezze e delle cariche. Nel discorso
di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito
dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della
virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali di
ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli. Mario si richiama ai
valori antichi che hanno fatto la grandezza di Roma, quei valori
che in un’epoca remota hanno permesso di emergere agli stessicapostipiti delle casate aristocratiche, ormai tralignanti e
caratterizzate solo da inettitudine.
Il discorso di Mario esprime soprattutto le aspirazioni della
élite italica ad una maggiore partecipazione al potere; tuttavia il
giudizio complessivo di Sallustio su Mario rimane segnato da
ambivalenze e sfumature spesso difficili da apprezzare nella loro
reale portata. L’ammirazione per l’uomo che seppe opporsi
all’arroganza nobiliare è in qualche modo limitata dalla
consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si
sarebbe assunte nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei
capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura: Sallustionon sembra approvare il provvedimento - in cui si individuava
comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali
che avrebbero distrutto la repubblica - e pare anzi che egli vede
come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare
quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di
homo novus) esalta nel proprie discorso. Il fondamentale
moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare
importanti riserve sull’uomo che nella lotta antinobiliare non
aveva esitato ad agitare la feccia plebea.
Non si può abbandonare la trattazione del Bellum
Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta: come giànei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria
perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro
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segno di virtus, anche se di una virtus corrotta. Una differenza
importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del
re barbaro è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua
natura non è corrotta fino dall’inizio, ma lo diviene
progressivamente. Il seme della corruzione viene gettato in
Giugurta durante l’assedio di Numanzia, da nobili e homines
novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque
scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione
dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua
indole si è corrotta, è solo un piccolo tiranno perfido, ambizioso
e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza
numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui:
agli occhi di Sallustio le ragioni dell’imperialismo erano tanto
evidenti da apparire indiscutibili.
Le Historiae e la crisi della res publica
La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per
la morte dell’autore: le Historiae iniziavano col 78 a.C.,
riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non sappiamo fino
a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i
frammenti che ci restano non vanno comunque oltre il 67 a.C.).
Dopo gli esperimenti monografici, Sallustio si cimentava ora in
un impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma
annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di
tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per noi perduta,
ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura
d’età augustea.Alcuni dei frammenti che ci restano delle Historiae sono
particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi (per esempio
quello del tribuno Licinio Macro per la restaurazione dei poteri
tribunizi, nel 73; quello di Lepido contro il sistema di governo
dei Sillani; quello di Marcio Filippo, una violenta reazione a
quegli elementi che nel discorso di Lepido più palesemente
miravano alla sobillazione demagogica), e di un paio di lettere,
una di Pompeo e una di Mitridate. Di queste lettere ha
particolare importanza quella che Sallustio immagina scritta da
Mitridate: dalle parole del sovrano orientale che combatté
lungamente contro i Romani, affiorano chiaramente i motividelle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma. Il solo
motivo che i Romani hanno di portare guerra a tutte le altre
nazioni - scrive Mitridate - è la loro inestinguibile sete di
ricchezze e di potere. Possediamo anche parecchi frammenti di
carattere geografico ed etnografico, a conferma di un interesse
già presente nella monografia maggiore.
Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte
cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte
poche nobili eccezioni (fra le quali Sallustio ammira
particolarmente Sertorio, campione della libertas che, ribelle a
Silla e al prepotere degli optimates, aveva fondato in Spagna unanuova repubblica) sulla scena politica si affacciano soprattutto
avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il
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pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera; dopo
l’uccisione di Cesare, e la frustrazione delle aspettative riposte
nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale
schierarsi, né aspetta più alcun salvatore.
Lo stile di Sallustio
L’epoca che aveva visto da un lato il rinnovamento
dell’oratoria e della prosa artistica operato da Cicerone, e
dall’altro il travaglio dei neòteroi per ottenere la più perfetta
elaborazione formale, si aspettava anche la nascita di un nuovo
stile storico. Cicerone, che alcuni auspicavano desse la sua im-
pronta anche alla storiografia, pensava, com’era nei suoi gusti, a
uno stile armonioso e fluido: più esattamente egli pensava a una
“scrittura” storiografica che fosse un opportuno adattamento del
modello dell’oratoria, quale egli stesso aveva perfezionato, e
concepiva perciò la storia come opus oratorium maxime(un’idea, questa, sostanzialmente ellenistica, basata su canoni
retorici isocratei; d’altronde la cosa appare comprensibile se si
considera che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità
almeno una generazione prima della storiografia).
A condizionare in larga misura - anche se non esclusiva - la
futura evoluzione stilistica della storiografia latina fu invece
Sallustio, che, nutrendosi di Tucidide e di Catone il Censore,
elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della
ricerca ciceroniana di simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e
regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asim-
metrie e variationes di costrutto: il difficile equilibrio, fra questodinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sa
frenarlo dall’altra, produce un effetto di gravitas austera e
maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.
“Pensieri troncati e brusche interruzioni e una concisione che
tocca l’oscurità” (anputatae sententiae et verba ante
exspectatum cadentia et obscura brevitas): così Seneca definiva
lo stile di Sallustio, mentre derideva i goffi eccessi di chi voleva
imitarlo (“In Sallustio - continua Seneca - questi tratti di stile
sono disseminati con parsimonia, nel suo imitatore Arrunzio si
moltiplicano e figurano quasi senza interruzione: Sallustio infatti
trovava queste maniere espressive sulla sua strada, l’altra neandava in cerca”).
Alla gravitas austera di questo stile contribuisce parecchio la
ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta
di parole desuete, segnate dalla dignità dell’antico, ma anche
nella ricerca di una concatenazione delle frasi che è di tipo
paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro
come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare
per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un
altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate
le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso
oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione(asindeti e una più generale omissione di legami sintattici, ellissi
di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso, reso
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essenziale, reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole
quasi ridondanti (con effetto di intensità). L’allitterazione
frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle
parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma innovatore, perché il
suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché
lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di
standardizzazione che stava verificandosi nel linguaggio
letterario.
Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di
austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti
drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare
emozioni e perciò ispirata a uno stile di narrazione vivace e per
così dire “realistico”. Ma la limitazione approda a una
drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno
effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta,
sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre
che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sonoscelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei
casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle
due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica
nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modelli canonici della
successiva storiografia latina.
Le Epistulae e l’ Invectiva
Le opere di Sallustio ottennero un successo immediato e
rilevante: il pubblico romano ebbe la felice sensazione di
possedere ora uno storico capace di soddisfare le aspettative per un genere di letteratura che suscitava interessi culturali assai
vivi. Lo stesso stile di scrittura, personalissimo ed efficace,
provocava ammirazione. Le scuole retoriche non potevano
restare insensibili al desiderio di emulare il suo modo di
scrivere, immaginando per esempio il grande autore di opere
storico-politiche impegnato in situazioni suggestive: o nel
contrasto con Cicerone e con i suoi tanto diversi ideali politico-
culturali, o in esortazioni e consigli rivolti a Cesare vincitore. I
manoscritti di Sallustio ci conservano una Invectiva in
Ciceronem, che anche Quintiliano considerava autentica; ma è
probabile che l’autore sia un retore di età augustea (l’operettavuol sembrare scritta nel 54 a.C.; anche questo, però, fa
difficoltà). Suo evidente pendant sarebbe l’ Invectiva in
Sallustium che si attribuiva a Cicerone (questa sicuramente un
falso confezionato nelle scuole di retorica: vi si accusa Sallustio
di aver sfruttato vergognosamente, a scopo di arricchimento
personale, la nuova provincia di Numidia, di cui Cesare gli
aveva affidato il governo). Ugualmente spurie sono da ritenersi
le Epistulae ad Caesarem senem de republica, trasmesse
anonimamente in un codice che contiene lettere e discorsi tratti
dalle opere storiche di Sallustio. Lo stile è quasi più sallustiano
di quello di Sallustio (l’ineliminabile difetto di ogni falsario, prigioniero del modello che deve fedelmente contraffare, e
molto meno libero di ogni autentico autore): ma oltre che
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risultare eccessivamente arcaizzante, la scrittura pare impropria
alle forme letterarie del discorso oratorio e dell’epistola.
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